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Giacomo Leopardi

L’infinito (dai Piccoli Idilli)


Nell'Infinito, il poeta dice (o immagina) di trovarsi in un luogo preciso, che ama e frequenta
abitualmente: un colle solitario, tradizionalmente identificato nel monte Tabor, che domina sulle
campagne sopra Recanati. Solo, in cima al colle, in uno spazio circoscritto e delimitato da una
siepe, il poeta siede e guarda, ma non riesce a vedere: proprio questo fa scattare il meccanismo
immaginativo. Si tratta di un'esperienza paradossale: non è la possibilità di vedere dall'alto ampi
spazi, ma l'ostacolo alla vista, l'esperienza dei limiti umani, a suggerire l'idea dell'infinito. Agli spazi
senza fine si associano immediatamente sovrumani silenzi e profondissima quiete, che producono
un sentimento di paura, di sgomento. Leopardi ama il silenzio e la quiete di quel luogo, che gli
permettono di meditare e fantasticare. Ma, proiettati in uno spazio sterminato, il silenzio e la
quiete diventano quasi insopportabili, poiché si oppongono implicitamente all'idea di vita, che è
fatta di suoni, di rumori, di movimento.

A Silvia (dai Grandi Idilli)


Il ricordo di Silvia, reale o immaginaria compagna di gioventù, è l’origine di una riflessione amara
sulla giovinezza perduta e sulla fine di tutte le illusioni che la giovinezza porta con sé. Silvia è stata
strappata alla vita da una natura crudele e indifferente: la morte precoce l’ha privata della
giovinezza e delle gioie che le sono proprie; anche il poeta ha perso, non la vita, ma le speranze
giovanili e il “tempo suo primo”, speso negli studi e trascorso in solitudine. Silvia diventa quindi il
simbolo stesso della gioventù e della speranza, scomparse, come lei, troppo presto. Questo è il
tema fondamentale del dialogo immaginario, ma su questo si innestano altri motivi tipicamente
leopardiani: la dolcezza di una figura femminile umile e operosa, la “vaghezza dei sui sogni per
l’avvenire”, il contrasto fra l’illusione e l’apparire “dell’arido vero”, il ricordo, e la sfida della poesia.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (dai Grandi Idilli)


Il Canto notturno è un componimento libero, diviso in sei stanze. Nella prima stanza il pastore si
rivolge alla luna silenziosa, mettendo a confronto sé stesso proprio con la luna: da un lato c’è lui
che si definisce “vecchierel bianco”, e dall’altro la grandezza dell’astro lunare. Il pastore si
interroga poi sulla sua esistenza, mettendo a confronto la propria vita con quella del suo gregge: la
noia della vita non pesa alle sue pecore, mentre per lui esistere è negativo, porta dolore e tedio.
Leopardi decide di esprimere queste tematiche a lui care tramite un dialogo di un pastore con la
luna perché, nel componimento, trae ispirazione dalla lettura di un viaggio presso i Kirghisi, una
popolazione dell’Asia centrale dove i pastori declamavano storie e canti alla luna. È  da questo che
Leopardi trae ispirazione per la sua poesia, ricca di elementi esotici, malinconia, elementi propri
della poesia romantica, a cui il poeta sembra essersi definitivamente aperto .

Il sabato del villaggio (dai Grandi Idilli)


Il sabato è certamente una metafora di piacere, secondo la visone leopardiana: rappresenta la
gioventù, lieta e spensierata, mentre l’età adulta è la domenica. Come il sabato precede il giorno
della festa tanto attesa, così l’adolescenza è l’attesa, spesso ansiosa, dell’età adulta, un’età che,
quando si è giovani, può sembrare ricca di invitanti promesse. Nella visione di Leopardi, però,
godere del pensiero di queste ultime è l’unica forma di felicità possibile perché la realtà porta
sempre con sé l’amarezza e la disillusione. Nella prima parte del canto, quella idilliaca, Recanati è
colta alla sera del sabato: giovani e vecchi si preparano alla festa del giorno successivo e si
affrettano a terminare il loro lavoro per godere del riposo domenicale. L’attesa del giorno di festa
è un momento di speranza e di gioia. La seconda parte è più riflessiva: Leopardi allude appena alla
triste realtà spiegando come l’attesa della festa sia molto più bella della festa stessa. Alla stesso
modo, l’adolescenza, piena di sogni, è l’unica età felice per l’uomo.

