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LO “ZIBALDONE DEI PENSIERI”

LA TEORIA DEL PIACERE, T4a, Pag.20

Questo testo è tratto dallo zibaldone dei pensieri dove leopardi si interroga sulla cagione
dell’infelicità o noia, definita “il sentimento di nullità di tutte le cose”, che considera
ontologicamente sostanziale, intrinseca all'animo umano. Leopardi conduce una disamina
filosofica e personale partendo dal presupposto che l’anima umana “desidera sempre e
essenzialmente e mira unicamente al piacere ossia alla felicità”, sottolineando
realisticamente come questo edonè, via per il raggiungimento della eudaimonia, sia dettato
da condizioni materiali e spirituali.
Inoltre il piacere che noi desideriamo non ha limiti nè di estensione nè di durata, perchè non
aspiriamo a un piacere definito e circoscritto ma a una condizione generica che termina solo
potenzialmente con l'esistenza stessa, ossia con la morte (distinzione da IL piacere con UN
piacere).
Da qui la nascita del tipico contrasto romantico con i limiti imposti dalla realtà : nonostante
l’uomo sia naturalmente inclinato verso l’infinito, vive in una realtà che è limitata
necessariamente e che può di conseguenza offrire un piacere limitato per estensione e per
durata.
Leopardi stesso si sentiva oppresso dalla realtà in cui viveva, tanto da definire la sua gobba
“l’astuccio delle sue ali”, ovvero quella prigione, quella realtà soffocante che imprigionava la
sua anima in un corpo in cui non si riconosceva. Ecco perché dall’analisi di Walter Binni,
appare corretto definire leopardi “eroico”, un leopardi che ha sempre cercato di infondere il
coraggio ai suoi lettori di superare i limiti della realtà e di ribellarsi.
Questo grande gesto eroico è possibile solo perché la natura benigna ha dotato l'uomo della
facoltà immaginativa, che ci permette di vedere e concepire le cose come non sono, ci
permette di figurare la realtà e i piacere come infiniti (Hegel).
Ecco perché la vera disperazione dell’essere umano nasce e scaturisce dalla ragione, che ci
pone di fronte alla realtà, e da questa osservazione Leopardi né ricava come conseguenza
la supremazia degli antichi rispetto ai contemporanei.
Gli antichi, sono in grado di saper azionare maggiormente l'immaginazione, sono dotati di
una facoltà immaginativa forte e solida in grado di vincere ogni schema precostituito dalla
realtà, poiché le verità che possedevano erano inferiori.
Mentre i moderni possono solo aspirare alla purezza dell'immaginazione antica.

la teoria del piacere in poesia viene inglobata dalla poetica dell’indefinito

IL VAGO, L’INDEFINITO E LE RIMEMBRANZE DELLA FANCIULEZZA, T4b, Pag 22

anche in questo testo emerge come il piacere per leopardi nasce da una sorta di analogia
con il passato. L'essere umano nell’età della franciullezza ha la possibilità di fare
l'esperienza del vago dell'indefinito, in quanto privo di schematismi mentali, come se dotato
di un animo antico. E nell’età adulta ci rimane un ricordo di queste sensazioni : “immagini e
sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullazza e nel resto della vita, non
sono altro che una rimembranza della fanciullezza".

IL VERO E’ BRUTTO, T4e, Pag.24


Il vero per leopardi non consente l’immaginazione, quindi non porta al raggiungimento del
piacere, e di conseguenza appare come un condanna all’infelicità. Questo è l’aspetto che
più si discosta dal romanticismo : il vero che non è in grado di appagare l’animo umano.
Leopardi nel trattato “discorso di un italiano intorno alla poesia romantica” si schiera contro il
concetto estetico di ero. Se per Manzoni il vero è bellezza, è fautore di ideali e appaga
l'animo umano, per Giacomo la verità segna la distanza rispetto all’immaginazione.

PAROLE POETICHE, T4g, Pag.25

vengono prese in analisi le parole lontano, antico, notte, notturno, oscurità e profondo,
parole definite poeticissime, perché provocano idee vaste, indefinite, non determinabili e
confuse. Le parole indefinite, come quelle appartenenti al campo semantico della notte,
consentono quindi di attivare romanticamente l’immaginazione.

INDEFINITO E POESIA, T4l, Pag.27

sunto della poetica dell’indefinito : l’ida dell’indefinito merita di essere tradotta nella poetica.
L’arte per leopardi nasce dalla ricerca di imitazione di sensazioni dell’infinito, come luce e
suono, e sentimenti "indefinito da imitare”.

SUONO INDEFINITI, T4m, Pag.27

Per leopardi i suoni piacevoli per il “vago dellidea”, sono quei suoni che destano una certa
immaginazione e sentimento, non conoscendone bene l'origine e l’evoluzione.

dalla teoria del piacere possiamo trarre una implicazione di natura filosofica e una di
natura estetica-poetica :
1) il pessimismo storico ovvero un'idea dell’infelicità come connaturata all’esistenza
stessa, e di come questa condizione si sia aggravata nel corso della storia. Gli
antichi esercitando meno la facoltà della ragione potevano dare un maggiore sfogo
alla loro immaginazione, che risulta così potenziata, mentre gli uomini moderni,
tramite le conoscenze e le verità che hanno acquisito, si sono allontanati da quell'
accesso immediato alla felicità (ci troviamo ancora nella sua visione giovanile che
vede la natura come madre benigna non colpevole del fato infelice dell'essere
umano)
2) Questi concetti ricadono nella poetica leopardiana e si traducono nella poetica
dell’indefinito. I testi letterari per leopardi devono stimolare nel lettore la fantasia, le
illusioni e l'immaginazione; di conseguenza tutte le scelte del poeta devono essere
orientate a un lignaggio che stimoli l'idea di indefinito, perchè solo ciò che non è
chiaro attiva la nostra immaginazione (come le nuvole)
I CANTI

I canti sono una grande raccolte di poesie a cui leopardi lavorò per tutta la vita, dal 1818 fino
alla sua morte. I canti si dividono in 5 sezioni :
- le CANZONI, composte tra il 1818 e il 1822. Un esempio è “l’ultimo canto di Saffo”.
- i PICCOLI IDILLI, composti tra il 1819 e il 1821, di cui fa parte"l'infinito" e “la sera del
dì di festa”. Nella letteratura antica con idillio si intende un componimento di
ambientazione bucolica, agreste all’interno del quale intervengono spesso le figure di
pastori che dialogano fra di loro. Nella poetica leopardiana si intende invece un
componimento in cui è lo stesso poeta che si trova a tu per tu con la natura, e ne
vanta il suo rapporto con essa. Questi componimenti vengono definiti piccoli sia per
la contenuta estensione dei testi, ma anche perché sono datati alla fase giovanile del
poeta.
- i GRANDI IDILLI, composti tra il 1828 e il 1830. Vengono definiti grandi sia per il
maggiore livello di estensione ma anche perché contenenti considerazioni filosofiche
del leopardi maturo.
- il CICLO DI ASPASIA, composto tra il 1833 e il 1835. Rappresenta un ciclo, ossia
una serie di poesie, dedicate all’argomento amoroso, in particolar modo all’oggetto
del desiderio di leopardi, una fatidica donna il cui nome mitico è Aspasia.
- la GINESTRA, composta nel 1836 ed è il testamento spirituale di Leopardi.

