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L’Umanesimo
italiano. Filosofia
e vita civile nel
Rinascimento

di Eugenio Garin

Storia d’Italia Einaudi


a

Edizione di riferimento:
L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel
Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1986

Storia d’Italia Einaudi II


.

Sommario

Introduzione 1
1. Umanesimo e filosofia 1
2. Esigenze filologiche nuove 6
3. Umanesimo e storia 9
4. Umanesimo e platonismo 12
5. Le origini dell’umanesimo 13
6. Umanesimo e antichità classica 17
Le origini dell’umanesimo 21
1. Lettere umane e vita civile 21
2. L’analisi della vita interiore 25
3. La polemica contro le scienze della natura 28
4. Coluccio Salutati 32
5. Il primato della volontà in Coluccio Salutati 35
6. Le leggi e la medicina 40
La vita civile 46
1. La scuola del Salutati e Bernardino da Siena 46
2. Leonardo Bruni 51
3. Poggio Bracciolini e il valore dei beni terreni 54
4. Il mondo delle passioni e il valore del piacere 59
5. Il Valla e le scienze morali 63

Storia d’Italia Einaudi III


6. Giannozzo Manetti e la prima impostazione 71
del problema della dignità dell’uomo
7. Leon Battista Alberti 77
8. Matteo Palmieri e il trapasso al platonismo 83
9. La filologia e la retorica nel Poliziano e nel 87
Barbaro
10. Il Galateo e il Pontano 92
11. Spunti pedagogici 94
Il platonismo e la dignità dell’uomo 99
1. La crisi della libertà e i dialoghi «De 99
libertate» del Rinuccini
2. L’influenza dei dotti bizantini e le traduzioni 103
di Platone
3. Il problema dei rapporti fra vita attiva e 106
contemplativa in Cristoforo Landino
4. Marsilio Ficino e la concezione di una «docta 112
religio»
5. La teologia platonica 120
6. Pico della Mirandola e la polemica 126
antiretorica
7. L’uomo 131
8. La pace filosofica 133
9. La polemica antiastrologica 135
10. Spunti di un’apologetica platonica 138
Platonismo e filosofia dell’amore 142
1. Francesco Cattani da Diacceto e l’ortodossia 142
ficiniana
2. La grazia 145
3. La metafisica d’amore 152

Storia d’Italia Einaudi IV


4. La moda delle discussioni d’amore 156
5. La conciliazione fra Platone e Aristotele 159
6. Lo scetticismo di Gian Francesco Pico 164
L’aristotelismo e il problema dell’anima 168
1. Pietro Pomponazzi 168
2. La polemica sull’immortalità 174
3. Jacopo Zabarella 178
4. Il problema religioso nell’aristotelismo 181
Logica, retorica e poetica 184
1. Problemi logici e metodologici 184
2. Zabarella e le polemiche padovane 187
3. Logica e retorica. Mario Nizolio 190
4. La retorica e la «civile conversazione» 194
5. La questione della lingua 198
6. La poetica 200
7. Il «Naugerius» di Girolamo Fracastoro 204
Ricerche morali 208
1. Moralità e «modi civili» 208
2. La «institution» dell’uomo 211
3. Influenze aristoteliche e commenti alla 215
«Nicomachea»
4. Vita attiva e contemplativa 219
5. Storia e vita politica 224
Indagini sulla natura 229
1. Leonardo da Vinci 229
2. Girolamo Cardano 231
3. Girolamo Fracastoro e G. B. Della Porta 233

Storia d’Italia Einaudi V


4. Andrea Cesalpino 235
5. Bernardino Telesio 237
6. La metafisica della luce 242
Da Giordano Bruno a Tommaso Campanella 245
1. Rinascimento e Riforma 245
2. Religione e filosofia in Bruno 247
3. La concezione bruniana dell’universo 252
4. La «contemplazione» 258
5. La riforma morale 260
6. L’eroico furore 263
7. Problemi nuovi in Tommaso Campanella 266
8. «L’imparare e il conoscere sono pur qualche 270
morte»
Epilogo 273

Storia d’Italia Einaudi VI


INTRODUZIONE

1. Umanesimo e filosofia

Quasi un secolo fa Renan, nel suo Averroè, a un cer-


to momento trasformò Padova e Firenze nei simboli di
una antinomia capace di ben caratterizzare, a parer suo,
l’orientamento così complesso della cultura del Rinasci-
mento: da un lato Padova, roccaforte della tradizione
aristotelico-averroistica, rigorosamente scientifica e logi-
ca, contrastante con l’umanesimo e con quanto esso im-
plicava d’amore alle lettere, alle arti e agli studia humani-
tatis; dall’altro lato Firenze, la città di Ficino e del Poli-
ziano, e di quanti altri, pensatori e poeti, trovavano «stra-
ni e fantastichi» i maestri padovani, secondo la curiosa
espressione che incontriamo in una lettera a Lorenzo del
14911 . La contrapposizione del Renan si attenuava nel
suo autore attraverso la consapevolezza, sempre presen-
te anche se non chiara, del significato profondo dell’u-
manesimo, dell’incancellabile valore che una spregiudi-
cata posizione critica aveva nei riguardi di una nuova for-
mazione culturale. D’altra parte Renan si rendeva anche
conto che la «filosofia» padovana era nel ’400 ormai stan-
ca; che i perfezionati strumenti di cui si serviva erano lo-
gori, e le sue fonti inaridite; che il suo sottile raziocinare
muoveva a vuoto, e apparteneva al passato. Domani Ga-
lileo conoscerà bene ogni sviluppo della fisica d’Aristo-
tele; ma le forze e la prospettiva necessaria per la nuova
sintesi gli verranno da una diversa atmosfera culturale.

1
A. POLIZIANO, Prose volgari inedite e poesie latine e
greche edite e inedite, raccolte e illustrate da I. Del Lungo,
Firenze 1867, p. 80.

Storia d’Italia Einaudi 1


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Purtroppo la seduzione di trasformare un’antitesi in


una spiegazione, confondendo una negazione con una
determinazione positiva, ha operato su troppi storici del-
la cultura rinascimentale: e la lotta di Padova contro Fi-
renze è diventata uno dei luoghi comuni volti a caratte-
rizzare un atteggiamento inteso come rivolta delle lette-
re contro le scienze, della poesia contro la filosofia, delle
leggi contro la medicina, della retorica mistica contro la
dialettica eretica, dell’empietà averroistica contro la pie-
tas umanistico-platonica2 . Ed in questa contrapposizio-
ne sono poi venuti a convergere tutti i temi della polemi-
ca intorno al Rinascimento, quali si sono venuti precisan-
do da Burckhardt in poi; così quella «scienza» e quella
«filosofia» sono divenute volta a volta i titoli della supe-
riorità e modernità medievali, o i segni di un’insufficien-
za radicale e di un declino senza rimedio; e, viceversa,
quella «retorica» e quella «grammatica» sono state pre-
sentate ora come una pausa nel progresso dello «spirito»,
e ora come l’espressione di una cultura veramente «mo-
derna». Finché una gran parte della storiografia contem-
poranea, più ancora che per obbedire a una giusta esi-
genza di continuità per una dichiarata o larvata polemi-
ca contro i valori affermati dalla filosofia moderna, si è
venuta mirabilmente accordando nel rifiutare ogni signi-
ficato profondo alle posizioni speculative rinascimentali,
dichiarate prive di originalità rispetto al Medioevo nelle
loro istanze filosofiche, e per niente nuove o rinnovatrici
anche nei loro aspetti letterari.
Uno storico della scienza, il Sarton, in una postuma
polemica contro quei «presuntuosi dilettanti» che furo-

2
Cfr. E. TROILO, Averroismo e Aristotelismo padovano,
Padova, 1939 (e G. TOFFANIN, Per l’Averroismo padovano,
Lettera a E. Troilo, «La Rinascita», 1939, 5; B. KIESZKOW-
SKI, Averroismo e Platonismo in Italia negli ultimi decenni del
sec. XV, «Giornale Critico della Filos. Itatiana», 1933, 4).

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no gli umanisti, non ha esitato a concludere per «un in-


discutibile regresso così dal punto di vista filosofico che
da quello scientifico. Di fronte allo scolasticismo medie-
vale, ottuso ma onesto, la filosofia caratteristica di que-
sta età, ossia il neoplatonismo fiorentino, fu un miscuglio
superficiale di idee troppo vaghe per avere un valore rea-
le». Più radicale ancora, uno storico della filosofia come
Bruno Nardi ha affermato che, «se vogliamo risalire dav-
vero alle origini della filosofia moderna, bisogna saltare a
pie’ pari il periodo umanistico»; ed uno storico della let-
teratura, il Billanovich, ha parlato di un secolo di «silen-
zio, solo rotto dalle declinazioni sommesse dei gramma-
tici», mentre «la professione di studi filosofici è... degra-
data a prove... di acutezza filosofica e retorica», in mezzo
a «un disperso disordine intellettuale»3 . Verrebbe voglia
di rispondere che quei grammatici e quei retori si chia-
marono Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti; che da
quegli ambienti sterili e vuoti uscirono Niccolò Cusano e
Paolo Toscanelli; che la scienza di Leonardo e Galileo si
maturò proprio in quel secolo che converrebbe saltare a
pie’ pari; che in esso è pur venuto su Niccolò Machiavel-
li, e tutto quel fermento di critiche che si è espresso, poi,

3
G. SARTON, Science in the Renaissance, in J. W.
THOMPSON, G. ROWLEY, F. SCHEVILL and G. SAR-
TON, The Civilization of Renaissance, Chicago, 1929, p. 79
(cfr. W. F. FERGUSON, The Renaissance in Historical
Thought, Five Centuries of Interpretation, Cambridge Mass.,
1948, p. 384; L. THORNDIKE, Renaissance or Prenaissan-
ce?, «Journal of the History of Ideas», IV (1943), pp. 65-74);
B. NARDI, Il problema della verità. Soggetto e oggetto del co-
noscere nella filosofia antica e medievale, Roma, 1951, pp. 58-59
(e, nella seconda ed. del 1952, p. 61, n. 105, la ulteriore precisa-
zione polemica); G. BILLANOVICH, Petrarca letterato. I. Lo
scrittoio del Petrarca, Roma, 1947, pp. 415 e sgg. Una visione in
tutto diversa, e una valutazione non dissimile da quella sostenu-
ta in queste pagine, può invece trovarsi nel volume di MARIE
BOAS, The Scientific Renaissance, 1450-1630, London, 1962.

Storia d’Italia Einaudi 3


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in un Telesio o in un Bacone; che un Erasmo da Rot-


terdam o un Montaigne sarebbero difficilmente conce-
pibili senza la cultura quattrocentesca. Così, a proposito
dell’antitesi Padova-Firenze, sarebbe anche troppo faci-
le mostrarne, con i dati di fatto alla mano, tutta l’inconsi-
stenza, nelle persone e nelle concezioni. Se infatti l’uma-
nesimo quattrocentesco fu diverso nei vari centri cultu-
rali, ebbe pur tuttavia tratti comuni con cui penetrò do-
vunque, agendo dovunque in senso profondamente e ra-
dicalmente rinnovatore, espressione di un atteggiamento
umano del tutto mutato.
Ma, a dire il vero, la intima ragione di quella condan-
na del significato filosofico dell’umanesimo è un’altra; e
del resto risulta ben chiara da quel continuo richiamarsi
per contrasto alle sintesi metafisico-teologiche della «ot-
tusa ma onesta scolastica»: si tratta cioè del sopravvi-
vente amore per una immagine della filosofia che il pen-
siero del ’400 costantemente avversò. Perché ciò di cui
si lamenta da tante parti la perdita è proprio quello che
gli umanisti vollero distrutto, e cioè la costruzione del-
le grandi «cattedrali di idee», delle grandi sistemazioni
logico-teologiche: della Filosofia che sussume ogni pro-
blema, ogni ricerca al problema teologico, che organizza
e chiude ogni possibilità nella trama di un ordine logico
prestabilito4 . A quella Filosofia, che viene ignorata nel-
l’età dell’umanesimo come vana ed inutile, si sostituisco-
no indagini concrete, definite, precise, nelle due direzio-
ni delle scienze morali (etica, politica, economica, esteti-
ca, logica, retorica) e delle scienze della natura che, col-
tivate iuxta propria principia, al di fuori di ogni vincolo e
di ogni auctoritas, hanno in ogni piano quel rigoglio che
l’«onesto», ma «ottuso» scolasticismo ignorò.

4
Cfr. B. CROCE, Lo storicismo e l’idea tradizionale della
filosofia, «Quaderni della Critica», 13 marzo 1949, pp. 84-85.

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Aver permesso questo; aver visto che la logica delle


umane ricerche non è necessariamente quella d’Aristo-
tele: che la logica d’Aristotele non è parola di Dio, ma
un prodotto storico; aver dato vita a indagini concrete;
avere, soprattutto, abituato le nuove generazioni a cosif-
fatto modo di vedere e di pensare; avere «umanamente»
educato, potrà sembrare poco ai vagheggiatori di ben ar-
chitettate costruzioni teologiche, ma a chi intenda la fi-
losofia come consapevole indagine di guise umane, e di-
scussione di concetti, sembrerà impagabile conquista. La
quale, va aggiunto, non fu per nulla empia ed eretica, ma
anzi, molto spesso, rispettosissima della fede religiosa co-
me forma di innegabile esperienza, di cui quelle partico-
lari indagini nella loro singolare modestia non doveva-
no preoccuparsi, muovendosi esse in tutt’altra direzione.
Modeste ricerche – s’è detto – «filologiche» e storiche,
che rinunciando a quei gravi discorsi di Dio e dell’intel-
letto ricercavano invece le guise delle umane città, e dei
costumi e dei riti degli uomini, o, sul terreno delle scien-
ze, volevano precisare la natura delle malattie o la strut-
tura dei viventi con «grammaticale» pedanteria; proprio
perché – come insegna il grande Antonio Benivieni – al-
le scuole dei «grammatici» avevano imparato un meto-
do e un modo di affrontare la realtà. Che è precisamen-
te quell’atteggiamento «filologico» che, come aveva ben
visto una storiografia oggi troppo facilmente disprezza-
ta, costituisce appunto la nuova «filosofia», ossia il nuo-
vo metodo di prospettarsi i problemi, che non va con-
siderato quindi, come taluno crede, accanto alla filoso-
fia tradizionale, come un aspetto secondario della cultu-
ra rinascimentale, ma proprio effettivo filosofare5 .

5
Una prospettiva, appunto, «classificatoria», in P. O. KRI-
STELLER, Movimenti filosofici del Rinascimento, «Giornale
critico d. Filos. it.», 1950, pp 275-88, da integrarsi con Huma-
nism and Scholasticism in the Italian Renaissance, « Byzantion»,

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2. Esigenze filologiche nuove

Può essere utile, a questo proposito, rileggere l’elogio


che Niccoletto Vernia, l’insospettabile Niccoletto, fece
di Ermolao Barbaro per la traduzione di Temistio; o, me-
glio ancora, la lettera-prefazione, sempre del Vernia, al-
l’edizione di Aristotele con i commenti di Averroè. In
quella lettera il meno «umanista» degli scrittori del ’400
insiste a lungo proprio sulle cure da lui poste nell’emen-
dare il testo, sul suo andare interrogando i greci di sua
conoscenza per ottenere chiarimenti di vocaboli tecnici
e lumi per comprendere le versioni – perché senza la si-
curezza del testo è inutile andar discutendo a vuoto, ma-
gari di questioni inconsistenti. Leggendo quell’episto-
la introduttiva – così notevole dal punto di vista meto-
dico – come astenersi dal confrontare idealmente l’edi-
zione aristotelica del professore padovano con un codi-
ce, già del convento fiorentino di San Marco che contie-
ne la versione latina del commento d’Eustrazio alla Nico-
machea? Il manoscritto appartenne a Coluccio Salutati,
e sui margini, di pugno del grande Cancelliere, vi sono
annotazioni sull’esattezza dei termini, e raffronti con le
espressioni originali greche, di cui si andava accertando,
prima che riuscisse a far venire allo studio Manuele Cri-
solora, presso i bizantini che, per ragioni di commercio e
per necessità politiche, venivano a Firenze6 . Perché Sa-

XVII, 1944-45 pp. 346-74 (e in italiano in «Humanitas». V,


1950, pp. 988-1015). E cfr. ora gli studi, ricchi di preziosi con-
tributi, ove il Kristeller precisa e conferma il suo punto di vi-
sta, riuniti nel vol. Studies in Renaissance Thought and Letters,
Roma, 1956.
6
L’ed. del Vernia uscì a Venezia nel 1483 (cfr. «Rinascimen-
to», II, 1951, pp. 57-66). Il codice d’Eustrazio è alla Naz. di
Firenze, Conventi I, V, 21.

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lutati, buon scolaro di Petrarca, batteva sempre su que-


sto: sulla necessità di smetterla, innanzi ai testi dei filo-
sofi, con le lunghe discussioni impiantate a vuoto e senza
preoccuparsi di cominciare con l’intenderli nel loro valo-
re originario esatto. In una pagina del De fato, proprio a
proposito dell’interpretazione di Seneca morale, egli ri-
corda come, di fronte alle difficoltà nate in lui per la cor-
ruzione dei manoscritti, fosse andato raccogliendo mul-
tos codices... non modernis solum, sed antiquis scriptos lit-
teris. Si era così reso conto della trascuratezza dei copi-
sti, delle glosse marginali e di quelle interlineari andate
a finire nel testo, della presuntuosa ignoranza dei letto-
ri pronti a correggere dove non capivano (praesumptuo-
sas manus iniciunt... ium detrahentes aliquid, tum adden-
tes). Per non dir poi – soggiunge – di quello che acca-
de quando entrano in giuoco interessi, come nel caso dei
testi sacri e delle opere dei Padri, in cui preoccupazio-
ni di vario genere hanno determinato volute alterazioni:
così i vari barbari nullum omnino textum philosophorum
moralium, historicorum, vel etiam poetarum non corrup-
tissimum reliquerunt. Di qui l’esigenza di raccolte di tut-
ti gli esemplari di un’opera, affidate quindi a «peritissi-
mi» della lingua e della storia, per restituire ad ognuna il
suo volto7 .
Quello che Salutati cerca di fare per Seneca o per Ago-
stino, Vernia tenterà per Aristotele, Nifo per la Destruc-
tio destructionis di Averroè. Ma l’incontro ideale di Co-
luccio e Niccoletto ha un senso tutto suo, perché uno
dei pochi scritti che ci sono rimasti del Vernia è proprio
un postumo attacco al Salutati, e alla sua tesi della su-

7
SALUTATI, De fato, fortuna et casu, II, 6, Laur. 53, 18,
fol. 11 v-12r, ove lamenta anche che «usque adeo pauci sunt,
qui studiis humanitatis indulgeant, licet illa commendentur ab
omnibus, placeant multis et aliqui delectentur in ipsis» (cfr.
Vat. lat. 2928, fol. 5 r.)

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premazia delle leggi: attacco di un tono singolarmente


antiumanistico. Eppure anche quell’avversario della su-
premazia degli studia humanitatis, aveva, quasi senz’ac-
corgersene, fatto tesoro della maggior conquista dell’u-
manesimo: la preoccupazione storico-critica di cogliere
gli autori nelle loro dimensioni. La spregiudicatezza del
commento aristotelico non si esaurisce più nell’insinua-
re un’interpretazione più o meno eretica in un testo più
o meno ripugnante: già s’avvia ad essere collocazione di
Aristotele nella storia, e quindi suo effettivo superamen-
to e superamento di quante altre posizioni considerino
l’aristotelismo una verità acquisita per sempre. Per que-
sto anche Ermolao Barbaro consentiva con certi temi del
Vernia8 ; per questo, a un certo momento, la lezione dei
«filologi» si fa decisiva per i «filosofi», presso i quali si fa
sempre più vivo il bisogno di fonti originali, di testi cor-
retti, di precisione storica, mentre Aristotele cessa di es-
sere un’auctoritas per diventare un pensatore come tutti
gli altri, definito in un suo proprio tempo. Quando tro-
viamo l’aperta confessione che Aristotele non basta più,
perché non ha visto certi problemi, sentiamo il distacco
da un antico modo di pensare: non c’è più un testo – da-
to per sempre – da chiosare; non c’è più – lì innanzi –
la Verità da illustrare: c’è il rischio di un’avventura do-
ve tutto è, sì, oscuro, ma tutto, ancora, è possibile. Chi
ha abbattuto le colonne d’Ercole, non è l’eroe che ne ha
violato il divieto, eppur vi crede, e il suo eroismo è tale
proprio perché esse vi sono. Le abbatte davvero chi le
spiega nel loro nascimento, e così le comprende, e poi le
lascia dov’erano, elegante e curiosa «anticaglia», secon-
do l’espressione del buon Vespasiano da Bisticci; senza
ridere né piangere, senza sdegno, ma con intendimento

8
Cfr. l’edizione della Destructio di Averroè pubblicata dal
Nifo a Venezia nel 1497; di E. BARBARO le Epistole a cura di
V. Branca, Firenze, 1943, I, p. 45 sgg.

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pieno. Onde sono davvero poveri untorelli tutti gli ereti-


ci, e gli averroisti più empi e gli aristotelici più arditi, in-
nanzi a quei filologi che, pur rispettosissimi di forme tra-
dizionali, affrontano ogni documento, ogni carta, ogni li-
bro, considerando che, così come si presenta, esso è un
fatto umano, una traccia e una risonanza umana, e come
tale soggetta a esame e a discussione critica.

3. Umanesimo e storia

Il primo febbraio 1392 Coluccio Salutati scriveva a don


Juan Fernandez de Heredia un’epistola che è un insigne
monumento di pensiero. Tesse, il pio Cancelliere, le doti
della storia, educatrice dell’umanità, fonte di conoscen-
ze concrete più alte di ogni sottigliezza teologica e filo-
sofica, essa sola formatrice dell’uomo, perché umanità è
memoria di umane azioni nel mondo, ed è «filantropia»,
ossia incontro e colloquio con gli uomini tutti. Nelle di-
mensioni della storia si attua la civiltà e si definisce la po-
litica: «tolle de Sacris Litteris quod hystoricum est: erunt
profecto reliquie res sanctissime, res mirande; sed... ta-
liter insuaves, quod non longe poterunt te iuvare». Non
stupisce che il primo storico in senso moderno sia stato il
più grande allievo ed amico di Coluccio, Leonardo Bru-
ni, cui la larga esperienza politica acquistata nelle cancel-
lerie insegnò a veder bene addentro nelle cause dei fatti
che sono sempre, per lui, libere decisioni di uomini buo-
ni o malvagi, dagli uomini comprensibili9 .

9
B. L. ULLMAN, Leonardo Bruni and the Humanistic Hi-
storiography, «Medievalia et Humanistica», 1946, pp. 45-61
(cfr. H. BARON, Das Erwachen des historischen Denkens im
Humanismus des Quattrocento, «Hist. Zeitschrift», 1933). Su
humanitas, studia humanitatis e φίλανθρωπία cfr. del
Guarino il commento alla Retorica (Naz. di Firenze, II, I, 67,

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Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Per questa via, proprio e solo l’umanesimo, conclu-


dendo del resto una lunga crisi, collocò nei suoi qua-
dri storici e oltrepassò per sempre quell’antica visione
del reale statico, a strutture rigide, astorico oggetto di
contemplazione, che la logica platonico-aristotelica ave-
va presupposto, e dove un moto ritornante in eterno su
posizioni identiche si dissolve in una parvenza di moto,
mentre l’uomo e la sua vita e la sua attività si perdono in
una radicale insignificanza. E quello che certi critici non
afferrano è che senza la cosiddetta «retorica» dei Guari-
no, dei Valla, dei Poliziano, e di altri cosiffatti «pedan-
ti», le «autorità» non sarebbero mai state rovesciate dai
loro piedestalli, né la logica d’Aristotele sarebbe stata vi-
sta per quello che è: un mirabile strumento del pensiero
umano, inserito e valido entro certe dimensioni culturali;
logica, appunto, di Aristotele di Stagira, e magari di Eu-
clide e di altri non pochi sottili indagatori – ma non, as-
solutamente, la logica. Come insegnò con tutta chiarezza
Lorenzo Valla il giorno in cui non pretese più di discu-
tere dentro l’aristotelismo, ma ruppe in blocco contro di
esso. Proprio nella premessa alla Dialettica il Valla defi-
nisce la sua posizione: la logica aristotelica non è l’unica
logica. Ond’egli non accetterà più l’obbligo della scuola:
di giurare, cioè, che Aristotele nei fondamenti non può
mai sbagliare; ché anzi egli desidera proprio di spiantare
Aristotele e l’aristotelismo fin nelle radici.
Fu allora, per opera di quei pedantissimi ricercatori di
antiche storie, che si conquistò un uguale distacco dal-
la fisica d’Aristotele e dal cosmo di Tolomeo, e ci si li-
berò d’un tratto della loro opprimente chiusura. Per-
ché è vero che fisici e logici di Oxford e di Parigi aveva-

fol. 113v.). Cfr. anche H. BARON, Aulus Gellius in the Re-


naissance and a Manuscript from the School of Guarino, «Studies
in Philology», 48, 1951, pp. 107-25.

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Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

no da tempo cominciato a rodere dentro quelle struttu-


re, che scricchiolavano parecchio dopo il terribile crol-
lo dato da Occam10 . Ma solo la conquista del senso del-
l’antico come senso della storia – propria dell’umanesi-
mo filologico – permise di valutare quelle teorie per ciò
che esse erano davvero: pensamenti d’uomini, prodot-
ti di una certa cultura, resultati di parziali e particolari
esperienze: non oracoli della natura o di Dio, rivelati da
Aristotele o Averroè, ma immagini ed escogitazioni uma-
ne. Conviene rileggere il libro dodicesimo delle discus-
sioni astrologiche del Pico, e quel suo preciso determina-
re la genesi storico-psicologica del nascere e del diffon-
dersi dell’astrologia. Storicizzando a quel modo l’errore
egli veniva in pari tempo, e con non minore acume, sto-
ricizzando il sapere umano. E senza volerlo, e quasi sen-
z’accorgersene, suo nipote Gian Francesco nella spietata
demolizione che venne facendo di tutte le teorie filosofi-
che dell’antichità, mostrandone i limiti e i rapporti, riu-
scì per opposta via e con opposte intenzioni a ribadire
la concezione dello zio11 . O che si sottolineasse l’infini-
to cercare in quello che ha di perennemente insoddisfat-
to, o che si appuntasse lo sguardo sulla positività di una
continua conquista, fino a convertire un’esigenza in una
certezza, si veniva comunque acquistando il senso della
storia umana.

10
Cfr. in proposito gli studi di A. MAIER, An der Grenze
von Scholastik und Naturwissenschaft, Roma, 19522 ; Die Vor-
läufer Galileis im 14. Jahrhundert. Studien sur Naturphilosophie
der Spätscholastik, Roma, 1949: Zwei Grundprobleme der scho-
lastichen Naturphilosophie, Roma, 19512 ; Metapysische Hin-
tergründe der spätscholastischen Naturphilosophie, Roma, 1955;
Zwischen Philosophie und Mechanik, Roma, 1958.
11
Nell’Examen vanitatis doctrinae gentium.

Storia d’Italia Einaudi 11


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

4. Umanesimo e platonismo

Al qual proposito conviene osservare che la stessa pre-


ferenza per Platone, così costante nelle posizioni umani-
stiche, significò, certo, anche un moto polemico di rivol-
ta, e fu, spesso, un’insegna di partito. Ma in profondità
indicò una direzione verso un mondo aperto, disconti-
nuo e contraddittorio, dai volti innumerevoli e cangian-
ti, ribelle ad ogni sistemazione, a cui ci si deve avvicinare
in una ricerca perenne, che non ha paura delle incoeren-
ze apparenti, ma che è mobile sottile e varia fino a po-
ter rispecchiare l’infinita varietà delle cose; che rifiuta le
articolazioni rigide di una logica statica inette a cogliere
la plastica mobilità dell’essere, eppur le fa sue, quando
convenga, per sottolineare la pigrizia di ogni stasi. Pla-
tone conciliante, pacificatore con la sua possibilità di in-
terpretazioni divergenti, non indicò una debolezza spe-
culativa, ma la consapevolezza che i termini di ogni alter-
nativa si escludono nella misura stessa in cui si invocano.
Le parventi contraddizioni dei dialoghi svelavano quan-
to l’occhio acuto di Platone «divino» avesse afferrato le
contraddizioni della realtà.
Proprio perché filosofia di tutte le aperture e di tutte
le convergenze, meditazione morale di una vita percor-
sa dalla speranza, eppur guardinga sui confini del mito,
piuttosto umano dialogo che non trattato, esasperazione
problematica erosiva di ogni sistema, anche se compren-
siva delle sistemazioni; per tutto questo la filosofia di Pla-
tone fu al centro di una cultura che rifiutava le antiche si-
curezze, che respingeva un mondo chiuso ordinato fisso;
che si trovava in una crisi storica ove le venerande unità
andavano in frantumi, il mondo e i rapporti umani cam-
biavano. I dialoghi pieni dell’enigmatica figura di Socra-
te, del suo così sottile cercare, ov’è ugualmente presen-
te la certezza più salda e l’urgere del problema; i dialo-
ghi così umani, così mondani e sociali, eppur divinissimi,

Storia d’Italia Einaudi 12


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ove la speranza si alterna al rimpianto di ciò che dovreb-


be essere e forse non sarà mai; ove non sai se la «terra
lontana» si perda nel ricordo del bene tradito o s’annun-
ci nell’aspettazione di una salvezza; ove la filosofia è in-
namoramento e passione e vista acuta di mirabili forme
disegnate oltre gli aspetti sensibili, ma insieme logica sot-
tilissima, e discussione dei molti sistemi logici possibili:
tutti questi furono i chiari motivi per cui temperamen-
ti diversissimi come un Valla e un Ficino, un Poliziano
e un Pico, un Bruno e un Patrizi venerarono il «divino»
Platone e lo contrapposero a quella «bestia» di Aristote-
le. Essi sapevano benissimo, e lo dichiararono con estre-
ma chiarezza, che Aristotele molto spesso non aveva fat-
to che cristallizzare ed esasperare con rigorosa coerenza
temi platonici. Ma la loro lotta era proprio contro que-
sta cristallizzazione. La quale, per citare solo un esem-
pio, nell’astronomia aveva trasformato una elegantissima
costruzione geometrica nella teoria fisica delle sfere cele-
sti. Così, a un certo momento, dire Platone significò so-
prattutto spazzare l’oppressivo mondo aristotelico, chiu-
so, gerarchico, finito, e conquistare contro tutte le siste-
mazioni uno spirito nuovo di ricerca, spregiudicato e ve-
ramente libero, mentre il tema ubi spiritus, ibi libertas, si
incontrava con il nuovo programma iuvat vivere.

5. Le origini dell’umanesimo

Il tema del «ritorno a Platone» richiama qui un vecchio


e sempre nuovo equivoco, e cioè l’idea che l’umanesimo
sia stato determinato e caratterizzato dalla conoscenza di
nuovi testi classici prima ignorati; la lettura di Cicerone,
di Lucrezio e di Seneca, di Platone e di Plotino avrebbe
rinnovato la cultura; un aumento quantitativo di letture
classiche si sarebbe trasformato in un salto qualitativo.
Che è appunto il presupposto di quei dotti storici che

Storia d’Italia Einaudi 13


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

vanno spulciando testi e traduzioni medievali, e centoni e


florilegi e citazioni, e via via scoprono che il primo secolo
dell’umanesimo è, non già fra il ’300 e il ’400 in Italia,
ma il ’200, o, anzi, il secolo XII, e l’età di Alcuino e la
corte carolingia12 . Ora, mentre era necessario, e proprio
per intendere la peculiarità del Rinascimento, dissipare
il mito dei secoli barbari, e mostrare le radici polemiche
del tema della barbarie medievale, non per questo era
legittimo dimenticare che la questione non riguardava i
contenuti, ma le forme di una cultura.

12
È inutile ripetere qui quanto espone lungamente il Fergu-
son nell’opera sopra citata. Ma cfr. anche di F. SIMONE,
La coscienza della Rinascita negli umanisti francesi, Roma, 1949
e La «reductio artium ad Sacram Scripturam» quale espressio-
ne dell’umanesimo medievale fino al secolo XII, «Convivium»,
1949, pp. 887-927. Sul XII sec. cfr. W. A. NITZE, The so
called Twelfth Century Renaissance, «Speculum», XXIII, 1948
pp. 464-71; e sono da leggersi le conclusioni di HANSLIE-
BESCHÜTZ, Mediaeval Humanism in the Life and writings of
John of Salisbury, London, 1950, p. 94: «his thought... was de-
termined on the whole by traditional forms of ecclesiastical li-
terature... His humanistic outlook, for which antiquity was a
kind of picture book: illustrating the types of twelfth-century
life seems... to have been intimately connected with the archaic
stage of European systematic thougth». Ugualmente negativi
sono, in fondo, i dotti e accurati studi di R. WEISS, The Dawn
of Humanism in Italy, London, 1947 e Il primo secolo dell’uma-
mesimo, Roma, 1949, che mostrano con assoluta evidenza co-
me «quel primitivo umanesimo, non resultante né da una rea-
zione a una forma di speculazione filosofica, né da un consape-
vole desiderio di una renovatio studiorum o da una speranza di
un’età d’oro», non fosse in sostanza niente affatto parente del-
l’umanesimo rinascimentale, ma «spontaneo e naturale svilup-
po degli studi classici così come erano coltivati durante il tar-
do Medioevo». L’onesta conclusione del Weiss, che non toglie
nulla all’utilità di cosiffatte preziose ricerche, ricolloca nella sua
giusta luce lo stacco netto della nuova forma di cultura, che è
davvero una nuova visione della vita.

Storia d’Italia Einaudi 14


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Bisognava senza dubbio ricordare che il Medioevo


leggeva i classici, li traduceva; sapeva il greco, almeno
in certi tempi e luoghi; aveva interessi naturalistici, e così
via. Bisognava rendersi conto che, sì, il Medioevo, niente
affatto tenebroso e barbaro, ma pieno di luci di luci di
civiltà e di grandezza di pensiero, si cibò dell’antichità e
la fece propria. Solo che il problema più grave è altrove,
e cioé nella determinazione positiva di modi e toni e
forme diverse di vita e di cultura.
Meglio si conosce il Medioevo, e più si vede quanto
nella sua cultura si prolungasse la cultura antica. Mo-
di d’insegnamento, vedute e dottrine sopravvivono va-
riamente. Se il mondo classico ha esaurito la sua linfa vi-
tale, rimangono i suoi echi consegnati a compilazioni e a
manuali, fissati in moduli scolastici. Il cristianesimo non
sostituì affatto – come voleva Tertulliano – il Portico di
Atene con i templi di Gerusalemme. Atene e Roma vivo-
no nelle scuole; non nelle dottrine di Platone o di Aristo-
tele o di Lucrezio, ormai così lontane, e troppo alte e so-
lenni, ma nelle espressioni di una sapienza stanca, con-
segnata a modesti compendi. Non i dialoghi platonici, o
la metafisica aristotelica, ma Porfirio o compilazioni da
Porfirio. Così i vecchi libri di scuola trasmettono le cri-
stallizzazioni estreme della cultura antica all’insegnamen-
to medievale; e sono questi i libri innanzi a cui un reve-
rente atteggiamento limita l’opera del maestro alla chio-
sa, all’ossessivo e torturante commento, il quale deve so-
lo svelare la verità chiusa nella pagina investita dal carat-
tere sacro proprio della parola scritta. Si insinuerà ma-
gari una glossa nel testo, si correggerà ad arbitrio il te-
sto; quel che importa non è sapere ciò che storicamente
è vero, ma l’unica Verità in qualche modo esistente alla
radice dello scritto. Proprio perché il testo scritto da chi
ha autorità si pone esso stesso come oggetto unico di co-
noscenza, dispensando dalla ricerca diretta, ogni sforzo
di approfondimento si appunta a scavare la verità nello

Storia d’Italia Einaudi 15


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

scritto, che non è più un documento umano, ma un ora-


colo a cui va strappato il senso segreto. Un autore del se-
colo X ci spiega come si risolve una difficoltà diagnosti-
ca: si va a Chartres e si leggono gli Aforismi di Ippocra-
te; e se non bastano, si leggono i commenti di Galeno, e
poi i commenti di Sorano, e così via via i commenti dei
commenti13 .
La stessa teoria della «doppia verità» si ricollega in
parte a un atteggiamento mentale del genere: il libro d’A-
ristotele è la rivelazione della verità naturale; il filosofare
prescinde dal riferimento diretto al reale, e si limita a in-
tendere la pagina dell’Autore. Mentre, a sua volta, la ve-
rità è così staccata dalla personalità storica di un filoso-
fo, che importa pochissimo il veicolo terreno attraverso il
quale si è manifestata. Non importa l’uomo, quell’uomo:
importa un pensiero, a cui il mutar nome è meramente
accidentale. Di qui le strane attribuzioni, e gli anonimi,
scomparendo il singolo nell’opera sua o nel frutto di una
collettività. Ov’è la grandezza e il limite di tutta una cul-
tura: ma dov’è un carattere che va tenuto ben presente
per capire la vibrazione con cui Valla dinanzi alla paro-
la, al verbum, richiama al fatto che ci troviamo innanzi
a un puro mezzo di comunicazione, cosa certo grandis-
sima, ma umana. Onde la logica, la dialettica, va ricon-
dotta dai cieli della teologia ai piani della retorica e del-
la grammatica, sul più umile terreno dei rapporti mon-
dani. Né diversamente Guarino, all’inizio del suo cor-
so di retorica, ricordava come retorica e dialettica fosse-
ro scienze mondane. Ed Ermolao Barbaro nella prolu-
sione al suo corso su Aristotele, che teneva in Padova al
sorger del sole, sentiva il bisogno di dire esser suo scopo
far entrare Aristotele come viva persona in un colloquio

13
RICHER, Histoire de France (888-995), éd. R. Latouche,
Paris, 1930-37, II, pp. 224-31.

Storia d’Italia Einaudi 16


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

umano: ut cum ipso vivo et praesente loqui videamur. Un


uomo vivo e presente, amato nei suoi limiti.

