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L’orgoglio nazionale dei Romani ha sempre spinto questi ultimi, a connettere la loro storia con quella del

mondo greco e ad ‘inventare’ rapporti con la mitologia greca; fino a tal punto furono dipendenti dalla
‘grecità’, che presero addirittura da essa tutto quanto il pantheon delle divinità, soltanto cambiando i nomi
ai medesimi dèi: così Zeus, divenne Giove, Era fu chiamata Giunone, Afrodite, si trasformò in Venere, e così
via. Numerose sono le storie della fondazione di Roma riconducibile ad un’origine troiana, tramite Enea e
suo figlio Ascanio-Iulo, giunti esuli in Italia dopo la disfatta di Troia. Da Ascanio-Iulo, poi arriviamo ai suoi
discendenti più direttamente ‘romani’: Romolo e Remo. Dunque, direttamente da discendenza divina (Enea
era figlio della dèa Afrodite/Venere e del mortale Anchise), abbiamo la Gens Iulia, alla quale appartiene
anche Cesare. Le date di fondazione della città di Roma, riportate dalle varie fonti, sono numerose e
variabili. 814 a.C, 753 a.C. 751 a.C. 748 a.C. 729 a.C.

In ogni caso convenzionalmente utilizziamo la data del 753 a.C.

Le reali origini della fondazione di Roma sono legate ai gruppi arcaici dei Latini, che
tra il X e l’VIII secolo a.C costituirono alcune comunità autonome sui colli
dell’odierna Roma. Sette di queste comunità si riunirono in una lega sacra,
il Settimonzio, che ne riuniva tre del Palatino e dell’Esquilino, ed una del Celio.
Fondarono così una comunità delimitata dal Pomerio, il confine sacro citato nella
leggenda. In questo confine si inserirono, successivamente, gli altri colli: Viminale,
Quirinale e Capitolino.
All’inizio della sua storia è chiaro che Roma, seppur nella vasta espansione, non
avesse una grande importanza tra le varie città latine. Nel VII secolo a.C esisteva
infatti una lega che comprendeva anche Roma, a cui faceva capo però l’egemonia di
Alba Longa; riunita intorno al culto di Giove.

Al di là delle legenda è dunque plausibile la fondazione nell’VIII secolo a.c. di un


villaggio da parte di alcuni latini, pastori e mercanti di sale così come è plausibile la
fusione con il ceppo dei Sabini da qui la legenda del ratto delle Sabine. Si unirono ai
Latini ed ai Sabini anche gli Etruschi che in quell’epoca erano particolarmente
potenti.
I primi sette re di Roma furono Romolo Numa pompilio ( re Sabino) Tullo Ostilio (1° re etrusco) Anco
Marcio (2° re etrusco) Tarquinio Prisco (3° re etrusco) Servio Tullio (4° re etrusco) Tarquinio il Superbo (5° re
etrusco), essi appartengono al patrimonio legendario, ma hanno recentemente avuto supporto da alcune
scoperte archeologiche.

Dalla presenza di re Sabini ed Etruschi tra i primi re di Roma si evince la fusione tra i popoli.

Il Re dotato di poteri militari, religiosi e giudiziari era associato ad un consiglio degli anziani, mentre il
popolo era suddiviso nelle tre tribù di RAMNI, TIZIENSI E LUCERI.

La monarchia dura fino al 510 a.C. poi interviene dopo il REGIFUGIUM OVVERO LA CACCIATA DEI RE la
prima fase della Repubblica, la cacciata dei re fu attribuita a Lucio Giunio Bruto ed a Lucio Tarquinio
Collatino. In questo periodo Roma era governata da due consoli ed iniziava una fase di forte espansione
nella penisola italica che dopo la vittoria di Pirro era ormai completamente romana.

Un episodio fondamentale per la storia di Roma fu, dunque, l’abbattimento della monarchia e la nascita
della repubblica (510 a.C.). Anche in questo caso, un profondo rivolgimento politico viene tradotto dalla
cultura romana in forma narrativa. Il figlio del re Tarquinio il Superbo (Sesto Tarquinio) violentò una sua
lontana parente (Lucrezia), che si uccise per la vergogna, provocando non solo la vendetta dei congiunti (il
padre Lucrezio Tricipitino, il marito Collatino, lo zio materno Bruto), ma anche la sollevazione del popolo e
la cacciata della famiglia reale. La tirannide viene dunque concepita non solo come oppressione politica, ma
soprattutto come violazione delle leggi della parentela, su cui era fondata la società.

