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Orazio in Odes non sembra mostrare una faccia coerente ai suoi lettori.

Come affermano Nisbet e Hubbard


(1970), “At times he seems simply to be an actor wearing different masks (…) the genial hedonist, the
humane moralist, the modest country-dweller, the flattering panegyrist, all utter the clichés appropriate to
their role. Horace (…) begins to seem enigmatic and elusive”1. Oltre ai diversi tipi di persona che Orazio
incarna, stati d’animo quasi di euforia e ironia si alternano a immagini inquietanti e di crudo realismo.
Dunque, Orazio sembra avere una personalità bipolare. Anche rispetto alla sua visione politica e filosofica,
Orazio risulta un personaggio pieno di contraddizioni e ambiguo: in un carme sembra prendere una
posizione che viene puntualmente smentita da ciò che trapela in un altro successivo. Nonostante ciò, se si
prende in considerazione la dispositio del libro, non si può negare che Orazio presenta ai suoi lettori una
certa coerenza. Infatti, questo libro non è un ordine casuale di carmi: Orazio ha deciso di farli leggere in un
certo modo per ragioni di contenuto. Dunque, lo scopo di questo essay è dimostrare che Orazio presenta
una coerenza strutturale e tematica ai suoi lettori all’interno delle Odi 1.

A livello globale, nel I libro i primi tre carmi parlano di poesia, politica e amicizia. Il finale del libro è
costruito con un chiasmo, dove gli stessi argomenti sono rovesciati. Infatti, la prima coppia (c. 1 - 38)
riguarda l’ozio del poeta epicureo; la seconda (c. 2 – 37) celebra Cesare Ottaviano Augusto vincitore nel
primo carme della battaglia di Azio e nel secondo su Cleopatra; infine, la terza (c. 3 – 36) concerne un amico
in partenza all’inizio (Virgilio), tanto che si tratta di un propemptikon, cioè un augurio di buon viaggio, e di
ritorno alla fine (Numida)2. Il tutto ruota attorno al carme I, 20, dedicato a Mecenate, esattamente come
l’ode I,1, per mettere in risalto l’importanza del destinatario dell’opera; ha la funzione del “proemio al
mezzo”, tipico del poema epico, poiché la complessità della materia richiede un secondo proemio a metà
dell’opera per dare risalto alla stessa (cfr. il proemio al III libro delle Georgiche di Virgilio). Inoltre, l’ode I,20
è strutturale, succede a 19 odi e precede altre 19 odi.

