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Giorgio Caproni (1912/1990)

Caproni è una delle voci poetiche del Novecento: da un'apparente spontaneità e immediatezza, a un
abbandono musicale della parola, la sua poesia arriva a collocarsi nelle più acute lacerazioni del nostro
tempo. La sua esperienza può essere avvicinata a quella di Saba. Caproni utilizza una sottile ironia.

Nato a Livorno nel 1912, Caproni si trasferì all'età di dieci anni con la famiglia a Genova, città a cui è rimasto
legato. Partecipò alla seconda guerra mondiale e fu partigiano durante l'occupazione nazista. Dopo la
guerra visse a Roma con la famiglia. Lavorò come maestro di scuola elementare, come traduttore dal
francese e scrisse anche interventi critici e brevi prose narrative, tra le quali ricordiamo “Il labirinto” ( 1946).
Morì a Roma nel 1990.

Il passaggio di Enea

è un insieme di raccolte confluite nel 1956 nel volume “Il passaggio di Enea”, diviso in tre libri.

Nella raccolta “Il passaggio di Enea” la poesia di Caproni si afferma in tutta la sua originalità, sotto l'effetto
del trauma della guerra, delle sofferenze personali, familiari e collettive da esse determinate e il distacco
dalla amatissima città di Genova. La violenza e la distruzione che pesano sulle persone amate e sulle cose
rendono più forte l'adesione del poeta alla vita quotidiana. Genova si configura come simbolo assoluto e
concreto di una civiltà urbana carica di umanità, dove le cose e gli oggetti industriali hanno ancora funzioni
umane. Un mondo dove dappertutto si rivelano i segni del lavoro e dello scambio tra gli uomini. Su questo
mondo la guerra incide un segno di sofferenza, di maledizione e rovina che ne rende precaria la bellezza.

Il seme del piangere

Il titolo de “Il seme del piangere” (1959) deriva da un'espressione dantesca. In una sezione composta dai
Versi Livornesi, Caproni esprime un canto d'amore per la madre morta che evoca l'immagine della
giovinezza di lei, della sua presenza fresca e laboriosa nella vita di Livorno. Caproni utilizza un linguaggio
nitido. Siamo di fronte a un semplicissimo canzoniere d'amore, dove la parola si svolge con delicatezza
assoluta.

Congedo del viaggiatore cerimonioso

Dopo il boom economico in Italia vi sono nuove problematiche legate al consumismo che portano Caproni a
una nuova elaborazione poetica, quasi narrativa. Non sa dove questo cambiamento lo porterà ma sente
l’esigenza di cambiare. Nel “Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee” (1965), Caproni
sembra congedarsi dalla vita sociale, proiettandosi in prosopopee (figura retorica in cui si introducono a
parlare persone assenti o morte o inesistenti o anche cose astratte), cioè in figure di personaggi che
esprimono il loro essere ai margini, il loro rifiuto di partecipare alla vita comune. Nella lirica che dà il titolo
alla raccolta, il “congedo” avviene attraverso la voce di un viaggiatore che si appresta a scendere dal treno
dopo aver partecipato alla conversazione dello scompartimento. Nel treno ci si incontra, si racconta di sé,
nel dire le proprie cose agli altri si creano anche dei momenti di creatività. Il treno torna a essere il segno di
una nuova mobilità, un luogo di incontri. Rimpiange la gioia del contatto avuto con gli altri, ma si congeda
da loro e da tutti i valori sociali che rappresentano, certo di essere giunto alla disperazione / calma, senza
sgomento…

La morte di Dio (non è un’opera ma un concetto filosofico)

Dopo questo congedo, la poesia di Caproni tende a ridurre ancora il proprio peso, costruendosi su testi
molto brevi. Questi testi si organizzano in libri dalla struttura assai complessa, articolati in parti che seguono
un percorso tematico. I tre libri che Caproni mette insieme tra il '75 e l’‘86 si presentano come raccolte di
brevi poesie che definiscono i caratteri di questo mondo, uscendo dalla voce di un “io” che si riconosce
prigioniero senza via di scampo di un vuoto dietro il quale non c'è nulla. È la soluzione che viene definita
dalla filosofia “la morte di Dio”, morte non soltanto dei valori religiosi ma della stessa oggettività del
mondo, della solidarietà, dello spirito comunitario (Nietzsche 1844/1900).

Il muro della terra

“Il muro della terra” (1975) riprende nel titolo l'espressione con cui Dante indicava il muro della città
infernale di Dite: il muro rappresenta il limite della condizione umana e sociale. L'io cerca un Dio e in questa
ricerca il poeta confonde continuamente sé stesso, altre figure, lo stesso Dio, che non “s'è nascosto” ma
“s'è suicidato”, insegue qualche valore inafferrabile. C’è una consapevolezza lapidaria che si evince da versi
asciutti. Cerca di mantenere un dialogo con la realtà vero, colloquiale. Nessuno potrà mai perforare il muro
della terra, nessuno potrà mai conoscere in fondo la realtà.

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