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TESI

SETTEMBRE 2008
SHANTIH PINTOR

1
FIABA PAESAGGIO DELL’ANIMA

Sull’origine delle fiabe


Le narrazioni fiabesche sono esperienze di gente del popolo che si trovava in stati intermedi
di coscienza. Così pure i grandi miti degli dei sono rappresentazioni di quello che gli iniziati spe-
rimentarono sul piano astrale e sui piani superiori. (…) Tutto nella fiaba sorge in modo che i diver-
si avvenimenti e le immagini altro non sono che narrazioni di esperienze astrali, come le avevano
tutti gli uomini di una certa antichissima epoca. In seguito esse divennero sempre più rare e gli uni
le raccontarono agli altri che le accoglievano e le portavano di luogo in luogo. Così riapparvero
nelle lingue più diverse, e se riusciamo a enuclearne le esperienze astrali che stanno alla loro base,
possiamo riconoscere la somiglianza del tesoro delle fiabe in tutto il mondo.1
Queste parole di Rudolf Steiner vogliono indicare che alla base delle rappresentazioni fiabe-
sche vi siano esperienze chiaroveggenti, grazie alle quali gli uomini di un antico passato potevano
sperimentare interiormente le realtà del mondo spirituale in modo spontaneo. Vi sono quindi fiabe
che sorsero in antichi tempi nei quali l’umanità poteva ancora avere, anche se in modo sognante e
nebuloso, rivelazioni di elevate verità spirituali, in modo del tutto naturale. Le vere fiabe non furono
quindi frutto della fantasia popolare o della creatività di singole individualità, ma di elevate rivela-
zioni, ottenute mediante una chiaroveggenza istintiva. La somiglianza del corredo di immagini che
caratterizza le fiabe di tutto il mondo è quindi giustificata dal fatto che non si tratti di creazioni fan-
tastiche, ma di descrizioni di un mondo nascosto alla percezione sensibile, ma non per questo meno
oggettivo di quello fisico.

Come lo sguardo fisico offre la base di osservazione per descrivere il mondo sensibile, così
lo sguardo spirituale la offre per il mondo soprasensibile. Ma queste descrizioni, per essere comuni-
cate, devono essere rivestite di immagini tratte dal mondo ordinario. Le fiabe si rivestono quindi di
immagini diverse a seconda del popolo dal quale traggono origine ma, se sono vere fiabe, fanno tut-
te riferimento alle medesime realtà spirituali. Il fatto che le fiabe russe contengano rappresentazioni
e coloriture di sentimento diverse rispetto a quelle germaniche, cinesi o arabe, deriva soltanto dalle
diverse immagini delle quali sono rivestite; immagini che sono tratte, a mo’ di simboli, dai diversi
contesti sociali e culturali dei popoli d’origine.

Tuttavia non tutte le fiabe sgorgarono in modo spontaneo dall’antica chiaroveggenza atavi-
ca; esistono fiabe che sorsero in sedi misteriosofiche di secoli più vicini al nostro. Vi furono iniziati,
guide dell’umanità, che donarono le fiabe al mondo con il deliberato scopo di consentire agli uomi-
ni, attraverso quelle immagini piene di sapienza e di verità, di progredire nel loro sviluppo.
La fiaba, nel corso della storia, fu quindi un mezzo per divulgare profonde conoscenze in un
linguaggio immaginativo a tutti accessibile; un linguaggio che parlava, nutrendole, alle anime di
uomini semplici. Esse ebbero un tempo il preciso scopo di educare l’umanità e di guidarla nel corso
della sua evoluzione. Ed anche oggi possiamo ritenerle un nutrimento per l’anima ed un prezioso
strumento pedagogico.

Se vogliamo comprendere il contenuto delle vere fiabe e leggende, anzitutto non dobbiamo
ritenere che esse siano poemi scaturiti dalla fantasia del popolo. Esse non lo sono mai. L’origine
loro risale a tempi antichissimi, allorché gli uomini non erano ancora maturati a una civiltà razio-
nale e viveva in loro una chiaroveggenza più o meno accentuata, residuo di una chiaroveggenza
originaria. In uno stato intermedio tra veglia e sonno, essi sperimentavano effettivamente il mondo
spirituale nelle più svariate forme. Non si trattava di un sogno come quello che abbiamo attualmen-

1
Rudolf Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica

2
te che, per la maggioranza degli uomini è caotico. In tali antichi tempi questa veggenza era così
normale che, in persone diverse, le esperienze erano eguali o almeno tipicamente simili.
Ormai sono in pochi a ritenere che le fiabe siano un semplice diletto per bambini, vi sono
numerosi e celebri autori che si sono cimentati nella loro creazione e molti studiosi hanno sottoli-
neato con grande fermezza la portata del loro valore, anche educativo. Tuttavia, da una prospettiva
diversa, come quella che ci viene offerta dall’antroposofia di Rudolf Steiner, le fiabe assurgono ad
una dignità elevatissima, come dipinti che raffigurano paesaggi nascosti dell’anima e svelano pro-
fondi segreti sull’evoluzione umana.

Se con gli occhi potessimo cogliere i più profondi misteri dell’esistenza e, per descriverli, li
rivestissimo di immagini, se fossimo in grado di far ciò, potremmo essere creatori di vere fiabe,
come lo erano gli uomini di quell’antico passato, che vivevano in uno stato di coscienza diverso dal
nostro.

Quando gli uomini si trovano entro il loro corpo fisico, percepiscono il mondo circostante
come lo si può fare con organi fisici di percezione, ma dietro ad esso sta il mondo spirituale. Negli
stati intermedi tra la veglia e il sonno era invece come se il velo del mondo fisico si sollevasse per
rendere visibile il mondo spirituale. Tutto quanto stava nel mondo spirituale era in stretto rapporto
con quanto vi era nell’interiorità dell’uomo.2

Nelle fiabe, se impariamo a leggere fra le righe, possiamo trovare descritto quanto quegli an-
tichi uomini vedevano coi loro occhi dell’anima; questa è la dignità delle fiabe.

Sulla dignità artistica della fiaba


L’arte è uno specchio di impulsi spirituali.3 Questa, tra tutte le definizioni di arte, è forse la sola
che abbracci realmente, in tutta la sua portata, l’essenza stessa dell’elemento artistico. A tutta prima,
agli occhi di chi non abbia famigliarità con il mondo fiabesco, potrebbe sembrare eccessivo annove-
rare le vere fiabe tra le creazioni più alte e mirabili cui l’anima umana possa aspirare. Ma la loro
semplicità e la fanciullesca giocosità che le caratterizza, sono solo un velo dietro il quale si celano
contenuti inaspettati. Molto più profonde di quanto si creda giacciono nell’anima umana le sorgenti
dalle quali sgorga la vera poesia delle fiabe, che ci parla magicamente, lungo i secoli di evoluzione
dell’umanità.4
Così si espresse Rudolf Steiner nel corso di una conferenza sulla poesia delle fiabe e, in segui-
to, per descrivere le regioni dell’interiorità umana dalle quali nascono, le confrontò ad un altro ge-
nere letterario, molto distante da esse: la tragedia.
Chi, dal punto di vista della ricerca spirituale, cerchi di raggiungere le sorgenti della poesia
delle fiabe, le trova nell’anima umana in posizione assai più profonda di quelle cui essa attinge
quale creatrice o spiritualmente fruitrice di altre opere d’arte, anche delle più entusiasmanti tra di
esse, per esempio le tragedie più sconvolgenti. (…)
Le sorgenti della poesia e dell’atmosfera fiabesca sono più profonde di quelle in cui si intreccia
l’elemento tragico. (…) Nella tragedia e in altre opere d’arte incontriamo una cerchia circoscritta
dell’elemento umano. Quando poi cerchiamo di destare in noi un sentimento per quanto è presente
nelle fiabe, siamo portati a dire che quanto si esprime in esse non è riconducibile all’uomo in una
determinata situazione di vita, non è un’esperienza umana strettamente circoscritta, ma è tanto
profondamente ancorato nello sperimentare umano da meritare la qualifica di universalmente
umano. Non possiamo dire che qualunque anima umana, in una determinata epoca della vita e in
una determinata situazione, possa provare qualcosa di simile; quanto si esprime nella fiaba ha ra-
dici tanto profonde nell’anima che l’uomo sperimenta il medesimo fatto, indifferentemente se si tro-

2
Rudolf Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica
3
Rudolf Steiner – Storia dell’arte specchio di impulsi spirituali – Ed. Antroposofica
4
Rudolf Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito. – Ed. Antroposofica

3
va nell’età infantile, nell’età di mezzo o se è già vecchio. Per tutto il corso della nostra vita quello
che le fiabe esprimono ci riporta alle più profonde esperienze dell’anima. Solo che la fiaba è
un’espressione libera, spesso giocosa, immaginosa, di un’esperienza fondamentale. (…) Nella fiaba
sentiamo vibrare disposizioni d’animo che si svolgono effettivamente nelle profondità dell’anima e
in modo che l’anima umana non le conosce solo in determinati periodi della vita, ma proprio per il
fatto che l’uomo è uomo, indifferentemente se sia bambino o adulto. (…) Nelle fiabe vive un ele-
mento generalmente umano che accompagna l’anima dal primo all’ultimo respiro, lungo tutte le
età della vita.
(…) Nel seguire attentamente determinati processi animici intimi, succede per esempio che i
conflitti animici che l’uomo vive anche nel profondo dell’anima e che rappresenta in opere d’arte,
nelle tragedie, sono relativamente più facili da afferrare in confronto ad altri conflitti animici, più
generalmente umani, dei quali nulla sa la vita quotidiana, e che tuttavia ogni uomo attraversa in
ogni età della vita.(…)
Di fronte a nessun’altra opera d’arte quanto alla fiaba, si può sentire di avere una gioia intima
dall’immagine immediata e nello stesso tempo sapere dell’esperienza animica profonda dalla quale
è scaturita la fiaba stessa.5
Se accettiamo questa prospettiva, non è più lecito mettere in dubbio il valore artistico delle vere
fiabe. Dalle parole di Steiner risulta invece che esse scaturiscano da profondissime sorgenti
dell’anima umana, talmente profonde dall’essere nascoste alla coscienza abituale. Le fiabe, a diffe-
renza delle tragedie, non narrano eventi paragonabili a quelli della vita comune. Chi assiste ad una
tragedia, può porsi nei panni dell’uomo colpito dal fato, rapportando a se stesso i tragici eventi
ch’egli è stato destinato a sopportare; mentre chi ascolta una fiaba non può paragonare i fatti della
propria vita a quelli vissuti dai personaggi fantastici, che uccidono draghi o superano in astuzia gi-
ganti. Può invece tentare di scoprire cosa si celi dietro a quelle immagini e, sorprendentemente, vi
troverà incantate profondissime verità, che nessun evento esteriore, per quanto tragico, avrebbe mai
potuto rappresentare. Le fiabe narrano eventi interiori dell’anima umana e, come in essa, possiamo
trovarvi dei tesori segreti.

I tesori segreti nelle fiabe


L’adulto che si addentri nel mondo fiabesco lo può fare in modo elementare, come fanno i bambini,
lasciando semplicemente agire su di sé le immagini senza alcuno scopo conoscitivo; oppure può
provare a scoprire cosa si celi dietro a quelle immagini e tentare di coglierne il significato, interpre-
tandole come rappresentazioni di profonde realtà spirituali. Questo lavoro è indispensabile per
l’educatore; infatti, quanto più profondamente si sarà immerso nella fiaba, tanto più il suo modo di
raccontarla, l’intonazione della sua voce ed il suo atteggiamento generale, saranno comunicativi e
capaci di suscitare immagini vivaci ed efficaci nell’interiorità dei bambini. Vi è un effetto molto in-
tenso sui bambini da parte della vita di pensiero degli adulti, ed è molto importante che gli adulti
abbiano nello sfondo i pensieri giusti. Noi leggiamo, o meglio raccontiamo, in modo molto diverso
quando abbiamo una base conoscitiva. La nostra espressione si modifica e con ciò tutta la disposi-
zione animica. Non si tratta di essere perfetti nella propria interpretazione delle fiabe, ma dobbia-
mo conoscere lo spazio spirituale, in certo qual modo il palcoscenico spirituale sul quale le fiabe si
manifestano. Dobbiamo avere un orientamento. Gli errori maggiori emergono proprio di fronte a
questo problema di orientamento.6
Quante più volte si affronta lo studio di una fiaba, tanti più significati vi si possono scoprire.
Ogni volta vi si trovano contenuti nuovi ed anche per i bambini la ripetizione è importantissima.
Quanto più una fiaba diventa famigliare, tanto più il bambino vi penetra in profondità. Quindi le
fiabe vanno ripetute, soprattutto con bambini del primo settennio. Ciò è dimostrato ampiamente dal
fatto che sono loro stessi a chiedere che gli vengano ripetute fiabe che hanno già ascoltato molte
volte. È sorprendente poi scoprire che non ci è concesso cambiare una sola parola, che subito se ne
5
Ibidem
6
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno

4
accorgono e ci correggono. Nella ripetizione i bimbi sperimentano un senso di benessere e sicurezza
che è paragonabile soltanto alle attività più elementari e necessarie per la vita, quali il sonno e
l’alimentazione. La fiaba rinvigorisce e nutre l’anima, come il sonno ed il cibo rinvigoriscono e nu-
trono il corpo.

Quando un adulto si addentra in una fiaba, vi scopre i significati più sorprendenti che, pur non
essendo rapportabili ai singoli fatti biografici, sono strettamente connessi ai profondi enigmi esi-
stenziali che ogni uomo sperimenta vivendo, poiché la fiaba racchiude sempre qualcosa di univer-
salmente umano. In questo senso si può anche considerare la fiaba come una vera fonte di cono-
scenza e di autoconoscenza, alla stregua della poesia, che riveste di immagini cose della vita che al-
trimenti, per essere espresse, richiederebbero pagine e pagine di riflessioni.

Il processo di analisi della fiaba può poggiare sulle osservazioni lasciateci da Steiner, seguendo
le quali non si corre il rischio di perdersi nel mondo fiabesco, attribuendogli significati arbitrari. La
sola premessa è una certa famigliarità con il linguaggio delle fiabe, le cui rappresentazioni spesso si
ripetono; come archetipi che ritraggono di volta in volta nuovi scenari interiori. Infatti è possibile
«applicare a tutte le fiabe quanto si sia reso evidente in singole fiabe, quando si tratti beninteso di
vere fiabe.»7
Le immagini delle fiabe, quando sono autentiche, traggono origine da realtà spirituali, come il
linguaggio trae origine dalla realtà sperimentabile sul piano fisico. «Accogliendo le fiabe nel loro
insieme è come se da ogni frase vibrasse qualcosa che sta in rapporto con i segreti universali, come
se vibrasse qualcosa di quanto l’anima sperimenta nel senso della scienza dello spirito.»8

Le fiabe si servono del linguaggio, ma la forza delle immagini che evocano nell’anima, quando
si sia raggiunta una certa famigliarità con esse, si manifesta in modo così persuasivo da cancellare
ogni dubbio sull’oggettività del loro significato. Se vediamo un sasso che cade a terra, non ci sfiora
nemmeno l’idea di mettere in dubbio la forza di gravità. Similmente, quando cominciamo a familia-
rizzare con il linguaggio delle fiabe, il significato evocato dalle immagini fiabesche può assumere
contorni così nitidi da cancellare ogni dubbio sulla sua validità. Tuttavia, ognuno sperimenta
l’esistenza di molte leggi fisiche, ma non tutti riescono a ricavarne autonomamente i relativi concet-
ti. È quindi possibile imparare a conoscere il linguaggio delle fiabe ma, anche una volta acquisita
una certa dimestichezza con esso, le si possono leggere su diversi piani, a seconda delle nostre pre-
disposizioni individuali. Quando prendiamo in mano una raccolta di fiabe, possiamo sentirci come
se stessimo aprendo un piccolo scrigno contenente un tesoro segreto; la conoscenza del linguaggio
fiabesco è la nostra piccola chiave d’oro.

Fiaba e forze morali


Alte verità sulle questioni più profonde dell’esistenza possono essere mostrate al bambino con
le fiabe, molto più di quanto sia possibile fare con discorsi astratti o precetti morali. Il bambino vive
letteralmente nelle immagini della fiaba; vi si immerge e queste risvegliano in lui forze, parimenti
alle esperienze della vita reale. Le immagini della fiaba si trasformano nel bambino in forze morali;
perché la fiaba gli fa vivere sul piano del sentire esperienze piene di moralità. È bene che queste ac-
compagnino il suo sviluppo in modo che, nel misurarsi con i fatti reali della vita, possano sostenerlo
al pari di esperienze realmente vissute. Un bambino che avrà sperimentato con tutto se stesso la vit-
toria del principe contro il drago, del bene contro il male, avrà maggiori risorse per sconfiggere il
drago quando lo incontrerà davvero.
Precetti morali o aridi concetti sono indigesti per l’anima. Tutti quelli che hanno a che fare con i
bambini sanno quanto poco sia proficuo rimproverarli per una marachella appellandosi alla loro ra-
gione, tentando di spiegargli la differenza tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Tutto ciò ha vera-
7
Ibidem
8
Ibidem

5
mente poca presa sull’anima del bambino, perché essa parla un linguaggio diverso: un linguaggio
immaginativo.
Le immagini della fiaba toccano le corde più profonde dell’anima del bambino ed egli, crescen-
do, le porterà con sé come esperienze oggettive e, a tempo debito, le riscoprirà nella propria interio-
rità trasformate in impulsi morali dai quali sorgeranno ideali. Questi ideali sorgeranno dalla sua in-
teriorità sul terreno delle cose che avrà sperimentato nella vita e, fra queste, vi saranno intessute le
immagini delle fiabe. Le fiabe stesse saranno forse state dimenticate, ma l’esperienza vissuta ascol-
tandole avrà compiuto un lavoro nelle profondità dell’anima, sviluppando forze positive. Le fiabe
sono un tesoro insostituibile; un’inesauribile fonte di ricchezza non solo per l’educazione del pen-
siero, ma anche per lo sviluppo della moralità.
Ogni fase dello sviluppo del bambino è caratterizzata dal diverso rapporto ch’egli ha con le
grandi questioni dell’esistenza, con i grandi dualismi: bene e male, vita e morte, coraggio e viltà, al-
truismo ed egoismo, ecc. Fino ai sette/otto anni non vi è linguaggio più indicato di quello delle fiabe
per rispondere alle domande inespresse che giacciono nell’inconscio e nel subconscio del bambino.
Nelle fiabe il bambino trova le risposte di cui ha bisogno espresse con un linguaggio a lui compren-
sibile: un linguaggio che non fa appello al suo raziocinio ma a strati più profondi del suo essere.
Certo una fiaba vien presto dimenticata anche dal bambino, ma l’esperienza che avrà prodotto in
lui continuerà ad operare nella sua interiorità, proprio come continuano ad operare le esperienze
vissute nel mondo ordinario. Ciò è possibile perché le immagini che ci parlano dal mondo delle vere
fiabe sono in realtà degli archetipi. Sono delle finestre aperte sulle profonde questioni
dell’esistenza; basta saperle capire o, come i bambini, basta saperle ascoltare spregiudicatamente,
col cuore aperto.

La fiaba e l’archetipo
Steiner fece osservare che la vita è piena di simboli reali, predisposti dal mondo spirituale
perché l’uomo abbia sempre una manifestazione tangibile della sua esistenza. Il chicco di grano che
si sacrifica e muore alla terra per donare tanta vita; il sole che splende nel cielo e fa sbocciare i fiori
e maturare i frutti; la crisalide che diviene farfalla: il mondo spirituale ha disseminato il mondo fisi-
co di simboli reali perché l’uomo non vi si smarrisse.9 Nella fiaba l’evento interiore diventa evento
esteriore; immagine. In tal modo anche elevatissime verità, che per essere espresse in concetti ne-
cessiterebbero difficili ragionamenti, possono essere espresse in modo vivo ed adatto alla recettività
dei bambini. Ciò educa in loro la disposizione a riconoscere l’elemento spirituale che tesse e trama
dietro il velo dell’apparenza fisica, che di esso è solo un simbolo.

La fiaba in relazione alla condizione animica del bambino in età scolare


Dalla descrizione data da Steiner delle diverse tappe evolutive attraversate dall’umanità sulla
terra per raggiungere lo stato di coscienza attuale, risulta che l’evoluzione terrestre sia scandita da
sette grandi epoche.10 Le prime quattro, secondo la terminologia antroposofica, sono chiamate Pola-
re, Iperborea, Lemurica e Atlantica; la quinta, nella quale ci troviamo attualmente, si chiama Postat-
lantica e, al termine di questa grande epoca, ne seguiranno altre due.
Secondo le descrizioni di Steiner la grande epoca Postatlantica, nella quale ci troviamo at-
tualmente, è a sua volta suddivisa in sette epoche di cultura, ognuna delle quali è legata alla fioritura
di una grande civiltà. La prima epoca è denominata Antica India, la seconda Antica Persia, la terza
fu l’epoca Egizio-Caldaica/Assiro-Babilonese, la quarta quella Greco-Romana, mentre la quinta,
l’attuale, è spesso definita era dell’Anima Cosciente. Termine che indica lo sviluppo dell’anima nel
senso della conquista di un rapporto cosciente con l’elemento divino spirituale.
Steiner caratterizzò in diverse occasioni queste epoche di cultura ponendo in evidenza il fat-
to che ad ognuna di esse corrisponda un passaggio evolutivo dell’umanità, sia sul piano fisico, sia

9
Vedere: Herbert Hann – Pedagogia e religione – Ed. Antroposofica
10
Vedere: Rudolf Steiner – La scienza occulta nelle sue linee generali – Ed. Antroposofica

6
sul piano spirituale. Queste tappe evolutive sono quindi connesse allo sviluppo della coscienza
umana.
In questo contesto sarebbe eccessivo tentare di caratterizzare, seguendo le descrizioni date
da Steiner, tutti i gradini attraversati dall’umanità per il raggiungimento dello stato di coscienza at-
tuale; tuttavia non si può tralasciare una realtà che si trova alla base della nostra pedagogia.
Secondo l’antropologia dalla quale si è sviluppata la pedagogia steineriana, il bambino, nelle
diverse fasi di sviluppo, ripercorre in sintesi tutti i passaggi evolutivi attraversati dall’umanità nel
corso dell’evoluzione. I diversi livelli di coscienza che il bambino raggiunge nel corso del suo svi-
luppo sono quindi in relazione con le diverse epoche di cultura che hanno caratterizzato lo sviluppo
dell’umanità intera.
Il bambino di sette anni si trova in una condizione interiore paragonabile a quella che inte-
ressò l’umanità nell’epoca denominata Antica India. Esiste quindi una relazione tra primo settennio,
Antica India e linguaggio delle fiabe. Una breve descrizione dello stato di coscienza dell’antico in-
diano potrà illuminare da un’altra prospettiva, l’importanza della fiaba in quel delicato passaggio
dello sviluppo del bambino, che coincide con la maturità scolare.
Se guardiamo il bambino di sette anni possiamo farci una pallida idea di quale fosse il livel-
lo di coscienza dell’antico indiano. L’antico indiano aveva uno stato animico che permetteva le
esperienze del mondo spirituale. Buona parte di quegli uomini sentiva ancora nel cuore e
nell’anima una poderosa attrazione verso le esperienze del mondo soprasensibile. (…) Sentiva che
il mondo soprasensibile era la patria originaria degli uomini, e che da quello essi erano stati tra-
sferiti nel mondo delle percezioni esteriori sensorie, e dell’intelletto ad esse collegato. Gli antichi
indiani sentivano il mondo soprasensibile come il vero mondo, e quello dei sensi come un inganno
della percezione umana, un’illusione (maya).»11 Con questa descrizione non si vuole naturalmente
attribuire al bambino di sette anni le stesse facoltà animiche che vivevano nell’antico indiano eppu-
re, anche se a livello inconscio, egli sperimenta la stessa nostalgia per il mondo spirituale, lo stesso
senso di appartenenza ad esso. Osservandolo riconosciamo che la sua coscienza di veglia sia ancora
in parte addormentata. Quando un bambino è sveglio, troppo sveglio per la sua età, questa condi-
zione è stata indotta dagli adulti e dal loro mondo.
In prima, in seconda, a volte anche in terza classe, si osserva che i bambini si muovono ancora nella
leggerezza, che vivono nel ritmo, che seguono melodie interiori e sentono armonia in se stessi e
fuori. Vivono in armonia e sperimentano ancora il mondo in modo immediato; non hanno ancora
creato una barriera fra se stessi e il mondo. Il bambino piccolo non è un contemplatore: se gli si in-
dica un bel paesaggio lui lo guarda per un istante, poi si distrae. Lui non guarda il paesaggio, vive in
esso.
Le percezioni del mondo non vengono più assorbite direttamente come nel primo settennio,
ma i bambini di sette/otto anni vivono ancora nelle percezioni, vivono ancora nella fantasia e accol-
gono volentieri quanto viene loro proposto in modo spontaneo e per nulla condizionato da forze ra-
zionali. Vivono ancora in un mondo affine a quello della fiaba e, mentre la si racconta, si vede come
gli eventi narrati risuonino in loro, come vi si immedesimino con naturalezza. I bambini di quell’età
hanno ancora con il mondo un rapporto empatico.
In tempi più antichi dell’evoluzione umana (Steiner non specifica qui a quale epoca si riferi-
sca) ogni anima si trovava più vicina a una percezione chiaroveggente delle esperienze interiori
animiche e perciò, in certe circostanze, l’anima semplice popolare (…) poteva cercare nutrimento
nelle immagini che allora sorgevano dalla creatività animica umana e che oggi troviamo nelle fia-
be tramandate dai diversi popoli.(…) Non è davvero il caso di meravigliarsi che le fiabe più belle e
caratteristiche fossero note in tempi antichi, dai quali ci furono tramandate, quando gli uomini
possedevano ancora una certa coscienza chiaroveggente e potevano più facilmente accedere alle
fonti di tale atmosfera poetico/fiabesca; e neanche ci stupisce che le fiabe siano più caratteristiche