Il potere politico nel nuovo sistema, quello repubblicano, era sostanzialmente in mano al senato, organo di
grande prestigio a cui spettava il parere decisivo sulle guerre e sullo stato d’assedio. L’influenza dei singoli
senatori era determinata dalla magistratura che avevano ricoperto: all’interno del senato gli ex consoli
formavano dunque una cerchia ristretta molto potente, che Il consolato e gli homines novi veniva chiamata
nobilitas. Il consolato era infatti una carica che conferiva tanta autorevolezza e dignità per tutta la vita a chi
l’aveva ricoperta, che costituiva quasi un titolo nobiliare. La consuetudine prescriveva che per poter essere
eletti consoli bisognasse appartenere a famiglie della nobilitas, vale a dire famiglie che potessero vantare
antenati consoli. Si trattava comunque di una consuetudine, non di una legge: in casi eccezionali vennero
eletti al consolato anche homines novi. Era detto homo novus il primo membro di una famiglia a essere
eletto console: teniamo presente che mentre oggi un “nome nuovo” è un termine positivo sulla scena
politica, a Roma l’aggettivo novus aveva sempre una sfumatura dispregiativi.

Uno dei principali problemi della Repubblica era la lotta tra patrizi i nobili che detenevano terre e cariche
pubbliche ed i plebei che non potevano partecipare alle cariche pubbliche.

Le lotte dei plebei portarono nel 493 a.C. alla creazione dei Tribuni della plebe e delle assemblee plebee, i
plebei furono ammessi alla carica di consoli solo nel 367 a.c.

Secondo la tradizione più accreditata, la cui fonte è Varrone, Roma venne fondata nel 753 a.C.; un’altra
fonte, Cicerone, ci informa che cinque secoli dopo, nel 240 a.C., Livio Andronico, un letterato di
madrelingua greca giunto a Roma come schiavo in seguito alla guerra tarentina, compose e fece
rappresentare ai ludi Romani il primo dramma scritto in lingua latina. Per convenzione, utilizziamo questa
data per uscire dalla preistoria culturale di Roma ed entrare nella fase storica della sua civiltà letteraria, o
meglio in quell’età che si è soliti chiamare età arcaica, e che si estende dal 240 a.C. fino alla morte di Silla
(78 a.C.). In questo momento della sua storia, Roma è una città-stato che si è da poco imposta come una
delle grandi potenze mediterranee dopo aver conquistato l’Italia meridionale e aver sconfitto Cartagine.
Alla potenza militare e politica non corrisponde tuttavia un adeguato livello culturale: rispetto ai grandi
centri ellenistici (Alessandria, Pergamo, Antiochia, Atene, Siracusa, Taranto) ricchi di biblioteche, di arte, di
letteratura e di studi filosofico-scientifici, la cultura romana appare grezza e limitata. I membri delle grandi
famiglie della nobilitas romana, che controllano da secoli la città, hanno una visione tradizionalista e
pragmatica della cultura: sono dei politici e dei militari, sostanzialmente disinteressati alle attività
teoretiche e artistiche. Quando incominciano a promuovere l’ingresso e la diffusione delle prime forme
letterarie in Roma, assumono non a caso esclusivamente il ruolo dei committenti, affidando l’elaborazione
dei testi poetici (tragedie, commedie, poemi carmina celebrativi) a “stranieri” di cultura greca e di origini
prevalentemente umili o servili: greci d’Italia (come Livio Andronico), osco-campani (come Nevio),
messapici (come Ennio e Pacuvio), umbri (come Plauto), africani (come Terenzio).

In effetti le origini della letteratura latina non sono segnate dalla comparsa di un
grande epos nazionale come quello di Omero, il sommo poeta celebrato dagli antichi
come il padre di tutti i generi, tragedia e commedia comprese. Alle origini della
letteratura latina troviamo soltanto una data e una traduzione. La data è il 240 a.C.
(ben 513 anni dopo la fondazione della città), anno in cui Livio Andronico, uno
schiavo liberato proveniente da Taranto, fece rappresentare per la prima volta un
testo teatrale in lingua latina.

