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L’infinito
Questo idillio nasce dalla vista di una siepe che non consente al poeta di vedere cosa
c’è oltre e, metaforicamente, a schiudere il senso ulteriore dell’esistenza.
Ciò spinge Leopardi a immaginare un mondo lontano, infinito, e gli eventi atmosferici
che si susseguono non sono altro che degli spunti che gli servono a riflettere sul
passato e sul tempo.
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,”: il “colle” si caratterizza fin da subito come
“ermo”, solitario, e così il poeta instaura fin da subito un rapporto affettivo con un
luogo che come lui è solitario, e allo stesso tempo mette a nudo il suo dolore
esistenziale dovuto alla solitudine,
“E questa siepe”: la “siepe” è la vita stessa intesa come ostacolo, limite, disagio.
“che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”: gli ostacoli stessi
producono stimoli per l’anima, mettono in moto le ali dell’essere.
“Ma sedendo e mirando”: è proprio la pratica della meditazione, nel buddhismo per
mantenere pensieri positivi bisogna praticare la meditazione, cioè sedersi e
acquietare la mente. Nel buddhismo inoltre viene posta in risalto la trasformazione
della mente, e tale trasformazione dipende dall’intensità della meditazione, ciò
avviene esattamente in Leopardi.
“interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete”: il
poeta descrive un’esperienza sovrumana ove il silenzio e la quiete sono sentori di
quel nulla che è l’infinito stesso, inaccessibile all’apparenza ma raggiungibile tramite
l’essere; l’individuo ormai non è più un semplice individuo, ma costituisce di suo un
processo creatore.
“Io nel pensier mi fingo”: “fingere” in latino significa “plasmare”, e “plasmare” è
facoltà lecita all’individuo che costituisce da sé un processo creatore, è il frutto
spontaneo di chi sta vivendo il “satori”; il pensiero come trincea dell’interiorità, come
presa d’atto della distanza dell’uomo superiore dai dogmi che costringono l’uomo
nella società. Questa distanza provoca incapacità di comunicare l’esperienza
superiore vissuta e ricerca di mezzi e di modi che siano atti a divulgarla e descriverla,
proprio per questo motivo questo idillio è stato letto in maniera così molteplice anche
dai critici più stimati, è difficile cogliere il senso di una esperienza che per sua natura
non è facile trasmettere.
Mentre il “nirvana” è uno stato di illuminazione spirituale perenne, il “satori” è uno
stato di illuminzazione transitoria. La differenza tra questi due stati consiste nelle
temporaneità o permanenza dell’illuminazione.
Il “satori” è un periodo di non-mente in cui un uomo scopre dentro di sè la sua natura
superiore e ciò lo conduce ad agire e pensare in maniera totalmente rinnovata.
Quando lo stato del “satori” termina e ritorna a funzionare la mente, torna anche la
normale sensazione delle cose. Se invece la mente cessa definitivamente si entra nel
“nirvana”.
Il “satori” è il distacco silenzioso dal quotidiano, dal mondo che tutti sperimentiamo.
Il distacco dal mondo è un atteggiamento intimo dello spirito, che potenzialmente
può tradursi in un definitivo ritiro dal mondo, ma comunque è funzionale alla
meditazione più profonda, a quella lunga preparazione che può scaturire nel
“nirvana”.
“E come il vento / Odo stormir tra queste piante”: per giungere alla totalità del reale
bisogna abbandonarsi al processo infinito e indefinito del flusso vitale che pervade
l’universo, Leopardi lo percepisce e ne fa una base di lancio onde spiccare il volo
verso l’infinito.
“io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando”: è il primo sentore
dell’infinito.
“E mi sovvien l’eterno”: secondo sentore della fusione totale con l’infinito.
“E le morte stagioni, e la prensente / E viva, e il suon di lei.”: cade il concetto di
tempo fisicamente percepito e si realizza un completo distacco dalle cose del mondo
che confluisce in uno stato rinnovato di autocoscienza.
“Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio”: l’esperienza dapprima lontana
si realizza in “questa immensità”, si annulla la distanza che separa il poeta
dall’infinito proprio quando “s’annega il pensier mio”, cioè quando la sua mente
muore.
“E il naufragar m’è dolce in questo mare”: dopo la morte avviene la rinascita, il poeta
si identifica con l’infinito, è infinito lui stesso, ormai l’infinito è dentro di lui e il
naufragio nel nulla è un divenire inarrestabile.
Vincenzo Andrea Latrofa