Il passero solitario (dai Grandi Idilli)


Il poeta, come il passero solitario, vive pensoso, in disparte, la giovinezza; ma, mentre il passero
non soffre della sua solitudine e non avrà rimpianti al momento della morte, il poeta rimpiangerà
di aver sciupato la propria giovinezza e, quasi, di non aver vissuto. Dentro la struttura, il tema
profondo che ricorre nel confronto con il passero e nella differenza con la “gioventù del loco”, è la
solitudine (“io solitario”) incolmabile e voluta dal poeta (“non curo, io non so come”).
La solitudine è il risultato di contraddizioni profonde che il poeta vive con dolore posto com’è fra il
desiderare ed il “non curare”, tra il sapere quali sono i beni della vita (“sollazzo”, “riso”, “amore”,
etc..) e il non cercarli, tra il trascurare la giovinezza e il rifiutare la vecchiaia.
La materia dei versi è dolorosa, conforme all’ispirazione costante del.

A se stesso (dal Ciclo di Aspasia)


La poesia è la quarta del Ciclo di Aspasia, una delle più dure e drammatiche della lirica
leopardiana. E' qui espressa tutta l'amarezza e la delusione estrema per quello che il poeta stesso
definisce "inganno estremo", ossia la fine dell'illusione amorosa per l'attrice Fanny Targioni
Tozzetti che aveva alimentato le sue intime fantasie. La delusione per questo "inganno" porta
inoltre il poeta a disprezzare il mondo e la natura, origine di tutto il male e il dolore verso cui
l'uomo è destinato fin dalla nascita. Anche questa poesia è un'epsressione di quel pessimismo
cosmico che conduce il Leopardi ad un atteggiamento di rifiuto e disprezzo progressivo e
totalizzante: la poesia si conclude con una lapidaria affermazione sulla "infinita vanità del tutto",
emblematico epilogo di una lirica costruita sulla negatività dell'esperienza umana.

La Ginestra (riprende temi delle Operette morali)


La Ginestra è praticamente il testamento spirituale di Giacomo Leopardi. Nella canzone si parla
della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio,
il monte sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva.  Il delicato fiore coraggiosamente
risorge sulla lava impietrata, e con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande
desolate.
Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la
sua consolante presenza ma – ben più drammaticamente – la presenza dell'uomo in questi luoghi.
La ginestra diviene simbolo della condizione umana.
Dunque la vera rivolta, la vera lotta che l'uomo deve ingaggiare è contro la natura crudele che non
esita a devastare ogni opera umana con la sua inarrestabile forza. Nell'eterno impari confronto
con la natura, l'uomo deve avere ben presente la sua debolezza, ma anche la sua dignità.
Non deve essere né arrogante né supplice, ma dignitosamente pronto a farsi da parte quando lo
strapotere delle forze di natura lo opprima. Prima di quel momento deve consorziarsi con i suoi
simili per affrontare  i dolori della sua condizione, sostenuto dalla solidarietà dei suoi simili.
Il concetto di ribellione, di rivolta e di lotta contro gli elementi che necessariamente condizionano
il destino umano (contrassegnato dal dolore) è da Leopardi ricondotto ad una meditazione
filosofica – di carattere pessimistico – sulla pochezza del sapere ottocentesco. È inutile pensare di
imbrigliare la natura e di sconfiggerla con le armi del progresso e della tecnica. Essa sarà sempre
più forte dell'uomo.
Dialogo tra la natura e un islandese (dalle Operette morali)
Questa operetta morale segna un passaggio fondamentale del pensiero di Leopardi: quello dal
pessimismo storico al pessimismo cosmico.
Un uomo, dopo aver vagato cercando di sfuggire alla natura, giunto in Africa incontra una donna
gigantesca seduta. Lei che gli domanda chi sia, l’uomo risponde di essere un Islandese che vaga
per la Terra cercando di fuggire dalla Natura. La donna dice di essere lei la Natura, dunque
l’Islandese inizia a fare un lungo discorso accusandola dei suoi patimenti e di quelli di tutti gli altri
uomini. La Natura risponde che il mondo non è stato creato per il genere umano, e che se mai un
giorno la razza umana dovesse estinguersi, lei neanche se ne accorgerebbe. Allora l’Islandese fa un
esempio: se lui fosse invitato da un signore nella sua villa e al suo arrivo fosse rinchiuso in una
cantina fredda e buia, lui ricorderebbe al signore di essere giunto lì non di sua spontanea volontà,
dunque aveva diritto almeno a non essere trattato male. Così si è comportata la Natura: e anche se
non ha creato il mondo per gli uomini, potrebbe almeno cercare di non renderli infelici e schiavi.
La Natura gli risponde che la vita dell’universo è un ciclo perpetuo di trasformazioni della materia,
a cui nulla sfugge. Il dialogo termina con la brusca fine dell’Islandese che secondo alcuni fu
divorato da due leoni, secondo altri fu steso da un vento fortissimo che gli edificò sopra un
mausoleo di sabbia. L’Islandese si disseccò sotto la sabbia e divenne mummia, fu trovato da alcuni
viaggiatori ed esposto nel Museo di un’indefinita città europea. Nella prima fase del pensiero
leopardiano la Natura è una madre benevola: quando gli uomini sono nello stato primitivo, essi
possono raggiungere una condizione vicina alla felicità, in quanto, dotati di capacità immaginativa,
possono nutrirsi di illusioni. Tuttavia, giungeranno poi la ragione e la scienza che, a causa delle loro
conquiste, porteranno l’uomo ad abbandonare il suo stato primitivo e dunque ad allontanarsi dalle
illusioni. Successivamente però il pensiero di Leopardi cambia, ed è proprio il Dialogo della Natura
e di un Islandese a spiegare questa nuova concezione della Natura, non più madre benigna ma una
matrigna: è una madre ostile che mette al mondo gli esseri viventi solo per propagare la vita.