6. Umanesimo e antichità classica

Proprio l’atteggiamento assunto di fronte alla cultura del


passato, al passato, definisce chiaramente l’essenza del-
l’umanesimo. E la peculiarità di tale atteggiamento non
va collocata in un singolare moto d’ammirazione o d’af-
fetto, né in una conoscenza più larga, ma in una ben de-
finita coscienza storica. I «barbari» non furono tali per
avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella
verità della loro situazione storica. Gli umanisti scopro-
no i classici perché li distaccano da sé, tentando di defi-
nirli senza confondere col proprio il loro latino. Perciò
l’umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano es-
si Virgilio o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: per-
ché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo, e
ha cercato di spiegare Aristotele nell’ambito dei proble-
mi e delle conoscenze dell’Atene del quarto secolo avanti
Cristo. Onde non può né deve distinguersi, nell’umane-
simo, la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uo-
mo, perché furon tutt’uno; perché scoprir l’antico come
tale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in
rapporto con esso. Significò tempo e memoria, e sen-
so della creazione umana e dell’opera terrena e della re-
sponsabilità. Ché non a caso i maggiori umanisti furo-
no in gran numero uomini di Stato, uomini attivi, usi al
libero operare nella vita pubblica del tempo loro.
Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscien-
za fu l’accendersi di una discussione critica innanzi ai do-
cumenti del passato che, indipendentemente da ogni re-
sultato specifico, permise di stabilire una nostra distanza
rispetto a quel passato: quei settecento anni di tenebre –
tanti ne contava Leonardo Bruni – in cui ottenebrato era

Storia d’Italia Einaudi 17


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la consa-


pevolezza della storia come farsi umano. Quel punto di
crisi si concretò e prese dimensioni precise appunto nel-
la «filologia» umanistica, che è consapevolezza del pas-
sato come tale, e visione mondana della realtà e umana
spiegazione della storia degli uomini.
Quando apriamo le «miscellanee» del Poliziano, subi-
to, nel primo capitolo, ci viene innanzi «Endelechia», l’a-
nima: ma non si tratta della Dea cantata nel secolo XII da
Bernardo Silvestre, o variamente entificata nei commen-
tarî dei platonici; e neppure si discute dell’unità dell’in-
telletto possibile, e dei suoi rapporti con l’individuo. La
questione è di vocaboli: entelecheia o endelecheia? mo-
vimento perenne o atto perfetto? Poliziano con estrema
lucidezza, con le testimonianze classiche alla mano, illu-
stra due concezioni dell’anima, Platone in rapporto ad
Aristotele, ciò che importano le diverse premesse, il pen-
siero che si è definito in quei vocaboli. Noi vediamo il
generarsi di due teorie, il loro rapporto storico: noi af-
ferriamo il senso di un momento della storia della filoso-
fia.
Apriamo, di Valla, il famoso capitolo trentottesimo del
sesto libro delle Eleganze: si discute del termine persona,
e in una discussione grammaticale, ridotta persona a qua-
lità, si taglia con rasoio occamistico una grave questio-
ne teologica. Né a caso il Valla rimanda alla sua «dialet-
tica», che è riduzione rigorosa della filosofia da teologia
ad analisi delle strutture del pensiero quali si rivelano nel
discorso.
Apriamo le Annotazioni a Nuovo Testamento e leg-
giamo: «non esistono parole di Cristo, il quale parlò in
ebraico e non scrisse nulla». E riferendosi all’osserva-
zione di san Girolamo sulla corruzione dei codici biblici:
«se dopo soli quattrocento anni il fiume si era così intor-
bidato, che meraviglia se dopo mille anni, quanti ne cor-

Storia d’Italia Einaudi 18


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

rono da san Girolamo a noi, questo fiume, mai purgato,


trascina fango e detriti?».
Mentre i testi più venerabili sono affrontati nella loro
realtà storica, mentre le carte degli antichi privilegi sono
sottoposte al vaglio di una critica demolitrice, delle con-
cezioni del cosmo che sembravano ugualmente intangi-
bili si vanno rintracciando le basi in vecchie superstizioni
e in lontani errori. Poliziano sorride perfino del codice
delle Pandette mostrato in cappella a Palazzo Vecchio a
lume di candela: quelle pergamene sono per lui un pro-
blema storico: sono sacre solo nella misura in cui è sacra
ogni opera umana valida, destinata non a chiudere per
sempre, ma ad aprire le vie degli uomini.
Questo è il senso della «filologia» umanistica: e ben
si capisce che questi uomini fossero pedantissimi, sensi-
bili come erano alla fecondità di un metodo. Perché v’è
tanto commovente amore in quel desiderio esasperato di
recuperare quanti più ricordi è possibile dell’umana fati-
ca. Poliziano innanzi a un verso di Teocrito o di Stazio
vuol ritrovare ogni sapore, ogni allusione14 . Poiché la ve-
rità aperta agli uomini è tutta in quest’opera, in questo
poieîn infaticabile, in questo nostro mondo: ed afferrar-
ne il senso è conquistare il senso di noi, dei nostri limi-
ti, come delle nostre possibilità. Innanzi alle sue «miscel-
lanee» Poliziano ha scritto pagine che non costituiscono
solo una grande lezione di umanità: esse definiscono un
metodo valido in ogni campo di indagine. Si capisce, leg-
gendole, perché il Rinascimento non fu solo tempo d’ar-
tisti, ma anche di scienziati, di Toscanelli e di Galileo;
si capisce perché gli sterili, anche se sottilissimi dibattiti
dei fisici e dei logici medievali si fecero fecondissimi so-
lo dopo la nuova lezione, che pur sembrava così lonta-

14
Cfr. Laur, XXXII, 46 (Teocrito), Magliab. VII, 973
(commento a Stazio).

Storia d’Italia Einaudi 19


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

na nel suo significato15 . Si capiscono i medici nuovi usci-


ti dalle scuole di filologia; e innanzi a quella rigorosissi-
ma, e vorrei dir spietata istanza critica, si capisce il dub-
bio di Cartesio. E si capisce anche perché, per circa due
secoli, la cultura italiana dominasse l’intera Europa, e l’I-
talia potesse sembrare terra feracissima di innumerevoli
ingegni filosofici16 .

15
Cfr. E. CALLOT, La Renaissance des Sciences de la vie
au XVI.me siècle, Paris, 1951, p. 14 sgg. Il Callot deve
constatare, senza capirne la ragione, questa funzione positiva
dell’umanesimo; ma la ragione è chiara a chi abbia mente
a comprendere, e va ricercata in una «educazione» e nella
conquista di un metodo, di una logica.
16
Cfr. il curioso e importante testo del Naudé pubblicato
dal Croce nei «Quaderni della Critica», 10 marzo 1948, pp.
116-17. (A proposito delle questioni generali sopra discusse
sono ora da vedere: B. L. ULLMAN, Studies in the Italian Re-
naissance, Roma, 1955; G. SARTON, The Appreciaton of An-
cient and Medieval Science during the Renaissance, 1450-1600,
Philadelphia, 1955; C. DIONISOTTI, Discorso sull’umanesi-
mo italiano, Verona, 1956. Sul problema della periodizzazione
fondamentale è la relazione di D. CANTIMORI, La periodiz-
zazione dell’età del Rinascimento nella storia d’Italia e in quella
d’Europa, X Congresso Int. di Scienze Storiche, 1955, Relazio-
ni, vol. IV, Firenze, 1955, pp. 307-334. Una messa a punto di
alcuni aspetti della discussione si trova nei due scritti di W. K.
FERGUSON, Italian Humanism: Hans Baron’s Contribution,
e di H. BARON, Moot Problems: Answer to Ferguson, usciti
nel «Journal of the History of Ideas», 19, 1958, pp. 14-34).

Storia d’Italia Einaudi 20


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

LE ORIGINI DELL’UMANESIMO

DA FRANCESCO PETRARCA A COLUCCIO SALU-


TATI

1. Lettere umane e vita civile

«Francesco Petrarca fu il primo il quale ebbe tanta gra-


zia d’ingegno, che riconobbe e rivocò in luce l’antica leg-
giadria dello stilo perduto e spento». Così Leonardo
Bruni nella sua vita del Petrarca, che è del 1436, con-
sacrando quello che fu, tra gli umanisti, diffuso giudi-
zio: essere stata l’opera di Messer Francesco l’aurora
del nuovo giorno spuntato dalla barbarie e dalla tenebra
medievale17 . Coluccio Salutati menzionerà spesso anche
Albertino Mussato, cui fu caro il pensiero classico, e che

17
LEONARDO BRUNI, Vita di Messer Francesco Petrar-
ca, ap. PHILIPPI VILLANI Liber de civitatis Florentinae fa-
mosis civibus... cura et studio G. C. Galletti, Florentiae, 1847,
p. 53; JULII CAESARIS SCALIGERI Poetices libri VII, VI,
I (Apud Petrum Santandreanum, 1594, p. 765): «de integro re-
diviva novam sub Petrarcha pueritiam inchoasse... visa est»; G.
J. VOSSII De historicis latinis, Lugd. Batav. 1651, p. 524. Il
che non esclude, in molti, l’idea che le «tenebre» fossero dura-
te meno, e cioè solo tre secoli, fino alla venuta di Carlo Magno.
Domenico Silvestri, amico del Salutati, autore di un De insulis
et earum proprietatibus (ed. C. Pecoraro, Palermo, 1955, «Atti
d. Acc. Science, Lettere e Arti», s. IV, vol. 14, 1953-54; sul S.
cfr. P. G. RICCI, Per una monografia su D. S., «Annali Scuola
Normale Sup. Pisa», 1950, pp. 13-24; R. WEISS, Note per una
monografia su D. S., ivi, pp. 198-201), in un’epistola a Giulia-
no Zonarini (ms. Naz. Firenze, II, IV, 109, f. 79 v) «cum Flo-
rentia tribus seculis latuisset». Non diversamente Donato Ac-
ciaiuoli nella vita di Carlo Magno (ms. Naz. Firenze, II, II, 10).
Filippo Villani riporta a Dante il merito di aver tratto le lette-

Storia d’Italia Einaudi 21


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

discusse sul tema diffuso della fortuna18 . Ma il padre ve-


race della nuova devozione per la humanitas classica fu,
agli occhi di tutti, il Petrarca. Il quale si avvicinò alle let-
tere, agli studia humanitatis, con la consapevolezza del
loro significato, del valore che per l’umanità intera aveva
una educazione dello spirito condotta nel colloquio assi-
duo con i grandi maestri del mondo antico. Essi soli, in-
fatti, hanno inteso a pieno che cosa significhi la cultura
dell’anima raggiunta attraverso lo studio dei prodotti più
alti dello spirito umano.
In una delle sue lettere familiari Petrarca viene mo-
strando in che modo eloquenza, ossia disciplina lette-
raria, e filosofia, ossia cura dell’anima, si congiungano
strettamente. È il discorso, il sermo, che, esprimendosi,
dà la misura propria e dell’animo da cui deriva. «Non

re ex abysso tenebrarum. In realtà si viene presto distinguendo


fra rinascita politica e della cultura teologica, e risveglio degli
studia humanitatis, come fisserà ormai nettamente Raffaele da
Volterra nei Commentarii urbani dedicati a Giulio II. La «co-
scienza della rinascita», divenuta nel ’400 italiano un luogo co-
mune retorico, passò poi in Francia (cfr. F. SIMONE, La co-
scienza della Rinascita negli umanisti francesi, Roma, 1949, e le
osservazioni di chi scrive in «Rinascimento». 1950, pp. 91-97).
18
Sul De lite naturae et fortunae (ms. nella Bibl. Colombina
di Siviglia, 5, I, 5; ms. B. P. 2531 della Bibl. Civica di Pado-
va) cfr. le Giunte e correzioni dello ZIPPEL alla versione ita-
liana del VOIGT, Il risorgimento dell’antichità classica, Firen-
ze, 1888-1897; A. MOSCHETTI, Il «de lite inter naturam et
fortunam» e il «contra casus fortuitos» di A. M., «Miscellanea di
studi critici... in onore di V. Crescini», Cividale del Friuli, 1927,
pp. 567-90; G. BILLANOVICH-G. TRAVIGLIA, Per l’e-
dizione del «de lite inter naturam et fortunam» e del «contra ca-
sus fortuitos» di A. M., «Boll. Museo Civico di Padova», XXXI,
XLIII, 1942-54. Al Mussato il Salutati univa Geri d’Arezzo; su
questi «preumanisti» cfr. R. WEISS, The Dawn of Humanism
in Italy, London, 1947, e Il primo secolo dell’umanesimo, Roma,
1949.

Storia d’Italia Einaudi 22


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

piccolo indice dell’animo è il discorso», che, venendo al-


la luce, sottoponendosi al controllo altrui, accetta una
disciplina e rivela un atteggiamento. «Né il discorso può
aver dignità, se l’animo non la possiede», mentre, d’altra
parte, l’uscire con la parola tra gli uomini dà all’interiori-
tà misura e senso concreto. «Se, infatti, le nostre passio-
ni prima non si armonizzino, è necessario che contrasti-
no anche costume interiore e parole. Ma un’anima ben
disposta, quasi fosse su un’altura serena, rimane sempre
calma e tranquilla... E se anche non è esperta nei leno-
cinî dell’arte oratoria, esprime parole magnifiche e chia-
re, consone a sé». Interno ed esterno, mente e discorso,
si connettono indissolubilmente. Né vale esaltare un in-
timo solitario parlare dell’uomo con sé. Noi dobbiamo,
se vogliamo essere uomini, comunicare con gli uomini.
«Noi dobbiamo adoprarci per giovare a coloro con cui
viviamo; e nessuno può dubitare che alle anime loro pos-
siamo sommamente giovare con le nostre parole». E non
tanto per il contenuto moralistico di un sermone, quan-
to per la potenza elevatrice del colloquio umano. Il qua-
le ci conglunge oltre il tempo e lo spazio, oltre i deserti e
i millenni, e plasma e placa le nostre menti19 .
Né ci turbi il pensiero dell’oblio in cui cadrà l’opera
nostra, o della vanità sua, o del fatale trascorrere di tutte
le cose. «Scorrano gli anni a mille a mille; si aggiungano
i secoli ai secoli; mai si loderà la virtù a sufficienza, o
si esalterà abbastanza l’amore di Dio, o si combatterà
il vizio. Mai l’acume della mente troverà preclusa la
strada a nuove indagini. Stiamo perciò di buon animo;
la nostra fatica non sarà vana. Né faticheranno invano
coloro che, fra lungo volgere d’anni, si apriranno alla vita
nel crepuscolo del mondo». Ceterorum ominum charitas,
la carità del prossimo – ecco, per Petrarca, lo stimolo

19
PETRARCA, Familiar. rer., I, 9 (ed. ROSSI-BOSCO,
vol. I, Firenze, 1933, p. 45 sgg.).

Storia d’Italia Einaudi 23


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

e il fine degli studia humanitatis, ed il prossimo è con


noi, idealmente, anche nel ritiro della nostra solitudine,
quando le parole più solenni degli antichi saggi suonano
familiari e amiche, non solo nel cuore, ma sulle labbra,
a svegliare l’animo dormiente (voces familiares ac nolae,
non modo corde conceptae, sed etiam ore prolatae, quibus
dormitantem animum excitare soleo).
Due dei più caratteristici motivi dell’umanesimo sono
qui evidenti: il valore delle lettere umane e il carattere
sociale di una verace umanità. Altrove, scrivendo a un
amico che aveva manifestato il proposito di darsi alla vi-
ta monastica, noi vediamo Petrarca svolgere largamente
il tema del valore della vita attiva20 . E lo vediamo citare
uno dei testi ciceroniani che saranno più cari alla lettera-
tura moralistica del ’400: «niente v’è in terra di più gradi-
to a quel Dio che governa tutto questo mondo, degli uo-
mini riuniti nel vincolo sociale... Per tutti coloro che ab-
biano conservato, accresciuto, aiutato la patria, è pronto
in cielo il luogo ove beati godranno in eterno». Né que-
sto, come potrebbe sembrare, è in contrasto con le lo-
di della solitudine. È necessario, innanzitutto, ritrovare
se stessi, riscoprire in sé la propria umanità per ritrovar-
si insieme uomini tra uomini. La carità di patria e l’amor
del prossimo non contrastano, anzi si connettono stretta-
mente, con questa educazione interiore, che è la premes-
sa di ogni feconda attività terrena. Perciò il viaggio, che
in Petrarca durò tutta una vita, alla scoperta dell’anima
propria, fu insieme la conquista di un più solido legame
con gli altri uomini. In nome del quale egli vibrò d’en-
tusiasmo patriottico all’appello lanciato in Roma da Co-
la di Rienzo, per una renovatio della «sacra Italia». An-
che se egli era alienissimo dai sogni gioachimiti e dalle
mistiche speranze nel prossimo avvento della terza età di
cui invece andava inebbriandosi il tribuno. Differenza,

20
PETRARCA, Familiar. rer., III, 12 (vol. I, pp. 128-131).

Storia d’Italia Einaudi 24


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

questa, essenziale, di cui va tenuto conto nel paragona-


re l’opera di Cola con la posizione di Petrarca, vagheg-
giante, non più i sogni profetici dell’Evangelo eterno, ma
l’umanità completa degli Scipioni e dei Cesari21 .

2. L’analisi della vita interiore

Ritirarsi in solitudine significava per Petrarca ritrovare


tutta la ricchezza della propria interiorità, ritrovare il
contatto con Dio, aprirsi la strada a un valido contatto
col prossimo. La solitudine non era monastico ritiro in
barbaro isolamento, ma iniziazione a una società più ve-
ra, a una charitas effettiva. L’appello all’interiorità che
Petrarca rinnova in termini agostiniani non suona iso-
lamento, ma esaltazione del mondo umano, del mondo
dei valori e dell’azione, del linguaggio e della società che
congiunge oltre il tempo e lo spazio, oltre ogni limite.
La celebre epistola a frate Dionigi da Borgo San Sepol-
cro, ove descrive l’ascesa sul monte Ventoso, è la presen-
tazione vivissima di questa conversione dalla natura al-
lo spirito, necessaria premessa per una nuova valutazio-
ne del regno dello spirito. «E come Antonio, udite que-
ste parole, più non cercò; come Agostino, dopo tale let-
tura, non andò più oltre; così io in queste brevi frasi si-
lenziosamente riflettendo compresi tutta la stoltezza del-
l’uomo che, trascurato ciò che possiede di più nobile, si

21
I testi in K. BURDACH, Rienzo und die geistige Wand-
lung seiner Zeit, Berlin, 1913-28. Per la Vita Caesaris e l’idea-
le dell’uomo completo è da vedere R. DE MATTEI, Il senti-
mento politico del Petrarca, Firenze, 1944, p. 103 e sgg. Sul-
la composizione dello scritto cfr. anche G. MARTELLOTTI,
Petrarca e Cesare, «Annali Scuola Normale Sup. di Pisa», 1947,
pp. 149-158 (su alcuni aspetti dell’opera di Cola v. JOSEF
MACEK, Racines sociales de l’insurrection de Cola di Rienzo,
«Historica», VI, Praha, 1963, pp. 45-107).

Storia d’Italia Einaudi 25


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

disperde nelle molte cose esterne, e quasi svanisce nelle


parvenze del mondo esteriore, cercando fuori quello che
dentro di sé già possedeva». Il monte che prima s’innal-
zava altissimo sembra ben misera cosa; «ne guardai la ci-
ma – esclama il poeta – e più non raggiungeva un cubito
confrontata all’abissale profondità della contemplazione
umana»22 .
La ricchezza di Petrarca è forse tutta qui, nell’insi-
stenza su queste esperienze fondamentali con cui l’uomo,
stracciato il velo dell’interiore illusione che lo chiude a se
stesso, si ritrova nella propria miseria e nella propria no-
biltà. Ed eccolo indugiare particolarmente sul pensiero
della morte, esortando gli uomini a riconoscere se stes-
si nella seria meditazione della propria morte. «Nessuno
crede alla propria morte» – esclama in una lettera; e al-
trove descrive il suo andar raffigurando l’agonia, e lo sfa-
celo del corpo, e il dolore, e lo spengersi atroce di ogni
vigore. «Te a te medesimo restituisci;... straccia i veli,
e dischiuse le tenebre ficca in quella gli occhi, e guarda
che non passi alcun dì, né alcuna notte, la quale non ti
porga la memoria dell’estremo tempo». Che è, non tan-
to ascetica rinuncia, quanto restituzione di sé a se stes-
so. Poco prima Petrarca aveva esaltato la gloria. Solo
che l’uomo, per vivere in sincera umanità, deve cogliere
se medesimo nella sua verità, ricordandosi sempre della
sua condizione23 .
Comunque il problema di Petrarca è questo; la sua fi-
losofia, profondamente avversa alle vuote dispute delle

22
PETRARCA, Familiar. rer., IV, I (vol. I, p. 153 e
sgg.). Su Dionigi e la celebre lettera (del 26 aprile 1336) v. U.
MARIANI, Il Petrarca e gli agostiniani, Roma, 1946, p. 31 sgg.,
p. 41 (Dionigi aveva anche commentato Valerio Massimo)
23
PETRARCA, Familiar. rer., VIII, 4 (vol. II, p. 164):
«nemo est qui se moriturus credat». L’Autobiografia, il Secreto
e Dell’ignoranza sua e d’altrui, a cura di Angelo Solerti, Firenze,
1904, p. 170.

Storia d’Italia Einaudi 26


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

scuole, è indagine sulla vita degli uomini. L’amico suo


Bonsembiante Badoer, muovendosi per entro gli schemi
dell’ultima scolastica, aveva riconosciuto il fallimento cui
andava incontro lo sforzo di un millennio. Non sappia-
mo se nei «lunghi colloqui», cui accenna il poeta, comu-
nicasse all’amico i resultati della propria ricerca24 . Cer-
to è che il Petrarca si mostrò sempre fieramente avverso
alla filosofia ufficiale di Padova, di Bologna e di Parigi,
tutta impegnata nei problemi logici e fisici che il tardo
nominalismo andava esasperando. La sua crudele con-
danna dell’indagine naturalistica, della medicina, della
scienza averroistica, significava richiamo alle scienze del-
lo spirito, all’indagine intorno all’anima ed alla vita uma-
na. «Costui molte cose sa delle belve, degli uccelli e dei
pesci, e ben conosce quanti crini il leone abbia sul capo,
e quante penne nella coda lo sparviero, e con quante spi-
re il polipo avvolga il naufrago; ...come la fenice, abbru-
ciata da fuoco aromatico, quindi rinasca, e il riccio fermi
una nave spinta a qualsiasi velocità, ma tratto dall’acqua
perda ogni potere... Cose, tutte, in gran parte... false; ma
quand’anche fossero vere, a nulla servirebbero per la vita
beata. Io infatti mi domando a che giovi il conoscere la
natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpen-
ti, ed ignorare o non curar di sapere la natura dell’uomo,
perché siam nati, donde veniamo, dove andiamo»25 .

24
PETRARCA, Seniles, XI, 14.
25
PETRARCA, Dell’ignoranza sua e d’altrui, pp.
272-73. [Sulla polemica del Petrarca, sui suoi «amici»,
sull’«averroismo», cfr. P. O. KRISTELLER, Petrarca’s
«Averroists». A Note on the History of Aristotelians in Veni-
ce, Padua and Bononia, «Mélanges Augustin Renaudet», «Bibl.
Humanisme et Renaissance», IV, 1952, pp. 59-65; ID., Il Pe-
trarca, l’Umanesimo e la Scolastica a Venezia, nel vol. La civiltà
veneziana del Trecento, Firenze, 1956, pp. 147-8; B. NARDI,
Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, nel vol. La
civiltà veneziana nel Quattrocento, Firenze, 1957, pp. 101-45].

Storia d’Italia Einaudi 27


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Alla vana ricerca intorno alla natura delle cose Petrar-


ca oppone recisamente l’indagine umana, una umile filo-
sofia degli uomini e della città terrena da loro edificata.
Il mondo di Dio è chiuso con sette sigilli alla mente fi-
nita, ed è empio e fuori luogo volerlo penetrare. «I se-
greti della natura, i ben difficili misteri di Dio, che noi
accettiamo con umile fede, costoro con superba iattanza
si sforzano di comprendere, ma non li raggiungono, né
ad essi neppur si avvicinano; gli stolti credono di strin-
gere nel loro pugno il cielo, contenti della loro falsa opi-
nione par loro realmente di stringerlo, felici nell’errore;
né da tanta pazzia vale a ritrarli l’assurdità dell’impresa,
così bene espressa dalle parole dell’Apostolo ai Roma-
ni: Chi conosce gli arcani di Dio? Chi fu a parte de’ suoi
consigli?»26 .

3. La polemica contro le scienze della natura

Fu appunto questa esigenza di una indagine umana,


morale, quella che alimentò la insistente polemica pe-
trarchesca contro le scienze della natura, che si preci-
sò nell’implacabile avversione contro i medici, in quan-
to la medicina significava conoscenza e cura dei corpi.
Nell’Invectiva contra medicum quendam, che avrà un’eco
non piccola nella disputa quattrocentesca intorno al rap-
porto fra scienze della natura e scienze dello spirito, Pe-
trarca esclama vivacemente: «Fai il tuo mestiere, mecca-
nico, ti prego, se ci riesci; cura i corpi se puoi, e altrimenti
uccidi e fatti pagare la mercede del tuo delitto... Ma co-
me potresti osare con inaudito sacrilegio di subordina-
re la retorica alla medicina, la padrona alla serva, un’ar-

26
PETRARCA, loc. cit., p. 289.

Storia d’Italia Einaudi 28


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

te liberale a un’arte meccanica?»27 . E suona commento a


questa invettiva l’altra affermazione delle Senili: «compi-
to vostro è la cura dei corpi; lasciate ai veri filosofi e agli
oratori la cura e la educazione delle anime»28 .
In Cicerone e in Platone, conosciuto piuttosto per fa-
ma che non direttamente, attraverso la tradizione patri-
stica e S. Agostino, Petrarca cercava appunto una dire-
zione diversa da quella rigidamente logica e fisica del-
l’occamismo, dell’averroismo, della scolastica parigina e
padovana. All’occhio esperto dello storico potranno sve-
larsi analogie sottili fra l’estremo nominalismo ed i nuovi
interessi filologici e retorici, così come già si sono mani-
festati intimi legami fra la fisica parigina e la nuova scien-
za rinascimentale29 . In Petrarca, tuttavia, il tema cicero-
niano, o l’appello a Platone, significano affermazione di
un filosofare che sia riforma morale, rinnovamento spiri-
tuale dell’uomo e della città terrena, instaurazione di una
nuova forma di vita. I dialoghi di Platone che conobbe
Petrarca furon quelli stessi che il Medioevo aveva studia-

27
PETRARCA, Invectiva in medicum quendam; Opera, Ba-
silea, 1581, p. 1087 sgg. Una buona edizione critica delle Invec-
tive ha dato Pier Giorgio Ricci (Roma, 1960) che vi ha oppor-
tunamente aggiunto il volgarizzamento di Domenico Silvestri.
28
PETRARCA, Senil., III, 7; Opera, p. 778.
29
Alcuni temi fondamentali, suscettibili di ampi sviluppi,
si trovano nei saggi del Michalski, pubblicati fra il 1924 o il
1938 (v. l’elenco in«Giornale crit. d. filos. it.», 1948, pp.
386-87), a proposito del dissolversi della Scolastica. Perché è
difficile trascurare l’amicizia di Geri d’Arezzo con l’occamista
arditissimo fra’ Bernardo, che fu in relazione con Nicola di
Autrecourt (è questo, infatti, il Bernardo di cui parla il WEISS,
Il primo secolo cit., p. 190), o quello che scrive il Salutati al
logico nominalista Pietro Alboino da Mantova, convertitosi alla
poesia (sul quale v. quanto ho scritto sul «Giornale critico»,
1948, pp. 203-4, 389-90): «enuda sophismatum apparentiam;
redde nobis rerum noticiam... tum velim de poetica cogites».

Storia d’Italia Einaudi 29


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to: il Timeo, il Fedone, il Menone30 . Degli altri egli posse-


deva i codici, ma erano pagine mute a lui ignaro di gre-
co. È vano, dunque, ricondurre a un’influenza platoni-
ca un atteggiamento di pensiero che invocò Platone solo
come arma polemica contro il prevalere, con l’aristoteli-
smo, della preoccupazione teoretica e dell’indagine na-
turalistica. Nel platonismo, come del resto nella retori-
ca, si cercava un ritorno ai problemi della comunicazio-
ne umana, della società umana. Si voleva, in una parola,
ritrovare il senso concreto della città terrena, rivalutan-
do quelle virtù politiche alle quali, come Petrarca ricor-
da sulle orme di Macrobio, e quindi di Plotino, è aperto
il regno dei cieli. E se il poeta non rivendica ancora, in
questo mondo, un primato della virtù attiva, insiste sul-
la necessità di riconoscerle tutto il suo valore accanto al-
la virtù contemplativa. Di più, egli accenna al motivo,
che doveva venire largamente svolto, della connessione
di tutte le discipline liberali appunto con la vita attiva,
con la vita civile, mentre con fiero disdegno viene inve-
stendo le scienze della natura. In realtà mentre la pura
contemplazione viene relegata nell’altra vita, la vita ter-
rena viene ponendosi come campo fecondo delle attivi-
tà umane, della moralità umana. La nuova filosofia na-
sce sul terreno della morale, in una polemica sempre più
aspra fra natura e umanità, o anche, se si vuole, fra fato,
fortuna e virtù.
Petrarca stesso sognava di comporre, aveva anzi posto
mano a «un trattato contro quel rabbioso cane ch’è Aver-
roè, il quale agitato da infernale furore, con empi latrati,
e con bestemmie da ogni parte raccolte, oltraggia e lacera
il santo nome di Cristo e la cattolica fede». Così scriveva

30
Cfr. L. MINIO-PALUELLO, Il«Fedone» latino con
note autografe del Petrarca, «Rendic. Acc. Lincei», Cl. sc. mor.,
IV; 4 (1949, pp. 107-113; Plato Latinus, II, Phaedo, Londini,
1950, p. XII.

Storia d’Italia Einaudi 30


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

all’agostiniano Luigi Marsili, a cui raccomandava di con-


giungere, sulle orme di Lattanzio e di Agostino, studia
humanitatis e studia divinitatis, e a cui commetteva insie-
me il compito di continuare l’opera sua nella costruzio-
ne di una pia philosophia31 . Il nome del Marsili ci ripor-
ta ai colloqui del «Paradiso degli Alberti», a quel fervido
focolaio di cultura umanistica che fu in Firenze il Con-
vento di Santo Spirito, a quel circolo di dotti fra cui pri-
meggiò Coluccio Salutati, e che Leonardo Bruni ritrasse
nei suoi Dialogi ad Petrum Histrum32 . Proprio del Mar-
sili, nobile figura di sacerdote piissimo, intransigente fu-
stigatore della corruzione pontificia in Avignone, tesse-
rà Leonardo un magnifico elogio: «riteneva nella mente
non solo le cose che hanno riguardo alla fede, ma anche
quelle che chiamano gentili. E sempre aveva sulle labbra
Cicerone, Virgilio, Seneca e gli altri antichi, e ne riferiva
non solo le opinioni e le sentenze, ma anche le parole, e
non come detti d’altri, ma come cose sue»33 . Maestro in-
comparabile di tutti i fiorentini – lo chiamerà il Salutati,
il maggiore erede e il più fedele continuatore della tradi-
zione del Petrarca. Del cui pensiero sottolineava appun-

31
PETRARCA, Senil. IV, 6-7.
32
ALESSANDRO WESSELOFSKY, Il Paradiso degli Al-
berti; Ritrovi e Ragionamenti del 1389: romanzo di Giovanni da
Prato, Bologna, 1867. Sul Marsili cfr. U. MARIANI, op. cit.,
p. 66 sgg. Singolare interesse, fra i documenti editi dal Wes-
selofsky, ha il poemetto in lode di Occam composto dal Cie-
co degli Organi [su cui cfr. C. VASOLI, Polemiche occami-
ste, «Rinascimento», III, 1952, pp. 119-41] Per la polemica
retorica-dialettica, oltre i «dialoghi» del Bruni, son da vedere i
testi pubblicati da A. MANETTI, Roberto de’ Rossi, «Rinasci-
mento», II (1951), pp. 33-55.
33
LEONARDO BRUNI, Dialogi ad Petrum Histrum, ap.
MEHUS, Historia litteraria florentina (AMBROSII TRA-
VERSARII Latinae Epistolae, I), Florentiae, 1759, p. CCLX-
XXIII.

Storia d’Italia Einaudi 31


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to il valore etico, l’interesse umano. In una celebre let-


tera, scritta al conte Roberto Guidi di Battifolle in mor-
te del poeta, oppone alla vuota dialettica delle scuole la
sottile ricerca dei moti dell’animo, la scuola di vita, l’ele-
vazione a Dio, quali motivi centrali della filosofia petrar-
chesca. «E per non parlare delle arti liberali..., fu sommo
in quella filosofia che è dono divino, e regolatrice di tut-
te le virtù, e purificatrice dei vizi..., e di tutte le scienze
signora e maestra. Né mi riferisco a quella che i moderni
sofisti con vuota vanagloria, e sciocca e impudente legge-
rezza, esaltano nelle scuole, ma ad una sapienza che pla-
sma le anime, che forma le virtù, che lava le macchie dei
vizi, che illustra, al di fuori delle sottigliezze dialettiche,
la verità»34 .

4. Coluccio Salutati

Proprio in questa indagine nuova sulla vita dell’uomo fu


grande Coluccio Salutati. Nei trattati morali, ma più an-
cora nelle pagine mirabili del suo vastissimo epistolario,
egli viene proponendoci la sua fine riflessione su una ric-
chissima esperienza interiore. Educato alla scuola di Pie-
tro da Muglio negli studi di logica e di grammatica (pluri-
ma veterum grammaticorum et dialecticorucm assidua lec-
tione perlegit), dotto di diritto, come cancelliere della Si-
gnoria di Firenze pesò con la sua attività nella vita politi-
ca italiana. Fiero difensore della florentina libertas, unica
degna erede della romana libertas, le sue lettere ufficiali,
secondo il celebre detto del Visconti, erano più temibili
di un esercito in campo. Non a caso Pio II lodava la sag-
gezza dei reggitori di Firenze che sceglievano come can-

34
COLUCCIO SALUTATI, Epistolario, ed. Francesco
Novati, vol. I, Roma, 1891, pp. 178-79.

Storia d’Italia Einaudi 32


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

cellieri della loro repubblica i più grandi umanisti35 . Vita


politica e vita di pensiero ci appaiono infatti nel Saluta-
ti, come poi nel Bruni, felicemente congiunte; il saggio, il
dotto, non è un solitario staccato dalle vicende degli uo-
mini, ma un uomo che risponde alla sua vocazione, che
serve il suo Signore celeste fra i tumulti della vita terrena.
Il motto di Salutati, e l’epigrafe più degna della sua atti-
vità, potrebbero essere le parole di esortazione alla lotta
rivolte nel De saeculo et religione a Niccolò di Lapo da
Uzzano; o le altre, fermissime, indirizzate sul tramonto
della vita a frate Raffaello Bonciani: standum est in acie,
conserendae manus, luctandum pro iusticia, pro veritate,
pro honestate36 .
Terrestre è la vocazione umana. L’impegno nostro è
nella costruzione della città terrena, nella società. «Le
due cose in terra più dolci sono la patria e gli amici».
In un’altra lettera, a Pellegrino Zambeccari che voleva
farsi monaco, suona aperta la lode della vita attiva. «Non
credere, o Pellegrino, che fuggire la folla, evitare la vista
delle cose belle, chiudersi in un chiostro o segregarsi
in un eremo, siano la via della perfezione. Credi tu

35
G. MANETTI, De illustribus longaevis, Cod. Urb. lat.
387 (in F. NOVATI, op. cit., IV, 2). Invectiva LINI COLU-
CII SALUTATI... In Antonium Luschum Vicentinum..., Flo-
rentiae, 1825, pp. 21-22, 54. Cfr. AENEAE SYLVII In Eu-
ropam sui temporis, LIV (Opera, Basilea, 1571, p. 454): «com-
mendanda est multis in rebus Florentinorum prudentia, tum
maxime quod in legendis cancellariis, non iuris scientiam, ut
pleraeque civitates, sed oratoriam spectant et quae vocant hu-
manitatis studia. Norunt enim recte scribendi dicendique ar-
tem, non Bartholum aut Innocentium, sed Tullium Quintilia-
numque tradere... Coluccius, cuius ea dicendi vis fuit, ut Galea-
cius Mediolanensium princeps, qui patrum nostrorum memo-
ria gravissimum Florentinis bellum intulit, crebro auditus est
dicere, non tam sibi mille Florentinorum equites quam Colucii
scripta nocere...»
36
C. SALUTATI, De saeculo et religione, I, I.

