Balboni B2-C2
Testi di approfondimento
Questi approfondimenti sono dedicati a chi, interessato o incuriosito, vuole sapere qualcosa di più
sul contesto storico, sui movimenti politici, sui singoli personaggi della storia italiana.
Gli approfondimenti sono tutti presi da testi disponibili in internet. In queste pagine, questi testi
originali sono stati adattati, è stata semplificata la lingua e sono stati ridotti per lasciare solo le
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Collana cultura
italiana
Indice
Capitolo 1 | I primi mille anni Capitolo 6 | La lotta per l’indipendenza
1. I Romani e la religione e l’unità
2. Un capolavoro romano: 19. Romanticismo e Risorgimento
il sistema delle strade 20. Le società segrete anticattoliche
3. La vita degli schiavi 21. Il Risorgimento secondo Gramsci
4. Donne e matrimonio nell’antica Roma 22. Le differenze fra Garibaldi e Mazzini
23. Vittorio Emanuele II
Capitolo 2 | Dalla caduta dell’impero
all’anno mille Capitolo 7 | Dall’Unità alla Grande
5. I Longobardi Guerra
6. Il feudalesimo 24. La struttura amministrativa del Regno
7. Le grandi biblioteche dei monasteri d’Italia: accentrata o decentrata?
8. Gli arabi in Sicilia 25. I primi 30 anni del Partito Socialista
Italiano
Capitolo 3 | Dai Comuni alle Signorie 26. Il colonialismo italiano tra 1882 e 1896
9. Le Repubbliche marinare 27. La nascita del Partito Popolare Italiano
10. La Serenissima e il finanziamento dei
mercanti Capitolo 8 | Il primo Novecento
11. Il potere dei baroni del Sud 28. Il mito di Mussolini
12. La corte di Lorenzo il Magnifico 29. La Resistenza italiana
Capitolo 4 | Lo splendore del Capitolo 9 | Il secondo Novecento,
Rinascimento l’inizio del Duemila
13. La cultura della Controriforma 30. Elezioni che hanno fatto la storia:
14. Venezia, la città più ricca d’Europa 18 aprile 1948
31. Il Partito Comunista Italiano
Capitolo 5 | I secoli della crisi 32. L’Italia del miracolo economico
15. Il clima e la crisi del Seicento 33. Gli anni di piombo
16. Le accademie scientifiche del Seicento 34. Tangentopoli, la città delle tangenti
17. L’economia italiana nel Settecento 35. L’ingresso dell’Italia nell’Euro
18. L’Italia napoleonica
Capitolo 1
1
I Romani e la religione
Testi di approfondimento
Per i Romani, assai meno inclini alla filosofia dei
Greci e fortemente legati a una visione pragma-
tica della vita, la religione era associata con la
vita pubblica, nel senso di un’identificazione tra
religione e politica a livello pratico.
Da un lato c’era un aspetto privato della vita
religiosa, cioè il culto (l’adorazione, il rispetto
dovuto a un dio) delle divinità della propria fami-
glia, della propria casa; dall’altro c’era la religione
pubblica, il cui scopo era mostrare e conservare
rapporti giusti tra la città e gli dèi, in modo che
gli dèi fossero sempre favorevoli. I Romani chia-
mavano questo rapporto pace con gli dèi (pax
deorum). Somigliava a un contratto: bisognava
tenere tranquilli gli dèi e non fare azioni che li Animali pronti per il sacrificio agli dei.
offendessero, che facesse mancare il loro appog-
gio. Questo era possibile realizzando con estrema attenzione i riti e i sacrifici previsti per ogni specifica occasione.
Infatti la parola religio, “religione”, ha in latino il duplice significato di “osservanza attenta, precisa” e di “impegnarsi
di fronte agli dèi”. Così se, per esempio, una battaglia non andava a buon fine, se ne cercavano le ragioni anzitutto in
un errore che poteva aver rotto la pace con gli dèi. La religione romana quindi era molto precisa sulle regole di com-
portamento.
La parola che meglio descrive l’atteggiamento religioso romano è pietas, che non corrisponde né alla pietà come la pen-
siamo oggi né alla carità cristiana. La pietas esprimeva il sentimento del dovere, del rispetto e anche dell’affetto dovuti
anzitutto agli dèi, ma anche ai genitori e in particolare al padre.
La religione romana, come ogni religione, aveva dei luoghi sacri. Agli dèi familiari si rendeva omaggio privatamente
nella propria casa. Alle divinità nazionali erano invece dedicate cerimonie pubbliche e in loro onore si facevano sacrifici:
alcuni erano simbolici, ad esempio dedicare alla terra un goccio di vino prima di iniziare un pranzo, altri crudeli, con
uccisione di animali e, in alcuni momenti soprattutto nei primi secoli, forse anche di esseri umani.
Le religioni hanno dei sacerdoti. Alle origini di Roma i sette re erano sia capi politici sia sacerdoti, avevano la respon-
sabilità del contatto tra la città e gli dei. Poi si formò un collegio di pontefici, cioè un gruppo di ‘costruttori di ponti’
(ponti-fex, colui che fa da ponte) tra la città e gli dei. Il Collegio era presieduto dal pontifex maximus, pontefice mas-
simo, responsabile dell’osservanza delle leggi religiose e dei riti. Ma erano i senatori a controllare il comportamento
religioso dei cittadini.
Da Giulio Cesare in poi, che assume anche la carica di pontifex maximus, il potere politico si rafforzò con il potere
religioso, almeno fino al IV secolo, periodo in cui il Cristianesimo diventa religione ufficiale e quindi l’imperatore non
è più un dio in terra.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 3
Capitolo 1
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Un capolavoro romano: il sistema delle strade
Le strade sono state le fondamenta della potenza di Roma: una fitta rete di vie che permetteva di raggiungere ogni an-
golo dell’impero. La mappa della rete stradale si trovava nel foro della capitale, incisa nel marmo. Chi ne aveva bisogno
poteva farsi fare una copia della parte che gli serviva. Le vie partivano da Roma e si allargavano in tutte le direzioni.
Spesso prendevano il nome da chi le aveva fatte costruire, ad esempio via Flaminia, via Aurelia, ecc.
Le strade di Roma sono nate come vie militari, utilizzate dall’esercito per raggiungere i confini dell’impero. Su queste
strade i carri potevano muoversi rapidamente senza pericolo grazie all’efficiente pavimentazione e ai ponti che supera-
vano i fiumi.
La rete stradale circondava tutto il Mediterraneo: circa 100.000 km di strade lastricate (oggi diremmo ‘asfaltate’) e altri
150.000 km di strade in terra battuta (su cui potevano passare i carri): una rete sufficiente a fare sei volte il giro della
Terra. Da nord a sud, la rete stradale andava dalla Scozia fino alle coste del Mar Rosso, mentre da ovest a est dalle coste
atlantiche del Portogallo fino all’Arabia e all’Iraq.
La lunghezza delle strade era segnata sulle pietre miliari, colonnine in pietra sul ciglio della strada che indicavano
la distanza in miglia dal centro di Roma (un miglio romano corrisponde a circa un chilometro e mezzo). I ponti erano
costruiti in legno o in pietra e molti ponti romani sono utilizzati ancora oggi. Il più lungo è quello fatto costruire
dall’imperatore Traiano sul Danubio: oltre 2,5 km. I carri potevano viaggiare a circa 30 km all’ora; cambiando i cavalli
nelle stazioni, costruite lungo le strade, i soldati che portavano messaggi potevano percorrere anche 270 km al giorno.
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Capitolo 1
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La vita degli schiavi
Testi di approfondimento
Considerati come cose, gli schiavi appartenevano ed erano a completa disposizione del padrone che li aveva comprati.
C’erano diversi modi per diventare schiavi:
- persone nate da una madre schiava;
- persone che perdono la condizione di uomo libero: figlio venduto dal padre, cittadino straniero prigioniero di guerra,
cittadino romano o straniero catturato dai pirati e incapace di pagare il proprio riscatto;
- persone condannate da un tribunale alla perdita della libertà personale;
- persone che diventavano proprietà del creditore perché non potevano pagare i debiti.
Gli schiavi non avevano personalità giuridica, cioè non esistevano come persone con diritti: non potevano avere cose di
loro proprietà e neppure una famiglia; se nascevano dei figli, questi erano di proprietà del dominus, il padrone.
Gli schiavi eseguivano qualsiasi tipo di attività lavorativa dell’epoca, dal falegname al muratore, dal giardiniere all’a-
gricoltore o all’allevatore di animali. Alcuni schiavi che venivano da ambienti culturali colti facevano gli insegnanti,
soprattutto di lingue e in particolare di greco. Altri schiavi lavoravano in professioni più specializzate, come ad esempio
l’architettura, la recitazione a teatro, o perfino la filosofia e la poesia.
Una delle funzioni degli schiavi era la cura estetica ed il benessere fisico dei padroni. Si occupavano del bagno, dei
massaggi, del trucco, dei vestiti ed erano utilizzati anche come mag-
giordomi, ricevevano gli invitati, raccoglievano la toga ed i calzari (le
scarpe dei romani). I più graziosi e gentili servivano il vino, tagliavano
la carne e la frutta. Spesso nelle famiglie più ricche ogni invitato aveva
un servus ad pedes, che rimaneva per tutto il tempo seduto ai piedi
dell’ospite, pronto a soddisfare ogni suo desiderio, anche sessuale.
Le condizioni degli schiavi migliorano con il passare dei secoli: durante
la Repubblica il padrone ha diritto di vita e di morte sullo schiavo, ma
lentamente vengono approvate leggi che impediscono l’eccesso di cru-
deltà e di violenza nei loro confronti.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 5
Capitolo 1
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Donne e matrimonio nell’antica Roma
Nella Roma dei primi secoli una figlia, ancora giovanissima, poteva essere fidanzata, anche contro la propria volontà, a
un giovane e questo obbligava la donna alla fedeltà anche prima del matrimonio. Una donna poteva essere fidanzata già
a 12 anni, possiamo parlare di spose-bambine, e abbiamo documenti che parlano di ragazzine sposate a 10 e 11 anni: il
matrimonio era pienamente valido anche se non veniva ‘consumato’, se non c’erano stati rapporti sessuali.
I matrimoni venivano decisi dalle famiglie e i motivi erano sempre di natura economica o di alleanza politica: l’assenza
di un vero amore reciproco non rendeva il matrimonio meno stabile. D’altra parte i
romani si sposavano soprattutto per avere figli e nella sessualità avevano atteggia-
menti piuttosto liberi, almeno da parte degli uomini (le donne avranno la stessa
libertà solo in epoca imperiale).
Il fidanzato consegnava alla ragazza un anello che lei si metteva all’anulare della
mano sinistra.
La forma più solenne di matrimonio era quella con il panis farreus, un pane preparato
con un antico cereale, il farro, che veniva mangiato dagli sposi appena entrati nella
nuova casa. C’erano però altre due forme meno solenni di matrimonio: da un lato, la
vendita simbolica con la quale il padre cedeva la figlia allo sposo e riceveva dei soldi
in cambio, dall’altro il riconoscimento del matrimonio ‘di fatto’, dopo che la donna
aveva vissuto con un uomo per un anno intero.
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Capitolo 2
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I Longobardi
Testi di approfondimento
Quello dei Longobardi è un popolo inquieto ma flessibile: cambiano spesso le loro tradizioni sotto l’influenza dei popoli
con cui vengono a contatto.
Arrivano dal sud della Svezia, ma quando cercano di entrare nell’Impero Romano sono sconfitti e si fermano fuori dal
confine, in quella che oggi è la Repubblica Ceca. Intorno al V secolo dopo Cristo i Longobardi riprendono le armi e scon-
figgono il regno degli Eruli, che andava dall’Ungheria a Vienna: un’area all’interno dell’Impero, ormai in piena decadenza.
I Longobardi non uccidono gli Eruli: li assorbono, come hanno sempre fatto con le popolazioni conquistate. I giova-
ni Eruli, anche se sconfitti, hanno quindi la possibilità di entrare nell’esercito longobardo ed hanno la possibilità di
prendere parte ai suoi successi; sono quindi moltissimi i guerrieri che si uniscono ai Longobardi seguendoli nelle loro
migrazioni e diventando lentamente longobardi anche loro.
Nel VI secolo, quando si muove verso l’Italia, il re Alboino guida un esercito formato da Gepidi, Unni, Sarmati, Svevi e
Romani delle province di Pannonia (Ungheria) e Norico (Austria). Un’autentica società
multietnica unita dalla tradizione e dal re dei Longobardi.
Inizialmente i re longobardi erano considerati quasi sacerdoti, ma ormai sono scelti in
base alla loro capacità di comandare un esercito sempre in guerra. Per mantenere pre-
stigio e comando il re deve essere, oltre che un capo politico, anche un eroe militare,
perché proprio la guerra è alla base della loro economia.
