Sei sulla pagina 1di 6

MARIANO MALAVOLTA

Come si diventa Romani: communio iuris e propagatio ciuitatis. 1


La conversazione di questa sera si giova di un titolo “rubato” (in senso buono,
ovviamente) al ben noto lavoro recente di Luigi Capogrossi Colognesi, alla cui
presentazione – al Museo delle Navi di Nemi il 24 settembre 2023 – ho avuto
occasione di partecipare, accanto a Daniela De Angelis (direttrice del Museo), Filippo
Coarelli, Anna Pasqualini e Francesca Diosòno 2. Un volume di oltre seicento pagine
che raccoglie e illustra magistralmente la complessa problematica connessa con
l’espansione della cittadinanza romana nell’Italia antica, che qui certo non potrò
trattare, nemmeno sunteggiando: mi limiteremo a rispondere con la massima
semplicità a una domanda che potrebbe essere fatta nel corso di un esame di storia
romana o di antichità romane e a elencare le occasioni di quella che di fatto fu la
progressiva e inarrestabile trasformazione di quasi tutti gli abitanti dell’ecumene
antica in cittadini romani.

Già nella domanda “come si diventa Romani” è in parte contenuta la risposta:


Romani non solo si nasce, ma si “diventa”, e non sempre fu difficile quel
“diventarlo”.

Non meno importanti sono le parole del sottotitolo, che rinviano alla connessione fra
communio iuris e propagatio ciuitatis, perché, almeno a partire dalla metà del IV secolo
a.C., fu la communio iuris a favorire la propagatio ciuitatis (nella locuzione latina si
allude alla ciuitas, ossia al diritto di cittadinanza, che progressivamente si estende
includendo pagi vicini).

Tutto ha inizio dalla nascita della communio iuris, che è quello della nascita della
ciuitas, quando Romolo, fondatore e primo re, riunì per la prima volta gli abitanti
della neonata città e, come annota Livio, stabilì le “regole del gioco” (iura dedit)
individuando nei iura, ossia nei “diritti” del cittadino della nuova città, il cemento
comunitario della ciuitas, già formata da stirpi diverse: Latini, Sabini, Etruschi che
avevano dato luogo al sinecismo della città del Palatino nata al confine (il fiume
Tevere) che separava il Lazio, sulla sponda sinistra, dall’Etruria, sulla sponda destra:
lo stesso Romolo aveva in qualche modo dato l’avvio alla propagatio oltrepassando il
fiume e aggiungendo alla città il Trastevere, appartenente ai rivales (ossia quelli
stanziati di là dal fiume) e dunque all’etrusca Veio (ripa Veientana). La leggenda
racconta poi che già qualche mese dopo la fondazione si accrebbe il contributo della
stirpe sabina, e a farne le spese furono le sabine del ratto fatale, quale che sia il
valore da attribuire alla tradizione mitica; fu poi la volta delle città vicine, inglobate
da Roma: Antenne, Cenina, Politorio, Ficana, Tellene, cui seguirono la sconfitta e la

1
Te s t o d el l a pr i ma l e z i one de l C or s o d i A rc he o l ogi a , Sto ri a , Art e e Tra d iz i on i t ra R om a e i C o ll i A lba n i ,
or ga ni z za t o dal l ’ Ar c he oc l ub A r i ci n o Ne m ore n se APC , sv ol ta ad Ari c c ia , ne l l a S a l a B a ria ti nsky d i
Pa la z z o C hi g i i l 1 4 fe bbr a io 2 0 2 4 .
2
L. C A P O G R O S S I C O L O G N E S I : Co me si di v e nta R o m a n i. L ’e sp a n si o n e de l pot er e rom a no i n Ita li a, s tr um e nt i
i st i t uz i o na li e l og ich e d i p ot er e, Na pol i (J ov e ne ), 2 0 2 2.
“distruzione” di Alba Longa, i cui abitanti trasferiti a Roma divennero Romani; l’ager
Romanus giunse quindi al Tirreno con la fondazione di Ostia, la prima colonia.