11
Rudolf Steiner – La scienza occulta nelle sue linee generali – Ed. Antroposofica

7
nelle contrade della Terra, per esempio in India e in generale in Oriente, dove le anime umane so-
no più vicine a tali fonti di quanto non lo siano le nostre anime occidentali.»12
Per l’antico indiano, come si è detto, il mondo fisico era maya, illusione e, fino ai sette/otto
anni, i bambini riconoscono come reale quel mondo in cui le piante e gli animali parlano, come
l’intero creato parlava all’interiorità dell’antico indiano, il quale sperimentava ancora il mondo spi-
rituale come il solo reale. I bambini non hanno alcuna difficoltà a far vivere gli uni accanto agli altri
principi, draghi, maghi e animali parlanti. L’antico indiano, dietro alla realtà incantata del mondo
fisico, dentro alla materia di cui è rivestita la pianta o dietro alle forme corporee dell’animale, era
ancora in grado di riconoscere la loro natura spirituale. Il bambino di sette anni, quando gli si pre-
sentano scenari fiabeschi nei quali l’animale e la pianta raccontano la propria esistenza con parole
umane, rivivono una reminescenza dell’antico stato in cui si trovò l’umanità intera in quell’antico
passato. L’antropomorfismo del linguaggio fiabesco, visto sotto questa luce, si eleva a livelli infini-
tamente più elevati di una semplice ingenuità fanciullesca.
Nel primo settennio il bambino vive inconsciamente il ricordo del mondo spirituale dal qua-
le proviene; per questo si ritrova nelle fiabe. Le fiabe contengono quelle verità spirituali che l’adulto
si è conquistato con la logica, ma il bambino le vive inconsciamente e bisogna offrirgliele attraverso
immagini, perché le immagini parlano all’inconscio e non all’intelletto. Sono immagini che, come
semi, sbocceranno poi al momento giusto, come forze dell’anima. Proviamo a leggere i simboli che
troviamo nelle immagini delle vere fiabe, allora vi troveremo le più alte verità dell’esistenza espres-
se in un linguaggio che, per il bambino, è il solo comprensibile; il solo capace di radicarsi in lui tan-
to profondamente da trasformarsi in forze viventi. Molte domande sorgono nelle profondità del suo
essere, ma il bambino non ha ancora la possibilità di portarle a coscienza al pari di un adulto e le
sperimenta sotto forma di immagini. Proprio nelle vere fiabe, che furono il frutto della chiaroveg-
genza di elevate guide dell’umanità, troviamo le immagini per dare ai bambini le risposte che chie-
dono.

Educazione del respiro e della sfera emotiva


La fiaba è un mezzo potentissimo per armonizzare il respiro. Contrazione e rilassamento,
momenti di tensione e di tensione che si scioglie con un lieto fine: questa alternanza è una formida-
bile palestra per il sentire. E un sentire ben coltivato ha un potere armonizzante sul respiro e, in ge-
nerale, su tutta l’organizzazione ritmica. Basti pensare a come il cuore batta freneticamente quando
siamo spaventati, agitati o ansiosi. Nelle fiabe il bambino sperimenta tutti i sentimenti, anche i più
antipatici, ma in una condizione di serenità. Può sperimentare anche tensione e spavento, ma vive
questi sentimenti sentendosi sicuro e protetto. Per questa ragione il suo sentire ne risulta rafforzato.
Sarebbe assurdo pensare di educare il sentire di un bambino privandolo di ogni sentimento spiace-
vole. Il bambino, infatti, spesso chiede che gli vengano raccontate proprio quelle fiabe che gli con-
sentono di sperimentare sentimenti che, nella vita reale, sarebbero molto spiacevoli. Ma egli li desi-
dera e nelle fiabe vuole misurarsi con la paura e con la sofferenza e con tutta quella gamma di sen-
timenti che, nel profondo del cuore, sa di dover conoscere e rafforzare per andare incontro alla vita.
Nelle immagini delle fiabe il bambino si sente compreso fin nel profondo. Si sente compreso
nelle sue ansie e nelle sue paure, senza però sentirsi giudicato.

Si può dire che il bambino piccolo sia “fatto di sentimenti”; infatti, vive continuamente in un
altalenare, in un mare di sentimenti. Dalla gioia al dolore, dalla felicità alla tristezza; in pochi istanti
lo stato d’animo può cambiare radicalmente. Un bambino davanti ad un vassoio di biscotti è com-
battuto fra il desiderio di afferrarli ed il desiderio di obbedire alla madre che gli ha detto di aspettare
fino all’ora di cena. Questa dualità occupa tutto lo spazio interiore del bambino. La fiaba parla di
questa dualità con un linguaggio a lui comprensibile. Egli, a scuola, incontra le prime difficoltà e le

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R. Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica

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fiabe parlano anche di queste difficoltà, che riguardano sempre, prima di tutto, l’educazione del sen-
tire.
Nell’alternanza di sentimenti piacevoli e spiacevoli, di momenti di tensione che si risolvono
in nuove armonie, il bambino rafforza i suoi sentimenti ed impara a governarli. E tutti noi sappiamo
quanto sia importante, nella vita, saper governare la propria emotività.
Il bambino si immedesima profondamente con le vicende dei personaggi delle fiabe, vive
letteralmente insieme a loro. Inconsciamente fa appello alle proprie forze di coraggio quando deve
affrontare il drago, sperimenta simbolicamente il trionfo del suo io superiore quando, portata a ter-
mine l’impresa, si congiunge con l’anima umana e sposa la principessa. Ogni vicenda delle fiabe è
un’esperienza che mette il bambino in contatto con le forze viventi della sua anima. Una voce pro-
fonda gli parla senza affiorare a coscienza e gli dice: «In te sta qualcosa che ti trascende e in certo
modo ti rende poi vincitore sopra le forze della natura».13 Per questa ragione non bisognerebbe mai
drammatizzare il racconto; non si dovrebbe mai enfatizzare quando si legge una fiaba. Se, alla com-
parsa del lupo, digrigniamo i denti, accigliamo gli occhi e parliamo con voce terribile, terrorizziamo
il bambino e annichiliamo le sue forze, le inibiamo sul nascere. Egli sentirà che il lupo è troppo for-
te e che non troverà mai il coraggio di battersi con lui.
In ambito pedagogico, è ogni volta sorprendente scoprire quanto siano diversi i disegni di
una classe di bambini che abbia ascoltato la stessa fiaba. Ci sono dei collerici arditi che disegnano
un lupo enorme e feroce, con zanne aguzze e occhi di fuoco, con un piccolo cavaliere che gli si para
innanzi, monolitico, forte come un Dio, con la spada sguainata e lucente. Ci sono poi dei malinconi-
ci che disegnano un lupino che pare un barboncino, ed un principe che sembra un gigante. Se si rac-
conta con tono misurato, senza esagerare con l’interpretazione, si consente al bambino di formarsi
delle immagini corrispondenti alle sue forze. Ogni bambino immaginerà un lupo che può sostenere,
col quale può battersi e troverà il coraggio di combattere ogni istante al fianco del principe. Se inve-
ce descriviamo un lupo spaventosamente feroce, imporremo al bambino la nostra immagine di lupo,
ma lui non avrà ancora le forze per sostenerla.
Se raccontiamo bene, mentre il bambino si sente al sicuro nel suo lettino o in classe, con una
bella atmosfera serena e piena di calore, allora gli faremo uno dei doni più belli che la vita possa da-
re. Chiunque abbia ricevuto il dono di fiabe ben raccontate prima di addormentarsi, ne porta nel
cuore un ricordo meraviglioso per il resto della vita. E sente pulsare quel ricordo come una forza
piena di luce ed amore.

Pensare attivo e pensare passivo: fiaba e tv a confronto.


La fiaba, al contrario dello schermo televisivo, stimola lo sviluppo di un atteggiamento attivo
del pensare. A riguardo si possono fare alcune considerazioni ma, prima di tutto, bisogna chiedersi
cosa sia un pensare attivo e in che modo l’attività pensante si differenzi nell’adulto e nel bambino.
Prima di tutto va fatto osservare che l’adulto sia in grado di governare i propri pensieri in misura
assai maggiore rispetto al bambino, la cui attività pensante è invece del tutto dipendente da quanto
avviene nell’ambiente circostante, dallo stato emotivo e dalle esigenze corporee. Si può dire che
quello del bambino sia, in generale, un pensare condizionato, e che l’adulto abbia invece la possibi-
lità di autodeterminare i propri pensieri.
Per un adulto può definirsi attivo ogni processo di pensiero scaturito da un impulso autodeter-
minato e, al contrario, può definirsi passivo ogni processo di pensiero condizionato da qualsiasi al-
tra cosa. Ogni processo di pensiero, per essere attivo nel senso qui inteso, deve quindi essere sorret-
to da un impulso volitivo cosciente.
Un pensare attivo è quindi una condizione impropria rispetto al bambino, il quale non è ancora
cosciente dei propri pensieri ed è in larga misura incapace di autodeterminare la propria volontà.
Questa condizione il bambino la conquista e rafforza nel corso dello sviluppo e la sua attività pen-
sante può essere paragonata a quella di un adulto solo a partire dal terzo settennio di vita.

13
Ibidem

9
Al fine di caratterizzare il modo in cui la fiaba stimoli lo sviluppo di un pensare attivo, è quindi
necessario stabilire quali siano le premesse per un sano sviluppo dell’attività pensante e scoprire in
che modo vi si collochi l’ascolto delle fiabe.

***

In ambito pedagogico, parlando degli effetti della televisione sullo sviluppo del bambino, si os-
serva che, di fronte alla tv, il bambino metta in stop la propria volontà e viva in una condizione di
interiore passività. Si comporta come un recipiente vuoto nel quale venga versato qualcosa e questa
passività riguarda tutta la sua interiorità ma, in special modo, la sua vita di pensiero.
Di fronte alla tv non è pertanto il bambino a pensare ma, in un certo senso, è la televisione a
pensare in lui. Il pensare si educa così ad assumere un atteggiamento passivo e la situazione è la
medesima nel caso in cui a guardare lo schermo sia un adulto; solo che l’adulto né è consapevole e
responsabile e, a differenza del bambino, ha già una vita di pensiero formata.
Si potrebbe obiettare: «Quando il bambino ascolta una fiaba, si comporta ugualmente come un
recipiente vuoto: similmente a quelle della televisione, le immagini della fiaba vengono riversate
nella sua interiorità da fuori, attraverso l’udito». Ma proprio qui vi è la differenza sostanziale: le
immagini televisive si riversano nell’anima attraverso gli occhi, quindi dall’esterno, mentre quelle
della fiaba scaturiscono dall’immaginazione, quindi dall’interiorità. Il bambino che ascolta una fia-
ba, soprattutto se il narratore procede lentamente, è interiormente attivo e produce lui stesso le im-
magini. È straordinario che la stessa fiaba, raccontata a dieci bambini diversi, faccia sorgere in
ognuno immagini del tutto originali ed irripetibili. Anche una fiaba che venga ascoltata dieci volte
dallo stesso bambino, ogni volta farà sorgere in lui immagini diverse, sempre più ricche. Ciò fa par-
te del miracolo della vita: non si ripete mai.
La tv, in questo senso, ha invece in sé qualcosa di morto: dieci bambini che guardino insieme un
cartone animato, riceveranno nell’anima le stesse identiche immagini e, se lo rivedranno dieci volte,
riavranno altre dieci volte le medesime immagini. Nulla potranno aggiungervi di personale, di ori-
ginale, di irripetibile. Volendo esprimere subito un giudizio a riguardo si può sostenere che tutto ciò
vada a scapito dell’umanità intera, perché ogni invenzione che conduce l’umanità ad un progresso è
frutto di un’immaginazione creativa, mentre la tv opera nel senso di un’omologazione del pensare.
Nonostante questo, qualcuno poco intenzionato a rinunciare alla comodità di abbandonare il fi-
glio di fronte allo schermo, potrebbe domandarsi: “Ma è poi così grave, per lo sviluppo di un bam-
bino, lasciare che la sua facoltà di pensiero venga educata ad essere passiva, anche se ciò avviene
solo per una o due ore al giorno?”
Per rispondere basti pensare che, a scuola, una materia come l’aritmetica venga trattata anche
meno di un’ora al giorno, eppure i bambini la imparano e le loro menti ne vengono profondamente
plasmate. Cosa ci autorizza a credere che l’effetto giornaliero della tv sia meno incisivo sulla mente
del bambino? Non è forse un bravo atleta quello che si allena due ore ogni giorno? Di fatto, ogni at-
tività esercitata regolarmente, in un arco di tempo più o meno breve, alla fine ci trasforma. Anche la
passività del pensiero di fronte allo schermo, è un’attività capace di plasmare quell’essere per sua
natura duttile che è il bambino.
Ma qualcuno potrebbe obiettare: “In fondo anch’io sono cresciuto guardando molta tv; eppure
non sono venuto su tanto male!”
In realtà, la televisione è molto sottovalutata e ciò avviene soltanto perché procura ferite invisi-
bili. Non s’intende sollevare il problema dei contenuti, ma solo degli effetti della tv in quanto mez-
zo che sollecita un determinato tipo di percezioni. Sempre più persone che operano nel campo
dell’educazione sono certe che buona parte dei disturbi di apprendimento che affliggono sempre più
bambini e gran parte dei vuoti morali che tormentano gli adolescenti siano riconducibili, in un modo
o nell’altro, anche allo schermo televisivo. Certo esso non può essere considerato un male assoluto,
ma oggi bisogna riconoscere i suoi effetti negativi sullo sviluppo infantile. Un tempo non lontano

10
era persino normale dare da bere bevande alcoliche ai bambini; anzi, si diceva che, a piccole dosi,
gli facessero pure bene. Un giorno si smetterà di dar loro anche la televisione.
Tutti noi, ormai da qualche generazione, siamo cresciuti con la televisione. Molti di noi possono
anche ritenere di non essere poi così male. Eppure nessuno può essere certo del fatto che non sareb-
be stato una persona migliore, più creativa e brillante, se certe forze di immaginazione non fossero
state stemperate. Televisione e fiaba sono come due poli: la prima danneggia lo sviluppo del pensa-
re, la seconda lo favorisce.
Sul tema del pensare attivo Rudolf Steiner scrisse una volta: “… ci si deve rendere liberi dal
confuso vagare dei pensieri. Bisogna diventare padroni del proprio mondo di pensiero. Non se ne è
padroni se le condizioni esterne, lavoro, tradizione, relazioni sociali, persino l’appartenenza a un
certo popolo, l’ora del giorno, o i doveri da compiere, determinano un nostro pensiero e il modo in
cui si sviluppa. ” 14 E, prima di questo passaggio, riferendosi alla condizione preliminare per attua-
re un cammino evolutivo interiore, scrisse che: “… La prima condizione è l’acquisizione di un pen-
siero perfettamente chiaro.” 15 E, nella sua Filosofia della libertà, asserì che solo un pensare soste-
nuto dalla volontà ed una volontà illuminata da un chiaro pensare, possono offrire all’uomo le pre-
messe per trovare la sua libertà.

***

Ora, in che modo la fiaba stimola lo sviluppo di un pensare attivo?


Va innanzitutto considerato che il mondo di pensiero del bambino non sia come quello di un
adulto. Il pensare astratto, formato da concatenazioni di concetti, è una facoltà che si sviluppa solo
gradualmente ed il punto di partenza di questo sviluppo è l’acquisizione del linguaggio.
Il mondo di pensiero di un bambino appena nato non è quindi formato da concatenazioni di con-
cetti, ma di immagini. Ed il passaggio da un pensare immaginativo ad un pensare astratto avviene
gradualmente. A partire da un pensare immaginativo il nostro mondo concettuale prende forma a
poco a poco.
Ancora nel secondo settennio di vita, ci si dovrebbe rivolgere al bambino parlando per immagi-
ni, perché un linguaggio per immagini è affine alla sua natura. Concetti chiusi e definiti vengono da
lui recepiti come qualcosa di arido, freddo ed estraneo. Il bambino avverte che nell’immutabile sta-
ticità di un concetto vi sia un elemento di morte, mentre ritrova in un linguaggio per immagini la
stessa vita che prolifera nel suo mondo di pensiero.
Il vantaggio delle immagini è chiaro: cogliamo con un colpo d’occhio un insieme di relazioni,
per le quali altrimenti dovremmo usare molte parole o addirittura frasi. Disponiamo dunque di una
facoltà capace di creare immagini, e possiamo imparare a comprendere il linguaggio delle imma-
gini. (…) Il concetto è qualche cosa di solido, una definizione. Le immagini sono su un piano supe-
riore. (…) Soltanto il collegamento vivente, in un tessuto immaginativo fra le immagini, porta verso
la comunicazione spirituale delle fiabe. L’immaginazione contiene sempre questa mobilità vivente e
interiore.
Lo spirito umano ha la facoltà di esprimere dei contenuti di pensiero, in un linguaggio concet-
tuale, oppure in immagini. Dobbiamo tenere presente che nel linguaggio quotidiano vi sono moltis-
sime immagini e specialmente nel sogno l’uomo è attivo nella sua facoltà creativa di immagini. Nei
sogni spesso comprendiamo le immagini da noi create, tanto poco quanto comprendiamo le imma-
gini delle fiabe. Nel linguaggio di tutti i giorni sappiamo cosa intendiamo quando diciamo ad
esempio: «tu sei un asino»; oppure: «mi si apre una luce». In fondo il linguaggio per immagini del-
la fiaba non è nulla di diverso, solo che dobbiamo sforzarci maggiormente per leggere tali immagi-
ni, in quanto non ci sono così abituali come quelle del linguaggio quotidiano.16 Per un adulto è pro-
prio così: un adulto si sente soddisfatto solo quando è in grado di capire (con il capo). Se le forze

14
R. Steiner – I sei esercizi – Ed Antroposofica
15
Ibidem
16
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno

11
del raziocinio non riescono ad afferrare il concetto; allora ci si sente al buio, quasi smarriti. Ma per
il bambino, in un certo senso, vale il contrario. Aridi concetti hanno su di lui una presa minima e
spesso risultano incomprensibili. Il bambino non ha un bagaglio di esperienze tale per cui, facendo
appello alle sue forze di pensiero, egli possa rapportare alla sua biografia i contenuti di pensiero che
gli vengono trasmessi. Ed è proprio così che funziona il meccanismo della comprensione intellettua-
le: si fonda sull’esperienza. Se questa manca, manca anche la base per la comprensione. Ed una dif-
ferenza sostanziale tra un linguaggio immaginativo ed un linguaggio astratto, sta appunto nel fatto
che il primo stimola nel bambino un’esperienza che si trasformerà in forze di comprensione, mentre
il secondo presuppone tale esperienza e, quando essa manca, indebolisce l’interiorità del bambino.
Le immagini non sono soltanto pensabili, ma anche sperimentabili; poiché il linguaggio astratto par-
la solo al pensare, mentre un linguaggio per immagini parla anche al sentire. Queste sono le possibi-
lità del linguaggio per immagini che in realtà può portarci molto più lontano del linguaggio di pen-
siero. Un concetto certifica; oppure, per usare l’immagine del sarto (ricorrente in molte fiabe): la
grande e bella unità del mondo viene tagliata a pezzi. Se poi si considerano solamente le singole
parti, si può vederle con grande precisione e delimitazione nei confronti di quanto sta intorno.17 Ma
l’unità originaria è andata perduta. Ed è proprio quell’unità ad essere fondamentale per il bambino.
Se vogliamo esprimere con il linguaggio dei contenuti spirituali, abbiamo bisogno di un tessere
pieno di vita; per questo abbiamo a disposizione delle immagini anche nel linguaggio quotidiano.18
Nel primo e nel secondo settennio dovremmo quindi rivolgerci al bambino con un linguaggio
immaginativo. E un tale linguaggio lo troviamo nelle fiabe e, in generale, possiamo trovarlo in noi
stessi per parlare ai bambini degli argomenti più svariati. Ma dobbiamo sperimentare in noi che un
concetto, per esempio espresso con un sillogismo, sia qualcosa di finito, di chiuso e di immutabile,
come un sasso gettato nell’anima. E dobbiamo sperimentare che un’immagine ben caratterizzata sia
invece qualcosa di mobile, qualcosa capace di trasformarsi e di accompagnare il bambino nel suo
sviluppo.
Un esempio (forse un po’ drastico) di quanto possa essere arido un linguaggio che si esprima in
concetti, può essere il seguente: se dico ad un bambino che un leone è un quadrupede, che tutti i
quadrupedi sono animali e che quindi il leone è un animale, non gli avrò detto proprio nulla sulla
reale natura del leone. Il concetto che il bambino potrà formarsi del leone sarà quindi un concetto
arido e morto. Se invece gli porgerò molte caratterizzazioni di come il leone, sotto il sole infuocato
della savana, riposi ore ed ore all’ombra di un albero; di come il suo ruggito possente faccia impie-
trire ogni altro animale; di come la sua folta criniera ed il suo manto dorato gli conferiscano un
aspetto regale; di come il suo petto possente respiri con quieta grandezza ed il suo sguardo fiero
scruti l’orizzonte; queste immagini, nessuna delle quali esprime un concetto chiuso e finito di leone,
confluiranno nell’immaginazione del bambino e daranno forma al suo concetto generale di leone.
Ma sarà un concetto vivo, capace di modificarsi ed arricchirsi col tempo. Sarà un concetto che si
svilupperà, riscaldato dal calore, accompagnato da sentimenti e pensieri viventi. Naturalmente que-
sto atteggiamento andrebbe esteso ad ogni ambito del sapere; ad ogni insegnamento che si voglia
impartire.
Spesso, per esempio un documentario, per quanto interessante e ben fatto possa essere, si rivol-
ge solo alla sfera intellettiva, proponendo copiose sequele di nozioni, il cui solo risultato è, in ultima
analisi, il soffocamento dell’immaginazione. Le immagini televisive hanno la peculiarità di impri-
mersi nell’anima con aggressività. Sempre più spesso capita di incontrare degli adolescenti che la-
mentano stanchezza e mostrano scarso entusiasmo per la vita, poco interesse per il mondo: si tratta
per lo più di giovani che sanno moltissime cose e possono argomentare su qualsiasi tema. Hanno un
mucchio di conoscenze e, a parole, hanno anche le idee chiare su cosa sia giusto e cosa sia sbaglia-
to, su cosa dovrebbe cambiare perché il mondo diventi un posto migliore, ma queste conoscenze
non bastano; non sono sufficienti ad infiammare la loro volontà e tradurre in azione i loro ideali.
Osservandoli si riconosce che i loro pensieri sono scollegati dal cuore. Presto gli ideali lasciano il
17
Ibidem
18
Ibidem

12
posto ad un sentimento di sfiducia e pessimismo. Non sanno determinare le proprie azioni e si la-
sciano guidare dalla corrente generale. In tal modo si rischia di diventare uomini volubili e privi di
creatività. La perdita degli ideali porta infine a trovarsi degli idoli fittizi come calciatori, cantanti,
vip. L’apparenza esteriore diventa il surrogato per mascherare un vuoto interiore. Questo è il risulta-
to di una vita di pensiero scollegata dal resto dell’uomo. Se si conviene che il presupposto per lotta-
re per i propri ideali sia un pensare infiammato dal cuore, profuso di sentimento, si riconosce che un
pensare scollegato dal cuore sia incapace di tradursi in azione feconda per il mondo. Un’idea può
benissimo essere fredda e calcolata; un ideale no. E le conoscenze trasmesse da uno schermo televi-
sivo, per esempio le conoscenze che si possono trarre da un documentario sugli animali, hanno pre-
valentemente questo carattere arido, che nulla può portare allo sviluppo della sfera del sentire di un
bambino. Con questo, naturalmente, non si vuole indicare che tutti i mali derivino dalla tv; sarebbe
assurdo. Tuttavia si vuole riconoscere lo schermo per quello che è.
Un’educazione basata sul nozionismo non può portare alla formazione di ideali morali per i qua-
li valga la pena di lottare nella vita. Per questa ragione bisogna cercare, proprio nell’età dello svi-
luppo, di formare l’attività di pensiero dei bambini in modo vivo e ricco di immaginazione. Nelle
vere fiabe troviamo immagini piene di verità e di saggezza e la moralità che le pervade è espressa in
un modo adatto alla comprensione del bambino, perché affine al suo mondo di pensiero. Se nutria-
mo l’interiorità del bambino con le immagini delle fiabe, educhiamo la sua vita di pensiero in modo
sano e consono alla sua natura.
Naturalmente, a partire dagli otto/nove anni, il materiale narrativo dovrà essere variato ed arric-
chito a seconda dei diversi gradi di sviluppo raggiunti dal bambino. Ma fino a quell’età non vi è
nulla di meglio delle fiabe per porre su basi sicure l’educazione del pensare e tutto quanto ne conse-
gue.
***
Il piano di studi steineriano, che si fonda su uno studio antropologico delle fasi di sviluppo del
bambino, offre le basi per accompagnare lo sviluppo del pensare fino al raggiungimento di una ca-
pacità di giudizio autonoma. Momento nel quale, in linea di principio, cessa l’educazione propria-
mente detta e comincia l’autoeducazione. Al termine degli studi superiori un giovane dovrebbe es-
sere in grado di scegliere da solo la propria strada, si tratti di una specializzazione universitaria o la-
vorativa.
Come si è detto le fiabe muovono la fantasia creativa ed il pensare immaginativo e questo pen-
sare immaginativo si trasformerà poi in capacità di rappresentazione e di autodeterminazione della
volontà. Grazie alle fiabe il ragazzo avrà ricevuto fin da piccolo una solida base per lo sviluppo di
un atteggiamento attivo del pensare, che gli consentirà di diventare adulto e di cominciare a prende-
re delle decisioni riguardo al suo destino.