L'INFINITO, T5, Pag. 38

l’infinito, contenuto nei piccoli idilli, è stato composto nel 1819, sul colle che si trovava dietro
l’abitazione nobiliare della famiglia Leopardi. Questo monte prende oggi il nome di
promontorio dell’infinito e sono riportati i primi versi della poesia su un'epigrafe muraria. In
questo contesto meditativo in cui il poeta è assolto, è in grado di congiungere i presupposti
della teoria del piacere con la poetica dell'indefinito , per cui l’infinito diventa la
rappresentazione del momento in cui l’immaginazione strappa la mente al reale, che è il
“brutto” e la immerge nell’infinito.

La poesia si apre con la parola poeticissima “sempre” che evoca l’eternità dell’esistenza e ci
pone di fronte a un paesaggio riflessivo, “l’ermo colle” e “questa siepe”. Il limite leopardiano
in questa poesia è inizialmente rappresentato dall'impossibilità della visione delle colline
marchigiane, non a caso la scelta dell’uso dell’aggettivo determinativo “questa”. La siepe
metaforicamente rappresenta la ragione umana, che limita l’immaginazione.

Ma per il leopardi eroico l’impedimento della vista, che esclude il “reale” fa subentrare il
“fantastico”, quindi il pensiero si costruisce l’idea di un infinito spaziale, cioè di spazi senza
limiti, immersi in "sovrumani silenzi” e in una "profondissima quiete". Il poeta “sedendo e
mirando" immagina il superamento del limite, si figura quindi l'infinito. Non a caso i tre
complementi oggetti utilizzati, oltre a essere parole poeticissime perché indeterminate, sono
lunghissime, proprio per veicolare un immagine dell’infinito e della continuità.
Inoltre l'enjambement tra il verso 4 e 5 che separa il sostantivo dell'aggettivo, ci da
simpaticamente l’idea del percorso mentale ondivago che il poeta sta compiendo, un
pensiero fluente che non si pone più limiti.
L’io lirico dinanzi alle immagini interiori dell'infinito spaziale, prova come un senso di
sgomento, di paura di perdersi nell'infinito fino a quando l’immaginazione prende avvio
nuovamente da una sensazione uditiva : lo stormire del vento tra le piante. La voce del
vento viene paragonata all'infinito silenzio creato dall’immaginazione e suscita l’idea del
perdersi delle labili cose umane nel silenzio dell'oblio, questa è un idea di infinito temporale.

Anche se la prima reazione era stata quella della paura, in questo secondo momento l'io
“annega” nell’immensità dell'infinito immaginato, spaziale e temporale, sino a perdere la sua
identità, e questa sensazione di naufragio dell’io è piacevole, è “dolce”. Affermando che “il
naufragar m'è dolce in questo mare”, il poeta ci vuole trasmettere come la sua mente
annega ed è sopraffatta dalla sua stessa immaginazione, e come questa condizione mistica
provochi piacere e riempia il cuore di dolcezza (figura retorica dell’ossimoro).

Secondo la lettura critica dello scrittore Alessandro D’avenia, il fatto che l’estasi del poeta
venga raggiunta nel 15 verso è indicativo di come leopardi sia riuscito a superare la
tradizione precedente, non a caso viene definito il primo dei moderni e l’ultimo degli antichi.
Infatti nella struttura metrica tradizionale, il componimento per eccellenza è il sonetto,
composto da 14 versi, in questa poesia il superamento del limite attraverso l'immaginazione
è proprio esemplificato dall’aggiunta del quindicesimo verso.

LA SERA DEL DÌ DI FESTA, T6, Pag.44

Questa poesia venne composta nel 1820 a Recanati e fa parte dei piccoli idilli, piccole
poesie di ambientazione bucolica e agreste, particolare ci troviamo nella sera di domenica,
giornata che porta con sé delle riflessioni malinconiche a angosciate dopo la giornata festiva
del sabato.

PRIMA PARTE DELLA POESIA - PARTE DESCRITTIVA (vv 1-24)


La poesia si apre con la tipica immagine di placidità evocata dall’atmosfera notturna e da
tutta l’aggettivazione che concorre a questo effetto (dolce e chiara è la notte), inoltre l'elenco
delle luna, immagine eterea e fragile, che non sta alta nel cielo ma “posa” come
un'immagine di cristallo sul suo supporto, dona un ulteriore alone di mistero e di indefinito.
Al verso 4 abbiamo la comparsa della figura femminile dormiente e angosciata da nessun
affanno, perché il dormire è l’azione per eccellenza della quiete, questa donna non è
consapevole di quanto dolore ha fatto provare al poeta, che lo afferma con un'immagine
molto cruda : “di quanta piaga m’apristi in mezzo al petto”.
Al verso 12 il poeta si affaccia alla finestra per contemplare quel placido cielo solo
all'apparenza e per salutare, ironicamente, il destino che lo ha creato solo e unicamente per
soffrire e per essere tormentati dagli affanni.

I contrasti tra la figura femminile e il poeta sono due :


- la donna non è tormentata da nessun affanno e la notte della domenica sera riesce a
dormire serenamente a differenza del poeta che ha una piaga in mezzo al petto ed è
angosciato da svariati tormenti
- la donna, inoltre, appare favorita dalla natura che l'ha dotata della speranza, del
sogno e della capacità di godere dei piaceri della giovinezza a differenza del poeta a
cui la natura stessa ha negato la speranza e lo ha condannato a una vita di affanni.
E’ presente anche un'altra opposizione, in questo caso legata agli spazi :
- lo spazio chiuso della camera rappresenta il luogo della sofferenza e del limite, lo
spazio aperto il luogo del sogno e della speranza, mentre la finestra, la siepe della
poesia è il limite che segna la distanza tra il mondo del sogno e la reltà

Il poeta arriva a domandarsi quanto tempo gli resti da vivere e compie un gesto estremo
drammatico e tormentato : si butta a terra, grida e frema, gesto che rappresenta il tormento
estremo di un giovane che non ha la possibilità nella vita di coronare i propri sogni e vede
tutti i limiti che si frappongono fra lui e il desiderio.

SECONDA PARTE DELLA POESIA - PARTE RIFLESSIVA-FILOSOFICA (vv 24-46)


La prima consoderazione della fugacità del tempo (Orazio) è scatiurita e nasce dal canto di
un artigiano che man mano si affievolisce : “a pensar come tutto al mondo passa, e quasi
orma non lascia". Leopardi evidenzia che così la domenica sta passando anche i grandi
popoli antichi, come i romani passano, vengono sotterrati e orma non lasciano. Questa
considerazione non desta angoscia nel poeta ma anzi, è il corrispondente del dolce
naufragar dell’infinito : l’idea del tempo che scorre e del tutto che viene cancellato diventa
una consolazione per il poeta perché di fronte alla luce della storia eterna le sofferenze
umane sono nulla, sono vane. Leopardi per mettere in evidenza l'eternità del dolore dichiara
che già da bambino il dolore era insito in lui quando aspettava la domenica festiva tanto che
“già similmente mi stringeva il core”.

ULTIMO CANTO DI SAFFO, T8, Pag.58

Questa canzone venne composta in brevissimo tempo, precisamente tra il 13 e il 19 maggio


del 1822 a Recanati, prima che leopardi si recasse a roma nel giugno dello stesso anno.
Riprende la storia dell’antica poetessa greca Saffo, nata nell’isola di Lesbo, cantrice
dell’amore e che secondo la leggenda, si sarebbe uccisa gettandosi dal promontorio di
Leucade per l'amore non corrisposto del giovane Faone. Prima del gesto estremo la donna
era animata da considerazioni legate al suo aspetto fisico, la sua sofferenza nasce proprio
dalla consapevolezza di essere stata abbandonata perché non aveva colto la sua bellezza
spirituale ma il giovane aveva solo guardato al suo aspetto esteriore. La donna diventa nella
poesia l’alter ego di Leopardi.

