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Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte


dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

L’infinito
Questo idillio nasce dalla vista di una siepe che non consente al poeta di vedere cosa
c’è oltre e, metaforicamente, a schiudere il senso ulteriore dell’esistenza.
Ciò spinge Leopardi a immaginare un mondo lontano, infinito, e gli eventi atmosferici
che si susseguono non sono altro che degli spunti che gli servono a riflettere sul
passato e sul tempo.
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,”: il “colle” si caratterizza fin da subito come
“ermo”, solitario, e così il poeta instaura fin da subito un rapporto affettivo con un
luogo che come lui è solitario, e allo stesso tempo mette a nudo il suo dolore
esistenziale dovuto alla solitudine,
“E questa siepe”: la “siepe” è la vita stessa intesa come ostacolo, limite, disagio.
“che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”: gli ostacoli stessi
producono stimoli per l’anima, mettono in moto le ali dell’essere.
“Ma sedendo e mirando”: è proprio la pratica della meditazione, nel buddhismo per
mantenere pensieri positivi bisogna praticare la meditazione, cioè sedersi e
acquietare la mente. Nel buddhismo inoltre viene posta in risalto la trasformazione
della mente, e tale trasformazione dipende dall’intensità della meditazione, ciò
avviene esattamente in Leopardi.
“interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete”: il
poeta descrive un’esperienza sovrumana ove il silenzio e la quiete sono sentori di
quel nulla che è l’infinito stesso, inaccessibile all’apparenza ma raggiungibile tramite
l’essere; l’individuo ormai non è più un semplice individuo, ma costituisce di suo un
processo creatore.
“Io nel pensier mi fingo”: “fingere” in latino significa “plasmare”, e “plasmare” è
facoltà lecita all’individuo che costituisce da sé un processo creatore, è il frutto
spontaneo di chi sta vivendo il “satori”; il pensiero come trincea dell’interiorità, come
presa d’atto della distanza dell’uomo superiore dai dogmi che costringono l’uomo
nella società. Questa distanza provoca incapacità di comunicare l’esperienza
superiore vissuta e ricerca di mezzi e di modi che siano atti a divulgarla e descriverla,
proprio per questo motivo questo idillio è stato letto in maniera così molteplice anche
dai critici più stimati, è difficile cogliere il senso di una esperienza che per sua natura
non è facile trasmettere.
Mentre il “nirvana” è uno stato di illuminazione spirituale perenne, il “satori” è uno
stato di illuminzazione transitoria. La differenza tra questi due stati consiste nelle
temporaneità o permanenza dell’illuminazione.
Il “satori” è un periodo di non-mente in cui un uomo scopre dentro di sè la sua natura
superiore e ciò lo conduce ad agire e pensare in maniera totalmente rinnovata.
Quando lo stato del “satori” termina e ritorna a funzionare la mente, torna anche la
normale sensazione delle cose. Se invece la mente cessa definitivamente si entra nel
“nirvana”.
Il “satori” è il distacco silenzioso dal quotidiano, dal mondo che tutti sperimentiamo.
Il distacco dal mondo è un atteggiamento intimo dello spirito, che potenzialmente
può tradursi in un definitivo ritiro dal mondo, ma comunque è funzionale alla
meditazione più profonda, a quella lunga preparazione che può scaturire nel
“nirvana”.
“E come il vento / Odo stormir tra queste piante”: per giungere alla totalità del reale
bisogna abbandonarsi al processo infinito e indefinito del flusso vitale che pervade
l’universo, Leopardi lo percepisce e ne fa una base di lancio onde spiccare il volo
verso l’infinito.
“io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando”: è il primo sentore
dell’infinito.
“E mi sovvien l’eterno”: secondo sentore della fusione totale con l’infinito.
“E le morte stagioni, e la prensente / E viva, e il suon di lei.”: cade il concetto di
tempo fisicamente percepito e si realizza un completo distacco dalle cose del mondo
che confluisce in uno stato rinnovato di autocoscienza.
“Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio”: l’esperienza dapprima lontana
si realizza in “questa immensità”, si annulla la distanza che separa il poeta
dall’infinito proprio quando “s’annega il pensier mio”, cioè quando la sua mente
muore.
“E il naufragar m’è dolce in questo mare”: dopo la morte avviene la rinascita, il poeta
si identifica con l’infinito, è infinito lui stesso, ormai l’infinito è dentro di lui e il
naufragio nel nulla è un divenire inarrestabile.
Vincenzo Andrea Latrofa