13
CONOSCERE IL LINGUAGGIO FIABESCO
PER COMPRENDERE ED INVENTARE FIABE
Vi è qualcosa nell’anima, proprio come nell’organismo è presente la fame, e come per la
fame si ha bisogno di qualcosa, così si ha bisogno di qualcosa per la disposizione indistinta che
proviene dall’esperienza profonda dell’anima. Allora ci si sente spinti verso una fiaba di cui dispo-
niamo, oppure ad attingere da una leggenda, o forse, se si ha una natura artistica, a creare noi
stessi qualcosa che ci faccia sentire che tutte le parole occorrenti teoricamente, di fronte a questa
esperienza, siano come un balbettio: così appunto si generano immagini di fiaba.19

Pensare e sentire nella creazione di fiabe


Confronto a quanto possiamo trovare nelle immagini fiabesche, dice Steiner, tutte le parole
occorrenti teoricamente per descrivere le esperienze dell’anima sono come un balbettio. Quindi,
nella composizione di fiabe, come in ogni altra creazione artistica, non possiamo affidarci del tutto
alle forze del raziocinio. Tuttavia, oltre a dedizione, sensibilità, fantasia e talento artistico, la crea-
zione di fiabe richiede una buona conoscenza del linguaggio fiabesco e del patrimonio di immagini
che, come archetipi, costituiscono una sorta di alfabeto del mondo delle fiabe. E questa conoscenza
è raggiungibile solo per mezzo di uno studio approfondito.
Come non è sufficiente aver letto molte poesie per essere un poeta, così non basta aver letto
molte fiabe per conoscere il loro linguaggio tanto a fondo da poterlo sfruttare creativamente con una
certa consapevolezza. Il linguaggio fiabesco, da una prospettiva come quella antroposofica, è un
tessuto di immagini che trova un’immediata e naturale corrispondenza con le più profonde realtà
della vita dell’anima. Non si tratta quindi del frutto di una fantasia sbrigliata, ma di una sapiente fa-
coltà di rivestire contenuti spirituali con immagini simboliche veritiere.
Una via per mezzo della quale è possibile impadronirsi di una certa famigliarità con il lin-
guaggio fiabesco, anche al fine d’inventare fiabe, è lo studio delle rivelazioni dell’indagine spiritua-
le di Rudolf Steiner, o delle considerazioni di quanti, sulla base di essa o di altre esperienze, hanno
saputo sollevare il velo simbolico che le riveste.
Un’approfondita conoscenza del linguaggio tipico delle fiabe è certo fondamentale per la lo-
ro composizione, tuttavia, a ben vedere, non è ancora sufficiente. Una volta acquisita, tale cono-
scenza, conduce ad un’esperienza interiore del tutto particolare. Servendosi di un paragone, si può
dire che la creazione di fiabe possa essere paragonata alla composizione musicale. Se si compone
una melodia, l’esperienza di ciò che è bello e di ciò che non lo è viene sperimentata molto profon-
damente nell’interiorità, in regioni che, in un primo momento, sono inaccessibili alle forze intellet-
tuali. In realtà sappiamo che non possa esistere uno statuto assoluto di bellezza, eppure non possia-
mo negare che esistano opere d’arte il cui valore raggiunge vette talmente elevate da trascendere il
gusto soggettivo. Un concetto assoluto di bellezza non può esistere per il semplice fatto che dovreb-
be scaturire dall’intelletto, ma questo, in campo artistico, è subordinato al sentire. Qualcuno potreb-
be avere, per esempio, un’avversione particolare per l’arte religiosa, eppure chi potrebbe giudicare
brutte le madonne di Raffaello o il Requiem in re minore di Mozart? Esiste pertanto una sensibilità
sottile, presente in ogni essere umano, che risuona di fronte alla vera opera d’arte.
Nella composizione musicale la valutazione estetica non può quindi poggiare soltanto sul
vaglio dell’intelletto, ma deve affidarsi ai sentimenti che la musica è in grado di evocare. Se anche
comprendiamo un’opera d’arte, non è detto che per questo ci piaccia; l’intelletto gioca quindi un
ruolo subordinato. Lo stesso vale nella creazione di una fiaba: l’esperienza fondamentale viene spe-
rimentata nel profondo dell’anima e riguarda un senso che, su un piano morale, può essere definito
«senso del vero». Ciò che conferisce ad ogni vera fiaba la sua inestimabile bellezza è la sua aderen-
za alla verità. Vi è in questo un contenuto morale che costituisce la chiave per penetrare nel mondo
fiabesco, da semplici osservatori, come da creatori.

19
Rudolf Steiner - La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica

14
Ciò che è fondamentale nella composizione di fiabe è che le immagini corrispondano in mo-
do veritiero a pure realtà spirituali. Nella creazione di una fiaba, come nella composizione musicale,
l’atteggiamento fondamentale dovrebbe quindi essere quello dell’ascolto rivolto all’interiorità. Le
forze del raziocinio e la fantasia devono essere subordinate alla voce della coscienza, che dal pro-
fondo ci parla, con parole lievi, indicandoci la via ed ammonendoci quando percorriamo falsi sen-
tieri.
Il terreno sul quale ci s’incammina nell’inventare fiabe, deve toccare la nostra sensibilità
tanto profondamente da far parlare la nostra coscienza al pari di quando agiamo nel mondo, nella
vita di tutti i giorni.
***
Chi giunge a un’introspezione più profonda delle sorgenti della vita subconscia, vi scopre
qualcosa che, se rappresentato astrattamente, impoverisce la coscienza, mentre trova che la rap-
presentazione più comprensibile delle esperienze animiche più profonde è proprio quella in forma
di fiaba. Si comprende allora come Goethe abbia espresso la sua ricca esperienza, quella stessa
che Schiller espresse in concetti filosofici astratti,20 nelle immagini suggestive e poliedriche della
Fiaba della serpe verde e della bella Lilia. Ecco perché Goethe, che fu pur tanto attivo nel pensie-
ro, volle esprimere in immagini quello che egli sentiva nel profondo subconscio della vita animica
umana. E poiché la fiaba è connessa così profondamente con la parte intima dell’anima, essa è la
forma di rappresentazione più adatta all’anima infantile. Si può dire, infatti, che la fiaba ha portato
ad espressione nella maniera più semplice l’elemento più profondo della vita spirituale. Si fa sem-
pre più evidente la sensazione che in tutta la vita artistica cosciente non vi è arte più grande di
quella che compie il cammino dalle profondità incomprese della vita dell’anima alle immagini affa-
scinanti, spesso scherzose della fiaba.
Quando si arriva a esprimere nella forma più facile quello che è più difficile da capire, si ha
l’arte più grande, più naturale, più essenzialmente connessa con l’uomo. E poiché nel bambino
l’entità umana è unita in maniera ancora primordiale con tutta l’esistenza e con tutta la vita, il
bambino ha bisogno della fiaba come nutrimento per la sua anima. Nel bambino può muoversi an-
cor più liberamente la rappresentazione di una forza spirituale che non deve venir irretita in con-
cetti teorici astratti, a rischio di devastare l’anima infantile. Deve esserne mantenuto il nesso con
quanto ha radice nelle profondità dell’esistenza.
Ecco perché non possiamo apportare maggior beneficio all’anima del bambino di quando
facciamo agire su di essa questo elemento che riconduce le radici dell’uomo alle radici
dell’esistenza. 21
Come il musicista resta in ascolto delle melodie che percepisce nella sua interiorità e porta
ad espressione solo ciò che sperimenta come armonioso e bello, così lo scrittore di fiabe resta in
ascolto della propria interiorità e porta ad espressione solo quanto risuona in lui come vero. Se ci si
appella all’arbitrio del proprio intelletto, allora si può dimostrare la giustezza di tutto e del contrario
di tutto; in tal caso si potranno anche scrivere cose belle e divertenti, ma non vere fiabe. Se invece
ci si appella alla propria coscienza e si procede in un cammino di sviluppo interiore in senso antro-
posofico, allora si potrà sperare di giungere, presto o tardi, alla composizione di una fiaba veramen-
te degna del suo nome.
La consapevolezza della vera origine delle fiabe può illuminarci rispetto al fatto che solo
un’onesta evoluzione spirituale, unita al talento artistico, possano far scaturire dal nostro animo una
vera fiaba, che possa realmente agire in modo benefico su chiunque l’ascolti.

Sull’interpretazione del linguaggio fiabesco


L’esperienza mostra che un animo infantile può spesso arrivare a crearsi una specie di
compagno che esiste solo per lui, ma che pure lo accompagna e ne condivide il destino nei più sva-
riati avvenimenti della vita. Chi non conosce bambini che si portano attorno certi invisibili amici,
20
Vedere: Friedrich Schiller – Lettere sull’educazione estetica dell’essere uomo
21
R. Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica

15
dei quali devono immaginarsi la presenza ogni qual volta avviene qualche fatto che li rallegra, che
devono partecipare come invisibili compagni spirituali, animici, a questo o quell’avvenimento? Fa
parte della normale esperienza dell’uomo constatare anche troppo spesso l’effetto deleterio
sull’animo infantile dell’azione dell’adulto “giudizioso”, il quale viene a sapere che un bambino ha
un simile compagno dell’anima e si mette a dissuaderlo dal sentirne la presenza, ritenendo di agire
in modo salutare per lui. Il bambino si affligge a causa del suo compagno animico, e se egli è sen-
sibile a situazioni spirituali e animiche, tale afflizione è tanto più importante e può portare il bam-
bino ad ammalarsi. Sono fatti assolutamente reali, connessi con avvenimenti interiori e profondi
dell’anima umana.
Senza disperdere il profumo della fiaba possiamo sentire questa semplice esperienza nella
fiaba del bambino e del rospo, raccontata dai fratelli Grimm. Essa narra di un bambino che divide
sempre il suo pasto con un rospo; ma questi beve solo il latte. Il bambino gli parla come se fosse un
uomo, e un giorno gli dice che deve mangiare anche il suo pane e non solo il latte; la madre del
bambino ode questo discorso, accorre ed uccide il rospo. Il bambino ne soffre, si ammala e muo-
re.22
Questo è un esempio di interpretazione di una fiaba dei fratelli Grimm datoci da Steiner. In
essa è presente l’immagine del rospo, e si tratta di un’immagine piuttosto ricorrente nel mondo fia-
besco. Il rospo è una creatura che vive a cavallo tra due mondi: tra l’elemento acquatico e quello
terrestre. Questa condizione è paragonabile a quella dell’amico immaginario, che vive solo
un’esistenza animica e ciò nonostante il bambino, che rispetto al mondo esterno vive in uno stato di
sogno, lo coinvolge nelle esperienze sensibili. Nella vita comune il rospo può fare ribrezzo, addirit-
tura paura e, in questa fiaba, la madre lo uccide, credendo di fare in tal modo un bene per il suo
bambino, mentre in realtà lo condanna ad ammalarsi. Questa fiaba, vista da una certa prospettiva,
evidenzia che il mondo fiabesco ci parli di condizioni interiori dell’essere umano che, se riportate
alla vita esteriore e valutate razionalmente, assumono significati ingannevoli. Non dovremmo tra-
sferire nel mondo fiabesco un modo di comportamento valido per il mondo esteriore. È sempre un
errore trasferire regole di comportamento o perfino sollecitazioni morali nel mondo della fiaba. La
fiaba non è ciò! Si immette in essa qualcosa di arbitrario e quindi si entra in uno spazio falso. La
fiaba nasconde tesori di saggezza molto più profondi.23
Nella vita comune una madre potrebbe effettivamente provare ribrezzo nel vedere il proprio
bambino che divide il cibo con un rospo. Eppure, nel mondo fiabesco, l’uccisione del rospo ferisce
una parte dell’anima del bambino e lo condanna a morire. Tutte le fiabe ci mostrano scenari animici
attraverso rappresentazioni tratte dal mondo esteriore e, come si è detto, ci insegnano che per parla-
re di certi eventi profondi rivolgendosi all’anima infantile, un linguaggio immaginativo è il solo
mezzo adeguato. Se si cercasse di descrivere al bambino in forma astratta, servendosi di concetti ra-
zionali, le medesime realtà espresse nelle fiabe, il rischio minore sarebbe di non essere compresi. Il
raziocinio è valido nella vita di tutti i giorni, ci consente di cogliere i nessi esteriori del mondo, di
giudicare i fatti della vita e di sfruttare il pensiero in modo analitico; ci consente anche di cogliere
determinati nessi spirituali attraverso lo studio delle rivelazioni della scienza dello spirito, ma non
può servirci per compiere direttamente un’indagine spirituale, né per cogliere i più profondi signifi-
cati nascosti nelle fiabe.
Invero anche le conoscenze antroposofiche, per un non iniziato, possono essere acquisite
grazie all’intelletto, ma provengono da indagini spirituali che lo trascendono. Ciò può essere para-
gonato anche all’arte poetica: essa non consiste in un lavoro intellettuale, ma scaturisce dalle pro-
fondità dell’anima, le stesse dalle quali scaturisce la vera fiaba. Novalis scrisse in proposito: «Tutto
ciò che è poetico deve essere fiabesco. È nella fiaba che penso di poter esprimere al meglio il mio
stato d’animo. Tutto è fiaba. (…)». E ancora: «La fiaba è quasi il canone della poesia. Ogni poetica
deve essere fiabesca. (…) La vera fiaba dev’essere ad un tempo rappresentazione profetica, ideale,
assolutamente necessaria. (…) Nulla è più contrario allo spirito della fiaba che un nesso normati-
22
Ibidem
23
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno

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vo. Il genuino poeta di fiabe è un veggente dell’avvenire.24 Non solo per Novalis nulla è più contra-
rio allo spirito della fiaba di un nesso normativo, di un’intromissione intellettuale, ma egli considera
il genuino poeta di fiabe un veggente, ovvero un uomo capace di leggere i profondi nessi spirituali
dell’esistenza, al di là di quanto ci possa dare l’intelletto al servizio delle percezioni sensorie. Non
meraviglierà più, quindi, che anche per la semplice interpretazione di fiabe sia necessario uno studio
di quei nessi profondi, che può derivarci soltanto da una seria indagine scientifico spirituale.
Il linguaggio delle fiabe è ricco di rappresentazioni ricorrenti ed ognuna di esse indica, ri-
specchiandola, una realtà animica, una certa forza o una tensione che ha luogo nell’anima. Queste
rappresentazioni assumono così il valore di archetipi, le cui particolari relazioni nelle diverse fiabe,
nell’intreccio di trame sempre nuove, danno origine ad un linguaggio articolato, che si esprime in
una moltitudine di immagini che possono essere riconosciute ed interpretate. La premessa è quindi
una certa famigliarità con il significato di queste rappresentazioni. Lo studio dei significati di queste
rappresentazioni alla luce della ricerca scientifico spirituale, è per noi la via più sicura per interpre-
tare le fiabe senza attribuirvi significati arbitrari.

Innanzitutto, quando si raccontano fiabe, leggende e miti e quando li si voglia spiegare, è


necessario sapere molto di più di quanto si sia in grado di dire; in secondo luogo deve esserci in
noi la volontà di trarre dalla saggezza antroposofica i mezzi interpretativi. Non dobbiamo cioè in-
trodurre nelle fiabe quel che ci passa per la mente, ma dobbiamo aver la volontà di riconoscere la
sapienza antroposofica come tale e poi cercare di penetrare le fiabe in base a quanto abbiamo im-
parato dalla concezione antroposofica del mondo. (…) Se la base è buona la cosa riuscirà, altri-
menti vi si troveranno ogni sorta di significati arbitrari.25

Comporre fiabe nell’era dell’anima cosciente


Chi voglia dedicarsi alla composizione di fiabe, dovrebbe considerare che ogni anelito arti-
stico, nella nostra era, dovrebbe essere compenetrato di coscienza, specialmente se si tratta di crea-
zioni con finalità educative. Questa condizione di chiarezza interiore è oggi necessaria, poiché una
creatività sbrigliata, che non poggi su basi sicure, rischia di smarrirsi, di non distinguere l’essenziale
dall’inessenziale e il vero dal falso. Oggi il mondo spirituale non ci parla più in modo naturale, non
ci ispira più le immagini fiabesche in modo spontaneo. Senza uno studio delle realtà spirituali che
sono alla base dell’evoluzione umana, come quelle che può offrirci lantroposofia, esiste il rischio di
ottenere risultati insoddisfacenti e di perdersi su falsi sentieri.
Se si desidera tentare di scrivere fiabe con finalità educative, bisognerebbe porsi nella condi-
zione interiore di voler cercare immagini aderenti alle realtà del mondo spirituale. Solo in tal modo
le immagini delle fiabe che inventeremo potranno risuonare realmente nelle profondità dell’anima
dei nostri bambini. Bisognerebbe mantenere sempre vivo nel cuore il senso di responsabilità che si
ha in quanto educatori. Questo, anche nella composizione artistica a scopi educativi, dovrebbe agire
su di noi come un monito.
Steiner parlò in diverse occasioni del fatto che le conoscenze antroposofiche, in quanto
espressioni di realtà spirituali, non rischiano in alcun modo di annullare la spontaneità della crea-
zione artistica, in quanto, al contrario, le offrono nuove fonti di ispirazione. Goethe stesso, riferen-
dosi alla sua opera poetica, scrisse una volta che “la libertà si trova solo attraverso le regole”. Ed
oggi, la regola d’oro, è che ogni immagine frutto della nostra fantasia artistica sia vagliata dalla luce
della coscienza e, in una prospettiva scientifico spirituale, sia riconosciuta come vera.
L’antroposofia ci offre i mezzi appropriati per il raggiungimento di questo scopo.

In seguito si prenderanno in esame le più ricorrenti fra le rappresentazioni che popolano il


mondo fiabesco, la cui conoscenza è fondamentale non solo per la comprensione delle diverse fiabe,
ma anche per chi voglia tentare di crearne di nuove, sforzandosi di accostarsi alla vera atmosfera
24
Novalis – Frammenti – Ed. Bur
25
Rudolf Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica

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fiabesca. Questa condizione di partenza può essere paragonata all’acquisizione di un linguaggio:
prima si impara a parlare, poi a formulare pensieri in parole. Prima di prendere in esame le diverse
rappresentazioni fiabesche secondo un’interpretazione antroposofica, è pertanto necessario dare una
breve descrizione di alcuni termini del linguaggio antroposofico e di alcune conoscenze riguardo
all’essere umano.

***
Fin dall’antichità ci è stata tramandata l’articolazione dell’uomo nella triade: corpo, anima e
spirito. L’apostolo Paolo riconosceva ancora questa tripartizione e, oltre al corpo fisico, distingueva
nell’uomo un’anima, da lui chiamata psiche, ed un pneuma, assimilabile al nostro concetto di spiri-
to.
Nell’anno 869, con il Conciglio di Costantinopoli, l’elemento spirituale eterno dell’essere
umano venne cancellato dai dogmi della Chiesa. Da quel momento le antiche conoscenze andarono
perdendosi e l’uomo venne ridotto ad essere composto solo di corpo ed anima. Fu però stabilito che
l’anima possegga alcune caratteristiche spirituali.
Oggi siamo di fronte ad un ulteriore impoverimento e si comincia a considerare reale soltan-
to la parte fisica dell’essere umano. Si cerca di spiegare processi animico-spirituali, come la facoltà
di pensiero o la vita di sentimento, come se fossero il mero risultato di processi chimico corporei,
quando in realtà il corpo è solo il mezzo attraverso il quale possono manifestarsi. Vige da molte par-
ti l’idea che il cervello secerna pensieri come la cistifellea secerne bile; certi ricercatori tentano di
ricondurre ogni sentimento ed ogni condizione animica a fattori genetici; la tendenza generale di
molti scienziati vorrebbe quindi condurre all’eliminazione dell’anima dall’organizzazione umana,
rendendo l’uomo un essere meramente fisico.
Nell’antroposofia ritroviamo invece l’antica tripartizione ed il compito dell’opera pedagogia
consiste proprio nell’armonizzazione delle tre parti costitutive. Questo processo avviene nei primi
tre settenni, durante i quali il lavoro dell’educatore è fondamentale.

***

Nell’anima umana, riconosciamo l’operare di tre forze: pensare, sentire e volere. Esse sono
legate rispettivamente al capo, al sistema cardiaco/circolatorio ed al sistema metabolico e delle
membra. Non vanno immaginate come compartimenti stagni ma come forze che sempre e di conti-
nuo cooperano e si regolano vicendevolmente. L’anima riceve esperienze sia dalla parte corporea
(inferiore), sia da quella spirituale (superiore). Va pertanto immaginata come la mediatrice tra
l’esistenza corporea e quella spirituale dell’essere umano.
Semplici esperienze corporee sono, per esempio, fame e stanchezza, mentre lo spirito mani-
festa nell’anima esperienze che, in modo generico, possiamo definire legate alla moralità, alla bel-
lezza ed alla verità.
Se si vuole comprendere l’uomo nella sua totalità, bisogna penetrare più profondamente nel-
la conoscenza antroposofica e considerare che le tre parti costitutive corpo, anima e spirito, sono a
loro volta tripartite. Ad ognuna di esse corrisponde, infatti, una triade la cui conoscenza è indispen-
sabile, anche per comprendere il linguaggio fiabesco.
Appartengono alla corporeità tre parti costitutive chiamate: corpo fisico, corpo eterico e cor-
po astrale. La parte animica è suddivisa in anima senziente, anima razionale ed anima cosciente, e la
parte spirituale in sé spirituale, spirito vitale e uomo spirito.26 Una descrizione dettagliata ed esau-
riente non sarebbe qui possibile, ma una breve caratterizzazione potrà comunque offrire una buona
base per gli argomenti trattati nei paragrafi seguenti.27
Cominciamo quindi con l’esame della tripartizione riguardante la parte corporea. Il corpo fi-
sico è costituito con i materiali del mondo fisico e manifesta la nostra parentela con il regno mine-
26
Vedi schema a pagina
27
Vedere: Rudolf Steiner – Teosofia – Ed. Antroposofica

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rale. Anche i regni vegetale ed animale hanno una componente minerale, tuttavia il corpo fisico
dell’uomo, la sua parte minerale, non è paragonabile alla pietra e nemmeno al corpo fisico della
pianta o dell’animale, in quanto è organizzato secondo leggi che riguardano solo l’organizzazione
umana. L’uomo, solo essere vivente terrestre portatore di un io, grazie ad esso elabora le sue parti
costitutive inferiori e, pur mantenendo la parentela con gli altri regni, le modifica e conferisce loro
facoltà esclusivamente umane. Vi è quindi una parentela sostanziale tra l’elemento minerale presen-
te in natura ed il corpo fisico umano, tuttavia esso viene elaborato spiritualmente in modo tale da
essere qualitativamente diverso.
Il corpo fisico è compenetrato da forze vitali. Sono forze di crescita e di guarigione, che ma-
nifestano la parentela dell’uomo con il regno vegetale ed animale. Anche le piante e gli animali,
come l’essere umano, crescono, si riproducono, possono ammalarsi e guarire. Queste forze vitali
costituiscono il corpo eterico, o corpo vitale, il quale è l’architetto del corpo fisico, che forma i di-
versi organi e mantiene la forma corporea, impedendo che si disgreghi sotto l’influsso delle forze
naturali. Steiner porta l’esempio di come, al momento della morte, quando il corpo eterico abban-
dona il fisico, quest’ultimo non opponga più alcuna resistenza alle forze fisiche e si disgreghi
nell’arco di un brevissimo tempo.
Come nel corpo fisico, anche nel corpo eterico l’uomo si differenzia rispetto alle piante e
agli animali, con i quali lo ha in comune. Nell’uomo, infatti, il corpo eterico è anche la base del
pensiero e della memoria, facoltà che gli provengono dall’influsso delle sue componenti superiori.