Lo scenario iniziale è quello di una “placida notte”, aggettivo che evoca la quiete della scena
in quanto impalpabile ed etereo, come per rappresentare la “leggerezza del cielo” come
disse Italo Calvino. Infatti nelle sue lezioni americane affermò che la vera potenza della
letteratura è quella di comunicare l’impressione della leggerezza attraverso le parole, e
questo concetto viene reso bene nella descrizione dei paesaggi notturni e lunari. Anche la
luna infatti compare al verso 4 nuovamente come una figura vaporosa e evanescente, che si
oppone alla pesantezza dell’esistenza. La luna è accompagnata dal pianeta venere che è la
prima stella a brillare e l’ultima a scomparire, formando un parallelismo con l’astro lunare.
Saffo viene proprio collocata all’interno di questo scenario meraviglioso proprio perché, in
qualità di antica, ha la capacità di percepire l’armonia della natura che è in grado, almeno
per ora, di ricalcare.
Infatti nei versi seguenti abbiamo la contrapposizione tra la placidità della natura e della
notte e l'estraneità di saffo rispetto a questa pace. Saffo diventa consapevole di come tutta
la bellezza del mondo non le appartenga e che quindi non è partecipe di questa gioia ma ha
la sola possibilità di vederla dall’esterno. La poetessa arriva a definirsi “ospite addetta",
ovvero ospite odiosa, e “dispregiata amante” della natura perché gli dei e il destino nulla
hanno reso alla donna. La natura è di fatto placida ma Saffo è in una condizione di
estraneità rispetto alla bellezza e all’armonia della natura. La natura in questa canzona è
ancora benigna in quanto è al fato e agli dei che il poeta imputa la malignità : questo è il
punto di svolta tra il pessimismo storico e il pessimismo cosmico.
Saffo è il tipico personaggio romantico perché si tormenta e soffre del conflitto io-mondo,
perché il fato l’ha condannata a soffrire. Il destino per l’uomo non è cosa da conoscere,
come afferma il poeta “arcano è tutto tranne il nostro dolore”, infatti l’unica certezza
dell’essere umano è la sua sofferenza.
E alla fine della canzone il gesto titanico del suicidio in segno di ribellione totale.

A livello metrico è una canzone libera dai vincoli metrici che vede una libera alternanza di
endecasillabi e settenari sciolti dalla rima, per dare libero sfogo al sentimento, grande
innovazione del poeta leopardi.

A SILVIA, T9, Pag. 63

GENESI COMPOSITIVA
Questo componimento è stato composto nel 1824 e fa parte dei grandi idilli, sezione dei
canti in cui leopardi porta a termine in forma atopica la riflessione più matura della sua
filosofia. Viene composto nella città di pisa dopo varie peregrinazioni del poeta : prima Miano
dove il poeta lavora per la casa editrici di Stella come curatore di importanti opere della
letteratura italiana e latina (petrarca e cicerone), dopo si trasferirà a Firenze terra che lo
appassiona per gli stimoli culturali, per approdare infine a pisa, sede ideale del poeta. Pisa
oltre a essere una città dai grandi stimoli culturali fu importante per la salubrità dell’aria e il
suo clima mite e temperato, fondamentali per le condizioni fisiche del leopardi maturo che si
erano andate a gravare.

TITOLO
Il titolo “a silvia" porta il nome della persona cui è dedicata la riflessione poetica, esistono
due scuole di pensiero per quanto riguarda l’identità di questa donna :
- silvia è una persona realmente esistita di nome Teresa Fattorini, la figlia del
cocchiere di casa leopardi, di cui abbiamo alcuni riferimenti nello zibaldone in cui
giacomo parla di questa ragazza sua coetanea, che in giovane età morì di tisi, una
forma di tubercolosi
- non è possibile rintracciare un identificazione precisa di Silvia che finirebbe per
diventare un simbolo delle speranze della giovinezza cadute, naufragate e logorate
dal destino malvagio della natura.
Il nome Silvia ha un ascendenza letteraria e rappresenta una ragazza ingenua che vive le
gioie della sua giovinezza, una ragazza che ama vivere, una figura quindi spontanea pronta
a raccogliere i consigli del poeta (come una Leuconoe oraziana).
METRICA
Siamo di fronte alla canzone libera oraziana : è divisa in sei strofe che prevedono la libera
alternanza di endecasillabi e settenari sciolti dalla rima. Questa canzona ha l’impostazione
della doppia visione, consiste cioè nella strutturazione di due parti una idilliaca e una
filosofica. Tra le due parti c’è un mutamento sostanziale nel tono e nelle immagini che
vengono utilizzate.

SEZIONE IDILLIACA
La canzone si apre con il poeta che si rivolge alla sconsolata Silvia, sconsolata perché
morta, domandando di rimembrare i tempi della sua vita mortale. Il verbo rimembrare ci
pone nella dimensione prediletta del passato, ed è un verbo vibrante avvolgente. Il poeta
utilizza poi due dittologie, ossia coppie di aggettivi non sinonimici (gli occhi “ridenti e
fuggitivi" e Silvia “lieta e pensosa”) per richiamare l’essenza della gioventù che è gioiosa ma
al contempo lievemente malinconica e pensosa. A livello stilistico la prima strofa è fluida e
ariosa e la disposizione degli elementi la rende fortemente musicale. Le parole utilizzate
sono definite dalla critica “dematerializzate”, perché c’è grande insistenza sulle vocali e sono
degli esempi della poetica della leggerezza e dell'indefinito, richiamano quindi il concetto di
indefinitezza.
Nella seconda strofa Silvia viene rappresentata nell’azione di tessere mentre il suono del
suo canto risuona nella stanza e nella quiete vie di recanati. La donna immagina il suo
futuro definito “vago”, ossia bello in quanto indeterminato. Questa scena, che rappresenta le
speranze giovanili, avviene nel “maggio odoroso”, stagione della fioritura e della rinascita
dove vengono coltivati i pensieri di Silvia.
Nella terza strofa co “l’io” iniziale cambia il focus e siamo obbligati a osservare la reazione di
leopardi che si trova nel suo studio davanti alle sue “sudate carte”, ovvero la metonimia per
indicare il luogo in cui consumava il suo sapere intellettuale. Leopardi si affaccia dal balcone
per poter ascoltare il canto di Lucia e il suono della sua mano sulla tela, il balcone
rappresenta sempre il limite che il poeta si trova davanti, e si pone lì per immaginare il futuro
attratto dal canto pieno di speranza della ragazza. Il poeta arriva anche a provare una
condizione di ineffabilità, ovvero è incapace di esprimere cosa provava in quel momento.
I due protagonisti vivono in sintonia (sono uno l’alter ego dell’altro) e sono accomunati dalla
speranza in questo ricordo del passato, e entrambi hanno maturato delle aspettative nel
futuro senza concepire i limiti e gli ostacoli che la vita gli avrebbe potuto proporre. La loro
grande capacità immaginativa si traduce nella concretezza del momento dell'aspettativa e
dell’illusione tipici della giovinezza di silvia e di giacomo.

