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Giacomo Leopardi in sintesi

L'ADOLESCENZA E LE PRIME PROVE POETICHE


• Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati da una famiglia nobile. Il giovane
Giacomo trascorre un'adolescenza appartata e trova rifugio nella biblioteca paterna, dove
trascorre «sette anni di studio matto e disperatissimo», che però compromettono la sua
salute fisica e psichica.
• Intorno al 1816, Leopardi inizia a leggere i grandi poeti classici, cui si aggiungono anche
testi più moderni. In questo periodo, interviene nel dibattito culturale che contrappone
classicisti e romantici e si schiera a fianco dei classicisti.
• Tra il 1819 e il 1823 nascono i primi idilli (L'infinito, La sera del dì di festa).

«POETICA DEL VAGO E DELL'INDEFINITO» E «PESSIMISMO COSMICO»


• Leopardi tiene un diario privato, lo Zibaldone, in cui raccoglie una serie di riflessioni
intorno a quella che definisce «poetica del vago e dell'indefinito», legata alle
conseguenze della «teoria del piacere» (secondo cui l'uomo aspira a un piacere assoluto e
illimitato nello spazio e nel tempo).
• Nel 1823, il poeta è ormai convinto che il proprio senso di malessere esistenziale dipenda
da una condizione universale e ineliminabile, che appartiene a ogni uomo e a ogni tempo
(«pessimismo cosmico»).
• A partire dal gennaio 1824, prende forma il progetto delle Operette morali, una raccolta
di 24 prose filosofiche, su diversi temi: l'infelicità del genere umano, la vanità del
piacere, e la serrata critica all'antropocentrismo e alle concezioni ottimistiche degli
ambienti cattolici dell'epoca.

LONTANO DA RECANATI: I CANTI


• Tra il 1825 e il 1827 Leopardi vive tra Milano, Bologna, Firenze e Pisa, dove torna alla
poesia: nascono così Il risorgimento e A Silvia, con cui si apre la stagione dei canti
pisano-recanatesi (i cosiddetti «grandi idilli»), che assieme alle canzoni, agli idilli, al «ciclo
di Aspasia» e alle ultime liriche formano i Canti.
• Nel 1830 il poeta si stabilisce a Firenze, dove si innamora di Fanny Targioni Tozzetti. A
lei e alla delusione provocata da questo amore non ricambiato si ispirano le liriche del
cosiddetto «ciclo di Aspasia», tra cui Amore e morte e A se stesso.

A NAPOLI
• A Firenze Leopardi stringe amicizia con Antonio Ranieri, insieme al quale nel 1833 si
trasferisce a Napoli, sperando che il clima mite possa giovare alla sua salute.
• Nel 1836, concepisce La ginestra, che può essere considerato il suo testamento poetico,
in cui il pessimismo ormai distaccato e ironico del poeta sembra aprirsi all'ideale della
solidarietà tra esseri umani. Leopardi muore il 14 giugno 1837
LO ZIBALDONE

Leopardi oltre ad opere propriamente letterarie scrisse testi, pubblici e privati, in cui
espone i principi della sua poetica e della sua visione del mondo e dell'uomo.
Queste opere permettono di ricostruire l'evoluzione del suo pensiero e della sua arte, nel
suo sviluppo diacronico e anche nelle sue apparenti contraddizioni.

Lo Zibaldone è un'opera essenziale per comprendere la vicenda intellettuale di


Leopardi, le sue letture, la parabola del suo pensiero e la genesi della sua opera. Rimasto
inedito, il testo viene pubblicata per la prima volta tra il 1898 e il 1900.
Il termine «zibaldone», indica un insieme disorganico di appunti eterogenei; l'opera, non
compatta e conclusa ma aperta e dinamica, riunisce infatti annotazioni di varia natura
dalla metafisica alla logica, dalla linguistica all'estetica, dalla poetica all'antropologia, redatte
dall'autore lungo tutto l'arco della sua vita.
Nei primi anni Leopardi vi registra soprattutto considerazioni e analisi di argomento letterario
ed estetico; poi però, affida quotidianamente alle pagine del suo diario riflessioni
esistenziali, progetti e approfondimenti intellettuali e culturali.
L'opera non era destinata alla pubblicazione.
L'importanza che Leopardi attribuiva a queste carte è dimostrata dal lavoro di
sistematizzazione creando un repertorio articolato secondo raggruppamenti tematici e
connessioni interne.
In questo modo si evidenzia tutta la consistenza filosofica e intellettuale dello Zibaldone
che, dietro un'apparenza caotica e frammentaria, presenta una struttura resa forte e
compatta dalle presenza di tematiche ricorrenti.
OPERETTE MORALI

Operette → perché hanno un tono satirico ed ironico


Morali → perché sono di argomento filosofico

La genesi e le vicende editoriali


Le Operette morali, la principale opero in prosa di Leopardi, comprendono 24 testi di
argomento filosofico in forma di dialogo o di narrazione.
La stesura del nucleo centrale delle Operette avviene nel corso del 1824, periodo in cui
Leopardi matura il passaggio al cosiddetto «pessimismo cosmico» e sceglie di affidare
alla forma più distaccata della prosa le proprie conclusioni filosofiche.