Il 2 aprile 568 i Longobardi, guidati dal loro epico re Alboino, si muovono dall’Ungheria,
Oreficeria longobarda:
attraversano il Friuli e il 3 settembre 569 arrivano Milano. All’inizio del 570 tutta la re-
cavaliere in bronzo dorato dello gione padana compresa tra le Alpi e il Po è conquistata. Terminata la conquista Alboino,
Scudo di Stabio, VII secolo, intorno all’anno 572, sceglie come capitale Verona, ma i suoi successori la spostano a
Historisches Museum, Berna Pavia, pochi chilometri a sud di Milano.
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Capitolo 2
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Il feudalesimo
Il feudalesimo è una delle maggiori – se non la maggiore in assoluto – innovazione che dal mondo germanico si diffonde
in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano.
Carlo Magno deve amministrare un impero e quindi utilizza l’idea di società tipica delle tribù germaniche, dove ci sono
un capo della tribù e tanti capi delle grandi famiglie della tribù. Le popolazioni germaniche non hanno l’idea di Stato,
la loro società è basata sulla famiglia allargata, la tribù.
Sulla base di questo modello, Carlo Magno condivide le responsabilità di governo con i suoi uomini più fidati e i co-
mandanti più bravi: questo rapporto di fedeltà diviene la base per assegnare loro un feudo, una specie di piccolo regno
privato che può essere all’interno dell’impero (le Contee, con un feudatario chiamato conte) o sui confini dell’impero (le
Marche, controllate direttamente da un marchese a fini militari).
La classe dominante del mondo feudale ha due caratteristiche.
La prima è di natura economica: il feudatario nasce come cavaliere, cioè come persona in grado di mantenere e curare
uno o più cavalli da combattimento.
La seconda, invece, è di natura militare: il feudatario, in quanto uomo d’armi, è capace
di garantire la sicurezza sua, dei suoi collaboratori e di coloro che ne accettano il ruolo
di ‘signore’.
In realtà, i due aspetti sono strettamente collegati, in quanto è la proprietà del ca-
vallo a trasformare il feudatario in un ‘professionista’ della guerra. Quindi, imparare
a combattere a cavallo ed a convivere con lui è una tappa decisiva nella formazione
di ogni giovane nobile. Si potrebbe dire che il cavallo sia il grande co-protagonista
della società feudale, situato su un gradino appena inferiore al feudatario stesso. Il
cavallo è infatti al centro di buona parte del sistema produttivo ed occupa un ruolo di
assoluto prestigio in quanto vero status symbol dell’epoca.
Adattato da
<https://library.weschool.com/lezione/feudalesimo-il-medioevo-carlo-magno-concordato-di-worms-società-feudale-lotta-
investiture-18488.html>
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Capitolo 2
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Le grandi biblioteche dei monasteri
Testi di approfondimento
Nell’Alto Medioevo la cultura si basa sull’insegnamento orale, anche se esistono certamente raccolte librarie nelle corti
dell’Impero di Carlo Magno, dove nasce proprio la “carolina”, il carattere tipografico ancora oggi più diffuso.
Lo stesso Carlo Magno aveva finanziato la composizione di molti libri e la sua corte era diventata un centro di attività
scolastica e di correttezza linguistica. Eppure non risulta che esistesse ad Aquisgrana una vera e propria biblioteca
pubblica, ma solo raccolte personali dell’imperatore. Lo stesso avviene nel Sacro Romano Impero di Germania: anche nei
secoli successivi le biblioteche di corte hanno più il ruolo di tesoro da mostrare, composto da volumi preziosi riccamente
decorati, che di luogo di studio e di cultura.
È nelle abbazie, invece, che si forma – lentamente – il concetto moderno di biblioteca.
All’inizio del monachesimo i libri hanno solo una funzione religiosa: vengono dati ai monaci nelle ore dedicate alla
lettura e messi in uno spazio ricavato nella parete, insieme agli altri strumenti di lavoro.
Nella Regola scritta per i suoi monaci, San Benedetto ordina che tutti, nelle settimane prima di Pasqua, ricevano in
lettura codices de bibliotheca. La parola “biblioteca”, però, in questo caso sta per “Bibbia”. Non esistono ancora né un
luogo dedicato ai libri, né lo studio o la conservazione di volumi che vadano oltre le Sacre Scritture e qualche opera di
carattere religioso.
È in Irlanda che si inizia il recupero e la trasmissione del patrimonio della cultura greco-romana, superando il rifiuto
ascetico della cultura. Poco dopo, nelle abbazie europee nascono gli scriptoria, dove i monaci sono impegnati a copiare
gli antichi testi.
Non c’è ancora, tuttavia, una precisa distinzione tra
scriptorium, biblioteca e archivio. Nell’abbazia di San
Gallo, progettata nel IX secolo, biblioteca e scriptorium
sono ancora insieme (è proprio questa la biblioteca che
ispirerà a Umberto Eco la biblioteca immaginaria del suo
capolavoro, Il nome della Rosa).
In occidente, la prima biblioteca propriamente detta è
forse quella voluta nel secolo XI dall’abate Desiderio a
Montecassino, dove viene creata una piccola stanza per
la conservazione dei libri, totalmente indipendente dallo
scriptorium. Uno scriptorium, in una decorazione medievale.
Adattato da <http://www.festivaldelmedioevo.it/portal/le-biblioteche-medievali/>
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 9
Capitolo 2
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Gli arabi in Sicilia
La Sicilia è la terra della multiculturalità: bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini e aragonesi sono le dominazioni
medievali dell’isola più importante della Magna Graecia. La dominazione araba in Sicilia è uno di quegli eventi determi-
nanti per la storia dell’isola.
Tutto ha inizio nell’827 dopo Cristo, quando gli Arabi conquistano la cittadina di Mazara del Vallo. A quel tempo, l’isola
è occupata principalmente da civiltà di origine bizantina, ma l’Impero Bizantino mostra molte difficoltà perché deve
difendersi in varie aree del Mediterraneo e dei Balcani. La scelta di attaccare la Sicilia è strategica per gli arabi, in
quanto l’isola è centrale per il commercio marittimo: è al centro del Mar Mediterraneo, è un passaggio obbligato per la
navigazione.
Gli Arabi, forti anche dei rinforzi che arrivano dall’Africa, iniziano nell’827 l’assedio a Siracusa, la città più importante,
che però in questo momento non riescono a conquistare: Siracusa, la perla del Mediterraneo, cadrà solo cinquant’anni
dopo, nell’878. Riescono invece a saccheggiare tutte le città siciliane fino a Enna, la fortezza nel cuore dell’isola che è
il vero ostacolo per i musulmani. I bizantini portano un esercito e attaccano gli arabi, che devono ritirarsi da una parte
delle terre conquistate.
Tre anni dopo il loro arrivo in Sicilia, nell’830, gli arabi conquistano Palermo, dove la peste ha ridotto il numero e la
forza della popolazione. Nell’842, con l’aiuto dei napoletani, gli arabi entrano a Messina, la città più vicina all’Italia, e
solo alla fine dell’859 arriva la vittoria a Enna. Nell’870 viene conquistata anche Malta.
La Sicilia, dopo questo periodo di lotte, diventa un Emirato arabo, governato dalla dinastia tunisina dei Fatimi, che di-
vide la Sicilia in tre grandi distretti e li affida a dei funzionari, i “Kadì”,
che sono dei ‘signori’ quasi autonomi.
Al contrario di quello che si pensa, la storia siciliana della dominazione
araba si apre con la tolleranza religiosa da parte degli islamici. I cristia-
ni possono mantenere il loro credo, sebbene sia favorita la conversione
all’Islam.
La dominazione dura circa duecento anni, portando una certa ricchezza
all’isola, punto fondamentale di scambio commerciale. Inoltre, vengono
introdotte le coltivazioni di riso e agrumi, che prima non erano presenti,
e questo porta guadagno con l’esportazione. Vengono costruiti dei nuovi
La Chiesa di San Giovanni degli Eremiti, a canali e nuovi palazzi, che si possono ammirare ancora oggi in alcune
Palermo, è di chiara progettazione islamica. zone della Sicilia.
Adattato da <https://vivalascuola.studenti.it/storia-la-dominazione-araba-in-sicilia-171116.html#steps_0>
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Capitolo 3
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Le Repubbliche marinare
Testi di approfondimento
Repubbliche marinare è una definizione che può essere usata per molte città costiere italiane che, tra il X e il XIII secolo,
diventano ricche grazie alla propria attività commerciale e alla loro forte autonomia politica. Ma generalmente questo
termine è riferito principalmente alle più potenti di queste città: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia.
La ripresa economica dell’Europa intorno all’anno Mille e l’insicurezza della comunicazione via terra trasformano le coste
del Mediterraneo nel punto di partenza o di arrivo delle nuove rotte commerciali. Questo, insieme alla sempre maggiore
indipendenza che queste città si conquistano, dà loro un ruolo di primo piano nello scenario europeo. Dal punto di vista
istituzionale, le Repubbliche marinare sono guidate da governi autonomi, di tipo oligarchico (cioè un governo di pochi)
fatto di ricchi mercanti, di banchieri e di nobili locali, che costituiscono il cuore della potenza cittadina.
Dopo la caduta dell’Impero Romano si era creato un vuoto di potere nel Mediterraneo e nelle città della costa c’erano
spesso attacchi di pirati arabi; queste città, quindi, incominciano a organizzare autonomamente la propria difesa, poi
costruiscono potenti flotte da guerra e nei secoli X e XI incominciano a fare concorrenza ai trasporti gestiti dall’Impero
Bizantino e dagli Arabi.
Inizia l’espansione europea verso l’Oriente, che porta al completo controllo delle rotte mediterranee e alla creazione
di un sistema molto simile al moderno capitalismo. I mercanti di Genova, Venezia, Pisa e Amalfi, ma anche delle altre
repubbliche meno importanti, sono quelli che pongono le prime basi del capitalismo.
Utilizzando monete d’oro che non venivano più usate da secoli, essi inventano nuove
operazioni di cambio e di contabilità e finanziano le innovazioni tecnologiche per la
navigazione, fornendo così un supporto fondamentale per la crescita della ricchezza
mercantile.
Unendo i loro sforzi, le Repubbliche marinare costruiscono il controllo italiano nel
Mediterraneo nel periodo delle Crociate, che offrono loro l’occasione di allargare i
propri domini. Venezia e Amalfi sono da tempo impegnate nei commerci con l’Oriente,
ma durante il periodo delle Crociate il fenomeno si sviluppa moltissimo e migliaia di
La bussola, lo strumento che italiani si trasferiscono in Oriente, creando basi, porti e istituzioni commerciali per
indica sempre il nord, segna
tutte le Repubbliche marinare.
un progresso tecnologico
fondamentale per la navigazione; Tutto questo porta a un aumento dell’influenza degli italiani nella politica locale delle
la bussola è perfezionata ad varie città dell’Est del Mediterraneo, perché i mercanti italiani costituiscono delle
Amalfi, con il contributo degli associazioni, delle corporazioni, che trattano con i governi locali per ottenere migliori
arabi, nell’XI-XII secolo. condizioni giuridiche, fiscali e doganali.
Adattato da <http://www.tuttostoria.net/medio-evo.aspx?code=114>
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 11
Capitolo 3
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La Serenissima e il finanziamento dei mercanti
I fattori più importanti che portano alla assoluta superiorità marittima di Venezia sono i capitali d’investimento per
l’industria e per la gestione dei mezzi navali, ed il preciso intervento amministrativo-politico dello Stato in questo
settore.
La Repubblica concede prestiti per finanziare il commercio marittimo a imprenditori legati da un contratto di ‘collegan-
za’: il finanziatore, che sa ottenere i prestiti, e il mercante, che sa fare affari, sono colleghi e partono insieme all’equi-
paggio, controllando quindi tutto il processo mercantile.
All’inizio del 1200 si formano le prime compagnie commerciali denominate Fraterne, cioè ‘fratellanze’, in cui i soci
partecipano all’attività mercantile con il capitale e con l’attività personale: investono insieme e si dividono i guadagni
e le perdite: tutto sotto il controllo dei Provveditori, funzionari della Repubblica che garantiscono la correttezza dell’o-
perazione.
Nel 1284 il governo lancia sul mercato monete d’oro e d’argento: il Ducato d’oro, detto anche Zecchino, pesa 3,65 gram-
mi, e il peso e la qualità dell’oro sono garantiti dalla Repubblica; questa moneta diventa famosa in tutta Europa ed è
per secoli una delle principali monete degli scambi internazionali.