SEZIONE FILOSOFICA
Leopardi a partire dalla linea 31,32 di cesura, dal tono dolce e piacevole della prima parte fa
emergere ora una riflessione atroce, perentoria e drammatica sull'esistenza dell’uomo.
Leopardi diventa consapevole e sovviene che la grande speranza è ora perduta e che prova
un sentimento acerbo e sconsolato che gli preme il petto, un dolore per la sua misera sorte.
Il verbo sovvenire va correlato al verbo rimembrare dei primi versi : dal verbo pieno di
dolcezza che appartiene alla poetica dell'indefinito siamo passati a questo verbo pieno di
asprezza che ricorda a livello sonoro un taglio, una “v”, perchè è una presa di
consapevolezza della drammaticità della vita umana.
Il poeta eroico che fa domande di senso ora attacca direttamente la natura colpevole di
ingannare i suoi figli e di negare la felicità.
Non a caso questo passaggio, che rappresenta l’età adulta, non si trova nel periodo
primaverile ma in un inverno che inaridisce le speranze : tanto che Silvia non riuscì a
ricevere i complimenti per la sua bellezza e gli sguardi schiavi degli innamorati gli furono
negati per la sua morte prematura.
Giacomo e Silvia hanno vissuto le speranze della giovinezza e entrambi hanno visto la
negazione di questi sogni e di queste illusioni, hanno entrambi testato la crudeltà della
natura in modi differenti : silvia a causa della morte e il povero giacomo a causa della sua
condizione fisica, economica e mentale. L’ultima strofa si apre con l’avverbio “anche”,
proprio per sottolineare come anche leopardi si sente partecipe della solita condizione di
Silvia perché anche la sua dolce speranza è morta e la natura gli ha negato la sua
giovinezza. La natura è nuovamente rappresentata come un organismo meccanicistico che
non prova alcun interesse nei confronti dell’uomo ma segue il principio fisico di creazione e
conservazione, nella realtà quindi non esiste alcun finalismo e è “ questa la sorte dell’umane
genti”.

FINALE
Il finale è drammatico e perentorio ed è accentuato dai toni affannosi : la speranza cade
all’apparire della verità e dell’età adulta e mostra con la sua mano la “fredda morte” e la
“tomba ignuda”. La speranza rimane disattesa e non viene mai soddisfatta ed ha come esito
drammatico la morte, sfocia nel nulla e nella noia.
Leopardi conclude con questa amara verità : tutte le speranze della gioventù rimangono
disattese e hanno come esito la morte fisica e interiore, questa è una verità acerba ma vera
(contrasto montale e dante).

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA, T11, Pag. 80

GENESI COMPOSITIVA
Questa poesia viene composta poco dopo a silvia, e i due componimenti costituiscono un
dittico leopardiano, e sono contenute nei grandi idilli. Anche questo componimento è
caratterizzato dall’impostazione della doppia visione.

SEZIONE IDILLIACA
La prima strofa costituisce la parte idillica con la rappresentazione di uno scenario agreste
caratterizzato dalla totale armonia della natura dopo la passata tempesta, e in questo clima
l’io poetico è portato a provare empatia e a sentirsi coinvolto nella serenità del piccolo
paesino. Dopo la “novella pioggia” vengono riprese tutte le attività : la gallina esce, gli uccelli
tornano a fare festa, compare l’arcobaleno, tutti tornano a svolgere i loro lavori, l’artigiano
canta sull’uscio della porta, la "femminetta" raccoglie l'acqua piovana e le famiglie riaprono i
loro terrazzi. A determinare questa atmosfera dolce contribuisce la presenza simpatetica,
nello scenario di ristorata quiete, del sole ridente, che attraverso la figura della
personificazione, illumina i prati del borgo di Recanati. Tutti i verbi della prima strofa sono
propositivi e indicano il rinascere dopo la tempeste e il dolore, quella resurrezione che il
poeta coltiva nel cuore, insieme al suo desiderio di partecipazione a questa scena.

SEZIONE FILOSOFICA
la seconda strofa si apre con alcune domande retoriche che anticipano la parte riflessiva :
Leopardi si chiede se le attività che vengono riprese con entusiasmo, appena passato il
momento della paura e della tempesta, siano dovute a un ricordarsi meno dei suoi mali :
“Quando de’ mali suoi men si ricorda?”. Ecco poi la considerazione cruda : “Piacer figlio
d’affanno”, ossia l’unico piacere che possiamo provare, che è sempre un piacere limitato, è
quello che segue a un grande tormento, ed è un solo momento fugace. Per leopardi non
esiste un piacere puro ma solo un piacere negativo, che nasce dalla sospensione
temporanea del dolore e della sofferenza (collegamento con il dialogo tra un islandese e la
natura). La tempesta e la quiete diventano quindi solo una grande metafora : la quiete
indica l’unico piacere negativo che resta all’uomo dopo la sofferenza, ovvero la tempesta
che indica il dolore connaturato alla vita stessa.
Nell'ultima strofa è presente l'invocazione e una critica feroce dai toni incitati contro la natura
che promette illusioni ma finisce con l’imporre solo delle briciole di piacere. L’unico momento
di piacere per l'uomo è dato dalla sospensione delle sofferenze, e questa è una riflessione
aspra e amara che contrasta con lo scenario iniziale. Questa riflessione sul finale assume
anche un carattere ironico : la natura inganna i suoi figli e sparge sofferenze
spontaneamente, così che il piacere si avvantaggia, si nutre di ciò che nasce dall’affanno
per "mostro e miracolo", ossia dal latino monstrum, da un'occasione eccezionale. L’ultima
esclamazione è ricca di sarcasmo : "umana prole cara agli eterni”, ossia genere umano caro
agli dei hai la possibilità di respirare rispetto a una condizione di sofferenza perenne. La
soluzione finale dell’idillio affida la pace eterna alla morte, come sospensione dalla realtà,
vista come unica possibilità di allontanamento dalle sofferenze della vita : “beata se te d’ogni
dolor morte risana”.

IL SABATO DEL VILLAGGIO, T12, Pag. 84

GENESI COMPOSITIVA
fa parte del dittico leopardiano con la sera del dì di festa, viene infatti composta pochi giorni
dopo

SEZIONE IDILLIACA
Seguendo la poetica della doppia visione la poesia si apre con la descrizione di uno
scenario agreste del borgo di recanati che con la sua “aria imbruna”, l'arrivo della bianca
luna e il cielo che torna sereno, ci colloca temporalmente nel momento dell'inaugurazione
del momento festivo, scandito dal suono della campana.
La prima immagine che ci viene presentata è quella della “donzelletta” che “vien dalle
compagne” con un fascio di rose e viole in mano e si prepara ad adornarsi il petto e i capelli
prima della sera festiva. Questo vero incipitario fu fortemente criticato da Pascoli che andò a
contestare l'impossibilità del cogliere i due fiori nello stesso periodi periodo dell’anno, visto le
due fioriture differenti, per accusare la lirica italiana di poca autenticità. Per Pascoli la poesia
italiana era infatti scollata dalla realtà.
La seconda immagine è quella della “vecchiarella” che filando seduta sulla scala con le sue
coetanee, racconta dei giorni della sua giovinezza, quando “ancor sana e snella” si
preparava e danzava con i suoi innamorati nel dì di festa.
Poi abbiamo la descrizione di “fanciulli” che giocano nella piazza, provocando un “lieto
rumore”, dello “zappatore” che rientrando dopo la giornata lavorativa fischiando pensa al suo
riposo, e infine il "legnaiuol" che rimane sveglio nel tentativo di finire il lavoro con la sega
prima del giorno festivo. Molti dei personaggi descritti hanno il particolare uso del diminutivo
che è carico di sentimento e affettività, per esprimere lo sguardo simpatetico del poeta.
Leopardi, decide di dedicare una strofa intera al legnaiuol, perchè è l’unico personaggio che
nella notte del sabato sera sta portando a termine il suo lavoro, in quanto protrae le sue
speranze fino all'alba, aspettative che si andranno inevitabilmente a scontrare nella
domenica. Questa strofa, prima del cambiamento di tono, richiama all'isolamento del
personaggio che si chiude nella sua solitudine.
Il clima di questi primi 37 versi ci presenta un sentimento umano prefestivo, un momento di
magia e carico di speranze, che risulteranno essere solo illusioni nel giorno seguente, la
domenica. A livello stilistico e sintattico la poesia è ariosa, leggere e avvolgente concorrendo
allo scenario idilliaco descritto e dal punto di vista dell’io poetico carico di empatia e di
adesione alla vita.