A livello particolare, nel primo libro numerose odi mostrano la riflessione più tipica oraziana: il carpe diem.
Si tratta delle odi 4, 7, 9, 11. Il tema del carpe diem non è un banale e semplicistico godere della vita ma
l’esortazione a vivere ogni attimo come se fosse l’ultimo perché l’uomo non conosce il giorno della sua
morte. È interessante l’utilizzo del verbo carpere che fa riferimento a un movimento lacerante e
progressivo tra le parti e il tutto, come sfogliare una margherita o piluccare un grappolo d’uva: il tutto è
l’aetas, la vita, la parte è il dies. Secondo questa visione, l’oggi è da spiccare giorno per giorno senza
pensare al domani. Nell’ode 4 il tema emerge nella quarta strofa: dopo l’iniziale descrizione idilliaca
dell’arrivo della primavera (Solvitur acris hiems) e un inno di gioia e festa, si passa a un’amara meditazione
sulla morte incombente, che bussa a tutte le porte senza distinzione di potere o ricchezza. Dunque, si crea
un brusco stacco al v. 13, dove Orazio invita Sestio a ricordare che vitae summa brevis spem nos vetat
incohare longam, cioè che la vita è troppo breve per avere speranze a lungo termine. In sum, bisogna
pensare al presente e non al futuro. Lo stesso tema appare solo allusivamente accennato anche nell’ode 7.
Da un elenco di località particolarmente affascinanti, l’ode si conclude con un invito a Planco ad
abbandonare la tristezza nel vino (v. 17: sic tu sapiens finire memento tristitiam vitaeque labores molli,
Plance, mero). Successivamente, il discorso d’incoraggiamento di Teucro ai suoi amici in un simposio
ribadisce l’antitesi tra le certezze del presente e le incertezze del futuro: ora (nunc) bisogna scacciare le
preoccupazioni col vino. Ugualmente, la tematica del carpe diem viene espressa più diffusamente nel carme
9. In questa ode, Orazio invita Taliarco a ripararsi dal freddo scaldandosi vicino al fuoco e bevendo il vino
sabino che rallegra e provoca piacere. Orazio è consapevole che tutta la vita dell’uomo è in mano agli dei e
si rassegna al fatto che solo loro possono placare i venti impetuosi. Infatti, egli esorta Taliarco a evitare di
chiedersi cosa accadrà nel futuro e cercare di comprendere le leggi divine che sfuggono al controllo
dell’uomo. Piuttosto, l’autore lo esorta a godere della fresca giovinezza della sua età, creando una callida
iunctura, cioè l’accostamento tra elementi insoliti nell’antitesi tra la giovinezza del presente (virenti) e il
futuro segnato dalla vecchiaia fastidiosa (canities morosa). Infine, il tema è condensato efficacemente nel
1
Op. cit Nisbet, Hubbard, p. 26
2
Op. cit Wili, p. 153
carme 11. Secondo Orazio, è inutile fare predizioni e profezie o leggere gli oroscopi come i babilonesi
perché non si può conoscere il futuro. Sarebbe meglio accettare qualunque cosa accada perché il destino,
personificato da Giove, è stabilito per ognuno dal momento della nascita e quindi non si può cambiare.
Dunque, Orazio invita la giovane Leuconoe a filtrare il vino per renderlo privo di impurità e gustarlo, anziché
cercare di avere più chiaro il proprio destino. Pertanto, questo tema del carpe diem è una costante della
lirica di Orazio. A livello esistenziale, esso rispecchia l’angoscia del tempo e della precarietà che “tradiscono
un fondo di insicurezza che potrebbe avere radici lontane, nell’assenza di una figura materna” e
nell’instabilità politico-economica che Orazio sperimentò nella giovinezza, ai tempi della sconfitta nella
battaglia di Filippi e del crollo degli ideali della res publica dopo i sanguinosi avvenimenti che hanno segnato
il periodo delle guerre civili. In definitiva, queste quattro odi mettono in risalto il tema della fugacità del
tempo, riflettendo l’immagine di un Orazio irrequieto e instabile emotivamente.

Dopo il tema del carpe diem, il carme 12 è un inno “with the praise to Augustus” vincitore di Seri, Parti e
Indi ha la funzione di separazione e di apertura al secondo gruppi di carmi. Dunque, inizia la seconda decina
(carmi 13-20) dove Orazio tratta del tema del convito ed esorta a bere il vino ma con moderazione. Sembra
quasi che Orazio tenti di dimenticare la paura del domani e della precarietà dell’esistenza dell’io cosciente
abbandonandosi alla consolazione del vino dell’io irrazionale. In questa sezione, non c’è un’unità tematica
in tutte le odi, ma soltanto una sfumatura che ne sottolinea uno specifico tono. Infatti, le odi 13-16 non
sembrano rientrare nel tema del convito. Questo tema nel carme 13 è appena accennato: qui Orazio arde
di gelosia per l’amore tra Lidia e Telefo nel vedere i segni che l’eccitazione della passione ha lasciato sul
corpo della donna, “the bruising on her lips” (West), e allude alle risse sfrenate causate dal vino che
macchiano Lydia’s shoulder (immodicae mero rixae). Dunque, si assiste a un graduale rasserenamento:
l’inquietudine esistenziale di Orazio è evidente prima nell’angoscia e preoccupazione (taedium) per le sorti
della patria a seguito delle guerre civili del carme 14; secondly, nel turbamento “on the disastrous results of
adulterous lust as pursued by Paris” over Helen che rimanda a vicende reali, Antony and Cleopatra’s
adulterous love; lastly, nell’aggressività della poesia dei giambi a cui il poeta decide di rinunciare per
ritrovare dolci sentimenti espressa nel carme 16. A questo punto, si inseriscono le odi del convito (17, 18,
19, 20). Nella prima di queste odi, Orazio invita Tindaride nella sua villa nella Sabina dove potrà assaporare
un vino leggero (innocentis pocula Lesbii); nella 18 Orazio si sofferma sul potere del vino che finalmente
permette di alleviare le proprie angosce (sollicitudines), ma bevendolo con moderazione senza abusare del
dono di Bacco – infatti, da ubriachi sia i Centauri che i Sitoni ebbero un destino infelice. Alleggerite le
sofferenze, ritorna l’amore, tanto che “Venus has left her beloved Cyprus and rushed upon Horace with full
force” (c. 19) e Orazio sembra riprendersi del tutto anche grazie al legame di amicizia con Mecenate,
decantato nel carme 20.