Storia d’Italia Einaudi 33


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

veramente che a Dio sia stato più caro Paolo solitario


e inattivo di Abramo operoso? Non pensi tu che al
Signore sia stato ben più diletto Giacobbe con dodici
figli, con due mogli, con tante greggi, dei due Macari,
di Teofilo, di Ilarione? Fuggendo dal mondo tu puoi
precipitare dal cielo in terra, mentre io, rimanendo tra le
cose terrene, potrò alzare il mio cuore dalla terra al cielo.
Provvedendo, servendo, preoccupandoti della famiglia,
dei figli, dei parenti, degli amici, della patria che tutto
riabbraccia, non puoi non elevare il tuo cuore al cielo
e non piacere a Dio»37 . Nell’altra vita noi assurgeremo
alla gloria della contemplazione, ma solo se in questa vita
avremo combattuto la nostra battaglia, assolto la nostra
opera, fedelmente compiuto la nostra giornata. Nel più
rigorosamente ascetico dei suoi trattati, il De saeculo et
religione, Coluccio Salutati presenta tutta la vita religiosa
come operosità, lotta, lavoro. «La religione è la dura
via della virtù...; la travagliosa via della lotta verso il
porto della pace...; l’aspro cammino che fra gli scogli
del mondo conduce ai dolci riposi del cielo». Non mai
ritiro, ma sempre contrasto, prova, fatica: summus hic
profecto labor. E fatica concorde: a chi nel pericolo di
una epidemia gli suggerisce la fuga, il Salutati risponde
sdegnoso che l’uomo non può venir meno mai al vincolo
comune che lo congiunge ai fratelli.
Meditazione su questa umana operosità, coscienza più
viva di questo comune lavoro; riflessione sulla condizio-
ne umana e sulla sorte dell’uomo, sulla sua condotta, sul-
le forme della sua vita; presa più viva di contatto con tut-
ta la drammaticità dell’esperienza vissuta: ecco la filoso-
fia. E Socrate è, così, il filosofo per eccellenza, il santo
della filosofia; colui che, se fosse morto nella fede verace,
sarebbe oggi il più grande dei martiri – princeps nostro-

37
C. SALUTATI, Epistolario, II. p. 303-307.

Storia d’Italia Einaudi 34


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

rum martyrum38 . Ogni pagina del Salutati è traversata da


questa esigenza di un filosofare che sia scuola di vita, me-
ditazione seria e profonda di problemi di vita. Solo dal-
la più accorta consapevolezza di noi stessi potrà nasce-
re una filosofia che non sia mera esercitazione di scuola,
astratta costruzione, atta piuttosto a separare che non ad
avvicinare alla realtà. Quello stesso drammatico pensie-
ro della morte, già invocato dal Petrarca, torna nel Salu-
tati come esperienza fondamentale che, mentre fa cadere
le vecchie teorie consolatorie, le molteplici finzioni con
cui gli uomini cercano di distrarre se stessi dalla gravità
dei loro problemi, riconduce la mente alle sorgenti ori-
ginarie della meditazione, ai termini più semplici del fi-
losofare. «Perché il mio Pietro, che era ancora un ragaz-
zo, mi viene strappato nel fiore degli anni...? Sopravvi-
va pur l’anima, che è immortale; ritorni il corpo alla terra
da cui è venuto; l’uomo, ohimè, non è più, una volta che
sia rotta l’armonia dell’unità umana». Nessuna dottrina
consolatrice consolerà mai l’uomo dal dolore della perdi-
ta di una persona amata, o dal terrore della propria fine:
«sono tutte sottigliezze sofistiche; svanito il rumore delle
parole, non lasciano eco alcuna solida e ragionevole»39 .

5. Il primato della volontà in Coluccio Salutati

Nata su questo piano, la filosofia di Coluccio Salutati non


poteva non sentirsi lontanissima da tutto il bagaglio tra-
dizionale di sillogismi e di ragionamenti. Era un orienta-
mento e un indirizzo nuovo che cercava le proprie testi-
monianze così in Socrate come in Cristo o in san Fran-
cesco, nei maestri cioè che avevano posto la propria vita
come un messaggio di verità. Ma, più vicini di costoro,

38
De fato, II, 8, Cod. Vat. lat. 2928, fol. 16r.
39
Epist., III, pp. 416-20.

Storia d’Italia Einaudi 35


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

aveva a sostegno i teorici del primato della volontà, i filo-


sofi della scuola francescana, che nell’aristotelismo tomi-
stico avevano visto il pericoloso naufragio di tutte le con-
quiste più preziose del cristianesimo. La polemica fra il
Salutati e il Dominici si impernia proprio sulla questio-
ne del primato della volontà, della vita attiva, della con-
nessione fra studia humanitatis e vita civile. Il Domini-
ci fu senza dubbio uomo di non comune statura, tutt’al-
tro che chiuso ai problemi che tormentavano il suo tem-
po. Nei suoi scritti non manca un riconoscimento pieno
per il significato della vocazione terrena dell’uomo. Ma
la premessa tomistica lo rendeva sospettosamente avver-
so a ogni critica del procedimento intellettivo, mentre
la degenerazione retorica dell’umanesimo lo faceva guar-
dingo di fronte ai troppo facili entusiasmi per l’antichità.
Il Salutati era pronto a riconoscere il pericolo degli ec-
cessi, ma insisteva sul valore della educazione nuova. La
quale solo apparentemente poteva sembrare grammati-
cale. In realtà essa insegnava a ritrovare sub corticem il
valore intenzionale dei termini, smarrito nella consuetu-
do, penetrando l’espressione nel suo significato intimo
come direzione spirituale. Parola e cosa, insiste il Saluta-
ti, non possono disgiungersi; la parola è nata a un mede-
simo parto con la cosa (velut cum ipsis rebus nata); serio
insegnamento grammaticale non si dà, che non sia, insie-
me, presa di contatto reale. «Ipsa grammatica sine noti-
cia rerum, et quibus modis rerum essentia varietur, sci-
ri non potest». Proprio per questo la disciplina gramma-
ticale è il vestibolo d’ogni penetrazione spirituale. Sen-
za la capacità di intendere fino in fondo i termini, la lin-
gua, non si dà conoscenza della scrittura, della parola di
Dio. Ogni conoscenza seria è comunicazione. In tal mo-
do gli studia humanitatis come mezzo per ritrovare nella
lettera l’inseparabile spirito, nel corpo l’anima indisgiun-
gibile, sono strettamente connessi con gli studia divinita-
tis. Lo studio del messaggio divino è integrale riconqui-

Storia d’Italia Einaudi 36


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sta di una direzione spirituale, cui prepara l’adeguata ri-


conquista di quella società spirituale che si esprime e si
conserva attraverso i monumenti letterari40 .
Così, all’incirca, il Salutati rispondeva nel 1406 a una
parte delle critiche del Dominici. Alle altre tutto il suo
pensiero era una risposta. «Non so come e di dove alcuni
abbiano osato, contro la ragione e l’autorità dei santi,
anteporre la volontà e i suoi atti all’intelletto e alle sue
operazioni. Ma costoro forse discutono per discutere, o
si riferiscono a constatazioni di fatto, a quel modo che in
non poche case la moglie comanda e il marito obbedisce,
o in molti pollai la gallina canta e il gallo sta zitto». Così
acremente il Dominici nella Lucula noctis. In realtà già
tutto lo scritto del Salutati De fato, fortuna et casu aveva
risolto sul piano di una certezza pratica le difficoltà e i
contrasti insolubili che il problema del destino presenta
all’umana ragione. È il libero atto di volontà che fa
libero l’uomo, mentre la ragione gli vien dimostrando
l’impossibilità della libertà41 .
Ma la giustificazione piena della sua posizione il Sa-
lutati dà nel De nobilitate legum et medicinae, opuscolo
che, se si inserisce nella disputa contro i medici, sollevata
dal Petrarca e poi continuata fino alla fine del secolo XV,
la supera di grandissimo tratto per acume speculativo.
Il Salutati, affrontando la discussione circa il valore
delle leggi di fronte alla medicina, intendeva esaminare il
significato di un sapere umano nei confronti dell’indagi-
ne naturalistica. Le leggi, infatti, indicavano ai suoi oc-
chi la regolata attività della famiglia umana nello sforzo
concorde per raggiungere il bene comune. «Fine della
speculazione – egli osserva – è il sapere, il cui oggetto è

Epist., IV, pp. 205-40.


40

41
De fato, II, 10-11, fol. 23v-31v. JOHANNIS DOMI-
NICI, Card. Sancti Sixti, Lucula Noctis, ed. E., Hant, Notre
Dame, Indiana, 1940.

Storia d’Italia Einaudi 37


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

il vero; fine delle leggi è la direzione delle azioni uma-


ne. L’oggetto loro è dunque il bene, e non un bene qua-
lunque, ma quel divinissimo bene che è il bene comune».
Ora, come non riconoscere la superiorità del bene sul ve-
ro, soprattutto quando si ponga mente al fatto che non
si tratta qui di un bene naturale, ricevuto come un dono,
ma di un bene voluto, di qualcosa che vale, e che si con-
quista con sforzo; di un bene che ci fa in qualche modo
collaboratori con Dio? «Non è, il bene comune ricerca-
to dalle leggi, quel bene per cui noi siamo un bene, ma
quel bene che ci fa buoni. Il primo è bene di natura, e
per esso non siamo degni di lode... Quella lode che me-
ritiamo, invece, per il bene che facciamo... quando Dio
ci fa degni di operare e bene meritare con lui»42 .
Le leggi, dirà altrove43 , sono veramente un sigillo divi-
no, con cui dopo il primo peccato Dio ha offerto alle co-
munità degli uomini la via per riconquistare il bene (le-
ges, quibus inter cunctos equabilitas statueretur, hominum
mentibus inspiravit). Ispirate da Dio agli uomini, inscrit-
te nell’anima umana, esse hanno un’altra superiorità, ri-
spetto alle leggi naturali: possono essere conosciute nel-
la loro pienezza integrale, con una certezza che non si
troverà mai nelle scienze della natura. «Hanno principi
che non sono nelle cose esteriori, ma in noi, naturalmen-
te inspirati nelle menti nostre, con tale certezza che non
possono sfuggirci, senza che sia necessario cercarli fuori,
poiché, come vedi, sono nell’intimo di noi».
«Le leggi – insiste Coluccio – hanno l’infallibilità del-
l’umana promulgazione, e contengono insita la ragione
naturale che ogni uomo di mente sana vede, o può ri-
trovare meditando e discutendo. I princìpi della medi-
cina, al contrario, se vien meno l’esperienza, sono incer-

42
De nobilitate legum et medicinae, 5.
43
Ep. Regi Navarrae (1376), ms. Marucell. (Firenze), C, 89,
48r.

Storia d’Italia Einaudi 38


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ti e possono ingannare, anzi ingannano, né ci mostrano


quella comune ragione, né danno gli effetti desiderati».
Alla superiore dignità della moralità corrisponde la di-
versa validità della giurisprudenza rispetto al sapere na-
turalistico. La critica che al sapere avevano mosso gli oc-
camisti non era passata invano per il Salutati, che la sot-
tintende nella sua piena validità quando vien costruen-
do quella bellissima orazione in lode delle leggi che met-
te in bocca appunto alla medicina medesima: «rifletten-
do meco stessa al mistico corpo che viene costituito dalle
umane moltitudini riunite in famiglie, regioni, città, na-
zioni, regni ed imperi; osservando come le leggi tutto or-
dinino, reggano e conservino, ho visto che... la salute ve-
race delle umane società non dipende dalla medicina, ma
dall’accordo spirituale... Povera me! perché mai esaltate
la mia certezza?... Le leggi sono validissime nei rapporti
delle menti umane, e non solo certissime, ma ben cono-
sciute. Me invece come potrete mai conoscere, quando
a stento riuscite ad afferrare una parte minima delle co-
se che sono?... Quando l’intera esperienza varia... per le
differenze del tempo e dello spazio?... Io sono generata
dalla terra, le leggi dalla sapienza di Dio. Dio ha dettato
le leggi con la sua parola, e me ha scritto negli eventi del-
l’esperienza. Io, contingente, derivo da cose contingenti;
la legge è fondata sull’eterna universale giustizia».
Ego de terra, lex vero de mente divina: in questa con-
clusione del Salutati era implicita la posizione di Vico;
ma essa era il motto e il programma dell’umanesimo, che
volgendo le spalle alla natura, poneva la vita degli uomi-
ni al centro delle sue preoccupazioni. Ed erano uomini
che la terra avevano domato per ritrovare se stessi; «for-
tissimi uomini, che hanno vinto le mostruose fatiche del-
la terra», e degni perciò delle stelle, quali vengono cele-
brati, sempre da Coluccio, nel De Hercule eiusque labori-
bus, ov’è pur l’indagine intorno alla poesia, vista in gene-
re come umana creazione («figmenta et res factae dicta

Storia d’Italia Einaudi 39


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sunt a poyo...»), ed alla retorica che ha la stessa potenza


ispiratrice e generatrice propria dell’amore: «a Venere,
dea dell’amore, non a caso attribuiamo la retorica, il cui
compito è quello di accendere gli animi ed infiammarne
novellamente i cuori...»44 .

6. Le leggi e la medicina

La discussione, tanto vigorosamente condotta dal Salu-


tati circa il primato delle scienze dello spirito, non rima-
se davvero senza eco; le risonanze di essa ritroviamo do-
vunque per tutto il ’400. Perfino uno studioso come An-
drea figlio di Ugo Benzi da Siena, noto per il suo impe-
gno nelle dispute classiche dell’aristotelismo, in una sua
prolusione fiorentina, probabilmente del 1451, ancorché
non ricordi Coluccio, attinge certamente a lui l’esaltazio-

44
Cod. Magliabech., cl. VIII, 1445, fol. 166v: «Uraniam
autem cum Venere collocamus, nam grece uros latine ignis est,
neos novum, et ipsa Venus, amoris ut inquiunt dea, novos ignes
admovet... Huic non incongruenter rhetoricam deputamus,
cuius est proprium animos accendere et novos estus in audi-
torum mentibus generare...» Su mitologia e poesia in Boccac-
cio cfr. V. BRANCA, Motivi preumanistici nell’opera del Boc-
caccio, in Pensée humaniste et tradition chrétienne au XV.me et
XVI.me siècles, Paris, 1950, pp. 69-85 (Il De Hercule del S. è
uscito a cura dell’Ullman, Zürich, 1951, 2 voll.; e, sempre a cu-
ra dell’Ullman, anche il De saeculo et religione, Firenze, 1957).
Per lo sviluppo Mussato-Petrarca-Boccaccio, cfr. G. BILLA-
NOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boc-
caccio, in Medioevo e Rinascimento, Studi in onore di B. Nar-
di, Firenze, 1955, pp. 1-76. Sul Salutati, la sua vita e la sua bi-
blioteca, nonché sul complesso dell’opera sua, è da vedere, ora,
B. L. ULLMAN, The Humanism of Coluccio Salutati, Pado-
va, 1963. A proposito della polemica sulla poesia cfr. FRAN-
CESCO DA FIANO, Un opuscolo inedito in difesa della poe-
sia, a cura di M. L. Plaisant, «Rinascimento», N. S., I, 1961, pp.
119-162.

Storia d’Italia Einaudi 40


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ne delle leggi e del viver civile; «se si togliessero le leg-


gi, qual mai città, qual comunità, quale casa, quale fami-
glia non verrebbe meno? che anzi la natura umana intera
andrebbe annientata»45 .
Non così, invece, pensava il discepolo più grande del
Salutati, il Bruni46 , il quale, riferendosi all’aspetto mera-
mente coercitivo del diritto, lo veniva anzi opponendo
alle lettere, come quello che riguarda i malvagi e non i
buoni, ed è variabile secondo i luoghi e i tempi, «sì che
spesso è legittimo a Firenze quello che è condannato a
Ferrara». E Poggio Bracciolini, nei dialoghi composti
nel 1450, dove sono introdotti come interlocutori Car-
lo Marsuppini, Benedetto Accolti e Niccolò da Foligno,
non solo disdegna il diritto, ma giunge ad affermare che
le grandi azioni si hanno soltanto quando la volontà del
singolo uomo spezza la legge dei più. «Solo la plebaglia
e il popolaccio sono legati dalle vostre leggi; solo per co-
storo esistono i vincoli del diritto. Gli uomini gravi, pru-
denti, modesti, non hanno bisogno di leggi. Essi stessi
si son fissata una legge di vita, formati dall’indole e dal-
l’educazione alla virtù e ai buoni costumi... Gli uomini
forti poi respingono e spezzano le leggi, adatte ai debo-
li, ai mercenarî, ai vili, ai miserabili, ai pigri, a coloro che
non hanno mezzi... Infatti tutte le imprese egregie e de-

45
Oratio HUGONIS DE SENIS (Laur. gadd. 89, sup.
cod. 27, fol. 125a; cfr. K. MÜLLNER, Reden und Briefe ita-
lienischer Humanisten, Wien, 1899, p. 113): «atqui tollantur
leges, quae civitas, quae universitas, quae domus, quae familia
non illico deficiat? quin immo natura ipsa humana ad nihilum
redigetur... Non immerito nobilissimus ille iuris consultus Ul-
pianus civilem sapientiam veram philosophiam appellat. Huius
disciplinae tanta est vis, tanta potestas, ut vix possit aliquo elo-
quentiae studio enarrari...».
46
LEONARDO BRUNI, Epist. VI, ed. Mehus, II, Floren-
tiae, 1741, p. 50.

Storia d’Italia Einaudi 41


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

gne di ricordo sono nate dall’ingiustizia e dalla violenza,


e, insomma, dalla violazione delle leggi»47 .
Tuttavia, a parte quest’ultima interessante esaltazione
della forza, tanto il Bruni quanto il Bracciolini rimaneva-
no al di fuori del problema del Salutati, impostato su al-
tro piano, proprio a difesa di quell’umanità che anch’es-
si volevano celebrare. Le leggi che Coluccio aveva esal-
tato sono i princìpi stessi della vita morale, l’anima della
vita comune, della società degli uomini; costituiscono la
base della umana comunicazione in tutta la sua ricchez-
za. In un dialogo molto interessante del medico Giovan-
ni d’Arezzo, dedicato a Lorenzo de’ Medici poco dopo
la morte di Pietro, e nel quale sono introdotti a discor-
rere de medicinae et legum praestantia il Marsuppini, il
Niccoli e il Bruni, proprio in bocca del Bruni è messa
la confutazione del Poggio: «non si loderanno mai ab-
bastanza, a mio parere, le leggi; esse, infatti, non rego-
lano solamente i villani, o i comuni cittadini, o i ricchi;
ma limitano e trattengono i pretori e i magistrati, reggo-
no i re, signoreggiano i signori, sugli imperatori eserci-
tano il loro imperio...; difendono i deboli dai forti, tra
gli eguali mantengono l’armonia...». Né contro le leggi
valga l’obbiezione della loro mutevolezza; «sono i popo-
li che variano d’opinione e di parere col variare dei tem-
pi; e tuttavia con ciò non toccano le sante antichissime
leggi, ma solo illudono e ingannano se stessi». La nor-
ma della giustizia sta eterna, regola e signora di tutte le
leggi. Le quali costituiscono veramente la base concreta
ed il legame profondo delle umane società. «Santissimo
e dolcissimo nome, la patria... Grande cosa è l’apparte-
nere alla stessa città, soprattutto se è libera città. Mol-
te cose comuni hanno i cittadini: il diritto, le leggi, il fo-

47
POGGIO BRACCIOLINI, Opera, Argentorati, 1513,
fol. 19 r v.

Storia d’Italia Einaudi 42


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ro, il senato, le magistrature»48 . Così Lapo da Castiglion-


chio, pure non tenero per le pretese dei giuristi. Ma an-
ch’egli era ben consapevole del valore sociale della hu-
manitas, che in una sua Oratio de laudibus philosophiae
presenterà edificatrice di città e domatrice della natura49 .
D’altra parte i filosofi di Padova scenderanno in cam-
po in difesa della medicina con quel sottile, eppur sfug-
gente pensatore, ch’è Nicoletto Vernia. Il quale si era
molto interessato alla polemica, e tra i suoi manoscrit-
ti conservava una quaestio del teologo agostiniano Gio-
vanni da Imola utrum scientia civilis vel canonica sit no-
bilior medicinali. «E sembra di sì – cominciava il frate
– se è vero che è più nobile la scienza che rende l’uomo
più degno d’onori». A Nicoletto pareva il contrario, e

48
JOHANNIS ARETINI physici de medicinae et legum
praestantia, Laur. lat., plut. LXXII, 22: «numquam satis, mea
opinione, legalis disciplina laudari potest... haec enim non ru-
sticos solum, vel cives, aut optimates, sed praetores et magistra-
tos compescit et limitat, reges regit, dominis dominatur, impe-
ratoribus imperat...; haec minores a maioribus tuetur paribu-
sque aequitatem servat». Sul mutar delle leggi: «id populi fa-
ciunt, qui diverso quidem tempore varias habent opiniones et
iudicia; nec tamen antiquas sanctasque leges, sed seipsos deci-
piunt aut deludunt... Leges ipsae canones suos vel regulas ser-
vari iubent, quasi dominae sint». Questo e i vari altri testi qui
citati sono stati raccolti da me nel vol. La disputa delle arti nel
Quattrocento, Firenze, 1948, da integrarsi con l’importante stu-
dio di G. F. PAGALLO, Nuovi testi per la ‘disputa delle arti’
nel Quattrocento: la «quaestio» di Bernardo da Firenze e la «di-
sputatio» di Domenico Bianchelli, «Italia Medievale e Umanisti-
ca», II, 1959, pp. 467-481 (e su una replica al Vernia di Pie-
tro Donato Avogaro cfr. BERNARD M. PEEBLES, Studies
in Pietro Donato Avogaro of Verona, «Italia Medievale e Uma-
nistica», V, 1962, pp. 28-9).
49
LAPUS CASTELIUNCULUS, Epist. Roberto Strozzae
(Cod. Ottobon. lat. 1677, fol. 218v). Cfr. MÜLLNER, Reden
und Briefe, p. 249 sgg.: Oratio de laudibus philosophiae, ivi, p.
139 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 43


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lo sostenne con dovizia d’argomenti. La politica, è ve-


ro, conserva l’uomo in pace, ma la medicina lo conser-
va in quell’esistenza senza cui non si dà attività alcuna.
Ed è più nobile la scienza della natura anche perché, in-
vece di appoggiarsi all’umana autorità, si fonda su pro-
cessi logici. Ma il culmine della quaestio del Vernia è nel
concetto di felicità, riposta da lui, non già nell’attività so-
ciale, ma nella pura speculazione. «Fine della legislazio-
ne è una certa felicità circa la convivenza e la comuni-
cazione delle civili adunanze. Ma non è questa la felici-
tà vera... È invece mediante la speculazione che ci avvi-
ciniamo a Dio, la cui beatitudine consiste nella contem-
plazione della propria essenza»50 . Né dal Vernia si allon-
tana, nel suo scritto della dignità delle discipline, Anto-
nio de Ferrariis, il Galateo, il quale, mentre non rispar-
mia ingiurie al Salutati («cum nihil sciat, omnium rerum
notitiam sibi vindicat...»), antepone addirittura, dal pun-
to di vista della socialità, api e formiche all’uomo: «chi
non sa di quanta civile prudenza dan prova api e formi-
che e simili animaletti. In molti animali giustizia e pietà
sono assai più sviluppate che in molti uomini». La nobil-
tà dell’uomo è tutta nel sapere, non nel fare. «Civilis di-
sciplina omnis in actione est... Quantum contemplativa
activae praeest, tantum medicinae ista pars [speculativa]
civili disciplinae»51 .
Erano veramente qui in contrasto due concezioni op-
poste della vita e della filosofia: l’una umana, per cui ciò

50
MAGISTRI JOANNIS DE IMOLA quaestio utrum
scientia civilis vel canonica sit nobilior medicinali, Marcianus lat.
cl. X, 218, fol. 79-82. N. VERNIA, Quaestio an medicina no-
bilior atque praestantior sit iure civili (nella edizione curata dal
Vernia del commento del Burley alla Fisica, cfr. GUALTERII
BURLAEI de physica auscultatione, Venetiis, 1589).
51
Vari opuscoli di ANTONIO DE FERRARIS detto il
GALATEO, Lecce, 1868 (Collana di scrittori di Terra d’O-
tranto, III), pp. 10, 13, 25-26.

Storia d’Italia Einaudi 44


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

che conta per l’uomo è il suo farsi e il suo fare; ed era


visione cristiana. L’altra, legata all’ideale aristotelico del
sapere, del vedere, per cui l’azione, l’operosità, rappre-
sentano qualcosa di secondario e inferiore, continuava
ed esauriva la concezione dell’essere propria della teolo-
gia medievale.

Storia d’Italia Einaudi 45


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

LA VITA CIVILE

1. La scuola del Salutati e Bernardino da Siena

Chi cercasse a fondo l’origine ideale della concezione del


Salutati intorno al primato della volontà e al valore del-
l’opera terrena dovrebbe rifarsi, con ogni probabilità, al-
la tradizione francescana e a motivi scotistici, come già
s’è accennato a proposito della polemica con il Domini-
ci, tomista. Una conferma può, forse, ritrovarsi in san
Bernardino da Siena, discepolo d’un discepolo di Coluc-
cio, e gran lodatore di «messer Francesco Petrarca» e
di «messer Coluccio Salutati», i quali entrambi «nobilis-
sime cose feciono e da commendargli grandissimamen-
te». Bernardino aveva visto l’immenso pregio dell’ani-
ma, superiore, come insiste a dire, polemizzando contro
gli astrologi, ad ogni cosa creata; ma nell’anima è altret-
tanto chiaro il primato del volere. «La voluntà è impe-
radrice di tutte e tre le... potenzie [dell’anima] e di tut-
ti i nostri sentimenti; la voluntà è reina della mente no-
stra... La buona voluntà è imperadrice di tutto l’univer-
so». Se in patria, nei cieli, l’uomo andrà a contempla-
re, nel mondo è chiamato a operare e ad amare; le chia-
vi della sapienza medesima sono possedute dalla carità;
«più conosce chi ama che chi non ama»52 .

52
Per la polemica antiastrologica e il pregio infinito dell’ani-
ma cfr. S. BERNARDINO DA SIENA, Le prediche volgari
a cura di P. Bargellini (sono le prediche senesi del 1427), Mila-
no, 1936, predica II, p. 56 sgg.: «L’altro reame è lo spirituale,
il quale è l’anima; la quale anima è sopra tutte le cose corpora-
li, e più gentile che niuna altra cosa corporale. Questa anima è
in altezza e virtù sopra tutta la terra, sopra l’acqua, sopra il fuo-
co, sopra l’aria, sopra ogni cosa che s’appartiene a detti elemen-

Storia d’Italia Einaudi 46


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

La calda lode rivolta da Leonardo Bruni al dolce santo


di Siena non era ossequio di maniera; era l’incontro sin-
cero, nell’atmosfera ideale della scuola di Coluccio, del-
l’erede di Duns Scoto e del fervido restauratore degli stu-
di classici. Che non erano per lui, come non erano sta-
ti per il maestro suo dilettissimo, esercitazioni letterarie
pedantesche, ma veramente rinnovata vita dello spirito.
Il grido d’entusiasmo con cui il Bruni accoglie l’insegna-
mento del greco iniziato dal Crisolora non è retorica; è il
saluto a un’età in cui lo spirito umano potrà affermarsi in
più feconda ricchezza ritrovando i propri tesori perduti.
«Erano settecento anni che l’Italia ignorava il greco; ep-
pure è quella la sorgente di ogni dottrina» (septingentis
iam annis nemo per Italiam graecas litteras tenuit; atque
tamen doctrinas omnes ab illis esse confitemur). Le litte-
rae tornavano in tutta la loro fecondità a formare, non già
degli eruditi, ma degli uomini completi. «E si chiamano
studia humanitatis perché formano l’uomo completo»53 .

ti. L’anima è sopra il cielo della Luna e di Mercurio e di Venus,


del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, di tutti e’ segni che so’
in essi: ella è sopra alle 72 costellazioni». Per la critica alla filo-
sofia astratta cfr. Le prediche volgari edite dal P. C. Cannaroz-
zi, vol. II, Pistoia, 1934 (Quaresimale del 1424), p. 97: «piglia
e’ filosofi, l’uno dice a uno modo, l’altro dice a uno altro. Pla-
tone discorda da Aristotile...». Sulla nobiltà frutto dell’opera,
ivi, p. 213. Sullo studio v. tutta la predica XVII del 1425, ed.
Cannarozzi, vol III, p. 207 sgg. (L’educazione umanistica in Ita-
lia, Bari, 1949, p. 39 sgg.). Per i rapporti con lo scotismo uti-
li i testi, specialmente dalle opere latine (Opera omnia, Lugdu-
ni, 1650), indicati da D. SCARAMUZZI, La dottrina del B. G.
Duns Scoto nella predicazione di San Bernardino da Siena, Firen-
ze, 1930. La lettera del Bruni riferita dal Cannarozzi, I, p. XX-
XIX, è tratta dal Laur. plut. 90, 34, fol. 206. Ma più notevo-
le quella ufficiale, sempre del B., del 1439 (ms. Panciat. 148,
112r).
53
Le parole del Bruni sul ritorno della cultura in L. ARETI-
NI Rerum suo tempore gestarum commentarius, in MURATO-

Storia d’Italia Einaudi 47


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

La conoscenza dell’altrui pensiero, non barbaramente


violentato, ma religiosamente restituito nella sua integri-
tà, umilmente ascoltato nella sua pienezza, fa entrare gli
spiriti in una ideale società, dove nella voce degli uomini
si traduce solenne la parola di Dio. Ecco perché la con-
versazione con gli spiriti maggiori d’ogni tempo, cui ci
abituano gli studia litterarum, non è affatto «volgare eru-
dizione» ma scoperta del vincolo umano a tutti comu-
ne, sviluppo delle basi ideali d’ogni verace città. Quan-
do Angelo Decembrio nella sua Politia literaria presen-
terà la scuola del Guarino, si affretterà a chiarire che egli
adopera il termine politia, non nel senso greco di città o
repubblica delle lettere, ma in quello latino di cultura (
«a polio verbi nostri significatione, vel urbana conversa-
tione... quam et ipsam elegantiam elegantiaeque cultu-
ram intelligi volumus»). Senonché questo mondo della
cultura umana, in cui gli spiriti «urbanamente conversa-
no» fuori dei limiti del tempo e dello spazio, è appun-
to una ideale repubblica, in cui affonda le radici onde
trarne sapore tutta la nostra vita spirituale. E la conver-
sazione civile e politica stessa è preparata e illuminata e
sorretta proprio da quella cultura54 .
È il Bruni che nella vita di Dante scrive: «doppo que-
sta battaglia [di Campaldino] tornò Dante a casa; agli
studi più che prima si diede, e niente di manco niente tra-

RI, Rer. ital. Script., XIX, 3, ed. C. di Pierro, 1926, p. 403 sgg.
Sugli studia humanitatis cfr. Epist., ed Mehus, Florentiae, II, p.
49: «quae propterea humanitatis studia nuncupantur, quod ho-
minem perficiant atque exornent» (v. CAROLI SIGONII de
laudibus studiorum humanitatis, in M. A. MURETI Orationes,
Lugduni, 1590, p. 97).
54
ANGELI DECEMBRII Mediolanensis Ad summum
pontificem Pium II de Politia literaria, Basileae, 1562, p. 6. Po-
litia titeraria significa qui, insieme, la honesta disciplina del Cri-
nito e la elegantia del Valla.

Storia d’Italia Einaudi 48


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lasciò delle conversazioni urbane e civili... Nella qual co-


sa mi giova riprendere l’errore di molti ignoranti, i quali
credono niuno essere studiante, se non quelli che si na-
scondono in solitudine e in ozio, ed io non vidi mai niu-
no di questi camuffati e rimossi dalla conversazione de-
gli uomini, che sapesse tre lettere... Né solamente con-
versò civilmente con gli uomini Dante; ma ancora tolse
moglie.. della quale ebbe più figliuoli... Qui il Boccac-
cio non ha pazienza, e dice le mogli esser contrarie alli
studi, e non si ricorda che Socrate, il più sommo Filoso-
fo che mai fosse, ebbe moglie e figliuoli ed offizi nella re-
pubblica della sua città, ed Aristotile, che non si può dire
più là di sapienza e di dottrina, ebbe due mogli in diversi
tempi, ed ebbe figliuoli e ricchezze assai. E Marco Tul-
lio, e Catone, e Seneca, e Varrone, latini sommi filosofi,
tutti ebbero moglie, figliuoli, ed offizi, e governi nella re-
pubblica... L’uomo è animal civile, secondo piace a tut-
ti i filosofi; la prima congiunzione, della quale multipli-
cata nasce la città, è marito e moglie, né cosa può esser
perfetta dove questa non sia»55 .
La stretta connessione posta qui dal Bruni fra cultura
e vita sociale risponde in pieno alla tesi del Salutati, lo-
datore anch’esso delle famiglie operose, degli stati pro-
speri, delle attività mondane. Anche Salutati insiste for-
temente sul valore positivo del matrimonio, e ne tesse le
lodi, affrontando un argomento che sarà particolarmen-
te caro alla letteratura moralistica del ’400, e che servi-
rà quasi da pietra di paragone per definire i singoli at-
teggiamenti. Così vediamo il Manetti convenir col Bru-
ni nell’esaltare Socrate filosofo, cittadino e padre di fa-
miglia. Ecco i trattati De re uxoria di Francesco Barbaro,

55
LEONARDO BRUNI, Vita di Dante in PHILIPPI
VILLANI Liber, p. 46 (cfr. anche A. SOLERTI, Le vite
di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, Milano,
1904).

Storia d’Italia Einaudi 49


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

De dignitate matrimonii del Campano; ecco il più vivace


scritto di Guiniforte Barzizza56 .
La tendenza a risolvere l’humanitas in un mero fatto
culturale, e le litterae in retorica, contro cui mettono in
guardia già il Salutati e il Bruni, si svela proprio nella di-
versa posizione presa di fronte a questo fondamentale at-
to di partecipazione al consorzio umano. Per gli uni cul-
tura è umana conversazione: vita civile integra, dunque.
Ancora il Ficino, con tutto il suo ascetismo platonico,
esclama, lodando il matrimonio: «così l’uomo, come di-
vino, con una certa successione l’umana specie perpetua
conserva. E, come grato, alla natura rende quel che pre-
stato gli aveva...; come felice e vero scultore, la sua viva
immagine scolpisce ne’ figli... Oltre ciò ha una domesti-
ca repubblica, nel governo della quale tutte le forze della
prudenza e della virtù pone... Finalmente la moglie e la
famiglia, o ci è dolce consolazione ed alleggerimento di
fatiche, ovvero un certo profondo esercizio alla morale
filosofia». Agli occhi del sacerdote Marsilio Ficino non
può non spogliarsi dell’umanità stessa, che è vita comu-
ne, colui che dispregia il matrimonio. «Per ciò se volete
esser uomini, e legittimi figli di Dio, accrescete legittima-
mente gli uomini, e a Dio somigliando, così come Dio,
figliuoli a voi simili create, nutrite, reggete e governate.
E ricordatevi infine che governando con somma diligen-
za la famiglia, formate voi stessi, divenite esperti e ono-

56
FR. BARBARI De re uxoria liber in partes duas, ed. A.
Gnesotto in «Atti e Memorie d. R. Accad. di Padova», vol.
XXXII, 1915, pp. 8-103: composto nello stesso clima, i Dialogi
del Bruni, il De ingenuis moribus del Vergerio e il De re uxoria di
F. Barbaro costituiscono, presi insieme, un quadro tipico di un
atteggiamento caratteristico del primo Quattrocento fiorentino,
Il De dignitate matrimonii del Campano in Opera, Venezia,
1595. Utile per la bibliografia è il volume di R. KELSO,
Doctrine for the Lady of the Renaissance, Urbana Ill. 1956.

Storia d’Italia Einaudi 50


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

rati nella terrena repubblica, e vi fate degni della celeste


città».
II Ficino ritrovava il tono e la nobiltà del vecchio Co-
luccio, e il suo ideale dell’uomo completo, capace d’ar-
monizzare in profonda unità cultura e vita morale. Di
contro, la retorica celebrava il suo tripudio con Ermolao
Barbaro, il quale in una lettera del 1486 a Arnoldo di Bo-
st, ove troviamo la forte e significativa espressione duos
agnosco dominos, Christum et litteras, condanna in pie-
no il matrimonio. «Non v’è nulla di così pernicioso al-
la cultura quanto il matrimonio e la cura dei figli. Non
condanno in senso assoluto – senza matrimoni neppur le
lettere ci sarebbero; ma il letterato, colui che contempla
Dio, le stelle e la natura, deve essere libero e sciolto da
tale catena»57 . Il contrasto fra l’humanitas del Bruni e la
retorica del Barbaro si rivela qui crudamente. Là la cul-
tura umanistica è pienezza di umanità, e quindi società.
Qui è isolamento, contemplazione, letteratura.

2. Leonardo Bruni

Il Bruni era fisso a tutt’altro ideale: le humanae litterae,


gli studia humanitatis sono formazione dell’uomo inte-
grale: «inest auctoritas magna propter elegantiam, et in-
genuitas quaedam liberis hominibus digna». Questo è lo
scopo della formazione umanistica: essere una compiu-
ta educazione umana. Per questo egli tiene gli occhi fissi
alla virtù civile. Presentando la sua traduzione della Po-

57
M. FICINI Opera, Basileae, 1565, I, 778-779. ERMO-
LAO BARBARO, Epistolae, Orationes et Carmina, ed. V.
Branca, Firenze, 1943, I, p. 96. Nel Valla l’esaltazione della
carne va ben più in là: «melius merentur scorta et postribula de
genere humano quam sanctimoniales virgines et continentes»
(Opera, Basileae, 1543, p. 924).

