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Riletture moderne di Orfeo

Nell'Alto Medioevo Boezio, nel De consolatione philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo
che si chiude al trascendente, mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot, rappresenta
l'attaccamento ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il Medioevo vedrà in Orfeo
un'autentica figura Christi, considerando la sua discesa agli Inferi come un'anticipazione di quella
del Signore, e il cantore come un trionfante lottatore contro il male e il demonio (così anche più
tardi, con El divino Orfeo di Pedro Calderón de la Barca, 1634). Dante lo colloca nel Limbo, nel
castello degli "spiriti magni" (Inf. IV. 139), vedendo in lui anche un proprio precursori, entrambi
sono poeti e cercano nell'oltretomba di ritrovare la donna amata (Euridice e Beatrice).

Nel 1864 compare la prima rivoluzionaria avvisaglia di un tema che sarà caro soprattutto al secolo
successivo: il respicere di Orfeo non è più frutto di un destino avverso o di un errore, ma matura da
una precisa volontà, ora sua, ora d'Euridice. Nel componimento Euridice a Orfeo del poeta inglese
Robert Browning, lei gli urla di voltarsi per abbracciare in quello sguardo l'immensità del tutto, in
una empatia tale da rendere superfluo qualsiasi futuro.

Il XX secolo si è appropriato della tesi secondo cui il gesto di Orfeo sarebbe stato volontario. Come
è d'uopo, i primi casi non sono italiani. Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo tutta la
propria parabola artistica, nel 1925, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo, opera teatrale che è
alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo capovolge il mito; decide di congiungersi con
Euridice tra i morti, perché l'al di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci
sono più rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa, ma concorde
nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del proprio sogno d'amore: si tratta di
Eurydice (1941).

Nel dialogo pavesiano L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò, 1947), Orfeo si confida con Bacca:
trova sé stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia da ogni esigenza terrena.
Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il proprio destino. Euridice, al pari di tutto il resto,
non conta più nulla per lui, e non potrebbe che traviarlo da siffatta realizzazione di sé: ha nelle
fattezze ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più l'infanzia innocente con
cui il poeta l'identificava. Voltarsi diviene un'esigenza ineludibile.

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