A queste ricostruzioni erudite del passato mitico va affiancata, ovviamente, la


consapevolezza dell’appartenenza alla stirpe latina, che a Roma aveva fornito un
comune idioma, il latino appunto, condiviso con le comunità dei prisci Latini 3, ma
anche in qualche modo sancita dal foedus Cassianum del 493, dopo la caduta della
monarchia (latino-sabina-etrusca): senza scendere troppo nei dettagli (e passando in
rassegna eventi che qualsiasi studente può apprendere da un manuale) dobbiamo
ricordare che Roma fu partecipe, agli inizi della sua storia, di una latina communio
iuris, che aveva il suo centro sul mons Albanus, che anche dopo la distruzione di Alba
continuò ad ospitare la ricorrenza delle feriae Latinae. La ciuitas Romana, dopo questa
fase iniziale di appartenenza alla federazione delle genti latine, vide presto in
quest’ambito federale l’irresistibile affermazione del predominio della città divenuta
egemone. Ma anche dopo la guerra latina degli anni fra il 340 4 e il 338 (conclusasi
dopo la vittoria romana) i vincitori non rinnegarono la loro antica appartenenza alla
stirpe latina, ma seppero farne (per merito della genialità del loro senato, ossia della
loro aristocrazia) il più efficace strumento di espansione della propria sovranità.

Le prime città latine incluse nel 338 a pieno titolo (optimo iure) nell’ager Romanus
furono Lanuvium, Aricia, Nomentum e Pedum, che divennero municipii, ossia
appartennero da allora a comunità di cittadini romani che rispondevano ai magistrati
dello stato romano (divenuto loro vera patria), mentre le rispettive comunità
cittadine, in quanto tali, godevano di una limitatissima giurisdizione. La loro nuova
condizione di municipes non era una novità, dal momento che già prima del 338 un
primo municipium era stato costituito a Tusculum, non sappiamo di preciso da quanti
anni, ed è assai probabile che sia stata una decisione in parte punitiva dei ceti
dirigenti di quella città. Inoltre esisteva formalmente (già prima del 338) un
municipio costituito dagli abitanti di Cere, istituito nel 353 dopo la concessione ai
Cèriti della ciuitas sine suffragio: una specie di cittadinanza solo onoraria, senza diritti
politici effettivi (non potevano votare nei comizi), conferita alla città etrusca per
aver accolto i sacra del popolo romano mentre Roma veniva devastata dai Galli nel
390, assicurando la continuazione, anche in quel frangente, delle cerimonie del culto.
Fu inoltre questa, a ben vedere, la più antica attestazione della trasformazione del
diritto di cittadinanza da espressione di un’appartenenza etnica a status giuridico o
anagrafico, se pensiamo che di fatto le tabulae Caeritum continuarono ad essere
aggiornate per includervi gli aerarii, ossia i cittadini romani privati del diritto di voto,
ma soggetti ai munera gravosi dei cittadini optimo iure. Fu la prima volta che la
communio iuris si estendeva, anche se parzialmente, ben oltre il confine del Tevere, nel
pieno del territorio etrusco.

La gestione politica di questa propagatio ciuitatis fu sapientemente gestita dal senato


fino al 241 a.C., e portò all’ampliamento del numero delle cosiddette tribù rustiche,
che in quell’anno divennero 31, aggiungendosi alle quattro tribù urbane: la divisione

3 S ui p r isc i, o a nch e ca sci La ti ni si v e da no le te s ti m o ni a n ze ra c c ol te ne l Th . l . L . s otto l a v oc e ca sc u s,