La finalità morale
L'opera si propone lo scopo di mostrare agli uomini il «triste vero» della loro
condizione di inevitabile sofferenza, polemizzando nei confronti delle ottimistiche illusioni
proposte dalle teorie religiose e spiritualistiche dell'epoca.

La varietà delle forme


Sebbene l'intento delle Operette morali sia profondamente unitario, l'opera è caratterizzata
da un' estrema varietà di toni. Operette in forma narrativa si alternano a dialoghi, brevi
trattati, racconti mitologici e raccolte di detti paradossali.
Protagonisti dei numerosi dialoghi sono talvolta personaggi storici decontestualizzati allo
scopo di acutizzarne il valore emblematico; altri protagonisti sono eroi mitologici, entità
astratte personificate, folletti, gnomi, diavoli e altre creature fantastiche, ma anche
qualche figura quotidiana, per quanto stilizzata.

Lo stile e il ruolo dell'ironia


In tanta eterogeneità di forme e temi, l'unità dell'opera è garantita, oltre che dall'omogenea
visione filosofica, dall'atteggiamento dell'autore, il quale esprime le proprie concezioni
con un tono distaccato e spesso ironico che testimonia la superiore lucidità che gli
deriva dall'abbandono di ogni illusione. Se la ricerca del vero è sempre dolorosa, il tratto
ironico ne aumenta l'efficacia dissacrante e al tempo stesso consola l'angoscia

Le tematiche
Al centro della riflessione affidata alle operette sono i grandi nodi tematici della
meditazione di Leopardi, della sua esplorazione della realtà universale e della
condizione umana, fondata sui presupposti filosofici del sensismo e del
meccanicismo.
Molti testi si collegano alla riflessione sull'infelicità umana e alla «teoria del piacere».
Altre operette insistono invece sulla satira contro l'antropocentrismo e sulla
corrosione dei falsi umanesimi. Una piena formulazione del materialismo leopardiano
trova poi compiuta espressione nel Dialogo della Natura e di un Islandese, espressione
matura del «pessimismo cosmico».
Dialogo della Natura e di un Islandese
→ Operette morali

Composto dal 21 al 30 maggio del 1824, e apparso nell'edizione del 1927, il Dialogo della
Natura e di un Islandese segna l'approdo di Leopardi alla fase del cosiddetto
«pessimismo cosmico», che influenzerà lo sviluppo successivo di tutta la sua produzione
letteraria. Abbandonata ogni speranza di felicità e spinto dal desiderio di ridurre al minimo la
propria sofferenza, un Islandese si allontana dalla società umana e, dopo lunghe
peregrinazioni, nei pressi dell'equatore si imbatte nella Natura, personificata in una
inquietante figura femminile. Dopo aver ascoltato il racconto delle vicissitudini dell'uomo e le
sue accuse appassionate, essa con tono freddo e distaccato risponde, e le sue parole
suonano terribili.
Leopardi e la Natura
Dopo una breve sequenza narrativa che inquadra l'incontro tra l'Islandese e la Natura, la
prima parte dell'operetta è occupata da un lungo monologo dell'Islandese (portavoce delle
teorie di Leopardi e simbolo dell'intero genere umano) che ricorda le tappe della propria
vana ricerca di un'esistenza libera dal dolore e si conclude con una violenta accusa
contro la Natura, ritenuta «nemica scoperta degli uomini» e causa prima dei loro mali.
Nella seconda parte, attraverso un'ampia similitudine l'Islandese sostiene che, dal
momento che la Natura ha dato la vita agli uomini, dovrebbe garantire loro un'esistenza
serena. Ma la Natura afferma la propria indifferenza alle sorti dell'uomo che, come le altre
creature, è parte di «un perpetuo circuito di produzione e distruzione» in cui la
sofferenza è necessaria alla conservazione del mondo.
Le domande finali dell'Islandese sul senso della vita umana restano senza risposta, e
nell'epilogo l'autore ipotizza con enigmatica ironia l'incerta sorte finale del personaggio.