Il corpo astrale, o corpo senziente, è la sede del sentire. In esso vivono le simpatie e le anti-
patie, i piaceri e i dispiaceri e tutti i sentimenti e le sensazioni che l’uomo può sperimentare nella
propria interiorità. È anche la sede delle brame, dei desideri, degli aneliti che, nelle reciproche in-
fluenze provenienti dai corpi inferiori o dagli arti costitutivi superiori, si manifestano nell’interiorità
umana.
L’uomo ha in comune il corpo astrale con il regno animale, ma in quest’ultimo esso riceve
solamente impulsi provenienti dalle corporeità inferiori, mentre l’uomo può anche avere esperienze
interiori che scaturiscano dall’influenza degli arti superiori. Si pensi solamente agli ideali o ad ogni
esperienza riguardante la sfera morale.
Anche l’animale è in grado di sperimentare interiormente desideri e brame. Per esempio
quando è affamato sperimenta il desiderio di sfamarsi, e può anche provare sentimenti che si estrin-
secano in modo elementare nella sua interiorità, come sensazioni di benessere o di malessere, oppu-
re paura, o rabbia.
Come nel caso del corpo fisico e del corpo eterico, anche il corpo astrale dell’essere umano,
nobilitato dagli arti costitutivi superiori, si differenzia rispetto a quello degli animali. Ciò si può
riassumere osservando che la presenza di un’astralità si manifesti nell’animale soltanto attraverso le
percezioni sensorie e gli impulsi corporei in generale ma, a differenza di quanto avviene nell’uomo,
niente di tutto ciò che l’animale può sperimentare nella sua astralità può diventare autocoscienza.
L’uomo, in quanto portatore di un io, ne è invece in grado. L’animale può agire per cause esterne o
per cause interne e quest’ultime sono riconducibili tutte all’istinto. Le sue azioni non scaturiscono
quindi mai da una libera vita di volontà e, men che meno, da una vita di pensiero.
Come si è detto il corpo eterico umano, come peraltro il fisico, sono strumenti per il pensiero
e per la memoria, ma la vera sorgente dalla quale essi scaturiscono è l’io. La presenza di un io con-
ferisce memoria all’uomo per mezzo dell’eterico e del fisico, l’assenza dell’io lascia l’uomo
nell’oblio.
Se l’uomo non possedesse un’io, penserebbe ugualmente, ma non sarebbe cosciente della
sua vita di pensiero, non potrebbe riferirla a se stesso e non possederebbe una memoria. Questa è la
condizione interiore dell’animale. Il fatto che l’animale riconosca determinate persone o addirittura
luoghi non deve trarre in inganno sul fatto che possa possedere una memoria.28
28
Un approfondimento di questo argomento porterebbe troppo lontano rispetto al tema trattato. Si rimanda perciò alla
lettura dei testi fondamentali di Rudolf Steiner, nei quali è trattato esaurientemente.

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Invero anche gli animali sono dotati di un io, ma questo non è incarnato nelle corporeità in-
feriori. Un animale, qualsiasi esso sia, non ha un io che agisce dall’interno della sua singola corpo-
reità, bensì un io di gruppo, che dal mondo spirituale governa i comportamenti dell’intera sua spe-
cie. Un io di gruppo accomuna gli elefanti, un altro i leoni, e così via. Ciò si rivela già osservando
che ogni specie, a differenza dell’uomo, abbia delle specializzazioni innate: gli uccelli fabbricano
nidi, i castori dighe, le talpe buche; nessuno di questi animali ha bisogno di imparare a fare ciò che
lo accomuna alla sua specie, ma nasce già con questa abilità. Tutto ciò giace nell’istinto, la cui ma-
trice è l’io di gruppo che agisce dal cosmo. L’uomo, invece, può scegliere in che cosa specializzar-
si; ne risulta che ogni animale abbia dei tratti comportamentali comuni all’intera sua specie, mentre
la condizione umana è molto più articolata. Ciò può chiarire ulteriormente il valore dell’io, che ren-
de ogni uomo un individuo unico ed irripetibile. L’io umano, incarnato nei corpi inferiori, trascorre
un’esistenza fisica. Grazie a ciò l’uomo non solo è in grado di sperimentare interiormente una vita
di pensiero, di sentimento e di volontà, ma può riferirla a se stesso in modo cosciente. Ne consegue
che, nello studio antroposofico dell’essere umano, sia possibile ricorrere ad un’ultreriore suddivi-
sione degli arti costitutivi, che riconosce l’uomo quale essere quadripartito, dotato di corpo fisico,
corpo eterico, corpo astrale ed io.
***
Fino ad ora, in riferimento all’antica tripartizione di corpo, anima e spirito, abbiamo elencato
solamente le tre parti costitutive legate alla sfera corporea. Se ora consideriamo l’uomo quale porta-
tore di un «io», vediamo che quest’ultimo, come si è detto, pone l’essere umano al vertice della
creazione.
È però possibile farsi trarre in inganno dall’utilizzo della parola corpo in riferimento alla sfe-
ra eterica e a quella astrale. Non bisogna in realtà immaginarsi il corpo eterico o il corpo astrale
come alcunché di fisico; si tratta infatti di corpi del tutto immateriali. La parola corpo si riferisce
soltanto al fatto che, per la visione chiaroveggente, tali corpi si manifestano in immagini le cui for-
me sono condizionate dalla relazione che li lega all’esistenza fisica. Il corpo eterico è pertanto un
corpo di forze del tutto spirituali, e così il corpo astrale. Quest’ultimo, come l’io, che va considerato
il veicolo delle forze spirituali superiori, nella visione quadripartita dell’essere umano riassume in
sé quanto concerne le proprietà della sfera animica in generale.
***

Nella scienza occulta Steiner parla dell’io come di un veicolo; di un veicolo per gli arti costi-
tutivi superiori. Questi ultimi sono quindi in relazione con i corpi inferiori per tramite del veicolo
dell’io.

Uomo spirito
Spirito vitale
Sé spirituale

IO

Corpo astrale
Corpo eterico
Corpo fisico

Si può quindi chiamare «io inferiore», o «io transitorio» (in quanto legato alla condizione
transitoria dell’esistenza terrena), il quarto elemento costitutivo dell’uomo quadripartito. E, se vo-
gliamo rivolgere lo sguardo alla vera parte immortale dell’essere umano, che si evolve nel passag-
gio da un’incarnazione all’altra, dobbiamo guardare al sé spirituale, che si può anche chiamare «io
superiore».

20
***
Per offrire un ultima caratterizzazione delle proprietà dell’io, si può osservare che esistono
azioni umane che non nascono né per interiore istinto, né per cause esteriori; per esempio fare del
bene o agire per un ideale. Si tratta di azioni che non sono dovute né ad una causa esteriore né ad
una esigenza corporea.
Idelali artistici – il bello
Ideali scientifici – il vero
Ideali religiosi – il buono
Sono tutte condizioni che scaturiscono dalla natura spirituale dell’essere umano.

***
Torniamo ora all’antica tripartizione e volgiamo lo sguardo alle tre parti costitutive dell’anima
umana. Le trasformazioni che l’uomo compie (per tramite dell’io) sulle sue parti costitutive inferio-
ri, più nel senso di tutto il genere umano o di una sua parte, popolo, stirpe o famiglia, nella scienza
dello spirito portano i nomi seguenti: anima senziente, anima razionale ed anima cosciente. Si
chiama anima senziente il corpo astrale o il corpo senziente trasformato dall’io; il corpo eterico
trasformato viene detto anima razionale e anima cosciente il corpo fisico trasformato. Non ci si de-
ve però immaginare che la trasformazione delle tre parti costitutive avvenga consecutivamente. Es-
sa avviene contemporaneamente per i tre corpi, fin dal primo accendersi dell’io.29
L’anima senziente è quella parte di anima che dà durata alle sensazioni e le trasforma in sen-
timenti. Ma è anche quella parte di anima che dà durata alle percezioni sensorie. Se guardo qualcosa
e poi chiudo gli occhi, interiormente la vedo ancora; questa facoltà è dovuta all’anima senziente.
Steiner osserva che il suo sviluppo risalga all’epoca egizio/caldaica. Con essa si apre un canale
scambievole tra l’interiorità umana ed il mondo esterno; grazie ad essa le immagini del mondo as-
sumono durata nell’interiorità umana e, al tempo stesso, le immagini dell’interiorità umana iniziano
ad essere portate all’esterno. Infatti la scrittura geroglifica degli egizi era ancora una scrittura per
immagini; non si era ancora sviluppata la facoltà di elaborare le immagini in pensieri. Questa facol-
tà concerne l’anima razionale e si sviluppò nell’epoca greco/latina. Gli uomini di allora non solo
percepivano, non solo ricordavano, ma elaboravano quanto sperimentavano con il pensiero.

Gli antichi egizi, non possedendo le facoltà legate allo sviluppo dell’anima razionale, aveva-
no ancora una coscienza unitaria; per loro non esisteva il problema della contrapposizione fra spirito
e materia e Steiner fa notare che non esisteva nemmeno per Omero. Questa comincia a manifestarsi
solo nel pieno dell’epoca greca, intorno al IV/V secolo a.C., con il risveglio della coscienza dovuto
allo sviluppo dell’anima razionale. Prima non vi era distinzione fra religione, arte e scienza. Gli an-
tichi egizi avevano ancora un faraone che era al tempo stesso sommo sacerdote, supervisore di
grandiose opere artistiche e custode di ogni conoscenza. La distinzione fra religione, arte e scienza
nasce in un punto preciso della storia nella disputa fra Euripide: “sento le erinni che mi assalgono”;
ed Eschilo, nel quale il mondo degli dei scompare e si risveglia la voce della coscienza. La scissione
fra mondo dello spirito e mondo della materia avviene quando si risveglia la coscienza
nell’interiorità dell’uomo e ciò, come è stato detto, consiste nel risveglio dell’anima razionale.
Nell’epoca attuale si sviluppa l’anima cosciente. Mentre le prime due sono rivolte
all’esistenza terrena, grazie all’anima cosciente ci sentiamo appartenenti ad un mondo spirituale.
Grazie ad essa il pensare può muoversi senza legami con percezioni, sensazioni e sentimenti terreni.
Già nell’anima razionale siamo in grado di sperimentarci come unità, ma grazie all’anima cosciente
possiamo ricondurre la nostra esperienza interiore alla sfera spirituale superiore.
L’anima cosciente è essenzialmente la facoltà di fare ogni cosa con presenza di spirito, senza
lasciarsi trascinare dalle correnti della vita. Un insegnamento preso dalla disciplina zen racconta di

29
Rudolf Steiner – Educazione del bambino e preparazione degli educatori – Ed. Antroposofica

21
un discepolo che chiese al maestro: «Maestro, dimmi, qual’è il tuo segreto?» - E il maestro rispon-
de: «quando mangio, mangio; quando parlo, parlo; quando cammino, cammino!»
Il maestro zen allude alla facoltà di essere del tutto presenti, quindi del tutto coscienti, qual-
siasi cosa si stia facendo, anche la più banale e scontata. Questa facoltà ci è data dall’anima coscien-
te. Essa consente che l’uomo si senta un individuo.
In sintesi, nell’anima senziente l’uomo non si sperimenta come un’individualità e, grazie ad
una coscienza diffusa, vive in stretto rapporto con le forze della natura e con il cosmo. Con l’anima
razionale si risveglia l’intelletto e l’uomo, cominciando a distinguere in modo nitido tra un dentro
ed un fuori, tra la sua soggettività e l’oggettività del mondo, comincia a sperimentare la propria in-
teriorità, a sentirsi un individuo, ad emanciparsi dalla natura per sviluppare un’autocoscienza.
Nell’anima cosciente l’uomo è desto, perciò rischia di sprofondare nella materia. Prima il suo stato
di coscienza glielo impediva: viveva nel cosmo ed il cosmo si viveva in lui. Ma grazie ad essa
l’uomo può al tempo stesso ritrovare il suo rapporto con il mondo spirituale, ma questa volta in mo-
do libero e cosciente.

***
Nell’anima cosciente comincia a rivelarsi la vera natura dell’io. Ché, mentre attraverso la
sensazione e l’intelletto l’anima si abbandona ad altre cose, come anima cosciente essa afferra la
sua propria essenza. Quindi l’io non può essere percepito dall’anima cosciente in altro modo che
per mezzo di una certa attività interiore. (…) Con la percezione dell’io – con l’autoconoscenza –
comincia un’attività interiore dell’io. (…) Ciò che penetra come una goccia nell’anima cosciente è
quello che la scienza occulta chiama spirito. L’anima cosciente si collega così come lo spirito, il
quale è la parte nascosta di tutto ciò che è manifesto. Se l’uomo vuole afferrare lo spirito in tutto il
mondo manifesto, deve farlo nello stesso modo in cui afferra l’io nell’anima cosciente. Deve rivol-
gere al mondo manifesto l’attività che lo ha condotto alla percezione dell’io. Ma ciò facendo egli
sviluppa lati più alti della sua natura. Aggiunge qualcosa di nuovo alle sue parti costitutive corpo-
ree ed animiche.30
Da queste parole di Steiner risulta evidente che non sia possibile, in uno stato di coscienza
ordinario, giungere alla percezione diretta delle tre parti costitutive superiori dell’entità umana che
la scienza dello spirito chiama sé spirituale, spirito vitale e uomo spirito. Steiner descrive però in
moltissime occasioni la via che può portare l’uomo allo sviluppo di organi di percezione spirituale
capaci di compiere esperienze oggettive nel mondo soprasensibile, come gli organi di percezione
fisici sono capaci di compiere esperienze nel mondo sensibile.
Seguendo la via di sviluppo interiore indicata da Steiner in primo luogo l’uomo diviene pa-
drone di ciò che giace nascosto negli elementi inferiori della sua anima. Come l’uomo compia que-
sto lavoro, appare dal confronto fra un individuo ancora dedito ai desideri inferiori e ai cosiddetti
piaceri dei sensi ed un elevato idealista. Il secondo deriva dal primo, se questo abbandona certe
tendenze inferiori e ne svolge altre superiori. Allora egli agisce per mezzo dell’io sulla sua anima,
nobilitandola e spiritualizzandola. L’io diviene signore della vita dell’anima. Ciò può andare così
oltre, che nell’anima non entri alcun desiderio né alcun piacere, senza che l’io, come autorità com-
petente, ne permetta l’ingresso. Per tal via l’intera anima diviene una manifestazione dell’io, men-
tre al principio ciò accadeva solo per l’anima cosciente. In fondo, tutta la civiltà e tutto lo sforzo
spirituale dell’uomo consistono in un lavoro che ha per mèta questa supremazia dell’io. Ogni uomo
vivente oggi è impegnato in questo lavoro, lo voglia o no, ne sia o no cosciente.
Grazie a tale lavoro si sale a gradini sempre più alti dell’entità umana. Per tale mezzo
l’uomo sviluppa nuove parti costitutive del suo essere. Esse stanno nascoste sotto ciò che è a lui
manifesto.
L’uomo non solo può diventare padrone della sua anima lavorando in essa con l’io, in mo-
do che essa faccia scaturire il nascosto da ciò che è manifesto, ma può anche estendere tale lavoro,

30
Rudolf Steiner – La scienza occulta nelle sue linee generali – Ed. Antroposofica

22
estenderlo al corpo astrale. In tal modo l’io si impadronisce del corpo astrale, in quanto si unisce
con la sua essenza nascosta. Il corpo astrale dominato e trasformato dall’io può chiamarsi sé spiri-
tuale. (…) Nel sé spirituale abbiamo una più elevata parte costitutiva dell’entità umana; parte che
per così dire è presente solo in germe, ma che emerge sempre più a mano a mano che l’entità uma-
na lavora su se stessa.
Come l’uomo diventa padrone del suo corpo astrale col farsi strada fino alle forze nascote
che stanno dietro ad esso, così, nel corso dell’evoluzione, questo avviene anche per il corpo eterico.
Il lavoro sul corpo eterico è però più arduo che quello sul corpo astrale, perché ciò che si nasconde
nel corpo eterico è celato da due veli, mentre ciò che è celato nel corpo astrale è celato da un velo
solo. Ci possiamo fare un’idea della differenza nel lavoro sui due corpi, richiamando l’attenzione
su certi cambiamenti che possono intervenire nell’uomo nel corso della sua evoluzione. Si consideri
anzitutto come si sviluppino certe proprietà dell’anima umana quando l’io lavora su di essa: come
piaceri e desideri, gioie e dolori possano cambiare. Basta ripensare alla propria infanzia. Da che
derivano allora gioie e dolori? Che cosa si è aggiunto a ciò che si sapeva da fanciulli? La risposta
non sarà che una prova del dominio che l’io ha acquistato sul corpo astrale: esso è infatti il veicolo
di piaceri e dispiaceri, di gioie e dolori. E si consideri quanto poco, in confronto, si modifichino in-
vece con l’andar degli anni certe altre proprietà dell’uomo, quali il suo temperamento, le peculiari-
tà più profonde del suo carattere, e così via. Uno che da fanciullo è irascibile, conserverà spesso
certi aspetti dell’irascibilità anche durante il suo ulteriore sviluppo e pel restante della vita. (…)
Ma anche il carattere ed il temperamento dell’uomo si modificano sotto l’influenza dell’io, per
quanto si tratti di una modificazione assai lenta rispetto alla modificazione delle proprietà accen-
nate più sopra. (…) Le forze che producono le modificazioni del carattere e del temperamento ap-
partengono alle forze nascoste del corpo eterico. (…) Il lavoro si estende al corpo eterico quando
l’io rivolge la sua attività a una modificazione del carattere o del temperamento. Anche a
quest’ultima modificazione l’uomo lavora, ne sia o no cosciente. Gli impulsi più forti che nella vita
ordinaria spingono a tale modificazione, sono quelli religiosi. Quando l’io fa continuamente agire
su se stesso, sempre di nuovo, gli incitamenti che vengono dalla religione, essi creano in lui una
forza che agisce fin dentro al corpo eterico e lo trasforma, come i minori impulsi della vita produ-
cono la trasformazione del corpo astrale. Questi minori impulsi, che vengono all’uomo dallo stu-
dio, dalla riflessione, dalla nobilitazione dei sentimenti, ecc., seguono le molteplici vicende
dell’esistenza; il sentimento religioso imprime invece un che di unitario a tutti i pensieri, a tutti i
sentimenti, a tutti gli atti volitivi; per così dire diffonde una luce comune e unitaria sopra l’intera
vita dell’anima. (…) La fede religiosa in tal modo ha presa su tutta la vita dell’anima; i suoi influs-
si si rafforzano sempre più con l’andar del tempo, in quanto la loro azione è continuamente ripetu-
ta. Essi arrivano così ad acquistare il potere di agire sul corpo eterico. In modo analogo agiscono
sull’uomo gli influssi dell’arte vera. Quando in presenza di un’opera d’arte, attraverso la forma
esterna o il colore o il suono, l’uomo penetra con la rappresentazione e col sentimento nei substrati
spirituali di essa, gli impulsi che l’io ne riceve arrivano in verità ad agire fino sul corpo eterico.
(…) Da questi impulsi si vede che nell’uomo è nascosta un’altra parte costitutiva della sua entità,
che l’io elabora sempre più. Possiamo riconoscere in questa la seconda parte costitutiva dello spi-
rito, e chiamarla «spirito vitale». (…)
Lo sviluppo intellettuale dell’uomo, la purificazione e la nobilitazione dei suoi sentimenti e
delle sue volizioni ci danno la misura della trasformazione del suo corpo astrale in sé spirituale; le
sue esperienze religiose e varie altre esperienze s’imprimono nel suo corpo eterico e trasformano
questo in spirito vitale. (…)
Col lavoro sul copro astrale e sul corpo eterico non è però esaurita l’attività dell’io. Essa si
estende anche al corpo fisico. (…) Quando per l’attività dell’io si verificano dei cambiamenti nei
riguardi della sua influenza sul corpo fisico, l’io è veramente unito con le forze nascoste del corpo
fisico, cioè con le stesse forze che producono i suoi processi fisici. Si può affermare allora che me-
diante tale attività l’io lavora sul corpo fisico. L’espressione non deve essere fraintesa. Non si deve
pensare ad un lavoro rozzamente materiale. Ciò che nel corpo fisico appare rozzamente materiale

23
è solo la sua parte manifesta. Dietro questa parte manifesta stanno le sue forze nascoste che sono
di natura spirituale. Qui non parliamo quindi di un lavoro sulla parte materiale apparente del cor-
po fisico, ma di un lavoro spirituale sulle forze invisibili che ne procurano la formazione e la di-
sgregazione. Nella vita ordinaria l’uomo non può arrivare che a una conoscenza assai poco chiara
di questo lavoro dell’io sul corpo fisico. La chiarezza diviene però piena quando l’uomo, sotto
l’influenza della conoscenza soprasensibile, prende tale lavoro coscientemente nelle proprie mani.
allora diviene evidente che nell’uomo vi è ancora un terzo elemento spirituale. È quello che pos-
siamo chiamare «uomo-spirito» in opposizione all’uomo fisico.
Riguardo all’uomo spirito si può anche facilmente esser tratti in errore dal fatto che nel
corpo fisico vediamo l’elemento più basso dell’essere umano, e ci è quindi difficile rappresentarci
che il lavoro sul corpo fisico debba portare alla parte più alta dell’uomo. Ma appunto perché il
corpo fisico nasconde sotto tre veli lo spirito che in lui è attivo, occorre il più alto genere di lavoro
umano per unire l’io con il suo spirito nascosto.
L’uomo dunque si presenta per la scienza occulta come un ente composto di diverse parti
costitutive. Sono di carattere corporeo il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale. Sono ani-
mici l’anima senziente, l’anima razionale e l’anima cosciente. Nell’anima diffonde la sua luce l’io.
E sono spirituali: il sé spirituale, lo spirito vitale e l’uomo spirito. (…) L’anima senziente ed il cor-
po astrale sono strettamente uniti e in un certo modo formano una cosa sola. In modo analogo sono
una cosa sola l’anima cosciente e il sé spirituale, perché nell’anima cosciente risplende lo spirito, e
da essa sono illuminate le altre parti costitutive della natura umana. 31

C. Fisico

Corpo C. Eterico

C. Astrale

C. Astrale

A. Senziente

Anima A. Razionale

A. Cosciente

Sé Spirituale
Sé Spirituale

Spirito Spirito Vitale

Uomo Spirito

Sarà ora possibile prendere in esame il corredo fondamentale di rappresentazioni ricorrenti


delle fiabe alla luce della ricerca scientifico-spirituale di Rudolf Steiner.