Di nuovo, dopo il tema del convito, il carme 21 è un “sacred poem”, dove Orazio chiede “to pray to Diana
and her brother Apollo”, che serve a separare la precedente sezione dal terzo gruppo di carmi (odi 22-29).
Inizialmente, si avverte ancora la tranquillità dei carmi precedenti: nel carme 22, la sicurezza e la costanza
del poeta, che in qualunque pericolo continuerà la sua lirica; nel carme 23 dal tono vivace, l’invito a Cloe a
staccarsi dall’ala protettiva materna e a concedersi all’uomo. Ben presto però, questa serenità si dilegua e
subentra la morte. L’idea della morte era già presente nelle odi del carpe diem, ma solo come un possibile
avvenimento futuro, perciò tanto valeva concentrarsi totalmente sul presente e godere del vino e
dell’amore che la vita offriva. Invece, nell’ode 24 la morte diventa una realtà presente, perché Orazio
consola Virgilio per la morte dell’amico Quintilio, e né la vita integra (cfr. carme 22: integer vitae), né la
poesia (cfr. carme 22: canto) del carme precedente, con cui sembrava possibile tollerare tutto, hanno
permesso di evitarla. Infatti, Orazio chiude questo carme con la parola (patientia) e una triste verità: “you
will endure what you cannot change”. Nel carme 25 l’insistenza sulla brevità dell’esistenza umana e il
degrado inflitto dal tempo è personificata da Lidia. Lidia era una prostituta di buon livello, ma in questa
poesia non è più giovane e il suo declino è evidente, tanto che i suoi ultimi clienti si sono dileguati. Così
l’immagine dell’Ebro che porta via le foglie secche rappresenta la vecchiaia che raggiunge presto Lidia. Nel
carme 26 Orazio sembra recuperare la sua serenità: “for Horace the Muses are an antidote to misery”,
perciò qui Orazio affida la sua tristezza e paura ai venti. “Thanks to the Muses, all these unimportant
anxieties leave Horace supremely unperturbed”, come dimostra l’aggettivo securus, ma solo
momentaneamente. Infatti, già nel carme 27 le persone iniziano a brawl and “shouting at a symposium”,
che è un comportamento “not only barbarous, it is also impious”, e “the sword is being waved around”
(Medus, che sono una popolazione barbara, acinaces). La visione della morte si ripresenta e pervade tutto il
carme 28. Qui un uomo morto crea una lista di “names of great men who have died” e la conclude “by
pondering the universality of death”. Then, he requests a passing sailor to sprinkle his corpse with sand and
“warns him that a similar fate may be in store for him”. Dunque, quest’immagine non lascia trapelare
nessun barlume di speranza, perché il destino mortale dell’uomo è ineluttabile. Nell’ode successiva,
l’angustia si colloca nei toni amari che riguardano la condanna di Iccio da parte di Orazio, l’amico “who had
been an eager student of philosophy but is now agog to join an expedition to the East”, cioè che ha
barattato la sua “book collection” con le armi.