Il materialismo e la Natura matrigna


Il dialogo segna un' importante svolta nell'evoluzione del pensiero leopardiano.
Abbandonata l'idea che l'infelicità umana sia dovuta all'evoluzione storica della civiltà,
Leopardi giunge a un pessimismo assoluto e «cosmico».
La Natura non è più considerata come una madre generosa dispensatrice all'uomo di
possibilità di piacere, bensì come un'entità ostile, come un meccanismo cieco e
indifferente.
La sofferenza degli esseri viventi non nasce dunque da un intento di crudeltà né da un
errore, ma è intrinseca alla vita dell'universo e indispensabile alla sua stessa conservazione
e al suo funzionamento. Svanisce anche ogni ipotesi antropocentrica e ogni pretesa di
considerare l'uomo come fine ultimo del creato, di cui costituisce in realtà solo una parte
trascurabile.

Una vana ricerca di senso


L'Islandese, portatore dell'ideologia leopardiana, appare come una versione metafisica e
dolente del viaggiatore settecentesco; ma il suo peregrinare è l'emblema dello stesso
percorso filosofico leopardiano.
La sofferta requisitoria dell'Islandese si scontra con la freddezza ostile della Natura. Dopo
aver preso atto che «tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere»,
l'Islandese non rinuncia a rivolgere la propria invettiva contro la Natura, a cui si
accompagna nel finale un'estrema domanda, alla ricerca del senso della vita umana («a chi
piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo?»).
Il doppio finale, amaramente ironico, spegne nel silenzio questo profondo interrogativo,
confermando il cieco meccanicismo che domina l'universo: dal corpo dell'islandese, due
leoni sfiniti dalla fame traggono il nutrimento necessario per vivere, mentre l'immagine del
«mausoleo di sabbia» si pone come beffardo monito alla superbia umana. I due finali sono
equivalenti in quanto sottolineano entrambi l'insignificanza dell'uomo, al quale resta solo
la possibilità di levare la propria denuncia contro l'insensata sofferenza che domina
l'universo.
I promessi sposi
La scelta del romanzo
Alla fine del suo decennio poetico Manzoni si volge dunque al romanzo, un genere moderno
e «borghese», poco gradito alla cultura classicista italiana.
Il romanzo appare a Manzoni come il genere letterario più rispondente alle sue esigenze
ideologiche e compositive, il solo capace di soddisfare la poetica del vero. La libertà
strutturale del romanzo, permette di rappresentare con realismo vicende complesse, di
approfondire la psicologia dei personaggi, di accostare pagine narrative a digressioni di tipo
riflessivo e addirittura saggistico, di accogliere la voce del narratore che commenta e
valuta.

All'origine dei Promessi sposi:


Fermo e Lucia Manzoni, concepisce nel 1820 l'idea di scrivere un grande romanzo storico
sullo sfondo del Seicento; lo scrittore sta all'epoca leggendo un'opera di economia di
Melchiorre Gioia.
Si ispira anche ad un caso di monacazione forzata che sarà lo spunto per il personaggio
della monaca di Monza e della conversione di un signorotto violento avvenuta al tempo del
cardinal Federigo Borromeo.
Nella primavera del 1821, Manzoni inizia nella sua villa di Brusuglio la stesura del
romanzo, completato nel settembre del 1823.
Questa prima stesura, oggi indicata come Fermo e Lucia, si articola in quattro tomi divisi
in trentasette capitoli.
Le vicende narrate sono realizzate come ampie sequenze narrative disposte in parallelo
e collegate da raccordi assai distanti tra loro.
I personaggi sono caratterizzati in modo schematico, secondo una contrapposizione tra
bene e male.
Sono presenti ampie digressioni (per esempio le storie della monaca di Monza, e del
cardinale Borromeo).
Si avvertono nel Fermo e Lucia gli inserti di tipo ragionativo e i commenti di argomento
storico, etico, ma anche linguistico e letterario.
Sul piano linguistico Manzoni adotta una lingua sperimentale e decisamente artificiosa
nella quale si mescolano forti componenti letterarie e dialettalismi.

La revisione: la «ventisettana» e la «quarantana»


Il Fermo e Lucia non soddisfa l'autore, che ne avvia una profonda revisione dal punto di
vista sia narrativo sia linguistico. Dalla revisione del manoscritto nasce la cosiddetta
«ventisettana», un'edizione intermedia che viene pubblicata appunto nel 1827.
I principali interventi di modifica rispetto al romanzo precedente sono:
➔ l'eliminazione di alcune digressioni
➔ l'eliminazione delle narrazioni sovrabbondanti
➔ la riduzione degli elementi eccessivamente pittoreschi
➔ il cambiamento nell'ordine dei capitoli e di alcuni episodi
➔ la precisazione di alcuni tratti storici
Egli intraprende il viaggio a Firenze con l'intento dichiarato di «risciacquare in Arno» il
romanzo, rimuove i provincialismi e la scrive in Fiorentino.
Nell'edizione definitiva del 1840-1842, la cosiddetta «quarantana», il romanzo non mostra
un'infinità di aggiustamenti linguistici e stilistici.
Trama e struttura del romanzo
Il romanzo si struttura in trentotto capitoli preceduti dall'Introduzione in cui l'autore
presenta la storia «molto bella», che egli ha ritrovato in un anonimo manoscritto del
Seicento, e decide di trascriverla in un linguaggio moderno e leggibile.