***
Padre e Madre, Re e Regina
Le immagini del padre e della madre, del Re e della Regina, sono rappresentazioni di Dio e
della madre terra, del mondo spirituale nel suo legame con il mondo fisico. Nelle fiabe, quando vie-

31
Ibidem

24
ne nominata una madre, non si parla mai della madre biologica, si sbaglia sempre se si riferiscono le
immagini fiabesche a condizioni del mondo sensibile.
Le rappresentazioni del Re e della Regina evidenziano che l’uomo, nella sua dignità, è an-
cora collegato con il mondo spirituale. La corona aperta verso l’alto è il simbolo del legame con il
mondo spirituale, quando si parla del vecchio Re stanco e malato, si mostra come i tempi antichi
vadano scomparendo. Le forze del passato non sorreggono più. Col principe e la principessa inizia
una nuova era, un nuovo grado di coscienza. I rapporti padre-figlio, genitori-bambini, stanno in
genere a indicare, anche nella mitologia, il passaggio da un’epoca storica alla successiva. A questo
grado dei tempi primordiali l’esistenza corporea viene presentata come castello, e va osservata la
zona in cui si trova (giardino, bosco, montagna).
Nelle vere fiabe c’è sempre il punto di partenza di un’evoluzione che alla fine porta verso
un nuovo reame; e allora ritornano le immagini dei mondi antichi dopo aver però superato pene e
prove. Si intende parlare del raggiungimento delle altezze spirituali, a un futuro nuovo grado rag-
giunto dalla libera individualità.32

Spirito e materia
Quando, nella fiaba, intendiamo parlare della separazione tra spirito e materia come si pre-
senta entro la vita dell’anima compaiono sempre due figlie. Una legata all’elemento materiale-
terrestre, in genere come figlia della matrigna, e l’altra con l’anima rivolta allo spirito è la figlia
del padre. La signora Holle e I tre omini del bosco mostrano il processo che si svolge in ogni ani-
ma fra la parte legata alla Terra e la parte dell’anima rivolta allo spirito. Noi tutti sperimentiamo
in realtà entrambe le figlie!
L’anima collegata allo spirito ha da soffrire, viene trattata male dalla matrigna. Deve esse-
re così, in quanto il processo di maturazione è legato per l’anima alla sofferenza e a gravi prove.33

Le forze della natura


In tutte le fiabe, se sono vere fiabe, a qualsiasi epoca o popolo appartengano, esiste un certo
corredo fondamentale comune di rappresentazioni. Per esempio, si possono spesso incontrare dei
giganti vinti dall’astuzia e, se facciamo un salto a ritroso nei millenni troviamo nell’Odissea di
Ulisse il gigante Polifemo.34 Il gigante è certamente una rappresentazione ricorrente e, come tutte le
altre, per essere compresa deve essere ricondotta all’uomo, ad un particolare gradino della sua evo-
luzione. I giganti sorgono naturalmente come immagini dallo stato d’animo che si prova quando al
mattino l’anima vuole di nuovo immettersi nel corpo fisico e si vede di fronte alle forze della natura
che occupano il corpo e le appaiono «gigantesche». Negli svariati combattimenti dell’uomo contro
i giganti è rappresentato il sentimento di lotta provato dall’anima, e ciò corrisponde a quanto essa
sente, anche se non è comprensibile razionalmente. Quando tale lotta le si presenta, di fronte alla
posizione dei giganti l’anima sente di possedere una cosa sola: la sua furberia. Vi corrisponde in-
fatti il sentimento: tu potresti adesso entrare nel tuo corpo, ma che cosa sei tu mai di fronte alle gi-
gantesche forze dell’universo? Tuttavia tu hai qualcosa che non si trova in quei giganti: la furbe-
ria; la ragione! Ciò sta inconsciamente davanti all’anima quando essa deve pur convenire che nul-
la può contro le gigantesche forze dell’universo; e noi vediamo in effetti come l’anima vi si impegni
quando esprime in immagini lo stato d’animo che abbiamo appena descritto.35
Il combattimento dell’anima umana contro le forze della natura viene rappresentato spesso
anche con l’immagine della lotta contro gli orsi. Questi animali, nella caratterizzazione del lato fe-
roce della loro natura, simboleggiano spesso le cieche forze naturali, ma possono anche esprimere
condizioni nelle quali le forze animiche, del tutto dedite all’esistenza corporea, restano irretite nella

32
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno
33
Ibidem
34
Rudolf Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica
35
Ibidem

25
brama di soddisfare bassi desideri. Si ha in tal caso una vittoria della natura inferiore dell’essere
umano sulle sue parti superiori.
Nelle fiabe è comunque raro che vi siano descrizioni di eventi naturali, ma, quando vi ap-
paiono, sono sempre da intendersi come eventi che si svolgono nei paesaggi dell’anima. Un acquaz-
zone, un tuono o un lampo, una nevicata o un sole bruciante, tutto va preso come una metafora di
diversi stati d’animo.

Anima senziente
I giganti
Sappiamo che l’anima si articola in anima senziente, anima razionale e anima cosciente.
Come occhio e orecchio hanno i loro diversi rapporti con il mondo circostante, così queste tre parti
costitutive dell’anima umana stanno con il loro ambiente in un ben determinato rapporto; perciò
diventano percepibili per gli uomini, negli stati intermedi, le diverse parti dell’ambiente spirituale,
a seconda di quale parte dell’anima vi è rivolta. Supponiamo che sia l’anima senziente a essere ri-
volta in modo speciale all’ambiente spirituale: l’uomo vedrà allora le entità che più sono congiunte
con le solite forze della natura. (…) L’uomo è allora trasferito a ritroso in una condizione dei tempi
antichi, quando ancora non sapeva servirsi dell’anima razionale e di quella cosciente.
Allora egli si trovava ancora in stretta unione con le forze delle natura nelle quali egli stesso era
inserito; era un essere composto di solo corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale e anima senzien-
te. Come tale popolava il mondo ed era in grado di agire come gli esseri che vivono oggi intorno a
lui nelle forze naturali inferiori; queste gli appaiono come espressione di ciò che egli stesso era sta-
to, quando gli uomini sapevano, con impeto di vento, sradicare alberi, sapevano dominare i tempo-
rali, la nebbia, la pioggia. Gli esseri che lo circondano gli appaiono come egli stesso era stato nel
passato, gigantescamente potente, poiché allora egli non si era ancora separato dalle forze della
natura. Le figure che gli appaiono (copie della sua stessa figura) gli si rivelano come uomini di for-
za gigantesca: questi sono i «giganti». (…) Ma i giganti sono stupidi, perché appartengono a
un’epoca in cui non potevano ancora usare l’anima razionale; sono forti e stupidi.36

Anima razionale
Donne sagge, sorelle ed altre figure femminili
Consideriamo ora quel che poteva vedere l’anima razionale negli stati intermedi cui si è ac-
cennato precedentemente. La forza, qui intesa come l’elemento gigantesco dell’uomo, è quella che
forma tutto, ma mediante l’anima razionale, vivendoci dentro, l’uomo vede intorno a sé figure che
apportano anche la sapienza in tutto, che dispongono tutto saggiamente. Mentre di regola egli vede
i giganti come maschi, vede le figure dell’anima razionale come entità formatrici femminili, che
portano sapienza nel fluttuare delle cose del mondo.37 Si pensi per esempio a Rosaspina. Nella ce-
lebre fiaba dei Grimm la principessa, che qui rappresenta l’anima umana, il giorno del suo quindi-
cesimo compleanno incontra una vecchina tutta intenta a filare in una stanza di una torre del castello
paterno. Irresistibilmente attratta dal fuso, si punge e cade in sonno profondo. Questa è soltanto una
piccola parte della fiaba, eppure vi si celano scenari immensi. Intanto, il quindicesimo anno coinci-
de con l’inizio del terzo settennio; anche se le forze propriamente legate all’anima razionale si svi-
luppano a partire dal settennio successivo, il quindicesimo anno segna l’inizio dello sviluppo della
capacità di giudizio. Il giovane di quindici anni comincia ad essere desto intellettualmente e ciò
comporta la fine della coscienza sognante del secondo settennio. Se, dal punto di vista delle espe-
rienze sensibili, ciò corrisponde ad un risveglio, dal punto di vista dell’esperienza soprasensibile
coincide con la caduta in un sonno profondo. Si può dire che il bambino del primo settennio, spe-
cialmente nei primissimi anni di vita, sia ancora congiunto con tutto il suo essere al mondo spiritua-
le; il processo di distacco è appena cominciato.

36
Rudolf Steiner - La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed Antroposofica
37
Ibidem

26
Nel secondo settennio il bambino si trova in uno stato di coscienza intermedio, sognante:
non ha ancora perso del tutto i legami con il mondo spirituale, eppure comincia a risvegliarsi rispet-
to al mondo fisico. La crisi del nono anno testimonia questo passaggio.
Il terzo settennio, con il risveglio delle forze legate al pensare, coincide con la perdita del
mondo spirituale. Quest’ultima, in una prospettiva animica quale è quella della fiaba, è una caduta
nel sonno profondo, mentre, dal punto di vista fisico sensibile, è certamente un risveglio. Si possono
ricordare le parole di Novalis: “Ogni nascita nel mondo fisico è una morte nel mondo spirituale.
Ogni morte nel mondo spirituale è una nascita nel mondo fisico”38 Altri elementi di questo piccolo
brano tratto da Rosaspina, come il filatoio, il fuso, il filo, l’atto stesso di filare, la torre, sono ricon-
ducibili alle forze di pensiero e spesso, nel linguaggio fiabesco, ci informano proprio di come esse
sorgano e di che cosa comportino; ma saranno presi in esame in seguito.
Sono le «donne sagge» che esistono dietro alle cose e che danno forma a tutto. In queste fi-
gure l’uomo vede riprodotta la sua stessa figura di quando possedeva già l’anima razionale, ma
non ancora l’anima cosciente. Queste entità operano saggiamente nelle cose e, poiché nello stato
intermedio di coscienza si sente affine ad esse, l’uomo ha una sensazione di intima parentela con
questi esseri femminili, vediamo quindi che si presenta anche spesso il concetto di «sorella».

Lo sposalizio
Ora, quando l’uomo si trova in tale stato di coscienza (si riferisce allo stato di coscienza in-
termedio), avviene anche un’altra esperienza nella sua anima, afferrabile in maniera del tutto inti-
ma. L’uomo è allora rapito fuori dalla solita percezione fisica e dice a se stesso: quello che vedo
ora è contenuto nella mia visione diurna, durante la quale è chiaro alla mia anima razionale, ma è
invertito quando lo scorgo durante il giorno. Quando durante lo stato intermedio di coscienza
l’uomo si sovviene delle impressioni diurne, queste gli appaiono rovesciate rispetto alle sensazioni
che ha quando di giorno si ricorda delle sue condizioni intermedie di coscienza, delle svariate figu-
re sfuggenti del suo sistema astrale. Ora, ricordando le impressioni diurne, gli succede come se gli
si presentassero in figure rigide le tenui figure eteriche che stanno dietro alla realtà comune. Per-
ciò gli oggetti del giorno appaiono all’uomo come se contenessero in sé incantata la loro essenza.
Ovunque appaia una pianta o un altro essere incantato, si verifica il fatto che l’uomo vede il conte-
nuto di un essere saggio che sta dietro l’apparenza fisica e allora egli si ricorda: già, di giorno non
è che una pianta e di giorno esso (l’essere saggio) è tanto distaccato dalla mia anima razionale che
non posso afferrarlo. Quando l’uomo sente questa estraneità tra l’oggetto diurno e ciò che gli sta
dietro, per esempio il giglio come oggetto diurno e la figura affine alla sua anima razionale che gli
sta dietro, allora egli sente il desiderio di unione della sua anima razionale con quanto sta dietro
all’oggetto diurno come uno «sposalizio», come una fusione della figura notturna con quella diur-
na.39
Come abbiamo visto, nella partizione dell’entità umana esistono diversi livelli di osserva-
zione. A seconda degli aspetti che si vogliono esaminare, a volte si ricorre alla quadripartizione in
corpo fisico, eterico, astrale ed io; altre alla tripartizione in corpo, anima e spirito. Similmente,
quando si compie un lavoro interpretativo delle immagini fiabesche, si possono scegliere diversi
punti di vista, a seconda del piano di osservazione che si vuole avere. Riguardo allo sposalizio esiste
un altro livello interpretativo, non meno ricorrente di quello appena esposto. L’immagine delle noz-
ze tra il principe e la principessa, nelle fiabe segue sempre numerose lotte, prove e traversie che il
principe è stato costretto a superare. Il principe è sempre una rappresentazione dell’io umano che
lotta per nobilitare i suoi corpi inferiori. Più avanti prenderemo in esame la figura del principe e
quelle dei suoi antagonisti ma, per ora, basti individuarlo come rappresentazione dell’io. Nelle noz-
ze con la principessa troviamo una metafora dell’io che, nobilitata la sua natura inferiore, si unisce
con l’anima umana, purificata e portatrice d’amore. Là dove si supera il male si hanno le nozze

38
Novalis – Frammenti
39
Rudolf Steiner – La poesia delle fiabe alla luce della scienza dello spirito – Ed. Antroposofica

27
dell’anima cosciente con lo spirito. Ad ogni modo, lo sposalizio può sempre essere ricondotto
all’unione dell’uomo con la sua essenza spirituale.

Anima cosciente
I nani
L’anima cosciente nacque nell’uomo quando egli si era già molto allontanato dalle forze
della natura e non poteva più guardare dietro ai segreti dell’esistenza. Le capacità dell’anima co-
sciente sono molto, molto lontane dalle potenti forze che abbiamo descritte prima. La facoltà
dell’anima cosciente è l’astuzia, ma essa è ben lungi dal possedere la potenza, una grande forza.
Con l’anima cosciente arriviamo a percepire le entità spirituali rimaste al gradino nel quale
l’uomo aveva appena l’involucro dell’io. L’uomo vede la vita di tali entità che sono deboli; le loro
forze sono piccole, e siccome l’uomo vede le loro immagini commisurate alle forme della loro natu-
ra intima, così esse gli appaiono come «nani». (…) Nel mondo spirituale si rispecchiano i combat-
timenti di esseri deboli quanto a forza corporea, ma per questo più forti spiritualmente. Ovunque
nelle fiabe si parli di vittoria sulle forze brute o sui giganti si tratta di percezioni in un tale stato in-
termedio di coscienza.40
Nella fiaba dei fratelli Grimm: Il prode piccolo sarto, oltre che in Ammazzasette ed in tante
altre, possiamo trovare bellissime rappresentazioni della lotta dell’anima cosciente per il predomi-
nio sull’anima senziente. Questa lotta si risolve sempre con la vittoria dell’anima cosciente che, non
potendo gareggiare sul piano della forza fisica (incarnata dalla figura del gigante), la batte con
l’astuzia.
In generale si può affermare che il più delle volte, quando appare un gigante in una fiaba, il
suo ruolo è di antagonista rispetto ad un uomo (vedremo in seguito come vada interpretata, per
esempio, la figura del sarto, che è sempre in relazione con le forze intellettuali), portatore degli im-
pulsi provenienti dallo sviluppo dell’anima cosciente. Anche qui troviamo una conferma del fatto
che le fiabe raccontino al bambino i nessi dello sviluppo della coscienza umana, nessi che riguarda-
no da un lato l’umanità in generale e, dall’altro, lo sviluppo di ogni singolo individuo.

Anima senziente, razionale e cosciente


Passiamo a esaminare un’ulteriore considerazione delle forze animiche e spirituali entro
l’entità umana: se vogliamo distinguere nelle forze animiche che si rivolgono all’esistenza materia-
le il sentire e il pensare, allora questa nostra forza animica subisce un’ulteriore divisione e abbia-
mo in totale tre figlie. (…)La forza animica del pensiero che si collega con la volontà, che si orienta
verso la divinità, è sempre rappresentata dalla figlia più giovane. Portare il volere nel pensare,
orientarsi con questo pensare ricco di volontà soltanto secondo le leggi e la verità, è per noi ancora
una forza molto giovane. Rudolf Steiner chiama questa dimensione «anima cosciente». (…) La cosa
è particolarmente chiara nella fiaba Pelle d’orso. Il soldato, orrendo da vedere nella sua pelle
d’orso, ha aiutato il vecchio, e questi gli ha per questo promesso una delle sue figlie: «… vieni con
me e scegline una». È ora interessante notare il comportamento delle figlie; la prima strilla ad alta
voce e scappa: una pura reazione senziente. La seconda osserva il soldato dalla pelle d’orso con
attenzione e poi dice: «Come posso prendere per marito un uomo che non ha figura umana? Prefe-
rirei un orso selvaggio che una volta ebbi modo di vedere qui e che si presentò come un uomo, se
non altro aveva la pelliccia degli Ussari e i guanti bianchi». Si tratta di una riflessione razionale e
tanto meno illogica. La figlia più giovane dice al padre: «Dev’essere un buon uomo quello che vi
ha aiutato quando eravate in difficoltà. Se gli avete promesso per questo aiuto una sposa, la vostra
parola deve essere mantenuta». Non si tratta di cogliere qui un lato di sottomissione rispetto alla
volontà del padre. Questa terza figlia si regola sulla legge secondo la quale se si ha promesso
qualcosa, la parola data dev’essere mantenuta; quindi si deve trovare uno sposo, che questi sia
simpatico o meno: questo è il comportamento dell’anima cosciente.41
40
Ibidem
41
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno

28
Possiamo in realtà ricondurre questa vicenda fiabesca al fatto che la figura del padre non in-
carni mai il padre biologico, ma piuttosto la matrice spirituale dell’uomo: Dio Padre.
La figlia più giovane sente profondamente che l’azione giusta da compiere sia indicata dalla
volontà del padre, infatti alla fine, quando la pelle d’orso cade, l’azione viene premiata.
Ricordiamo le parole del Padre nostro: «Sia fatta la Tua volontà; come in Cielo, così in Ter-
ra».

Il corpo fisico
S. Francesco chiamava il suo corpo fratello asino e questo fatto non può non risvegliare una
certa meraviglia, se scopriamo che, nel linguaggio fiabesco, questo animale rappresenta sempre il
corpo fisico. Nella fiaba l’Asinello dei Grimm, la madre rifiuta il figlio perché ha le sembianze di un
asino; ma il padre, il re, lo accetta perché vede in lui il principe, che altri non è se non il nucleo spi-
rituale eterno dell’essere umano: l’io superiore, il sé spirituale che lotta per nobilitare la propria na-
tura inferiore. Il re diventa allora l’immagine di Dio Padre e l’asinello del corpo fisico umano, che
parte da una condizione corrotta e che deve essere nobilitato dallo spirito. L’asinello, nella fiaba,
vorrebbe imparare a suonare il liuto ma il maestro tenta di dissuaderlo perché la sua condizione cor-
porea glielo impedisce. Ma sotto la pelle d’asino si nasconde il principe e, con grande determina-
zione, l’asinello impara a suonare il liuto proprio come il maestro. Con questa fiaba stiamo dicendo
al bambino: tu ti sei incarnato in un corpo fisico e, proprio come tutti gli uomini, dovrai lottare du-
ramente per nobilitare la tua natura inferiore, ma alla fine ce la farai, perché discendi da Dio e Dio ti
ha amato fin dall’inizio. Sii perseverante e potrai levarti di dosso la tua pelle d’asino per risorgere
come principe.
Bisogna imparare da un lato ad educare il corpo, che fa resistenze, come l’asino, ma
dall’altro lato bisogna anche saperlo ascoltare. L’asino, nella fiaba, suona il liuto e le porte del ca-
stello gli vengono aperte soltanto quando egli suona. Soltanto nel castello la pelle d’asino casca a
terra ed il principe vede la luce. Il castello qui rappresenta il centro interiore, la coscienza che ci di-
stingue dagli animali e che ci fa distinguere un dentro da un fuori, la nostra interiorità dal mondo
esterno. Stiamo quindi indicando al bambino la strada che deve percorrere: gli stiamo dicendo che
tra breve, quando avrà nove anni, la sua coscienza comincerà a destarsi e lui, che pure avrà già ini-
ziato ad imparare tante cose, comincerà solo allora a rapportarsi col suo principe interiore, con la
sua coscienza, che diventerà la mediatrice tra la sua interiorità ed il mondo esterno.
Nel castello c’è una bellissima principessa e l’asino la vorrebbe conquistare. Ma, per prima
cosa, una volta entrato, deve difendere la sua dignità. Si rifiuta di mangiare nella stalla con gli ani-
mali: il principe si sta per liberare e lui non può identificarsi col suo corpo, con la sua pelle d’asino.
Desidera invece identificarsi con la sua essenza spirituale.
L’asino non vuole andare a mangiare nella stalla con gli altri animali, ma non vuole neanche
mangiare con i soldati. A nove anni il bambino deve trovare il suo castello interiore, ma proprio a
quell’età inizia a dire parolacce per ferire, non come faceva in asilo, per imitazione, ma proprio con
l’intenzione di ferire. A nove anni il bambino ha a che fare con la propria aggressività, ma l’asinello
si rifiuta di mangiare con i soldati: non vuole identificarsi con i suoi peggiori impulsi. L’unica cosa
giusta è l’amore per la principessa, per l’anima umana; vuole mangiare solo accanto ad essa; anzi,
fra la principessa ed il Re.
L’asino può anche essere una maschera che uno si è messo perché non si sente idoneo; là
dove non vi è equilibrio, l’asino può essere una maschera. Alcuni bambini reagiscono con un rifiuto
quando si trovano in una condizione di squilibrio interiore, mentre altri fanno i pagliacci. Le imma-
gini delle fiabe ci parlano di eventi interiori; se viste sotto questa luce diventano comprensibili.
Come si è detto San Francesco chiamava il suo corpo fratello asino, ma è ancor più meravi-
glioso ricordare che Gesù Cristo entrò a Gerusalemme proprio sulla groppa di un asino. Abbiamo
qui un immagine del Cristo che si congiunge alla terra e ne condivide il destino. È inoltre interes-
santissimo notare che in nessuna parte dei Vangeli si parla del bue e dell’asino presso la greppia.
Come mai allora vengono raffigurati? Il bue, il toro, indica la natura selvaggia dei nostri istinti,

29
mente l’asino è sempre l’immagine della corporeità che deve tener desta la vita del corpo tutti i
giorni, e viene anche bastonato, caricato di pesi fino a stramazzare. Entrambi vengono raffigurati
nella mangiatoia, inginocchiati, divenuti tranquilli nella luce di Cristo.42
Molti sono i riferimenti legati a questo caro animale in relazione al corpo fisico umano, per
esempio che fra tutti gli altri tipi di latte, quello di asina è il più simile al latte umano e perciò, se
per qualche ragione non è possibile alimentare il bambino con il latte materno o comunque umano,
si può ottenere il massimo successo col latte d’asina.43 Ma nuova meraviglia ci coglie scoprendo
che, nella cattedrale di Chartres, ci sia una statua raffigurante un asinello che suona il liuto. Il corpo
fisico è testardo e paziente come l’asino, si fa carico di tutte le insensatezze dell’essere umano e la
sua saggezza si manifesta anche con la malattia. Quando il corpo fisico si ammala è come se ci gri-
dasse: “Fermati! Così non va!”. L’asinello della fiaba dei Grimm vuole suonare il liuto: chiede
quindi ritmo, melodia, armonia interiore. Per imparare a suonare uno strumento bisogna sviluppare
tante qualità: pazienza e caparbietà, costanza ed umiltà; l’asinello della fiaba ce la fa e noi dobbia-
mo fare in modo che anche i bambini che educhiamo possano riuscirci.
Qualcuno indossa la pelle d’asino perché ha paura di non riuscire a superare le sue difficoltà.
In III classe i bambini iniziano ad essere sensibili ai talenti e agli impedimenti propri e degli altri. Si
accorgono che uno è particolarmente bravo a fare i conti, ma non sa disegnare; mentre un altro è
bravissimo a disegnare, ma non altrettanto a fare i conti. Notando queste differenze il bambino trova
il coraggio e la forza di togliersi la pelle d’asino.