Il viaggio dell’anima leopardiana e l‘infinito movimento ciclico dell’universo,


rappresentato dal suono AUM (3), sono ricchi di somiglianze concettuali e di
parallelismi: per esempio, di quanto poco differisce Il dolce naufragar in questo mare
dalla soddisfatta presa di coscienza dell‘identità tra Anima-io (atman) ed Assoluto
(brahman) degli Upanisad!
http://www.homolaicus.com/letteratura/infinito/contributi/atlante.htm

G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, 1898


Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male;
ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine
dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo
non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non
essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le
cose sono cattive. Il tutto esistente; [p. 105 modifica]il complesso dei tanti mondi che
esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua
natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una
mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché
tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo
però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza
infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse
infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per
dir cosí, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere
altro che il bene, sarebbe forse piú sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec.
che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il
peggiore degli universi possibili, sostituendo cosí all’ottimismo il pessimismo. Chi può
conoscere i limiti della possibilità?
Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si
supponesse di un filosofo antico, indiano ec.

A proposito di Leopardi e l'India, può incuriosire che George Singh, l'italianista


d'origine indiana fondatore del Dipartimento di Italiano alla Queen's University di
Belfast, abbia trovato varie "affinità" tra la filosofia indiana e il pensiero leopardiano:
"Leopardi - ha detto - non era indiano né conosceva la filosofia indiana, però
conosceva un po' di sanscrito, sapeva cosa voleva dire l'antica civiltà indiana" e la
sua poesia e quella indiana "hanno molte cose in comune" (v. A Belfast un museo per
Leopardi, ne «la Repubblica», 13.8. 1995