Storia d’Italia Einaudi 51


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

litica aristotelica, egli afferma appunto: «fra gli insegna-


menti morali con i quali si forma e si educa la vita umana,
tengono in certo modo il posto più alto quelli che con-
cernono gli stati e il loro governo, poiché tale disciplina
tende a procacciare la felicità a tutti gli uomini. E se è ot-
tima cosa dare la felicità ad un solo, quanto sarà più bel-
lo conquistarla a tutto uno stato? Il bene, infatti, quanto
più ampiamente si diffonde, tanto più divino deve con-
siderarsi...». La vita civile, questa società concretata dal-
l’uomo, è, insieme, perfezione dell’individuo, che rag-
giunge la propria compiutezza solo nell’umana comuni-
cazione. «Cumque homo imbecillum sit animal et, quam
per se ipsum non habet sufficientiam perfectionemque,
ex civili societate reportet, nulla profecto convenientior
disciplina homini esse potest, quam, quid sit civitas et
quid respublica, intelligere...»58 .
L’interesse del Bruni è, sempre, tutto rivolto alle cose
del mondo, della sua città, in cui le virtù si conservano e
si esaltano. Le indagini naturali non lo attirano; «hanno
sì un pregio teorico non comune, ma nessun valore di vi-
ta; l’altra filosofia invece è, per dir così, tutta nostra»59 .
Con Socrate egli ripete che ciò che è oltre le mura del-

58
H. BARON, Leonardo Bruni Aretino, Humanistisch-
philosophische Schriften mit einer Chronologie seiner Werke und
Briefe, Leipzig-Berlin, 1928, p. 73, ove sono contenuti i testi qui
indicati. Sulle traduzioni aristoteliche cfr. quanto di notizie so-
no venuto raccogliendo nel saggio Le traduzioni umanistiche di
Aristotele nel secolo XV, Firenze, 1951 (Accademia di scienze
morali «La Colombaria», VIII). Un discorso a sé meriterebbe-
ro i commenti quattrocenteschi fiorentini all’etica e alla politi-
ca aristoteliche (per qualche tema e indicazione di fonti cfr. la
mia Giovinezza di Donato Acciaiuoli, «Rinascimento», I, 1951,
pp. 43-70).
59
In questo senso sono orientate anche le battute filosofiche
dei Dialogi ad Petrum Histrum del 1401, dove si scherniscono
la fisica e la logica degli occamisti, che anche in Firenze ave-
vano trovato un difensore in Francesco Landini, il Cieco degli

Storia d’Italia Einaudi 52


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

la sua città non l’interessa. Il che, tuttavia, non impli-


ca una monastica chiusura, ma un socratico dono di sé
agli altri, un cristiano amore del prossimo. Il bene soli-
tario, s’è visto, è tristissima cosa; noi godiamo donando-
ci. Ciò che vale non è la contemplazione statica e chiu-
sa, il βίoς θωρητικ óς aristotelico, l’ascesi stoica o
la vita conventuale. Gli uomini sono chiamati a opera-
re sul piano della carità. Se l’impostazione dei problemi
del Bruni è, generalmente, di sapore aristotelico, dell’A-
ristotele etico, lo spirito animatore è tutto cristiano. Di
un cristianesimo che all’ideale greco dello contemplazio-
ne coscientemente oppone quello di una volontà operan-
te per il bene comune. Di qui anche l’ammirazione per
Cicerone, per l’etica romana preoccupata di risolvere il
pensiero in termini concreti, per Dante, ideale dell’uomo
completo opposto al letterato solitario, stoicamente iso-
lato dal mondo ed inutile nel mondo. «Mi giova ripren-
dere l’errore di molti ignoranti, i quali credono niuno es-
sere studiante se non quelli che si nascondono in solitu-
dine ed in ozio... Lo ’ngegno alto e grande non ha bi-
sogno di tali tormenti, anzi è vera conclusione, e certis-
sima, che quello che non appara tosto non appara mai;
sicché straniarsi e levarsi dalla conversazione è al tutto
di quelli che niente sono atti con loro basso ingegno ad
imprendere».
Presentando a Cosimo il Vecchio la traduzione del-
le epistole platoniche, eccolo sciogliere un inno al senso
platonico della vita politica. Nella bella introduzione alla
versione della Politica d’Aristotele noi leggiamo una ele-
gante dimostrazione della tesi che il bene operare è tan-

Organi (1325-1397). I dialoghi, idealmente connessi col De in-


genuis moribus del Vergerio, puntano sull’esaltazione dell’anti-
co e sul valore dell’aurea eloquenza ciceroniana, ma sono ben
lontani da un’idolatria che dimentichi i moderni, difesi anzi con
molto calore dal vecchio Coluccio.

Storia d’Italia Einaudi 53


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to più fecondo quanto più grande è il numero di coloro


che dalle nostre azioni traggono vantaggio. E v’è, al cen-
tro, insistente l’asserzione che l’uomo, «debole animale,
per sé insufficiente, raggiunge la sua perfezione solo nel-
la civile società», onde «non v’è per l’uomo disciplina più
conveniente del conoscere che sia lo Stato, cosa la città,
in che modo si conservino e periscano». Questa classica
preoccupazione del bene comune, che a parere del Bru-
ni costituiva il fulcro del pensiero di Platone, d’Aristote-
le e di Cicerone, secondo lui s’incontrava poi pienamen-
te col motivo centrale dell’etica cristiana. «Questa parte
della filosofia – scriverà a Eugenio IV – che tratta dei co-
stumi, del governo degli stati, del miglior modo di vivere,
è quasi uguale nei filosofi pagani e nei nostri». Per que-
sto lo studio degli antichi era per lui quasi fondamento
unico per il raggiungimento di una coscienza piena della
propria umanità60 .

3. Poggio Bracciolini e il valore dei beni terreni

Nell’introduzione alla sua traduzione degli Economici


d’Aristotele Leonardo Bruni aveva sottolineato il valo-
re della ricchezza, di quel danaro che, secondo la bella
immagine del Davanzati, è per la città quello che è il san-
gue per il singolo. In questa generale rivalutazione del
mondo umano in ogni suo aspetto, noi vediamo che an-
che l’attività economica viene considerata ed apprezzata.

60
Sul significato della partecipazione piena alla «vita civile»
cfr. del Bruni, De militia liber singularis, pubblicato in appen-
dice alle Osservazioni e dissertazioni varie... concernenti... .An-
tonio da Pratovecchio, Livorno, 1764, p. 81 e sgg., e ora, criti-
camente, in appendice al volume di C. C. BAYLEY, War and
Society in Renaissance Florence, Toronto, 1961, pp. 361-97 (ai
mss. usati dal Bayley va aggiunto quello, assai notevole, dell’Ar-
ch. di Stato di Firenze, Strozziane, III, 46, cc. 1-8).

Storia d’Italia Einaudi 54


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Tra il 1428 e il 1429 Poggio Bracciolini compone il dia-


logo De avaritia dove Antonio Loschi, mentre si scaglia
contro l’ipocrisia fratesca, illustra la naturalità della bra-
ma del danaro, anzi la sua utilità nel consorzio civile61 . Se
tutti gli uomini, senza distinzione di sesso, d’età, di con-
dizione o di razza, bramano il danaro, nessuno potrà ne-
gare esser naturale l’avidità dell’oro. «E non obbiettarmi
qualcuno di quei rozzi, ipocriti parassiti, che vanno in gi-
ro dando la caccia al vitto, senza lavorare e faticare, col
pretesto della religione, predicando agli altri la povertà
e il disprezzo dei beni. Noi non costruiremo le nostre
città con codeste larve d’uomini, che nell’ozio più com-
pleto si mantengono col nostro lavoro». Ma alla polemi-
ca antifratesca, che scoppierà così crudele nel Contra hy-
pocritas, sottentra subito l’aspetto costruttivo: una stra-
na, moderna valorizzazione del denaro, e vorremmo dire
del capitale, traversa queste pagine, che sfuggirono così
a Max Weber come ai suoi critici, fermi a considerare le
preoccupazioni sociali di s. Antonino o le tesi dell’Alber-
ti. Poggio ci presenta con efficacia polemica il sovvertirsi
della società intera che seguirebbe al chiudersi di ciascu-
no in un’economia preoccupata di soddisfare soltanto i
bisogni del singolo in ogni momento singolo. Ciascuno
sarebbe impegnato e tutto assorbito dalle necessità del-
la vita vegetativa. «Scomparirebbe dalle città ogni splen-
dore, ogni bellezza, ogni ornamento; non più templi, non
monumenti, non arti...; l’intera vita nostra e dello Stato
sarebbe sovvertita se ciascuno si procurasse solo il neces-
sario... Allo Stato il danaro è nerbo necessario, e gli avari
ne devono esser considerati base e fondamento»62 .

61
POGGIO BRACCIOLINI, Historia disceptativa de ava-
ricia, Opera, fol. 7 r.
62
Un grande interesse ha, in proposito l’atteggiamento attri-
buito, sia pure polemicamente, dal Filelfo al Poggio nel terzo
dialogo delle Commentationes florentinae de exilio (dal ms. au-

Storia d’Italia Einaudi 55


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Il lavoro, che in Giordano Bruno susciterà un inno ap-


passionato, è non condanna, ma benedizione; è l’espan-
dersi umano con cui l’uomo fa a sé umano e familiare il
mondo. E la ricchezza è quasi tangibile segno della ap-
provazione divina. Già in Salutati Dio guarda benigno i
pingui greggi e la copiosa roba di Giacobbe. E se può
sembrar legata a un antico motivo retorico l’esclamazio-
ne dell’Alberti, esser la povertà invisa agli dèi come agli

tografo della Naz. di Firenze, II, II, 70), dove il Bracciolini


tesse l’elogio di Cosimo e della concretezza delle res, che sono
quasi la tangibile espressione dell’attività umana. Rivolgendosi
al Bruni, egli rileva l’inutilità della vuota retorica: «at apud Co-
smum Medicem, Leonarde, minimum omnium valeat, qui rem
malit quam verba expendere. Huius divitiae sunt amplissimae,
nec eas tamen consumit in umbris. Nec enim te fugit quam sae-
pe multi istiusmodi Diogenes et Cratetes eius aedes frequentant
ut aliquid implorent, aliquid petant; quos facile semper audit,
exaudit numquam. Nam in iis nullam nec publicam videt nec
privatam utilitatem esse repositam praeter impudentiam singu-
larem. Sed in eos se liberalem praestat, qui vel sibi possint vel
reipublicae esse usui» (fol. 93 r). Altrove insiste: «vir gravis et
callidus rem longe malit quam verba considerare» (fol. 92 r).
E criticando gli atteggiamenti ascetici: «obscura ista et iniucun-
da vivendi victitandique institutio, quam ab Anthistene profec-
tam, a Diogene auctam, a Cratete confirmatam video, est fera-
rum, et earum quidem immanium, non urbanorum hominum»
(fol. 98 r),. Ma particolarmente significativo tutto il libro III
(de paupertate), ove il trionfo dei Medici è attribuito alla poten-
za del denaro e dove anche il Bruni difende le ricchezze attiran-
dosi la risposta: «et ipse dives est ad sexaginta millia aureum et
apud te loquitur [Palla Strozzi] cui gratificari putat, qui adeo
sis locuples ut ad trecenta millia aureum aut etiam amplius ae-
des tui fundique ascendant (foll. 83-84)». Cfr. i testi da me edi-
ti del Filelfo e del Landino (Testi inediti e rari, Firenze, 1949);
ma documenti caratteristici si trovano un po’ dappertutto (cfr.
p. es. le lettere scambiate fra G. Manetti e D. Acciaiuoli, ms.
Magliab. VIII, 1390; o quelle di Niccolò Luna al Palmieri, ms.
Riccardiano 1166).

Storia d’Italia Einaudi 56


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

uomini, ha invece significato incancellabile il mito nar-


rato dall’infelice giurista pesarese Pandolfo Collenuccio.
Il Lavoro, dio attivo, non può rimaner celibe; e sposa la
solerte Agenoria, figlia dell’Uso, cui Pallade aveva scelto
otto nobilissime ancelle: Politia, Opi, Pale, Aracne, La-
runda, Dori, Bellona e Panacea, che «sempre procurava-
no messi, bestiame, vesti, case, merci, difesa, salvezza»,
obbedienti e coordinate nei loro sforzi da Politia. E sette
figlie nacquero dal felice connubio: Vita, Valentia, Virtù,
Vittoria, Ubertà, Verità, Voluttà63 .
Ma per tornare al Bracciolini, non v’è accento carat-
teristico dell’umanesimo che in lui non si ritrovi. Vera-
mente, come scrive al Niccoli, le litterae hanno giovato
ad vitam et mores. Ed innanzitutto v’è l’insistente po-
lemica contro ogni sterile ascesi, contro ogni monastica
solitudine64 . «Se la vita umana fosse privata della salu-
te, della ricchezza, della patria, la nostra virtù rimarreb-
be senza dubbio agghiacciata, solitaria, sterile, non usci-
rebbe tra gli uomini, nella loro vita reale. E da essa na-
scerebbe una rustica nobiltà priva veramente d’ogni no-
biltà». Si suol ricordare, quasi manifesto dell’età moder-
na, l’invito di Campanella a Pico della Mirandola, che
esca dalle biblioteche nell’ansia operosa del mondo. Ma
già Poggio disdegna il dotto chiuso tra i codici, bramoso
di una rustica virtù. «Io invece quella bramo, quella ap-
provo, che l’umana consuetudine conferma». Quella ve-
ra virtus, celebrazione dell’uomo completo, che si misu-
ra nel mondo, e gode del mondo. Standum in acie, escla-
mava Coluccio; e Poggio affronta coraggiosamente i due
temi della gloria e della fortuna. È la gloria quasi l’aspet-

63
L. B. ALBERTI, Opera inedita et pauca separatim impres-
sa, Firenze, 1890, p. 169; PANDOLFO COLLENUCCIO,
Agenoria, in Operette morali, Bari, 1929, pp. 15-17.
64
Dell’epistolario del Bracciolini si è usata l’edizione del
Tonelli, 3 voll., Firenze, 1832-61.

Storia d’Italia Einaudi 57


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to tangibile, il corpo della virtù, l’eco sua diffusa nella


società umana, indisgiungibile da una verace virtù civile.
E connesse alla gloria sono le lettere, che nell’unica cit-
tà dello spirito umano fanno vivere e vibrare la memo-
ria dei grandi fatti, espressione concreta di una collabo-
razione di anime che non conosce limiti di tempo o di
spazio.
Disdegnare la gloria per amore della virtù è vagheg-
giare un ideale di virtù monastica e solitaria, sterile e va-
na. Una virtù integra e piena non può essere disgiunta
da questo suo ripercuotersi come paradigma e come me-
ta nei cuori degli altri uomini; e la gloria è quasi il segno
tangibile del suo irraggiarsi sociale.
Né può trascurarsi, nella considerazione della vita e
della virtù umana, il problema della fortuna. È, la fortu-
na, la trama stessa degli eventi in un suo incontrollabile
processo, il mareggiare delle cose, il risultato degli atti in
quanto viene inserendosi nel corso della realtà. Ora l’uo-
mo non può essere ad essa indifferente nell’illusorio ri-
fugio di una sua pretesa roccaforte di solitaria virtù. La
virtù, se è seria virtù, è sociale, è incremento dell’uma-
na città, cui non può essere indifferente o estranea la fe-
condità, la riuscita degli atti. Nel Liber de nobilitate Pog-
gio insiste sul motivo della virtù che nobilita, ma insie-
me, sul valore della nobiltà come espressione di una vir-
tù feconda e riconosciuta come tale; di una virtù che si
impone vittoriosa sulla fortuna, e trasforma il mondo de-
gli uomini, anche quando si manifesta nelle meditazioni
dei filosofi, «che con i loro studi e le loro veglie educano,
benché separati, la vita desti uomini nelle varie arti»65 .

65
POGGIO BRACCIOLINI Ad insignem omnique laude
praestantissimum virum Gerardum Cumanum de nobilitate liber,
Opera, fol. 31 v-32 r. Sul concetto della gloria e dei letterati che
danno la gloria cfr. il De infelicitate principum e il De veritate

Storia d’Italia Einaudi 58


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

D’altra parte, proprio nel De nobilitate, il Bracciolini


sottolineava i due temi fondamentali nella discussione
umanistica sulla nobiltà, da cui uscirono e gli scritti
di Buonaccorso da Montemagno66 e, sul declinare del
secolo, l’opera del Landino: il motivo antiascetico, che
accentua il significato della nobiltà come riconoscimento
della virtù, ma insieme l’esaltazione di una nobiltà tutta
nata da virtù, dal lavoro di ognuno, e non da diritto
ereditario. «La virtù è a disposizione di tutti; essa diventa
propria di chi l’abbraccia. I pigri, gl’ignavi, i malvagi, i
perversi, che credono di succedere ai loro antenati, sono
da stimarsi tanto meno degli altri quanto più sono lontani
dal somigliare a coloro da cui discendono».

4. Il mondo delle passioni e il valore del piacere

Tutta la prosa, talora mirabile, del Bracciolini è percorsa


da una valutazione positiva di ogni manifestazione della
vita nella sua integrale schiettezza. Le sue celebri descri-
zioni di spettacoli della natura, o della grazia perfetta di
un corpo umano, rientrano in questa fresca sensibilità di
fronte a tutti gli aspetti della vita. C’è in lui sempre desta
la coscienza, del resto profondamente cristiana, dell’in-
carnazione dello spirito. L’uomo non è anima, è uomo,
e cioè un corpo oltre che uno spirito. Con molta preci-
sione scrive il Filelfo in una epistola del 1450: «io non
capisco come ci si possa dimenticare del corpo dal mo-
mento che l’uomo non è solo anima» (quomodo corporis

fortunae. La Oratio in laudem matrimonii si trova anche nel ms.


magliab. II, IX, 14, c. 119 r-127 r.
66
Il De nobilitate di Buonaccorso da Montemagno (Prose e
rime, Firenze, 1718), volgarizzato da Giovanni Aurispa, non è
che un’esercitazione retorica dove le due tesi, nobiltà del sangue
e delle azioni sono messe vivacemente a confronto.

Storia d’Italia Einaudi 59


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

oblivisci queat non intelligo, siquidem neque solus animus


homo est)67 .
Proprio in questa ricerca di un equilibrio, capace di
soddisfare le varie esigenze dell’uomo in una tranquilla
condotta morale, consiste il maggior significato dell’in-
dagine di Francesco Filelfo, assai più fecondo che non
profondo scrittore. In una sua lettera a Bartolomeo Fra-
canzani, meglio che nel prolisso trattato De morali disci-
plina, è delineato chiaramente in termini aristotelici il suo
ideale della alipia, e cioè di una tranquillità calma e sicu-
ra dell’animo, in cui si placa ogni turbamento ed ogni tu-
multo. La pace, dunque, ma una pace soddisfatta per
il temperato soddisfacimento, oltre che dello spirito, del
corpo68 .
Del resto tutta l’opera sua è improntata a una tendenza
conciliatrice fra le varie posizioni contrastanti, e in par-
ticolare tra Aristotele e Platone. Al socratismo e all’a-
ristotelismo del primo umanesimo si veniva ormai chia-
ramente opponendo Platone. Filelfo già sostiene la tesi,
che sarà cara alla scuola del Ficino, dell’accordo sostan-
ziale fra i due maggiori filosofi dell’antichità. Solo che la
sua conciliazione è priva d’ogni profondità. Troppo pre-
so da una retorica superficiale, svuotando gli studia hu-
manitatis di ogni vera umanità, nelle sue prolusioni il Fi-
lelfo viene degradando ad artificio grammaticale un’in-
tuizione della vita. Quando antepone a Socrate, a Plato-
ne, ad Aristotele Cicerone per la sua eleganza oratoria, se
può incontrarsi con certi atteggiamenti del Poliziano o di

67
Filelfo, in ms, magliab. VIII, 1445, c. 308-9. Nelle
Commentationes, fol. 81 r, scrive: «si hominem scimus non
animum, non corpus, sed tertium quiddam, quod et animo
constet et corpore, immortali mortalique natura, nequaquam
ambigere nos oportet...».
68
Cfr. del Filelfo, oltre le Epistulae, Venetiis, 1502, il De
morali disciplina, Venetiis, 1552. Numerosi testi in C. DE
ROSMINI, Vita di Francesco Filelfo, Milano, 1808, 3 voll.

Storia d’Italia Einaudi 60


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Ermolao Barbaro, si pone tuttavia già fuori della grande


tradizione umanistica, di cui solo qualche riflesso si può
talora rintracciare, per esempio nei dialoghi delle Com-
mentationes florentinae de exilio, attraverso l’esaltazione
della ricchezza messa in bocca al Bracciolini nel terzo li-
bro De paupertate.
Tutt’altro tono hanno invece le lodi dell’epicureismo
che troviamo nell’epistola di Cosimo Raimondi da Cre-
mona, assai dotto latinista, finito suicida nel 1435. La
polemica del Raimondi, come quella del Valla, è indiriz-
zata contro gli stoici, «filosofi aspri e inumani, con i sen-
si sopiti e chiusi, morti ad ogni allettamento della gioia».
Errore fondamentale d’ogni ascetismo è di non conside-
rare che la virtù umana è virtù di tutto l’uomo, anima
e corpo, nella loro armonia perennemente riconquistata.
L’avere inteso questo è, appunto, il merito di Epicuro,
non uomo, ma essere veramente divino. «Si condanna
Epicuro perché si ritiene che abbia avuto del sommo be-
ne una concezione troppo rilassata, ponendolo nel pia-
cere ed asserendo che tutto va ad esso riferito. Io inve-
ce, se più accuratamente lo considero, ogni giorno sem-
pre di più sono solito approvarne questa opinione, qua-
siché fosse norma e principio non di un uomo, ma di uno
spirito superiore. Egli pose il bene supremo nel piacere,
avendo visto più a fondo la forza della natura, avendo
compreso che siamo nati e siamo stati formati dalla na-
tura in modo che nulla ci fosse più appropriato del man-
tenere sane ed integre tutte le membra del nostro corpo,
conservandole nel loro stato, senza essere affetti da alcun
male dell’animo o del corpo»69 .

69
La lettera del Raimondi, l’unico suo scritto filosofico, fu
pubblicata dal SANTINI, Cosma Raimondi umanista ed epicu-
reo, «Studi storici», 1899, pp. 153-66, di su un codice del libra-
io Martini, e dalla sua stampa fu da me riprodotta e tradotta nei
Filosofi italiani di ’400, Firenze, 1942, pp. 133-49. Successiva-

Storia d’Italia Einaudi 61


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Il Raimondi insiste con efficacia sulla bellezza cui ci


affacciamo con i sensi, sulla gioia di vivere che si tradu-
ce e si valuta, appunto, in piacere. L’epicureismo, qua-
le appariva da Diogene Laerzio e dal poema lucreziano
scoperto nel 1418 dal Bracciolini, e subito comunicato
al Niccoli, offriva una base felice per questa caratteristi-
ca riconsacrazione della natura nella sua integrità. Esal-
tazione che si vestiva di toni irreligiosi fino a sboccare
nella più schietta empietà anticristiana, come avvenne in
Roma nel circolo di Pomponio Leto. «Costoro tenevano
opinione che non fusse altro mondo che questo, et mor-
to il corpo morisse la anima, et demum che ogni cosa fus-
se nulla se non attendere a detti piaceri e vuluptà, secta-
tori del Epicuro et de Aristippo...»70 . Ove, a parte ogni
probabile esagerazione polemica dell’inviato di Galeazzo
Maria Sforza, qualcosa pur si rifletteva dell’atteggiamen-
to di certi letterati del gruppo romano, come specialmen-
te Filippo Bonaccorsi (Callimaco Esperiente), che anche
altrove vediamo avverso alla platonica separazione del-
l’anima dal corpo71 . La propria ortodossia sostenne in-
vece sempre il Platina, di cui suonano tuttavia vivacissi-

mente ne identificavo una copia nell’anonimo Laur. Ashb. 267


del sec. XV, col titolo Defensio Epicuri contra Stoicos, Achade-
micos et Peripateticos («Rinascimento», 1950, pp. 100-101).
70
Il testo integrale nel PASTOR, Storia dei Papi, tr. Mercati,
Roma, 1925, vol. II, p. 742.
71
Sulla posizione di Callimaco Esperiente e suoi scritti cfr.
B. KIESZKOWSY, Filippo Buonaccorsi detto Callimaco e le
correnti filosofiche del Rinascimento, «Giornale critico della
filosofia italiana», 1934, pp. 281-94. Notevole la quaestio de
peccato indirizzata in forma d’epistola al Pico (segnalata dallo
Zeissberg, in «Arch. für österr. Gesch.», vol. 55, 1877 e
pubblicata parzialmente da me, «Rivista critica di storia della
filosofia», 12, 1957, pp. 16-21. La Rhetorica è stata pubblicata
dal Kumaniecki, Varsavia, 1950). Gli scritti del Platina nell’ed.
di Colonia del 1540. Il De optimo cive, con la trad. di F.

Storia d’Italia Einaudi 62


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

me le sferzate contro i monaci, gli asceti e i contemplan-


ti di tutte le fedi. «Molti, sia Greci che Egizi, si sono di-
lettati della contemplazione, e molto hanno scritto circa i
misteri e le meraviglie del creato... Ma io lodo ed ammi-
ro sopra tutti i Romani che, dimenticando i vantaggi dei
singoli e i godimenti dello spirito, scrivendo intorno alle
leggi e alla morale, provvidero sempre alla comune utilità
degli uomini». La scienza stessa, la cultura, è presentata
nel De falso et vero bono come un mezzo di comunicazio-
ne umana, un linguaggio che supera tempi, luoghi, diffe-
renze di nazione e di razza. «Unico fra tutti l’uomo dot-
to non è straniero in terra straniera.. La cultura, dovun-
que ci rechiamo, ci accompagna, ci guida, ci riconduce
in porto». I naufraghi sbattuti dalle onde su una spiag-
gia ignota, ecco che si rianimano scorgendo sulla sabbia
tracce di figure geometriche. E il filosofo che è tra essi,
li saluterà con l’insegnamento: «dite ai miei concittadini
che i genitori non possono dare ai figli viatico migliore di
una educazione nelle discipline liberali»72 .
Le lettere, intese come honesta disciplina, come studia
humanitatis, rappresentano il più solido e vasto vincolo
umano.

5. Il Valla e le scienze morali

Lorenzo Valla fu veramente colui che si impegnò in ogni


campo per la valorizzazione piena, totale, della vita mon-
dana, in tutti i suoi aspetti, contro ogni negazione asce-
tica. La sua polemica antistoica, la sua satira antimona-
stica, è esigenza di integrità di vita, in una purezza che

Battaglia, nell’ed. di Bologna, 1944 (insieme a MATTEO


PALMIERI, Della vita civile).
72
Dal De falso et vero bono, II (ed. Colonia).

Storia d’Italia Einaudi 63


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

vuol riconoscere anche nella natura, nella carne, l’opera


di Dio. Dalle mani di Dio è uscito tutto l’uomo, anima
e corpo; né v’è parte dovuta al demonio. Non a caso s’è
detto purezza ; nel Valla c’è un bisogno quasi casto di li-
berarsi da soprastrutture che sono troppo spesso dege-
nerati pervertimenti, foschi lembi di barbarie, sotto cui
va ritrovata la schiettezza di un’innocenza tradita. L’ap-
pello alla natura, alla voluptas del De vero bono (de vo-
luptate), non può idealmente disgiungersi né dal tono fi-
deistico del De libero arbitrio, né dalla esigenza di una lo-
gica più aderente ai movimenti del pensiero, di un dirit-
to libero da ogni cristallizzazione, di un linguaggio che
abbia ritrovato le direzioni originarie.
Il Valla è sempre crudelmente polemico, e questo suo
accento riveste di colori particolari, e quasi scandalosi,
le antitesi di cui si compiace nei confronti del passato.
Ecco così gli accorgimenti letterari con cui viene esalta-
ta la voluptas. Ma il senso più intimo è in quel richiamo
alla natura che freme e vive in noi, divina e ministra di
Dio, contro cui pecca chi la soffochi o la venga mutilan-
do. Scopo dell’uomo è, non mutilare se stesso, ma svol-
gere le sue attività e godere quella lieta commozione del-
l’animo, quella soave giocondità del corpo, in cui appun-
to consiste la ηδoν ή. Goderla in questo mondo, con-
tro ogni ascesi stoica e cristiana, riconoscendo il valore
del piacere come compenso e scopo dell’azione; goderla
nell’altro mondo come sanzione divina al nostro operare:
ecco, secondo Valla, il segno di una saggezza verace. Il
tradizionale rapporto di mezzo a fine, il moto dall’onestà
al piacere, oltre che immoralmente gretto anche falso, va
invertito, o meglio va eliminato. Non l’onesto per il pia-
cevole, e neppure il piacevole per l’onesto, ma il piacere
per sé (voluptatem propter se ipsam expetendam): l’agire
vale in se medesimo, non per altro. V’è, nel pensiero del
Valla a questo proposito, come un intrinsecarsi di gioia e
di moralità che corrisponde all’incarnarsi umano, per cui

Storia d’Italia Einaudi 64


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

non v’è, né può esservi, separazione netta, o meglio op-


posizione, fra carne e spirito. La difesa della natura nel-
la sua integrità, che costituisce il centro di tutto il primo
libro del De voluptate, non mira, come pur si è detto, a
sostituire la natura a Dio, ma a rivendicare la santità e la
perfezione della ministra prima di Dio; di questo saggio
e provvidenziale ordine di cose, cui l’atto deve adeguar-
si. E proprio in questo naturale agire, e cioè in questa in-
serzione precisa dell’atto nella realtà, è il bonum; o per
lo meno un bonum reale, fecondo, concreto, e non quel
nome vano che è il bonum stoico, duramente contrappo-
sto all’ordine naturale. La voluptas, la divina voluptas è
il segno di questa fecondità, e scende sull’azione come
benedizione di Dio (Nomen ipsum honesti cassum quid-
dam et nugatorium planeque pernitiosum. Voluptate nihil
amabilius nihilque praestantius). Nel piacere si esprime
in tutta la sua forza la natura, e manifesta la positività del
suo espandersi. E nel godimento, nella gioia, noi provia-
mo questo irrompere in noi del torrente di delizia, la cui
esaltata fruizione è, appunto, il paradiso («delectatio» at-
que «deliciae», non a «delecto», sed a «delector», sive a
«delectat». Nam altero modo actionem significat, ut ex-
hortatio, altero passionem, ut exultatio). Prende così sa-
pore quello strettissimo legame, sostenuto dal Panormi-
ta nel primo dialogo, fra bellezza e voluptas, come quella
che si impone e signoreggia gli animi, onde gli avvocati
stessi se ne valgono nei tribunali per penetrare nelle ani-
me e vincerle. Finché, in un compiacimento sensuale, si
viene esaltando l’amore fisico, legato alla bellezza, men-
tre alla fecondità del piacere si attribuisce un senso del
tutto corpulento: il mantenimento del genere umano. Se
l’ascetismo riuscisse a imporre la verginità, quantum nau-
fragium de genere humano! Ove si ritrovano e la polemi-

Storia d’Italia Einaudi 65


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ca antimonastica e l’esaltazione del matrimonio: entram-


bi luoghi comuni della trattatistica quattrocentesca73 .
Tutto il De voluptate si muove tra questa puntuale cri-
tica dello stoicismo, e, attraverso lo stoicismo, di ogni
ascetismo, e la conquista di un raffinatissimo significato
della voluptas, culminante in quell’esaltazione del gau-
dio divino, e di tutta l’esperienza cristiana, che costitui-
sce l’ultimo libro dell’opera. Lo stoicismo ha peccato per
un estremo dualismo, mentre nell’opposizione fra ragio-
ne e senso, fra anima e corpo, si celava un sottinteso di ti-
po manicheo. Valla ha buon gioco, non solo nel mostra-
re l’antitesi fra ascesi stoica e realtà della vita, ma nello
svelare l’assurdo di una dottrina che, mentre chiude l’e-
sistenza di un uomo nel limite di questa esistenza terre-
stre, gl’impone poi di rinunciare a tutto quello che la vi-
ta ha di positivo. Il cristianesimo, dinanzi allo stoicismo,

73
Ma più specialmente per la polemica antimonastica cfr.
il De professione religiosorum, edito nel 1869 dal Vahlen (L.
VALLAE opuscula tria. «Sitzungsber. d. Wiener Akad.,
philos. histor. Klasse», Bd. 61, pp. 7-67, 357-444. Bd. 62,
93-149). Non è qui il luogo di riprendere la questione delle
varie redazioni del De voluptate, e delle eventuali modificazioni
e attenuazioni recate dal Valla. È comunque probabile che una
prima redazione del 1431 ci sia conservata dall’ed. parigina del
1512; una seconda del 1433 nelle stampe di Lovanio (1483)
e di Colonia (1509); la terza, definitiva, nell’Ottoboniano lat.
2075 della Vaticana. L’ed. di Basilea delle opere conserverebbe
un’arbitraria contaminazione delle prime due redazioni (cfr.
M. DE PANIZZA, Le tre redazioni del De voluptate del Valla
«Giornale stor. d. letteratura ital.», 1943, vol. 121, pp.
1-22. La De Panizza è tornata poi sulla questione, integrando e
correggendo, nel saggio su Le tre versioni del «De vero bono»
del Valla, «Rinascimento», VI, 1955, pp. 349-64 (e de vero
bono, non de voluptate, sarebbe il titolo genuino dell’opera).
Una bella traduzione degli Scritti filosofici e religiosi del Valla
ha dato G. Radetti, Firenze, 1953).

Storia d’Italia Einaudi 66


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

diventa rivendicazione dell’unità e integrità dell’uomo, e


soprattutto lotta contro ogni postulato manicheo.
La proclamata santità della voluptas, del resto senti-
ta molto lucrezianamente, è una difesa della divinità del-
la natura, manifestazione mirabile dell’ordinata e provvi-
denziale bontà di Dio. Come ogni troppo viva posizio-
ne antimanichea, anche quella esposta in certe pagine del
Valla sembra scivolare verso il pelagianismo, rischiando
di deificare la natura, e, attraverso la natura, il piacere,
hominumque divumque Voluptas74 . Tuttavia nulla vien
perso della sua validità, né della giustezza di quel richia-
mo all’esperienza cristiana, intesa come redenzione non
dell’anima, ma dell’uomo, di tutto l’uomo, carne e ani-
ma, contro ogni pessimistico ascetismo e ogni evidente o
larvato manicheismo.
L’orazione finale del De voluptate, ove all’esaltazione
della natura fatta dal Panormita Niccolò Niccoli oppone
le lodi di Dio, non è una cauta maschera indossata alla
fine per opportunismo; essa rispecchia veramente il pen-
siero del Valla per cui la natura è opera di Dio, e tutto
ciò che è naturale è divino, sacro linguaggio. Alla divina
legge, signora di noi e delle cose, conviene anzi abbando-
narsi con ingenua fiducia: totum ad voluntatem Dei esse
referendum. E quivi appunto troveremo la gioia.
Il De libero arbitrio con i suoi accenti paolini, con la
sua aspra condanna di una teologia aristotelizzante, con
la sua esaltata affermazione di una fede che è offerta to-
tale dell’anima a Dio, mentre si congiunge in piena ar-
monia con i motivi volontaristici del De fato di Coluccio,
non stona affatto nell’indagine del Valla. Il quale è pre-
occupato di rompere le armature sillogistiche della dia-

74
VALLA, Opera, pp. 906 sgg., 909 sgg., 926 ecc. («Stoicos
pre ceteris imitari studebimus, qui sunt evangelio propinquio-
res», scrive nel 1444 Enea Silvio, Lettere, ed. Wolkan, I, I, p.
342).

Storia d’Italia Einaudi 67


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lettica scolastica, di abbattere il diaframma che la ragio-


ne aristotelica ha innalzato fra noi e la natura, fra noi e
Dio. Solo abbandonandoci alla realtà, solo aprendoci al
divino, solo ritrovando la schiettezza della nostra natura,
e l’ingenua innocenza di tutta la natura, noi ci rifaremo
degni di Dio75 .
Se rileggiamo così la Dialettica come le Eleganze noi
troviamo costantemente lo stesso tema. Oltre le discus-
sioni logiche tradizionali il Valla vuole afferrare il sen-
so preciso primitivo delle espressioni; ridiscendendo alla
valutazione originaria della parola egli intende determi-
narne la portata, l’intenzionalità, ripenetrando alle sor-
genti del pensiero pensante che vi si incarna. Di qui la
sua violenta critica d’Aristotele, di Boezio, di tutta la bar-
barie medievale; di qui la sua indagine linguistica, gram-
maticale. Si tratta di riprendere i termini, rivestiti di si-
gnificati insussistenti, sedimenti di teorie infondate. Si
tratta di ripresentarli nella loro funzione originale, libe-
randosi una volta per sempre da ogni discussione vana e
artificiosa. Non a caso egli parla di un sacramento del la-
tino classico, quasi di un carattere sacro, di un divino si-
gillo proprio della prima schietta incarnazione del pen-

75
VALLA, De voluptate, I, 10: «quod natura finxit atque
formavit, id nisi sanctum laudabileque esse non posse. Est hoc
caelum, quod supra nos volvitur, diurnis nocturnisque lumini-
bus distinctum, tantaque ratione, pulchritudine utilitate com-
positum. Quid commemorem maria, quid terras, quid aërem,
quid montes, plana, flumina, lacus, fontes, ipsas etiam nubes
ac pluvias? Quid pecudes, cicures, aves, pisces, arbores, sege-
tes? Nihil invenies non summa... ratione, vel specie vel utilitate
perfectum, instructum, ornatum. Cuius rei una corporis nostri
compago potest esse documento, quemadmodum Lactantius...
manifestissime ostendit in eo libro quem de opificio Dei inscrip-
sit». Ove è da sottolineare il riferimento al luogo ermetico di
Lattanzio, da cui attingerà Giannozzo Manetti. Ma utili paral-
leli potrebbero stabilirsi fra non pochi luoghi del De voluptate
e l’opera del Manetti sull’uomo.

Storia d’Italia Einaudi 68


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

siero degli uomini76 . Di qui l’imperativo di rispettare la


parola, di non far violenza al linguaggio, ma di ascolta-
re con devota umiltà il messaggio dello spirito vivo negli
spiriti in cui viene parlando.
Solo così la parola riacquisterà il suo valore di comu-
nicazione, di contatto fra uomini; solo così parola e pen-
siero cesseranno di essere termini contrastanti. In Val-
la, come poi in Poliziano, la filologia acquista un parti-
colarissimo valore; è la via a intendere il pensiero. Nel-
la storia di una parola, nel suo riconquistato valore, si ri-
trova la storia di un rapporto umano essenziale, si ritrova
la storia di una istituzione, di un concetto, di un costu-
me, di una forma di vita. Se rileggiamo, nell’introduzio-
ne al libro terzo delle Elegantiae, la sottile presentazione
del nesso tra diritto e filologia, vediamo che cosa potes-
se significare la lettura del Digesto, e comprendiamo in-
sieme il substrato filologico e la portata morale e politica
dell’opuscolo sulla donazione costantiniana dove la que-
stione linguistica è già atto di vita sociale e religiosa77 . La
lingua, s’è detto, torna ad essere considerata come tangi-
bile manifestazione dell’unità degli spiriti umani, tessu-
to connettivo della società e, insieme, incarnazione del-
lo Spirito. In una lettera a Giovanni Tortelli, l’umanista
aretino cui sono dedicate le Elegantiae, un contempora-
neo scrive che nell’eloquenza sono rinate e si sono incon-
trate tutte le forme della vita spirituale degli uomini; «at-
que eodem, quasi unum in corpus, convenerunt scientiae
omnes».