Corpo fisico: capanna, casa, castello, osteria


Quali immagini usa la fiaba? Sempre, quando si parla dello spirito, compaiono figure ma-
schili; quando si parla dell’anima invece emergono figure femminili. Per la corporeità abbiamo di-
verse immagini (per esempio quella dell’asino), ma in relazione a tale triarticolazione in genere c’è
l’immagine della casa. Spirito e anima abitano durante la vita sulla Terra nella corporeità come in
una casa. Ogni tipo di casa, dalla povera capanna fino al castello, significa sempre un rapporto
con l’essere entro la corporeità dell’uomo.44
Nelle vere fiabe non vi è nulla che non sia essenziale. Non vi troviamo inutili descrizioni.
Tutto quanto vi appare ha un valore preciso nella narrazione, pertanto non stupirà il fatto che, anche
cose apparentemente banali come le finestre o il tetto, abbiano, nel linguaggio fiabesco, significati
precisi. Quando, come in Hansel e Gretel o in altre fiabe, troviamo l’immagine delle finestre, essa
sta ad indicare i sensi fisici di percezione. Pensandoci è proprio vero: i sensi sono come finestre dal-
le quali la nostra interiorità si affaccia sul mondo esterno e vi entra in relazione. L’immagine della
porta è quindi spesso riferita al passaggio da un tipo di esistenza ad un altro. La porta può alludere
al passaggio fra nascita e morte, o viceversa, fra morte e nuova nascita.
Quando si parla di tetto solitamente si vuole indicare il mondo spirituale. Quando si inizia ad
avere una certa dimestichezza con queste immagini si può anche cominciare a cogliere certe delica-
te sfumature. Per esempio, nelle fiabe, è diverso se il protagonista sbircia dentro a finestre dalle
quali si scorge un ambiente luminoso e caldo, rispetto ad altre che appaiono buie e rivelano un am-
biente disabitato e pauroso. Con queste chiavi di lettura si possono cominciare a leggere profondi
contenuti in immagini all’apparenza banali. Entrare in casa può significare nascere, incarnarsi pro-
venendo da un mondo spirituale. La soglia tra il mondo fisico e quello spirituale (vedi nella Signora
Holle) è spesso incarnata dall’immagine del pozzo; più esattamente della caduta nel pozzo.
L’annegamento, in generale, non ha nelle fiabe la stessa valenza che potrebbe avere in altri racconti.
Infatti, spesso, quando i personaggi delle fiabe annegano, poi continuano ad agire. L’annegamento è
quindi sempre un passaggio da un livello di esistenza ad un altro.
Tornando ora all’immagine della casa: in molte fiabe, al posto di questa, abbiamo un’osteria,
un albergo. Nella fiaba Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti, l’oste sottrae ai

42
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Antroposofica
43
Rudolf Steiner – Conoscere l’uomo seconda corpo, anima e spirito – Ed Antroposofica
44
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno

30
due fratelli il tavolino e l’asinello d’oro. In quest’osteria non si è veramente a casa, non si è del tut-
to dentro se stessi, non si ha grande senso di responsabilità per l’edificio che ci ospita, si è stranie-
ri e la casa non è propria. (…) In quelle taverne, fa da padrone in genere un oste non particolar-
mente buono, un sé egoistico che in qualche modo inganna l’uomo.45

Corpo eterico: il giardino


Il giardino dove tutto cresce, fiorisce e matura, è un’immaginazione del corpo vitale e per le
forze della vita che fanno parte dei nostri involucri corporei.46

Corpo astrale: il bosco


Come è stato detto l’anima senziente, fra le tre forze animiche dell’essere umano, fu la pri-
ma a formarsi. Essa è strettamente imparentata con il corpo astrale dell’uomo, quindi non stupirà il
fatto che proprio le immagini relative al corpo astrale siano tra le più semplici da interpretare nel
mondo fiabesco. Esse sono espresse con un linguaggio che parla direttamente all’anima umana, con
immagini che sembrano non aver subito mutamenti nel corso dei secoli, tanto da sembrarci fami-
gliari. Non dobbiamo fare grandi sforzi per comprendere che, ovunque appaia nelle fiabe una tenta-
zione, in qualsiasi modo sia rappresentata, questa voglia indicarci i pericoli nei quali incorre il cor-
po astrale. Ovunque, nelle fiabe di tutto il mondo, possiamo rintracciare figure il cui solo ruolo è
quello di insinuare desideri e brame che lo spirito, l’io umano, è destinato a seguire. Ciò, come nella
vita, può dar luogo a lunghe traversie, a dure prove il cui superamento porterà ad un’evoluzione cor-
retta. Questo può parlarci molto profondamente del mistero del male. Può trattarsi della casetta di
Hansel e Gretel, o di frutti nocivi, oppure di veri e propri tentatori che, come maghi e streghe, por-
tano i protagonisti a smarrire la retta via. In realtà il mago cattivo appare spesso anche nelle veci
dell’io inferiore. Ma proprio questo elemento dello smarrimento è spesso caratterizzato con
l’immagine del bosco. Il bosco che può essere scuro, in cui possono esservi animali selvaggi, cioè
istinti e passioni, indica il nostro corpo astrale.47 Ed in quante fiabe ritroviamo passaggi nei quali i
protagonisti si perdono in un bosco o in una foresta? La cosa importante è osservare che si tratti
sempre di una prova, di una caduta che conduce sempre ad un’altezza più elevata rispetto al punto
iniziale. Si tratta di un processo che conduce dall’oscurità alla luce, dalla debolezza alla forza inte-
riore, dal peccato alla redenzione.
Nelle fiabe possiamo spesso incontrare l’immagine di un protagonista ricoperto da una pelle di ani-
male. Essa sta a significare che l’io è ancora imprigionato in un’astralità non purificata. Troviamo
questa immagine nell’Asinello, in Pelle d’Orso ed in altre, ma il significato e molto spesso decifra-
bile proprio ricercando nell’astralità umana le caratteristiche dell’animale in questione.
Nella fiaba l’orso è sempre l’immagine per il sé dell’uomo oscurato dall’esistenza corpo-
rea: l’uomo deve trovare se stesso nell’oscurità dell’esistenza terrena.48 In generale, quando si par-
la di animali nelle fiabe, può essere utile rintracciare il loro significato a partire dal loro carattere e
dall’elemento fisico cui appartengono: terrestre, acquatico o aereo. Vi sono in realtà anche animali
che, per il particolare rapporto che li lega alla luce e al calore, possono essere messi in relazione
all’alemento igneo. Ciò ci apre un’ulteriore chiave di lettura rispetto ai temperamenti umani.
L’elemento terrestre è in particolare relazione con il temperamento malinconico (nel bambino con il
flemmatico); quello acquatico con il temperamento flemmatico (nel bambino con il sanguinico);
quello aereo con il sanguinico (nel bambino con il collerico); quello igneo con il collerico (nel bam-
bino con il malinconico).49 Si tratta in realtà di osservazioni che possono essere maggiormente utili

45
Ibidem
46
Ibidem
47
Ibidem
48
Ibidem
49
Vedere: Rudolf Steiner – il segreto dei temperamenti umani – Ed, Antroposofica – Oppure: Norbert Glas – I quattro
temperamenti – Natura e cultura Ed.

31
se raffrontate alle favole di animali, perciò verranno descritte nella parte conclusiva del testo, quan-
do si parlerà del passaggio dalla fiaba alla favola.

Io: fratelli, grulli e principi


L’io ha ovviamente una posizione centrale nell’anima umana. Ogni sviluppo spirituale
prende le mosse dall’io. Se nel caso delle figlie, cioè dell’anima (si riferisce alle tre figlie del vec-
chio nella fiaba Pelle d’orso), dobbiamo vedere uno sviluppo, esso è possibile in quanto il principe
è già in cammino, egli opera sull’anima del futuro. (…) Ogni tipo di sviluppo descritto per
l’elemento animico è pensabile soltanto in quanto c’è la luce dello spirituale anche se, nella fiaba,
non compare ancora: infatti il principe compare quasi sempre alla fine.
Se ora gli eventi prendono le mosse dall’elemento spirituale, cioè dall’io, compaiono i tre
fratelli – in genere dipende tutto dal più giovane; i due maggiori sbagliano e non trovano la giusta
strada. I tre fratelli rappresentano dunque ciò che si svolge quando l’io prende la guida nella vita
dell’anima.
In realtà nel caso dei due fratelli maggiori dovremmo parlare più correttamente del sé egoi-
stico nella sua relazione con il mondo fisico: forza bruta, avidità, ambizione, ecc. Soltanto il fratel-
lo più giovane rappresenta l’io superiore. (…) I primi due fratelli mostrano di nuovo la corruzione
– ora nella forza dell’io. L’egoismo nel sentire, cioè nell’aspetto senziente e nel pensare fin troppo
astuto, ci si presenta chiaramente ne L’acqua della vita. I due fratelli maggiori si mettono in cam-
mino con il pensiero di: «Se porto l’acqua della vita, erediterò da solo il regno».50
Non bisognerebbe mai irrigidire le immagini fiabesche in schemi predefiniti ai quali attener-
si in modo rigoroso. Un’interpretazione del corredo fondamentale delle rappresentazioni più ricor-
renti nelle fiabe è cosa fattibile e può essere molto utile, ma rischia di indurre in questa tentazione.
La duttilità propria delle immagini fiabesche, oltre a rendere possibile una lettura su piani diversi
delle medesime rappresentazioni, può anche sfruttarle con scopi differenziati. Vale a dire che
un’immagine che in un dato contesto significa una cosa, può benissimo significare qualcos’altro in
un contesto diverso. Ciò accade peraltro anche nella vita ordinaria. Per fare degli esempi banali, in
Italia si usa salutare le persone mostrando il palmo della mano, mentre il medesimo gesto, sulla vi-
cina isola di Creta, è piuttosto offensivo. Oppure, se capita di vedere un indiano che parla, si scopre
che egli, per annuire, china leggermente il capo da un lato, dandoci l’impressione di non avere capi-
to quanto gli viene detto. Tuttavia, in molti altri paesi, si annuisce sollevando e abbassando il men-
to. Da un punto di vista grafico si possono poi trovare infiniti esempi di plurivalenza delle immagi-
ni. Nelle fiabe, che abbracciano orizzonti vastissimi, vige la stessa plurivalenza.
L’immagine dei tre fratelli può essere interpretata come un confronto tra l’io superiore, in-
carnato dal fratello minore, e l’io inferiore, incarnato dagli altri due. Ciò nonostante si può scoprire
che, molto spesso, il primo ed il secondogenito falliscono a causa di comportamenti riconducibili
alle sfere d’azione dell’anima senziente e dell’anima razionale. In tal modo il fratello minore diven-
ta il portatore dell’anima cosciente. Ma può anche esservi un terzo livello di comprensione. Il pri-
mogenito può essere letto come immagine del corpo, il secondogenito dell’anima ed il terzogenito
dello spirito. In ogni caso vediamo che l’immagine del fratello minore va ricondotta all’elemento
spirituale dell’essere umano, appunto il più giovane degli arti costitutivi da un punto di vista evolu-
tivo.
L’io è una forza ancora giovane ed è per questo che il fratello più giovane viene indicato
come stupidello rispetto ai fratelli maggiori, spesso fin troppo furbi. Detto in altre parole: se qual-
cuno opera secondo la conoscenza, nel senso di ciò che è giusto in certe condizioni, spesso appare
come stupido alle persone che gli stanno intorno, le quali guardano soltanto al proprio vantaggio,
pensano solo al proprio benessere. 51 Nella vita si può fare l’esperienza che la bontà sia confusa per
ingenuità, spesso da persone che si ritengono «con i piedi per terra». Per questo in molte fiabe appa-
re la figura del grullo. Grullo è un termine che sta appunto ad indicare stupido, ma fa subito pensare
50
Ibidem
51
Ibidem

32
ad un buono stupido, la cui stupidità, vista da un’altra prospettiva, cela elevatissime forze morali ed
il germe di una saggezza divina.
L’intelligenza ed il sentire legati all’egoismo considerano stupido chi rinuncia, per un ideale,
all’ottenimento di vantaggi e privilegi sul piano materiale. E solo l’io, solo l’elemento spirituale
dell’uomo può trovare in sé l’impulso per un tale modo di agire. Per questa ragione, nelle fiabe, tro-
viamo spesso la figura del grullo del villaggio. Ed è proprio lui, alla fine dei conti, a riuscire dove
gli altri avevano fallito. Lui solo, che ha agito per puro altruismo e senza alcun obiettivo venale, alla
fine riceve grandi tesori ed alte onorificenze. Ma l’immagine più poderosa (ed anche la più classi-
ca), dell’elemento spirituale eterno dell’uomo nel linguaggio fiabesco è certamente incarnata dalla
figura del principe. Mentre, nelle immagini precedentemente analizzate (come quella del grullo),
troviamo in realtà espresse in modo unilaterale solo alcune delle caratteristiche dell’io, e vediamo
come spesso si rivelino separate e messe a confronto tra loro (come nella rappresentazione dei tre
fratelli, dove troviamo esemplificato l’agire dell’io nei suoi rapporti con le tre forze dell’anima), nel
principe troviamo rappresentata in modo unitario l’essenza stessa dell’esistenza umana.
Il principe discende direttamente dal Re, dal Padre Celeste e, nelle prove che è costretto a
superare, dimostra la sua forza (legata corpo); il suo coraggio (legato all’anima) e la sua saggezza
(legata allo spirito). Non dimentichiamoci ora che, come descritto in precedenza, nelle fiabe, tutti i
diversi personaggi concorrono alla formazione di un’immagine unitaria dell’uomo. Quindi, al ter-
mine delle sue vicende, dopo aver purificato la sua natura inferiore sconfiggendo il male (spesso in-
carnato dalla terribile figura del drago), il principe salva la principessa (l’anima umana) ed indica
che la soluzione finale, il traguardo più elevato raggiungibile dall’uomo sul piano fisico, sia
l’amore; il solo in grado di farlo ricongiungere con l’elemento spirituale originario rappresentato
dall’eredità del regno paterno.
Spesso il principe ci dà anche prova di esercitare la propria libertà; si pensi solo a Rosaspina,
quando gli viene detto di rinunciare: che molti, prima di lui, hanno provato a penetrare tra i rovi ag-
grovigliati intorno il castello e sono morti miseramente. Eppure il principe, da solo, decide di tenta-
re ed alla base della sua decisione (alla base della sua libertà), vi è l’amore per la principessa
(l’anima umana). La rappresentazione del principe ci riconduce quindi alla parabola più classica
delle fiabe, che è poi la stessa di ogni vita umana. Tutto ha inizio da una condizione di armonia, di
pace e di perfezione (come la gravidanza, o il regno celeste, il giardino di Eden dal quale l’uomo
proviene); poi il male si insinua nelle forme del drago e l’armonia si spezza (come la giovinezza, o
il serpente che insinua il peccato nell’anima umana e la fa cacciare dall’Eden). Allora il principe,
l’io, deve cominciare la sua lotta. Ed alla fine sconfigge il male, purifica l’anima umana e, con tutte
le forze e le facoltà che ha conquistato, giunge ad una nuova armonia e si ricongiunge al mondo spi-
rituale, ereditando il regno paterno.
Vediamo così che la fiaba riassume in sé l’immagine dell’evoluzione di una singola vita
umana tra nascita, giovinezza e morte; ma anche dell’intera umanità: tra creazione, caduta nel pec-
cato e redenzione attraverso le forze del Cristo, che sono appunto forze di libertà ed amore.

Io inferiore ed io superiore: due fratelli gemelli


Quando lo sviluppo della coscienza viene considerato sotto il profilo spirituale, troviamo in
diverse fiabe parallelamente l’immagine dei due fratelli, gemelli. Siamo davanti all’io nel suo lato
superiore (sé spirituale) e inferiore, cioè davanti alla reale entità spirituale dell’uomo e alla sua co-
scienza dell’io entro il mondo terrestre.(…)
In molte fiabe esiste però soltanto una principessa, soltanto un figlio di Re. Siamo davanti
all’anima e allo spirito.

Servo: l’angelo custode

33
Anima umana: la principessa, la vedova, la matrigna
Come nel principe troviamo riassunte tutte le caratteristiche dell’elemento spirituale, così
nella principessa troviamo un’immagine unitaria delle forze dell’anima umana. Come già accennato
nel sottocapitolo precedente, soltanto dall’unione dell’anima umana con lo spirito sorgono le forze
più elevate, le vere conquiste che coroneranno l’evoluzione umana. Si tratta dell’amore e della li-
bertà. L’anima, da sola, non potrebbe svilupparle e si perderebbe in qualche foresta oscura, o tra le
grinfie di un drago. E lo stesso vale per il principe, inteso come spirito umano: senza l’unione con
l’anima non potrebbe amare, né trovarsi nella condizione di agire liberamente. Non potrebbe svi-
luppare un impulso individuale all’azione, perché la sua esistenza sarebbe condizionata dalle leggi
che governano l’universo. Ma l’uomo, nella sua esistenza corporea, si emancipa dall’universo e solo
a partire da tale distacco può operare nel senso dello sviluppo di amore e libertà.
Una volta Steiner osservò che possiamo amare solo qualcosa da cui siamo separati. Se fos-
simo un tutt’uno con Dio non potremmo amarlo. E non potremmo agire liberamente se fossimo
tutt’uno con Dio, ma nel suo grembo ci muoveremmo secondo le leggi universali. Il più grande atto
d’amore sarà per l’uomo sottostare in piena libertà a quelle stesse leggi di Dio.
Questo possiamo trovare nell’immagine della principessa, una rappresentazione dell’eterno
femminino, ma nelle fiabe, come per lo spirito, possiamo trovare diverse rappresentazioni per
l’anima umana. Con l’immagine della povera vedova spesso si indica l’anima abbandonata. In ge-
nere essa ha anche dei tratti cattivi. Oppure compare come matrigna: per esempio nella signora Hol-
le o ne I tre omini nel bosco. Si tratta soltanto di interpretare queste immagini a seconda dell’aspetto
dell’anima che vogliono sottolineare, del suo grado di sviluppo. Nella principessa troviamo
un’anima umana ideale; nella vedova e nella matrigna troviamo un’anima in via di sviluppo.

Le forze dell’intelletto
Goethe, nella sua Fiaba del serpente verde e della bella Lilia, per descrivere il raziocinio in-
tellettuale si serve dell’immagine dei fuochi fatui, da lui rappresentati come esseri ingordi dell’oro
della sapienza. Essi lo ingoiano molto velocemente, con grande avidità, e lo restituiscono sotto for-
ma di monete, che si scrollano di dosso con altrettanta rapidità. Le monete vanno qui intese come
concetti solidificati, morti, dalla forma definita ed immutabile, il cui valore non ha più alcun colle-
gamento con la vivente sapienza operante nel mondo eterico.
Goethe pone i fuochi fatui in relazione al vecchio con la lampada. Quest’ultima ha la pro-
prietà di ricoprire d’oro le pareti di pietra nello spazio sul quale cade la sua luce. I fuochi fatui cer-
cano la moglie del vecchio con la lampada nella sua dimora, dove tutte le pareti sono ricoperte
d’oro e, con orrore della vecchia, lo ingoiano rapidamente. Ma il vecchio con la lampada giunge a
casa e, in un istante, con la luce della lampada, ripristina l’oro che ricopriva le pareti.
In numerose rappresentazioni pittoriche di temi sacri possiamo osservare una piccola fiam-
mella sul capo di Angeli o di santi; questa piccola fiammella rappresenta l’io superiore, che splende
come un sole nell’interiorità dell’uomo e la rischiara; in un certo senso la ricopre d’oro. La fiam-
mella del vecchio con la lampada rievoca queste rappresentazioni: la luce dell’io spirituale che non
si accontenta di rimanere alla superficie, al mondo incantato che possiamo percepire con i sensi, ma
vuole penetrare nelle radici spirituali dell’esistenza. I fuochi fatui quindi rappresentano, rispetto a
quest’ultima, un’immagine polare, che ci indica poeticamente l’operare del raziocinio intellettuale.
È curioso notare che Goethe, in opposizione alla fiammella della lampada del vecchio, si
servì proprio dell’immagine dei fuochi fatui. Nella realtà è possibile osservarli nei cimiteri o nei
pressi di luoghi nei quali sono avvenute delle sepolture. I corpi in decomposizione sprigionano dei
gas che, al contatto con l’aria, in determinate condizioni possono assumere l’apparenza di flebili
fiammelle baluginanti, di fuochi danzanti nell’aria. I fuochi fatui sono per loro stessa natura impa-
rentati con elementi mortiferi. Se ora prendiamo in esame le forze dell’intelletto, osserviamo che
anch’esse sono forze imparentate con la morte; che si tratti di forze apportatrici di morte. Se per
esempio osserviamo una pianta e la analizziamo in ogni singola parte servendoci dell’intelletto al
servizio dei sensi, potremo ricavarne moltissimi concetti sulla pianta, ma non riusciremo mai ad af-

34
ferrarne la vita. Grazie all’intelletto abbiamo la possibilità di cogliere la vita nelle sue manifestazio-
ni esteriori, ma non siamo in grado di afferrarne il nucleo essenziale. I concetti che possiamo estrar-
re dal vivente con l’intelletto, in certo modo lo uccidono e ne mostrano soltanto un’immagine spet-
trale. Si tratta di uno dei più grandi misteri dell’esistenza e l’immagine della cacciata dall’Eden ci
parla proprio di questo mistero. Nella Genesi possiamo leggere:52 Or il serpente era la più astuta di
tutte le fiere della steppa che il Signore Dio aveva fatto, e disse alla donna: «È vero che Dio ha det-
to: “Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”» - La donna rispose al serpente: «Dei
frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che sta nella parte
interna del giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, per non mo-
rirne”». Nella genesi le forze intellettuali legate all’albero della conoscenza sono poste in relazione
alla morte e, proseguendo nella lettura, questa relazione appare sempre più evidente.
Ma il serpente disse alla donna: «Voi non morirete affatto! Anzi! Dio sa che nel giorno in
cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del
male». Si apriranno i vostri occhi: il vostro intelletto si desterà e potrete cominciare a giudicare!
Quando l’uomo mangiò la mela dell’albero della conoscenza il Signore Dio lo scacciò (…) e dinan-
zi al giardino di Eden fece dimorare i cherubini e la fiamma della spada folgorante per custodire
l’accesso all’albero della vita. L’uomo poté così impadronirsi dell’intelletto, ma non della vita.

Goethe, che era sensibile alla vita, si oppose con tutte le sue forze all’atteggiamento di quan-
ti, come Linneo, considerando peculiari soltanto valori esteriori come la grandezza, il numero e la
posizione dei vari organi, volevano catalogare le forme di vita vegetali perdendo ogni contatto con
la loro stessa essenza di organismi viventi. In tal modo le piante risultavano bensì disposte in un or-
dine, ma in un modo che si sarebbe potuto applicare anche a corpi inorganici: secondo caratteri
ricavati dall’apparenza esteriore, non dalla natura intima della pianta. Tali caratteri si mostravano
in una contiguità esteriore, senza un intimo nesso necessario. Ma Goethe non poteva contentarsi di
questo modo di considerare gli esseri viventi, dato il concetto speciale ch’egli se ne era fatto. Nel
sistema di Linneo non si cercava mai l’essenza della pianta. Goethe invece non poteva a meno di
chiedersi: in che cosa consiste il quid che fa di un dato essere una pianta? Egli doveva riconoscere
che quel quid si ritrova egualmente in tutte le piante e, nondimeno, v’era pure per tutta l’infinita
varietà degli esseri singoli (…).53 Da questa premessa sorse La metamorfosi delle piante di Goethe,
nella quale possiamo leggere, nel capitolo riguardante la storia dei suoi studi botanici: «(…) mentre
cercavo di assorbire le sue (di Linneo) acute e geniali distinzioni, le sue leggi esatte e pertinenti ma
spesso arbitrarie, una frattura si verificava in me: ciò ch’egli si sforzava di tener distinto con la
forza, doveva, per le esigenze più profonde della mia natura, tendere a riunirsi»54. L’intelletto sepa-
ra ciò che nelle forme di vita coopera in modo unitario. Un capello, analizzato da solo, senza consi-
derare il suo attaccamento alla testa, non può dirci nulla di essenziale sull’essere umano; una pianta,
sradicata dal suolo, non è nemmeno più una vera e propria pianta.
Questa capacità di sezionare la vita, di separare ciò che è unito, è propria delle forze intellet-
tuali. Per questa ragione, nel mondo fiabesco, le troviamo rappresentate nel sarto che taglia con le
forbici e ricuce secondo il suo gusto e la sua arte, oppure nello spaccalegna che abbatte alberi e li
spacca in tanti pezzi. Gli alberi sono vivi e il taglialegna, abbattendoli, li uccide. Questo è in realtà
l’operare delle forze intellettuali, che estraggono concetti morti dal mondo vivente.
Ma con questo abbiamo descritto solo una piccola parte delle immagini che, nel mondo fia-
besco, ci parlano delle forze intellettuali. Vi sono infatti molte altre rappresentazioni che tendono a
porre in maggiore risalto altri aspetti di tali forze.
Secondo le descrizioni di Rudolf Steiner, l’origine dell’uomo va rintracciata nella più antica
incarnazione planetaria della terra che, nel linguaggio antroposofico, è denominata Antico Satur-

52
Genesi – Il peccato di Adamo
53
Rudolf Steiner – Le opere scientifiche di Goethe – Fratelli Melita Editori
54
J.W.Goethe – La metamorfosi delle piante – Guanda Ed.