ol tre c he s ott o la ste s sa v oc e Ca sc us ne l v ol ume d e ll ’ o n om ast i c o n.
4
La ba t ta g l ia de l 3 40 e bb e l u og o a Ve s er i s , a l le pe ndic i de l Ve su vi o.
in tribù restò poi ferma al numero di 35, ed esse funzionarono come registro
anagrafico dei cittadini romani, le cui proprietà, divenute fundi, formavano il
territorio dello stato romano. Vi erano inoltre legami derivanti dai patti stipulati con
i socii italici, e fra costoro vanno considerati in un certo modo privilegiati i socii
nominis Latini, ossia i prisci Latini – ad esempio – di Tivoli e Preneste (che avevano
conservato i diritti acquisiti anticamente con il foedus Cassianum, ossia ius commercii, ius
connubii e ius migrandi; ora però questi iura funzionavano esclusivamente verso Roma,
impedendo relazioni fra le singole città latine, secondo l’invenzione tutta romana del
diuide et impera); ai prisci Latini furono equiparati, con le stesse limitazioni, i Latini
coloniarii, ossia gli abitanti delle colonie latine dedotte prima o dopo il 338, che talora
erano composte da elementi della plebs urbana che ricevevano lotti di terreno nella
nuova patria, ma dovevano rinunciare alla piena cittadinanza. Vi erano poi, accanto ai
cittadini romani e ai socii di diritto latino, i socii non latini (i socii italici, come
abbiamo detto poco fa), che erano foederati, ossia soggetti alle clausole dei patti da
ciascuna comunità stretti con Roma, che comportavano l’obbligo di fornire
regolarmente ai magistrati romani incaricati della leva l’elenco dei loro giovani in età
di servizio militare.

In conclusione, senza entrare in una stucchevole descrizione degli innumerevoli casi


particolari (magistralmente trattati dal Capogrossi Colognesi), basterà dire che questo
sistema di alleanze (definito dagli storici “ordinamento scalare”), di notevole
pesantezza per gli obblighi che esso comportava, continuò a crescere e ad articolarsi
con grande complessità fino al momento cruciale del cosiddetto bellum sociale degli
anni 91-89: la guerra combattuta fra i Romani e i socii latini e italici insofferenti del
giogo romano. Si trattò della più sanguinosa delle guerre combattute sul suolo italico,
che comportò gravissime perdite da ambo le parti e si risolse, per farla breve, con
una generale concessione della cittadinanza romana ai superstiti, che peraltro non
evitò il prolungarsi dell’odio fraterno nell’interminabile secolo delle guerre civili.
Vale la pena di sommariamente ricordare i provvedimenti legislativi che accrebbero il
numero dei cittadini: la lex Iulia del 90, che dava la cittadinanza a socii latini e italici
rimasti fedeli a Roma nella guerra; la lex Calpurnia dell’89, forse più propriamente un
plebiscito fatto votare dal tribuno della plebe Lucio Calpurnio Pisone, che garantiva
un premio al valore per coloro che avevano combattuto per Roma senza essere
cittadini romani (noto da un frammento dello storico Sisenna); la lex Plautia Papiria
dell’89, che concedeva la cittadinanza a tutti coloro che ne avessero fatto richiesta al
pretore urbano entro 60 giorni; la lex Pompeia dell’89, che estendeva la civitas alla
Cispadana e costituiva municipi romani nella Transpadana, e che era stata fatta
votare dal console Pompeo Strabone. La completa unità della penisola fu
regolarizzata con provvedimenti successivi da Gaio Giulio Cesare il dittatore, e da
Augusto, artefice del nuovo ordinamento dell’impero, che diede la formazione
definitiva di un’Italia tutta romana, divisa nelle undici regiones, comprese le
transpadane (X o Venetia et Histria e XI o Transpadana).

Altra modalità di accrescimento della ciuitas furono le concessioni personali (a singoli


o a comunità) fatte da imperatores come Mario, Silla, Cesare e i triumviri, mentre altre
porte di accesso alla cittadinanza furono le magistrature rivestite nelle comunità di
diritto latino, o la cittadinanza concessa a militari congedati dopo aver prestato
servizio – questo specie a partire da Augusto – nei corpi ausiliarii formati con il
reclutamento di peregrini, ossia di non cittadini, e anche questo tipo di ingresso nella
ciuitas proseguì per opera dei successori di Augusto, fino alla constitutio Antoniniana
del 212, nota anche come “editto di Caracalla”, che determinò un enorme aumento
dei cittadini romani, includendo i nati liberi di tutto l’impero (diverse decine di
milioni di individui), che assunsero tutti il gentilizio Aurelius (il gentilizio di
Caracalla, autore del provvedimento), che nelle epigrafi, a partire dal terzo secolo, di
fatto viene per lo più abbreviato Aur.