Nuovamente, il carme 30 apre con un inno a Venere l’ultima sezione (c. 31-38) dedicata alla poesia. La
sezione precedente si è conclusa con l’impotenza della poesia, nei v. 13-16 dove neanche la poesia di Orfeo
“could make the blood return to the empty phantom of Eurydice”. By contrast, questa nuova sezione si
apre con il carme 31 dove la poesia è simbolo di conforto e di vita. “Horace’s first prayer is for health”,
tanto che Orazio chiede di poter ne turpem senectam degere. “His 2nd prayer ends with the lyre”, so lui
chiede ad Apollo la sua protezione. Nel carme seguente, “Horace is beginning to compose a poem about
which we know nothing and before he starts he prays for divine assistance with the act of composition”,
perciò Orazio inizia a scrivere qualcosa che si protrarrà negli anni. Il destinatario, è il poeta elegiaco Albio
Tibullo, che viene invitato a non crucciarsi più del dovuto e a non sprecar elegie infelici (miserabiliis elegos)
per la crudele infedeltà di Glicera, che ora è innamorata di un altro giovane. Nelle odi successive, Orazio
riflette sull’onnipotenza delle divinità e si rende conto dell’importanza della protezione degli dei a cui
nessuno può rinunciare. Infatti, il poeta nel carme 34 evoca il proprio turbamento di fronte al manifestarsi
di forze incomprensibili che l’uomo non è capace di controllare, in questo caso un fulmine scagliato da
Giove, a cui chiede aiuto. Il carme 35 è una supplica alla Fortuna, che gli stoici identificavano con Giove, di
dare protezione a Cesare che sta per andare in spedizione contro la Britannia (27 a.C.). La benevolenza della
Fortuna sembra avere luogo nel carme 36, dove si festeggia il ritorno di Numida “by the abundance of the
provision to celebrate”, mostrando l’affetto nel rapporto tra Numida e Lamia. Un altro carme che narra un
evento gioioso promosso dalla diva (cfr. carme I,35) è la vittoria celebrata da Orazio nel carme 38 di
Augusto su Cleopatra, definita fatale monstrum. Finalmente, Orazio può ricominciare a parlare dei temi a
lui cari nel carme di congedo. Infatti, come afferma Citti: “ode e libro si chiudono nel segno del simposio” 3 e
della poesia. Nell’ode I, 1, Orazio utilizza la Priamel, cioè mostra le diverse possibilità di vita interrogandosi
su quale sia la migliore tra atleta olimpico, politico, latifondista, contadino, marinaio, militare, cacciatore e
ozioso, cioè chi fa della propria inattività attività, la poesia, e lui sceglie l’ultima. Nel carme I, 38 Orazio
riprende con una Ringkomposition la sua scelta parlando del simplex mirtus, pianta dedicata a Venere, che
è ipostasi della semplicità come stile di vita e scelta poetica, in realtà elaborata4. Infatti, Orazio in questo
carme sostiene di non aver bisogno di grande lussi (apparatus) bensì del giusto mezzo, dell’atarassia e del
vivere appartato, tutti temi tipici della filosofia epicurea. Dunque, Orazio chiude il I libro delle Odi
attraverso l’affermazione della sua identità e della sua volontà di dichiararsi poeta.

To sum up, anche se a primo impatto Orazio sembra assumere ruoli diversi e una personalità contradditoria
e incoerente all’interno delle Odes I, in realtà secondo un’analisi più approfondita si può notare una certa
coerenza nella struttura che favorisce la progressione dei contenuti. Dunque, come sostiene Santirocco
(1986) “the arrangement of odes within the collection imitates the collocation of ideas in individual odes” 5.
3
Op. cit Citti, p. 450
4
Op. cit Fraenkel, p. 298
5
Op. cit Santirocco, p. 66
Da un punto di vista generale, si crea una struttura chiastica dove i temi dei primi tre carmi vengono ripresi
ribaltandoli alla fine: il poeta epicureo, la vittoria di Ottaviano Augusto e la partenza e il ritorno di un amico.
Andando nello specifico, si possono individuare quattro nuclei tematici e ognuno di essi è preceduto da un
inno funzionale a intervallare le varie sezioni. I temi sono: il carpe diem, il convito, la morte e la poesia.
Orazio, per sottrarre la propria vita all’ansia del futuro, invita a godere del presente e dei piaceri che dona
la vita, da qui il tema del simposio. Purtroppo però, non risulta impossibile sottrarsi alla morte a cui Orazio
risponde con l’immortalità della poesia. Per concludere, Orazio costruisce Odes I con la volontà di
presentare i suoi lettori due risoluzioni tra immagini contrastanti: alla paura della morte, l’ebrezza del vino,
e alla morte stessa, la poesia.

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