Nel Quattrocento le strutture della finanza pubblica si perfezionarono: siccome alcuni prestiti richiesti dai mercanti allo
Stato non vengono ripagati (per fallimento, attacco da parte dei pirati, ecc.), viene costituito il Monte Vecchio, una
specie di assicurazione. Nascono i Banchi da Giro, da cui viene il nome ‘bancogiro’ che indicava gli assegni e le lettere
di credito.
Verso la metà del Cinquecento viene creato il Banco di Rialto, completamente gestito dalla Repubblica, che contribui-
sce ai finanziamenti per il mercato interno dello Stato: se l’economia deve andare avanti e creare ricchezza, non deve
mancare denaro per gli investimenti.
Adattato da Armatori, mercanti e navigatori veneziani: gli artefici del mondo globale!,
<https://venezia.myblog.it/2013/01/14/armatori-mercanti-e-navigatori-veneziani-gli-artefici-del-mo/>
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Capitolo 3
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Il potere dei baroni nel Sud
Testi di approfondimento
A Napoli, i primi successori di Carlo d’Angiò, cioè Carlo II e Roberto d’Angiò, si dimostrano buoni sovrani: allontanano
dalla corte i francesi e governano il Paese con l’aiuto dei nobili locali. Purtroppo alla morte di Roberto d’Angiò, nel
1343, comincia un lungo periodo di guerre e di disordini che porta il Regno, nel 1442, sotto il dominio degli Aragonesi
(che già nel 1420 si sono impadroniti della Sardegna).
Il conquistatore di Napoli e di tutta l’Italia Meridionale è Alfonso V d’Aragona; sotto il suo Regno, durato sedici anni,
vengono schiacciate le rivolte dei baroni locali e vengono soffocati i tentativi di riconquista degli ultimi Angioini.
Il governo di Alfonso d’Aragona è molto saggio e aperto, tanto che i poeti e gli umanisti italiani e spagnoli, che egli
riunisce nella sua corte di Napoli, gli danno il titolo di Magnanimo, persona di grande generosità.
Presto però la prepotenza dei baroni, piccoli feudatari locali, inizia un periodo di lotte e vendette che impoveriscono
il Paese, già molto povero rispetto al Nord dei Comuni e delle Signorie. Nelle regioni settentrionali i nobili sono di-
ventati banchieri o commercianti o agricoltori moderni e creano le loro ricchezze con il lavoro; anche il popolo quindi
gode di benessere perché funzionano bene l’agricoltura, l’artigianato, le arti e i commerci. Al contrario, nell’Italia
Meridionale i baroni non si occupano di nulla e passano le loro giornate oziosamente a discutere e a giocare. Riten-
gono che lavorare sia offensivo per la loro nobiltà e mantengono il loro status sociale caricando di tasse il popolo. Il
popolo deve lavorare per loro.
Fino a quando sul trono siedono dei re efficienti, il popolo si può rivolgere a loro per ottenere giustizia: i re Angioini
e, dopo, il re Aragonese Alfonso il Magnanimo aiutano il popolo con delle buone leggi. Ma i re successivi sono troppo
deboli e troppo preoccupati di difendersi da chi vuole prendere il loro posto e quindi si disinteressano del popolo e
cercano di ‘comprare’ la fedeltà dei baroni, di cui hanno bisogno perché i baroni sanno combattere: quindi danno ai
baroni sempre maggiori privilegi e maggiore libertà di sfruttare il popolo.
I baroni sono spesso in lotta fra di loro e organizzano bande di ‘briganti’, uomini violenti che rapinano ed uccidono
tutti coloro che non obbediscono. Questo contribuisce alla nascita della mafia: il barone chiede al popolo una parte
della ricchezza che produce, in cambio della protezione in caso di guerra o di attacco di briganti legati ad un altro
barone; questi baroni-mafia si sostituiscono allo Stato, che è lontano, a Napoli o a Palermo; sono tanti Stati dentro
lo Stato, hanno i loro eserciti, hanno le loro regole.
La sola risorsa del popolo è l’agricoltura. Fare commercio o essere artigiani è quasi impossibile per le troppe tasse e
per le pretese dei baroni: per molti secoli i soli mercanti in Italia Meridionale saranno i Veneziani, i Toscani e i Lom-
bardi. Ma l’agricoltura non dà buoni redditi perché i baroni, gli unici che hanno denaro, non fanno alcun investimento
per migliorare le terre, per portare l’acqua dove serve, per acquistare attrezzature, semi e bestiame. I contadini si
accontentano di quanto possono raccogliere, se l’annata è buona e se piove abbastanza. In ogni caso il meglio dei
prodotti della terra deve essere consegnato al barone, che aspetta nel suo castello. Così, mentre l’Italia Settentrio-
nale si sviluppa e progredisce, l’Italia Meridionale resta nell’immobilità e nell’arretratezza.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 13
Capitolo 3
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La corte di Lorenzo il Magnifico
Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, succede nel 1469 al padre Piero nell’amministrazione di Firenze, che ha un ruolo
centrale nella vita politica e culturale d’Italia nella seconda metà del Quattrocento. A Firenze arrivano da tutta Italia
artisti, letterati e umanisti impegnati nello studio della cultura classica. Viene inoltre fondata una scuola filosofica che
richiama il pensiero di Platone e il platonismo, e che ha in Marsilio Ficino il suo animatore.
Lorenzo de’ Medici si interessa personalmente di letteratura, non si limita quindi a proteggere artisti e letterati: è lette-
rato lui stesso, e da prima di ereditare il potere dal padre, a 20 anni; per tutta la sua vita si dedica a comporre poesia.
La sua produzione letteraria è varia e dimostra grande capacità di spaziare tra diversi stili e generi: scrive poesia ispirata
al Petrarca ma anche poesia comica e satira. Verso la fine della sua vita, anche Lorenzo ha delle inquietudini religiose
e si dedica quindi ad alcune opere di letteratura religiosa popolare, componendo alcune laude, cioè poesie religiose.
Lorenzo de’ Medici raccoglie attorno a sé un gruppo di poeti e umanisti dediti alla letteratura in volgare, dal principale
poeta ‘tradizionale’ del secolo, Poliziano, al principale poeta giocoso, comico, satirico, Pulci: entrambi sono suoi amici
intimi. E molto amici sono anche alcuni filosofi, da Pico della Mirandola, noto per la sua sconfinata conoscenza del mon-
do classico, a Marsilio Ficino, un filosofo che riprende Platone ed ha molta influenza sulla vita e sulla politica di Lorenzo.
Lorenzo ama anche le arti visive: basta ricordare due ragazzi, che chiama a sé quando sono ancora adolescenti: Leonardo
e Michelangelo – ma sono solo due dei tantissimi artisti che frequentano la corte e ai quali Lorenzo fornisce il denaro
necessario alla vita quotidiana, oltre naturalmente a pagare i blocchi di marmo da scolpire, i colori per dipingere e le
lezioni dei grandi maestri fiorentini.
A Palazzo Medici, ma anche in tutta Firenze, c’è in questi vent’anni una concentrazione di lavoro intellettuale e artistico
che poche volte si è visto nella storia dell’umanità.
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Capitolo 4
13
La cultura della controriforma
Testi di approfondimento
All’inizio del Cinquecento l’unità del mondo cattolico
viene interrotta dalla Riforma protestante (1517). Lutero
non rifiuta solo la sete di denaro dei Papi e dei vescovi,
ma denuncia anche la mancanza di cultura da parte del
clero più povero, dei parroci. Alcuni sacerdoti di campa-
gna sono infatti analfabeti e non sanno neppure leggere
il Vangelo o spiegare i la Bibbia.
Invece la cultura laica è molto più diffusa e diventa do-
minante; i laici (cioè le persone che non fanno parte
del clero della Chiesa) si sentono culturalmente forti e
cominciano a scrivere anche di temi religiosi, analizzati
dal loro punto di vista. Secondo i protestanti non c’è
bisogno del clero per interpretare la Bibbia, perché ogni
singolo credente, guidato dallo Spirito Santo, può farlo.
La Chiesa di Roma non può accettare una tale situazione
storica e culturale: nel 1545 convoca il Concilio di Tren- Il Concilio di Trento
to, primo passo della Controriforma cattolica. Alla sua
conclusione, nel 1563, Papa Pio IV pubblica un nuovo Indice dei libri proibiti, che non solo condanna alcuni libri ad
essere distrutti con il fuoco, ma porta anche gli autori di quei libri davanti al Tribunale dell’Inquisizione.
Un altro passo importante della Controriforma è il lavoro sulla cultura del clero inferiore, perché la Chiesa Cattolica
capisce che su questo tema Lutero ha ragione. Perciò il Concilio di Trento crea i seminari, cioè le scuole per preparare
culturalmente e spiritualmente i futuri sacerdoti – ma soprattutto per allontanare il clero dal contatto con la cultura
laica rinascimentale.
La Chiesa inizia una politica di propaganda dei suoi princìpi, insegnando ai sacerdoti e ai monaci le regole per la pre-
dicazione e creando ordini religiosi specializzati nell’insegnamento: in questo modo la Chiesa è sicura di diffondere gli
ideali controriformisti nelle piazze, nelle cattedrali, nei seminari e soprattutto nelle scuole.
è chiaro che in una tale situazione la cultura letteraria rinascimentale si trova in una grave crisi: la Chiesa si mostra
così potente che fuori dalla Chiesa stessa tutto sembra pericoloso, infatti il Tribunale dell’Inquisizione colpisce molto
duramente la libertà di espressione filosofica e culturale. Fondato in Italia nel 1542, sull’esempio spagnolo, il Tribunale
dell’Inquisizione uccide qualsiasi tendenza protestante ed elimina anche alcuni eretici, cioè persone che si allontanano
dall’insegnamento ufficiale della Chiesa. Galileo Galilei e Giordano Bruno (uno scienziato e un teologo) sono solo due
degli esempi di intellettuali che la Chiesa definisce eretici.
Adattato da La strategia culturale della Controriforma come reazione alla cultura rinascimentale e
la deflagrazione della cultura letteraria tradizionale di Mario Scarpellini,
<http://www.homolaicus.com/storia/moderna/riforma_protestante/controriforma.htm>
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 15
Capitolo 4
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Venezia, la città più ricca d’Europa
Dopo la guerra con Genova, nel 1381 la pace di Torino riconosce a Venezia la supremazia marinara. Fino al 1453, la sua
egemonia sull’Adriatico e il Mediterraneo Orientale è assoluta: nei secoli del Rinascimento, la Repubblica di Venezia è il
più potente e ricco Stato italiano. Solo dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi, Venezia perde parte dei
mercati balcanici e asiatici e deve guardare alla Pianura Padana per mantenere la sua ricchezza.
La sua potenza militare ed economica si basa su una flotta moderna e perfettamente addestrata, su una classe di mer-
canti abili, dinamici, coraggiosi, su una grande rete di scali internazionali. La sua marina è la migliore del mondo, i suoi
comandanti sono i più abili e conoscono perfettamente tutte le rotte nel Mediterraneo orientale, fino alle coste dell’Asia.
Ma la città non deve la sua ricchezza solo alla flotta. Ha una fiorente industria, produce il vetro a Murano (che continua
anche oggi) e produce armi che vende alle Corti di mezza Europa.
Venezia cura molto la politica estera perché i mercanti devono sapere tutto quello che avviene negli altri Stati, devono
stringere relazioni, fare amicizie: spie e diplomatici, presenti in tutte le Corti, mandano relazioni settimanali sulla situa-
zione politica e su quella economica di ogni parte d’Europa, dei Balcani, del mondo turco.
Venezia ha un ulteriore vantaggio rispetto alle altre repubbliche: non ha rivolte popolari né lotte all’interno della sua
classe dominante – anche perché farsi guerra tra loro impedirebbe ai mercanti e ai produttori di fare commercio, quindi
di guadagnare.
Dal Trecento al Cinquecento, Venezia è la città più ricca dell’Europa intera, la più lussuosa e la più allegra: il denaro
circola e la gente vuole godersi la vita – e il governo ve-
neziano organizza feste e cerimonie per qualsiasi evento.
Durante il Rinascimento, il Canal Grande si copre di mera-
vigliosi palazzi, proprietà della classe sociale che si occu-
pa del commercio, delle finanze, della diplomazia, del go-
verno e della guerra. Le classi medie fanno parte del clero
cattolico, della burocrazia del governo, delle categorie dei
medici, degli avvocati, degli insegnanti, o si occupano
dell’industria, della sua contabilità, del commercio estero
e del controllo dei traffici locali.
La celebre pianta di Venezia che, come vedi in alto è del 1500
(MD). L’ha incisa Jacopo de’ Barbari, da una prospettiva che oggi La civiltà veneziana, meno acuta e profonda di quella fio-
per noi è normale: vista da un aereo. Ma nel 1500 l’aereo non rentina e meno fine e graziosa di quella milanese dello
esisteva... Se confronti questa mappa con una attuale, vedrai che stesso periodo, è tuttavia la civiltà più colorita, più lus-
Venezia è cambiata pochissimo. suosa e più sensuale di quei secoli.