SEZIONE RIFLESSIVA-FILOSOFICA
Leopardi inaugura la parte filosofica attraverso 5 versi fortemente metaforici. Il poeta afferma
che il sabato è il giorno più gradito della settimana perchè pieno di “speme” e di gioia mentre
la domenica costituisce il ritorno al “travaglio”, ossia alla noia e al senso di vuoto, la
domenica costituisce il giorno della disillusione, giorno in cui le speranze iniziano a crollare.
Metaforicamente il sabato incarna il periodo della giovinezza, e la domenica l’età adulta,
indicano cioè due percezioni della realtà. La giovinezza del sabato è quel periodo durante il
quale l'uomo costruisce il suo immaginario di speranze, progetti e aspettative, che nella
domenica dell’età adulta vede crollare inesorabilmente.
Leopardi nell'invocazione finale si rivolge affettuosamente a un “garzoncello scherzoso” che
ha fretta di crescere e, tramite un esortazione oraziano-paternalistica lo invita a godersi
questo momento della sua vita, lo invita, parafrasando il “carpe diem” a valorizzare il tempo
e non sprecarlo. Questo non è un invito edonistico sfrenato al godimento di tutti i piaceri ma
piuttosto un edonismo riflessivo su come vivere giustamente il presente. Nonostante il finale
sia amaro perché invita all'essere felice della giovinezza, fase di alimentazione dei giorni,
perché la maturità vedrà un tradimento di queste speranze, il consiglio assume qui una
sfumatura più paternalistica e meno sarcastica.
Nella parte riflessiva Leopardi rompe l'armonia della poesia e l'immaginazione poetica
facendo catapultare il lettore nell’atroce verità. Questo a livello stilistico trasforma la sintassi
fluida e ariosa in un tono nervoso, perentorio e definitivo, che vede un leopardi riflessivo
sulla verità celate all’uomo.

ANALISI CRITICA DELLA POETICA DOPPIA VISIONE

la poetica della doppia visione è stata criticata fortemente da Benedetto Croce che la
considera il limite della poesia leopardiana. Secondo il critico letterario la parte filosofica
rompe la fluidità, la bellezza e l'armonia dell’idillio, considerata la vera poesia.
Tuttavia il critico della metà dell’800 Francesco de Sanctis, primo autore d'una storia della
letteratura italiana, afferma che la poetica della doppia visione è la grandezza della poesia di
Leopardi. La parte descritiva ci mostra la belzza delle illusioni allo scopo di farle desiderare
al lettore, che ambisce a quello scenario, per poi mostrarci la cruda verità. Questa è
un’impostazione sapiente che ci consente di provare le aspettative descritte prima dell’arida,
cruda ma vera realtà. Leopardi ci ha regalato l’amore per la verità, più grande dell’amore per
il piacere, ma una verità che consente solo appagamento intellettuale e non estetico. E’
questa la grande dignità dell’uomo : essere intelligente e avere consapevolezza del proprio
destino.
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA, T13, Pag.91

Questo componimento fa parte del pessimismo cosmico dei grandi idilli e lo spunto nasce
dalla lettura di un articolo che trattava delle condizioni dei pastori erranti dell’Asia, quelle
praterie lontane dove l’attività principale è la pastorizia. Leopardi rimane affascinato da
questo stile di vita incontaminato e primitivo e decide di elaborare questo canto, dove l’io
poetico è un pastore che si sta muovendo lungo i sentieri con il suo gregge. Per rendere la
scena ancora più mistica e affascinante il componimento si svolge di notte, ecco perchè il
titolo canto notturno. Inoltre, come tipico dei grandi idilli, il pastore si pone delle domande
esistenziali e filosofiche legate al senso dell’esistenza.

Le domande vengono poste direttamente alla luna, che sta accompagnando il cammino del
protagonista ed evoca il desiderio di colloquio. Il pastore domanda se la luna non sia stanca
di ritornare sempre sulle stesse strade, di questo ritmo ripetitivo, di questa monotonia,
chiede se non si stanca di questa noia, di compiere questo percorso sempre uguale a se
stesso e sempre privo di significato, di senso. Chiede se la luna sia ancora desiderosa. Il
poeta nella prima parte del canto sente la luna come una sorella partecipe della sua stessa
noia, e il parallelismo tra la vita del pastore e il corso della luna è evocato dallo stesso ritmo
senza senso che i due personaggi sono costretti a compiere. La luna, anche se non
risponde alle domande poste, suscita la simpatia del poeta che la sente vicina a sé, e le
pone le sue stesse domande. La luna, aggettivata come “solitaria”, “pensosa” e “peregrina
eterna”, è una creatura umana simpatica detentrice di verità, tanto che il poeta le domanda
se conosce il senso della morte, se conosce il morire rispetto alla terra.
Mentre nella prima strofa il poeta diceva “dimmi”, era quindi sicuro che la luna conoscesse la
verità, ora in pochi versi le certezze e le speranze del pastore iniziano a traballare con il
pesantissimo “forse”. L’atteggiamento è ancora incerto e ambivalente, come è chiaro grazie
al duplice “certo” che appare poco dopo, ed è sintomo del desiderio di sapere del pastore.

La luna nella seconda strofa è percepita lontana, detentrice forse di una verità che al pastore
è preclusa, c’è quindi un estraneità, una lontananza tra le due identità. Il poeta domanda
quale sia il senso della realtà, di quel deserto immenso, di quel cielo profondo e della loro
solitudine e a chi giovi tutto questo infinito. L'unica possibilità di felicità, che è confinata nella
dimensione ultraterrena, per il pastore è ora quella di uscire da questa realtà, è quella di
allontanarsi dal vero per guardare a un altra sorte del pensiero. Ed ecco nella conclusione la
sentenza cruda del poeta : in qualsiasi forma o stato noi siamo “è funesto a chi nasce il dì
natale”, il nascere diventa una condanna, diventa un giorno di dramma, funesto e tragico
perché ci condanna inesorabilmente alla sofferenza. Se nella prima parte del componimento
l’infinito dava piacere, ora provoca noia, senso del nulla, diventa motivo di sofferenza perché
ci si percepisce piccoli in un mondo enorme. La percezione dell’infinito mette in evidenza la
piccolezza dell’uomo in una realtà immensa, la nullità dell’esistenza, generando panico che
ci fa sentire soli, ci fa percepire vuoti. All’infinito che riempiva il poeta si sostituisce l’infinito
della ragione che annoia, ossia leopardi pensa razionalmente all’infinito. Lo strumento
utilizzato dal poeta per uscire da questa situazione di sofferenza è la poesia, il dolore
diventa poetico. Leopardi ci ha insegnato come la fragilità sia poetica.
LEOPARDI E SCHOPENHAUER
Schopenhauer è l’ambasciatore del pessimismo storico tedesco e colui che ha riflettuto
rispetto all’idea di pessimismo cosmico. Leopardi e Schopenhauer parlano entrambi di un
mondo caratterizzato dalla noia e da questo ritmo continuo privo di senso.
Schopenhauer trova alla base della realtà fenomenica un forza intrinseca, definita la “volontà
di vivere”, un istinto che ci porta a desiderare di vivere. Questo desiderio però rimane
perennemente inappagato, l’uomo si configura nuovamente come un essere desiderante. Di
conseguenza l'elemento che domina il mondo e l'esistenza umana è il tedio, ossia la noia, il
senso del vuoto, del nulla che nasce dal desiderio inappagato che non può essere realizzato
e concretizzato nella realtà. Il senso della noia leopardiana viene traslato nel tedio della vita
che si ripete senza mai dare felicità all’uomo, questa conclusione si ritrova chiaramente nelle
parole sofferenti del pastore alla luna.