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no55. Steiner descrive quella condizione primordiale come un’atmosfera di calore spirituale. Non vi
era dunque nulla di terroso, acquoso, gassoso o igneo, ma solo diverse gradazioni di calore spiritua-
le, simile in tutto e per tutto alla volontà umana. Se guardiamo all’origine della vita, vediamo quindi
ch’essa va ricercata in una condizione di calore spirituale, del tutto immateriale. Se ora vogliamo
cercare un’immagine polare rispetto a questa rappresentazione, non può che venirci in mente di
considerare che la morte abbia in sé un elemento di gelo. E non si tratta soltanto del calore corporeo
che si dissolve quando sopraggiunge la morte, ma anche di quel gelo che caratterizza le forze intel-
lettuali che, come abbiamo detto, sono in relazione con la morte.
Dobbiamo al genio del linguaggio l’esistenza di termini comuni, popolari, che mettono in
luce questa polarità in modo evidente. Il cuore pulsante è il più elementare tra i simboli della vita, e
nel linguaggio parlato si parla di calore del cuore. Si dice di una persona che sia calorosa o fredda e
non ci si riferisce di certo alla sua temperatura corporea. Quante volte si dice poi che è necessario
esaminare una questione a mentre fredda.
Il calore porta al movimento, alla duttilità, alla fusione, mentre il freddo porta alla staticità,
alla rigidità, alla disgregazione. Per questo, nelle fiabe, troviamo sovente le forze intellettuali rap-
presentate sotto forma di cristalli, anche di ghiaccio, di paesaggi imbiancati da cristalli di neve. Nel
mondo fiabesco i paesaggi invernali ci informano che siamo nel regno delle forze intellettuali. Più
in generale, personaggi o paesaggi incantati, pietrificati o cristallizzati, sono sempre espressione di
morte, spesso a causa dell’intelletto che ha soverchiato le forze del sentire. Con simili considerazio-
ni non dobbiamo mai dimenticare che nella fiaba non abbiamo mai la descrizione di eventi esterio-
ri. (…) Si tratta di eventi animico-spirituali, di leggi relative all’uomo e all’umanità; di uno svilup-
po spirituale dell’entità umana. Se c’è un ambiente, questo è sempre di natura animica o spirituale,
non un ambiente esteriore.56
Vi sono molte altre rappresentazioni delle forze di raziocinio e, a seconda delle culture fia-
besche cui si fa riferimento, se ne possono trovare sempre di nuove. Fra quelle ricorrenti va certa-
mente ricordata l’immagine della filatrice. Con questa immagine e con tutte quelle inerenti (filatoio,
conocchia, fuso, filo, tessere la paglia in oro, ecc.), le forze del raziocinio non sono viste sotto la lu-
ce negativa di forze che chiudono il rapporto con il mondo spirituale, bensì nella loro qualità di for-
ze il cui sopravvento è necessario nel corso dell’evoluzione umana, per il conseguimento degli alti
traguardi che l’umanità è chiamata a compiere. Il materialismo cui hanno portato le forze intellet-
tuali con il loro sopravvento, è infatti un passaggio necessario perché l’umanità sperimenti un nuo-
vo anelito verso il mondo spirituale e ne riconquisti la dimora con un libero atto di volontà. Sotto
questa luce le forze di raziocinio sono indispensabili per lo sviluppo della libertà umana e, in rela-
zione a quest’ultima, anche per lo sviluppo dell’amore fra gli uomini.
Solo distaccandosi dal mondo spirituale l’uomo può cominciare ad amarlo. Se fosse un
tutt’uno con esso, com’era prima della cacciata dall’Eden, l’uomo non potrebbe sviluppare alcun
amore verso il mondo spirituale e non potrebbe autodeterminarsi liberamente per riconquistarlo.
Sotto questa luce ritroviamo le forze intellettuali, per esempio nella fiaba Rosaspina, della quale si è
già fatto cenno precedentemente. Questa fiaba si conclude infatti con le nozze tra il principe e la
principessa, simbolo dell’amore che unisce l’anima umana all’elemento spirituale. Ed il principe
eredità due regni: quello terrestre e quello celeste, segno della vittoria conseguita.
L’immagine del cavallo appare spesso come forza istintiva del pensiero, forza di cui l’uomo
dispone.57Appare poi in tutte le sue differenziazioni che, a seconda degli avvenimenti narrati, pos-
sono essere interpretate diversamente: cavallo cieco (se come uomo resto bloccato soltanto nella vi-
ta di sentimento, nel sentire, non riesco realmente a pensare, allora non arrivo a conoscere); caval-
lo che zoppica (un pensare volto soltanto ai desideri personali e non verso la verità), etc.

55
Vedere: Rudolf Steiner – La scienza occulta nelle sue linee generali – Ed. Antroposofica – Oppure, dello stesso auto-
re: Evoluzione secondo verità – Ed. Antroposofica
56
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobaleno
57
Gisela Fugger – Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe – Ed. Arcobalno

36
Aquile, vette di montagne, ecc., molti sarebbero gli esempi di raffigurazioni di forze intellet-
tuali, ma qui si vuole dare solo un cenno di come sia possibile leggere fra le righe delle immagini
più tipiche del mondo fiabesco.

Serpente
Serpente = istinti. Le forze di questo secondo polo vivono nell’organismo delle membra al limite
della coscienza. Se emergono, la tendenza è quella di rigettarle nel profondo. In tempi antichi domi-
nava il serpente; l’aquila, sua grande antagonista, ricorrente nelle fiabe russe come simbolo del pen-
siero puro o dell’intelligenza localizzata, non era ancora discesa nell’anima umana. Non dobbiamo
insegnare a reprimere il serpente, ma a conviverci. Se ci diventa amico ci aiuta. Diventa male se
domina su noi stessi. L’immagine archetipica del serpente è però quella di Lucifero, che si insinuò
astutamente nell’anima umana, ingannando Eva e tradendo il volere di Dio; sacrificando in tal mo-
do il successivo corso della propria evoluzione e rimanendo, per questo, indietro.

Drago
A base delle fiabe sta la giustificata credenza che tutto quanto ci circonda sia realtà spiri-
tuale incantata e che l’uomo, per giungere alla realtà, debba rompere l’incantesimo. Dobbiamo
sempre tenere presente che in origine la fiaba è la traduzione di un avvenimento successo
nell’astrale, che è poi stato ripetutamente raccontato, e sappiamo bene come nel raccontare ab-
biamo l’abilità di alterare singoli passaggi. Ogni qual volta si raccolgono le fiabe dalla viva voce
del popolo, si ha un residuo di un’immagine antica, vista astralmente, di cui alcuni tratti possono
esser stati alterati. Allora l’interprete può cader nell’errore di attribuire importanza spirituale pro-
prio ai fatti aggiunti; si dovrà invece cercare e riconoscere la forma originaria che corrisponde
appunto a esperienze astrali.
Così può sorgere la domanda se l’uomo in tempi remoti, quando creò le fiabe movendo dal-
le esperienze soprasensibili dello stato di coscienza intermedio, non avesse la sua figura attuale.
Non l’aveva, ma vi si è sviluppato solo lentamente, attraverso altre forme intermedie. (…) Per alie-
nare la sua violenza di gigante, egli dovette eliminare le sue forme di gigante, superandole, dovette
affinare le sue forze e innalzarle al grado di anima razionale e di anima cosciente. Ma vi sono an-
che entità rimaste allo stato di forze brute; ovunque all’uomo appaia una cosa cattiva che vada su-
perata in quanto si è arrestata al piano astrale, questa appare nella figura del «drago» o in altre
simili: non sono altro se non forme grottesche, trasformate nel mondo spirituale, di quanto l’uomo
dovette trasformare ed espellere da sé.58
Il drago è strisciante ma può volare. Il mondo spirituale unito al mondo terreno sono il “por-
tatore di luce”.
Nell’antichità il drago era visto positivamente, poi, specialmente in era cristiana, ha preso
un’accezione negativa. Questa dualità tra cielo e terra è Lucifero, che ha questa polarità.

Grotta
La grotta, profondamente scavata nella roccia, indica spesso l’interiorità umana. Per questo
la stalla dell’Evento natalizio appare anche sotto forma di grotta. Questa immagine ci ricorda che il
Cristo, incarnandosi nella corporeità di Gesù di Nazaret, cominciò a splendere come un sole
nell’interiorità degli uomini e divenne lo spirito della terra.

Il castigo
Ora dobbiamo dire qualcosa del castigo, che spesso appare alla fine. (…) Si tende a vedere
in questi fatti un elemento truculento. Si fa l’errore di cui abbiamo parlato all’inizio, legando le
immagini a eventi del mondo dei sensi, per esempio le torture medievali o anche moderne. In realtà
non si parla di questo. È molto caratteristico che le figure colpite spesso si diano il castigo da loro

58
Ibidem

37
stesse. Questo significa: le forze cadute preda del male entro l’uomo vogliono a partire da un certo
punto distruggere se stesse, cioè annientarsi. (…)59
Ovunque nelle fiabe si parli di castighi, che possono andare dal taglio della testa, all’essere
rinchiusi in una botte chiodata, piena di serpenti velenosi e gettati giù dal pendio di una montagna
fino a piombar nel mare, bisogna saper interpretare quelle immagini, a seconda di come si presenta-
no, come l’eliminazione di forze ostacolatici dall’interiorità umana. Una certa conoscenza delle leg-
gi del karma secondo la scienza dello spirito può rendere maggiormente intelligibili quelle rappre-
sentazioni. Ma vi sono anche fiabe nelle quali il castigo ha immagini più simboliche, per esempio
nella Signora Holle, dove la ragazza buona e giudiziosa viene ricoperta d’oro, mentre l’altra viene
indelebilmente imbrattata di pece.
Il castigo, in generale, nelle fiabe è spesso una metafora dell’azione delle leggi karmiche, che im-
pongono conseguenze ad azioni compiute sul piano morale, come le leggi fisiche impongono rea-
zioni ad azioni compiute sul piano fisico.

La fiaba e l’archetipo II
Ogni fiaba è una parabola dell’evoluzione umana o di una singola biografia vista nei suoi
tratti archetipici; è la metafora di un processo evolutivo che abbraccia sia la sfera sensibile sia quel-
la spirituale, trovando, nella loro armonizzazione il giusto compimento, la giusta soluzione. Nella
fiaba il mondo viene mostrato nei suoi infiniti intrecci con l’elemento spirituale operante nell’anima
umana. Tutto inizia nell’armonia; poi l’armonia si spezza ed il male s’insinua. Il bene, per non soc-
combere, lotta coraggiosamente e vince; così l’armonia viene ristabilita. Questa è la parabola classi-
ca ed immutabile di ogni vera fiaba e la ritroviamo in ogni biografia umana. Possiamo vedere
l’infanzia come il periodo dell’armonia, il trascorrere della fanciullezza segna lo spezzarsi della
condizione primordiale e l’affacciarsi del confronto con il male, con il drago, con le forze di oppo-
sizione che si insinuano nell’anima umana. Ma la parte spirituale dell’uomo, il principe, il suo io
superiore, ingaggia una coraggiosa lotta e riesce a nobilitare la propria esistenza terrena per forza
propria. Al termine della vita, quando il bene ha vinto sul male, la parte spirituale dell’uomo si ri-
congiunge con lo spirituale che vi è nell’universo e l’armonia si ristabilisce. L’eterna lotta del bene
contro il male ci viene incontro in forma poetica nelle immagini delle fiabe, descritta da infiniti
punti di vista, ed il trionfo del bene è il finale di ogni vera fiaba.
Si potrebbe obiettare che nella vita reale il bene non vinca sempre, ma il bambino ha un pro-
fondo, organico bisogno del lieto fine. Sente inconsciamente che la vita non sarebbe possibile se,
nell’anima dell’uomo, non vi fosse la consapevolezza del fatto che la supremazia del bene può sem-
pre essere ristabilita. Qui non si tratta di buonismo, ma del fatto che per il bambino sia del tutto na-
turale sperimentare la vittoria del bene. Il bambino ha trascorso pochi anni da quando ha lasciato il
mondo spirituale. La vittoria del male risuonerebbe in lui come qualcosa di falso. Per il bambino è
del tutto naturale che vinca il bene e non si tratta di ingenuità fanciullesca, ma di una profonda forza
dell’interiorità umana, sorgente di ogni forza morale. Senza la consapevolezza della vittoria del be-
ne nessun uomo potrebbe sostenere il fardello che porta sulle spalle, né riuscire a superare i duri
colpi del destino dai quali nessuno al mondo è esentato. Il bambino, anche se non ne è cosciente,
sperimenta l’esistenza del male come qualcosa che si sacrifica per edificare il bene. Non ne ha co-
scienza, ma sente che è così: il male esiste per illuminare, per contrasto, l’eterna gloria del bene. Se
non vi fossero le tenebre, non vedremmo la luce.

Bene e male: l’eterno dualismo


Le fiabe parlano del bene e del male con parole fatte a misura dello stato di coscienza del
bambino. A differenza di noi, i personaggi delle fiabe non sono mai ambivalenti: o sono buoni o
cattivi, o brutti o belli, non vi sono ambiguità o polarità personificate. Il bambino di sette anni non è
ancora in grado di scegliere ciò che è giusto e ciò che non lo è; le ambiguità devono attendere fino a

59
Ibidem

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quando una solida individualità potrà sostenere la scelta fra bene e male, fra bello e brutto ed il
bambino non è ancora in questa condizione, non ha ancora una capacità di giudizio autonoma. Nella
fiaba il bene ed il male sono ben distinti, non si confondono mai, per questo le fiabe sono educative,
perché consentono al bambino di crearsi una bilancia interiore.
Con l’arrivo del nono anno il bambino cessa di assorbire incondizionatamente tutto ciò che
gli dice il mondo, ha creato la sua barriera personale, comincia a distinguere fra sé ed il mondo. Può
quindi cominciare anche a distinguere, in modo elementare, le grandi dualità dell’esistenza. Ma solo
quando il bambino, ormai ragazzo, sarà in grado di scegliere che uomo vuole essere, se buono o cat-
tivo, solo allora potrà pesare bene, giudicare le ambivalenze e le polarità presenti nell’uomo. Le fia-
be, così prive di ambiguità, educano e promuovono lo sviluppo di questa capacità di giudizio.

Il bene trionfa sempre: sull’immedesimazione


Il bianco deve essere bianco ed il nero deve essere nero: nelle fiabe non vale il principio del-
lo Yin e Yang, valido invece nella vita quotidiana. Ma non per questo bisognerebbe credere che le
fiabe siano meno vere della vita reale; solo perché mostrano un mondo nel quale il principe è un
uomo privo di ogni malignità o cattiveria. Non bisognerebbe nemmeno ritenere che sarebbe meglio
offrire al bambino immagini di uomini che manifestino le ambiguità proprie di ogni uomo comune;
che compie il bene, ma anche il male; che sa essere talvolta giusto e tal’altra ingiusto. Non bisogne-
rebbe ritenere che ciò sia corretto al fine di dare al bambino un’immagine più aderente alla realtà.
Se pensiamo in questo modo ci inganniamo.
In verità, quando un bambino ascolta una fiaba, si immedesima in ogni personaggio. Nella
fiaba l’entità di un uomo viene rappresentata richiamando diverse figure, ma il bambino le speri-
menta in modo unitario, poiché ognuna di esse vive in lui. Quindi non si identifica soltanto nei per-
sonaggi positivi, come il principe; ma anche in quelli negativi, come il drago, la strega o il mago
malvagio. L’esperienza di questi dualismi fa sorgere nel bambino la prorompente esigenza di schie-
rarsi da una parte e, se vive in una condizione di salute, sceglie sempre di schierarsi con il bene. Si
può fare l’esperienza che solo bambini in qualche modo turbati esclamino, quasi con una velata sof-
ferenza nello sguardo: “Io sono il mago cattivo!”.
Ogni bambino sperimenta inconsciamente in se stesso l’agire di tutti i personaggi: sia del principe,
sia del drago; sia del bambino sperduto nel bosco, sia del lupo feroce, perché tutto ciò è presente
nella sua interiorità. Alcuni dicono: “Il lupo, il bambino lo ha in sé e lo riconosce”. Ma altri rispon-
dono: “Ma perché? Noi il lupo lo facciamo diventare buono, così il bambino non si spaventa!”. E
con questo ritengono di fare un bene al bambino. In realtà così si mente! Il bambino la vive come
una bugia. Gli si impedisce di guardare in se stesso, di fare i conti con la sua ferocia da lupo, con la
sua furbizia da volpe, con la sua malizia. Se il bambino invece fa la conoscenza di ciò che è in lui,
in tal modo cresce; avviene in lui una metamorfosi interiore; un giorno saprà governare se stesso.
Nella vittoria del principe sul drago, il bambino sperimenta la vittoria del bene sul male; spe-
rimenta la battaglia che lui stesso affronterà, come ogni uomo, quando avrà a che fare con certi lati
oscuri e pericolosi della vita, o con i bassi istinti che fanno parte della natura inferiore dell’uomo.
Non possiamo cancellare il male dal mondo vivendo nell’illusione che in tal modo il male non ri-
guarderà mai la vita di nostro figlio.
Al termine della fiaba il bambino esulta: “Io sono il principe!” Egli si identifica con il bene e
pone il germe di quelle forze che gli illumineranno il cammino se nella vita si perderà in qualche
selva oscura. Nelle fiabe il bene trionfa sempre sul male; perché? Perché nel primo settennio il
mondo è buono! In certo qual modo il bambino è obbligato a parteggiare per il bene. Fra i sette ed i
nove anni vive ancora nel buono che vi è nel mondo. Egli si affida ai grandi in modo incondizionato
e del tutto smaliziato. A partire dal nono anno (più precisamente tra i nove ed i dodici anni), il bam-
bino comincia ad avere una certa sensibilità per il bello; dai dodici inizia ad averla per il vero; ma
fino agli otto/nove anni vive immerso nel sentimento che il mondo sia buono.
Fino ai nove anni, non ha la coscienza sufficientemente desta per cominciare a far luce nella
propria interiorità. Ciò non di meno, nel profondo del suo essere, come in ogni uomo, ci sono in po-

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tenza tutti i beni e tutti i mali. Ma egli non saprebbe proprio dove collocare nel proprio cuore
l’immagine di un lupo cattivo che diventa buono, o di un principe buono che, per qualche condizio-
namento, compie atti malvagi. Il bene ed il male, che pure esistono in nuce anche nella sua stessa
interiorità, gli devono essere presentati ben distinti, in modo che lui possa scegliere il bene, speri-
mentandolo in tutta la sua luminosa forza. Il principe delle fiabe è per sua stessa natura
l’incarnazione del bene che vi è in ogni uomo ed il bambino, quando gli vengono presentate le sue
vicende, nel coraggio che dimostra, nella forza che gli consente di sconfiggere il male, sente una
profonda coerenza, una profonda verità. Se gli si presentasse l’uomo per quello che è alla luce della
coscienza di un adulto: bene macchiato dal male, oppure male redento dal bene, egli non potrebbe
comprenderlo, si sentirebbe confuso, non potrebbe immedesimarsi; sentirebbe in quelle immagini
qualcosa di ambiguo, di falso e forse di terribile.
A partire dagli otto/nove anni, quando la sua coscienza comincerà gradualmente a destarsi,
allora potrà iniziare a sperimentare nella sua interiorità l’insorgere del dualismo: dell’eterna lotta
del bene e del male che si scontrano nell’essere umano. Allora potrà cominciare a comprenderla
perché la sperimenterà in se stesso. Bisogna sempre tenere conto che a quel punto si tratterà soltanto
dell’inizio di un processo che avrà luogo per tutta la vita, ma potrà iniziare a sentire in se stesso la
convivenza del male e del bene. Proprio allora si cominceranno a vedere i frutti delle volte in cui,
con le immagini delle fiabe, aveva fatto l’esperienza della vittoria del bene; del bene che trionfa
sempre.
Il finale gioioso è quindi un tratto caratteristico delle fiabe. Il bambino ha bisogno di un
equilibrio armonico nella tensione, una soluzione che si presenta anche nei ritmi della vita. (…) In
certo qual modo si ha sentore in queste formulazioni finali, della meta divino-umana raggiungibile
in un lontanissimo futuro nel senso della più alta umanità, della decima gerarchia. Ogni processo
evolutivo ha questo ideale nello sfondo.

Causa ed effetto nel mondo fiabesco


Causa ed effetto, nel mondo delle fiabe, non stanno tra loro negli stessi rapporti in cui si tro-
vano nel mondo fisico fenomenico. Se, nella composizione di una fiaba, tentassimo di intrecciare
gli eventi sulla base di rapporti di causa ed effetto paragonabili a quelli del mondo fisico, possiamo
star certi che ne uscirebbe una pessima fiaba; forse un buon racconto, ma non una fiaba.
Il senso del vero deve guidare la nostra fantasia come un faro nel buio, ma senza sottostare
alle leggi del mondo materiale. Componendo una fiaba dovrebbe sempre vigere la regola del tutto è
possibile; ma queste infinite possibilità devono essere sperimentate, nella fase creativa, come sim-
boli di intime e reali esperienze dell’anima, altrimenti vanno scartate. Poiché tali esperienze esisto-
no e si rivestono per loro stessa natura di immagini simboliche (basti pensare all’inconscio o alla vi-
ta di sogno), non è cosa impossibile porsi la regola di dire il vero, pur liberandosi delle relazioni tra
causa ed effetto valide per la vita ordinaria. La sola premessa è credere con tutto il cuore che il
mondo fisico non sia il solo esistente e che, nel mondo spirituale, non valgano le stesse leggi che
valgono nel mondo fisico. Nelle fiabe il mondo spirituale si riveste di immagini tratte dal mondo fi-
sico, ma le fa agire in modo che queste non debbano più seguire le leggi del mondo fisico, bensì
quelle del mondo spirituale. Se si leggono le fiabe con questa chiave di lettura, interi orizzonti ci si
schiudono davanti agli occhi dell’anima con forza sorprendente. Le immagini si rivelano pregne di
significato e in quel momento comprendiamo quale sia in realtà il loro valore educativo. Noi fac-
ciamo tanta fatica a comprenderle perché il nostro intelletto ci oscura l’immaginazione, ma i bam-
bini, le cui forze intellettuali sono ancora in germe, comprendono il linguaggio delle fiabe in modo
naturale. Grazie a questa scoperta si può arrivare a sostenere che la creazione di fiabe, se ci si sforza
di esprimere in immagini realtà dell’anima, sia una vera e propria pratica meditativa.

Distinguere l’essenziale dall’inessenziale


In una fiaba niente deve essere superfluo; solo l’essenziale deve farne parte. Non devono es-
serci fronzoli, né descrizioni troppo particolareggiate. Il motto, citando Goethe, deve essere: azione,

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azione, azione! Anche se, in relazione ad alcuni temperamenti, quanto detto non va preso in senso
assoluto, normalmente nelle fiabe non sono presenti nemmeno molti aggettivi. Una certa descrittivi-
tà assume importanza solo quando il bambino si avvicina ai nove anni di età. Prima di quel momen-
to, sulla base delle caratteristiche dei personaggi scelti, si determineranno, prima di ogni altra cosa,
le loro azioni.