76
Elegant. praef.: «magnum ergo Latini sermonis, sacramen-
tum est, magnum profecto numen...». Cfr. anche Dialectica,
Opera, p. 643 sgg.
77
Elegantiae, Lugduni, 1543, p. 156: «perlegi... digestorum
libros.. et relegi cum libenter, tum vero quadam cum admira-
tione. Primum quod nescias utrum scientia rerum an orationis
dignitas praestet...».

Storia d’Italia Einaudi 69


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Che è il tema consapevolmente svolto, sulle orme di


Cicerone, dai maggiori maestri del Quattrocento: tutta
la vita spirituale degli uomini ha la sua radice e il suo
fondamento negli studia humanitatis. «Chi non sa – di-
ceva Gasparino Barzizza – che tutte le arti che riguarda-
no la humanitas hanno tra loro un vincolo comune e sono
quasi congiunte da un solo legame di parentela? Chi non
sente che la vita degli uomini, quando di esse fosse priva,
non solo sarebbe monca e deserta, ma più bassa e più vile
anche di quella di molti animali?»78 . E già in Valla la «fi-
lologia» così ampiamente intesa, come studio e coscienza
e educazione dell’uomo integrale entro il mondo dell’u-
manità verace, vichianamente si converte nella storia. La
quale, se è lodata da un Platina come maestra d’eloquen-
za, è intesa da Valla come sintesi di tutte le umane disci-
pline. «Per quello che io posso comprendere, mostrano
maggior gravità, maggior prudenza, maggior sapienza ci-
vile gli storici nelle loro orazioni, che i filosofi con le loro
massime. E, a dire il vero, dalla storia deriva una grande
conoscenza delle cose naturali, che poi altri ridussero a
sistema, ed una grande dottrina dei costumi e d’ogni al-
tra sapienza. E poiché abbiamo svelato la superiorità de-
gli storici rispetto ai filosofi, se vogliamo riferirci ora alla
religione, anche Mosè, anche gli Evangelisti... non pos-
sono considerarsi che storici»79 . Storia, dunque, maestra

78
Tortellio Aretino viro sapientissimo CASSIUS [Iunius
Cassius o Giovanni Cassi] in «La R. Accademia Petrarca di Arez-
zo a F. Petrarca», Arezzo, 1904, p. 87 (dal Vat. Lat. 3908).
G. BARZIZII. in principium quoddam artium oratio (MÜLL-
NER, op. cit., p. 57). Cfr. CICER. Arch. 2.
79
L. VALLA, Historiarum Ferdinandi Regis Aragoniae libri
tres, Neapoli, 1509; cfr. POLIZIANO, Praefatio in Svetonium,
Opera, Lugduni, 1528 vol. II, pp. 392, 399; PLATINA, Proe-
mium in vit. Pontif., Opera, Colonia, 1529, p. a r. Cfr. anche,
oltre il bel libro di F. GAETA, L. Valla. Filologia e storia nel-
l’umanesimo italiano, Napoli, 1955, G. RADETTI, La religio-

Storia d’Italia Einaudi 70


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

della vita; ma anche storia che è, soprattutto, il concreto


vivere dello spirito in tutta la sua ricchezza, il suo dilatar-
si in tutta l’ampiezza delle sue ideali dimensioni. Storia
viva, contemporanea; riconquista che l’uomo compie di
se stesso mentre allarga al massimo il proprio orizzonte.
A mezzo il ’500 il veneziano Gianmichele Bruto, nel suo
De Laudibus historiae80 , uscirà nelle potenti espressioni:
«ci educa, non il filosofo che langue inattivo, ma Scipio-
ne armato; e non nelle scuole d’Atene, ma negli accam-
pamenti di Spagna; e ci educa, non con i discorsi, ma con
gli atti e con gli esempi». E la moralità della storia è, non
già in una universale giustificazione, ma in un crudo pro-
iettare, senza limiti e senza rispetti, ombre e luci; nello
scagliar fuori, senza appello, dall’eterna vita dell’umani-
tà, chi non può vivervi. «Giudice di tutto il mondo è chi
fa la storia; giudice unico, pio e incorrutibile».

6. Giannozzo Manetti e la prima impostazione del


problema della dignità dell’uomo

Nella linea medesima del pensiero di Leonardo Bruni si


muove ancora Giannozzo Manetti, che del Bruni appun-

ne di L. Valla, nella cit. miscellanea Nardi; F. ADORNO Di


alcune orazioni e prefazioni di L. V., «Rinascimento», V, 1954;
G. ZIPPEL, L. V. e le origini della storiografia umanistica a Ve-
nezia, ivi, VII, 1956, pp. 93-133; C. VASOLI, Le «dialecticae
disputationes» del Valla e la critica umanistica della logica aristo-
telica, «Rivista critica di storia della filosofia», XII, 1957, pp.
412-33; G. ZIPPEL, La «Detensio quaestionum in philosophia
di Lorenzo Valla, e un noto processo dell’Inquisizione napoleta-
na, «Bullettino dell’Ist. Stor. Italiano per il Medio Evo», n. 59,
1957, pp. 319-47.
80
JOH. MICH. BRUTI De historiae laudibus, Colon. Bran-
deb., 1698, pp. 703-4, 731, 743-4.

Storia d’Italia Einaudi 71


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to lesse un caldo elogio funebre. Scolaro di Ambrogio


Traversari, il dotto camaldolense traduttore di Dioge-
ne Laerzio, aveva frequentato i convegni di Santo Spi-
rito ove s’era imbevuto delle idee del primo umanesimo,
ispirato ai motivi del Petrarca, del Salutati e del Marsi-
li. Profondo conoscitore dell’ebraico, del greco e del la-
tino, «usava dire avere tre libri a mente, per lungo abi-
to; l’uno era l’Epistole di Santo Pagolo; l’altro era Agosti-
no, De civitate Dei; e de’ Gentili l’Etica d’Aristotele», che
pubblicamente lesse e commentò. Dell’aristotelismo, ce-
lebratore di virtù civile, egli fu seguace, congiungendo-
lo con una salda fede cristiana. «Usava dire che la fe-
de nostra non si debbe chiamare fede, ma certezza». Ma
anche il cristianesimo era per lui soprattutto carità uma-
na, amore del prossimo. E questo senso austero della se-
rietà della vita egli venne costantemente manifestando in
una intransigenza politica che lo obbligò a gustare i frut-
ti amari dell’esilio. Come per Bruni, incarnazione di di-
gnità è per lui Dante e, nell’antichità, Socrate, il citta-
dino integro che aveva combattuto sui campi di batta-
glia, aveva affrontato senza paura i rischi della lotta po-
litica, era stato padre e marito esemplare. «Benché som-
mo filosofo, visse in Atene la vita civile, come ogni al-
tro cittadino. Con gli Ateniesi conversava, contrasse ma-
trimonio, fu magistrato, nulla trascurò infine di quello
che riteneva proprio della vita sociale»81 . E quando gli
veniva prospettato il monastico e disumano ideale stoi-
co, egli vivacemente reagiva. Nel Dialogus consolatorius
de morte filii di continuo polemizza con coloro che vo-
gliono strappare dall’uomo le passioni. Virtù, egli escla-
ma, significa esaltazione dell’umanità, umanità integrale.
«Abraccia quella virtù con tutte le forze dell’anima e del
corpo, ché essa, se crediamo a Cicerone, trae il suo no-
me da virilità». Ora trasformare con gli Stoici gli uomi-

81
Vita Socratis, Cod. Laur. LXIII 30.

Storia d’Italia Einaudi 72


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ni in pietre, è annullare, non celebrare la loro umanità82 .


Ed avendogli Agnolo Acciaiuoli ricordata la massima di
Terenzio, dover gli uomini sopportare senza turbamen-
to le vicende dolorose della fortuna, egli ribatte: «Ben-
ché io mi ricordassi di quel tuo [detto] terenziano, non-
dimeno... questo altro memorabile del medesimo poeta
mi stava fermo nella mente: tutti noi quando siamo sani
diamo di buoni consigli agl’infermi. E quell’altro mira-
bile ancora d’esso poeta non dimenticavo: io sono uomo
e niuna cosa umana riputo aliena da me. Sì che tutto il
dolore ch’è in me piuttosto all’umanità mia che a legge-
rezza, si debbe, secondo il mio parere, attribuire». L’Ac-
ciaiuoli è stoico intransigente, e perciò, secondo il Ma-
netti, affatto disumano; il Manetti, aristotelico, difende
apertamente la vita del sentimento: «i Peripatetici, assai
più umani, tengono che tutte le passioni dell’animo prin-
cipalmente abbino origine dalla natura... e io seguito l’o-
pinione de’ Peripatetici, come più conveniente all’uma-
na natura». Per questo, essere uomini significa innanzi-
tutto consentire con gli uomini, soffrire e godere, uma-
namente; amare i figli e la famiglia e la patria, nella ragio-
ne cercare non la nemica, ma la guida, la misura degli af-
fetti. «Onde sempre mi piacque quella notabile ed aurea
sentencia del savio imperadore Antonino Pio il quale a
chi riprendea Marco Antonio, quello che da prima diede
opera alla filosofia e di poi, conseguitato il governo del-
la repubblica, avea posseduto lo ’mperio, perché essen-
do filosofo e imperadore piangesse la morte d’uno che
l’aveva allevato, si legge che in tal maniera rispose: deh!

82
Dialogus consolatorius de morte filii, Palat. 691 della Naz.
di Firenze, che contiene anche la versione italiana dello stesso
Manetti. Cfr. le notevoli orazioni di G. Manetti sulla «giustizia»
(per es. nei Palat. 51 e 598 della Naz. di Firenze). Una delle
orazioni del M. fu stampata a Torino dai Fanfani (Collezione di
opere inedite o rare, vol. II, 1862, p. 195-201). L’orazione del
Palmieri vide la luce a Prato nel 1850.

Storia d’Italia Einaudi 73


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lasciatelo essere uomo, però che la filosofia e lo ’mperio


non toglie in alcuno modo l’affecto dell’animo». E il Ma-
netti, a proprio appoggio, con Cicerone ripete che, tolta
la vita del sentimento, non vi sarebbe differenza alcuna,
«io non dico tra una pecora e uno uomo, ma tra uno uo-
mo e un tronco, o veramente un sasso, o qualunque al-
tra cosa insensata». Di qui la conclusione antistoica: «né
però si debbono udire coloro che dicono che la virtù è
una cosa dura, e quasi ferrea e adamantina. E se noi veg-
giamo che la morte de’ catellini e degli sparvieri e degli
altri leggiadri e vaghi animaletti alcuna volta è si molesta
a chi gli alieva, che non è sanza lagrime, perché si veg-
gono privati per l’avenire di quelle blandizie e adulazio-
ni... che debbono fare i padri per la perdita de’ propri fi-
gliuoli, i quali si sentono in sempiterno privati di più cer-
te o più expresse piacevolezze puerili, non vani e frivo-
li dilecti. E d’altra parte cognoscono che delle loro pro-
prie carni gl’ingenerarono et ch’erono d’una medesima
natura durante la vita con loro».
E se è proprio dell’uomo accogliere con umile rasse-
gnazione la sventura inviata da Dio, umanissima cosa è
soffrire e piangere. «Le quali cose, bench’elle paino ne’
temerarii e leggieri uomini in qualche modo contrarie e
ripugnanti, niente di meno ne’ prudenti e savi spesse vol-
te insieme si convengono». Parole che, nella loro ric-
chezza di comprensione, ben rispecchiano la larghezza
di spirito propria dell’umanesimo, che in una simile con-
danna della durezza stoica, monastica e solitaria, ispire-
rà al Guarino l’aspra invettiva: «essi strappano dall’uo-
mo la mutua benevolenza, la carità, l’amicizia, la pietà,
e di questo nulla v’è di più atroce, di più ferino, di più
avverso all’umana società»83 .

83
GUARINO VERONESE, Epistolario, ed R. Sabbadini,
vol. I, Venezia, 1915 («Miscellanea di Storia veneta edita per
cura della R. Deput. Veneta di Storia Patria», Serie III, vol.

Storia d’Italia Einaudi 74


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Su queste basi, socratiche ed aristoteliche, e a un tem-


po profondamente cristiane, è basata la celebrazione no-
tissima che il Manetti fece della dignità dell’uomo, la
quale, ancorché ricondotta talora attraverso Lattanzio al-
l’esaltazione ermetica del Dio Anthropos, si viene di pre-
ferenza fondando sul valore delle attività mondane. Co-
me narra Vespasiano da Bisticci, fu Alfonso d’Aragona
a spingere prima il Fazio, poi il Manetti, perché compo-
nessero una dissertazione sull’uomo. Alfonso, com’è no-
to, e come ricorda con tanta efficacia Pandolfo Collenuc-
cio, amava particolarmente le dispute letterarie e «il con-
fabulare de le lettere», convinto com’era che «il re non
letterato è un asino coronato». Del ligure Bartolomeo
Fazio, scolaro del Guarino, aveva apprezzato molto un
dialogo intorno alla felicità (De vitae felicitate), steso in
polemica col Valla, ma molto povero di forza speculati-
va. Il Fazio, ponendosi con ciò del tutto fuori della tra-
dizione umanistica, tornava ad esaltare la pura contem-
plazione, la quale ci farà conoscere i segreti della natu-
ra – «conosceremo bene tutte le stelle, di cui nulla si può
immaginare più luminoso, più adorno e più vario». Ma
del De excellentia et praestantia hominis il sovrano rima-
se, a quanto sembra, deluso; e non a torto, se si pensa al-
la piatta banalità dell’argomentazione, tutta volta a esal-

VIII): «nec vero duris ego quibusdam et agrestibus unquam


sum assensus, qui omnem e nobis affectionem ita penitus ni-
tuntur avellere, ut nullam humanitatis curam ad nos pertinere
velint. Quod cum nullo fieri modo possit, hominum societa-
ti prorsus inutile; tollit enim mutuam inter se hominum beni-
volentiam caritatem amicitiam misericordiam, qua re nihil atro-
cius, nihil immanius, nihil hominum convictui excogitari possit
hostilius...». Cfr. anche l’epistola al Corbinelli: «maiores no-
stros... non admirari et maximis prosequi laudibus non possum
cum tantam in eis animi magnitudinem... fuisse intuear ut litte-
rarum ac doctrinae studia, simul et rerum tum publicarum tum
familiarium negotia capesserent...».

Storia d’Italia Einaudi 75


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tare i doni concessi da Dio all’anima e, in particolare «la


filosofia, guida e maestra del ben vivere, che c’induce al
culto di Dio, e ad ogni opera di virtù»84 .
Insoddisfatto delle pagine stese dal Fazio, re Alfonso
si rivolse a Messer Giannozzo, e «dopo più disputazio-
ni... domandollo quale fusse il suo proprio uficio del-
l’uomo rispose: Agere et intelligere». Ma nei quattro li-
bri dell’opera sua il Manetti venne insistendo sull’atti-
vità umana, ed anche il conoscere gli si venne svelando
come produzione di scienze atte a governar la natura, e
celebrazione di arti, ed edificazione sulla natura di uno
splendido mondo armonioso di monumenti umani.
Alla prosa retoricamente pessimistica del De contemp-
tu mundi di Lotario diacono, che fu il pontefice Inno-
cenzo III, il Manetti viene contrapponendo Cicerone e
Lattanzio, e attraverso Lattanzio l’esaltazione dell’uomo
che fu caratteristica dell’ermetismo. Senonché egli non
indugia, come più tardi il Ficino e il Pico, sul significato
metafisico della centralità umana, in un approfondimen-
to della conoscenza umana come incentrarsi nell’umano
pensiero di tutta la natura, in esso quasi accolta e subli-
mata e sollevata alle soglie del regno dello spirito. Il Ma-
netti ricorda, è vero, il racconto della Genesi e l’imma-
gine e la simiglianza divina dell’uomo; dalla tradizione
patristica riprende anzi il tema, che il plurale usato nel
sacro testo («facciamo l’uomo...») indichi nell’atto del-
la creazione umana l’intervento di tutte le persone del-
la Trinità. Tuttavia il motivo dominante dell’inno sciol-
to all’uomo dal Manetti è costituito dall’eccellenza del-
le opere umane. Lo vediamo così rievocare il viaggio di
Giasone e l’ardimento dei navigatori; le costruzioni mi-

84
B. FAZIO, De vitae felicitate, Antverpiae, 1556; stampato
insieme al De excellentia et praestantia hominis con l’Epitomae
de regibus Siciliac et Apuliae di F. Sandeo (Hanoviae, 1611), pp.
106 sgg., 149 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 76


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

rabili, non solo degli antichi artisti, ma del suo Filippo


Brunelleschi, architectorum omnium nostri temporis faci-
le princeps; le opere d’ogni arte; la letteratura, il diritto,
tutto il mondo dello spirito, tutto «il regno dell’uomo».
E al centro la libertà umana, questo dono così grande e
così grave, che è dono insieme e conquista, di cui l’uo-
mo si rifà perennemente degno col suo lavoro, con cui
viene rendendo sempre più belli e più perfetti i prodot-
ti del Signore («ab omnipotenti Deo ad usus hominum
primo inventa institutaque, et ab ipsis postea hominibus
gratanter accepta, multo pulchriora multoque ornatiora
ac longe politiora effecta»).
Ficino e Pico batteranno sul significato cosmico del-
l’uomo, sul suo esser nodo del tutto; e in pagine eloquen-
ti verranno trasfigurando quasi l’uomo in un dio. Nell’u-
mile prosa del Manetti l’umano valore ha sì, come sfon-
do, la particolare dignità conferita dal Creatore, ma si
celebra nell’opera terrena, nella costruzione quotidiana
della città terrena, nella serietà della vita civile.

7. Leon Battista Alberti

In un cerchio non diverso di terrena esperienza, di preoc-


cupazioni essenzialmente mondane, rimane anche Leon
Battista Alberti, pur con la ricca complessità dei suoi te-
mi e la vastità dei suoi orizzonti. La limitatezza della con-
dizione umana è da lui solennemente affermata in uno
dei più significativi dialoghi latini, quello intitolato al Fa-
to e alla Fortuna, ove si racconta il sogno singolare del fi-
losofo cui si viene svelando in mirabile visione il contra-
sto delle anime sulle rive del fiume della vita. Le ombre
che vanno errando lungo le acque turbinose del fiume
in attesa dell’incarnazione, scintille del fuoco divino, av-
vertono il troppo curioso indagatore dell’inutilità di ogni
soverchio ardimento speculativo. «Desisti, uomo, desi-

Storia d’Italia Einaudi 77


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sti dall’investigare più del conveniente i segreti del Dio.


A te e ad ogni altra anima imprigionata nei corpi sappi
che i celesti han consentito solo di non ignorare quello
che cade sotto gli occhi». Chi vuole penetrare entro i di-
vini misteri è come il fanciullo che vuole afferrare i raggi
del sole: «desine, inepte, nam res divinae carcere mortali
nusquam detinentur»85 .
Altrove, come nel De iciarchia, l’assentarsi dalla socie-
tà umana per la pura ricerca è denunciato come un tra-
dimento; «chi, per cupidità d’imparare quello che non
sa, abbandonasse il padre e gli altri suoi impotenti e de-
stituti, sarebbe empio, inumano. L’uomo nacque per es-
ser utile all’uomo». E sommamente utile all’uomo è co-
lui che col prossimo collabora volgendo ogni suo sforzo
«alla patria, al ben pubblico, allo emolumento ed utilità
di tutti i cittadini»86 . Il tipico motivo rinascimentale virtù
vince fortuna si inserisce, nell’Alberti, entro l’esaltazione
del lavoro umano, glorificato quasi dalla prosperità delle
famiglie e delle città, ove il fiorire delle ricchezze e il pro-
sperare dei beni terreni è simbolo ed insieme espressio-
ne tangibile del favore di Dio. Così, con questo intendi-
mento, va riletto il mirabile e celebre proemio ai libri del-
la Famiglia, ove ogni pessimismo ed ogni ascetismo sono
al tutto sbanditi nella certezza del valore dell’opera uma-
na. Poggio Bracciolini tra le rovine di a Roma inveiva
contro la fortuna, la maligna fortuna, che s’era divertita a
trasformare in stalle di porci le sedi solenni dei magistra-
ti romani. Pio II, a Tivoli, sospira in pagine squisite sul-
le dimore delle antiche regine divenute squallidi nidi di
serpi. L’Alberti si chiede pensoso la ragione di quel rapi-
do tramonto di gloria cui ci fa assistere la vicenda alterna

85
Opera inedita et pauca separatim impressa, ed G. Mancini,
Firenze, 1890, p. 137.
86
De iciarchia, in Opere volgari, ed. Bonucci, Firenze, 1843-
49, vol. III, p. 92.

Storia d’Italia Einaudi 78


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dei tempi. «Ah! quante si veggono famiglie molte cadu-


te e ruinate; né saria da annumerare o raccontare quali e
quante siano simili a Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Mar-
celli, e agli altri nobilissimi appo gli antichi, così nella no-
stra terra famiglie assai state, per lo ben publico a man-
tenere la libertà, a conservare la auctorità e dignità della
patria, in pace e in guerra modestissime, prudentissime,
fortissime... Delle quali tutte famiglie non solo la magni-
ficentia e amplitudine, ma gli uomini, né solo gli uomini
sono scemati e disminuiti, ma più il nome stesso, la me-
moria di loro, ogni ricordo, quasi in tutto si truova casso
e annullato. Onde non sanza cagione a me sempre par-
se da voler conoscere se mai tanto nelle cose umane pos-
sa la fortuna, o se a lei sia questa superchia licentia con-
cesso, con sua instabilitate e inconstantia porre in ruina
le grandissime e prestantissime famiglie».
La risposta a questa grave e angosciosa domanda è
chiara: «scorgo molti per loro stultitia scorsi ne’ casi
sinistri, biasimarsi della fortuna, e dolersi d’essere agitati
da quelle fluctuosissime sue onde, nelle quali stolti se
stessi precipitarono». L’uomo è esso stesso cagione dei
suoi mali e dei suoi beni. Sempre la virtù vince la
fortuna. E virtù significa qui umana virtù, operosità
terrena, «la buona e santa disciplina del vivere». «Le
giuste leggi, e virtuosi princìpi, e prudenti consigli, e
forti et constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, la
diligenzia, le gastigatissime et lodatissime observantie de’
cittadini sempre poterono, o senza fortuna guadagnare
et aprender fama, o colla fortuna molto extendersi et
propagarsi a gloria». Ove la fortuna propizia ben poco
differisce nei suoi effetti da quella avversa, laddove alla
virtù, intesa nel senso più pieno di virtù civile, non può
mancare nella storia un sicuro trionfo.
«Mentre che da noi furono le optime e sanctissime
nostre vetustissime discipline observate, mentre che noi
fummo studiosi porgere noi simili a’ nostri maggiori e

Storia d’Italia Einaudi 79


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

con virtù demmo opera di vincer le lodi de’ passati, et


mentre ch’e nostri estimorono ogni loro opera industria
et arte et al tutto ogni sua cosa essere debita et obliga-
ta alla patria, al ben publico, allo emolumento et utilità
di tutti i cittadini, mentre che si exponea l’avere, il san-
gue, la vita per mantenere l’auctorità maiestate et glo-
ria del nome latino, trovoss’egli alcun populo, fu egli na-
tione alcuna barbara ferocissima, la quale non temesse e
ubbidisse nostri editti et leggie?».
Virtù significa qui, s’è detto, umanità, opera umana
saggia e prudente, virtuosa e forte, meditata con calcolo
sottile, inserita con abilità e finezza nel giuoco delle for-
ze mondane. «Stimeremo noi suggetto alla volubilità e
alla volontà della fortuna quel che gli uomini con matu-
rissimo consiglio, con fortissime e strenuissime opere a
sé prescrivono? E come diremo noi, avere balìa con sue
ambiguità e incostantie la fortuna a disperdere et disci-
pare quel che nui vorremo sia più sotto nostra cura e ra-
gione che sotto altrui temerità? Come confesseremo noi
non essere più nostro che della fortuna quel che noi con
sollecitudine e diligentia deliberaremo mantenere e con-
servare? Non è potere della fortuna, non è, come alcuni
sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere
vinto. Tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette».
Ove non si insisterà mai abbastanza sul ricchissimo si-
gnificato della virtù, che è l’agire dell’uomo colto in tut-
ta la sua pienezza di valore etico e politico, laddove for-
tuna è il limite dell’accadere fisico, impotente, da solo,
a vincolare completamente l’azione umana, che quand’è
virtuosa, anche se sfortunata, vince sempre, riscattando-
si nei confini di quella città umana dove il valore infeli-
ce è non solo santificato, ma resta fecondo nella sua fun-
zione educatrice. «Ci fu la loro [dei latini] immensa glo-
ria spesso dalla invidiosa fortuna interrupta, non però
fu denegata alla virtù; né mentre che indicarono l’opere
virtuose insieme colle buone patrie discipline essere or-

Storia d’Italia Einaudi 80


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

namento et eterna fermezza dello imperio, all’ultimo mai


con loro seguì la fortuna se non facile e seconda. E quan-
to tempo in loro quegli animi elevati e divini, que’ consi-
gli gravi e maturissimi, quella fede intensissima verso la
patria fioriva, e quanto tempo ancora in loro più valse
l’amore delle publice cose che delle private, più la volon-
tà della patria che le proprie cupiditati, tanto sempre con
loro fu imperio, gloria e anche fortuna. Ma subito che la
libidine del tiranneggiare, e singulari commodi, le iniu-
ste voglie... più poterono che le buone leggi e santissime
consuete discipline, subito incominciò lo imperio latino
a debilitarsi e inanire».
L’antitesi virtù-fortuna nel Machiavelli suonerà ben
diversa. Per Machiavelli virtù e scelleratezza non sono
termini antitetici, ma possono anzi coesistere e collabo-
rare come già in quell’imperatore romano che fu, a un
tempo, virtuosissimo (e cioè fortissimo) e scelleratissimo.
Virtù è forza ed astuzia; è forza naturale inserita abil-
mente fra forze. Per l’Alberti virtù è bontà; bontà fecon-
da e operosa, ma pur sempre bontà; giustizia costruttri-
ce di un mondo umano ove non può non trovare rispon-
denza ed effetto. «Nelle cose civili e nel viver degli omi-
ni», e cioè nella nostra terrestre città, valgono solo «l’in-
dustria, le buone arti, le constanti opere a maturi consi-
gli, le oneste exercitazioni, le iuste volontà, le ragionevo-
li expectazioni». Umana ragione, «questa prestanzia d’a-
nimo, questo lume d’ingegno», che ci distingue dalle be-
stie, è per l’uomo mezzo «con lo quale e’ senta e discerna
che essa sia onestà».
Perciò l’umana dignità per l’Alberti risiede nel lavoro,
e solo nel lavoro, «Chi mai stimerà potere asseguire pre-
gio alcuno o dignità, sanza ardentissimo studio di per-
fectissime arti, sanza assiduissima opera, sanza molto su-
dare in cose virilissime e faticosissime?». E queste opere
sono, nell’Alberti, contatti e rapporti civili, essendo «gli
uomini... nati per cagione degli uomini». Nel quale civile

Storia d’Italia Einaudi 81


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

consorzio convergono virtù e felicità, e si fanno quasi su-


blime preghiera a Dio. «Pertanto così mi pare da credere
sia l’uomo nato, certo non per marcire giacendo, ma per
stare facendo... Sia dunque persuaso che l’uomo nacque
non per atristarsi in ozio, ma per adoperarsi in cose ma-
gnifiche et ampie, colle quali e’ possa piacere e onora-
re Iddio in prima, et per avere in se stesso come uso di
perfecta virtù, così fructo di felicità».
L’occhio dell’Alberti vagheggia una città terrena ar-
moniosa come uno dei suoi palazzi, ove la natura si pie-
ga all’intenzione dell’arte come la obbediente pietra sere-
na dei colli fiorentini. Non v’è l’aperto conflitto di Ma-
chiavelli, né il perenne dissidio cui pensa Guicciardini,
e neppure l’aristotelica concezione della «buona fortu-
na» propria del Puntano, ove la fortuna si presenta ne-
cessario elemento della felicità (nam si felicitas in actio-
ne et usu est posita, manca erit omnino exuta fortunae bo-
nis...), ed insieme del tutto al di fuori dell’umana libertà
(cum humani minime sit arbitrii), onde sul piano politico
si apre insanabile la divergenza fra la cecità di un impe-
to di natura (fortuna... naturalis quidam impetus) e la ci-
vile prudenza (civilis felicitas... bonae... fortunae praesi-
diis... indiget). Per l’Alberti l’uomo è fattore unico della
città terrena, e la natura, e quindi la fortuna, sono stru-
menti e occasioni; limiti, se si vuole, ma non ciechi e irri-
ducibili per l’uomo prudente, che li inserirà nel suo cal-
colo; ostacoli alla virtù, ma di cui la virtù riuscirà sempre
trionfatrice, per l’assoluto imperio che essa ha nel mon-
do spirituale dell’uomo, ove non le potrà mai esser nega-
ta, pur nella sventura, la gloria e la fecondità perenne di
un’efficacia educatrice87 .

87
Della Famiglia dell’Alberti seguo l’ed. del Mancini, Firen-
ze, 1908. Il De fortuna del Pontano in Opera omnia, Venetiis,
1518, p. 275 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 82


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

«Lui geometra, lui astrologo, lui musico» – dice del-


l’Alberti il Landino; e realmente le credenze astrologiche
si affacciano di continuo nel De architectura, ma valgono
anch’esse, piuttosto che ad inserire nel mondo l’ombra
oscura di forze cieche, ad accrescerne la perfetta rego-
larità, per il connettersi dell’universo in una rete di rap-
porti, ove la realtà naturale, proprio per non svelar frat-
ture di sorta, si presenta come la base sicura per l’ope-
ra umana. La matematica infatti, già per l’Alberti, è la
cifra segreta del tutto. Quando gli avviene di dissertare
della pittura, «fiore d’ogni arte», e vuol cercare la radice
di quella sua «forza divina», che fa «i morti dopo mol-
ti secoli essere quasi vivi», in null’altro la trova se non
nella matematica, che «dalle radici entro dalla natura fa
sorgiere questa leggiadra e nobilissima arte»88 .

8. Matteo Palmieri e il trapasso al platonismo

Cristoforo Landino a più riprese tenterà di prospettare


la figura dell’Alberti nella luce delle discussioni e del-
le sintesi platonizzanti. In realtà egli ne era al di fuo-
ri, anche se, talora, non gli è estraneo qualche spunto di
quelle concezioni platonico-pitagoriche della natura che,
volgarizzate dalla scuola ficiniana, dovevano riverberar-
si più tardi anche sull’intuizione di Leonardo89 . L’anima

88
ALBERTI, Il trattato della pittura, ed. Papini, Lanciano,
1913, pp. 13, 43, 45, 49, 95.
89
Per la rappresentazione che il Landino fa dell’Alberti cfr.
oltre le Disputationes camaldulenses il De vera nobilitate (ms.
Corsin. 433), nonché la cit. prolusione al corso sul Petrarca.
Cfr. FICINI Opera, Basilea, 1561, vol. I, p. 936.
Nel De iciarchia (Opere, ed. Bonucci, vol. III, p. 118 sgg.),
l’Alberti parlerà in termini stoico-ciceroniani delle faville che
natura pose nell’anima dell’uomo perché ne illuminino la mente
con i raggi di ragione.

Storia d’Italia Einaudi 83


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dell’Alberti era ancor tutta presa da questo mondo ter-


reno, e ben lungi dall’anelare con ascetici voli a una fu-
ga in Dio. «Voglio ne’ tuoi mali invochi aiuto da Dio;
ma non voglio in questo t’abbandoni e dieti a intende-
re non potere in te di te quello che puoi. Resta, quan-
do che sia, sollecitare gl’Iddii con tanti tuoi voti e chie-
ste. Eccita in te la tua virtù: sat sit mens sana in corpore
sano. La mente nostra sarà sana quando la vorremo esser
sana». E la virtù terrena facevasi in lui concreta pur nel-
le risonanze pratiche, economiche; in quel tradursi, ab-
biam visto, in successo, mentre questo successo veniva
finalmente prendendo corpo fin nella «roba», nel dena-
ro, nella «masserizia». «Non si spregino le ricchezze, ma
signoregginsi le cupidità, e nel mezzo della copia e abun-
danzia delle cose così viveremo liberi e lieti...»; liberi da
quella miseria che attraverso i bisogni del corpo avvilisce
anche l’anima. La qual rivalutazione dell’economia e dei
beni terreni andava in quegli anni pienamente afferman-
dosi anche nelle pagine della quarta parte della Summa
del santo vescovo di Firenze Antonino, che, pur rifacen-
dosi all’Aquinate, coloriva delle nuove esigenze le anti-
che intuizioni90 .
Ma particolarmente vicino all’Alberti per certe esi-
genze, e perfino per taluni atteggiamenti letterari, e pur
già influenzato da nuovi motivi, ci appare Matteo Pal-
mieri, che Alamanno Rinuccini celebrerà tipico e mi-
rabile esempio di perfetto equilibrio fra virtù attiva e
contemplativa91 . A definire l’ideale della vita civile de-
dicava il Palmieri il dialogo appunto ad essa intitolato,

90
Cfr. A. MASSERON, S. Antonin, Paris, 1926.
91
ALAMANNI RINUCCINI Oratio in funere M. Palme-
rii, in FOSSI, Monumenta ad A. Rinuccini vitam, Florentiae,
1791 «cum enim duplex felicitatis genus, a philosophis propo-
situm, duplicem vivendi conditionem ostendat, et earum una
in communibus vitae civilis actionibus versetur, altera ab om-
ni actione remota, altissimarum rerum adipiscende cognitioni

Storia d’Italia Einaudi 84


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

che è tutto una condanna dell’indagine sterile, di un sa-


pere puro e astratto, tagliato completamente fuori della
vita. «Chi pone ogni diligenzia e cura nelle cose oneste
e degne di cognizione, delle quali seguiti alcuna comodi-
tà privata o publica, meritamente è degno di loda. Co-
loro che perdono il tempo in arti oscurissime, difficili e
sanza doctrina di bene vivere, sono degni d’universale vi-
tuperazione, perocché non reca seco alcuno frutto». Né
d’altra parte, sbandita ogni vana contemplazione, si ce-
lebra una virtù monastica e solitaria. Il bene è carità, è
vincolo d’amore, è vite nel consorzio umano, è società.
«Niuna altra carità maggiormente ci strigne che l’amor
della patria e de’ propri figliuoli». In questo corpo civi-
le noi ci sentiamo non solo immersi, ma per esso soltan-
to ci sembra poter sopravvivere, onde un desiderio pro-
fondo ci porta ad infuturarci in esso. «Onde e’ si venga
a sufficienza ridire non puossi, ma certo si conosce negli
animi nostri essere un desiderio quasi pronosticativo de’
futuri secoli, il quale ci strigne a desiderare la nostra per-
petua gloria, felicissimo stato della nostra patria, e conti-
nua salute di quegli che nasceranno di noi...». Perciò ap-
punto l’azione veramente umana, veramente virtuosa è
l’azione rivolta al bene comune: «per questo s’afferma di
tutte l’opere umane niuna essere più prestante, maggio-
re, né più degna, che quella se exercita per acrescimen-
to e salute della patria et optimo stato d’alcuna bene or-
dinata republica... Nulla opera fra gli uomini può essere
più optima che provedere alla salute della patria, conser-
vare le città e mantenere l’unione e concordia delle bene
ragunate moltitudini...».
L’etica ciceroniana si congiungeva nel Palmieri con
Platone ed Aristotele, ma tendeva ormai soprattutto a ve-

dumtaxat intenta sit; prudentissimus vir medium quendam, in-


ter utramque viam, modum sequitur».

Storia d’Italia Einaudi 85


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

stirsi di colori platonici: «di cielo venire, e in cielo ritor-


nare tutti i giusti governatori delle repubbliche per tut-
ti i secoli del mondo è stato da’ sommi ingegni certissi-
mamente approvato». E, tuttavia, era ancora uno strano
platonismo ove curiosamente si fondevano l’esaltazione
per Dante letterato sovrano e cittadino compiuto, il mi-
to di Er e il Somnium Scipionis. Comunque, al centro re-
sta l’esaltazione della città umana, dell’opera umana, del
suo successo, della sua fecondità. Virtù che non sia uti-
le, che sia scissa dall’utilità, è sterile e vana. Le parole
del Palmieri in proposito sono quanto mai significative e
degne tutte d’essere sottolineate. Per lui infatti è «con-
suetudine trascorsa dalla vera via, quella che separa l’o-
nesto dall’utile... Lo sprezzare l’utile, il quale giustamen-
te si può conseguire, merita biasimo né in alcun modo si
confà a chi è virtuoso... La vera lode di ciascuna virtù è
posta nell’operare; e all’operazione non si viene sanza le
facultà atte a quella. Per questo né liberale, né magnifico
può essere colui che non ha da spendere; iusto né forte
non sarà mai chi in solitudine viverà, non experimenta-
to, né esercitato in cose che importino e in governi e fac-
ti appartenenti ai più... Da questo procede che a’ virtuo-
si s’appartiene cercare utile, acciocché possino ben vive-
re... Chi, non nocendo a persona, con buone arti accre-
sce suo patrimonio, merita loda»92 .
L’antica polemica del Salutati contro una virtù solita-
ria, la sua appassionata esaltazione del bene comune, tro-
vavano qui il loro coronamento compiuto. Eppure nel
Palmieri, che anche il Ficino loderà come poeta teolo-
go, questa ispirazione mondana verrà più tardi collocan-
dosi in una cornice pitagorica, platonica, origeniana. Il

92
MATTEO PALMIERI, Il libro della vita civile, Firenze
1529, pp. 42-43, 62, 75-76, 120-125. Cfr. Una prosa inedita di
M. Palmieri fiorentino, Prato, 1850, ossia il Protesto del 1437.
Importante la raccolta di orazioni del Riccardiano 2204.