CICLO DI ASPASIA

Dopo il ritorno del 1828 a recanati, dove compose il sabato del villaggio, la quiete dopo la
tempesta e canto del pastore errante, il poeta, nel 1830, si trasferisce a Firenze, per
collaborare con alcuni amici dotti che gli offrono un assegno mensile. Leopardi si inserisce
nell’ambiente fiorentino, laddove, tra i caffè e salotti intellettuali, conosce la nobildonna del
suo cuore di nome Fanny Targioni Tozzetti. Leopardi non proverà solo un amore idealizzato,
ma anche concreto, fatto di una passione irriducibile, che lo farà soffrire e lo porterà a
confermare quell’idea atroce sull’infelicità dell’esistenza. Leopardi, infatti, era il vertice
esterno di un triangolo amoroso, a cui partecipava anche un suo caro amico, l’affascinante
intellettuale Antonio Ranieri.
Tra il 1832 e il 1835 compone il ciclo di aspasia, una sezione dei canti (5,6 componimenti)
ove rimane la memoria di questo amore sconvolgente nei confronti di questa donna, oggetto
di un amore sofferente perché inappagato. Aspasia è il nome fittizio che rappresenta Fanny,
ed è un nome greco antico. Aspasia era la concubina di Pericle ovvero l’amante che era
stata capace di suscitare la passione di quest'uomo. Questo indica che vi era un effettivo
coinvolgimento passionale tra i due personaggi, reali e fittizi.

A SE STESSO, T16, Pag.112

Poesia datata al 1835, nel momento del disinganno a cui andò incontro l’amore per Fanny
Targioni Tozzetti, la scoperta della vera realtà della donna amata, che negava l’immagine
costruitasi dal poeta. E’ presente un'alternanza libera di endecasillabi e settenari rimati
liberamente, tipo della metrica leopardina.

Leopardi inizia rivolgendosi al suo cuore stanco di soffrire e di sperare, perché mai
soddisfatto del desiderio, il cuore del poeta deve ora veramente posarsi e trovare quiete
rispetto a quella sensazione di desiderio inappagato. Il cuore di leopardi deve smettere di
battere, deve “perì”, così come l’inganno estremo, l’illusione ultima d’amore è perita. Il verbo
perire ci da sia un sapore definito che una percezione di antico, quindi di qualcosa di
sicuramente concluso, come l’inganno che il poeta pensava potesse durare per sempre.
La sintassi della poesia è paratattica, in questo caso la breve frase è formata da un solo
verbo di azione. In generale l'utilizzo smodato dei verbi vuole sottolineare l’energia con cui
Leopardi intende dare una svolta drastica alla sua vita dopo il “disincanto”, e non vuole più
perdersi nei sogni e nelle fantasticherie.

La sentenza del poeta è definitiva e perentoria tanto che la natura stessa non è più degna
dei battiti del cuore : “Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra”. La vita
per leopardi è diventata solo amaro e noia, ovvero dolore e morte : il pessimismo cosmico a
questo punto della poesia è dettato da sostantivi concettualmente densi e ricchi di
espressività, come ad esempio la terra che diventa “fango”. La poesia segna il distacco
definitivo dalla fase giovanile delle illusioni : se negli idilli il poeta pur essendo consapevole
della vanità delle illusioni, non rinunciava a recuperarle attraverso la memoria, ora persino il
desiderio di “cari inganni” è spento. La negazione dell’illusione è ferma e perentoria. Anche
la natura diventa forza malefica del fato che domina l’universo avendo come fine il male, di
conseguenza la percezione "infinita vanità del tutto”, che in precedenza generava noia, ora
suscita un atteggiamento combattivo di superiorità sprezzante.
Il leopardi giovanile professava l’immaginazione come via di fuga della realtà, in questa fase
invece leopardi è convinto che non sia più presente una via di fuga, ma l’unica soluzione è
fare in modo che il cuore smetta di battere, cioè anestetizzare il cuore, ovvero renderlo
incapace di sentire. Solo così questa può essere l’ultima disperazione del cuore, ovvero
l’ultimo inganno amoroso, e può mettere da parte ogni speranza per il genere umano,
perché l'unica vera soluzione è la morte. La morte non va intesa come il passaggio a
un'altra vita ma come una morte al mondo foscoliana, come un perdersi nel nulla e nel vuoto
in senso ateistico.

Anche la sintassi franta e il tessuto lessicale sono molto lontani dalla poetica dell’indefinito, il
lessico qui è impresso di razionalità e delle acquisizioni filosofiche definitive, non di
immaginazione e di illusioni. Non siamo più di fronte alla musicalità dell'infinito, con la sua
fluidità ma a livello metrico questa poesia è ricca di enjambement e spezzature che evocano
una melodia franta e una sonorità cardiaca che si identifica con gli ultimi palpito del cuore
dolente di leopardi.

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO, T18, Pag.121

GENESI COMPOSITIVA (1835)


E’ nella città di Napoli che Leopardi, ormai sul finire della sua vita (1837), decide di scrivere
questa poesia, che è il suo testamento spirituale, opera in cui leopardi consegna le
conclusioni della sua poesia e della sua filosofia, sotto forma della canzone libera.

VERSETTO INIZIALE : “e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”.


Il versetto, tratto dal vangelo di san giovanni e posto come epigrafe, allude alla polemica
condotta nel canto contro le idee contemporanee, assumendo una funzione ironica,
sarcastica. Nel nuovo testamento Giovanni allude al fatto che gli uomini ebbero accesso con
fatica al messaggio di Gesù, perché non furono capaci di riconoscere la luce, ovvero Dio,
ma anzi preferirono per molto tempo le tenebre e il peccato. Per l’ateo leopardi invece le
tenebre sono le concezioni spiritualistiche e ottimistiche, la fede nel progresso e nella
centralità dell’uomo nell’universo, mentre la luce è la consapevolezza della tragica
condizione effettiva dell’uomo, è la ragione stessa. Il poeta rovescia in certo qual modo il
senso della citazione evangelica; e questo prelude all’aspra polemica antireligiosa che
compare nella poesia.
Ed è proprio nella città religiosa di Napoli confinante con la superstizione che leopardi
sviluppa il simbolo della ginestra, che ha come obiettivo quello di colpire l’ottimismo dello
spiritualismo cattolico, per dimostrarne l’infondatezza.