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Capitolo 5
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Il clima e la crisi del Seicento
Testi di approfondimento
Caratterizzato da guerre, inflazione, carestie e diminu-
zione della popolazione, il XVII secolo in Europa è un
periodo definito dagli storici la “Crisi Generale”.
Di solito gli studiosi indicano come causa della crisi il
problematico passaggio tra il sistema feudale che dà la
ricchezza alle famiglie aristocratiche e il capitalismo che
nasce con la nuova borghesia degli imprenditori; tutta-
via, una nuova ricerca aggiunge un altro possibile colpe-
vole della crisi: il Seicento è un secolo molto freddo, c’è
un cambiamento climatico che è stato chiamato ‘Piccola
era glaciale’, riprendendo il nome delle ‘ere’ [cioè lunghi
periodi] ‘glaciali’ [‘di ghiaccio’) di diecimila anni fa.
In epoca pre-industriale tutti i paesi europei vivono an-
cora su un’economia agricola e durante la ‘Piccola era Abraham Hondius,
glaciale’ la produzione agricola diminuisce molto, contri- Il Tamigi di Londra congelato nel 1677
buendo quindi alla crisi europea e dimostrando il legame
diretto tra cambiamenti climatici e crisi umane su vasta scala. Secondo il gruppo di studiosi, guidati da Zhang dell’Uni-
versità di Hong Kong, che ha prodotto questa ricerca, alcuni effetti – come la diminuzione del cibo e i problemi sanitari
– sono presenti in maniera particolare tra il 1560 e il 1660, ed è proprio questo il periodo più freddo della ‘Piccola era
glaciale’: da un lato, in questi anni l’estate, quando crescono e maturano i prodotti dell’agricoltura, diventa più breve;
dall’altro, la terra che è possibile coltivare diminuisce, perché non ci sono più le condizioni climatiche per far crescere
i prodotti o allevare gli animali in collina o in montagna.
L’altezza degli abitanti dell’Europa di questo secolo diminuisce di circa 2 centimetri a seguito della diminuzione del cibo,
e si ritorna all’altezza media precedente alla crisi solo dopo il 1650, quando la temperatura ritorna a salire.
Questa ricerca contiene insieme una lezione di storia e un avvertimento alla nostra generazione, che vive un periodo di
profondo cambiamento climatico.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 17
Capitolo 5
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Le accademie scientifiche del seicento
Intorno alla metà del XVI secolo le accademie italiane del Rinascimento cominciano a diventare sempre più specializza-
te: nascono in tutte le città accademie di carattere letterario, artistico, filosofico e, in alcuni casi, anche accademie di
‘filosofia naturale’, di matematica e di medicina.
Nel 1603 viene fondata a Roma la prima accademia europea di carattere principalmente scientifico, l’Accademia dei
Lincei.
Molte accademie scientifiche italiane sono legate alle corti e, quindi, ne seguono i successi e i momenti di crisi e spesso
durano pochi anni: tranne appunto l’Accademia dei Lincei, che si dà un programma e un’organizzazione che la rendono
autonoma.
Le accademie scientifiche nascono con lo scopo di fare ricerca su nuovi temi e con metodi che non sono presenti nei
curricula delle università: è per questo che sono così innovative. Non ci sono rapporti di competizione con le università,
spesso la partecipazione a un’accademia si affianca all’insegnamento universitario, ma le accademie sono più libere e
spesso hanno più finanziamenti.
Un’accademia come quella dei Lincei è frequentata non solo da professori universitari ma anche da giovani studiosi,
animati da un forte impegno per una riforma intellettuale e spirituale, per la diffusione degli ideali dell’accademia tra
gli studiosi d’Europa.
Un’altra importante istituzione è l’Accademia del Cimento, creata a Firenze nel 1657 per l’azione del cardinale Leopoldo
de’ Medici e di suo fratello, il granduca di Toscana Ferdinando II. L’Accademia del Cimento è il frutto dell’insegnamento
galileiano e del mecenatismo, cioè della generosità, dei Medici.
I Medici avevano già dato a Firenze e alla Toscana un ruolo di primo piano nella vita scientifica italiana, prima con il
recupero dei testi scientifici antichi e poi soprattutto con molte iniziative fin dal Quattrocento, tra cui la creazione della
figura di un ‘matematico di corte’.
Nel 1639 (con il sostegno economico del granduca Ferdinando II) i Medici affidano l’insegnamento di Mechaniche, o
d’altra Geometria prattica a Evangelista Torricelli, uno dei grandi scienziati del secolo.
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Capitolo 5
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L’economia italiana nel Settecento
Testi di approfondimento
È il capodanno del 1700 e, tra i fuochi d’artificio e le feste da ballo, gli Spagnoli nel Milanese e nel Napoletano brindano
al futuro. Sono ancora i padroni della Penisola anche se la loro crisi sta arrivando: da un lato, la Monarchia Spagnola
non ha più soldi, è fallita varie volte, l’oro venuto dall’America ha abituato il popolo a non lavorare e a non produrre.
Dall’altro, la Francia, che ha molta influenza sull’Italia, è nel momento del suo massimo splendore, ma le differenze
sociali portano già verso la Rivoluzione del 1789.
Dopo mezzo secolo il panorama italiano è totalmente diverso. Con la Pace di Aquisgrana del 1748, gli Spagnoli se ne
sono andati e i vari stati hanno cambiato padrone più volte: nel Piemonte regnano i Savoia, in Lombardia gli Austriaci,
Venezia è rimasta indipendente ma è sempre più in crisi, il Ducato di Parma è passato ai Borbone, a Firenze c’è l’austriaco
Francesco II, sul trono di Napoli siede un Borbone, la Sicilia è passata prima agli Inglesi, poi al Piemonte ed infine è
stata unita al Regno di Napoli.
Tuttavia l’Italia, che è oggetto di scambio negli accordi internazionali, sta rinascendo a nuova vita. Inizia un mezzo
secolo di pace che permette a quasi tutti gli stati della Penisola di riparare i danni prodotti dalle guerre e di riordinare il
governo e l’amministrazione: le città si popolano, il commercio cresce e le campagne vengono coltivate razionalmente.
Siamo nel Secolo dei Lumi, quel secolo in cui la cultura, il pensiero, l’economia fanno passi avanti in tutta Europa. A
questo movimento, detto Illuminismo, l’Italia partecipa con fervore e i maggiori centri dell’Illuminismo italiano saranno
Milano e Napoli.
Tra tutti gli stati italiani, solo il Piemonte ha seguito fin dagli inizi del Settecento un’intelligente politica diplomatica.
Alla Pace di Aquisgrana, il regno dei Savoia comprende la Sardegna, il Ducato di Savoia in Francia, una parte della costa
della Liguria fino a Nizza e il Piemonte. Vittorio Amedeo II fa delle riforme: abolisce i privilegi del clero e della nobiltà,
ingrandisce l’Università di Torino, distribuisce le tasse fra i ceti più ricchi e migliora l’economia.
La Lombardia, passata dalla dominazione spagnola a quella austriaca, compie rapidi progressi economici e sociali e
diventa la regione italiana più all’avanguardia nel settore delle riforme, grazie soprattutto a Maria Teresa d’Austria e
all’Imperatore Giuseppe II. Intelligenti iniziative stimolano la vita commerciale lombarda, l’agricoltura è redditizia, i
terreni sono bene amministrati, le colture sono ben scelte, l’allevamento del bestiame è razionale; un inglese che se ne
intende, Arthur Young, dopo aver visto la campagna tra Milano e Lodi, scrive che l’agricoltura lombarda gli ricorda le
migliori fattorie del suo Paese. Milano vive un periodo di splendore anche sul piano culturale.
Nel XVIII secolo, l’antica e gloriosa Repubblica di Venezia, pur rimanendo indipendente, comincia a dare chiari segni di
decadenza: la società non è più capace di slanci e di innovazioni, i nobili vivono ritirati nelle loro ville, ogni città della
Repubblica è quasi autonoma, manca un governo centrale con un potere reale, la vita economica è lenta, pesante, quasi
ferma, anche se sul piano artistico Venezia continua a brillare.
Il Granducato di Toscana passa sotto la dinastia austriaca dei Lorena-Asburgo ed è lo stato italiano in cui vengono
realizzate le maggiori riforme, soprattutto grazie al Granduca Pietro Leopoldo, figlio di Maria Teresa d’Austria: durante
i suoi 25 anni di regno, dal 1765 al 1790, il Granduca si sforza di migliorare le condizioni economiche del suo Stato.
Il Granducato di Toscana è anche il primo stato, nel mondo, ad abolire la tortura e la pena di morte, per l’impressione
suscitata in Pietro Leopoldo dal libro Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria.
Lo Stato della Chiesa è economicamente il più preoccupante: sia l’agricoltura sia l’industria vengono quasi completa-
mente trascurate. Dentro le mura di Roma la vita è tranquilla, quasi ferma nel tempo. Per questa atmosfera incantata,
la città diventa la capitale dell’arte, un centro cosmopolita, un luogo di incontro per scrittori, poeti, pittori, mercanti
d’arte; ma le campagne sono nella miseria più totale.
Il Regno di Napoli e di Sicilia, dopo la lunga dominazione spagnola, passa nel 1738 nelle mani di Carlo III di Borbone,
imparentato con la famiglia reale spagnola: il nuovo sovrano, che regna fino al 1759, riesce a migliorare di molto lo
stato di miseria in cui gli Spagnoli hanno lasciato il regno, facendo costruire nuove strade per favorire il traffico com-
merciale, dando nuovo impulso all’agricoltura e cercando di migliorare le condizioni dei contadini, ridotti alla miseria
dalle prepotenze dei grandi proprietari terrieri; costruisce anche la grande reggia di Caserta. Purtroppo lui e i suoi
successori non riescono a vincere la resistenza della nobiltà e del clero, che conservano la proprietà dei terreni agricoli.
Adattato da L’Italia nel Settecento. Nel secolo dei Lumi, un Paese in bilico fra stagnazione e riforme di Simone Valtorta,
<http://www.storico.org/seicento_eta_lumi/italia_settecento.html>
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 19
Capitolo 5
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L’Italia napoleonica
La Rivoluzione francese e l’Impero Napoleonico sono la fonte della vi-
vacità della società italiana tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ot-
tocento. La Rivoluzione Francese nasce dal desiderio dei cittadini di
maggiore libertà e uguaglianza, e queste idee si diffondono ben presto
anche in Italia; ma la spinta ad un rinnovamento totale parte da Na-
poleone.
È con Napoleone che nasce uno Stato nuovo: l’amministrazione civile
viene riformata, il territorio è diviso in prefetture, le tasse sono rac-
colte da funzionari statali e non società private; nascono le banche
nazionali, nasce la moneta unica, le università vengono ingrandite, si
fondano scuole specializzate come le Accademie di Belle Arti, comincia
a formarsi il giornalismo moderno. L’agricoltura viene migliorata con
grandi lavori di bonifica, cioè con la costruzione di canali che portano
via l’acqua dalle zone paludose in modo da avere terreni coltivabili.
L’amministrazione napoleonica, nelle sue linee principali, è quella che
governa lo Stato ancora oggi.
L’Italia napoleonica vede profondi cambiamenti politici: nasce il Regno
Italico che comprende tutto il Nord (tranne l’ex-Repubblica Serenissi-
J.L. David, Napoleone al Gran San Bernardo, 1800
ma) e il Centro, anche se Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Lazio
vengono governati come dipartimenti francesi; Napoli ha un nuovo Re, il cognato dello stesso Napoleone. Si tratta
tuttavia di creazioni che durano pochi anni.
La società italiana è mutata e rinnovata. La nobiltà che vive sulla proprietà terriera e sfrutta i contadini cede il posto alla
borghesia: sono professionisti, commercianti, scrittori, intellettuali – uomini (ma anche donne) capaci e dinamici – che
saranno protagonisti dopo pochi anni delle lotte risorgimentali e, dopo mezzo secolo, della creazione del Regno d’Italia.
Adattato da L’Italia napoleonica. Un’epoca controversa, di grandi ideali, speranze deluse e fioritura culturale, preparò il terreno allo
sbocciare del Risorgimento di Simona Valtorta, in <http://www.storico.org/risorgimento_italiano/italia_napoleonica.html>
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Capitolo 6
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Romanticismo e Risorgimento
Testi di approfondimento
In Italia il Romanticismo e il Risorgimento costituiscono una
coppia che non può essere separata: “romantico” è praticamente
sinonimo di “patriottico”. Il Romanticismo è la cultura letteraria
della classe borghese che sta crescendo e desidera per l’Italia uno
Stato unitario. Nei primi romantici, come Manzoni (di cui ricor-
diamo l’ode Marzo 1821) o Berchet, la lotta per l’indipendenza
dell’Italia è insieme un fatto politico, morale e letterario.