Nella prima parte don Abbondio, curato di un paese nella zona di Lecco, viene minacciato
perché non celebri il matrimonio fra Renzo, un filatore di seta, e Lucia, una contadina, dagli
sgherri (i «bravi») di don Rodrigo, il signorotto locale, che si è incapricciato della ragazza.
Fallito il tentativo di padre Cristoforo, frate cappuccino e confessore di Lucia, di far recedere
don Rodrigo dal suo proposito, i due giovani, insieme alla madre di lei, Agnese, tentano un
matrimonio a sorpresa in casa del curato. Il tentativo fallisce, così come il tentativo di
rapimento di Lucia da parte dei bravi del prepotente signore.
Renzo, Lucia e Agnese, con l'aiuto di padre Cristoforo, fuggono a Monza.
Renzo si reca a Milano, dove dovrebbe trovare aiuto in un convento di francescani; Lucia e
Agnese vengono accolte nel convento monzese di Gertrude, monaca di illustre famiglia e di
grande potere; la storia di costei, della sua monacazione forzata e della sua corruzione da
parte di Egidio, concludono la sequenza.

Nella seconda parte sono narrate le avventure milanesi di Renzo che, coinvolto nei tumulti
popolari per il prezzo del pane, rincarato a causa della carestia, viene arrestato, ma riesce a
fuggire con l'aiuto della folla e trova rifugio in un paese vicino a Bergamo, presso suo cugino
Bortolo, anch'egli lavoratore della seta. Agnese, tornata al paese, apprende che padre
Cristoforo, per le pressioni del conte Attilio, cugino di don Rodrigo, è stato trasferito a Rimini.
Intanto don Rodrigo, scoperto il rifugio di Lucia, chiede aiuto a un potente signore della
zona, l'innominato, che gli promette di rapire la giovane e di consegnargliela.

La storia dell'innominato apre il terzo nucleo narrativo. Con l'intervento di Egidio e la


complicità di Gertrude, Lucia viene rapita e condotta al castello dell'innominato, dove, in
preda all'angoscia, fa voto di castità. L'innominato, già oppresso da una profonda crisi di
coscienza, turbato dalla vista e dalle parole di Lucia, incontra il cardinale Federigo
Borromeo, in visita pastorale nella zona, si converte e libera la ragazza, che per sottrarsi ai
pericoli accetta l'ospitalità di una coppia di milanesi benestanti, don
Ferrante e donna Prassede. Intanto Renzo, su cui pende un mandato di arresto, per
sicurezza si sposta a lavorare in un altro paese del Bergamasco, sotto il falso nome di
Antonio Rivolta.

Nella quarta parte, dopo le notizie sulla carestia e sulla guerra, il racconto prosegue con la
fuga di Agnese, don Abbondio e
Perpetua, che si rifugiano nel castello dell'innominato per evitare le violenze dell'esercito dei
lanzichenecchi e, al ritorno, trovano le loro case devastate.
La lunga digressione sulla peste portata dagli eserciti stranieri precede la ripresa della
narrazione che segue Renzo, guarito dalla peste, mentre torna a Milano per cercarvi Lucia;
la ritrova convalescente nel lazzaretto, dove giace morente anche don Rodrigo e dove padre
Cristoforo, rientrato a Milano, assiste gli appestati, sebbene stremato anch'egli dalla
malattia, di cui morirà poco tempo dopo. Compiutasi la riunificazione dei due giovani e dopo
che il frate ha sciolto Lucia dal suo voto, Renzo, sotto un diluvio purificatore che annuncia la
fine dell'epidemia, precede Lucia al paese per preparare il matrimonio che, caduto ogni
ostacolo, sarà celebrato nel novembre del 1630 dallo stesso don Abbondio.
La famigliola infine si trasferirà nel Bergamasco, dove, in società con il cugino, Renzo
diventerà un piccolo imprenditore tessile e condurrà una vita tranquilla, allietata dalla nascita
di numerosi figliuoli e dal ricordo degli scampati pericoli. Il romanzo si conclude con la
morale di tutta la storia, secondo la quale i «guai» sono inevitabili, ma «la fiducia in Dio li
raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore».