Schopenhauer e Leopardi- di De F. Sanctis


Nei Supplementi al libro quarto del Mondo troviamo scritto: «Nessuno ha trattato così
a fondo e così esaurientemente questo soggetto [il pessimismo] come, ai giorni
nostri, Leopardi. […] Il suo tema è ovunque la beffa e la miseria di quest’esistenza».
Schopenhauer si avvicinò a Leopardi nel 1858 soprattutto attraverso la lettura delle
Operette morali (1824-32). In quello stesso anno l’accostamento tra il filosofo
tedesco e il maggiore poeta dell’Ottocento italiano fu proposto per la prima volta in
modo esplicito dallo storico e critico della letteratura Francesco De Sanctis, in un
saggio-dialogo dal titolo Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A. eD.
Nel complesso De Sanctis tendeva a sottolineare più la distanza che l’affinità fra i due
autori ed esprimeva in conclusione una netta preferenza per il pessimismo eroico del
poeta nei confronti del messaggio eticamente rinunciatario (io propendo senza dubbi,
invece, per il secondo)e politicamente ambiguo del Mondo. La possibilità del parallelo
si reggeva, in ogni caso, su una serie di precise analogie, tutte rigorosamente
documentate nei testi dei due autori, che possiamo riassumere, per comodità, in una
serie di punti:
 una visione radicalmente pessimistica dell’uomo, della storia, della natura;
 un’immagine dell’esistenza come vicenda irrimediabilmente segnata
dal dolore,dal bisogno e dalla privazione;
 un’interpretazione dell’esperienza del piacere come momento essenzialmente
negativo nei confronti di uno stato di privazione;
 una presa di coscienza del carattere illusorio di tutte le cose;
 un’etica fondata sul motivo della compassione. 
Tanto per Schopenhauer quanto per Leopardi il nostro non è affatto il migliore dei
mondi possibili. Se nell’ambito della storia non esiste sviluppo e tantomeno progresso
o perfezionamento (come, a diverso titolo, pensavano tanto i romantici quanto
Hegel), ma solo vuota ripetizione,la natura, dal canto suo, non si cura degli individui e
punta solo alla sopravvivenza della specie. La volontà — per esprimerci con
Schopenhauer — è sempre uguale a se stessa. Essa non trova mai definitiva
soddisfazione, e questa circostanza risulta evidente se si considera che, nel
succedersi delle generazioni, ogni nuovo individuo viene a occupare il posto di quelli
che di volta in volta escono di scena, senza che in questa eterna vicenda possa esser
riconosciuto alcun fine generale. La momentanea soddisfazione che gli individui
incontrano nel dare attuazione ai loro desideri o alle loro ambizioni (successo,riuscita,
vittoria ecc.) non costituisce motivo di ottimismo: alla soddisfazioneseguono spesso
nuovi bisogni che offrono sempre nuove occasioni di dolore. A interrompere questa
concatenazione di desiderio e appagamento può subentrare in alcuni casi una
condizione ancora più difficile da sopportare del desiderio stesso: la noia.
Su questo terreno le analogie fra il pessimismo di Schopenhauer e la «filosofia
dolorosa, ma vera» di Leopardi sono innegabili.
Nei Canti (1831) del poeta troviamo per esempio l’idea di un attaccamento alla vita
che persiste anche nella consapevolezza del suo necessario fallimento: «Se la vita è
sventura, / Perché da noi si dura?» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia); la
percezione nichilistica di una complessiva mancanza di senso nell’essere: «E l’infinita
vanità del tutto» (A se stesso); il riconoscimento del dolore come tonalità
fondamentale dell’esistenza umana: «[…] Arcano è tutto, / Fuor che il nostro dolor
[…]» (Ultimo canto di Saffo). Nelle Operette morali gli stessi motivi vengono
sottolineati con precisione,se possibile, ancora maggiore.
Le teorie del piacere
Seguiamo ora brevemente il parallelo Schopenhauer-Leopardi sul piano delle
rispettive teorie del piacere. La teoria leopardiana del piacere è e sposta soprattutto
in un testo del 1820 che si trova nello Zibaldone. Vi si afferma la tesi centrale del
carattere «limitato» del piacere, al quale si oppone invece il carattere «illimitato» del
desiderio e della tendenza dell’uomo alla felicità.
Questo desiderio non termina se non con la fine dell’esistenza, è sostanziale in noi,
perché non è semplicemente desiderio dell’uno o dell’altro piacere, ma desiderio del
piacere come tale. Quando un singolo desiderio viene appagato, non si estingue il
desiderare, il quale, anzi, risorge in forme sempre nuove.
Nei Canti il tema viene declinato in due forme strettamente congiunte. Da un lato
abbiamo l’idea della vanità di ogni speranza relativa a una vera felicità. Si pensi ad
esempio all’idea della festa come “vuoto” al quale inconsapevolmente tendono