Questa identità tra cultura romantica e classe borghese viene
chiarita da Giovanni Berchet nella Lettera semiseria di Grisosto-
mo a suo figlio, che presenta il Romanticismo agli italiani: dopo
aver affermato che tutti gli uomini sono capaci per natura di
La scritta Viva Verdi, che significa
comprendere la poesia, spiega che la poesia romantica è rivolta in Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia.
particolare alla classe borghese, quella che sa leggere e ascoltare.
La comune aspirazione ad un Risorgimento nazionale porta gli scrittori romantici in Italia a vedere nella letteratura uno
strumento di battaglia politica e sociale, e lo stesso farà Verdi con le sue opere.
A differenza dei neoclassici, rivolti al passato, la letteratura del Risorgimento è, nelle parole di Berchet, “poesia dei vivi”
che ha come fonte primaria il vero e la storia, e quindi fanno parte di questo tipo di letteratura alcuni generi come il
romanzo storico, la lirica patriottica, la ballata storica e i libri di memorie.
Nel romanzo storico vanno inseriti anche il teatro storico, come Il Conte di Carmagnola e Adelchi di Manzoni, e il
melodramma storico di Verdi, in cui i fatti storici dimostrano che da sempre gli italiani lottano per l’unità nazionale e
l’indipendenza dagli stranieri.
Rivolto a un pubblico borghese, che vive nella realtà e non nell’adorazione del passato, lo scrittore romantico deve
quindi modificare lo stile e la lingua, deve usare una lingua più vicina al parlato, che risvegli nel popolo il sentimento
patriottico.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 21
Capitolo 6
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Le società segrete anticattoliche
Il movimento risorgimentale, si dice spesso, prende una direzione anticattolica soprattutto dopo il 1849 e la decisione
di Pio IX di non partecipare alla guerra contro gli austriaci.
Questo è in parte vero, ma è incompleto, perché una forte componente contraria al cristianesimo è presente fin dall’o-
rigine dei moti liberali dopo il Congresso di Vienna. Al posto della religione tradizionale, molti personaggi di tendenze
romantiche promuovono la ‘religione della patria’. Quando Foscolo o Mazzini, parlano di Patria e di Nazione, si sente nei
loro accenti una passione che ricorda l’estasi religiosa.
Questa “nuova divinità del mondo moderno” (sono parole di F. Chabod) non piace a molti cattolici, anche a quelli che
desiderano un’Italia senza gli austriaci, anche perché questa mentalità ‘patriottica’ si afferma nella massoneria, che è
antireligiosa, e nelle molte società segrete che nascono in questi anni.
Queste società non sono segrete solo per sfuggire alle polizie dell’epoca, come spesso si crede: sono segrete come con-
cezione, come idea di base, e i loro membri si sentono un’élite, quasi dei sacerdoti, e si sentono quasi infallibili come i
papi cattolici. Queste società segrete, che spesso lottano apertamente contro la Chiesa cattolica,
costituiscono esse stesse delle chiese.
La società segreta più importante e famosa, dal punto di vista della storia del Risorgimen-
to, è la Carboneria, che mescola il linguaggio evangelico con quello democratico, unisce
religione e politica, mette insieme la fede in un dio astratto e le superstizioni popolari.
Mescola la fratellanza universale con l’assassinio politico e l’attentato terroristico.
Chi fa parte delle società segrete? Se si studia la loro storia di quegli anni non si trova il
popolo, ma si incontrano piuttosto conti e marchesi, ricchi borghesi e militari cresciuti
nel mito di Napoleone.
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Capitolo 6
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Il Risorgimento secondo Gramsci
Testi di approfondimento
Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo XIX, ha prodotto
lo stato italiano unitario.
Secondo lui, tale processo è stato diretto fondamentalmente da forze moderate,
e il cosiddetto Partito d’Azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che
guardavano a Mazzini e a Garibaldi) si è dimostrato incapace di svolgere un’opera
sufficientemente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo.
Per usare una celebre frase gramsciana, il Risorgimento è stato una “rivoluzione
mancata”, e la causa e la natura di tale ‘mancanza’ sono di carattere sociale: è
rimasto sempre un movimento borghese di élite, non ha saputo ricercare l’appog-
gio dei ceti non borghesi, che in Italia, ancora con pochissimi operai, significava
l’appoggio dei contadini. Antonio Gramsci, storico e filosofo del
Secondo Gramsci il movimento democratico sarebbe stato rivoluzionario se avesse primo Novecento, fondatore del Partito
difeso gli interessi e le necessità della classe contadina con una riforma agraria, Comunista Italiano nel 1921.
eliminando il latifondo e creando una classe sociale di contadini piccoli proprie-
tari. Proprio questo percorso era stato seguito dai rivoluzionari francesi, i quali avevano così evitato l’isolamento e
convertito alla rivoluzione le popolazioni delle campagne.
Questo non significa che per Gramsci il Risorgimento sia stato un processo storico completamente negativo. Ha favorito
non solo l’unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia e lo sviluppo di una fase capitalistica in
Italia. Ma il nuovo capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali) non ha avuto un mercato adatto ai suoi
prodotti, a causa dell’arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. D’altra parte le masse di
poveri, soprattutto i contadini, abbandonate a se stesse, non sono riuscite a diventare parte attiva della nuova società.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 23
Capitolo 6
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Le differenze fra Garibaldi e Mazzini
In passato – semplificando molto – la storia popolare parlava di un legame molto stretto
tra Garibaldi, Mazzini. In realtà i due uomini hanno avuto un rapporto continuo ma molto
difficile.
Si può certamente dire che Garibaldi è la realizzazione pratica delle idee mazziniane, ma
non solo. La spedizione dei Mille porta un’enorme popolarità a Garibaldi: quando nel 1864
Giuseppe Mazzini, che vive a Londra in esilio, lo invita in Inghilterra per far conoscere “l’e-
roe dei due mondi” alla potenza più importante d’Europa, Garibaldi è già un mito e viene
accolto da alcune migliaia di persone. Mazzini lo presenta come la realizzazione delle sue
teorie, ma non è così. A differenza di Mazzini, Garibaldi ha come primo obiettivo della sua
azione l’indipendenza e l’unificazione italiana: preferirebbe una repubblica, ma se l’unità
viene realizzata dai Savoia, non ha nulla in contrario anche se sono dei re; mentre Mazzini Giuseppe Mazzini
vuole assolutamente una repubblica.
Garibaldi è democratico e monarchico al tempo stesso e questo lo differenzia da Mazzini;
ma soprattutto non sopporta il modo di pensare astratto di Mazzini, che non ammette
variazioni, che è pieno di assolute certezze. Come leggiamo in un suo scritto: «io conosco
le masse italiane meglio di Mazzini perché sono sempre vissuto in mezzo ad esse; Mazzini,
invece, conosce solo un’Italia intellettuale».
Contrariamente a Mazzini, Garibaldi crede moltissimo nei poteri assoluti del capo (ricor-
diamoci che è un generale) e dice spesso che quando la nave corre pericolo di naufragare è
dovere del capitano prendere saldamente e coraggiosamente il timone in mano (ricordiamo
anche che nella prima parte della sua vita viaggia come comandante di navi).
Lo storico inglese Mack Smith, profondo conoscitore di entrambi i personaggi, attribuisce
a Garibaldi più che a Mazzini il merito di aver fatto passare il popolo dall’indifferenza
politica alla fiducia nel Risorgimento. Giuseppe Garibaldi
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Capitolo 6
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Vittorio Emanuele II
Testi di approfondimento
Dell’uomo Vittorio Emanuele sappiamo molto: ama la caccia, le lunghe cavalcate e le
pericolose camminate alpine; pur avendo una religiosità sincera, firma senza problemi
leggi dannose per il clero e la chiesa piemontese; come re deve partecipare a molte
cerimonie ufficiali, ma le odia. È legato sentimentalmente per lunghi anni a Rosa Vercel-
lana, figlia di un militare di casa Savoia, alla quale dà il titolo di contessa di Mirafiori e
Fontanafredda; da lei ha due figli e la sposa nel 1869, pur non rinunciando a numerose
altre avventure sentimentali.
Come sovrano, è ben consapevole e convinto delle caratteristiche del potere monarchico
e non accetta di essere solo un simbolo: rivendica il suo ruolo e una politica personale
indipendente da quella dei suoi ministri; come militare è spesso in disaccordo con i suoi
ufficiali e generali e impone la sua volontà; ha un temperamento autoritario, che riesce
spesso a far sembrare la semplice sincerità di un uomo d’azione.
Queste sue caratteristiche rendono molto complicati i rapporti con Cavour, che è invece un diplomatico e mediatore
eccellente, il quale viene visto da Vittorio Emanuele II come colui che ha ridotto il suo potere personale. Invece, fin dal
1859 stringe, probabilmente affascinato dalle sue capacità di generale e avventuriero, una cordiale relazione con Gari-
baldi e sostiene, anche se quasi di nascosto, molte delle sue imprese, quasi sempre con il proposito di trarne vantaggio.
I giudizi storici sul primo Re d’Italia sono contrastanti, e ne offriamo una sintesi partendo dai pareri di alcuni storici
degli ultimi cento anni:
- Oriani, nel 1919, lo vede come Agamennone nell’Iliade, simbolo che tiene tutti uniti;
- Gramsci, nello stesso anno, lo descrive come un’occasione mancata, incapace di far diventare la monarchia il centro
del rinnovamento sociale e non solo politico del Paese;
- Jemolo, nel 1959, nota come il re sia stato sempre chiaro sui rapporti tra Stato e Chiesa, appoggiando, lui che era
molto religioso, l’idea di Cavour: “libera chiesa in libero stato”;
- Mack Smith, nel 1983, è molto meno entusiasta di altri: fa notare che il re ha spesso mentito, dicendo di non avere
avuto informazioni che invece conosceva benissimo; non ha saputo trattare con gli austriaci; si è dimostrato pronto
a ridurre l’influsso dei liberali, che però lo sostenevano e gli garantivano il successo; ha lavorato per mettere Cavour
contro Garibaldi, e viceversa;
- Cognasso nel 1986 fa notare che Vittorio Emanuele II ha saputo trasformare una monarchia regionale (Piemonte, Li-
guria, Sardegna) in una monarchia nazionale, necessaria per unificare un Regno nato da decine di piccoli stati;
- Paoli negli anni Novanta fa notare che Vittorio Emanuele II, dopo aver ricevuto ‘in dono’ tutto il Sud da Garibaldi, fa
ben poco per aiutare l’esercito garibaldino;
- Mazzonis, nel 2003, fa notare un errore fondamentale di Vittorio Emanuele II, dimostrato anche dalla volontà di
conservare il nome Savoia anche quando diventa Re d’Italia: anziché creare una dinastia nuova, una casa regnante
italiana, vede il nuovo regno come un’espansione del suo ducato di Savoia.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 25
Capitolo 7
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La struttura amministrativa del Regno d’Italia: accentrata o decentrata?
Dovendo decidere la struttura amministrativa del nuovo Stato, molti rappresentanti di
altre regioni si oppongono alla corrente piemontese che, sulla base della tradizione fran-
cese, vuole uno Stato molto accentrato; quindi chiedono a Cavour un’amministrazione su
base regionale, in nome di storia, geografia, economia e tradizioni diverse. Il ministro
piemontese fa preparare un progetto di autonomia amministrativa, ma dopo l’unità poli-
tica Cavour si convince che nelle condizioni morali e sociali in cui si trova specialmente
l’Italia meridionale sia necessaria un’amministrazione accentrata. Dopo la sua morte, il
problema viene riproposto dal governo Minghetti, convinto che il decentramento ammini-
strativo possa sviluppare il senso di responsabilità civile e sociale dei cittadini e li possa
educare alla libertà.
La lotta in Parlamento si conclude con l’approvazione di un ordine del giorno [cioè una Camillo Benso conte di Cavour
dichiarazione di intenzioni, non una legge vera e propria] di Bettino Ricasoli che respinge
l’amministrazione decentrata, ma divide il Regno in 59 province, amministrate dai Prefetti, rappresentanti del governo
centrale. Votano a favore dell’amministrazione accentrata i deputati di molte zone che avevano chiesto il decentramen-
to: pensano infatti che i singoli Comuni saranno più autonomi se dipendono dal governo centrale, che è lontano e non
può controllare tutto, piuttosto che dipendere dal capoluogo regionale e dai prefetti delle 59 province.
La ricerca storica è ancora indecisa nel valutare quella scelta, ma è un dato di fatto che 150 anni dopo il dibattito tra
accentramento e decentramento amministrativo è ancora un punto centrale della politica e della società italiana.