Ho lasciato per ultima una delle più efficaci porte d’accesso alla cittadinanza romana:
quella delle manumissiones, che garantivano all’erario un provento pari al cinque per
cento del valore dello schiavo manomesso (una vicesima, dunque, chiamata anche
vicesima libertatis) in seguito a una legge fatta votare addirittura nel 357 a.C. (siamo
nella prima metà del IV secolo!) dal console Gneo Manlio Capitolino in territorio di
guerra, convocando i comizi nel campo presso Sutri. Sappiamo fra l’altro che qualche
secolo dopo per i soli 32 anni intercorrenti fra l’81 e il 49 a.C. il gettito di questa
uicesima presuppone la manumissio di almeno mezzo milione di schiavi, in un periodo
in cui, secondo il censimento del 70-69 a.C., il numero totale dei cittadini romani
non raggiungeva il milione. Questo corrisponde a ciò che sappiamo sul mercato di
Delo, nel quale venivano venduti in un solo giorno all’incirca diecimila schiavi, che
poi venivano utilizzati dai loro padroni (domini) per qualsiasi mansione, alla stregua
di instrumentum vocale (ossia quasi attrezzo parlante, accanto all’instrumentum semivocale
e all’instrumentum mutum), ma che molto spesso erano apprezzati per le loro capacità e
premiati con la libertà e dunque la cittadinanza (con l’unica limitazione che,
diversamente dagli ingenui, i libertini potevano essere sottoposti a tortura in
procedimenti giudiziari e non avevano mai accesso alle cariche pubbliche) 5. Sembra
assai evidente che i criteri di larghezza nell’estensione della cittadinanza, praticati
dalla classe politica dirigente romana specie nella tarda repubblica e per tutta l’età
imperiale, fino all’editto di Caracalla del 212, furono largamente condivisi nel privato
dalla stragrande maggioranza dei cittadini, che fecero la loro non piccola parte
nell’affidarsi a criteri di meritocrazia e “accoglienza” nella promozione di ceti
inferiori per status ma forniti di apprezzate capacità.

La veloce rassegna delle tappe dell’inarrestabile estensione della cittadinanza romana


fra la Roma dell’Asylum romuleo inter duos lucos e l’editto di Caracalla ha evidenziato
con inoppugnabile chiarezza il legame profondo fra communio iuris e propagatio ciuitatis,
che di fatto conseguì due risultati miracolosi: la nascita dell’Italia (romana) e la
raggiunta unificazione giuridica dell’ecumene antica e dei suoi sessanta o forse più
milioni di “cittadini” romani. Quanto al primo di questi risultati basterà pensare che
la vitalità della nuova realtà giunta a maturazione in età augustea non fu fenomeno
effimero, tanto che ancora Dante può definire l’Italia “giardino dell’impero”, e