Il romanzo storico e l'interpretazione del Seicento


La ricostruzione storica manzoniana, è rigorosa, anche se lo scrittore sceglie di lasciare
in secondo piano - richiamati attraverso ampie e documentate digressioni - gli eventi della
storia ufficiale per concentrare l'attenzione sui fatti che coinvolgono la vita degli umili.
Manzoni collega comunque le parti di carattere saggistico e le sequenze narrative: le
vicende della carestia, della rivolta popolare, della guerra e della peste non interrompono
così il flusso della storia, ma si intrecciano alle sorti delle masse e dei personaggi,
divenendo parte essenziale del racconto.
Come sfondo storico del suo romanzo Manzoni sceglie il Seicento, epoca in cui si radica la
decadenza dell'Italia moderna, in cui ha origine la sua arretratezza politica ed economica.
Il Seicento, secolo «sudicio e sfarzoso» descritto nel momento in cui la Lombardia è
occupata dagli spagnoli e a Milano infuria la peste, è il simbolo dell'assolutismo che la
borghesia liberale dell'Ottocento si propone di abbattere.
Il modello di società ideale di Manzoni è una società dotata di di leggi eque, di
un'aristocrazia generosa con i poveri, di classi popolari che cristianamente accettino la loro
condizione senza ricorrere alla violenza per far valere i propri diritti.

Tecniche narrative
Dal punto di vista delle tecniche narrative, Manzoni crea in questo modo due narratori: il
primo (che potremmo chiamare narratore seicentesco) coincide con l'Anonimo, il
secondo (narratore ottocentesco) si avvicina all'autore.

Individualità e coralità dei personaggi


Nei Promessi sposi, Manzoni crea personaggi complessi, ricchi di contrasti, dotati di
una psicologia individuale, di un legame organico con il loro ambiente e con la storia del
tempo, capaci di reagire e modificarsi a contatto con gli eventi esterni.
Manzoni mostra la società in tutti i suoi strati (i nobili, i borghesi, i popolani), il potere in tutte
le sue declinazioni (civile, ecclesiastico, culturale, militare, criminale) e così via.

Temi e valori: il pessimismo e la grazia


Nei Promessi sposi, Manzoni conferma il pessimismo che ispira le tragedie: l'ingiustizia, la
violenza, il male sono prodotti dall'imperfezione della natura umana, irresistibilmente sedotta
da valori negativi e incapace di redimersi se non per mezzo della grazia divina.
Nella storia non esiste alcun disegno pacificatore che elimini o neutralizzi il male: il divino
non può essere compreso a partire dal mondo, la provvidenza non è un dispositivo nascosto
che regolarmente interviene nel processo storico raddrizzandone le storture, come pensa il
limitato don Abbondio.

L'umiltà e l'ironia come elementi di connessione


Le vicende narrate nel romanzo mettono in luce soprattutto l'azione devastante dello «spirito
del mondo», cioè dell'attaccamento ai beni materiali, e celebrano di contro l'umiltà, la più
alta virtù cristiana, che consente di riconoscere i limiti dell'azione umana e di lasciarsi
guidare dalla volontà di Dio.
Nel Fermo e Lucia ciò avveniva attraverso un tono moralista e aspro che nei Promessi sposi
cambia in modo radicale. Il mutamento di tono è garantito da una sorta di umiltà interna del
discorso narrativo, che tende a sdrammatizzare i giudizi, ad attenuare i contrasti, a far
riflettere con pacatezza e a insinuare il dubbio nelle valutazioni troppo nette, che interagisce
con l'inflessibilità morale del narratore onnisciente.
Il compito dello scrittore è allora quello di raffigurare nell'opera letteraria la negatività del
mondo, rovesciandone i falsi miti e richiamando gli uomini a un'autentica prospettiva
spirituale, che non esclude la consapevolezza della complessità del reale.
La visione del narratore è più complessa e problematica: la provvidenza divina agisce
sempre (sia quando ristabilisce l'ordine sia quando sembra abbandonare al caos le creature)
in modi e per vie che la ragione umana non può comprendere.
IL CICLO DEI VINTI

Il Ciclo dei Vinti di Giovanni Verga comprende una serie di romanzi in cui lo scrittore siciliano
si proponeva di dimostrare che la vita è dramma e sofferenza per tutti, senza distinzione di
grado sociale o di benessere economico. Il ciclo, intitolato I vinti, però, non fu mai portato a
termine.
Il nome del ciclo immaginato da Verga all’inizio è Marea: il titolo alludeva all’«onda
immensa» del progresso che travolge tutti i ceti sociali, da quelli più umili a quelli più elevati.

Il ciclo, presentato nella Prefazione ai Malavoglia, secondo il progetto iniziale, doveva


raccogliere cinque romanzi. Questi cinque romanzi avrebbero dovuto studiare i vinti nella
lotta per il progresso in cinque fasi diverse.
Per Verga, infatti, il progresso è una irrimediabile fonte di sofferenza per tutti gli individui, per
i quali non esiste riscatto sociale o felicità dal loro ambiente di nascita.