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Capitolo 7
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I primi 30 anni del Partito Socialista Italiano
Testi di approfondimento
Il Partito socialista italiano (PSI) viene fondato nel 1892 e sciolto nel 1994.
Già all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento il movimento operaio italiano comincia a darsi un’organizzazione politica,
dal Partito socialista rivoluzionario di Romagna di A. Costa al Partito operaio italiano di C. Lazzari. Sulla base di quest’ul-
tima esperienza, e più ancora della Lega socialista milanese di F. Turati, nell’agosto del 1892 viene fondato a Genova
il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno successivo accetta al suo interno anche il Partito socialista rivoluzionario e
prende prima il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani e poi (1895) quello di Partito socialista italiano.
Fin dalla nascita, dunque, il PSI riunisce al suo interno diverse componenti politico-culturali, da quella riformista di
Turati, che ha in parte natura marxista, all’ala rivoluzionaria di A. Costa, alle tradizioni anarchiche e repubblicane, con
una tendenza anticlericale.
Il partito si sviluppa rapidamente, si rafforza in particolare nel Centro-Nord e conquista gli elettori non tanto nelle
grandi città o tra gli operai delle industrie, quanto in provincia, nella Pianura padana e tra i contadini che si stanno
organizzando in leghe e cooperative.
Sul piano politico generale, sotto la guida della corrente riformista di Turati (1900-1912), il PSI è spesso alleato delle
altre forze della sinistra estrema come i radicali e i repubblicani, ma allo stesso tempo dialoga con Giolitti (nel governo
1902-04), che vuole coinvolgere nel governo il movimento operaio. Contro questa tendenza si uniscono le correnti di
sinistra del partito, che nel Congresso di Bologna del 1904 ottengono la direzione del PSI, che sarà protagonista nel
primo sciopero generale della storia italiana (settembre 1904). Poco dopo, mentre il movimento sindacale si organiz-
zava nella Confederazione generale del lavoro (CGDL), i riformisti riconquistano la guida del partito, da dove escono i
sindacalisti rivoluzionari (1907).
Lo scoppio della Prima guerra mondiale cambia tutto: Mussolini, direttore del giornale del PSI, Avanti!, è favorevole
all’ingresso dell’Italia in guerra e viene espulso dal partito, che ha una posizione pacifista e neutralista.
Nelle elezioni del 1919, col nuovo sistema elettorale proporzionale, il PSI ottiene il 32,3%, diventando la maggiore forza
politica italiana. Tuttavia anche nel corso del «biennio rosso» e dell’occupazione delle fabbriche torinesi, il PSI non
riesce a guidare il movimento e nel Congresso di Livorno (gennaio 1921) la sinistra del partito esce dal PSI e dà vita al
Partito comunista d’Italia.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 27
Capitolo 7
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Il colonialismo italiano tra il 1882 e il 1896
Il punto di partenza del nostro colonialismo è dato dalle speranze portate
dal Canale di Suez, aperto nel 1869, che lasciano immaginare un rapido
aumento del commercio nel Mediterraneo.
Nello stesso anno l’ex missionario Giuseppe Sapeto propone a Vittorio Ema-
nuele II di ottenere un po’ di spazio lungo le rive del Mar Rosso, come
base per il collegamento tra il Mediterraneo e le Indie. Un accordo con il
governo permette a Sapeto, un privato, e all’ammiraglio Acton, per conto
del governo (viaggiano insieme su una nave da guerra) di individuare la baia
di Assab, un luogo geografico favorevole perché vicino allo stretto di Bar La battaglia di Dogali, 1887, tra le truppe
el Mandab che mette in comunicazione il Mar Rosso con l’Oceano Indiano. del Regno d’Italia e le forze abissine
L’Italia acquista una striscia di terra di 6 km, che ufficialmente appartiene
a una società genovese, la Rubattino. Le proteste dell’Egitto (a cui appartiene quel territorio) e il parere negativo degli
inglesi inglesi (che non vogliono concorrenti sulla via delle Indie) fanno fallire il progetto.
Nel 1882 la Rubattino, questa volta con la protezione inglese, torna ad Assab e vende allo Stato italiano la baia: è
questo il punto di partenza del colonialismo italiano. In quel momento Assab ha 162 abitanti: 11 italiani, 55 arabi, 93
eritrei, 1 indiano: sono i primi “sudditi” dell’Italia!
La Corte, l’esercito, la borghesia meridionale sono favorevoli all’espansione coloniale. La Chiesa invece ha un ruolo
ambiguo: il Vaticano da un lato condanna il colonialismo di un Regno d’Italia che ha invaso Roma da poco, dall’altro
approfitta invece dell’occasione per aprire contatti politici con lo Stato italiano, celebrando messe per i morti in Africa,
e così via. È invece contraria al colonialismo la borghesia settentrionale, che chiede dal governo solo protezione doga-
nale e meno spese per fare colonie.
Quindi il colonialismo italiano non ha basi economiche ma è motivato solo da ragioni di prestigio interno ed interna-
zionale.
Nella propaganda dei governi della Sinistra Storica la presenza italiana in Africa ha come scopo quello di “sbarbarire”,
cioè di fare diventare meno ‘barbari’, i selvaggi africani portandoli verso la civiltà e il progresso. Quindi è una ‘missione’
che l’Italia conduce anche pensando alla sua esperienza risorgimentale, garibaldina, ‘dalla parte del popolo’. E si spera
che parte del popolo italiano, disoccupato e attratto dal brigantaggio, emigri verso l’Africa per a popolarla di nuovi
cittadini bianchi – cosa che non succederà mai.
Nell’85 l’Italia (con l’appoggio della Gran Bretagna) occupa la città portuale di Massaua in Eritrea (territorio egiziano),
base per la penetrazione in Abissinia. La Gran Bretagna favorisce l’Italia perché teme la presenza della Francia e della
Germania in Africa, la debole Italia viene preferita alle più forti concorrenti europee. Quindi la prima potenza mondiale
si accorda con l’ultima.
Dopo aver occupato Massaua l’esercito italiano inizia subito la penetrazione verso l’Etiopia, ma viene sconfitta e muo-
iono migliaia di soldati: è la prima vittoria africana su un esercito europeo moderno.
Francesco Crispi va al potere nel 1887 e fa in modo da allearsi con Menelik, che vuole il trono d’Etiopia e che diventa
‘l’amico abissino’. Nel 1889 Menelik diventa imperatore con le armi e i fondi che vengono dall’Italia, che però non riesce
ad imporre la sua guida a Menelik.
Quindi l’anno dopo l’Italia inizia un altro percorso coloniale:
stabilisce una colonia in Eritrea e prosegue la penetrazione in
Somalia. Tutto sembra facile. L’espansione avviene senza sangue.
Ma la reazione di Menelik è inevitabile.
Il generale italiano Baratieri capisce il pericolo, chiede uomini,
vuole cavalli e trasporti, ma a Roma non gli danno ascolto e, al
contrario, Crispi taglia i fondi e fa tornare in Italia parte dell’e-
sercito, convinto che la colonizzazione sia ormai avvenuta. Ba-
ratieri ha 16mila uomini, Menelik ne ha circa 100mila armati di
fucili migliori rispetto a quelli italiani: la battaglia di Adua pone
La battaglia di Adua nel 1896 fine al primo tentativo coloniale italiano.
Adattato da <http://restellistoria.altervista.org/pagine-di-storia/colonialismo-italiano/le-origini-del-colonialismo-italiano-fino-ad-
adua-1882-1896/> di Giancarlo Restelli
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Capitolo 7
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La nascita del Partito Popolare Italiano
Testi di approfondimento
Era il 18 gennaio del 1919 quando, da una stanza dell’albergo Santa Chiara a Roma, veniva diffuso
su tutti i giornali ed attraverso altri canali un documento, A tutti gli uomini liberi e forti, che è
l’atto di fondazione del Partito Popolare Italiano, con il quale si chiudeva il mezzo secolo in cui la
Chiesa aveva detto ai cattolici italiani di non partecipare alle elezioni politiche dello Stato italiano.
Il documento difendeva le libertà religiose, il ruolo della famiglia, la libertà d’insegnamento e il
ruolo dei sindacati. I proponenti miravano a riforme democratiche, come ad esempio l’ampliamento
del diritto di voto (compreso il voto alle donne) ed esaltavano il ruolo del decentramento ammini-
strativo e della piccola proprietà dei contadini contro il latifondismo. Luigi Sturzo
Il nuovo Partito assumeva il nome di Partito Popolare Italiano esprimendo la volontà di rivolgersi
a tutte le classi: il suo programma includeva le preoccupazioni sociali, le rivendicazioni degli umili, lo sforzo verso la
crescita intellettuale, morale e politica dei poveri.
Si trattava di un partito che si rivolgeva a tutte le classi sociali, che si poneva al centro tra liberali e socialisti e che
volutamente non conteneva della sua denominazione l’espressione “partito cattolico”. Le parole di Don Luigi Sturzo,
fondatore del Partito, sono chiare: «non ci siamo chiamati partito cattolico [perché] i due termini sono antitetici; il
cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione» [‘cattolico’ significa ‘universale’].
Il fondamento dell’azione politica di Luigi Sturzo e del nuovo partito era molto chiaro: «La politica è gestione organica
di un territorio e dei suoi abitanti a cui tutti devono partecipare proponendo dei programmi operativi ed organici. [...]
Naturalmente ogni partito ha una sua base ideologica e pratica di approccio, quella del Partito Popolare Italiano si ispira
ai principi cristiani e cattolici in piena autonomia rispetto alle autorità ecclesiastiche».
Il partito ebbe una rapida diffusione organizzativa, anche grazie al favore di molti sacerdoti, nonostante la volontà di
Sturzo di presentarlo come partito ‘di cattolici’ e non ‘cattolico’.
Alle elezioni del 16 novembre 1919 (le prime dopo la riforma elettorale in senso proporzionale), il PPI raccoglie il 20,5%
dei voti, cioè 1.167.354 preferenze, e 100 deputati, diventando indispensabile per la formazione di qualsiasi governo: è
il ritorno organizzato dei cattolici italiani alla vita politica attiva, dopo lunghi decenni di assenza.
Adattato da Partito Popolare italiano nascita: dal non expedit al successo di Luigi Sturzo alle elezioni del ’19 di Martina Brusini, in
<http://news.leonardo.it/partito-popolare-italiano-nascita-dal-non-expedit-al-successo-di-luigi-sturzo-alle-elezioni-del-19/>
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Capitolo 8
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Il mito di Mussolini
Il mito di Mussolini costituì un elemento essenziale del fascismo e per molti italiani che vissero nel Ventennio esso
rappresentò la vera e propria essenza del regime. Senza dubbio, Mussolini fu una figura esemplare di capo, di leader
dominatore delle masse, di duce (dal latino dux, colui che conduce gli altri) capace di guidare alla vittoria un intero
popolo. Il suo mito alimentò ammirazione ed entusiasmo tra i suoi seguaci. Ma come nacque e si consolidò questo mito?
Secondo alcuni, il culto di Mussolini fu una conseguenza del debole senso dello Stato da parte degli italiani, secondo
altri fu il risultato di un’efficace e continua propaganda coordinata dal fascismo. Tutte e due le osservazioni sono vere,
ma non sono sufficienti a spiegare un fenomeno che non fu solo italiano: a partire infatti dalla metà del XIX secolo si
diffuse in tutta Europa il culto romantico del genio, insieme all’idea che la partecipazione delle masse alla vita pubblica
avrebbe fatto comparire grandi uomini, capaci di interpretare i sentimenti della gente. In particolare, molti giovani
speravano nell’arrivo di uomini nuovi, capaci di superare la mediocrità della società borghese.
La prima, fondamentale ragione del successo del mito di Mussolini sta proprio nella convinzione che il duce rappresen-
tasse un perfetto esempio di genio, incarnazione di un superuomo al quale dare la guida della nazione.
Il mito di Mussolini ebbe varie espressioni, diverse tra loro ma tutte basate sul fascino del leader.
La prima fase del mito nacque in ambiente socialista, dopo il congresso nazionale di Reggio Emilia, nel 1912. In
quell’occasione Mussolini affascinò i delegati del partito con il suo modo di parlare aggressivo e brillante: per i più
giovani Mussolini divenne l’incarnazione dell’ideale rivoluzionario. Due anni dopo, la scelta dell’interventismo, cioè
dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1914, lo separò dai socialisti.
Appena lasciato il PSI, Mussolini riuscì ad affascinare alcuni intellettuali, specialmente quelli che facevano capo alla
rivista La Voce, che chiedevano una riforma morale degli italiani, corrotti da una democrazia liberale guidata da uomini
deboli. Si creò così una seconda versione del mito, basata sull’idea che Mussolini costituisse il perfetto esempio di uomo
nuovo, uomo forte, capace di guidare l’Italia nel pieno di una crisi di valori.