Inoltre egli La tradusse, l'Odissea. La scelta di tradurre il poema omerico in latino e


in metro italico (il misterioso saturnio, il verso in cui, secondo Ennio, cantavano un
tempo fauni e vati) ebbe un'importanza storica fondamentale, riconosciuta dai
grandi classici romani (Cicerone, Orazio), che consacrarono Livio Andronico come
l'iniziatore della letteratura latina.

La notizia della prima rappresentazione di un testo scenico in lingua latina ci


richiama allo straordinario successo che ebbe il teatro nella Roma repubblicana.
Anche i generi teatrali più importanti, la tragedia e la commedia di argomento
greco, rispettivamente dette cothurnata (dal nome degli alti calzari indossati dagli
attori tragici greci) e palliata (dal tipico mantello greco), nascono come traduzione di
originali greci. Plauto parla di vortere barbare («tradurre dal greco in una lingua
diversa»), ma il rapporto del grande comico romano con i modelli greci è di piena
autonomia artistica, e certo non solo per le differenze strutturali, come
l'introduzione di parti cantate assenti negli originali greci, che imposero una forte
rielaborazione dei modelli.

L’influenza del teatro greco e di classici greci è dunque molto forte e proprio il
contatto con il popolo greco costituisce la spinta per la nascita della letteratura
latina , addirittura 500 anni dopo la fondazione di Roma.

A tal proposito è nota la frase di Orazio contenuta nella sua opera Epistulae “Graecia
capta ferum victorem cepit” ovvero la Grecia catturata vinse il feroce vincitore.
La letteratura, a Roma, nasce dunque in un’età in cui già esiste, in tutto il Mediterraneo, una ricchissima e
raffinata attività letteraria in lingua greca, e in grazie all’opera degli eruditi e alla creazione delle biblioteche,
si è costituita una tradizione ricca di modelli a cui fare riferimento. Il progetto di fondare una letteratura in
lingua latina si presentava perciò arduo e complesso: il latino fino a quel momento non aveva conosciuto
una vera e propria elaborazione letteraria, e la difficoltà maggiore, per i primi scrittori, dovette essere
proprio l’estremo dislivello tra la raffinatezza della cultura ellenistica di cui essi erano in possesso e la
povertà, linguistica e culturale, del mondo romano. I risultati saranno tuttavia, nel giro di pochi decenni,
subito significativi e in taluni casi altissimi. Letteratura latina arcaica non è infatti un titolo diminutivo, ma si
limita a definire un'epoca storica, la prima della letteratura latina, già in grado di produrre autentici
capolavori destinati a restare a lungo (come è il caso della commedia di Plauto e di Terenzio) i grandi
modelli di riferimento del sistema letterario occidentale.

La letteratura latina ha una caratteristica particolare, che la distingue ad esempio dalla letteratura greca, e
la avvicina invece alla letteratura italiana. In Grecia le origini della letteratura risiedono in una lunghissima
fase di poesia composta e trasmessa oralmente, che si perde nella preistoria. A Roma, come nell’Italia
medievale, gli inizi della letteratura (intesa come manifestazione poetica o narrativa “scritta”) si trovano
invece nel desiderio di esprimere nella propria lingua esperienze poetiche “straniere”. Come la poesia della
scuola siciliana nasce sotto l’influsso della poesia provenzale, così la letteratura latina nasce per opera di
un’élite di uomini dotti, sotto l’influsso della letteratura greca di età ellenistica. Sotto l’impulso prepotente
dei modelli stranieri, l’antica tradizione culturale romana (quella che da secoli si tramandava oralmente
all’interno della comunità) si accollò il compito entusiasmante di dare un volto e una voce “romani” alle
invenzioni dei Greci.