Il primo, I Malavoglia (1881), narra la storia di un’umile famiglia di pescatori siciliani, ridotta
in rovina in seguito al naufragio di una barca (la “Provvidenza”) carica di lupini, nella quale il
capofamiglia, padron ‘Ntoni, ha investito tutto il suo denaro.

Il secondo, Mastro don Gesualdo (1889), analizza l’esistenza di un manovale, che riesce a
migliorare le proprie condizioni economiche ma non quelle sociali e si trova infine privato
degli affetti familiari e muore in solitudine.

Il terzo, La Duchessa di Leyra, avrebbe dovuto narrare di una nobildonna; il quarto,


L’onorevole Scipioni, di un importante uomo politico, sconfitto nelle ambizioni politiche tese
alla conquista del potere; il quinto, L’uomo di lusso, di un’esponente dell’alta società.

I vinti e la fiumana del progresso


Tutti i personaggi sono stravolti dall’ambizione e avidi di guadagno al punto di cambiare le
proprie radici sociali, ma terminano tristemente la propria esistenza “vinti” dalla vita, che
avevano cercato di migliorare mossi dall’ambizione o dall’avidità.
Secondo Verga, infatti, chi cerca di allontanarsi dal proprio ambiente, per arricchirsi o
accumulare potere, è fatalmente destinato a essere sconfitto, perdendo i propri valori e la
propria dignità umana.
È questo il prezzo altissimo da pagare al progresso, paragonato alla “fiumana”, cioè a un
fiume in piena, di cui, soprattutto i poveri, non riescono, proprio per la loro condizione di
miseria, a sostenere l’impetuosità.
La famiglia Toscano e la partenza di 'Noni (I Malavoglia, cap. I)

Dopo la presentazione dei vari membri della famiglia Malavoglia, il romanzo ha inizio con la
partenza del giovane 'Ntoni per il servizio militare. Questo evento dà avvio alla narrazione, in
quanto rappresenta simbolicamente l'inizio della disgregazione del nucleo familiare dei
Malavoglia.
Fedele al principio della regressione, Verga immerge fin dall'inizio il lettore all'interno
dell'ambiente rappresentato, senza alcun tipo di mediazione. La voce di un narratore
popolare anonimo - che rispecchia nella mentalità e nelle scelte espressive gli abitanti di Aci
Trezza - presenta i protagonisti del romanzo così come sono noti da sempre alla gente del
paese: una famiglia unita, modesta ma laboriosa, guidata da padron 'Ntoni.
Intorno a loro si muove il 'coro' del paese, con i suoi personaggi per lo più gretti e ostili.

I Malavoglia «come le dita della mano»...


Nel primo capitolo Verga presenta la famiglia Malavoglia, riservando a ciascun componente
un piccolo ritratto, sempre costruito attraverso modi di dire e appellativi tipici del parlato
popolare siciliano. La scelta di introdurre la vicenda in medias res (cioè nel mezzo della
vicenda, senza nessun tipo di preliminari) risponde al principio verista dell'impersonalità:
se l'autore si soffermasse a presentare i luoghi dell'azione e i personaggi descrivendone la
personalità e le caratteristiche fisiche e sociali, introdurrebbe infatti la sua soggettività nella
vicenda narrata.

Narratore popolare e «regressione»


Lo stesso Verga, in una lettera a Luigi Capuana del febbraio 1881, spiega i motivi della
scelta dell'impersonalità: «La confusione che dovevano produrvi in mente alle prime pagine
tutti i personaggi messi in faccia senza nessuna presentazione, come li aveste conosciuti
sempre, e foste nato e vissuto in mezzo a loro doveva scomparire mano a mano col
progredire nella lettura, a misura che essi vi tornavano davanti, e vi si affermavano con
nuove azioni ma senza messa in scena, semplicemente, naturalmente, era artificio voluto e
cercato anch'esso, per evitare, perdonami il bisticcio, ogni artificio letterario, per darvi
l'illusione completa della realtà». Per ottenere questo risultato Verga applica la regressione
e affida la narrazione al narratore popolare, il quale utilizza le scelte stilistiche ed
espressive che ci aspetteremmo da un qualsiasi abitante del paese, dando così vita a un
vero e proprio «coro» di voci.
Andrea Sperelli
Il piacere 1, 2 - Gabriele D’Annunzio