In questa fase il mito di Mussolini metteva in evidenza soprattutto le qualità morali del futuro duce, alle quali però si
aggiungeva un elemento decisivo: la cultura, che legava il Mussolini socialista rivoluzionario e il Mussolini apprezzato
dalle avanguardie e dagli intellettuali. Un capo di governo finalmente giovane, energico, realista, con uno stile moderno
e un’oratoria affascinante, capace di attuare una riforma intellettuale e morale del popolo italiano.
Adattato da Il mito di Mussolini: dalle origini all’avvento del fascismo, in Prima Pagina, in
<http://lafinediunmondochefu.blogspot.com/2014/12/il-mito-di-mussolini-dalle-origini.html>
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Capitolo 8
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La Resistenza italiana
Testi di approfondimento
La Resistenza italiana fa parte del più vasto movimento di opposizione
al nazifascismo presente in Europa, ma ha anche caratteristiche spe-
cifiche.
Nei paesi occupati dai nazifascisti (Francia, Belgio, Danimarca, Olanda,
Norvegia, Grecia, Jugoslavia, Albania), la Resistenza inizia subito dopo
l’arrivo dei tedeschi e degli italiani, mentre l’Italia fino all’8 settembre
1943 resta il principale alleato del Reich e partecipa alla guerra di ag-
gressione e all’occupazione di altri paesi; l’opposizione al fascismo ha
molti limiti e difficoltà e non è organizzata, non ha voce.
La Resistenza italiana si sviluppa nell’estate 1943, dopo il crollo del fascismo e la firma dell’armistizio con gli anglo-
americani. L’8 settembre, giorno dell’armistizio, i tedeschi sono presenti in gran parte del territorio nazionale come
alleati del regime fascista. Nei giorni successivi all’armistizio i tedeschi disarmano e catturano circa 800.000 soldati
italiani, spesso lasciati senza ordini e direttive dal re Vittorio Emanuele III, dal governo del maresciallo Badoglio e dagli
ufficiali delle forze armate. Alcuni militari organizzano tentativi di Resistenza, che si concludono però tragicamente.
Le forze politiche antifasciste danno vita, già il 9 settembre 1943, al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che nei
20 mesi successivi sarà guida politica e militare della lotta di Liberazione. Il movimento di Resistenza è però costituito
da forze diverse tra loro per orientamento politico e impostazione ideologica, unite solo dal comune obiettivo di lotta
contro il nazifascismo e di liberazione del Paese. Partecipano alla lotta militari e civili, persone di ogni età, classe so-
ciale, sesso, religione, provenienza geografica e politica.
La Resistenza è guidata da personalità che hanno combattuto il regime durante tutto il ventennio, spesso pagando con
il carcere, il confino, l’esilio. Accanto a loro, ci sono i militari che hanno fatto esperienza diretta della disastrosa guerra
del fascismo, giovani e giovanissimi che rifiutano di accettare il nuovo fascismo che si organizza al nord e che, di fronte
alla durezza dell’occupazione tedesca, scelgono la via dell’opposizione e della lotta.
Il CLN crea comitati militari che hanno la responsabilità dell’organizzazione delle forze partigiane in città e in monta-
gna. Fin dall’inizio, i nazifascisti arrestano e torturano membri e responsabili del movimento e attaccano i primi gruppi
armati di partigiani [i soldati della Resistenza]. Ma il movimento di Resistenza diventa sempre più forte ed esteso e
trova sempre più consenso e sostegno in gran parte della popolazione.
Regione per regione, zona per zona, le formazioni partigiane diventano più numerose e dai gruppetti iniziali si passa a
brigate [grandi gruppi militari] ben organizzate, mentre nelle città nascono gruppi impegnati a informare i giovani, fare
propaganda, sabotaggi e guerriglia urbana.
La Resistenza, fenomeno nazionale, si sviluppa in ogni area del paese, secondo le modalità e i tempi a disposizione. Nata
da scelte personali di chi voleva rompere con il fascismo, è una guerra che presenta una forte diversità di espressioni:
è innanzitutto lotta armata e politica, ma anche opposizione civile disarmata, fondamentale a fianco della Resistenza
militare.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 31
Capitolo 9
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Elezioni che hanno fatto la storia: 18 aprile 1948
Il 1948 è passato alla storia per due ragioni: è stato l’anno delle prime ele-
zioni politiche in Italia dopo l’approvazione della Costituzione Repubblicana
e l’Italia ha deciso da che parte stare nel nuovo contesto internazionale. Per
il numero di votanti, il 92% dei cittadini, e per l’importanza delle scelte che
venivano fatte, le elezioni del 18 aprile sono state un evento unico nella storia
delle elezioni italiane.
Si votava per scegliere due modelli opposti di governo: da una parte la De- I simboli del Fronte Popolare e della
Democrazia Cristiana
mocrazia Cristiana del Primo Ministro Alcide De Gasperi, dall’altra il Fronte
Democratico Popolare, lista unitaria della sinistra che comprendeva il Partito Comunista di Palmiro Togliatti e il Partito
Socialista di Pietro Nenni. Il risultato avrebbe deciso a quale alleanza internazionale appartenere: il blocco occidentale
guidato dagli Stati Uniti o quello orientale dominato dall’Unione Sovietica.
La campagna elettorale fu molto dura: nelle piazze con i discorsi dei leader, nelle strade coperte di manifesti, nei mezzi
di comunicazione di massa con slogan fortemente emotivi.
Il rischio che la Sinistra potesse vincere spinse anche la Chiesa cattolica ad intervenire per convincere tutti i fedeli cosa
votare, raggiungendo tutti i cattolici in ogni chiesa, in ogni angolo del Paese.
Il risultato delle elezioni fu chiarissimo: la Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza dei voti, il 48,5%, con ben 305
parlamentari alla Camera dei Deputati. Il Fronte Democratico si fermò al 31% conquistando 183 seggi, anche perché la
parte più moderata dei socialisti aveva lasciato il PSI, troppo legato ai comunisti, e aveva fondato il Partito Socialde-
mocratico, che ebbe il 7%.
De Gasperi aveva la maggioranza per governare da solo, ma preferì fare un’alleanza con i socialdemocratici, i liberali e i
repubblicani per dare più forza al suo governo.
Dopo il 18 aprile si aprì la lunga stagione politica del centrismo, caratterizzata da governi democristiani (anche se dopo
15 anni, con l’ingresso del PSI, inizieremo ad avere governi di Centro-Sinistra) e dall’opposizione comunista: era nata
la Prima Repubblica.
Adattato da Elezioni che hanno fatto la storia: 18 aprile 1948 di Claudio Agrelli, in
<https://www.youtrend.it/2018/01/31/elezioni-politiche-che-hanno-fatto-storia-italia-repubblicana-1948/>
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Capitolo 9
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Il Partito Comunista Italiano
Testi di approfondimento
Il Partito comunista italiano (PCI), fondato nel 1921 e sciolto nel 1991, è stato il più grande
partito comunista dell’Europa occidentale.
I primi anni dopo la prima guerra mondiale furono caratterizzati dalla sconfitta del movimen-
to operaio e dalla reazione fascista dal 1922 in poi. Gramsci prese come punto di riferimento
l’Unione Sovietica (congresso di Lione, 1926) e rafforzò la presenza del partito nella società,
attraendo molti intellettuali, fino a quando il fascismo lo arrestò (novembre 1926) e il PCI diventò
clandestino (cioè illegale) e i suoi sostenitori dovettero nascondersi.
Negli anni tra il 1927 e il 1943 i comunisti dovettero scegliere tra la clandestinità e l’esilio all’estero, soprattutto in
Francia. Nel 1927 la direzione venne di fatto trasferita a Mosca, dove emerse il nuovo gruppo dirigente, riunito intorno
a Palmiro Togliatti.
Il partito tornò sulla scena politica nazionale nel 1943 ed ebbe un ruolo importante nella lotta contro il nazifascismo.
Il ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944) definì la linea politica: per il momento, la cosa più importante non era
creare una Repubblica, ma cercare l’unità tra tutti gli antifascisti. L’idea guida di Togliatti era che la trasformazione
socialista dell’Italia non poteva avvenire per via rivoluzionaria, ma attraverso la progressiva entrata delle masse popolari
al governo. Conseguentemente il PCI fece parte dei governi dell’Italia democratica fin dal Regno del Sud (creato dopo
l’8 settembre, quando il governo lasciò Roma per Bari); dopo la liberazione, partecipò alla ricostruzione economica e
politica, ebbe una forte presenza nella maggiore organizzazione sindacale (CGIL), pubblicò un quotidiano a diffusione
nazionale (l’Unità), chiuso definitivamente nel 2017, fu presente nel governo di tanti comuni e province.
La denuncia dello stalinismo fatta da Chrusčëv (Khrushchev), segretario del Partito Comunista Sovietico, e l’invasione
sovietica dell’Ungheria (1956) costrinsero il PCI a un’ampia riflessione sulla propria strategia e sul socialismo realizzato
nell’URSS: nel 1956 il partito cominciò ad allontanarsi dal modello sovietico e diede forza agli aspetti democratici e
riformisti già indicati da Togliatti.
Il PCI ottenne il successo del 26,9% nelle elezioni del 1968: erano gli anni delle lotte operaie e dello spostamento a
sinistra della pubblica opinione: il nuovo segretario, Enrico Berlinguer, propose un ‘compromesso storico’ (1973), cioè la
collaborazione con le forze cattoliche e socialiste per il rinnovamento del Paese: gli elettori premiarono questa strategia
con il 34,4% dei voti nel 1976, e il PCI sostenne il governo Andreotti, inaugurato nel giorno del rapimento di Aldo Moro
(marzo 1978) e durato fino all’anno dopo.
L’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) e la proclamazione della legge marziale in Polonia (1981) segnarono un’ul-
teriore differenziazione del PCI dall’URSS (già nettamente criticata per l’intervento in Cecoslovacchia nel 1968), con la
dichiarazione di Berlinguer sulla fine del ruolo di guida dell’URSS e l’affermazione del necessario legame fra democrazia
e socialismo.
Nel 1984 Berlinguer morì improvvisamente e per il PCI iniziò una fase di difficoltà: il partito scese al 26,6% dei voti nel
1987. Due anni dopo iniziò la fine delle repubbliche comuniste dell’est e nel 1991 anche il PCI concluse la sua storia
sciogliendosi e dando vita a un nuovo partito con il nome Partito Democratico della Sinistra, mentre il gruppo contrario
al cambiamento fondava il Partito della Rifondazione Comunista.
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Capitolo 9
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L’Italia del miracolo economico
Di solito si dice che il boom o miracolo economi-
co avviene tra il 1958 e il 1963, anni nei quali fe-
nomeni fino ad allora in preparazione diventano
di colpo realtà. Altri prolungano la definizione
di miracolo economico fino alla crisi petrolifera
del 1973.
A parte il breve governo di destra di Tambroni
nella primavera-estate del 1960, il quadro politi-
co presenta governi democristiani con l’appoggio
di qualche piccolo partito come i liberali o i so-
cialdemocratici. In questi anni tuttavia si inco-
mincia a vedere un avvicinamento del PSI all’idea
La Fiat 500, icona del miracolo economico italiano.
di diventare un partito di governo, pronto a ge-
stire la grande trasformazione dell’Italia da nazione preindustriale a nazione moderna.
Qualche dato ci aiuta a riflettere: nel 1962 gli abitanti di Torino aumentano del 35,5%, arrivano cioè oltre 66.000 perso-
ne; gli abitanti di Milano aumentano del 36,6%, con l’arrivo di 118.000 persone. Nello stesso 1962 il Mezzogiorno perde
il 12,2% della popolazione, circa 226.000 persone, che si spostano dove trovano lavoro, cioè nel Nord-Ovest.
Le grandi città del Nord vedono sorgere nella propria periferia casupole irregolari (a Milano vengono chiamate le “Co-
ree”), i centri storici si riempiono di immigrati meridionali, divisi al loro interno da profonde differenze culturali (l’a-
gricoltore pugliese è molto diverso dal contadino calabrese). Lo shock è fortissimo; si può dire che per la prima volta
gli italiani si incontrano tra loro. Si incontrano e non si piacciono: a Torino c’è una vera e propria reazione razzista nei
confronti dei meridionali, la tendenza a tenerli separati dai suoi abitanti “autoctoni”, dai suoi vecchi abitanti.
Bastano questi pochi dati per comprendere che l’Italia del 1963 è una nazione profondamente nuova:
Il numero di automobili ed elettrodomestici sta ad indicare che il consumo diventa la principale causa del cambiamento
degli stili di vita. Il consumo diviene l’elemento unificante del paese, il segnale di riconoscimento per le diverse classi
sociali. Inutile, in questo discorso, riflettere sui drammi causati dalla società dei consumi: l’importante è comprendere
che l’arrivo della modernità in Italia è guidata dal consumo.