l’attesa e la speranza dell’uomo (tema al centro dei canti La sera del dì di festa e Il
sabato del villaggio).
Proprio l’illimitatezza del desiderio mette in discussione l’idea della festa, in quanto il
giorno di festa è il momento in cui si rivela all’uomo la vanità del suo desiderare.
Dall’altro è sottolineata la natura del piacere come mera soppressione di uno stato di
bisogno, di mancanza, ossia il carattere negativo di ogni esperienza del piacere.
Parlare di negazione non significa qui sostenere che il piacere sia in sé qualcosa di
negativo, ma piuttosto sottolineare il suo essere strettamente legato al venir meno di
uno stato di bisogno o di privazione. Nel momento in cui questo stato di bisogno
viene «negato» con il raggiungimento di un fine determinato, cessa anche il bisogno
che era stato avvertito come tensione e dolore. Per questo Leopardi può esprimere,
in versi celebri, l’idea di una sostanziale dipendenza del piacere dal dolore che lo
precede: «Piacer figlio d’affanno» (La quiete dopo la tempesta).
Certo, occorre precisare che la definizione leopardiana del piacere come cessazione
del dolore ha una serie di precedenti nella cultura del Settecento francese e italiano.
E di una tale discendenza si trovano numerose tracce nei testi del poeta. Questa
osservazione ci aiuta a rintracciare il vero retroterra del pessimismo leopardiano, che
è radicato più nella filosofia materialistica settecentesca che nello spiritualismo o
nell’idealismo del primo Ottocento.
Scrive Leopardi nello Zibaldone: «Il sentimento della nullità di tutte le cose,
l’insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un
infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più
materiale che spirituale».
La compassione
Un altro tema presente in entrambi i nostri autori è quello della compassione, a
maggior ragione se si considera il nesso che esso intrattiene con la visione
pessimistica fin qui articolata. È appunto la presa d’atto di un comune destino che
pesa su tutta l’umanità, la certezza relativa alla tragicità e irredimibilità della sua
condizione, a spingere tanto Schopenhauer quanto Leopardi verso l’idea di una
fondamentale e necessaria solidarietà fra tutti gli esseri umani.
Ma se in Schopenhauer un tale punto di arrivo, reso esplicito nel quarto libro del
Mondo, si avvale degli apporti della letteratura cristiana, del buddismo e delle grandi
concezioni mistiche d’Oriente e d’Occidente, in Leopardi prevale un umanesimo
nutrito di universalismo illuministico. Tutta la nobiltà dell’uomo risiede nella sua
capacità di guardare con animo fermo alla tragica sorte che gli è stata assegnata,non
incolpandone i suoi simili, ma riconoscendone responsabile quella stessa natura
contro la quale occorre piuttosto unirsi che dividersi (come esprimono i bellissimi
versi della Ginestra).
Filosofia della storia e impegno politico
Anche nel quadro di questo comune riconoscimento del valore del vincolo umano,non
mancano quindi elementi di divergenza. Essi furono puntualmente rilevati dal De
Sanctis, al quale dobbiamo i chiarimenti essenziali a questo proposito.
L’unilateralità con la quale, a conclusione del suo parallelo, il critico letterario ha
preso posizione a favore della moralità leopardiana, contro la negazione
schopenhaueriana della filosofia, della storia e dell’impegno politico-civile, può essere
compresa in una prospettiva storica. Secondo De Sanctis, la filosofia di Schopenhauer
è una filosofia «nemica della libertà e del progresso», e comporta la fuga dal mondo
e il rifiuto dell’azione politica come tale: per colui che si sia persuaso della necessità
di una completa negazione del volere, concetti come libertà, umanità, nazione,
patria, emancipazione, progresso, così presenti nelle filosofie della storia e nelle
ideologie politiche del XIX secolo, non sono che vuote astrazioni, mere apparenze. Il
pessimismo schopenhaueriano, in un quadro tutto dominato dalle grandi sintesi
filosofiche dell’idealismo e dagli ideali politico culturali di un’età che si sentiva
chiamata a trasformare il corso della storia, assume inevitabilmente connotati
decadenti.
Leopardi invece consegue, per De Sanctis, un effetto opposto a quello che si
propone: pur non prestando fede alle idee di libertà e progresso, ne ispira in ultima
analisi un vero e proprio desiderio in chi gli si accosta; il suo sguardo di scettico
disincantato non spinge alla rinuncia e all’inazione, ma,inaspettatamente, può
persino risvegliare una reazione contraria, fino alla denuncia dell’ingiustizia e alla
scoperta dell’impegno civile. Il pessimismo non sarebbe qui rassegnazione mistica,
ma rifiuto di una condizione disumana e consapevolezza del carattere illusorio di ogni
consolazione.