Dopo l'inizio del romanzo, in cui Andrea Sperelli rievoca la relazione con Elena Muti e il
successivo distacco, il secondo capitolo presenta il protagonista e descrive la sua
educazione. Andrea Sperelli incarna la figura dell'esteta decadente, «tutto impregnato di
arte» e dedito al culto della bellezza, libero da ogni preoccupazione di natura morale.
L'educazione di un dandy
Il brano descrive sommariamente l'educazione di Andrea Sperelli, protagonista del
romanzo. Unico erede di una prestigiosa famiglia, Sperelli viene presentato come
«campione» di una dinastia di artisti e letterati lla «razza intellettuale»).
Nello sviluppo della sua personalità, fondamentale è il ruolo del padre, che lo porta con sé
sa famiglia, Sperelli viene presentato in giro per l'Europa e fa in modo che la sua formazione
sia il risultato di nozioni teoriche ed esperienze pratiche.
Grazie a una eccezionale sensibilità e a una grande curiosità intellettuale, il ragazzo si
mostra aperto a tutte le forme di conoscenza, ma il cinismo del padre trascura volutamente
le implicazioni etiche legate alla sua crescita.
Libero da preoccupazioni morali, Andrea si abitua così a una vita di menzogne che, nel
prosieguo del romanzo, lo porterà al fallimento.

La vita come opera d'arte


Nella presentazione della personalità di Andrea Sperelli l'autore insiste in modo particolare
sul suo rapporto con l'arte: è «tutto impregnato di arte» ed eredita dal padre la passione
per l'arte e per la bellezza. È ancora una massima paterna a riassumere l'ideologia
estetizzante del romanzo (e, più in generale, di tutto l'estetismo dannunziano): «Bisogna
fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte». Con queste parole si afferma con decisione
l'eccezionalità dell'esperienza estetica, fondata sul culto della bellezza e superiore
all'esistenza delle persone comuni (il «grigio diluvio democratico» con cui si apre il brano) e,
naturalmente, libera da ogni implicazione etica e morale.

Due personalità a confronto


Pur senza farle agire direttamente, il brano mette a confronto la personalità aperta e curiosa
di Andrea e quella cinica e disincantata del padre. I suoi insegnamenti plasmano il figlio,
rendendolo privo di una volontà propria, come sembra indicare il riferimento esplicito al
contrasto tra le «massime volontarie» e la «natura involontaria». Il personaggio di
Andrea sembra dunque condannato fin dalla giovinezza all'esistenza che vivrà da adulto:
diversamente da Des Esseintes o Dorian Gray, che scelgono consapevolmente la loro
condotta eccentrica e amorale, Andrea Sperelli sembra non avere alcuna possibilità di
scelta.

Il valore della libertà


Al primo posto nella scala di valori che il padre trasmette ad Andrea c'è il totale godimento
della libertà, valore supremo al quale deve conformarsi l'esistenza, espresso attraverso la
massima latina Habere, non haberi. Eppure, nonostante questa ostentata dichiarazione,
l'uomo instilla nel figlio una serie di valori che lo rendono 'schia-vo' delle sue perverse
abitudini e gli impediscono per sempre di poter riprendere il controllo della sua vita.

La preziosità stilistica
La raffinatezza del protagonista trova un preciso corrispettivo nella preziosità dello stile,
elevato e letterario nella sintassi e nel lessico. Come in tutta la prosa dannunziana, è
frequente il ricorso a termini rari e ricercati, che spesso utilizzano i significati etimologici
delle parole per conferire al testo una patina arcaizzante.
l'attesa dell'amante
La pioggia nel pineto
Alcyone

La lirica, una delle più famose dell'intera produzione dannunziana, fu composta


probabilmente nell'estate del 1902. Le prime impressioni, poi trasposte nel testo, sono
annotate da D'Annunzio nei Taccuini: «La Pineta è selvaggia, tutta chiusa da cespugli fitti, da
mirti, da tamerici. Qua e là ginestre fiorite risplendono con i loro gialli fiori. La pioggia
discende su la verdura con un crepitio che varia secondo la densità del fogliame. .. Le
cicale, che cantavano ancora sotto il cielo cinerino, a poco a poco ammutoliscono. Il loro
canto si fa sordo sotto la pioggia, poi si allenta; poi si spegne. [...] E su tutta la foresta si
spande il suono della pioggia tiepida, un suono infinitamente dolce e persuasivo».
Il componimento si basa su un esile spunto narrativo. Il poeta e la donna che l'accompagna,
Ermione (figura dietro la quale si cela Eleonora Duse), stanno passeggiando in una pineta in
riva al mare quando vengono sorpresi dallo scoppio di un temporale estivo. I due si inoltrano
nel folto del bosco e, in una sorta di magica metamorfosi, si trasformano essi stessi in
elementi vegetali, parte della natura che li circonda.
Metrica Quattro «strofe lunghe» di trentadue versi ciascuna, variamente rimati e
assonanzati, di lunghezza variabile fra tre e nove sillabe, con una prevalenza del senario.