5
Co ntra r i a me n te a qua nt o me ndac e me nte a ffe r ma to ne i te s ti e pi g ra fi c i c he ha n no re s ti tu i to l e tte re
de l r e di Ma c e d on ia F i li pp o V , c on e s or ta zi one a gl i a bi ta nti d i La ri sa i n Te s sa gl ia ad i m i ta re l a
gr a nde li be r al ità d e i R oma ni , c he a ffid a va no a e x sc hi a vi a nc he le ma gi str ature : Sy l l . 3 5 43 = I. L. S .
8 76 3 ; s i tra tta , ov v ia me nte, di un a af fe rm a zi o ne fal sa, c on i nte nt i de ni gr at or i de l c o m por ta me nt o
de i su oi gra nd i a vv e rsa ri .
piangere per il declino dell’antica grandezza ridotta ormai ad esser “serva Italia, di
dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta”, con quel che segue. Ho detto
spesso ai miei studenti che l’Italia romana di fatto non fu la prima “nazione”, ossia
che essa non nacque come tale, ma anzi dopo il superamento della divisione in
“nazioni” che aveva avuto il suo ultimo sussulto nella battaglia di Sentinum del 295
a.C. Sarebbe più corretto dire che l’Italia per la prima volta nella storia dell’umanità,
fu un “modello” che finì col divenire “matrice” delle nazioni che – dopo qualche
secolo – avrebbero consolidato una loro (subalterna) identità staccandosi dal cuore
esausto dell’impero e dando luogo agli esiti della storia moderna e purtroppo anche
contemporanea. Oggi sta tornando di moda il vocabolo “nazione”, e si tende ad
identificare il modello di nazione con un fazzoletto di terra recinto da filo
spinato(magari “avanzato” dal muro di Berlino), e non occorre richiamare la
sequenza nazione-nazionalismo-nazismo per sottolineare la valenza “divisiva” del
vocabolo, che è dichiarata anche nella sua etimologia, che la fa risalire ovviamente al
latino natio, che però – si badi bene – iniziò ad essere usato proprio a partire dall’età
imperiale, specie nel linguaggio delle epigrafi, per distinguere i cittadini romani nati
in provincia e che dunque non potevano dichiararsi domo Roma o domo Italia, e
venivano qualificati dalla loro regione o provincia o addirittura località di
provenienza (natione Hiberus, Hispanus, Graecus, Graius, Suebus, Thraex, Afer ma anche
Thesprotius, Alexandrinus, Samius, Phoenix, Smurnaeus, Biturix, Surus, Aeduus, Brigas etc.).
Ma mentre i nostri antichi progenitori proseguirono speditamente nel realizzare la
reductio ad unum che dopo la costruzione dell’Italia romana puntò risolutamente
all’impero universale (realizzato poco più di due secoli dopo), noi abbiamo
sclerotizzato lo schema delle nazioni prodotte dalla destrutturazione dell’impero, al
punto che oggi sembra quasi si rivendichi una specie di parità dell’Italia con le vere
nazioni come Germania, Francia, Inghilterra, Spagna: una parità (in perdita) che da
noi ha dovuto aspettare il Risorgimento e la conquista dell’unità nazionale, per non
parlare del progetto europeo del Manifesto di Ventotene (non a caso ispirato da un
italiano, Altiero Spinelli) che ai nostri giorni si sta impantanando irrimediabilmente
in un burocratismo a tratti ridicolo.

Da quello che abbiamo detto risulta evidente la inoppugnabile realtà, dall’asylum


romuleo all’editto di Caracalla, della spiccata propensione del genio romano
all’accoglienza e alla “transnazionalità”, che nel contesto da noi esplorato stasera
richiama una questione già ben impostata da Santo Mazzarino 6 sulla “grande antitesi:
gli evangelii di Augusto e l’evangelio di Gesù” [p. 154 sgg]. In effetti il saeculum
Augustum fu caratterizzato da queste attese diciamo pure (grossolanamente)
“messianiche” di una imminente trasformazione che avrebbe portato con sé una
palingenesi salvifica dell’umanità: già nei versi commentatissimi della quarta ecloga di
Virgilio (vv. 4-10) si allude ai vaticini dei libri Sibillini che accennano al nuovo ciclo
temporale (nouus ab integro saeclorum nascitur ordo) e alla nascita di un fanciullo che
porrà fine all’età ferrea e darà l’avvio ad una nuova aurea aetas e al ritorno dei
Saturnia regna (e si è pensato da qualcuno che in questo fanciullo il poeta abbia voluto