Sulle “fiabe mirate”


Le fiabe possono aiutare i bambini che attraversano momenti difficili. Essi possono ascolta-
re con beneficio e giovamento delle fiabe che rappresentino le loro difficoltà, le loro disarmonie in-
teriori o certi aspetti negativi del loro temperamento. Le immagini agiscono sulla volontà dei bam-
bini molto più intensamente di quanto lo facciano prediche o ramanzine, che lasciano sempre il
tempo che trovano. Le immagini delle favole invece afferrano il bambino nel sentire, ma questo è il
punto di partenza: in realtà il sentire è un tramite per giungere al volere.
A seconda delle unilateralità caratteriali che si vogliono moderare o correggere, l’educatore
può inventare fiabe mirate o ricercarle nella bibliografia esistente. Per esempio, nel caso in cui si
voglia agire in aiuto di bambini insoddisfatti e viziati, si può raccontare la fiaba del pesciolino
d’oro, o del pescatore e sua moglie, nelle quali vengono descritte chiaramente le conseguenze nefa-
ste di certi atteggiamenti. Il bambino si riconosce nei difetti caratteriali, nei lati negativi dei perso-
naggi; vi si immedesima e, non sentendosi giudicato, si trova nella condizione di poterli giudicare
lui stesso in modo oggettivo ed impersonale.
Si può fare l’esperienza di aver composto una fiaba appositamente per un bambino. Magari
si tratta di un maschio, collerico, moro e con gli occhi scuri, che negli ultimi tempi ha picchiato di-
verse volte i suoi compagni senza riuscire a frenare certi brutti impulsi legati al suo temperamento.
L’esperienza particolare consiste nell’aver scelto come protagonista una bambina bionda e con gli
occhi azzurri, proprio in modo che il diretto interessato non si sentisse preso di mira. Eppure si è vi-
sto con chiarezza quanto fosse colpito dalla prepotenza di quella bambina, in che modo si indignas-
se ascoltando di come prendesse a calci e pugni i suoi compagni di giochi. Alla fine del racconto
accade poi che il bambino cui la fiaba era indirizzata, del quale magari volutamente non si era mai
incrociato lo sguardo durante il racconto, manifesti a gran voce la sua disapprovazione per il brutto
comportamento della protagonista.
Queste fiabe, naturalmente, devono avere un lieto fine. Dopo la tensione devono far speri-
mentare al bambino che esiste una via d’uscita, che tutto si sistemerà.
Il bambino, non sentendosi giudicato, come invece si sarebbe sentito nel caso in cui ci si
fosse limitati a fargli una “bella ramanzina”, ha potuto sperimentare in profondità la bruttezza del
suo comportamento e la sua indignazione potrà agire, senza creare sensi di colpa (che non conduco-
no a nulla di buono), nella direzione di stimolare in lui lo sviluppo delle forze necessarie per reagire
e cambiare atteggiamento.
Vige in generale la regola d’oro per cui l’educatore non debba mai giudicare il bambino, ma solo il
brutto gesto da lui compiuto; la cattiva azione deve essere giudicata in modo impersonale, senza che
il bambino possa immedesimarsi con il male che lui stesso è in grado di compiere. Se non si osserva
questo principio basilare, alla lunga può persino accadere che il bambino, non sentendosi in grado
di sorvegliarsi e di cambiare, si identifichi con il peggio di se stesso. Giudicando soltanto l’azione,
in modo generalizzato ed oggettivo, otteniamo invece l’effetto contrario: il bambino è in grado di
fare appello alle sue migliori qualità e può liberamente identificarsi con il meglio di sé. Egli non è
ancora in grado di formarsi un ideale di se stesso e certi cambiamenti cui vogliamo indurlo non de-
vono essergli trasmessi attraverso la sua immatura capacità di giudizio, ma devono bensì passare dai
sostrati più profondi del suo essere, raggiungibili solo attraverso l’esempio concreto del nostro
comportamento di adulti ed attraverso fiabe mirate. Le fiabe, in generale, sono una miniera dalla
quale il bambino può trarre il materiale di imitazione e di comportamento.
Nelle fiabe non vi sono prediche morali né pedanterie; in esse agisce solo il racconto ed è
questo che incide. Nella vita si sa che spesso deploriamo negli altri proprio ciò che (magari incon-

41
sciamente), deploriamo prima di tutto in noi stessi. Non sempre è facile, ma possiamo renderci con-
to del fatto che, quando una persona ci sta antipatica a pelle, ciò che realmente ci disturba in essa è
qualcosa che ci disturba prima di tutto in noi stessi. Questa realtà un po' misteriosa dell’anima uma-
na può essere sfruttata a scopi educativi.

Fiabe e racconti con finalità didattiche


Uno dei principi base della pedagogia steineriana è che ogni insegnamento, specialmente
nelle prime classi, debba essere trasmesso attraverso immagini. Nella prima classe le lettere
dell’alfabeto, le cifre arabe e romane, i simboli delle quattro operazioni ed ogni altra nozione che
viene trasmessa ai bambini, viene espressa dall’insegnante in forma di immagini.
Nella composizione di fiabe e racconti con finalità didattiche è importantissimo trovare im-
magini che incarnino in modo chiaro e coerente le qualità dell’argomento che si vuole introdurre.
Per esempio, se si insegna in una seconda classe e si vuole scrivere un racconto per il passaggio dal-
lo stampatello maiuscolo al minuscolo, o dallo stampatello minuscolo al corsivo, si sceglieranno
immagini che incarnino le qualità intrinseche delle diverse forme di scrittura. Si avrà quindi un ap-
proccio immaginativo, ma anche analitico.
La qualità primaria del corsivo, a differenza dello stampatello maiuscolo e minuscolo, nei
quali ogni lettera è slegata dalle altre, è di essere legato, come un filo continuo che scorre dall’inizio
alla fine di ogni parola. Queste, nella loro semplicità ed evidenza, sono qualità che caratterizzano
questi diversi tipi di scrittura. Pertanto possono servirci per trovare delle immagini adatte allo scopo
di presentarle. Questo tipo di riflessioni aderenti alla realtà possono offrire ottimi spunti dai quali,
magicamente sorgeranno ispirazioni artistiche soddisfacenti.
Basta osservare una lettera qualsiasi dello stampatello maiuscolo per vedere ch’essa si regge
da sola, mentre le lettere in corsivo, prese singolarmente, sembrano instabili e ne richiamano subito
delle altre. Il nome stesso dello stampatello minuscolo ci suggerisce inoltre ch’esso sia più piccolo
del maiuscolo. Si tratta di cose scontate ma, nella ricerca di immagini appropriate, non c’è nulla di
meglio delle cose più semplici.
Per il passaggio dallo stampatello minuscolo al corsivo, l’immagine del filo può anche esse-
re considerata, senza troppe forzature, come un simbolo del pensare che poco a poco va sviluppan-
dosi nel bambino. Un’immagine fisica per l’elemento spirituale del pensare. Oltre all’esistenza di
molti classici della fiaba nei quali il filo, la filatrice, il telaio e la conocchia sono presi a simbolo del
pensare, si pensi al mito di Teseo che fugge dal labirinto grazie al filo di Arianna. Il labirinto, con
le sue circonvoluzioni, richiama il cervello ed il filo, percorrendolo, ci consente di trovare la solu-
zione, di sciogliere l’enigma. Nel linguaggio parlato ci sono anche diversi modi di dire come: ho
perso il filo del discorso. Quando il filo si spezza il pensiero si interrompe e noi ci sentiamo smarri-
ti, come in un labirinto.
È importante sforzarsi di trovare delle immagini che abbiano delle intime corrispondenze
con quanto si deve insegnare. A questo scopo la letteratura classica è una sorgente meravigliosa dal-
la quale attingere. Spesso, trovate le immagini giuste, è sufficiente lasciarle agire come se fossero
indipendenti, come se avessero una vita propria. Non bisognerebbe mai limitarsi ad inventare delle
storie lasciando la fantasia a briglie sciolte. La fantasia va incanalata, arginata in un sentiero di re-
gole che possiamo porci da soli. Se le immagini scelte saranno appropriate e veritiere, allora sarà
sufficiente farle agire in modo fedele alla loro natura.
Bisognerebbe quindi trovare prima di tutto delle immagini che incarnino simbolicamente al-
cune caratteristiche, alcune qualità archetipiche che possono guidarci, a mo’ di leggi,
nell’invenzione fantastica. Se voglio parlare forze della natura, sceglierò il gigante; se voglio parla-
re dell’anima umana, sceglierò la principessa o la fanciulla pura di cuore; se voglio parlare
dell’azione dell’io, sceglierò il principe; se voglio parlare di Dio, questo sarà il Re del regno. Questi
sono naturalmente esempi classici, ma la loro forza può servirci da guida per trovare altre immagini
altrettanto giuste, anche riguardo ad argomenti minori, come le questioni didattiche.

42
Se le immagini sono sufficientemente forti, sono le immagini stesse a consigliarci la trama
delle storie. Ponendole le une accanto alle altre, si scopre come possono agire reciprocamente; si-
milmente a due colori che, mischiati, danno vita ad un terzo colore. L’importante è che ogni imma-
gine agisca fedelmente, come se avesse un’identità propria. In tal modo si può scrivere, per così di-
re, sotto dettatura: sono le immagini stesse a narrare la storia.
Un gigante leggiadro come una farfalla può far ridere, ma il bambino, nel profondo
dell’anima, lo sperimenta come una goffaggine, una falsità. Le immagini diventano potenti quando
agiscono secondo verità e i fatti della vita offrono mille spunti e mille fonti di ispirazione.
Il fatto di rabbrividire di fronte all’idea di porre delle regole alla propria fantasia, sarebbe come, per
un musicista, voler comporre una musica senza servirsi del suo strumento; o per un pittore di voler
dipingere tele ardite senza aver prima fatto pratica con la tavolozza. Ogni processo artistico ha in
realtà le sue regole e solo attraverso l’affinamento delle regole si possono ottenere i migliori risulta-
ti. Buona regola per cominciare ad inventare fiabe è meditare sulle immagini che si vogliono impie-
gare.

C’era una volta e forse c’è ancora


Se l’uomo vuole raccontare le sue esperienze nel mondo spirituale, deve dire: quel che ho
visto e ora narro, un tempo è proprio avvenuto, ma continua ancora ad accadere dietro al mondo
sensibile, ossia nel mondo spirituale, ove vigono altre condizioni di vita. Può darsi che ogni volta
che qualcuno sia riuscito a vedere un dato avvenimento in quello stato di coscienza,
quell’avvenimento sia già estinto, e le condizioni inerenti al fatto siano ormai passate. Ma può an-
che essere presente: tutto dipende dal fatto se vi sia qualcuno che lo osserva in uno stato di co-
scienza intermedio. Non è in un luogo o in un altro, ma ovunque qualcuno lo possa osservare. Per-
ciò ogni fiaba dovrebbe stilisticamente avere inizio così: «C’era una volta… ma dove? Non forse
dappertutto?»
Questo è l’inizio corretto di una fiaba, e ogni fiaba dovrebbe finire con la chiusura: «Io l’ho
visto una volta, e se quanto si è svolto nel mondo spirituale non è morto, è vivo ancora.»60

Favole e fiabe
Abbiamo precedentemente tentato di indicare le corrispondenze esistenti tra il linguaggio
fiabesco e lo stato di coscienza immaginativo caratteristico dei bambini del primo settennio. Come
educatori, nella scelta del materiale narrativo, dovremmo seguire un programma che, nel corso del
suo sviluppo, tenga sempre conto di questa corrispondenza. Bisognerebbe quindi scegliere dei rac-
conti che accompagnino i bambini, di pari passo allo sviluppo della loro coscienza.
L’essere umano si trova posto per tutta la vita di fronte ai grandi enigmi dell’esistenza, ma
ad ogni fase del suo sviluppo interiore corrisponde un diverso punto di vista, un diverso modo di
rapportarsi ad essi. Domande su questioni esistenziali come la vita e la morte, il bene ed il male,
l’origine dell’uomo e del mondo, sono presenti nell’anima infantile come nell’anima dell’adulto, ma
nel bambino non emergono alla luce della coscienza e vivono in profondità dell’anima remote e ir-
raggiungibili. Il bambino non è in grado di esprimere in parole le sue esperienze interiori, ma la sua
anima è ricolma di domande inespresse, che si manifestano nei suoi stati d’animo. Egli ha bisogno
di risposte, ma non può formulare domande, ed è compito degli educatori saper riconoscere quelle
domande per dare al bambino le risposte di cui ha bisogno, anche attraverso la scelta di un materiale
narrativo adeguato. Col passare del tempo cambieranno quindi il tipo di linguaggio e le forme di
pensiero che proporremo, ma i temi affrontati nello sviluppo dalla fiaba alla vera e propria storia,
tratteranno sempre lo stesso inesauribile argomento: l’uomo.
Il racconto delle fiabe in prima è la storia della discesa del bambino sul piano terrestre.
Mondo spirituale e mondo fisico, nelle fiabe, non si sono ancora separati. Nel piano di studi steine-
riano per la seconda classe possiamo leggere: Nella scelta dei testi si passa dalla fiaba alla favola e

60
Ibidem

43
ai racconti di animali. Il bambino di questa età è ancora così legato al suo ambiente che acquisisce
meglio la conoscenza degli animali se essi si comportano come esseri umani, come appunto avviene
nelle favole.
Nella leggenda si cerca di armonizzare quanto il bambino ha vissuto nella sua conoscenza
degli animali descrivendo le imprese di uomini alla ricerca della perfezione. La leggenda (e le sto-
rie di santi) sono perciò il necessario complemento della favola e del racconto di animali61.
Nelle fiabe abbiamo immagini incantate dell’interiorità umana; nelle favole si vive più nell’uomo
naturale, nelle sue unilateralità caratteriali e nei suoi istinti. Ciò si può sintetizzare dicendo che nelle
prime si hanno delle esperienze interiori, mentre nelle favole si hanno delle esperienze maggior-
mente legate alla natura umana e ai suoi legami con il mondo esterno. Certo, il linguaggio della fa-
vola è ancora permeato di antropomorfismi (il sasso, la pianta e l’animale si esprimono con il lin-
guaggio umano), ma mai e poi mai dovremmo umanizzare gli animali. Parlano come uomini, ma
devono essere animali nella loro realtà. Il topo deve essere un topo reale, non topolino con i suoi
pantaloncini e la macchinina. Nelle vere favole troviamo animali parlanti che mantengono tutta la
loro dignità.
Ma l’esperienza che portano si differenzia molto da quella fiabesca. Fiabe e favole ci parla-
no entrambe dell’uomo, ma lo stato di coscienza cui si rivolgono per essere comprese si trova su
piani diversi.
Si potrebbe fare l’esperienza di mettere a confronto fiabe e favole che affrontino lo stesso
argomento (per esempio Il pescatore e sua moglie dei Grimm e La cagna e il pezzo di carne di Eso-
po), e subito ci si accorgerebbe che, nonostante il tema di fondo sia in entrambe l’insaziabilità,
l’insoddisfazione dell’anima che vuole sempre più di quello che ha, esse ci parlano con un linguag-
gio assai diverso. Le immagini delle fiabe si tuffano nell’interiorità del bambino e lo appagano co-
me un nettare nutriente, mentre le favole cominciano a fare maggiore appello alle forze di giudizio.
Questa è la ragione per cui spesso, al termine delle favole, troviamo espressa una morale che rias-
sume in termini astratti il loro significato. Questa distinzione ci appare anche da un esame storico.
Molte delle fiabe trascritte dai Grimm, come si è detto, provengono da un remoto passato nel quale
l’umanità non poteva servirsi delle forze intellettuali al pari dell’uomo odierno, mentre le favole di
Esopo sono figlie della romanità, ovvero di un’umanità che iniziava ad irretire il mondo con le forze
del pensiero. Certo, dopo aver raccontato una favola ad un bambino, dobbiamo evitare nel modo più
assoluto di spiegargli la morale in modo astratto, eppure possiamo sentire che le immagini della fa-
vola cominciano ad essere comprensibili dal bambino su un piano diverso, in certo modo più desto
rispetto a quelle della fiaba.
Questo è un esempio di come si possano offrire risposte al bambino in modo diverso a se-
conda delle forze cui egli può fare appello.
Nella favola le unilateralità e le disarmonie dell’uomo ci vengono descritte in modo diretto,
chiaro, quasi bruciante. Ne risulta che le immagini delle favole siano così asciutte ed univoche da
stimolare per forza propria lo sviluppo di un pensiero più cosciente. Ciò nonostante lo fanno in mo-
do delicato, senza fare violenza sul mondo di pensiero del bambino, che si sta gradualmente risve-
gliando da una condizione di sonno. La favola è ancora permeata di immagini, ma queste hanno
contorni talmente nitidi che non è possibile trovarvi altri significati, diversi da quello che incarnano.
Si può dire che siano giudizi morali espressi in modo artistico, senza pedanterie o astrazioni e, rac-
contandole a bambini di otto anni, riconosciamo con religioso rispetto ch’esse stimolino un risve-
glio della coscienza. Ma non lo fanno in modo invasivo; il bambino che ascolta una favola speri-
menta le sue forze di giudizio che spingono per emergere dal profondo, ma le favole sono fatte di
immagini, quindi il bambino può vivere questa esperienza serenamente, continuando a sognare.
Una morale espressa in modo astratto si rivolge direttamente alle forze di giudizio, ma que-
ste nel bambino sono ancora immature. Se ci rivolgiamo direttamente alla testa del bambino, non
teniamo conto della sua natura e gli facciamo violenza. Un paragone del tutto adeguato è quello con

61
Caroline von Heydebrand – Il piano di studi della libera scuola Waldorf – Filadelfia Ed.

44
un albero da frutto: quando i frutti sono immaturi, il ramo li tiene ben attaccati a sé, mentre quando
sono maturi, pian piano, li lascia andare. Se tentiamo di cogliere un frutto acerbo dobbiamo fare
violenza all’albero, glielo dobbiamo strappare. E lo stesso vale per le forze di giudizio del bambino:
se facciamo appello alla sua facoltà pensante senza tener conto che il suo mondo di pensiero vive
ancora in una dimensione di sogno, è come se gli strappassimo violentemente i pensieri prima che
questi siano maturi. Una volta maturati, i pensieri del bambino saranno liberati, e solo a quel punto
li potremo cogliere per fare appello direttamente ad essi.
***
L’esperienza delle unilateralità delle favole viene compensata dal racconto della vita di uomini evo-
luti, uomini che hanno saputo dominare la loro vita istintuale e che quindi, nel senso indicato da
Steiner, siano delle sintesi armoniche62. Le biografie di Santi sono quindi un’ottima compensazione.
I punti neri dell’anima vengono trasformati in qualcos’altro; qui le forze dell’anima vengono speri-
mentate nella ricerca della perfezione.

Se i bambini vivono solo nelle unilateralità (per una classe di maneschi il leone, il lupo che
sbrana, etc.), può crearsi un certo pessimismo e un generale abbandono ai propri istinti. S. France-
sco che ammansisce il lupo, come rappresentazione dell’uomo che governa i suoi istinti, è
l’immagine perfetta per bilanciare questo squilibrio.
***
Non è un compito facile, soprattutto per un insegnante al primo ciclo, uscire dall’atmosfera
fiabesca per immergersi con prontezza nell’atmosfera delle favole. Anche per quanto riguarda la
composizione, è molto utile aver ben chiare alcune distinzioni che possono offrire le premesse per
trovare le giuste fonti di ispirazione.
Da un punto di vista letterario, ciò che nella fiaba è azione, nella favola comincia ad essere
descrizione. La favola può anche non avere una vera e propria trama, in quanto questa può essere
sostituita da una raffigurazione, veritiera e piena di sentimento, di uno spaccato di vita di uno o più
animali. C’è un cerbiatto nel bosco, arriva la volpe ed il cerbiatto scappa: questa può essere la trama
di una favola; il tutto sta nella descrizione che riusciremo a fare di questi pochi attimi, pregnanti di
significato, di sentimenti e di verità.
La trama, la tensione e la distensione dei sentimenti, sono date dalla descrizione
dell’ambiente, del cerbiatto che ascolta ogni rumore, ogni fruscio; del suo sguardo buono e attento e
del suo cuore timoroso. Il cerbiatto bruca l’erbetta e, di tanto in tanto, solleva improvvisamente la
testa, rizza le orecchie ed ascolta: gli è parso di sentire un rumore! E se fosse la volpe? E se fosse il
cacciatore? Questa descrizione procede di pari passo con l’avvicinarsi guardingo della volpe ed il
culmine dell’azione si ottiene nell’incontro. La volpe spezza un rametto ed il rumore fa fuggire il
cerbiatto. Si caratterizzano così due animali e poi li si fanno incontrare. Jacob Streit, nel suo libro I
segreti della noce, offre magnifici esempi di questo tipo di favole.
Può essere un’esperienza molto bella il cercare figure animali che rispecchino temperamenti
opposti, magari simili ai temperamenti di due bimbi che abbiamo in classe. Anche qui deve guidarci
il senso del vero. Per fare un paragone i due animali, incontrandosi, devono comportarsi come due
sostanze chimiche; devono avere reazioni del tutto coerenti con la loro natura. Ogni animale è in
certo senso l’incarnazione di un’unilateralità dell’anima: la volpe furba, il lupo feroce, l’agnello in-
nocente, la lepre timorosa; poiché l’uomo ha in sé tutta la gamma dei sentimenti umani, il bambino
sperimenta se stesso in ognuno di questi caratteri. Per questo è così importante compensare questi
racconti con altri, nei quali si mostri che l’uomo è in grado di mitigare le proprie unilateralità, di su-
blimare la propria natura animale, si mostra ai bambini che una sintesi della natura vive nell’uomo,
ma che nell’uomo può essere armonizzata.
Attraverso un processo di immedesimazione il bambino impara a conoscersi e a scoprire di
avere egli stesso delle unilateralità. Anche le favole, come le fiabe, ci offrono quindi meravigliosi

62
Vedere: Rudolf Steiner – Uomo sintesi armonica – Ed. Antroposofica

45
spunti per la composizione di racconti mirati; volti ad aiutare singoli bambini in difficoltà. In se-
conda il bambino smette gradualmente di vivere tutt’uno con il mondo; gli animali diventano per lui
immagini di qualità animiche e nasce una crescente consapevolezza di ciò che è cattivo, di ciò che è
molesto. Il racconto deve suscitare emozioni, queste giungono in profondità perché sono vive: sde-
gno, ripugnanza, umorismo, etc., il bambino capisce da sé che l’animale vive in lui e trova in se
stesso le forze per umanizzarlo col superamento delle unilateralità.

Fiabe e Storia
Attraverso la fiaba ed il racconto, oltre all’educazione all’ascolto, si crea un rapporto di sim-
patia con la storia. La storia è fatta di uomini che agiscono, e la fiaba (ogni vera fiaba), come si è
tentato di mostrare, è un unico grande uomo, un archetipo dell’umanità in generale. Le fiabe sono
quindi la premessa per la futura comprensione storica.
In sintesi la storia è la materia che parla dell’uomo. Ed anche la fiaba parla all’uomo
dell’uomo. La prima ci narra gli eventi esteriori, la seconda pone le basi per una comprensione dei
nessi spirituali alla base di essi.
Perché si insegna la storia?
Scompaiono gli uomini, scompaiono le opinioni, ma la storia rimane. Il mondo morale ed il
mondo culturale, tutto appartiene alla storia e la si insegna perché essa, in ultima analisi, ci parla
dello sviluppo della libertà umana. Non si intende la storia delle conquiste o la storia economica,
queste sono piccole parti della storia. La storia è intessuta di tutti i destini umani e come insegnanti,
ma anche semplicemente come adulti, abbiamo il compito di portare i bambini ad essere adulti a lo-
ro volta, ad essere uomini. E la storia ci parla dell’uomo. Ma la storia ci insegna anche, come inse-
gnanti, a leggere non solo in un libro scritto, ma direttamente nella vita. Questi sono i motivi per cui
si insegna la storia. Un bambino educato fin da piccolo all’ascolto di fiabe difficilmente odierà la
storia. Attraverso la fiaba ed il racconto si crea un rapporto di simpatia con essa.

Il bambino vive dentro la coscienza (i contenuti di coscienza), dell’antica umanità. In modo interio-
re e non esteriore, lascolto di fiabe può essere considerato l’inizio dell’apprendimento della storia,
ma si può fare anche un’altra considerazione. Nella fiaba i bambini sono fuori dal tempo e dello
spazio. Più il bambino è piccolo più, quando per esempio vede la nonna che non vedeva da un anno,
la saluta come se non la vedesse da un giorno. Come si è detto troviamo in questo un’eco dello stato
di coscienza dell’uomo paleoindiano, che era fuori dal tempo e dallo spazio, del tutto assorbito
nell’elemento spirituale. Certo i bambini ricordano cosa hanno fatto ieri, questo è normale, ma non
hanno una chiara coscienza del tempo. Nella fiaba siamo ancora fuori dal tempo. Ma vi troviamo un
lento e progressivo incarnarsi della coscienza. Il vero insegnamento della storia, nel quale sarà ri-
chiesta una coscienza del tempo, avverrà a partire dalla V elementare, quando i bambini avranno 12
anni.

Conclusione
Al termine della sua conferenza, qui largamente citata, sulla poesia delle fiabe, Rudolf Stei-
ner pronunciò le parole di un conferenziere che lui stesso aveva avuto modo di ascoltare. Non rivelò
in quell’occasione il suo nome, ma ne parlò come di un profondo amico della narrazione di fiabe,
di un uomo che le sapeva amare, che sapeva come raccoglierle, che le sapeva apprezzare e perciò
si riallacciava sempre al detto: «Fiabe e leggende sono come un Angelo buono, dato all’uomo alla
nascita, conforme alla sua patria, per il suo pellegrinaggio terreno; perché gli sia fedele compagno
per tutta la vita e, appunto perché gli si offre come compagno, renda la sua vita una vera fiaba in-
teriormente animata».

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