Cambiano gli interni delle case, in particolare la cucina; tra gli elettrodomestici arriva la televisione; cambia il modo
di vestirsi; nasce il tempo libero, il week-end; cambia la dieta: per la prima volta si ha la possibilità di mangiare carne
tutti i giorni; cambia la lingua, dal dialetto all’italiano popolare.
Anche la famiglia e i rapporti tra generazioni stanno cambiando, anche se meno rapidamente. Chi ha vent’anni negli
anni Sessanta vive direttamente gli effetti della modernizzazione: la maggiore indipendenza economica rende i giovani
meno legati alla loro famiglia; si crea lentamente un gap tra generazioni. Per i giovani meridionali l’emigrazione verso
il Nord significa anche la liberazione dall’autorità degli anziani, la possibilità di creare una famiglia dove la donna stia
a casa e non aiuti più nel lavoro agricolo. Ma la necessità di mano d’opera riporta le donne nei luoghi di lavoro. L’in-
troduzione della pillola anticoncezionale, successiva di qualche anno, è il punto di partenza verso la conquista della
libertà sessuale.
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Capitolo 9
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Gli ‘Anni di piombo’
Testi di approfondimento
Anche se nello studio del terrorismo italiano rimangono ancora molte zone d’ombra, i suoi caratteri principali sono
conosciuti. Tra la fine degli anni 60 e la fine degli anni 70, i cosiddetti anni di piombo (tradizionalmente il piombo è
uno dei metalli utilizzati per i proiettili delle pistole e di altre armi), ci sono in Italia due fenomeni diversi, lo stragismo
(dovuto a gruppi di estrema destra sospettati di aver effettuato le stragi più gravi) e il terrorismo (di cui si dichiarano
autori gruppi di estrema sinistra). Lo stragismo mette bombe in luoghi pubblici per alimentare attraverso la paura la
“strategia della tensione”, il terrorismo fa attentati mirati contro persone considerate rappresentanti del capitalismo.
Lo stragismo produce l’insieme di attentati compiuti in Italia dal 1969 al 1980 e pensati proprio per compiere stragi tra
la popolazione civile. La prima strage è del dicembre del 1969: una bomba scoppia nella sede della Banca dell’Agricoltura
di Piazza Fontana a Milano; poi c’è la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974, quella sul treno Italicus nell’a-
gosto del 1974, quella alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980. Gli attentati uccidono degli innocenti, in modo da
creare terrore nell’opinione pubblica.
Nel 1974 allo stragismo ‘nero’ di destra, si affianca il terrorismo ‘rosso’, di sinistra, fatto da gruppi che credono nella
necessità della lotta armata contro il sistema capitalistico e imperialistico. L’obiettivo da colpire è lo Stato, visto come
espressione del potere economico delle imprese multinazionali: i terroristi scelgono attentamente gli uomini e gli obiet-
tivi da colpire, visti come simboli del potere. Nel 1970 nascono le Brigate Rosse, il gruppo terroristico più forte degli
anni di piombo. La tensione e la paura provocate dallo stragismo crescono nel settembre del 1973, quando in Cile c’è
un colpo di stato: il quadro politico cileno, infatti, è simile a quello italiano. Il segretario del PCI, Enrico Berlinguer,
teme che un colpo di stato di destra possa avvenire anche in Italia e propone come soluzione un ‘compromesso storico’,
cioè un’alleanza tra DC e PCI in cui entrambi i partiti devono rinunciare a qualcosa e focalizzare i valori comuni. Questa
prospettiva rafforza la reazione rivoluzionaria delle Brigate Rosse e di altri gruppi di estrema sinistra, ma anche di quelli
di estrema destra. Nelle elezioni regionali del 1975 il PCI, con il 33,4% di voti, ha quasi lo stesso numero di voti della
DC, e alle elezioni politiche del 1976 il PCI ha una percentuale ancora più alta, il 34,4%. La paura che il PCI diventi
il partito di maggioranza fa crescere anche i voti della DC, che arrivano al 38,7%. Nel luglio del 1977 il PCI sostiene
indirettamente il governo Andreotti, e nel marzo del 1978 Andreotti forma un nuovo governo sostenuto dai comunisti
in modo diretto. Il giorno della votazione parlamentare che istituisce il nuovo governo, 16 marzo 1978, Aldo Moro,
presidente della DC, viene rapito da uomini delle Brigate Rosse, che uccidono i cinque poliziotti che lo proteggono. Le
Brigate Rosse vogliono fermare il processo riformistico, per mantenere vivo quello rivoluzionario.
Il cadavere di Moro viene trovato il 9 maggio in un’auto parcheggiata in una via di Roma a metà strada tra le sedi di
partito delle direzioni del PCI e della DC. L’uccisione di Moro è il punto più alto degli anni di piombo, che hanno visto
centinaia di morti e feriti. Ma è anche il punto in cui molti giovani si staccano dai movimenti terroristi convinti che non
sia quella la via che porta alla rivoluzione, al cambiamento.
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 35
Capitolo 9
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Tangentopoli, la città delle tangenti
Tangentopoli (la ‘città delle tangenti’; una tangente è un pagamen-
to di solito da parte di un imprenditore a un politico perché approvi
o faciliti l’approvazione di un progetto) è un termine usato in Italia
dal 1992 per definire un diffuso sistema di corruzione politica.
Inizialmente fu Milano, considerata la capitale morale del Paese, a
essere designata come capitale delle tangenti: proprio a Milano, il
17 febbraio 1992 fu arrestato M. Chiesa, amministratore socialista
di una casa di riposo per anziani. In seguito, con l’allargarsi dello
scandalo, il termine diventò sinonimo di sistemi di corruzione nella pubblica amministrazione.
Il termine tangentopoli comparve con l’indagine del Tribunale di Milano, conosciuta come Mani pulite, che portò ad una
lunga serie di arresti di uomini politici di tutti i partiti di governo.
Le indagini da Milano si allargano verso tutta Italia e insieme alla classe politica di Comuni, Province e Regioni, vennero
accusati anche politici nazionali, a cominciare dal segretario del Partito Socialista Italiano, Bettino Craxi, che dovette
lasciare il ruolo di segretario nazionale del PSI nel febbraio del 1993. Sette ministri del governo Amato lasciarono il loro
posto a causa dello scandalo.
Oltre 5000 persone, tra cui 4 ex presidenti del Consiglio e circa 200 parlamentari, furono indagati solo nell’indagine
milanese; nel 1994, l’indagine su tangenti pagate da imprenditori per evitare controlli fiscali portò a circa 100 arresti
nella Guardia di Finanza (la polizia che si occupa, tra l’altro, di reati economici e finanziari); nel 1996, alcuni giudici e
avvocati furono accusati di corruzione in atti giudiziari.
Con l’indagine Mani Pulite si concluse la “Prima Repubblica” e si preparò la strada per la “Seconda”, caratterizzata dalla
presenza di Silvio Berlusconi, che iniziò la sua carriera politica nel 1994.
Da Tangentopoli, in <http://www.treccani.it/enciclopedia/tangentopoli_%28Enciclopedia-Italiana%29/>
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Capitolo 9
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L’ingresso dell’Italia nell’Euro
Testi di approfondimento
Tra il 1994 e il 1995 sono i tedeschi e i francesi a gestire l’applicazione del trattato di Maa-
stricht e l’avvio della nuova moneta, fissato per il 1999. In questo scenario l’Italia è isolata,
sta riprendendosi dalle inchieste di Tangentopoli e dalla fine della “Prima Repubblica”. Nel
1992 la lira viene fatta uscire dal Sistema monetario europeo (SME), cioè la forma ancora
virtuale di euro, e avanza l’idea di un’Unione Monetaria senza la partecipazione italiana.
In Francia nel maggio 1995 vince le presidenziali Jacques Chirac: gli ambienti europei si pre-
occupano perché nel suo entourage ci sono politici anti-Maastricht, ma il nuovo Presidente
conferma l’obiettivo della moneta unica nei tempi previsti.
In Germania ci sono differenze sia su questioni di natura finanziaria che politica: il cancel-
liere Kohl è disponibile ad accettare sacrifici, nell’idea che la moneta unica costituisca un
primo passo verso una maggiore integrazione politica, ma molta dell’opinione pubblica è
contraria all’idea di abbandonare il marco, simbolo della stabilità monetaria e del benessere
ritrovati dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale.
L’Italia si trova in una posizione scomoda: per la prima volta dagli anni Cinquanta il nostro
Paese è isolato, quasi lasciato fuori dal progetto europeo, che è uno dei due elementi della
propria collocazione internazionale: l’Europa e la NATO. Il primo governo Berlusconi, nel
1994, dura solo pochi mesi; il governo successivo è un governo politico, ma guidato da un
tecnico, l’economista Lamberto Dini, che comincia a mettere in ordine i conti dello stato prima di portare il Paese alle
elezioni politiche del 21 aprile 1996.
Nella campagna elettorale del 1996 Prodi, avversario di Berlusconi, mette l’Europa al centro
della propria proposta politica: l’Ue rappresenta, agli occhi della coalizione di centro-sinistra
e del suo leader, un interesse nazionale primario. Prodi ha anche un sostegno maggioritario
nell’opinione pubblica italiana che, come testimoniano i dati di Eurobarometro, in quegli
anni è la più europeista sul Vecchio continente: l’85% degli italiani dichiara di sostenere il
processo d’integrazione europeo (i contrari sono l’8%), mentre la media europea è al 69%.
Prodi vince le elezioni, ma per garantire l’ingresso dell’Italia nel gruppo dei primi paesi che
entrano nella moneta unica deve rispettare i parametri di Maastricht:
- il deficit di bilancio deve essere inferiore al 3% e l’Italia è al 6,7%;
- il debito pubblico non deve oltrepassare il 60% del Pil (Prodotto Interno Lordo, il totale della ricchezza prodotta da
un Paese) e l’Italia è al 124%;
- l’inflazione deve essere controllata e invece in Italia è di 3 volte superiore a quella dei
paesi più solidi dell’Ue;
- il nostro Paese deve rientrare nel Sistema Monetario Europeo (l’euro ancora virtuale), da
cui è fuori fin dal 1992.
Prodi usa quindi l’europeismo dell’opinione pubblica, mette nel suo governo economisti
apprezzati in tutta Europa come Dini e Ciampi. Al suo primo Consiglio europeo, Prodi sente
una fiducia personale nei suoi confronti, ma è isolato sul tema dell’ingresso nell’Euro, e al-
lora introduce una “euro-tassa” per diminuire il deficit e imposta il budget statale del 1997,
nonostante i forti sacrifici, per avere i conti abbastanza in ordine ed entrare da subito nella
moneta unica. In Europa si crea un clima di fiducia attorno a Prodi e Ciampi e l’Italia rientra nello SME. Ma in Italia molti
giornali pensano che i sacrifici contenuti dalla legge finanziaria siano inutili...
Il tedesco Kohl aiuta Prodi ricordando che i conti si faranno ad inizio 1998, Chirac vuole
l’Italia nel primo gruppo di paesi con la moneta unica per avere un alleato. Per dare un se-
gno di voler entrare in quel gruppo, nel maggio del 1997 il governo Prodi taglia altri 15.500
miliardi lire (circa 8 miliardi di euro) dal budget.
L’Italia è comunque fuori dai parametri di Maastricht, ma la questione del suo ingresso
nell’euro è ormai tutta politica e Prodi, che dopo pochi anni diventerà presidente della Com-
missione Europea, va all’attacco di chi nella Commissione non si fida dell’Italia. Il Governo
prepara la legge finanziaria per il 1998 (quella su cui si fanno i conti per l’ingresso nella
Testi di approfondimento al volume Storia italiana per stranieri di P.E. Balboni, Edizioni Edilingua, www.edilingua.it 37
Capitolo 7
moneta unica): tagli alle pensioni, tagli alle spese, risparmi... L’endorsement francese a sostegno del governo Prodi
è totale, visto che il deficit italiano a quel punto è inferiore a quello francese, che è al 3,1% mentre dovrebbe essere
massimo al 3%. Anche la Germania ha il 3,1% di deficit. L’Italia ha il 2,7, quindi anche Berlino deve lasciare in ombra i
suoi dubbi sulla capacità italiana di restare nell’Euro.
E così l’Italia fa parte del primo gruppo di Paesi che usa la moneta unica, che dal 1999 al 2001 è solo virtuale, cioè un
sistema di cambi fissi tra le varie monete europee, e solo il 1o gennaio 2002 diventa una moneta reale, di metallo e di
carta, da usare nella vita di tutti i giorni.
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nica-tra-difficolta-interne-e-sfida-europea-1995-1998/>
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