Dialogo tra la natura e un islandese (dalle Operette morali)


Questa operetta morale segna un passaggio fondamentale del pensiero di Leopardi: quello dal
pessimismo storico al pessimismo cosmico.
Un uomo, dopo aver vagato cercando di sfuggire alla natura, giunto in Africa incontra una donna
gigantesca seduta. Lei che gli domanda chi sia, l’uomo risponde di essere un Islandese che vaga
per la Terra cercando di fuggire dalla Natura. La donna dice di essere lei la Natura, dunque
l’Islandese inizia a fare un lungo discorso accusandola dei suoi patimenti e di quelli di tutti gli altri
uomini. La Natura risponde che il mondo non è stato creato per il genere umano, e che se mai un
giorno la razza umana dovesse estinguersi, lei neanche se ne accorgerebbe. Allora l’Islandese fa un
esempio: se lui fosse invitato da un signore nella sua villa e al suo arrivo fosse rinchiuso in una
cantina fredda e buia, lui ricorderebbe al signore di essere giunto lì non di sua spontanea volontà,
dunque aveva diritto almeno a non essere trattato male. Così si è comportata la Natura: e anche se
non ha creato il mondo per gli uomini, potrebbe almeno cercare di non renderli infelici e schiavi.
La Natura gli risponde che la vita dell’universo è un ciclo perpetuo di trasformazioni della materia,
a cui nulla sfugge. Il dialogo termina con la brusca fine dell’Islandese che secondo alcuni fu
divorato da due leoni, secondo altri fu steso da un vento fortissimo che gli edificò sopra un
mausoleo di sabbia. L’Islandese si disseccò sotto la sabbia e divenne mummia, fu trovato da alcuni
viaggiatori ed esposto nel Museo di un’indefinita città europea. Nella prima fase del pensiero
leopardiano la Natura è una madre benevola: quando gli uomini sono nello stato primitivo, essi
possono raggiungere una condizione vicina alla felicità, in quanto, dotati di capacità immaginativa,
possono nutrirsi di illusioni. Tuttavia, giungeranno poi la ragione e la scienza che, a causa delle loro
conquiste, porteranno l’uomo ad abbandonare il suo stato primitivo e dunque ad allontanarsi dalle
illusioni. Successivamente però il pensiero di Leopardi cambia, ed è proprio il Dialogo della Natura
e di un Islandese a spiegare questa nuova concezione della Natura, non più madre benigna ma una
matrigna: è una madre ostile che mette al mondo gli esseri viventi solo per propagare la vita.