Comparando il latino con altre lingue antiche e moderne, possiamo affermare che si tratta di una lingua
indoeuropea, come la maggior parte delle altre lingue dell’Italia antica (ma non l’etrusco). È ipotizzabile che
in un’epoca assai remota (fra il terzo e il secondo millennio a.C.) i progenitori dei Latini risiedessero, come
gli altri popoli indoeuropei, a nord delle Alpi, in una regione compresa fra l’Europa centrale e l’Asia. Il
vocabolario delle istituzioni politico-religiose è comune a quasi tutta l’area indoeuropea: ad esempio il
latino rex corrisponde al celtico rix (presente anche in nomi composti come Orgeto-rix) e all’antico indiano
raja; il latino deus al celtico dia, all’antico indiano deva-, all’antico nordico tı¯var e al lituano die˙˜vas. Le
lingue dell’Italia antica L’importanza del latino nell’Italia antica si afferma solo gradatamente. Alle origini il
latino è solamente la lingua di Roma, una piccola città circondata da una serie di centri minori (Lanuvio,
Preneste, Tivoli) nei quali si parlavano dialetti latini, o comunque affini al latino. Già a pochi chilometri da
Roma si parlavano lingue molto diverse: l’etrusco e le lingue italiche, con l’umbro a nord e l’osco a sud fino
all’attuale Calabria. Nell’Italia settentrionale si parlavano altre lingue indoeuropee come il ligure, il gallico e
il venetico. Il greco era diffuso nelle numerose colonie della Sicilia e della Magna Grecia. Fino a tutta l’età
repubblicana la situazione linguistica dell’Italia rimase molto variegata: il plurilinguismo era una condizione
comune.

Il potere politico nel nuovo sistema, quello repubblicano, era sostanzialmente in mano al senato, organo di
grande prestigio a cui spettava il parere decisivo sulle guerre e sullo stato d’assedio. L’influenza dei singoli
senatori era determinata dalla magistratura che avevano ricoperto: all’interno del senato gli ex consoli
formavano dunque una cerchia ristretta molto potente, che Il consolato e gli homines novi veniva chiamata
nobilitas. Il consolato era infatti una carica che conferiva tanta autorevolezza e dignità per tutta la vita a chi
l’aveva ricoperta, che costituiva quasi un titolo nobiliare. La consuetudine prescriveva che per poter essere
eletti consoli bisognasse appartenere a famiglie della nobilitas, vale a dire famiglie che potessero vantare
antenati consoli. Si trattava comunque di una consuetudine, non di una legge: in casi eccezionali vennero
eletti al consolato anche homines novi. Era detto homo novus il primo membro di una famiglia a essere
eletto console: teniamo presente che mentre oggi un “nome nuovo” è un termine positivo sulla scena
politica, a Roma l’aggettivo novus aveva sempre una sfumatura dispregiativi.

L’alfabeto fonetico è una grande invenzione fenicia, avvenuta verso la fine del II millennio a.C. Essa
presuppone una raffinata capacità di riflessione sul linguaggio umano: la capacità cioè di scomporre il
parlato nei suoi costituenti minimi (i fonemi), per associare poi ad ogni fonema un segno grafico. Si tratta
cioè di capire che due parole come pane e cane si differenziano tra loro solo per un’unità minima (il fonema
/p/ opposto al fonema /k/), che non ha in sé alcun significato, ma ha solo la funzione di “distinguere” il
significato. L’alfabeto fenicio si differenzia così dai sistemi scrittorii delle grandi civiltà orientali, che non
erano andate al di là della semplice constatazione che ad ogni parola corrisponde un significato. Le grafie
geroglifiche e cuneiformi erano infatti in origine sistemi di tipo pittografico (ogni segno grafico era
un’immagine per designare un oggetto), e successivamente sillabici (poiché alcuni nomi d’uso comune
erano costituiti da una sola sillaba, si fece corrispondere a ogni segno grafico una sillaba). L’economia del
numero di segni e la semplicità della forma dell’alfabeto fonetico fenicio decretarono il suo immediato
successo e la sua rapida diffusione, in Grecia e poi in tutto il Mediterraneo. La mediazione etrusca
L’alfabeto greco giunse a Roma assai presto, già nell’VIII secolo a.C., attraverso la mediazione etrusca, dalle
colonie greche d’occidente. Il processo di acculturazione greca a Roma era iniziato dunque assai prima della
nascita della letteratura, e non ad opera di intellettuali, ma di mercanti e artigiani: la scrittura si diffuse nei
porti e nei mercati, prima ancora che nelle scuole.

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