6
S . M A Z Z A R I N O , L’ i mp ero ro ma n o, R om a -B a ri [ L a ter za] v ol. I [1 9 7 3 ] p . 1 54 s gg ., le ttu r a d i e n or me
i nter e s se per l a c om pr e nsi one de l c on te s to s t or ic o nel qua le ope rò l ’ a pos t ol o P a ol o.
alludere ad Asinio Gallo, figlio di Asinio Pollione) 7. Ancora più stretto il
collegamento con gli euanghélia (ossia “annunci di felicità”) che trasmette il
proconsole d’Asia Paullus Fabius Maximus 8 che in una lettera a noi nota da un testo
epigrafico esorta il koinòn della provincia a scegliere come giorno iniziale del nuovo
anno e della nuova era il 23 settembre del 63 a.C., data di nascita del dio Augusto,
per il cui merito “ormai gli uomini non si pentivano più d’esser nati”. Per quanto
riguarda l’evangelio di Gesù, infine, non è per caso che proprio il cittadino romano
Paolo (di Tarso), che nella lettera ai Romani (11, 13) si definisce “apostolo dei pagani”
abbia così ostinatamente predicato, già a partire dal 32 o 33, in totale disaccordo con
le convinzioni delle comunità giudaiche, ma anche ebreo-cristiane, la necessità di
aprire la nuova religione anche ai gentili non circoncisi, per i quali ovviamente non
poteva esserci (per un Romano) alcun motivo di esclusione dalla nuova religione.
Diversi furono, da parte degli oltranzisti, i tentativi di eliminare lo scomodo
“apostolo”, e in uno di questi casi egli poté sottrarsi al linciaggio, nel tempio di
Gerusalemme, proprio perché tratto in arresto come sobillatore da un intervento
della guarnigione romana: minacciato di fustigazione decise di rivelare la sua
cittadinanza romana (il famoso ciuis Romanus sum), il che costrinse il tribuno che
aveva il comando della guarnigione a portarlo a Cesarea dove Paolo si appellò al
giudizio dell’imperatore. Fu questa circostanza che consentì all’ “apostolo” di
continuare la sua predicazione dell’evangelo dell’acrobystia, estesa ai pagani non
circoncisi, che ebbe così in lui il vero fondatore della religione “cattolica”, ossia
universale.

L’argomento polemico verso i suoi antichi correligionari era in ogni occasione


acuminato e provocatorio, come quando nella stessa lettera ai Romani 9 egli svilisce in
modo inequivocabile la vacuità degli argomenti oppostigli: “certo, la circoncisione
(peritomè) è utile se tu attui la legge; se invece sei trasgressore della legge la tua
circoncisione è diventata prepuzio (akrobystìa)”.

Soltanto un cittadino romano, protetto dall’ordine costituito di quell’impero di cui


egli si sentiva parte integrante, poteva osare una tale battaglia ideologica, che
avrebbe reso fondamentale la sua opera per la costruzione della Chiesa universale,
così come universale si avviava ad essere quella ciuitas romana che avrebbe protetto
tutti gli abitanti dell’ecumene con lo scudo del ius civile, includente tutti gli umani.

7 S ul l ’ ide n ti tà d el p uer de l v er s o 8 si ve da F . D E L L A C O R T E , i n “ E nc . v i rg il ia na ” I V [ 1 98 8] p. 3 42 s g. ,
dov e s i pr e fe r i sc e l a s ol uz i one che no n d i u n p u er s i s i a tra tt at o, m a di u na p u e lla , oss i a A n toni a ,
fi g l ia di Mar c o A n to ni o e Ot ta v ia ( sore l l a de l fut u ro Au gu st o).
8 P er i l q ual e si v e da PIR 2 III [ 19 4 3 ] p. 1 0 3 . All a p. 1 6 9, n ota 3 6 , il Ma z zar i no ac c a re z za l’ i de a , c he

pe r ò c onv i nta me nte re s pi ng e c ome i mp or oba bi l e , c he i l nome Pa ol o, p or ta t o da l l ’a po sto lo Pa ol o,


v ada c on si de r at o n on c ome c og n om en, ma add ir i ttu ra co me pr e no me: ci rc o s ta nza c he av re b be
potu t o d im o str ar e u n l eg ame fr a l a f a mi gl i a de l l’ a p os t ol o e il pr oc o ns ol e d ’A si a .
9 Pe r i te st i re la t iv i al l a pr e di ca zi one di Pa ol o (s opr attut t o per l a L ett era a i R oma n i 2 , 2 5 ) si r i nv i a a

S A N P A O L O . L et tere . I nt r o d uz io n e e c om me nt o d i G I U S E P P E B A R B A G L I O (c on i l te s t o gr ec o a f r on te ),
Mi la no [ B U R] 1 9 9 7.

Potrebbero piacerti anche