Dialogo tra Plotino e Porfirio (dalle Operette morali)


Plotino cerca di dissuadere Porfirio dal togliersi la vita ma si rende progressivamente conto della
difficoltà di trovare argomenti razionali per convincere l’amico a desistere dal suo proposito. Nella
prima parte del dialogo Porfirio contesta le argomentazioni di tipo religioso contro il suicidio.
Porfirio, replicando alle tesi di Plotino, afferma che il suicidio non è neppure contro natura. È vero,
infatti, che ogni essere vivente tende alla propria conservazione, ma anche che ricerca soprattutto
la felicità. Non tanto teme, quindi, la morte come tale ma il dolore e il male. Anzi, la morte è
l’unico modo per sfuggire all’infelicità. Di fronte alle ineccepibili argomentazioni di Porfirio, che ha
confutato punto per punto i suoi tentativi di convincerlo, non resta a Plotino che rivolgere
all’amico un accorato, affettuoso appello. Forse è ragionevole l’uccidersi, sostiene Plotino, ma è
inumano e crudele, perché la morte ci separa da chi amiamo e da chi ci ama, e questo è ulteriore
fonte di dolore. Chi si uccide fa una scelta egoista, perché non pensa che a se stesso. I mali della
vita, se non vi sono gravi disgrazie, si possono sopportare e la vita è una cosa tanto piccola che non
vale la pena di preoccuparsene troppo, né per conservarla né per lasciarla. Piuttosto che
abbandonare gli amici, è meglio aiutarli a sopportare la vita, accettando quella parte di male che il
destino ci assegna. Dobbiamo vivere e confortarci a vicenda, aiutandoci scambievolmente per
“compiere (…) questa fatica della vita”. Quando verrà la morte non ce ne lamenteremo, gli amici ci
conforteranno e dopo che saremo morti ci ricorderanno e ameranno ancora.

Dialogo tra uno gnomo e un folletto (dalle Operette morali)


E’ la quinta delle le Operette Morali e presenta il dialogo di un folletto e di uno gnomo. Uno
gnomo, abitante delle profondità della Terra, viene mandato in esplorazione per scoprire cosa stia
accadendo al mondo esterno e agli uomini. Da troppo tempo la vita degli gnomi non è disturbata
dalla ricerca di metalli preziosi e, il timore che si stia preparando una sciagura peggiore, ha ispirato
la missione. Alle domande dello gnomo risponderà un folletto, spirito dell’aria, che racconta la
dinamica dei fatti. Il folletto rivela che gli uomini si sono estinti. Di fronte ad una notizia di portata
così drammatica si scopre immediatamente che, tutto sommato, alla vita della terra e alle
dinamiche dell’universo la presenza o l’assenza degli uomini non muta alcun equilibrio.
Sicuramente il pianeta, se all’improvviso dovessero scomparire gli esseri umani, trarrebbe da ciò
un grande giovamento e si ricostituirebbero degli equilibri naturali che purtroppo sono scomparsi
a causa dell’azione dell’uomo. Sulle dinamiche dell’estinzione umana ci sono delle peculiarità
uniche. Mentre tutte le altre specie animali hanno dovuto ad una causa esterna la loro scomparsa,
per gli uomini la causa della propria estinzione è da ricercarsi in loro stessi. Guerre, ricerche inutili,
vizi, vuota erudizione, sono state solo alcune delle armi che hanno inflitto colpi tremendi al destino
degli uomini. La prima causa è però da ricercarsi nella vanità. Il sentirsi indispensabili per
l’universo, il pensare di essere padroni del mondo e della natura, il reputarsi a immagine e
somiglianza di Dio ha condotto verso un inevitabile suicidio. Iconclusione in dialogo, in maniera
molto amara, ribadisce l’inessenzialità dell’uomo per il mondo. Il ribadire questo concetto, però,
rende chiaro un aspetto non secondario: la presenza dell’uomo dà un senso spirituale alla natura
che altrimenti si riduce ad una vuota meccanica. Ma quest’uomo vanitoso ed egoista è in grado di
comprendere ciò.

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