STROFA 1 (vv 1-51)


Il poeta immagina di trovarsi sul pendio del “formidabil” vesuvio, dal latino “formidabilem”
terribile e allo stesso tempo sterminatore, facendo riferimento alla grande eruzione del 79
d.c. che distrusse le città di Pompeo e Ercolano. “L’arida schiena” del vulcano coperta di
lava indurita è spoglia di vegetazione, ad eccezione “dell’odorata” e “contenta” ginestra, che
sparge i suoi cespugli solitari. L'unico essere vivente che ha il coraggio di resistere alle
atrocità della natura è proprio questo fiore, che cresce, come afferma lo stesso leopardi,
anche nei deserti, e in luoghi dove la natura e il destino hanno mostrato la loro atrocità,
luoghi quindi radicalmente anti idilliaco. Il poeta dichiara di aver già visto questo fiore in
quella città che fu donna/signora dell’impero perduto, ossia Roma (uso della
personificazione). Evocando l’immagine del solitario e taciturno fiore a Roma, Giacomo
sottolinea come tutto ciò che è visibile all’essere umano è inevitabilmente soggetto alla forza
della natura, infatti Roma, così come Pompei sono state città vittime della storia e del
destino che le ha fatte crollare.

La ginestra definita “amante” e “compagna”, assume quindi due valori :


- il fiore della compassione che accetta di crescere nella sofferenza : la ginestra
compatisce il destino violento di cui sono stati vittime gli uomini di Pompei e di Roma
e decide di crescere e offrire il suo profumo anche in questi luoghi, la compagna
delle afflitte sfortune dei sofferenti
- amante dei luoghi tristi e abbandonati del mondo come quello precedentemente
descritto.

Compaiono poi altri tre essere viventi capaci di vivere in questi luoghi inospitali : il viandante,
il serpente e il coniglio. Il viandante sta semplicemente compiendo l’azione di camminare
sopra la lava solidificata, e rappresenta l’uomo che cerca una strada e una soluzione alla
brutalità della natura e del fato. La serpe è un animale ambiguo e viscido che carica il luogo
di sofferenza, un luogo dove non esiste vitalità per l’essere umano. Infine il coniglio che sta
scappando nella tana, imbucandosi sotto il suolo, incarna l’umanità mutilata. La ginestra in
questo luogo è una dolce presenza che sembra compatire e provare compassione per le
sorti dell’uomo e che assume una funzione consolatrice.

Leopardi fa un sferzante attacco parodico e ironico utilizzando i toni del canto sesto del
purgatorio invitando quelli che sono soliti esaltare la natura umana e lo sforzo progressita
dell’uomo, di venire a verificare quanto in questi luoghi desolati l’essere umano stia
effettivamente a cuore alla natura maligna. Per il poeta la natura ha predominio totale verso
l'uomo ed è capace di distruzione, mentre l’uomo può semplicemente essere soggetto di
questa strapotenza inesorabile della natura.

Anche gli ultimi tre versi della prima strofa sono argutamente sarcastici e sottolinea come
sulle pareti della sorte del genere umano siano incise “le magnifiche sorti e progressive".
Questo verso pronunciato con scetticismo ed amarezza ironica è corsivato perché una
citazione degli Inni Sacri di Terenzio Mamiani, cugino di Leopardi, intellettuale prgressista
che nella sua poesia aveva parlato convintamente di quanto la sorte umana fosse magnifica
ed in continuo progresso e di come le virtù del genere umano fossero capaci di dare sempre
risposte.

VERSO 111-125 della TERZA STROFA


Questi versi costituiscono la pars costruens, ovvero il messaggio profondo leopardiano dove
il poeta propone un progetto morale, etico di costruzione di una nuova moralità e mentalità
che invita ad adoperare : leopardi auspica alla nascita di una nuova nobile natura umana, di
un homo novus moderno.
Leopardi considera la natura umana nobile e virtuosa quando ha il coraggio di sollevare i
suoi occhi mortali per guardare in faccia il destino comune degli uomini e la verità,
riconoscendo la dolorosa e fragile condizione che la natura ci ha assegnato. Quindi anche
quando la verità è atroce bisogna avere il coraggio di confessare e esporre con lingua franca
il male che ci è stato dato in sorte, bisogna mostrarsi forti nel soffrire, bisogna avere
resistenza.
Inoltre l’uomo virtuoso non cerca il conflitto con altri uomini perché siamo tutti compartecipi
della stessa miseria e l’unica vera colpevole della sofferenza è la natura. Da qui nasce la
necessità di una cooperazione fra gli esseri umani che devono lasciare in disparte i litigi per
formare una solidal catena contro i progetti avversi della natura. Siamo tutti vittime di una
natura potente e distruttiva ed è per questo che gli uomini devono guardare in faccia alla
verità appoggiandosi l'uno agli altri, così come affermerà poi con l’idea di una coscienza
sociale collettiva Vittorini.

VERSO 297-317 DELL’ULTIMA STROFA


Il componimento vede l'alternarsi di parti liriche a parti più filosofiche ragionative per
trasmettere l’idea del maturare e del crescere del fiore del deserto che corona e diventa il
simbolo di una nuova nobile umanità. L’uomo deve guardare in faccia la tragicità
dell'esistenza e il vero, e queste verità devono essere esposte con lingua franca, ovvero con
il senso dell’onestà intellettuale, attraverso una solidal catena del genere umano, ovvero il
valore della resistenza.
La ginestra infatti è “lenta”, ovvero ha lo stelo molto flessibile che le permette di resistere alle
avversità del luogo in cui cresce e si sviluppa, anche se tra poco dovrà soccombere e sarà
distrutta dall'eruzione del vulcano, così com'è l'uomo prima poi dovrà perire. Ma fino
all’ultimo momento la ginestra e l’uomo non devono piegare invano suplicando
codardamente il futuro oppressore, ovvero la natura, e non devono neanche supplicare con
preghiere commiserevoli la benevolenza del fato, ma devono resistere, perchè prima o poi
verranno oppressi inevitabilmente. Ma non bisogna neanche cadere nell'errore opposto di
guardare le stelle pensando di essere invincibile e di poter resistere a ogni avversità. La
ginestra, simbolo dell'accettazione, si trova nel mezzo, e decide di resistere consapevole
che prima o poi si dovrà piegare dinanzi alle avversità inevitabili della natura. La ginestra
accetta il suo destino perché è “saggia” e meno “inferma”, ossia illusa, rispetto all’uomo e sa
riconoscere che le sue radici non sono immortali, quindi è consapevole della verità e di
come le avversità e l’atrocità della natura appartengano al destino umano, ma non cancella
la sua dignità.

LE OPERETTE MORALI
Dopo il soggiorno deludente sia dal punto di vista culturale ma anche “quanto a donne
niente di più che a Recanati”, alla casa degli zii materni a Roma, segue un periodo di
infelicità che sfocia nella composizione delle operette morali, composte tra il 1822 e il 1824.
Il poeta decide di rinunciare alla poesia perché viene meno il suo entusiasmo e si dedica a
questo progetto di 24 testi in prosa.
Sono definite morali perché il loro obiettivo è di tipo filosofico-etico, ovvero il poeta vuole
assumere tutte le conclusioni a cui è giunto a conclusione della sua giovinezza, è quindi un
progetto di impronta filosofica. Il termine operette invece rinvia sia alla lunghezza ridotta del
testo che al tono sagace e ironico con il diminutivo (tono del sermones, della satira
oraziana).
Queste operette corrispondono a dei dialoghi, favole o racconti tra personaggi fittizi o storici.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE, T20, Pag. 149

Questo dialogo filosofico tra il personaggio generico dell’islandese e la figura simbolica della
natura rappresenta l’espressione più compiuta del pessimismo cosmico. Per Leopardi il
problema non si riscontra più nel corso e nell’evoluzione della storia ma è la natura stessa
maligna che ha condannato l’uomo a soffrire. La natura fin dalle origini non è madre ma è
matrigna. Leopardi scegli l’islandese perché rappresenta l’essere umano che soffre a causa
delle condizioni inospitali della natura, nell’inizio favolistico infatti, questo personaggio dopo
varie peregrinazioni giunge in un luogo desolato dell’Africa dove vede una figura enorme che
si avvicina, non una statua ma una donna viva.