Storia d’Italia Einaudi 86


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

grande poema filosofico La città di vita, rimasto inedito


perché sospetto d’eresia, e il preludio in cielo della lot-
ta terrena. Le anime umane non sono altro che gli ange-
li che «per sé foro», e non cambatterono né per Dio né
per Lucifero. Ad essi è offerta l’ultima prova; incarna-
ti, combatteranno in sembianza umana la loro battaglia
sulla scena del mondo. La quale, così, diviene il teatro
dell’ultimo atto del dramma divino. L’opera terrena, in
tal modo, se veniva da un lato inserita in un processo co-
smico, semplice episodio nella storia dello spirito, veniva
d’altra parte caricata di un significato e di un valore im-
mensi. Nella decisione umana, nella vita in terra, si de-
cide della sorte di un’immortale sillaba di Dio. Questo
mondo è l’arena che Dio offre agli spiriti perché libera-
mente decidano della loro sorte. E nel vasto teatro della
città degli uomini la fecondità dell’opera è il sigillo della
vittoria sul male per l’eternità.
Eppure non mancava ormai, nella Città di vita, una
sottile tendenza a volger lo sguardo verso altri mondi, a
considerare la terra una parentesi, anche se una decisiva
parentesi. Ed accanto all’esaltazione dell’opera d’amore
si veniva riaffermando il pregio della contemplazione
pura, dello slancio mistico dell’anima che s’impenna per
volare a Dio93 .

9. La filologia e la retorica nel Poliziano e nel Barbaro

Se da una parte la speculazione andava volgendo i propri


interessi verso la metafisica platonica, d’altro canto l’ap-
pello agli antichi, lo studio degli antichi, tendeva a per-
dersi in pure discussioni grammaticali. La compattezza

93
M. PALMIERI, La città di vita, a cura di M. Rooke (Smi-
th College Studies in Modern Language, VIII, 1-2) Northampton
Mass., 1927-28.

Storia d’Italia Einaudi 87


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

chiara del primo umanesimo veniva scindendosi ed oscu-


randosi sotto la pressione di forze molteplici, prima fra
tutte la cultura ufficiale, con i suoi schemi e con le sue
tradizioni, che, se accettava con qualche diffidenza alcu-
ni temi del nuovo movimento di pensiero, a sua volta vo-
leva imporre le proprie esigenze, insistendo su quella op-
posizione fra res e litterae, forma e contenuto, contro cui
già il Bruni si era scagliato94 . Gli umanisti, ammessi quali
insegnanti di grammatica e di retorica, con le loro tradu-
zioni e con i loro commenti si erano affacciati nei chiusi
orti accademici pretendendo di sconvolgere la dialettica,
la medicina e il diritto, la metafisica, la teologia e la mo-
rale. «L’età nostra – scrive il Poliziano nella Lamia –, po-
co esperta dell’antichità, ha chiuso in troppo brevi confi-
ni la grammatica, che presso gli antichi, invece, ebbe tan-
ta autorità, che solo i grammatici erano giudici e censo-
ri di tutti gli scritti». E parlando di sé, mentre disdegno-
samente rifiuta il nome di filosofo (non scilicet philosophi
nomen occupo, ut caducum), ricorda che come grammati-
co ha scritto libri di diritto, di medicina, di morale, di fi-
losofia: «nec aliud inde mihi nomen postulo – soggiun-
ge – quam grammatici»95 . Ma proprio perché il gramma-
tico, e cioè lo studioso del linguaggio e del discorso, ri-
pone nella scienza del discorso tutta la sapienza umana.
Se noi scorriamo, sempre del Poliziano, la Dialectica, ve-
diamo come egli ci avverta subito che vi sono due specie

94
In pieno Cinquecento così scrive al padre da Padova Paolo
Sacrato, nipote del Sadoleto (Epistolarum Pauli Sacrati libri sex,
Lugduni, 1581, p. 11): «haec autem studia maxime inter se
differre non ignoras, quod in his, quibus nunc versor assidue,
rebus agatur, in illis vero, in quibus tu potissimum a me requiris
ut operam consumam, de verbis tantum quaeratur; nec te latet,
si stylo operam dedero, animum meum a philosophia, quae
hominem sapientem reddit, avocatum iri, quod eodem tempore
utraque in re operam ponere nequeam».
95
POLITIANI Lamia, Opera, II, 302.

Storia d’Italia Einaudi 88


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

diverse di dialettica. L’una, «arte somma fra tutte, parte


purissima della filosofia, si pone al di sopra di tutte le di-
scipline, e ne costituisce il coronamento». Non è di quel-
la che il Poliziano vuole occuparsi; troppo lontana, trop-
po difficile, situata com’è sulle vette dei misteri platonici
– Platonica ista remota nimis, nimisque etiam fortassis ar-
dua. La dialettica che egli espone è arte del discorrere e
dell’argomentare, affine alla grammatica, grammatica del
pensiero, colto nelle sue articolazioni quali si esprimono
nella concretezza del linguaggio, nell’espressione verba-
le carica di tutta l’intenzione spirituale. Le sue indagi-
ni, così affini a quelle del Valla, sui termini; i suoi inte-
ressi per i documenti del pensiero giuridico, scientifico,
morale, religioso, filosofico; tutto indica quel suo vole-
re afferrare la genuinità degli atteggiamenti umani attra-
verso i documenti in cui si sono consegnati alla storia96 .
Perciò egli voleva esser detto grammatico e non filosofo,
pur sentendosi vero filosofo proprio perché grammati-
co. Com’egli scrive nella Lamia, la grammatica, secondo
il suo intendimento, è ben lungi dall’essere povera cosa;
è tentativo di scoprire nell’espressione umana tutta l’ani-
ma che vi si traduce. Leggere, in tutto il loro significato
originario, intenzionale, i libri dei giuristi: questo è esser
giuristi. Leggere veramente il libro di Dio: questo è esser
teologi. Leggere, fino in fondo, i libri dei filosofi sommi:
ecco la filosofia. A chi gli contesta la qualifica di filosofo,
Poliziano risponde citando i suoi grandi maestri classici,
che egli ha compreso e commentato. Ma, soprattutto, a
chi gli parla di una filosofia di scuola, arida e sterile, egli
oppone una filosofia come umana comunicazione, ritro-
vata con consapevolezza in tutta la sua efficacia. Le sue
lodi della retorica, di sapore lievemente gorgiano, hanno
in comune con la posizione sofistica la salda fiducia nel
valore di un incontro umano, le cui risonanze si colgono

96
POLITIANI Opera, II, 459.

Storia d’Italia Einaudi 89


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

particolarmente sul terreno morale e politico. «Che co-


sa vi può essere di più utile e fruttuoso del persuadere
mediante la parola i tuoi concittadini a che compiano le
cose convenienti allo Stato, allontanandosi invece da ciò
che è pernicioso?»97 .
Arte del governare e medicina dell’animo, regolatrice
sottile delle passioni, la retorica si presenta come la for-
ma più elevata del contatto fra uomini, come l’espressio-
ne più felice della scienza dell’umanità.

97
ANGELI POLITIANI Oratio super Fabio Quintiliano et
Statii Sylvis (Opera, II, 384-5): «Nam ut quod caput est, ipsam
tantummodo, qua de hic in primis agitur Rhetoricen inspicia-
mus. Quid est, quaeso, praestabilius quam in eo te unum vel
maxime praestare hominibus in quo homines ipsi caeteris ani-
malibus antecellant? Quid admirabilius, quam te in maxima
hominum multitudine dicentem, ita in haminum pectora men-
tesque irrumpere, ut et voluntates impellas quo velis atque un-
de velis retrahas et affectus omnes, vel hos mitiores vel conci-
tatiores illos emodereris, et in hominum denique animis volen-
tibus cupientibusque domineris? Quid vero praeclarius quam
praestantes virtute viros eorumque egregie res gestas exornare
atque extollere dicendo? Contraque improbos pernitiososque
homines orandi viribus fondere ac profligare, ipsorumque tur-
pia facta vituperando prosternere atque proculcare? Quid au-
tem tam utile tamque fructuosum est quam quae tuae Reipubli-
cae carissimisque tibi hominibus utilia conducibiliaque invene-
ris posse illa dicendo persuadere, eosque ipsos a malis inutilibu-
sque rationibus absterrere?... Haec igitur una res et dispersos
primum homines in una moenia congregavit, et dissidentes in-
ter se conciliavit, et legibus moribusque omnique denique hu-
mano culto civilique convinxit... Quid autem tam munificum,
tamque bene instituitis animis consentaneum, quam calamito-
sos consolari, sublevare afflictos, auxiliari suplicibus, amicitias
clientelasque beneficiis sibi adiungere atque retinere... Nulla
unquam profecto vitae pars, nullum tempus est, nulla fortuna,
nullae aetates, nullae denique nationes, in quibus non maximas
dignitates... facultas oratoria consecuta sit...».

Storia d’Italia Einaudi 90


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

E tuttavia v’era anche il pericolo che, dimentica della


sua funzione prima, essa si trasformasse in un mero at-
teggiamento letterario, non più preoccupata di organiz-
zare il mondo degli uomini, ma tutta presa da un ideale
estetizzante di eleganze linguistiche. È appunto ciò che
vediamo se, dal Poliziano, ci volgiamo a un suo grande
amico, Ermolao Barbaro, bramoso soprattutto di un di-
scorso raffinato, ansioso non di rendere fedelmente il si-
gnificato profondo delle anime con cui entrava in con-
tatto, ma di adornare l’altrui espressione di una concinni-
tas che rischiava di tradire l’intimo contenuto. Laddove
il Poliziano è preoccupato di ritrovare il valore preciso
del vocabolo, scoprendone insieme ogni più segreta riso-
nanza, il Barbaro ama l’armonia dei suoni, la raffinatezza
delle frasi, l’eliminazione di ogni asprezza.
Egli era partito dalla giusta esigenza, proclamata in
una lettera a Giorgio Merula, di evitare il divorzio fra for-
ma e contenuto, operato dai filosofi e dai giuristi ai dan-
ni della forma. A Girolamo Donato, traduttore di Ales-
sandro di Afrodisia, egli, il traduttore di Temistio, espo-
neva nel 1480 il suo programma: combattere senza quar-
tiere «i filosofastri plebei e legnosi che separano la filo-
sofia dall’eloquenza», fare in modo che «la filosofia del-
la natura si riconcilii con gli studia humanitatis» (ut na-
turalis philosophia cum studiis humanitatis in gratiam re-
deat). Senonché gli avvenne poi di operare la medesima
separazione ai danni del contenuto, quando l’orrore del-
la barbarie e il culto della concinnitas lo fecero fanatico
ricercatore di raffinatezze linguistiche. Lo vediamo co-
sì trasformare il tradurre in un exornare (omnes aristote-
lis libros converto et quanta possum luce, proprietate, cul-
tu exorno); lo vediamo condannare la vita civile in nome
delle lettere, lo vediamo sostenere il celibato per i dotti,
lo vediamo concludere con quella sua frase famosa che

Storia d’Italia Einaudi 91


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

è il motto e l’epigrafe della sua posizione: duos agnosco


dominos, Christum et litteras98 .

10. Il Galateo e il Pontano

La traduzione del commento di Temistio alla Fisica fu


dal Barbaro dedicata al Galateo con la calda esortazione
di collaborare insieme al Pontano per una vasta opera di
propaganda a favore di una riconciliazione totale fra stu-
di filosofici e letterari. In realtà il Galateo, se pur scris-
se qualche pagina efficace, se amò criticare la corruzio-
ne ecclesiastica dei tempi suoi, fu ben poco consistente
nelle sue posizioni teoretiche. Critico del Salutati nel De
dignitate disciplinarum ad Pancratium, esalta contro l’a-
zione la pura contemplazione che è propria dei pochi sa-
pienti opposti alla moltitudine volgare: contemplatio per-
fectorum opus est, actio vero plurimorum. Altrove insi-
ste con ugual vivacità sull’oziosa beatitudine del saggio
(otium apud sapientes beatum habetur), o sulla necessità
di evitare perfino il vincolo dell’amicizia, pronto d’altra
parte, in una lettera del 1513 a inveire contro le lettere
(dispereant inanes litterae!) e a scrivere la bella afferma-
zione: «in malevolam et improbam animam non intrabit
sapientia»99 .
Ben altra la statura del Pontano! Il quale, se ebbe qua-
si il culto degli studi astrologici, ispiratori di prose e di
versi; se amò diffondersi nei suoi trattati morali in varia-
zioni aristotelico-stoiche, del resto non del tutto ineffi-
caci; se in gravi questioni filosofiche si abbandonò trop-

98
BARBARI Epistolae et orationes, ed. Branca, Firenze,
1943, II. 90-93.
99
Le opere del Galateo, a cui ci si riferisce, sono uscite nella
Collana degli scrittori della Terra d’Otranto, Lecce, 1867, voll.
II-IV, XVIII, XXII.

Storia d’Italia Einaudi 92


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

po spesso a generiche affermazioni; mostrò tuttavia di


sentire l’importanza di talune questioni che diventeran-
no centrali nel ’500. Così, nell’Actius noi lo vediamo af-
fannarsi a determinare la natura della poesia mettendola
a confronto con la storia. Ed eccolo accettare la defini-
zione che fa della storia una poetica soluta; eccolo soste-
nere, nelle due, un’identità di contenuto, e far consistere
la differenza solo nella disposizione del discorso, più ca-
sta nella storia, più molle nella poesia (historia tamen est
castior, illa vero lascivior). L’incontinenza poi dello stile
poetico si concreta nel dare il linguaggio alle cose mute,
o agli dèi. «Entrambe, storia e poesia, hanno ritmi e figu-
re, ma diversi. E diverso è l’ordine tenuto nella narrazio-
ne, poiché la storia segue la serie e il processo degli even-
ti, mentre la poesia molto spesso comincia dal mezzo o
addirittura dalla fine,... e dà voce e parola agli esseri muti
(vocem quoque dat et orationem rebus mutis)». Frase vi-
chiana, che richiama l’altra, sempre dell’Actius, essere il
linguaggio nato come espressione di uomini agresti, i cui
usi e abitudini si rispecchiarono nelle parole che li tra-
mandarono fino a noi: «sermonem autem quo utimur ab
agrestibus ac rudibus coepisse hominibus, illud declarat
potissimum, quod pleraeque e primis illis impositionibus
sunt rusticis incomptisque a rebus sumptae».
Ma in realtà, ricondotta la poesia a imitazione della na-
tura (cum... ipsa vero poetica naturam potissimum imite-
tur...), la storia viene presentata soprattutto come retori-
ca, e come tale educatrice e formatrice delle costumanze
civili. L’oratoria, e cioè i discorsi dei sommi personag-
gi, costituiscono quasi l’anima della storia; «cosiffatte al-
locuzioni non solo adornan le storie, ma quasi le anima-
no». D’altra parte là dove l’oratoria si fa veramente ala-
ta, e commuove, e penetra l’animo, e lo plasma, sembra
tornare alla potenza originaria della poesia, che attinge le
proprie forze dalla natura stessa.

Storia d’Italia Einaudi 93


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

La conclusione dell’Actius, con l’eloquente elogio del-


la poesia, è tra le cose veramente più felici del Pontano.
«Quando i poeti fingono le loro immagini e dolcemen-
te, mirabilmente, magnificamente le esprimono, essi in-
segnano anche agli altri a parlare. Infatti coloro che, imi-
tandoli, in seguito perorarono le cause nei tribunali, o
discussero le leggi nel senato, o tramandarono le storie,
recarono a perfezione quella primitiva libera eloquenza.
Perciò ogni forma del dire è derivata dalla poesia. I poe-
ti infatti furono i primi sapienti, e tutto dissero in carmi e
ritmi... Salve dunque, o Poesia, madre fecondissima d’o-
gni dottrina! Salve ancora! Tu infatti sei venuta in soc-
corso dell’umanità condannata a morire con l’immorta-
lità dei tuoi scrittori. Tu hai tratto gli uomini fuori dalle
caverne e dalle selve. Per te conosciamo, per te abbiamo
dinanzi agli occhi le cose passate; per te comprendiamo
Dio, per te abbiamo la religione e il culto...»100 .

11. Spunti pedagogici

In verità nel Barbaro, come nel Galateo, che pur trattò


di problemi educativi101 , ma senza soverchia originalità,
le litterae si erano venute impoverendo nel senso di una
retorica staccata da ogni valore concreto, ed erano ve-
nute perdendo gran parte dell’efficacia di cui erano sta-
te piene, al principio dell’umanesimo, quando avevano
costituito la base degli studia humanitatis. Si era ormai

100
PONTANO Dialoghi, ed. C. Previtera, Firenze, 1944,
pp. 143, 194, 207, 221, 238-39.
101
De educatione («Collana degli scrittori della Terra d’O-
tranto», Lecce, 1867). (Ma cfr. la lettera a B. Acquaviva in
A. CROCE, Contributo a un’edizione delle opere di A. Gala-
teo, «Archivio storico per le provincie napoletane», 1937, pp.
20-33).

Storia d’Italia Einaudi 94


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

chiaramente iniziato quel divorzio per cui come s’è vi-


sto, a metà del ’500, il nipote del Sadoleto Paolo Sacrato,
studente di filosofia in Padova, poteva scrivere al padre
che l’esortava ad esercitarsi in latino: «tu non ignori che
queste due discipline divergono tra loro massimamente;
la filosofia che coltivo assiduamente, tratta di realtà (re-
bus); le lettere, a cui tu mi spingi, di parole (verbis)». Ciò
che Leonardo Bruni, e prima ancora il Salutati, avevano
fatto convergere, ecco che ora sommamente divergeva –
haec studia maxime inter se differre. L’educazione uma-
nistica, come formazione dell’uomo completo attraver-
so la rivissuta cultura classica, veniva perdendosi in una
educazione puramente letteraria contrapposta a una cul-
tura concreta. Il letterato monastico e solitario, sostitui-
tosi all’uomo ricco di una umanità integra, e perciò so-
ciale, non vedeva ormai nella humanitas che eleganza let-
teraria.
Il Bruni, s’è visto, aveva affermato essere quella hu-
manitas formazione spirituale (humanitatis studia nun-
cupantur, quod hominem perficiant), anzi l’unica vera-
ce educazione. E, contro coloro che criticavano in no-
me della religione tale atteggiamento, aveva tradotto nel
1403 la difesa che Basilio il Grande aveva fatto degli stu-
di letterari nella celebre Oµιλία π ρ òς τoùς ν ´oυς
óπ ως αν ξ Eλλνικω˜ν ωφλoι˜ντo λóγων 102 .
Ed aveva, seguendo da presso il Salutati, mostrato come
l’educazione alla poesia sia un rinnovare e riplasmar se
stessi nella bellezza, nella sua divina grandezza, nella sua
obbiettiva validità (divina quaedam alienatio, ac velut sui
ipsius oblivio, et in id, cuius pulchritudinem admiramur,
transfusio). Qui non parole s’insegnano, ma cose; ed an-
zi si introduce l’anima alla realtà nella sua totale compiu-

102
Il Bruni dedicava la traduzione al Salutati affermando che
col nome di Basilio il Grande voleva reprimere l’ignavia e la
perversità dei vituperatori degli studia humanitatis.

Storia d’Italia Einaudi 95


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tezza. Le lettere mettono l’anima di fronte a un assolu-


to valore e in esso quasi la sublimano; velut extra nos po-
siti, totis affectibus in illum corripimur. E come si chia-
mano litterae humanae perché recano a compiutezza l’u-
manità nostra, così si dicono arti liberali perché liberano
l’uomo e lo collocano, signore di sé, in un libero mondo
di spiriti liberi (idcirco est liberalis, quod liberos homines
facit).
Tutto il De ingenuis moribus di Pier Paolo Vergerio è
rivolto a mostrare come le lettere, alimentando questo
dialogo fra spiriti, al di là d’ogni vincolo di spazio e
di tempo, aprano l’anima a una più larga e più ricca
umanità. «Che mai vi può essere di più bello dello
scrivere e del leggere? e conoscer le cose del mondo
antico, e parlare con coloro che nasceranno un giorno,
e far nostro ogni tempo, e passato e futuro?» Lo spirito
attraverso le lettere si dilata, si distende; e mentre si
arricchisce di infiniti tesori, impara a rispettare l’altrui
valore; nel suo sempre rinnovato colloquio educa nella
maniera più nobile a vivere nella società degli uomini. La
sapienza, lungi dall’essere isolata in una torre d’avorio,
«abita nelle città, fugge la solitudine, brama di giovare
alle moltitudini» (in urbibus habitat et solitudinem fugit...
et prodesse quam plurimis cupit)103 .
Né diverso è il tono del De educatione liberorum di
Maffeo Vegio, ove le lettere non solo fondano sul rapido
trascorrere del tempo la sicura saldezza di una comunità
spirituale (non modo iacturam temporis evitabunt), ma
avvivano la carità, la comunicazione, ed ogni vincolo

103
Lo scritto del Vergerio nella cit. ed. della Gnesotto e nel
vol. L’educazione umanistica in Italia. (Mi sia lecito, per questa
parte, rinviare al vol. su L’educazione in Europa, Bari, 1957, e
alla raccolta di testi, illustrati e tradotti, L’umanesimo, Firenze,
1958).

Storia d’Italia Einaudi 96


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

umano (modeste, graviter sancteque vivere, patriam et


parentes colere, Deum venerari)104 .
Gli stessi accenti risuonano in Gasparino Barzizza, il
maestro di Francesco Barbaro, ma soprattutto in Gua-
rino Guarini, discepolo di Giovanni da Ravenna e di
Emanuele Crisolora, dalla cui scuola ferrarese uscirono il
Pannonio, Ermolao Barbaro, il Lamola, Alberto da Sar-
teano, per non dir degli altri moltissimi, celebri e oscuri,
accorsi a lui, non solo dalle più remote regioni d’Italia,
ma da Creta e da Cipro, dalla Polonia come dall’Inghil-
terra. Anche per Guarino le lettere arricchiscono l’uma-
nità, e scrivendo al Corbinelli dichiara che egli ammira
soprattutto coloro che armonizzano dottrina e vita atti-
va, mentre rivolgendosi al podestà di Bologna svolge lar-
gamente il concetto che proprio solo le Muse prepara-
no alla vita politica. «Non piccola gratitudine tu devi al-
le Muse – esclama – che ti hanno educato fin dall’infan-
zia, insegnandoti a governar te, i tuoi, e lo Stato... Di qui
lo splendido detto di Scipione che, abbandonandosi un
giorno, in una pausa dei pubblici affari, agli ozi letterari,
esclamò: – Inoperoso, compio ora le cose più grandi».
Le litterae erano a questa scuola la causa del risveglio
di ogni energia spirituale; son esse che battono alla porta
dell’anima perché essa risponda: fores, ut sic dicam, pul-
satis, quo vel rogatus ad intelligendum pateat aditus. Bi-
sogna leggere e rileggere gli autori, e impararli a memo-
ria, e vivere continuamente con loro, summa cum volun-
tate, finché al di là delle parole l’anima si incontri con l’a-
nima. Quel pesar la parola, quel sottile discutere sul suo
significato, per ridarle alla fine il suono originario, sono
mezzi per trovare nella carne lo spirito, per rianimare nei
mondi sepolti, nei monumenti che il tempo sembra ave-
re privato d’ogni splendore, la luce originaria. Solo con

104
Per l’opera del Vegio cfr. l’ed. a cura di M. Walburg
Fanning e A. Stanislaus Sullivan, 2 voll., Washington, 1933-36.

Storia d’Italia Einaudi 97


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

questo avvicinamento filologico noi trarremo dalla lette-


ra muta un significato vitale; nec verbum ex verbo, sed
sensa tantisper exprimes. E tutti noi riusciremo fortifi-
cati da quel colloquio, e fatti saggi ed antichi per antica
sapienza (ut mortales natu quidem iuvenes, prudentia et
rerum innumerabilium scientia longaevos efficiat)105 .
Eran uomini per cui l’antico non rappresentava un
campo di ricerche erudite e curiose, ma un paradigma.
L’umanità classica non solo aveva raggiunto una rara
pienezza ed armonia di vita, ma l’aveva mirabilmente
espressa e consegnata in opere d’arte e di pensiero, per-
fette come quella vita. Entrare in contatto con esse, e per
esse con gli spiriti che vi si erano trasfusi, significava av-
viare un ideale colloquio con uomini completi, appren-
dere da loro il significato di una vita completa. Aprirsi
umilmente a quelle opere mirabili, e per amore quasi tra-
sformarsi in esse, significava rinnovare se stessi attraver-
so una larga ricchezza umana, riconquistando a sé tutti i
tesori dello spirito. L’ingresso in quel mondo, si impron-
ta così di un tono quasi religioso. «La casa sua era sacra-
rio di costumi, di fatti e di parole» – scrive di Vittorino
da Feltre Vespasiano da Bisticci. Alla sua scuola il rispet-
to dell’uomo, nella sua compiutezza, anima e corpo, ave-
va qualcosa del rito; e la formazione umana era consape-
volezza religiosa di quanto nell’uomo ha valore, e che le
arti liberali risvegliano e fortificano106 .

105
Le opere del Barzizza nella ed. romana del 1728. I testi
del Guarino nell’edizione del Sabbadini.
106
Oltre la vita di Vespasiano da Bisticci cfr. FR. PRENDI-
LACQUA, De vita Victorini Feltrensis dialogus, Padova, 1774.
(Tutti i documenti su Vittorino ho ora raccolti nel cit. volume
su L’Umanesimo pedagogico).

Storia d’Italia Einaudi 98


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

IL PLATONISMO E LA DIGNITÀ
DELL’UOMO

1. La crisi della libertà e i dialoghi «De libertate» del


Rinuccini

Se il primo umanesimo fu tutto un’esaltazione della vi-


ta civile, della libera costruzione umana di una città ter-
rena, la fine del ’400 è caratterizzata da un chiaro orien-
tamento verso un’evasione dal mondo, verso la contem-
plazione. Il platonismo col suo tono ascetico, la filoso-
fia concepita come appressamento alla morte, si sostitui-
scono a quella serena esaltazione della vita che era stata
la nota dominante di un Salutati, di un Bruni, di un Val-
la. A questo orientamento mutato non fu certo estraneo
il complesso delle vicende politiche italiane, l’affermarsi
sempre più chiaro dei principi, i cui meriti possono oggi
apparire anche eminenti; allora anche i più geniali tiran-
ni sembrarono i nemici d’ogni libertà. Quando nel ’78 la
folla inferocita fece a pezzi per le vie di Firenze i Pazzi e
i loro seguaci che avevano tentato di rovesciare i Medi-
ci, al grido di libertà dei congiurati il popolo oppose, in
modo molto significativo, il motto: «viva Lorenzo che ci
dà il pane!»107 . E se è vero che spesso quei signori trion-
fanti protessero i letterati, è ancor vero che ne fecero dei
cortigiani, in cui un pensiero tutto permeato di politicità
non è più concepibile.
Ai nostri occhi l’avvento della signoria potrà rivelarsi
come l’eliminazione dei gruppi privilegiati di ricchi mer-
canti e di nobili. Allora esso distrusse il fervore di lotte

107
A. FABRONI, Laurentii Medicis Magnifici Vita, Pisis,
1784, II, p. 137 e sgg.

Storia d’Italia Einaudi 99


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

politiche, il palpito intenso di vita dello stato-città. All’i-


deale della respublica come collaborazione, come vera so-
cietà, anche se in effetti ristretta società, sostituisce il Ce-
sare che allontana i cittadini dalla vera vita politica, tra-
sformando la cultura, da espressione, strumento e pro-
gramma di una classe giunta alla ricchezza e al potere,
in un elegante ornamento di corte, o in una malinconica
fuga dal mondo.
La consapevolezza della crisi è viva negli umanisti.
Noi la sentiamo nella fiera polemica aperta già nel 1435
da Poggio Bracciolini quando, in un’epistola al ferrarese
Scipione Mainenti, si scaglia contro Cesare, degenerato
uccisore della romana libertas, ed esalta invece il repub-
blicano Scipione. Il Guarino rispose difendendo Cesare,
e nella discussione entrarono Francesco Barbaro, Ciriaco
d’Ancona, Pietro dal Monte. Non si trattava, nonostan-
te l’apparenza, di un esercizio d’ingegno108 . Era l’antitesi
fra l’esaltazione dell’eroe, glorificato nel mito di Cesare,
e la difesa dell’uomo, che è tale solo se può liberamente
esplicare la propria attività in una vita completa. Quale
fosse l’animo dei vagheggiatori della «libertà» noi trovia-
mo nella fierissima invettiva di Machiavelli contro Cesa-
re e il cesarismo, che illumina tutti i Discorsi. Chi guardi
superficialmente al fondatore dell’impero, egli osserva,
loderà, forse, la potenza magnifica del principe; ma chi
considererà attentamente le conseguenze della instaura-
ta tirannide, «vedrà l’Italia afflitta, e piena di nuovi in-
fortuni; rovinate e saccheggiate le cittadi di quella. Ve-
drà Roma arsa, il Campidoglio da’ suoi cittadini disfatto,
desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene
le città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii, gli sco-
gli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili
crudeltadi e la nobiltà, le ricchezze, i passati onori, e so-
pra tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Ve-

108
GUARINO, Epistolario, II, pp. 226-29.

Storia d’Italia Einaudi 100


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

drà premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi con-


tro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi
fussero mancati i nimici, essere oppressi dagli amici. E
conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, l’Italia,
e il mondo, abbia con Cesare»109 .
Il vecchio Salutati nell’Invettiva contro il Loschi ave-
va proclamato la florentina libertas erede legittima della
romana libertas. Il Cesare distruttore di essa è, per Fi-
lelfo, l’infame pernicioso velenoso scellerato Cosimo de’
Medici, corruttore di tutta Firenze, pericolo incomben-
te su tutta l’Italia. Le Commentationes, requisitoria fero-
ce contro l’instaurata signoria dei Medici, rivelano trop-
po scopertamente gl’interessi dell’autore. I dialoghi De
libertate di Alamanno Rinuccini, aspra e dolorosa con-
danna del novello Falaride Lorenzo de’ Medici, dipingo-
no con efficacia senza pari il mutamento d’interessi della
cultura quattrocentesca e le cagioni profonde di un radi-
cale trasformarsi degli orientamenti di pensiero110 .
L’ideale del Rinuccini, ed egli lo delineò nell’orazione
funebre pronunciata per la morte di Matteo Palmieri, era
un’armonica fusione di vita attiva e contemplativa, in cui
si prolungava il programma ciceroniano che era stato il
tema dell’opera, appunto, del Palmieri: non siamo nati
per noi, ma per la famiglia e per la patria (patriae cui
post Deum immortalem maxima quaeque debemus). Sono
parole, queste, del De libertate, e in forma di rimprovero
un amico le ripete al Rinuccini, esule in patria, ritirato
in una sua villa campestre in solitarie meditazioni. La

109
MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio, I, 10.
110
ALAMANNO RINUCCINI, De libertate, ms. Laur.
«Acquisti e Doni», 216; Ravenna, class. 332 (Cfr. ed F. Adorno,
Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria»,
XXII, 1957, pp. 267-303; Lettere ed Orazioni, ed. V. R.
Giustiniani, Firenze 1953).

Storia d’Italia Einaudi 101


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

cultura non deve isolarci; il nostro posto è nel mondo,


fra gli uomini. La nostra attività, qualunque essa sia, deve
concretarsi sempre in un rapporto umano.
Amarissima la risposta del Rinuccini: per quell’attività
è necessaria condizione la libertà. Solo in una società
libera l’uomo può esplicare se stesso. Non più a Firenze.
Là un tiranno, Lorenzo, chiude i cittadini nella rete
delle menzogne, li costringe o a corrompersi o a ritirarsi.
La cultura non giova più a rendere forte l’umanità, ma
solo ad offrire un rifugio e un’evasione a coloro che
potrebbero esercitare una funzione politica unicamente
a patto di tradire la propria coscienza e la verità.
Tolta la libertà sul piano politico, l’uomo evade in un
terreno diverso, si ripiega su se stesso, cerca la libertà
del saggio. Il Rinuccini, che con gli scrittori del primo
umanesimo continua a condannare sul piano etico l’a-
scesi stoica in nome dell’equilibrio aristotelico, vagheg-
gia poi, sul terreno concreto e per motivi politici, una
virtù tutta «monastica e solitaria». Questo amatore del-
la vita civile amaramente si riduce a celebrar la cultura
come ritiro, come contemplazione, come meditazione di
morte e appressamento alla morte. Da un filosofare so-
cratico, tutto problema umano, si passa sul piano plato-
nico, mentre la stessa religione cristiana, fin qui opposta
allo stoicismo per il suo senso concreto della vita terre-
na, si trasfigura alla luce di una sempre più viva tradizio-
ne plotiniana. A Firenze, mentre Savonarola lancia l’ul-
tima rovente invettiva contro la tirannide che tutto cor-
rompe e inaridisce, il «divino» Marsilio cerca nell’iperu-
ranio una riva serena dove fuggire le tempeste del mon-
do.

Storia d’Italia Einaudi 102


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

2. L’influenza dei dotti bizantini e le traduzioni di


Platone

È qui che si inserisce, anche se in ultima analisi molto


scarsa, l’influenza dei dotti bizantini. Scarsa, giova ri-
peterlo. La tarda cultura greca era ormai giuoco ari-
do di formule teologiche, ove quasi mancava ogni linfa
vitale111 . I greci disprezzeranno i latini per la loro insuf-
ficiente erudizione; ma per questi gli autori antichi era-
no vivi, erano voci che destavano fremiti e alimentavano
la meditazione. Quello che ai fedeli della lettera pareva
scarsa informazione non era, molto spesso, che fedeltà
allo spirito.
L’apporto effettivo di Bisanzio all’umanesimo ebbe un
carattere soprattutto strumentale; furono dei materiali
preziosi che arricchirono il patrimonio culturale dell’Oc-
cidente; furono delle formule felici che si offrirono a un
pensiero già pervenuto a maturazione in via del tutto au-
tonoma. D’altra parte uomini non volgari di animo e di
mente come il Crisolora o l’Argiropulo, ma soprattutto
come il Pletone e il Bessarione, offrirono in un momen-
to opportuno a delle coscienze in crisi le vie dell’evasio-
ne platonica. Senonché, anche qui, nei cieli della me-
tafisica platonica si cercarono ancora risposte agli anti-
chi problemi, morali, estetici, magari religiosi, ma sem-
pre umani. Anche nei maggiori, quali un Ficino, un Pi-
co, un Diacceto, invano cercheremmo un ben architetta-

111
Cfr. G. PASQUALI, Medioevo bizantino, in «Civiltà
moderna», 1941, p. 289 sgg. (Per una profonda revisione di
questo giudizio cfr. ora F. MASAI, Pléthon et le platonisme de
Mistra, Paris, 1956, e i miei Studi sul platonismo medievale, Fi-
renze, 1958, pp. 155-219; per questo non del tutto appropriati
sembrano certi rilievi di J. IRMSCHER, Theodores Gazes als
griechischer Patriot, «La parola del passato», 78, 1961. p. 161
sgg.).

Storia d’Italia Einaudi 103


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to sistema, un’ordinata sistemazione del mondo; ancora


e sempre ciò che ritroviamo è, innanzitutto, una medita-
zione umana.
Il nome di Emanuele Crisolora va qui ricordato per
l’opera sua di grammatico e di traduttore, e soprattutto
di maestro ed ispiratore del Guarino; così come Giovan-
ni Argiropulo continua ad apparirci quale ce lo dipinge
lo scolaro suo più fedele, l’Acciaiuoli, «non erudito sol-
tanto, come lo celebrava la fama, ma sapiente, veneran-
do, degno in tutto di quei Greci antichi». E fu l’Argi-
ropulo a dare l’avvio al commento e allo studio rinnova-
to della Nicomachea, non più entro l’ambito di una stret-
ta fedeltà allo spirito civile e politico del bene comune e
dell’uomo considerato nella sua socialità, ma con gli oc-
chi fissi a quella finale esaltazione dell’intelletto contem-
plante e separato ove si riversava tutto il più puro plato-
nismo. Il tema della conciliazione fra Platone ed Aristo-
tele, che diventerà centrale nel gruppo ficiniano, e con-
tinuerà per tutto il ’500, noi lo troviamo proprio chia-
ramente impostato nel commento alla Nicomachea ove
l’Acciaiuoli esporrà fedelmente l’insegnamento dell’Ar-
giropulo. Il quale, com’è noto, aveva avuto qualche par-
te nella disputa iniziatasi tra Giorgio Gemisto Pletone e
Giorgio di Trebisonda sulla superiorità del platonismo
rispetto all’aristotelismo. Discussione per sé non molto
costruttiva, soprattutto finché rimase sul terreno del pet-
tegolezzo, del libello e dell’ingiuria, ma che pure si colo-
rì di motivi fecondi nell’anima grande del cardinal Bessa-
rione, che la trasferì sul piano dei massimi problemi teo-
rici e dette l’avvio a tanta parte della più alta meditazione
rinascimentale112 .

112
Cfr. A. DELLA TORRE, Storia dell’Accademia platonica
di Firenze, Firenze, 1902; PLETONE, N óµoι, ed. Alexandre,
Paris, 1858; G. CAMMELLI, I dotti bizantini e le origini
dell’umanesimo, I (Crisolora), Firenze, 1941, II (Argiropulo),

Storia d’Italia Einaudi 104


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Il Pletone, venuto a Firenze per il Concilio che dove-


va pacificare, sotto l’urgenza di motivi contingenti, chie-
sa greca e latina, volle dare ai suoi amici latini, tutti infa-
tuati d’Aristotele, un’idea della grandezza di Platone, o
almeno di quel bizzarro suo modo di vedere Platone, che
era poi una complessa mescolanza di elementi neoplato-
nici in un’atmosfera di profetismo riformatore. E Gior-
gio di Trebisonda, che di Platone era stato traduttore,
anche se non felice, rispose malmenando l’antico filoso-
fo e il suo nuovo profeta. Ché, a dire il vero, ciò che più
interessa nel Pletone è proprio quel suo imponente atteg-
giamento profetico, quel suo annunziare imminente la fi-
ne delle tre grandi religioni, ebraica, cristiana e maomet-
tana, e l’avvento della città platonica, costruita secondo
i princìpi di una concezione dell’universo ove il neopla-
tonismo si precisa in un rito e in una legge di vita. Del-
le Leggi, che Giorgio Scolario fece dare alle fiamme, non
abbiamo che pochi frammenti, eppur notevoli per quel
sogno di una riforma morale, religiosa e politica dell’u-
manità che sarà così caro ai pensatori del tardo ’400, e
poi del ’500 fino a Campanella. E il Pletone, come fra’
Tommaso, già scorgeva i segni che annunciavano il nuo-
vo regno, quello per il quale dovevano variamente com-
battere e soffrire un Pico e un Bruno. Ma v’era, nel Ple-
tone, anche la preoccupazione di interpretare le favole
antiche, la mitologia e i sogni dei poeti; di costruire in-
somma quella teologia poetica che Giovanni Pico promi-
se e che, in ben altro senso, scriverà Vico nella Scienza
Nuova.