Nicola Caldarone, Giacomo Leopardi e  la tentazione di Buddha, Edimond,


Città di Castello, 2008
Nonostante la fiera delle vanità, il culto del denaro, l'esaltazione della furbizia, il
malaffare e la superficialità dilaganti, nonostante l'addomesticamento delle coscienze
e i circhi televisivi, ci sono ancora, nel nostro paese, intellettuali o eruditi (Non è una
parolaccia ma un obbligo per un letterato!- secondo il nostro autore) che nella
solitudine delle loro stanze, tra i libri mai vecchi di pensiero, si occupano di trasferire
nel presente, con i loro scritti, pensieri e conoscenze già elaborati nel passato. Li
rendono fruibili per i contemporanei, in modo che ognuno ci si possa confrontare. E'
evidente, leggendo questo saggio, che anche Nicola Caldarone è un erudito: un
letterato appassionato, il quale cerca nelle Lettere quei valori civili, che possano
aiutare i contemporanei a vivere più serenamente e rettamente.
La sua ricerca ha origine da una lontana intuizione, avuta mentre spiegava ai propri
alunni L'Infinito di Leopardi e non riusciva a trovare nella critica un'esegesi adeguata
al verso “…e il naufragar m'è dolce in questo mare”. Possibile che Leopardi,
imprigionato nella Recanati papalina dei primi dell'Ottocento, avesse conosciuto la
spiritualità indiana e il pensiero di Buddha? Possibile che lo avesse assimilato e
metabolizzato tanto bene, da farlo emergere in forma incantevole in uno dei suoi
primi Idilli?
Per rispondere a tali domande, l'autore ha intrapreso un lungo e complesso lavoro di
ricerca, partendo da alcune considerazioni: l'Europa romantica guardava con
interesse particolare alla civiltà indiana; Giacomo Leopardi conosceva il Sanscrito, era
contemporaneo e idealmente affine a Shopenhauer, a 13 anni aveva scritto La virtù
indiana e ci ha lasciato, nelle sue opere in prosa, diverse testimonianze di un
pensiero molto vicino ai temi delle Upanishad e del Ramayana.
“Sembra che un filo rosso, per lo più sotterraneo, colleghi Leopardi alla spiritualità
indiana, una simpatia trattenuta ai limiti della discrezione o, se si vuole, di quella
capacità mistificatoria che appartiene ad ogni poeta di razza, oltre a quella,
altrettanto mirabile propensione, soprattutto se riferita al nostro poeta, a cogliere e
ad assimilare ogni sorta di messaggio, in grado di generare un'idea, un'immagine, un
brivido di stupore sul turbolento, angoscioso destino dell'umanità”.
Per dimostrare questa sua tesi, Caldarone ci conduce, capitolo dopo capitolo,
attraverso lo spazio e il tempo, nel pensiero di molti autori e nella storia dei vari
popoli.
Il saggio si compone di tre parti. Nella prima confronta la cultura occidentale con
quella orientale e discorre su come la spiritualità orientale abbia affascinato gli
intellettuali romantici, in particolare Arthur Shopenhauer.
Nella seconda ci presenta le fonti della spiritualità indiana e il pensiero di Buddha.
Nella terza, infine, ci prova come Leopardi, relegato in un'oscura provincia italiana,
abbia potuto attingere a queste conoscenze ed integrarle al suo pensiero.
In questo “complesso mosaico di esegesi letteraria”, tra i numerosi pensatori citati e
inquadrati nel loro periodo storico, Caldarone sottolinea le affinità di pensiero
tra Shopenhauer, Buddha e Leopardi, e ci tiene ad evidenziare spesso come queste
loro idee possano essere “… il sentiero più promettente per liberare l'uomo del XXI
secolo dalle catene dei capricci, delle voglie materiali, dei bisogni, dell'egoismo, della
frenesia e quindi della violenza e della intolleranza”.
Shopenhauer sostiene che Il mondo come fenomeno è rappresentazione, ma nella
sua essenza è volontà cieca e irrefrenabile, perennemente insoddisfatta. Perciò la
vita è un continuo tendere a qualcosa; ogni aspirazione umana è sofferenza se non
viene soddisfatta e col possesso svanisce ogni attrattiva. La vita umana oscilla tra il
dolore e la noia. Il dolore è reale, la felicità illusione. L'unico modo che ha l'uomo per
uscire da questa situazione è vanificare la volontà cioè raggiungere il nirvana: nel suo
nulla è il tutto. L'arte, dove l'individuo si stacca dalle catene della volontà, si annienta
e si trasforma in puro occhio del mondo, può farci assaggiare la liberazione dalla
volontà nel momento creativo. Ma la dimensione duratura della liberazione è quella
ascetica, in cui si distruggono il soggetto e l'oggetto e si raggiunge l'oceano della
quiete, la profonda calma dell'anima, l'imperturbabile sicurezza e serenità.
Anche per Buddha l'origine del dolore s'identifica con la brama. Perciò il monaco ha
da percorrere il nobile sentiero ottuplice: retta visione, retta intenzione, retta parola,
retta azione, retti mezzi di sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e
retta concentrazione. E realizzare dentro di sé i quattro sentimenti infiniti:
benevolenza, compassione, gioia compartecipe e equanime, noncuranza.
Contemplazione e compassione sono per entrambi i filosofi la base per uscire dalla
volontà cieca e dal dolore. (E contemplazione esprime L'Infinito di Leopardi;
e compassione esprime La ginestra- riflette il nostro autore).
Alla luce di queste idee filosofiche (che ho riportato in forma assai sommaria, il
lettore ne potrà valutare la profondità leggendole personalmente) e di tutti i
riferimenti ad esse o a simili, che Caldarone rinviene nei Canti, nelle Operette morali
e nello Zibaldone di Leopardi, porgendocele, come non essere d'accordo con lui sul
fatto che Leopardi deve aver provato forte empatia per il Buddismo?
Ma, a parer mio, non è il felice esito della sua ricerca (ottenuta con un meticoloso
lavoro di scavo, nell'opus leopardiano, per trovarvi versi o frasi probatorie), che
importa di più in questo saggio; più importa aver spostato il pensiero e la lirica
filosofico – visionaria di Giacomo, altrimenti congelata nel rispetto che si deve ai
classici, nel mondo attuale e mostrato come possa essere ancora bellezza senza
tempo, atta a far germogliare nelle nostre coscienze riflessioni sull'esistenza e
sentimenti di laica solidarietà tra tutti gli uomini. Rileggere il Canto notturno, La
ginestra, Il tramonto della luna, alla luce di tutta la ricerca effettuata dall'autore è
stato illuminante. Mi ha fatto sentire quanto profondo e realistico (non pessimistico,
magari per cause psichiatriche) sia il pensiero del Cittadino del Mondo Giacomo
Leopardi. Un essere che, dall'angusto spazio di Recanati, ha saputo espandersi con
l'immaginazione nello spazio profondo e infinito. Un essere che è riuscito a catturare
nei dolci versi dell'Infinito, come scrive De Sanctis (cit.op.), quell'oscuro quid:
“…ti sta davanti un non so che di formidabile che ti spaura, un di là dall'idea e dalla
forma. Tu non puoi concepirlo e non puoi immaginarlo. Vedi solo la sua ombra. Così i
primi solitari scopersero Iddio…E questo spiega l'impressione profonda della chiusa
così originale, in cui il pensiero riacquista la coscienza solo per sentirsi dolcemente
annegato:
Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio
e il naufragar m'è dolce in questo mare.”
poiché, come aggiunge Nicola Caldarone, il poeta è naufragato nel Nirvana:
“…questo naufragio è dolce perché v'è la dolcezza dell'annullamento, del nirvana, del
trasmutarsi in non essere, in sostanza la dolcezza della morte, che placa l'angoscia
esistenziale e permette il ritorno nel grembo della madre”. Una morte dell'io che
diviene, socialmente, la base per una vita fondata su principi di giustizia e di
solidarietà.