L’isandese risponde alla domanda esistenziale della natura sul perché della sua presenza in
luoghi disabitati con il motivo della fuga dall’aspra islanda e la natura sottolinea ironicamente
con un'immagine proverbiale la triste condizione dell’essere umano : così come lo scoiattolo
fugge dal serpente a sonagli fino a quando non gli cade in gola, allo stesso modo la natura
riuscirà a divorare l’islandese. La natura irride inoltre l’ingenuità dell’islandese che non ha
pensato che la natura stessa, dalla quale stava scappando, potesse rivelarsi in quella zona
deserta dove esercita un potere straordinario.
Il motivo di fuga dell’islandese è la presa di coscienza della nullità di tutte le cose, della
vanità della vita, della mancanza di senso, della noia dell’esistenza. L’uomo si rendendosi
conto dell'impossibilità di provare piacere ha deciso di allontanarsi dalla vita quotidiana per
evitare la sofferenza e andare alla ricerca di un angulus di tranquillità, nel quale astenersi dai
patimenti. In questa prima fase è presente una rinuncia al piacere che costituisce la felicità
per un momento di astensione ove è possibile evitare le sofferenze a cui l'uomo è
condannato. Questo luogo non è riscontrabile in islanda per le condizioni climatiche e altri
fattori, da qui la mutatio loci dell’islandese verso la ricerca di un luogo nel mondo in cui
potesse senza offendere nessuno e non essere offeso e pur non godendo non patire.
L’islandese arriva alla conclusione amara che però trovare questo luogo è impossibile e
quindi si rende conto non solo che l’uomo non può godere ma è anche impossibile riuscire a
non patire, questa è la conclusione del pessimismo cosmico.
La natura non è madre benigna bensì malvagia, è un matrigna, una madre malevole che ha
creato i suoi figli al fine di soffrire, la natura diventa così nemica scoperta dell’uomo.

la natura dà solo delle risposte scheletriche e seccate perché si pone dall’alto e non ritiene
di dover dare delle spiegazioni all’essere umano che si pone delle domande di senso,
laddove il senso non esiste. La natura si presenta come un'entità meccanicistica che segue
le proprie regole, non esiste un finalismo nella realtà ma una sola logica di conservazione.

L’islandese non desiste e pone un confronto alla natura : se un signore invita al palazzo una
persona e poi accoglie questo ospite in modo indecoroso, l’ospite si potrebbe chiedere allora
il perchè dell’invito, e allo stesso modo l’uomo si chiede : visto che in questa casa che è la
natura, non esiste nessuno spazio per l’uomo , allora qual’è il senso dell'esistenza?
La risposta della natura è brutale : l'esistenza dell’uomo non è finalizzata la bene ma anzi il
motivo per cuo l'uomo esiste è puramente meccanicistico, l'uomo è solo un ingranaggio di
questo mondo, e di conseguenza non esiste spazio per il senso della vita e per la felicità
umana.
L’islandese non ancora contento delle risposte della natura chiede : ma siccome chi è
distrutto patisce e quello che però distrugge non gode perchè non esiste alcuna felicità e
senso per chi opera, allora a chi giova tutta questa vita così infelice? qual è il senso, il
metodo di questo ingranaggio?
A questa domanda finale non viene data una risposta e viene ripresa la parte favolistica,
perché l’universo è un mistero insondabile.

Leopardi poi ci propone due diverse interpretazione sulla fine e la morte dell’islandese :
- viene mangiato da due leoni che gli appaiono davanti per rappresentare la ferocia e
la recrudescenza della natura
- oppure viene travolto da una tormenta di sabbia e viene fatto poi un mausoleo che
non ha stabilità, questa seconda ipotesi rappresenta la mancanza di senso in tutto
ciò che riguarda le aspettative umane, tanto che l’islandese non merita neanche un
luogo sicuro in cui terminare la sua esistenza.
Entrambi i finali dimostrano come di fronte alla richiesta di senso dell’uomo non esiste
soluzione e spazio e anzi il finale favolistico e ironico ci fa comprendere quanto l’uomo sia
ridicolo nel cercare risposte in ciò che risposte non può dare.

DIALOGO DI UN VENDITORE DI ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE, T24, Pag. 171

Questo testo è stato composto successivamente alle operette morali, nel 1832, ed è un
dialogo dai ritmi veloci e caratterizzato da battute brevi e concise. Il dialogo ha come
interlocutori due personaggi verosimili e realistici, che possono essere incontrati
nell’ambiente cittadino che fa da sfondo : il venditore di almanacchi e un passante. Gli
almanacchi erano dei calendari che esponevano informazioni e previsioni rispetto a quello
che sarebbe dovuto succedere l’anno successivo. Avevano quindi la duplice funzione, di
rappresentare e indicare praticamente lo scorrere del tempo, ma avevano anche una
funzione mantica e astrologica.
I personaggi incarnano due diversi pensieri : il passeggero rappresenta lo spirito dell’autore
stesso che intende contrastare la figura del venditore, che è l'incarnazione popolare del
filosofo ottimista progressista. Leopardi che, in questo periodo ha una visione fortemente
pessimista e cosmica, si pone come obiettivo l’infondere questa verità ai suoi lettori : le
verità scientifiche e tecnologiche del secolo positivista non contribuiscono e conducono alla
felicità dell’uomo ma anzi genera l’infelicità di cui l’essere umano è vittima.

All’inizio del dialogo il venditore, ingenuamente fiducioso nell'esito positivo dell’anno futuro,
sbandiera o suo almanacchi lunari e li propone al passeggere il quale pone la prima
domanda : il nuovo anno sarà felice come quello passato? Durante il dialogo il passante
porta il venditore lentamente ad ammettere che non è mai esistito effettivamente un anno da
definirsi felice, e che non aveva mai visto la vera felicità, ma nonostante questo il venditore
continua a essere ingenuamente positivo sul nuovo anno. Allora il passeggere chiede se
l’uomo avrebbe mai rivissuto la sua vita con tutti i suoi piaceri e dispiaceri. La risposta è no
perchè il venditore è portato ad ammettere e a riflettere sulla condizione di infelicità che
domina realtà e rispetto alla quale l’ottimismo non è che una falsa speranza. Il fatto che
nessuno vorrebbe tornare indietro nel tempo per rivivere la sua vita è un segnale di come il
male grava inevitabilmente sul mondo e la vita che si conosce, quella che razionalmente
percepiamo non è quella desideriamo, perchè quella vita è possibile solo immaginarla, è
quella che nutre le nostre speranze.
L’operetta si conclude con il venditore che ringrazia il passeggere per il tempo che ha
passato con lui e poi continua a sventolare gli almanacchi affinchè qualcuno li compri. Il
passeggere non vuole fare un proselitismo ferreo, non vuole convincerlo pienamente né
tantomeno presume che il venditore smetta di vendere i suoi magici oggetti. Il senso della
conversazione, infatti, è quello di uno spunto di riflessione fugace nella consapevolezza che
questo atteggiamento popolare ingenuamente fiducioso è qualcosa che non si può eliminare
completamente. La società stessa ha bisogno di schermi e di speranze anche illusorie per
poter sopportare il peso di questa angoscia di cui, per natura, è gravata.

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