Firenze, 1943; L. MOHLER, Kardinal Bessarion als Theologe,


Humanist und Staatsmann ecc., Paderborn, 1923 e sgg., 3 voll.;
B. KIESZOWSKI, Studi sul Platonismo del Rinascimento in
Italia, Firenze, 1936. Per ulteriori indicazioni, specialmente
suIl’Argiropulo, cfr. la cit. Giovinezza di D. Acciaiuoli (e, ora,
gli studi riuniti nel vol. Medioevo e Rinascimento, Bari, 19612 ).

Storia d’Italia Einaudi 105


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Certo è che il Pletone fece impressione sul vecchio


Cosimo de’ Medici, nuovo Platone sul novello Dionigi. E
il tiranno dell’italica Atene ne sarà indotto a favorire alla
sua corte una rinascente scuola di platonismo spingendo
il figlio del suo medico, il promettente Ficino, a tradurre
e illustrare Platone.
Quanto poi all’altro spinoso argomento, quello del-
la supremazia di Platone, il Bessarione, dotto tradutto-
re della Metafisica, ma profondissimo studioso di Plato-
ne, nel suo In calumniatorem Platonis andò sottilmen-
te dimostrando come tra i due sommi pensatori antichi
non fosse poi troppo difficile scoprire un intimo accor-
do in molti punti fondamentali, e come, anzi, una rinno-
vata apologetica cristiana potesse fondarsi utilmente su
una conciliazione di platonismo ed aristotelismo. E for-
se, con i suoi spunti, mosse primo Ficino per le vie della
sua docta religio.

3. Il problema dei rapporti fra vita attiva e contemplativa


in Cristoforo Landino

Ma il mutato atteggiamento di pensiero, che corrispon-


deva a un diverso orientamento di vita, noi vediamo in
una delle più caratteristiche opere del secondo Quattro-
cento: le Quaestiones camaldulenses di Cristoforo Landi-
no, composte intorno al 1475, ed in cui il platonismo co-
me tendenza al puro contemplare si faceva sempre più
vivo. Il Landino, che, giovinetto, si era fatto ammira-
re nel 1441 al «certame coronario» come fine recitato-
re delle terzine di Francesco Alberti, sarà poi consiglie-
re e guida al Ficino, che lo annovererà tra i suoi platoni-
ci, e nelle Quaestiones loderà quell’inesprimibile accento
che è proprio della ispirazione platonizzante (habet ne-
scio quid quod exprimere nequeam). Al neoplatonismo
ormai era giunto ad aderire pienamente. E se nella pro-

Storia d’Italia Einaudi 106


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lusione italiana a un corso sul Petrarca si trovano, e l’e-


saltazione del volgare, e la lode piena del primo umane-
simo, e accenti tratti da Leonardo Bruni, nei commenti
allegorici a Virgilio e a Dante tutto ci trasporta sul pia-
no di quella «teologia poetica» che fu sì cara al Ficino e
al Pico. Teologia poetica già insegnata dagli ultimi rap-
presentanti greci della scuola di Platone, e che intende-
va ricercare nei poeti, e particolarmente negli antichissi-
mi, una divina rivelazione nascosta dietro il rigoglio delle
immagini. Insomma, quella sapienza riposta contro cui
dirigerà tutte le sue critiche il Vico.
Anche le Quaestiones camaldulenses113 negli ultimi
due libri ritrovano nell’Eneide la storia ideale dell’ani-
ma umana e l’esaltazione della vita contemplativa. Ché
proprio questo è il problema al centro di tutta l’opera,
problema decisivo, come il Landino sentì, nella cui so-
luzione si manifestava chiarissimo l’orientamento di una
civiltà e di una cultura. Il Salutati, pur riconoscendo con
la tradizione medievale che il contemplare è, per digni-
tà, da anteporsi all’operare, proietta nell’al di là, nel cie-
lo, la visione beatifica, e in terra dà all’uomo la missione
di operare. Landino torna nettamente a una supremazia
del sapere, della vita contemplativa, ma giustificandola
come la base più profonda dello stesso operare. Pren-
dendo in esame proprio quel Cicerone a cui già si erano
tanto ispirati uomini come il Bruni, il Landino sostiene
che il maggior giovamento il genere umano lo ebbe, non
quando egli combatté Catilina o Antonio, contribuendo
alla libertà e al benessere dei soli suoi concittadini e in
un tempo determinato, ma quando, «lungi dalla politica,
tutto rivolto ai massimi problemi... abbracciando l’uni-
versa realtà afferrò il fine dell’uomo». Non solo; ma alla
vita comune egli giovò più largamente quando nei suoi

113
C. LANDINI Quaestiones camaldulenses ad Federicum
Urbinatum principem (Florentiae, 1480?).

Storia d’Italia Einaudi 107


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

trattati politici disse una parola non destinata a morire,


valida per ogni uomo in ogni tempo. «Con le sue sagge
azioni Cicerone vinse i gravi pericoli incalzanti nel mo-
mento; ma le cose che nella ricerca consegnò ai libri ri-
guardano ogni tempo, e provvedono a lasciare precetti
di vita onesta e felice, non solo ai contemporanei, ma an-
che a quanti son vissuti e vivranno di poi. Le opere di chi
non operò nella vita attiva hanno reso gli uomini, da stol-
ti e barbari, docili e gentili (dociles humanosque)... On-
de si può concludere che coloro che sono immersi nel-
l’azione giovano certamente, ma nel presente o per bre-
ve tempo. Coloro invece che illuminano la natura mi-
steriosa delle cose, sempre gioveranno. Le azioni muo-
iono con gli uomini; i pensieri vincono i secoli, vivono
immortali, s’innalzano all’eterno». Proprio per questo,
quando in una ideale città esamineremo qual posto dare
ai singoli membri, «il nostro sapiente interrogato in che
possa giovare alla vita comune, risponderà d’essere uno
che si propone di non occuparsi di alcuna precisa attivi-
tà pratica, astenendosi da ogni affare pubblico o priva-
to, tutto assorto nell’indagine delle cose supreme, ricer-
cando e affidando agli scritti quello che è, secondo na-
tura, utile, onesto». Ma non perciò dovremo allontanar-
lo come dannoso o infecondo nella vita associata, quan-
do invece è da proporsi come ideale modello e reggito-
re di tutti. «Oserà forse affermare qualcuno che tal uo-
mo non reca utilità alla città, quando invece nessuno po-
trà bene assolvere il suo compito senza ricorrere a lui per
consiglio?»
Alla radice dell’inversione landiniana v’è, chiara, l’in-
fluenza della Repubblica platonica e del sapiente reggito-
re. E v’è, giusta, la considerazione, propria della stessa
Nicomachea, della profonda praticità della teorèsi, attivi-
tà suprema dell’uomo. E v’è, infine, anche una conqui-
stata coscienza del valore umano, e quindi sociale, del-
la formazione culturale. L’uomo è tale, e quindi è otti-

Storia d’Italia Einaudi 108


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

mo cittadino, appunto attraverso una piena cultura. Se-


nonché lo sforzo di intimamente connettere quel sapere
e quest’operare, che era poi stata la preoccupazione del
primo umanesimo, viene vanificandosi in un rinnovato
divorzio tra fare e contemplare. Il mero contemplante
che si pone vivente appello e tipo ideale, ma non scende
nella caverna a soffrire, somiglia piuttosto al monaco stu-
dioso, che a Socrate soldato a Potidea, e perciò maestro
d’Atene.
Landino afferma esplicitamente di andare oltre i vec-
chi scrittori della generazione precedente alla sua, quan-
do esclude che l’inattività dell’ottimo lasci lo stato in ba-
lia dei pessimi, insistendo anzi sul motivo aristotelico del-
la celebrazione umana suprema attraverso il conoscere.
E non si accorge che quel suo vagheggiato «Dio terre-
no», che contemplando il cielo (ασ τρoνoµoυ˜ντα)
si fa modello agli altri, anche Platone aveva collocato in
un miracoloso stato ove, per volontà degli dèi, i filoso-
fi siano re, o i re filosofi, sì che a tali reggitori non man-
chino mezzi e potenza per educare gli altri. Ma come si-
tuarlo in quella tal caverna, ove chi ridiscenda – e ridi-
scendere deve, anche secondo Platone – rischia, non già
d’essere venerato qual Dio, bensì messo a morte da colo-
ro che non intendono? Al Landino pareva cosa pacifica
che lo stolto ami esser guidato, e che è più bello essere
governati che non governare (suavius regi quam regere), e
che in ogni modo, anche «ammesso che ai più non piac-
cia d’esser resi migliori, il saggio si chiuderà in se stes-
so e gioverà agli uomini in altro modo». L’evasione con-
sapevolmente accolta come tale dal Rinuccini, e cioè co-
me rinuncia e abdicazione dolorosa alla propria umani-
tà completa, si fa qui giustificazione di una vita monasti-
ca e solitaria, di cui si postula, ma non si dimostra la fe-
condità educativa. Le litterae educatrici del Guarino era-
no scese dalla Repubblica di Platone nella feccia di Ro-
molo, e i cittadini della Gerusalemme celeste pugnavano

Storia d’Italia Einaudi 109


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

nella terrena Babilonia, in modo che il loro sapere fosse


sì contemplazione di Dio, ma ben calata nella condizio-
ne terrestre. Il Landino, che pur sottolineava con finez-
za una più profonda politicità della cultura, la annulla-
va poi quando la segregava nella repubblica delle lettere.
Politia litterarum, e non a caso, significò nel primo Quat-
trocento, non città ideale dei sapienti, ma humana disci-
plina, formazione completa di ogni uomo, e, in ogni uo-
mo, di tutto l’uomo. Lo slittamento verso il concetto, de-
stinato a fiorire nel Seicento, della «Repubblica delle let-
tere», nacque dalla crisi che si operò nella cultura e nel-
la vita del Rinascimento quando le sue conquiste, guada-
gnando apparentemente in universalità umana, e disan-
corandosi dalla città in cui erano nate, persero insieme la
loro pienezza. Parafrasando Agostino il Salutati insiste-
va sul congiungimento pieno, in terra, della città terrena
e della città celeste, così come l’anima è sempre incarna-
ta, e l’idea, che sia seria idea, è sempre impegnata in una
lotta terrena. Il Landino battendo invece sul concetto di
una sapienza disancorata da ogni legame di spazio e di
tempo, da ogni mondana storia, si poneva già sul piano
del Ficino maestro al mondo intero di quella pia philo-
sophia che nella «filosofica pace» congiunge ogni spirito
in una unità superessenziale che ormai ci porta per entro
gli abissi della tenebra mistica.
Eppure non sempre il Landino si muove nell’ambito
dell’accademia risorgente in Careggi. E se i suoi dialoghi
De nobilitate animae, dedicati intorno al 1472 a Ercole
d’Este, non si spostano sensibilmente dal punto di vista
ficiniano, nel De vera nobilitate, ove si ritrae un banchet-
to avvenuto dopo la morte di Cosimo, il vecchio moti-
vo, caro alla retorica umanistica, della nobiltà che deri-
va dall’opera e non dal sangue, aveva trovato qualche ac-
cento non banale, soprattutto nella contrapposizione fra
nobiltà veneta, nata e consolidata nell’opera e nell’attivi-
tà, e nobiltà napoletana dove l’ultimo raggio di una inve-

Storia d’Italia Einaudi 110


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

stitura andava disperdendosi senza dignità nell’ossequio


supino al re, e nell’orgoglio più vano (delicatum... ocium
et in divitiis, quam etiam si non habeant, tamen summo
studio simulant, vanam ambitionem). Il Landino, anzi,
aveva, per contrasto, elogiato non senza efficacia il traf-
ficare, e il danaro così accumulato, pur insistendo nella
consueta polemica contro l’usura. «Una liberale merca-
tura, infatti,... reca pubblico e privato splendore, rende
molti più ricchi, e largamente assiste il popolo che vuol
migliorare con l’opera propria le sue condizioni, e vince-
re la fame e il freddo, e perciò abbandona l’inerzia per il
lavoro». Anzi, questi benemeriti del genere umano son
degni d’essere considerati quasi divini benefattori (tam-
quam dii mortalibus omnibus salutares esse videntur)114 .

114
C. LANDINI De vera nobilitate, ms. 433 Bibl. Corsini
(36, E, 5) fol. 36-7:
«mercatura enim liberalis et nulla fraude in adulterandis merci-
bus commissa, publice privatimque splendorem affert, multo-
sque locupletiores reddit; plebem autem quae se aliquo artifi-
cio opificiove tueri et famem frigusque a se arcere studet, prop-
teraque ab ignavia ad laborem convertitur abunde alit, et popu-
li qui ex illa ditescunt, ac propterea ad urbem suam publicis sa-
crisque aedificiis ornandam convertuntur, plurima magnificen-
tia illustriores evadunt, ac denique, cum nulla in terris regio ex-
tet, ubi omnia sint, id tamen efficiant mercatores, ut sua opera
atque industria nusquam locorum quicquid desit..., huiuscemo-
di hominum genus, a quibus omnis dolus, omnis fraus absit, li-
beralitas autem ac beneficientia adsit, tamquam dii mortalibus
omnibus salutares esse videntur. Quorsum ergo haec? nem-
pe ut illud concludam, industriae nos mercatoriae plurimum
debere, eosque homines, qui ex plurimarum rerum inopia co-
piam inducant, veluti bene de hominum genere meritos laudan-
dos censeo. Sintne autem omnino inter nobiles reponendi, non-
dum satis intelligo. Materia in qua plurimum versantur pecu-
nia est, cuius quidem studiosi sunt; eos in nullo hominum nu-
mero apud philosophos unquam fuisse videmus. Sed si libera-
litas in his sit atque beneficentia, possunt huiuscemodi virtutes
nobilitatem facile parere»

Storia d’Italia Einaudi 111


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Con tutto ciò, proprio nel De vera nobilitate, suona


alto l’elogio per Ficino, per la sua docta religio, per il suo
far convergere ogni interesse umano verso temi metafisici
e religiosi.

4. Marsilio Ficino e la concezione di una «docta religio»

Un gruppo di scritti, meglio si direbbe di giovanili ap-


punti ficiniani, pubblicati di recente da P. O. Kristeller,
documentano la preparazione tradizionalmente scolasti-
ca del Ficino, che tra il 1454 e il 1455 si muoveva nel-
l’ambito del più tecnico aristotelismo di scuola115 . Quel-
l’umanesimo «morale», che siamo venuti seguendo fin
qui, gli era estraneo, e non aveva suscitato in lui neppu-
re un impegno polemico. Più tardi, nel proemio a Lo-
renzo de’ Medici premesso al Plotino latino, riconduce
la propria conversione al platonismo all’influenza com-
binata di Gemisto e di Cosimo de’ Medici. Cosimo, in-
fatti, spinto dal Pletone, avrebbe vagheggiato di far ri-
sorgere a Firenze l’antica Accademia, incaricando alcu-
ni anni dopo il figlio del suo medico, il giovane Marsilio,
di tradurre tutto Platone e i platonici, e in particolare gli
scritti ermetici. Terminata la versione platonica, per un

.
115
P. O. K RISTELLER, The Scholastic Background of Mar-
silio Ficino. «Traditio», 1944, vol. II., p. 257 sgg., ove, pp.
274-316, è pubblicata da un ms. moreniano della Riccardiana
(Palagi, 199) una giovanile Summa philosophie. Un’altra note-
vole lettera-trattato del F. ha dato il Kristeller in «Rinascimen-
to», I, 1950, pp. 35-42. Qualche precisazione sulla formazio-
ne del Ficino nell’anonima vita (ma, forse, opera del Caponsac-
chi), ignota al Della Torre, contenuta nel Palat. 488 della Naz.
di Firenze. (Le ricerche del Kristeller sono ora da vedere nel-
la raccolta di saggi sopra citati. Le biografie del F. sono state
pubblicate da R. MARCEL, Marsile Ficin, Paris, 1958).

Storia d’Italia Einaudi 112


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

misterioso influsso (nescio quomodo), l’anima del morto


Cosimo ispirò il giovane principe della Mirandola a spin-
gere Ficino a tradurre le Enneadi e i neo-platonici (heroi-
cus ille Cosmi animus heroicam Joannis Pici Mirandulae
mentem instigavit...)116 .
In realtà se l’insegnamento di Niccolò Tignosi da Fo-
ligno, peripatetico ortodosso ed estraneo alle combina-
zioni platoniche dell’Argiropulo, fu con ogni probabili-
tà decisivo del suo iniziale aristotelismo117 , i rapporti con
Cosimo, l’influenza del Landino, che lo spinse a compor-
re nel ’56 quattro libri di Institutiones platonicae attinte
a fonti latine, orientarono ben presto il suo interesse ver-
so Platone118 . Fra il ’56 e il ’57, tuttavia, egli era impe-
gnato anche in taluni commenti a Lucrezio (commenta-
riola Lucretiana), i cui brevi frammenti rimastici (ma gli
stessi commenti eran brevissimi: perbreve quoddam ar-

116
FICINI Opera, Basileae, 1576, II, 1537-38. Cfr. anche il
prologo al De vita: «ego sacerdos minimus patres habui duos:
Ficinum medicum, Cosimum Medicem. Ex illo natus sum, ex
isto renatus. Ille quidem me Galeno, tum medico tum platonico
commendavit. Hic autem divino consecravit me Platoni».
117
Sul Tignosi cfr. L. THORNDIKE, Science and Thought
in the Fifteenth Century, New York, 1929, p. 161 sgg., 308 sgg.
Ma forse la posizione del Tignosi e in genere dell’aristotelismo
fiorentino è da vedere sotto una luce diversa, mutando anche le
prospettive rispetto al Ficino. Del Tignosi in particolare cfr.
l’opuscolo in difesa dei propri commenti (Naz. di Firenze,
Conv. C., 8, 1800); v. anche il mio studio su Testi minori
sull’anima nella cultura del Quattrocento in Toscana, «Arch. di
filosofia», 1951, pp. 1-36, e, ora, soprattutto A. ROTONDÒ,
Niccolò Tignosi da Foligno, «Rinascimento», IX, 1958, pp. 217-
55.
118
Sulle perdute Institutiones, cfr. Opera, I 929 (KRI-
STELLER, S UPPLEMENTUM F ICINIANUM Florentiae, 1937,
I, CLXIII-IV). Sui Commentariola, Opera, I, 933 (Supplemen-
tum, I, CLXIII; II, 81). Il De voluptate ad Antonium Canisia-
num in Opera, I, 986, sgg.

Storia d’Italia Einaudi 113


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

gumentum) ben poco ci dicono. Della sua simpatia per


Lucrezio e per l’epicureismo più ampia traccia è, inve-
ce, nel giovanile De voluptate, compiuto alla fine di di-
cembre del ’57, e presentato dal Ficino piuttosto come
una raccolta dossografica, che non come una personale
elaborazione. Eppure non è scritto senza significato, in
quel suo gravitare verso l’esaltazione di una voluptas che
è un aderire della volontà (adhaesio voluntatis), un assen-
so perfetto (perfecta grataque assensio) della mente al suo
ideale oggetto, alla verità, cioè, che le è propria e fami-
liare (assensio qua voluntas in eo, quod mens considerat,
utpote familiari ac sibi proprio penitus conquiescit). Il più
alto piacere, dunque, è da collocarsi in questo intrinse-
carsi della mente al suo oggetto; e se – come leggiamo
nei commenti platonici – la voluptas è servitù, quel nobi-
le godere che è un bene verace è un servir dell’anima ri-
spetto a un oggetto assoutamente valido. Ed è un servi-
re che significa libertà piena, non passione, ma perfezio-
ne dell’atto (perfectio quaedam operationis)119 . Per que-
sta via Ficino ritrova un tono religioso di Lucrezio, e la
voluptas, spogliata di ogni carnale sensualità, diventa il
segno della pace raggiunta in una piena comunione col
divino.
Ma la prima chiara presa di posizione del Ficino nel
problema che più lo impegnerà, e cioè nel problema reli-
gioso, noi troviamo nella lettera di dedica a Cosimo pre-
messa alla versione di Ermete Trismegisto, compiuta nel
1463 e pubblicata nel 1471. Qui è formulata con tutta
chiarezza quella tesi che verrà poi ritornando senza po-
sa in tutti i suoi scritti: la tesi di una perenne rivelazione
del Verbo, del Logos, di una pia philosophia tramandata
dai poeti antichissimi e dalla Bibbia, accolta da Pitagora

119
Cfr. il commento in Convivium Platonis de amore, Opera,
II, 1320 sgg. (cfr. anche l’ed. di R. Marcel, Paris, 1956, con
ampia introduzione).

Storia d’Italia Einaudi 114


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

e da Platone, approfondita da Plotino e dagli scritti at-


tribuiti a Dionigi l’Areopagita. È questa appunto la teo-
logia platonica, intesa come tipo esemplare di una docta
religio, di una conoscenza di sé attraverso la conoscenza
di Dio, e, viceversa, di una conoscenza di Dio attraverso
la conoscenza di sé120 .
Come spiegherà Ludovico Lazzarelli, poeta e filosofo
tutto ficiniano ed ermetico, la felicita suprema, paradi-
siaca, che è lo scopo della nostra vita, è tutta nella cono-
scenza di sé come conoscenza di Dio, o meglio del Logos
ritrovato in noi stessi, nella conversione di ogni nostro
desiderio dall’esterno all’interno, per ottenere la quiete
nella intima vita del Verbo vivente in noi. Che è appunto
il processo illustrato dal Ficino. Comprendere la verità
con i nostri mezzi, non possiamo; la mente umana è un
occhio che per vedere ha bisogno di una luce, e per vede-
re il sole della luce del sole (divino itaque opus est lumi-
ne, ut solis luce solem ipsum intueamur). Ma la solare lu-
ce divina (il Logos) non si manifesta finché la mente non
si volga ad essa, così come il sole illumina soltanto quel-
la parte della luna che ad esso è rivolta. Né la conver-
sione è possibile finché l’anima non si sarà liberata dagli
inganni dei sensi e dalle nebbie della fantasia121 .
Questa liberazione come processo di conversione a
Dio, secondo Ficino, è realizzata appunto dalla teolo-
gia platonica che scopre sotto le nebbie dell’immagina-
zione poetica, di cui sono rivestite le rivelazioni religiose,
il senso profondo della verità, convincendo insieme d’er-
rore i filosofi peripatetici che, guardando nella religione
solo all’aspetto estrinseco, la rifiutano come una favola
da vecchierelle (de religione tamquam de anilibus fabulis

120
Opera, II, 1836.
121
L. LAZZARELLI, Crater Hermetis, Parisiis, 1505 (su cui
cfr. M. Brini, in «Archivio di Filosofia», 1955, Testi umanistici
su l’ermetismo, pp. 23-77).

Storia d’Italia Einaudi 115


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sentiendum) e i poeti, tutti volti a ridurre entro i limiti


d’un’immagine una verità metafisica.
Nella prefazione a Plotino il Ficino chiarisce con mol-
ta precisione i termini della sua doppia polemica. Filo-
sofia in senso tecnico – egli dice – significa ormai peri-
patetismo, distinto nelle due scuole contrastanti, dei se-
guaci d’Alessandro d’Afrodisia e degli averroisti; ma in
ogni caso la religione viene distrutta. D’altra parte i poe-
ti, e gli uomini di lettere in complesso, non comprendo-
no la dottrina nascosta dagli antichi sotto il velame dei
versi. «Era costume degli antichi teologi nascondere i
divini misteri con simboli matematici e figurazioni poe-
tiche, perché non venissero temerariamente divulgati a
tutti (ne temere cuilibet communia forent)». Contro il na-
turalismo degli aristotelici e l’interpretazione estetica dei
poeti, o, quasi si direbbe, contro la filosofia dei filosofi e
la poesia dei poeti, Ficino inserisce la propria docta reli-
gio, che non è che una pia philosophia, in cui convergo-
no filosofia e poesia, sopravanzando l’ascesa «amorosa»
ogni processo razionale puro122 .
I nostri tempi – egli osserva – non si contentano più
dei miracoli come fondamento della fede; non si ferma-

122
FICINI Opera, II, 1537: «Nos... elaboravimus ut, hac
theologia in luce prodeunte, et poetae desinant gesta myste-
riaque pietatis impie fabulis suis annumerare, et Peripatetici
quamplurimi, id est philosophi pene omnes amoveantur, non
esse de religione saltem communi tamquam de anilibus fabulis
sentiendum. Totus ferme terrarum orbis, a Peripateticis oc-
cupatus, in duas plurimum sectas divisus est, Alexandrinam
et Averroicam. Illi quidem intellectum nostrum esse morta-
lem existimant; hi vero unicum esse contendunt; utrique reli-
gionem omnem funditus aeque tollunt, praesertim quia divi-
nam circa homines providentiam negare videntur, et utrobi-
que a suo etiam Aristotele defecisse, cuius mentem hodie pauci,
praeter sublimem Picum, complatonicum nostrum, ea pietate,
qua Theophrastus olim et Themistius, Porphyrius, Symplicius,
Avicenna, et nuper Plethon interpretantur».

Storia d’Italia Einaudi 116


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

no ai meravigliosi racconti, vogliono una conferma ra-


zionale e filosofica (placet... auctoritate rationeque phi-
losophica confirmare). Ora il peripatetismo, non meno
della critica meramente letteraria, noi diremmo estetica,
considera i monumenti religiosi in genere, la Bibbia co-
me la poesia teologica antica, favola, e cioè posizione pu-
ramente fantastica dinanzi alla realtà, aniles fabellae. A
modo suo Ficino si ripropone così il problema del signi-
ficato della poesia, in termini che rimarranno in sostan-
za gli stessi fino a Vico. Quale è, insomma, il rapporto
fra una concezione della realtà, una visione totale della
vita, e la rappresentazione del poeta? I peripatetici del
Cinquecento, domandandosi di che cosa sia imitazione
l’arte, non cercavano, in sostanza, cosa diversa.
Tuttavia Ficino, sotto la spinta di una forte preoccu-
pazione religiosa, comincia con l’accettare, quasi senza
accorgersene, la distinzione, cara agli gnostici, e afferma-
ta da Averroè, di due tipi d’umanità: i semplici, gli igno-
ranti, i non iniziati ai sacri misteri, e coloro che colgo-
no sotto la lettera lo spirito, i filosofi. Le immagini, co-
me del resto la natura stessa, celano un’anima, un signi-
ficato; fermarsi all’immagine fantastica, così come limi-
tarsi a una considerazione puramente fisica della natura,
e non scendere alla più profonda direzione spirituale, al-
l’intenzione dell’artista (umano o divino non conta, ché
unico vero artista è il Logos); staccare e chiudere in sé la
superficie, ecco l’errore più pernicioso. La manifestazio-
ne esterna, intuita, è solidale con il moto intimo da cui si
genera; è quindi necessario, per intenderne il valore, ri-
trovarne la sorgente. E questa sorgente è la luce e la sa-
pienza di Dio. D’altra parte, raggiunto il Verbo, noi ci
immergiamo in una Verità senza tempo, vivente nell’e-
terno, in quella luminosità di cui parla Platone, e che è
oltre e fuori da ogni discorso, da ogni distinzione, per-
ché di tutto è la radice. A questa luce attingono i seguaci
di quella pia philosophia, che non ha tagliato il simbolo

Storia d’Italia Einaudi 117


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

esterno, parola, misura o natura dalla fonte vitale; «fac-


tum est ut pia quaedam philosophia quondam et apud
Persas sub Zoroastre, et apud Aegyptios sub Mercurio
nasceretur, utrobique sibimet consona, nutriretur dein-
de apud Traces sub Orpheo atque Aglaophemo, adole-
sceret quoque mox sub Pythagora apud Graecos et Ita-
los, tandem vero a divo Platone consummaretur Athe-
nis».
La poesia non fu dunque un velo (velamen), simile nel
suo ufficio espressivo ai numeri e alle figure (mathemati-
cis numeris et figuris), che furono i mezzi per celare, in-
sieme, e tradurre i divini misteri (divina mysteria). Ma in
linguaggi diversi (realtà naturale dei fisici, simboli mate-
matici, figure poetiche) si manifesta un’unica Verità ed
un’unica Vita. Il merito di Plotino è tutto nell’aver chia-
rito il legame profondo che lega quella radice unica con
queste manifestazioni, gettando le basi di una verace teo-
logia (Plotinus tandem his velaminibus theologiam enuda-
vit). Compito del nuovo teologo, ormai, è quello di tra-
durre e commentare Plotino, a cui Ficino viene così as-
segnando un posto paragonabile solo a quello che per i
fisici dell’ultima scolastica aveva avuto Aristotele.
Eppure v’era, in Ficino, una più sottile affermazione.
Oltre le molteplici manifestazioni sensibili l’Unità non
può rivelarsi che in una sola Verità, che avrà più aspetti,
ma che nella sua eterna presenzialità non può essere che
una. Chi vada a fondo, e questi è il pio filosofo, coglie
l’unico vero oltre gl’infiniti aspetti, e in tutte le rivelazioni
religiose, in tutti i canti dei poeti, in tutte le bellezze della
natura, in tutte le armonie matematiche, afferra l’unica
anima, quel Logos che parla anche in noi, e che, come
platonicamente canterà con accenti esaltati il Lazzarelli,
sentiamo nelle altre anime, nelle cose, nel tutto infinito,
poiché tutto è rivelazione di Dio.
Pia philosophia che si identifica con la docta religio,
con la vera religione del Logos, che è la unica vera

Storia d’Italia Einaudi 118


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

religione del Cristo (ν αρχη˜ ην o Λóγoς ), e che


significa la consapevolezza di questa solidarietà del tutto
con Dio, in un circolo amoroso, che è un diffondersi
e un riflettersi di luce. «Sì come il sole sanza il sole
non si vede, e come l’aria sanza l’aria non s’ode, ma
l’occhio pieno di lume vede el lume, e l’orecchio pieno
d’aria ode l’aria risonante, così Iddio sanza Iddio non
si conosce, ma l’animo pieno di Dio tanto inverso di
Dio si lieva quanto dal lume divino illustrato riconosce
Iddio, e acceso del divino calore di quel medesimo ha
sete. Perché non s’eleva a Colui che è sopra lui e infinito,
se non per la virtù di chi è superiore e infinito. Di qui
l’anima si fa tempio di Dio»123 .
Ma posta la questione in tali termini, non solo «è gran-
de propinquità... intra la Sapienza e la Religione», ma ad-
dirittura v’è una perfetta identità. Rompere «la copula di
Pallade e di Themis» significò far nascere superstizione
e eresia; poiché gl’ignoranti straziano «come porci... le
pietre preziose della Religione», mentre i filosofi cado-
no nell’empietà. Se infatti un distacco del mondo natu-
rale dalle sue radici divine è eresia, «le vili cure degl’i-
gnoranti, superstizione più tosto che religione chiamare
si conviene». La dotta religione è, dunque, verace filoso-
fia; è convergenza piena dell’intelletto (Sapienza) e del-
la volontà (Sacerdozio). Ma se Ficino dovesse indicare a
chi spetta una ideale priorità, indicherebbe i filosofi; in-
fatti «è ragionevole che quelli che prima le cose divine
per la intelligenzia da sé trovarono, o vero da Dio attin-
sono, ancora prima esse cose divine per la voluntà vene-
rassino rectamente e la recta venerazione di queste agli
altri insegnassino»124 .

123
Della Christiana Religione, II.
124
Della Christiana Religione, Proemium II.

Storia d’Italia Einaudi 119


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

E a chi giunga alla Verità, che è unica, tosto si svela la


veracità del Cristianesimo che riassume in sé e compie, a
chi ben l’intenda, tutta l’umana conoscenza.

5. La teologia platonica

Dalle premesse esaminate sopra risulta chiaro che l’im-


mutabile eterna verità, simboleggiata nelle primitive teo-
logie poetiche, rivelata da Cristo, filosoficamente chiari-
ta da Platone e Plotino, si impernia sull’unità del mondo,
sulla inscindibilità delle manifestazioni rispetto al Mani-
festante. Contro le eresie della divisione, dell’autonomia
del mondo, conviene restaurare la verità della conver-
genza del tutto nell’Unità.
Ora la via del Ficino procede per due tappe: la prima
è la dimostrazione della ideale convergenza di ogni rive-
lazione di Dio, in una ininterrotta tradizione (la pia philo-
sophia), la quale, per altro, non rappresenta in alcun mo-
do uno svolgimento storico, ma la pura coincidenza, sle-
gata dal tempo, in quella Verità che vive nell’eterno. La
seconda è costituita dalla visione di una realtà tutta co-
sì strettamente connessa nelle sue strutture, che solo chi
ben ne legga la faccia in Dio può dire di conoscerla.
In entrambi i casi il procedimento va dall’immagine
del senso alla luce interiore, in un ritorno ascensivo dal
simbolo, dall’espressione, all’intimo, all’anima che si è
manifestata. E se è innegabile che, nell’interpretazione
teologica del Ficino, la poesia si perde, intendendosi
per essa soltanto un incorporarsi del Vero, un velame
sensibile dell’Uno, è ancor certo che, d’altra parte, tutta
la la realtà universa si presenta come il poema di Dio,
il suo linguaggio, la sua sensibile espressione, la sua
poesia. La cui verità, del resto, non è un concetto, ma,
ancora, il Dio vivente, e l’umano spirito che, rivestite le
ali d’amore, si fa uno con l’eterna vita.

Storia d’Italia Einaudi 120


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Ut sole attrahitur vapor,


Ut magnes calybem trahit,
Sic flammis rapiar tuis.
Te coniunge michi, Pater;
Mox ad te penitus trahar

Unumque efficiar simul125 .


Alla teologia poetica, alla scoperta, cioè, di un’unica ve-
rità al fondo delle molte rivelazioni, corrisponde la teolo-
gia platonica, e cioè l’esposizione sistematica della verità
delle cose, ottenuta attraverso il ripensamento della tra-
dizione platonica in cui il divino si è venuto articolando
e spiegando. Ma il nucleo dottrinale dell’opera maggio-
re del Ficino è, ancora, l’Unità fontale che si esprime in
un complesso di aspetti direttamente intuiti, «non altri-
menti che innumerabili numeri i quali, nella unità origi-
ne di quelli, sono una cosa sola, e innumerabili linee in
un centro individuo sono una cosa sola e individua»126 .
Conoscere, e quindi ascendere a Dio, è vedere ogni
aspetto della realtà come momento, o tappa, grado, del-
l’unitaria serie del tutto; risalire dal raggio al centro, se-
condo l’antica immagine; cogliere nelle cose l’insufficien-
za loro per giungere così alla divina sufficienza. Poiché
ogni grado dell’essere è «specchio» di Dio; ma ogni gra-
do, se ci si affisi, ci si dimostra imperfetto e ci rimanda
ad altro: le cose a noi stessi, noi stessi a Dio. «Si debbo-
no infatti conoscer le cose per conoscere se stessi, e co-
noscere se stessi per conoscere Dio... Perché Dio ci ha
comandato di conoscer noi stessi, se non perché nel co-
noscerci, tutto ciò che abbiamo di buono, conosciamo
averlo completamente da lui?»127 .

125
Crater Hermetis, loc. cit.
126
FICINI Orphica comparatio Solis ad Deum (Opera, I, p.
825 sgg.).
127
FICINI Ep. lib. VI (Opera, I, pp. 812-13).