Sia la filosofia indiana dei Veda e delle Upanisad sia il Buddhismo rappresentarono


sempre per Schopenhauer una prestigiosa conferma delle proprie affermazioni: il
pensiero orientale, frutto della sapienza più antica e quindi più vera – in quanto
maggiormente vicina all’origine dell’umanità – secondo il filosofo si sarebbe trovato
in perfetto accordo con la propria filosofia, culminante nella teoria del mondo come
volontà, essenza di ogni cosa celata dalla rappresentazione. Termine, quest’ultimo,
che Schopenhauer equiparò come equivalente, fin dai suoi primi incontri giovanili con
il pensiero indiano, a quello di māyā, nel pensiero indiano l’illusione, il sogno,
l’inganno, la magia.
Schopenhauer stabilì così il primo dei moltissimi punti di contatto che avrebbero
unito, nel nome della verità, il suo pensiero alle antichissime speculazioni filosofiche
indiane. In seguito egli avrebbe scovato “conferme” alla propria filosofia in quasi ogni
aspetto del Brahmanesimo e del Buddhismo, dalla metafisica all’etica: “tradusse”
all’orientale praticamente ogni concetto cardine del sistema, interpretando come
paralleli ed equivalenti concetti come Wille  e Brahman, rappresentazione e māyā,
stato di affermazione della volontà e samsara, negazione della volontà e nirvana,
redenzione e moksa. Molti altri punti di contatto (reali o presunti) furono trovati da
Schopenhauer tra sé e l’Oriente: l’idealismo, l’esistenza di un principio unico celato
dall’illusione della molteplicità, il pessimismo, l’antiteismo, la credenza nella
rinascita, l’assenza di un dio personale, l’etica della compassione estesa anche agli
animali, l’idea che ci si debba liberare dalla sofferenza, poiché «l’esistenza è senza
dubbio una strada sbagliata, tornare indietro dalla quale è redenzione».
Matteo Antonin

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