Una fusione con la natura


Anche in questa poesia ritroviamo il doppio movimento di umanizzazione e
naturalizzazione già visto nella Sera fiesolana.
Da un lato, infatti, la pioggia non produce rumori, ma fin dal primo momento parole, poi
pianto e musica; parallelamente, Ermione e il poeta divengono sempre più simili alla
natura che li circonda. In loro si realizza una sorta di metamorfosi che progressivamente li
rende uguali alle piante: a cominciare dai volti «silvani» e dai pensieri che si «schiudono»
come fiori, per passare alle chiome di Ermione profumate come ginestre, fino a quando tutta
la figura femminile viene ricostruita attraverso una serie di comparazioni vegetali, mentre la
pineta abbraccia e lega i protagonisti, nello stesso modo in cui essi stessi si stringono e si
tengono per mano.

La trasfigurazione mitica della realtà


Più che in altre poesie di Alcyone, nella Pioggia nel pineto lo spunto narrativo (un
acquazzone estivo durante una passeggiata a due in una pineta della Versilia) viene
trasfigurato in una dimensione mitica, in cui sono assenti le determinazioni spaziali e
temporali.
Anche il consueto descrittivismo dannunziano viene completamente assorbito nell'intensità
della fusione panica, che si compie attraverso una vera e propria metamorfosi:
addentrandosi sempre di più nella pineta, il poeta e la donna, in una sorta di climax, si
trasformano in creature «silvane», fino a divenire un tutt'uno con la vita vegetale che li
circonda. La forza della trasformazione è ribadita dal carattere purificatore della pioggia,
che quasi lava i protagonisti dalle ultime scorie di civiltà e di storia.
In questa poesia non c'è però soltanto il tema dell'estasi panica. Come ha scritto Gianfranco
Contini, La pioggia nel pineto è anche una specie di «"danza" o "fuga" vigilantissima sul
motivo dell'amore-illusione, dell'amore-gioco»: basti pensare all'elegante e sottile variazione
sulla «favola bella», che dà a questo componimento una struttura circolare, sottolineando il
carattere sempre cangiante e mutevole della vita e dell'amore, riflessi nell'arte come in un
libero gioco.
Una meta-poesia
La fusione è resa poi possibile dalla capacità di D'Annunzio di trasporre nella musicalità dei
suoi versi la voce della natura, in una ricchissima partitura fonico-timbrica: il gioco di
rime, quasi rime, rime interne, assonanze, consonanze e allitterazioni, i fonosimbolismi, e in
genere i richiami di suono e di significato, le variazioni di motivi simili raggiungono qui il
massimo di concentrazione e di intensità, tanto che diventa pressoché impossibile registrare
in maniera esaustiva i diversi procedimenti messi in atto dal poeta.
La parola poetica non solo imita la pioggia, ma la ricrea, con effetti di grande
suggestione sonora. In questa specie di gara tra il poeta e la natura, D'Annunzio finisce per
cantare contemporaneamente l'evento naturale e la propria stessa poesia, che, nel suo
svolgersi, si propone come un evento pari, per intensità e musicalità, alla stessa pioggia di
cui parla. La poesia, in altri termini, parla anche di sé stessa, è una meta-poesia, in cui
D'Annunzio celebra la forza della propria arte.

L'innovazione dell'architettura metrica la partitura metrica


La pioggia nel pineto è assai varia e selezionata con virtuosa abilità tecnica, al fine di
rendere un'idea viva dei fenomeni e degli elementi naturali evocati nella lirica. «Tale
complessità metrica», afferma il critico e studioso dannunziano Giorgio Barberi Squarotti,
«vuole rilevare in modo partico larmente profondo la creazione poetica che D'Annunzio attua
trasfigurando le parole nuove che sorgono e sono musicalmente e visivamente create da
foglie e pioggia, del tutto alternative rispetto a quelle della tradizione lirica. I metri stessi sono
inventati in forme del tutto originali in tale quantità e strutturazione rispetto alla tradizione
metrica e anche rispetto alle creazioni non canoniche che già Pascoli ha moltiplicato in
Myricae e nei Canti di Castelvecchio, ma con molto più limitata avventurosità e variazione,
pur essendo senza dubbio il punto di partenza metrico per la ricchez za infinitamente più
varia di Alcyone.
D'Annunzio tocca il momento migliore della nuova parola che ode nella pioggia nel pineto.
Così crea il nuovo metro e il nuovo ritmo, ma soprattutto sublima in inaudita e mai prima
conosciuta poesia i suggerimenti della natura nell'estate iniziale, quando alberi, venti,
animali, pioggia possono esprimersi appieno. Allora la "favola bella" si può trasformare in
poesia d'amore, ma in quanto contemporaneamente si trasfigura nella nuova parola degli
alberi e della pioggia».

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