Storia d’Italia Einaudi 121


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Unità e gradualità del tutto sono temi in Ficino stretta-


mente congiunti, e formano la base di quella visione dei
vari momenti come simboli, aspetti o specchi della divi-
nità. D’altra parte i singoli gradi della serie delle cose (se-
ries, ordo rerum) si dispongono secondo una convergen-
za verso l’Unità piena, partendo dalla corporeità, come
quantità pura per procedere, attraverso la qualità, l’ani-
ma, l’angelo, fino a Dio. Convergenza, s’è detto, verso
l’Unità, che sola spiega la struttura del mondo, articola-
to in un ritmo musicale pulsante attraverso il recessum e
l’accessum; «siccome l’unità numerica è dovunque pre-
sente in tutti i numeri, e il punto in tutte le linee, così an-
che quella divina Unità, rimanendo in sé indivisibile, è
ugualmente presente dovunque a tutti gli spiriti e a tutti
i corpi, e ugualmente lega e connette l’universo. E perciò
stesso tutte le cose in una mutua convenienza convergo-
no a un unico fine, essendo guidate da un solo principio.
E come tutti i corpi si posson ricondurre a un solo som-
mo corpo che tutti li muove, così tutti gli spiriti a un solo
supremo spirito che tutto abbraccia, e che i corpi vivifica
e guida mediante spiriti a sé soggetti»128 .
Ora, nella concezione ficiniana, un’importanza par-
ticolare viene assunta dal concetto, caratteristicamente
platonico del resto, di µταξ ύ, di intermediario, che,
comune a tutte le teorie impiantate su una visione del-
l’unità dinamica del mondo, ha sempre rappresentato il
modo onde spiegare il ritorno dalla molteplicità all’unità.
Nella considerazione del reale, osserva una volta il Fici-
no, sono da escludere tre errori: e, innanzitutto, di con-
cepire una ciclicità ritornante perennemente in se stes-
sa, ove tutto sarebbe pari al resto (et sic utique idem ad
idem comparatum esset), né alcuna distinzione si avreb-
be, se non apparente. Il secondo errore è quello di intro-

128
FICINI Argumentum in Platonicam theologiam.

Storia d’Italia Einaudi 122


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

durre più princìpi della realtà; il terzo di ammettere un


processo infinito senza base e senza meta.
Come si vede, nel primo errore si vuol colpire l’inter-
pretazione della circolarità come capace di esaurire in sé
l’Unità somma, la quale, al contrario, è al di sopra del
processo che da essa ha inizio e in essa ritorna. «Simi-
le a Dio», unificante cioè, ma non unità raggiunta, è l’a-
nima, la quale ha veramente questa funzione: di collega-
re, di restituire. Posto Dio al di là, l’anima sola può es-
ser partecipe, per l’ambigua sua costituzione, dei termi-
ni estremi della realtà, connettendo ciò che più è simi-
le a Dio, come l’angelico spirito puro, a ciò che più ne
è lontano, come la materia elementare. Esprimendosi in
riferimento al tempo il Ficino dichiara: «Dio è sopra la
eternità; l’Angelo nella eternità è tutto, perché la essenzia
e operazione sua è stabile, e lo stato dell’eternità è pro-
prio. L’anima è parte nell’eternità e parte nel tempo, per-
ché la sustanzia sua è sempre quella medesima senza al-
cuna mutazione di crescere o di scemare, ma l’operazio-
ne sua... per intervalli di tempo discorre. Il corpo in tut-
to è sottoposto al tempo, perché la sustanzia sua si muta,
e ogni sua operazione richiede spazio temporale»129 . Poi-
ché Dio è fuori dell’ordine delle cose, anche se è il sen-
so di quell’ordine, solo chi sia e non sia perfezione, chi
insomma partecipi degli estremi, può rannodarli e costi-
tuire il simbolo di quella trascendente Unità in una uni-
ficazione sempre operosa anche se non completa.
Ficino si muove a questo proposito sempre fra quat-
tro temi: la luce, la bellezza, l’amore e l’anima, fra i qua-
li non v’è esclusione, ma implicanza reciproca, anche se
nelle varie opere l’accento talora sembri mutare. Onto-
logicamente parlando la realtà è luce, giuoco di luci, dal-
la invisibile luce di Dio (Deus lux summa luminum) alla

129
FICINO, Sopra lo Amore, ed. Rensi, Lanciano, 1914, p.
121.

Storia d’Italia Einaudi 123


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tenebra della materia, ove la luce sembra estenuarsi fino


a morire. Ma il Deux lux, abyssus luminum, è anche, in
quanto tale, fons formarum, traducendosi la luce, che è
stoffa di tutto, in visibilità del tutto e universale bellezza
(«io ti risponderò te essere ignorante, se la Bellezza altro
che luce essere credessi»). Ora ciò che visivamente e in-
tellettualmente si traduce in simboli di luce, praticamen-
te si esprime in termini di calore e di amore. «Poiché il
caldo si origina dalla luce (a lumine calor), v’è ancora un
immenso ardore..., che noi proviamo piuttosto con l’ar-
dore della volontà che con la luce dell’intelletto»130 .
In tal modo l’anima, come la realtà tutta, mentre tra-
duce il suo conoscere e la sua conoscibilità in termini di
luce, traduce in termini d’amore e di calore la sua sostan-
za profonda. E mentre la luce, quanto più è luce, tanto
più è inaccessibile, l’amore quanto più è alto tanto più
vince. «Poiché Dio quanto più ci trascende con la luce
del suo intelletto, tanto più in noi s’interna (se nobis inu-
rit) con l’ardore della volontà; e nulla è più alto sopra di
noi di Dio, e nulla di lui più profondo in noi. Quanto
più lucente è la sua luce, tanto più è ignota all’intellet-
to; quanto più veemente è l’ardore, tanto la volontà è più
certa». L’ascesa conoscitiva non coglie, come quella che
vuol conquistare e far propria, e quasi imprigionare nei
propri ristretti confini, una realtà infinitamente più gran-
de; il tentativo di chiudere «Dio nelle cose» fallisce. Ma
quando, non più perduti nell’esteriorità del mondo, ma
richiamati in noi stessi, attraverso l’amore ritroveremo le
cose e noi in Dio, allora, risolvendo in totale apertura la
nostra chiusura, «apparirà che noi abbiamo prima ama-
to Dio nelle cose, per amare poi le cose in lui: e noi ono-
riamo le cose in Dio, per ricomperare noi soprattutto; e
amando Dio, abbiamo amato noi medesimi».

130
FICINI Opera, I, 706-16; De sole et lumine, I, 965 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 124


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Si tratta di una radicale conversione (circuitus, restitu-


tio) per cui, dalla esteriorità visiva, conoscitiva, impiglia-
ta nel limite delle cose, si ritrova, oltre il limite, il proces-
so dinamico del tutto e si sale alla sorgente. O, meglio, ci
si immerge nel fiume divino e si conquista la nostra ve-
rità facendoci conquistare. «La luce di Dio, oltrepassan-
do i confini dell’intelletto, non può in alcun modo essere
intesa dalla naturale intelligenza dell’uomo, ma piuttosto
si ama, e così amata par che graziosamente (gratis) sia in
noi infusa. L’anima infatti, accesa dal suo amore, quanto
più arde, tanto più chiaro risplende e più a fondo discer-
ne e con più dolcezza gode. Per questo Platone ha det-
to che la luce divina non si indica con il dito della ragio-
ne, ma si accoglie con la chiara serenità di un’esistenza
devota».
Funzione della bellezza è, appunto, la conversione;
determinar la crisi per cui la chiarità visiva accende il cal-
do d’amore, e lo status diviene circuitus. «Mal d’occhi»
è inizio d’amore, dice Ficino, quando l’oggetto cui noi ci
volgiamo si fa di passivo attivo, e per la comune natura
degli esseri risponde alla nostra azione con la sua azione,
che è «un certo tiramento dell’una cosa all’altra per si-
militudine di natura»; come quando l’occhio dell’aman-
te fisso in quello dell’amata ne è vinto, e il cacciatore di-
venta preda. Ché questo produce amore: ci riduce da at-
tivi, o almeno apparentemente attivi, in passivi; in umili e
devoti servi. «Il Sole volge inverso sé fiori e foglie: la Lu-
na muove l’acqua, e Marte i venti... Così ciascuno è tira-
to dal suo piacere». La nostra salute consiste, così, nel la-
sciarci vincere da Colui che è vera bellezza, che è supre-
ma bellezza, e, divenuti suoi devoti, ritrovarci attraverso
il dono totale di noi.
La passione, se si patisca l’azione del bene, è veramen-
te educazione dell’uomo, come quella che trae fuori (e
ducit) la sua divina sostanza. Perché l’oggetto amato, se
è buono, trae a sé, trae al bene l’amante, e dall’amante,

Storia d’Italia Einaudi 125


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

che patisce la sua azione, trae fuori quello che v’è di be-
ne. Ed ecco, secondo Ficino, la funzione educatrice del-
l’amore socratico, quando Socrate, saggio e buono, «fu
da’ giovani assai più amato, che egli alcuno ne amasse».
Ostetrico egli era perché educava, e cioè traeva fuori; e
«giocondamente», facendosi amare. «La città non è fat-
ta di pietre, ma di uomini; gli uomini si debbono cultiva-
re, come gli alberi quando son teneri: e dirizzare a pro-
durre i frutti». E non si migliorano con le leggi; «tutti
non possiamo essere Licurgi o Soloni. A pochi si dà l’au-
torità di fare leggi. Pochissimi alle leggi date obbedisco-
no». La via feconda è la via socratica. Socrate, amato-
re di Dio, si fece servo devoto di Dio, e, «commosso da
carità di Patria», fu, non l’amatore dei giovani, ma il su-
scitatore dell’amore loro, per trarli al bene, per trarne il
bene, per educarli insomma, facendoli anch’essi, per tra-
mite suo, servi di Dio nella giocondità d’amore. A simi-
glianza di quel vero Amore che noi crediamo cercare e
afferrare, laddove è lui che ci cerca, e ci si fa presente, e
ci conquista; come Platone dice, alato perché dà le ali e
fa volare131 .
Poesia, bellezza, amore sono i termini in cui si risolve
tutta la teologia ficiniana, se ben si guardi oltre la tenue
superficie di una fragile impalcatura concettuale.

6. Pico della Mirandola e la polemica antiretorica

La formazione filosofica del Ficino ci è apparsa molto li-


neare; condizionata da un peripatetismo scolastico gio-
vanile non troppo impegnativo, orientata dapprima in
senso umanistico con toni lucreziani, ma sboccata ben
presto, e molto pacificamente, in un’immutata fedeltà

131
FICINO, Sopra lo Amore, p. 153 (cap. XVI: Quanto è
utile il vero amatore).

Storia d’Italia Einaudi 126


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

a Platone ripensato attraverso la rivelazione ermetica e


Plotino. I temi della meditazione del Pico furono senza
dubbio più complessi, ed attestano un travaglio costan-
te, e il desiderio di soddisfare una curiosità oscillante fra
i problemi della natura e i rapporti dell’uomo con Dio.
Educatosi nell’ambiente culturale dell’aristotelismo pa-
dovano, alla scuola del Vernia, estese ben presto i suoi
contatti col peripatetismo arabo ed ebraico frequentan-
do Elia del Medigo, ebreo dottissimo, studioso e tradut-
tore di Averroè. Elia sentiva ugualmente forte l’esigenza
della sua fede e l’amore per Aristotele e il suo Commen-
tatore, e dal conflitto credeva di uscire, o con la più gros-
solana applicazione della formula della «doppia verità»,
o con l’accentuazione di alcuni toni mistici che dal neo-
platonismo erano filtrati nell’averroismo: la felicità posta
nella congiunzione, nell’incontro contemplativo fra uma-
no e divino. Elia poteva così accordarsi col Vernia, ma
poteva anche soddisfare l’esigenza religiosa del Pico132 . Il
quale non era insensibile, certo, al fascino dell’umanesi-
mo letterario, ma rimaneva troppo fine conoscitore della
scolastica e del peripatetismo, per lasciarsi sedurre dal-
le facili evasioni di una retorica che aveva ormai fatto di-
vorzio da ogni concretezza umana. Le lettere, che ave-
vano cercato di essere espressione di una umanità inte-
grale, si erano estenuate in una formalità vuota, cui era
estraneo ogni interesse di verità e di vita. La più aper-
ta denuncia di questo distacco è costituita appunto dalla
lettera indirizzata nel 1485 a Ermolao Barbaro, de genere

132
Gli opuscoli latini del Del Medigo v. in app. alla edd.
venete della Fisica di Jean de Jandun (p. es. Venetiis 1546).
La lunga epistola al Pico (Parigi, Naz. lat. 6508, fol. 71-72) in
G. PICO D. M., De hominis dignitate ecc., Firenze, 1942, pp.
67-72. L’epistola del Barbaro a Elia, nelle Epistulae del B., ed.
cit., I, 87-90. Sulle letture dei cabbalisti («Li libri di Mitridate»)
v. anche la quasi ignota lettera del Pico del 1489 (Parigi, B. N.,
Autogr. Rotschild, n. 252).

Storia d’Italia Einaudi 127


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dicendi philosophorum, che costituisce un vero e proprio


«manifesto» contro la degenerazione della retorica in cui
riaffiorava perfino il deteriore nominalismo dei calcula-
tores di Oxford. La nuova filologia nata come nuova fi-
losofia, e cioè come coscienza critica della ricerca di una
concretezza umana, si era estenuata in una scienza nomi-
num opposta a una scienza rerum; nel culto di una for-
malità vuota che non poteva non condurre a uno scetti-
cismo larvato, e già si concretava in una crisi morale133 .
Una lettura precisa del Barbaro, che è del resto som-
mamente istruttiva, ci illustra in che modo intendesse
egli congiungere filosofia ed eloquenza. Nella dedica a
Sisto IV di una sua versione di Temistio, nel 1480, il Bar-
baro, dopo la consueta esaltazione delle litterae che, so-
le, ci distinguono dalle bestie, dichiara di non avere per
nulla reso alla lettera, sed libere et traslationibus et figuris
et tropis usi sumus ad morem romanum. La sua versione
vuol essere una manifestazione di latinità liberamente ri-
vissuta (lusimus arbitratu nostro), una gara con Temistio:
in plenum, non tam latinum reddere Themistium, quam
certare cum eo volgui. Allo spirito dell’autore si oppone
un preteso spirito della lingua latina; al suo pensiero e al-
le sue esigenze, il proprio pensiero e le proprie esigen-
ze. Il tradurre non è più fedeltà all’opera, ma gara e con-
trasto (non tam reddere, quam certare). Il Barbaro, dopo
aver denunciato aspramente i suoi predecessori per ave-

133
L’epistola del Pico nei citati Filosofi italiani del ’400 pp.
428-45; quelle del Barbaro nella cit. ed. Branca, I, 84, 100, 101
sgg. Per le calculationes suiseticae, ivi, II, 22 sgg. Un interes-
sante documento, fin qui sfuggito, dei rapporti del Pico con gli
scienziati contemporanei si trova fra gli scritti del fisico e me-
dico Bernardo Torni (ms. Ricc. 930, fol. 26 r-31 r), professore
in Pisa fra il 1476 e il 1496. (Un’importante messa a punto del
rapporto fra E. Barbaro e i logici ha fatto C. DIONISOTTI,
Ermolao Barbaro e la fortuna di Suiseth, Miscellanea Nardi, pp.
219-53).

Storia d’Italia Einaudi 128


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

re barbaramente subordinato i testi alle proprie esigen-


ze, non fa diversamente da loro, quando non si serve di
Cicerone per rendere Aristotele, ma mette Aristotele al
servizio del proprio ciceronianismo (Aristotelis libros...
quanta possum luce, proprietate, cultu exorno)134 .
Proprio di qui si mosse Giovanni Pico, insistendo sul
rapporto troppo spesso svisato di res e verba (philoso-
phiam rebus constare, verborum pompa nihil indigere), ed
accendendo così una discussione che doveva prolungar-
si nei medesimi termini fin in pieno ’600. La bella lettera
del Pico è una difesa eloquente del puro pensiero, della
dignità della ricerca: «siamo vissuti celebri, o Ermolao,
e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammati-
ci, non là dove si insegna ai bambini, ma nelle accademie
dei filosofi e nelle adunanze dei sapienti, dove non si di-
scute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su
simili fatuità, ma sui principi delle cose umane e divine».
Ed è insieme un atto d’accusa contro il letterato che de-
genera in vuoto grammatico, che dimentica il significa-
to umano della comunicazione, e che, per questo, deca-
de dalla sua dignità di uomo. Ma se siamo incondiziona-
tamente col Pico quando ci dipinge il pensatore anxius,
e mai pacificato, e perciò mai adagiato nella formula re-
torica, subito sentiamo che la polemica lo porta oltre la
premessa, quando separa anch’egli sapienza ed eloquen-
za. Perché dalla polemica contro l’ornamento egli è quasi
indotto a staccare la parola dalla sua radice, o meglio ad
ammettere che tale distacco possa avvenire. La risposta
che alla questione darà lo Sforza Pallavicino nel Tratta-
to dello stile, rifacendosi al Pico, ma utilizzando le osser-
vazioni che sulla maniera di scriver la storia avevano fat-
to Famiano Strada e Agostino Mascardi, è che, «essen-
do ufficio del filosofo la sincera manifestazione della ve-
rità nel suo semplicissimo aspetto, non conviene a lui al-

134
BARBARO, Epistol., I, p. 8 sgg., 12, 14, 96.

Storia d’Italia Einaudi 129


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

terare, o con l’ingrandimento la sembianza di lei, o col


movimento la pupilla di chi la mira»135 . Il che significa
distinguere dal pensiero, non già la parola nella sua ap-
propriatezza, ma l’ornato, la retorica ormai degenerata.
Del resto Pico vedeva il più profondo significato mora-
le della questione: «non è uomo raffinato chi non si pre-
occupa della forma letteraria; ma chi è privo di filosofia
non è uomo. La sapienza meno eloquente può giovare;
ma un’eloquenza stolta è come la spada nelle mani d’un
pazzo: non può non nuocere sommamente».
La filosofia come filologia era stata un richiamo alla
radice spirituale, intima, della parola; alla parola non di-
staccata dalla sua direzione significante. Ma la retorica,
separata dal mondo degli umani affetti, e trasformata in
puro giuoco formale, che dà piacere e potenza, che è mi-
sura a se stessa in una sua astratta formalità, apriva un
fatale divorzio fra mondo delle idee e mondo delle litte-
rae, e del filosofo faceva un sognatore, e del letterato un
giullare cortigiano. Oscuramente il Pico combatteva la
retorica come pseudo-logica e pseudo-poesia, in quanto
non esiste una dottrina della pura forma espressiva nel-
la quale indifferentemente si cali la meditazione del filo-
sofo o il canto del poeta. «Tu mi ribatterai – egli osserva
– che secondo me dovremmo lodare le statue non dalla
forma, ma dalla materia; che se Cherilo avesse cantato lo
stesso soggetto di Omero, e Mevio di Virgilio, anch’essi
sarebbero stati grandi poeti. Ma non vedi l’assurdità del
paragone? Anch’io affermo che il valore dipende dalla
forma espressiva e non dal soggetto, poiché una cosa è

135
SFORZA PALLAVICINO, Opere, Milano, 1834, vol.
II, p. 586. Sono interessanti in proposito, fra le molte, le
orazioni pronunciate a mezzo il ’500 dal Mureto, italiano per
cultura, e dal dottissimo Carlo Sigonio, del quale è da vedere
particolarmente la settima, de studiis humanitatis (Lugduni,
1590, pp. 97-115).

Storia d’Italia Einaudi 130


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

quello che è per la forma; solo che è diversa la forma del-


la poesia da quella della filosofia». Ed è proprio per que-
sto che è assurdo vestire Aristotele di panni ciceroniani.
Il piagnone e ficiniano Giovanni Nesi, pubblicando nel
1497 un suo profetico Oraculum de novo saeculo, ed esal-
tando l’eloquenza del Socrate ferrarese, riprendeva tesi e
termini del Pico per sottolineare un’eloquenza che non
era un ornamento retorico sovrapposto, ma il prolungar-
si scarno ed efficace dell’animo. «Hinc Alcibiadem nuda
illa Socratis quam Periclis luculenta oratio magis movit
atque afficit».
E non a caso il richiamo del filosofo si collegava col
potente appello morale del domenicano di San Marco,
perché era anch’esso un appello morale: richiamo alla
serietà e sincerità della filosofia, condanna del letterato e
del grammatico puro, della parola «separata».

7. L’uomo

Anche l’Oratio, che doveva introdurre a una pubblica


discussione filosofica in Roma nel 1487, a una specie di
convegno internazionale di filosofi indetto dal ricchissi-
mo Signore della Mirandola; anche quel carmen de pace
aveva piuttosto del manifesto e dell’appello, che non del
discorso inaugurale. Composta in un momento d’esalta-
zione religiosa, fra lo studio e il commento ai testi del-
la gnosi ebraica e del misticismo cabbalistico, e la stesu-
ra di un trattato sull’amore e la bellezza a gara col Fici-
no, l’Oratio è dominata da due temi: la centralità dell’uo-
mo nella realtà, e la intima profonda concordia di tutte
le sincere affermazioni di pensiero136 . Il tema più celebre

136
Vedi l’intera orazione nell’ed. cit., pp. 102-45. (Ma nel
frattempo m’è venuta tra mano quella che fu, forse, la redazione
originaria del celebre discorso, contenuta anonima nel Palat.

Storia d’Italia Einaudi 131


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

è rimasto il primo, da cui l’orazione ha preso poi il tito-


lo De hominis dignitate. La tesi pichiana è veramente no-
tevole: ogni realtà esistente ha una sua natura che condi-
ziona la sua attività per cui il cane vivrà caninamente, e
leoninamente il leone. L’uomo, invece, non ha una natu-
ra che lo costringa; non ha un’essenza che lo condizioni.
L’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uo-
mo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni,
la libertà. La sua costrizione è la costrizione a essere li-
bero, a scegliere la propria sorte, a costruirsi con le sue
mani l’altare di gloria o le catene della condanna. Il Ma-
netti aveva parlato di un uomo creatore del mondo del-
l’arte; Ficino di un orizzonte dei mondi. Per Pico la con-
dizione umana è di non aver condizione, di esere vera-
mente un quis, non un quid: una causa, un atto libero. E
l’uomo è tutto, perché può essere tutto, animale, pianta,
pietra; ma anche angelo e «figlio di Dio». E la immagi-
ne e somiglianza di Dio è qui: nell’essere causa, libertà,
azione; nell’essere resultato del proprio atto.
Questo lucido puntare su un’esistenza che contrae e
risolve in sé l’essenza, che trova l’unica condizione nella
propria libera scelta, e che quindi non può non conclu-
dere a una posizione dell’uomo-persona fra persone e di
fronte alla Persona; che non può non sboccare a una su-
periorità del volere e dell’amore sull’astratto sapere: ec-
co l’originalità del Pico. Il Nesi, che per il Pico ebbe
quasi un culto, scriveva: «tu se’ imagine e similitudine
dell’eterno Dio... tanto più perfetta quanto più efficace-
mente il tuo exemplare rappresenti. Più lo rappresenti
per amore che per dottrina. Più in te riluce la sua effige
amando che speculando; più gli piace chi l’ama che chi
lo conosce, ma perché l’ama da lui è redamato». Come il

885 della Naz. di Firenze: cfr. Notizie intorno a G. P., «Riv. di


storia della filosofia», 1949, fasc. 3).

Storia d’Italia Einaudi 132


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Pico stesso dichiarerà in una lettera al Manuzio, perché


cercare invano con l’intelletto quello che gioiosamente si
può raggiungere d’un balzo con l’amore? Perché, ripe-
terà in versi Lorenzo de’ Medici, restringere in noi Dio e
non, amando, «dilatarsi» in lui?

8. La pace filosofica

Come s’è detto, il secondo tema dell’orazione pichiana


fu la pace, pitagorica concordia del pensiero, cristiano ri-
scatto d’ogni manifestazione del logos. La grande anti-
tesi fra Platone e Aristotele, fra Avicenna e Averroè, fra
Tommaso e Scoto, in cui sembra proporsi in forma esem-
plare il cozzo fra «separazione» e unità, fra trascendenza
e immanenza, fra natura e spirito, si compone nella me-
ditazione pichiana attraverso l’unità del pensiero umano,
che accentua via via alcuni aspetti o momenti o problemi,
i quali, se paiono escludersi, meglio considerati si impli-
cano e vicendevolmente si chiamano. L’unità della veri-
tà, la continuità della speculazione, l’unicità del Maestro,
l’identità della luce divina, postulano per Pico la concor-
dia. La quale viene da lui puntualmente ritrovata in una
specie di storia critica della filosofia impegnata a illustra-
re la magia dell’unità attraverso la varietà degli atteggia-
menti. Ma l’unità che si svela nel pensiero filosofico non
è che un aspetto dell’unità che si rivela nella tradizione
religiosa, nell’universa realtà.
Il Pico non esita a far suo l’antico parallelo fra natu-
ra e Scrittura, entrambi libri di Dio, scritti con caratte-
ri diversi, ma la cui radice è la stessa. E come la cab-
bala non è che una perfezionata filologia per riafferrare
il senso genuino della Bibbia, la scienza naturale è uno
strumento consimile atto a farci afferrare l’intima essen-
za delle cose. Nell’Heptaplus i mondi, e cioè i vari pia-
ni della realtà, si presentano come corrispondenti, anzi

Storia d’Italia Einaudi 133


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

intrinsecati l’uno all’altro, e quasi prospettive molteplici


della realtà, in sé distinte, ma complicate e compenetra-
te nell’uomo, di tutte partecipe. Il concetto ficiniano, o,
meglio, largamente sfruttato dal Ficino, dell’uomo nodo
del tutto, è inteso, alla luce della tesi della libertà dell’atto
che si fa tutto, come concentrarsi nella conoscenza uma-
na di tutti gli aspetti e piani della realtà. La pace filosofi-
ca corrisponde a una pacificazione mondana, universale,
in quanto sul terreno umano, attraverso l’opera umana,
i molteplici aspetti della realtà si connettono e si compe-
netrano. L’uomo è un Dio terreno non perché empia-
mente usurpi il trono del vero Dio, ma perché, simile a
Dio, è un puro esistere capace di farsi nodo partecipe di
tutte le essenze.
Come si vede, Pico vuole estendere al massimo, e
si incontra qui con Campanella che pur polemizzerà
con lui, la portata della filologia, dandole il compito,
se vuol essere vera filosofia, di comprendere e leggere
tutte le Scritture, quella divina e sacra, come quella
naturale, intimamente sacra e divina anch’essa, poiché
Dio si rivela ugualmente nelle acque e nelle arene del
mare, e nelle stelle del cielo; caeli enarrant gloriam Dei.
Dio è poeta, e cioè creatore; e noi dobbiamo, dovunque,
nell’opera leggere l’autore, umilmente comprenderne lo
spirito, e armonizzandoci con lui divenire in qualche
modo partecipi dell’opera sua.
E poiché spontaneo è venuto il ravvicinamento a Cam-
panella, è notevole osservare come anche la posizione del
Pico sboccasse, come quella di Campanella, sul terreno
pratico: appello a tradurre l’unità del vero e dello spi-
rito che lo pensa in una organizzazione unitaria, in una
ecclesìa unica, capace di accogliere l’umanità intera. Ec-
co la sua profezia come la troviamo nel Nesi: «Mahu-
methanos ad Christianam fidem vobis adhuc viventibus
adsciscendos. Ovile tandem omnium unum, pastorem

Storia d’Italia Einaudi 134


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

unum»137 . Siamo nel ’97, nell’epoca del profetismo sa-


vonaroliano; ma sappiamo che il giovane principe ave-
va disegnato, prima che lo rapisse una morte precoce, di
tradurre sul piano pratico di predicazione e di riforma
il suo sogno di una pace universale. Ed il cristianesimo
era per lui l’autentica e compiuta affermazione di quel-
la fede verace, che unica traluce nella coscienza degli uo-
mini ed è impressa con cifra evidente nell’universo inte-
ro. Prima di Campanella, in pieno Cinquecento, France-
sco Sansovino ci presenta nell’isola Utopia gli adoratori
dell’unica «occulta ed eterna divinità» che «mirabilmen-
te» si convertono subito tutti alla fede cristiana, come al
necessario complemento della loro posizione138 .

9. La polemica antiastrologica

Se, da un lato, l’amore entusiastico del Pico per taluni


spunti occultistici e mistici può essere ricondotto nel-
l’ambito di una generica quanto giovanile simpatia ver-
so il misterioso, l’indefinito, il primitivo, in verità, quan-
do si guardi a fondo, cabala e magia ci riportano sul ter-
reno della «filologia» umanistica caricata di tutti i suoi
sensi profondi. Il più profondo dei quali era poi un ri-
cercato contatto con la «natura», intesa nel suo ricorren-
te significato polemico, in opposizione cioè al cristalliz-
zarsi della tradizione. Ciò che al Pico preme veramente,

137
Oraculum de novo saeculo. Ma del Nesi s’è visto lo zibal-
done Magliab. VI, 176 e le orazioni nei mss. Magliab. XXXV,
211 e Ricc. 2204. Per altri spunti mi sia concesso rimandare
al saggio Desideri di riforma nell’oratoria del Quattrocento, nel I
quaderno di a «Belfagor», 1948, pp. 1-11.
138
FRANCESCO SANSOVINO, Del governo et ammini-
stratione di diversi regni et republiche così antiche come moder-
ne, Venetia, 1578, c. 197 r e sgg.

Storia d’Italia Einaudi 135


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

è di ritrovare in ogni piano del reale, in ogni prospetti-


va, quelle stesse linee direttrici che ha scorto nell’uomo,
in modo che i ritmi accolti in termini umani si svelino
davvero irraggiati dovunque.
Che le cose stiano veramente così dimostra quella sua
finale polemica contro l’astrologia giudiziaria, che non
solo lo pose contro tutti gli atteggiamenti di più o meno
dichiarato occultismo, ma che lo indusse a proporre in
formule più chiare il problema del rapporto fra uomo e
natura, troppo facilmente confuso e sommerso nella me-
ditazione sull’amore. L’unità del tutto, il nodo e il circo-
lo amoroso delle cose, sembravano travolgere anche l’uo-
mo, anima e corpo, nelle vicende universali, necessarie o
capricciose che fossero. Centro, sì, ed orizzonte, l’uomo,
ma in quanto passivo ricettacolo, formula abbreviata, mi-
crocosmo. Ficino, sfruttando questo tema, si era trovato
dinanzi alla quasi inevitabile conseguenza di trasformare
il primato umano in una totale subordinazione alle cose.
L’uomo, specchio di tutte le cose, si dissolve nelle vicen-
de di tutte le cose; e mentre il suo fegato segue e ripro-
duce il moto di Marte, e ne contrae malanni, il tempera-
mento che discende dagli astri orienta secondo gli astri il
carattere, e solo altri astri, o mirabili virtù di animali, di
pietre e d’erbe potranno combattere le prime influenze.
Microcosmo, certo, l’uomo, e specchio di tutto, ma, per-
ciò stesso, nulla; non più che pietra, ma meno che pietra;
non libero, ma necessitato.
La celebrazione pichiana dell’uomo è tutta una sottin-
tesa polemica contro il tema del microcosmo, tritum in
scholis; per giungere, capovolgendo la tesi dell’universo
che si incentra nell’uomo, all’altra, dell’uomo che si pro-
lunga nell’universo.
Ma nella polemica antiastrologica v’era di più; v’era,
cioè, la precisazione di un regolare e ragionato e ordi-
nato processo di natura, escludente, per il suo stesso or-
dine intrinseco, qualunque disordinato influsso del me-

Storia d’Italia Einaudi 136


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

no degno sul più degno, del più opaco sul più chiaro.
Nell’emergere delle forme verso Dio, i cieli, come in ge-
nere il mondo degli elementi, trovano il loro posto al di
qua della coscienza umana. La natura è ordine, è unita
molteplice armonicamente regolata; e di questa armonia
e di questa unità è espressione la causa, intesa come le-
game razionale e logicamente traducibile di tutte le cose.
Il determinismo implicito nell’astrologia giudiziaria, pre-
tendendo di far dipendere la vita interiore, non solo da
modificazioni corporee, ma, attraverso il corpo, da con-
figurazioni celesti, finte a immagine delle divinità paga-
ne, sostituisce alla bella e divina armonia delle cause un
complesso di corrispondenze accidentali e fittizie. Il Pi-
co non esclude, né lo potrebbe, il collegamento fisico del
tutto, ma nega che gli astri abbiano una posizione deter-
minante diretta e, insieme, privilegiata, quasi che, essi so-
li, immediatamente, orientino tutte le vicende della no-
stra vita, e in genere della vita sublunare, caratteri uma-
ni, mutare di regni, sorgere e tramontare di fedi religio-
se (oroscopo delle religioni). Molto acutamente egli tro-
va in tutto questo una reviviscenza, più o meno travisa-
ta, dei culti astrali139 . A Marte o a Giove sono attribuiti
certi influssi, non perché veramente li dimostri operanti
lo studio dei loro raggi, ma perché le divinità corrispon-
denti nell’Olimpo pagano avevano certe attribuzioni. La
virtù non è dell’astro, ma del nome, o meglio del Dio da
cui il nome deriva.
Il Savonarola, tanto sensibile sul piano morale e reli-
gioso, vide bene come la polemica antiastrologica aves-
se essenzialmente una funzione apologetica, e in questo

139
I testi qui usati del Pico, del Savonarola, del Pontano
vedili citati nell’ed. da me curata in due voll. delle Disputationes
del Pico, Firenze, 1946-51. E, ivi, p. 16, il facsimile di una carta
della redazione originaria del De rebus caelestibus del Pontano
dal Vat. lat. 2839.

Storia d’Italia Einaudi 137


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

senso svolse la sua opera parallelamente al Pico, anche se


poi lasciava in ombra l’aspetto filosofico e scientifico del-
la questione. Ché il Pico, nonostante la critica del Pon-
tano, o di professionisti come il Bellanti, o di uno spiri-
to fine come il Pomponazzi, non intendeva affatto inde-
bolire le premesse della scienza della natura. Anzi egli ci
si presenta come il difensore di una concezione ordina-
ta, rigorosamente causale del tutto, denunciando nell’a-
strologia giudiziaria, non solo continui errori scientifici,
ma l’abuso dell’analogia, l’inserzione arbitraria di influs-
si religiosi nel corso degli eventi naturali, e, finalmente, il
disordine introdotto dall’applicare al mondo umano del-
la coscienza la causalità fisica, valida fino a determinare
l’orizzonte dell’anima, ma incapace di spiegarne i liberi
atti. Alle soglie dell’anima la legge di natura sistit pedem
et receptui canit140 .

10. Spunti di un’apologetica platonica

Come s’è notato, Giovanni Pico esorbita, con le sue in-


dagini, dal piano in cui si era posto il platonismo ficinia-
no. La stessa sua dimestichezza con la Scolastica, aper-
tamente confessata, arricchiva il suo pensiero dei moti-
vi più vari. In un punto, tuttavia, il gruppo savonarolia-
no, con cui il Pico si venne legando sempre più, s’incon-
trava con i ficiniani fino a confondersi con essi: in una
profonda esigenza religiosa. Se percorriamo gli scritti fi-
losofici del domenicano di San Marco, non vi troviamo
che i motivi tradizionali del tomismo. Ma ai fiorentini
egli apparve profeta, in quell’ansia di rinnovamento e di

140
Sulla tragica figura dell’astrologo Lucio Bellanti e sulla
sua attività politica cfr. N. MENGOZZI, Un processo politico
in Siena sul finire del secolo XV, «Bollettino Senese di Storia
patria», 1920.

Storia d’Italia Einaudi 138


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

riforma, che aveva accompagnato l’umanesimo nascen-


te. E soprattutto quando parve fallire l’azione umana e
terrestre, e un desiderio di miracoli, e di mistici annun-
zi, e di totali palingenesi si diffuse largamente. Lo stes-
so Pico dette a tutte le sue opere, e alla sua vita medesi-
ma, il tono di un appello. L’amico suo, il ficiniano Nesi,
vide nel Savonarola un novello Socrate («philosophiam,
quae de moribus agit, diutius exulantem revocavit in ur-
bem, civitatique restituit»), che dell’antico aveva la divi-
na ispirazione, il demone guida, e la missione riforma-
trice. Il secolo nuovo sta per spuntare; il mondo mu-
terà politicamente, ma soprattutto spiritualmente: «Ma-
humethanos ad Christianam fidem, vobis adhuc viventi-
bus, adsciscendos. Ovile tandem omnium unum, pasto-
rem unum»». Cosi nel ’97. Circa un decennio prima,
con frondosità barocca, aveva tratto dalla letteratura er-
metica e platonica, messa in circolo dal Ficino, una ora-
zione de charitate culminante nell’invito commosso all’u-
nione mistica con Dio. «Io finalmente l’amante ne l’ama-
to, e l’amato ne l’amante converto. Il primo perché, mo-
rendo l’amante in sé, vive ne l’amato. Il secondo perché,
ricognoscendosi l’amato ne l’amante, ne l’amante ama se
medesimo, dove amando sé ama l’amante già in amato
converso»141 .

141
Tono diverso ha il De moribus, ms. Laur. plut. 78, 24,
ove la ricerca morale viene esaltata rispetto all’indagine fisica:
«quid enim animo male affecto proderit, sive reciprocas ele-
mentorum vicissitudines ac nostrorum corporum compaginem
intellexerit, sive ad viscera usque terrae descenderit?». Ben al-
tra la funzione di una civile disciplina: «in agris quondam di-
spersos homines et victu ferino propagantes compulit in una
moenia et in communem societatem convocavit. Haec illos pri-
mo inter se domiciliis coniunxit, deinde coniugiis quasi vincu-
lis quibusdam devinxit; tum sermonum litterarumque commu-
nione formavit. Haec leges sanxit; haec eos ad deorum cultum
erexit, ad ius hominum erudivit, ad fortitudinem excitavit, ad

Storia d’Italia Einaudi 139


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Se nel dialogo de moribus si prolunga ancora un’eco


della civile speculazione del primo umanesimo, qui or-
mai si obbedisce all’invito pichiano: evolemus ad Patrem.
Là, nella pax unifica, sarà valido il tema proposto dal Po-
liziano: Tibi silentium laus!
Girolamo Benivieni trasferiva sul piano religioso le sue
effusioni d’amore, e nel commento alle sue liriche ridu-
ceva in termini di entusiasmo cristiano la prosa giovani-
le del Pico. L’11 aprile 1484 Giovanni Mercurio da Cor-
reggio aveva predicato per le vie di Roma una renova-
tio ermetica, che Ludovico Lazzarelli, poeta filosofo, ce-
lebrò come opera di mirabile e nuovo profeta. Nel 1488
Ermete Trismegirto era effigiato a mosaico nel Duomo di
Siena. Egidio da Viterbo, dal 1517 cardinale della Chiesa
di Roma, vedeva nel trionfo della teologia platonica il ri-
torno dell’età dell’oro («hec sunt, mi Marsili, Saturnia re-
gna, hec toties a Sybilla et vatibus etas aurea decantata»),
e su basi neoplatoniche e cabbalistiche costruiva un’apo-
logetica platonica («propono platonicas questiones con-
tra Peripateticos») destinata a prolungarsi fino nel conci-
lio di Trento attraverso l’opera del cardinal Seripando142 .

continentiam modestiamque composuit, ad meliorem denique


vivendi frugem convertit» (fol. 3 v).
Quanto agli scritti del Savonarola e alla sua posizione, un
singolare interesse ha il trattatello sulla divisione delle scienze
e sulla poesia (Apologeticus de ratione poetica artis) dedicato a
Ugolino Verino.
142
G. BENIVIENI, Commento sopra a più sue canzone ecc.,
Firenze, 1500; del L AZZARELLI cfr. il Bombix, Aesii, 1765,
e, per l’Epistola de admiranda ac portendenti apparitione novi
atque divini prophetae ad omne humanum genus cfr. P. O.
KRISTELLER, in «Annali Scuola Normale Superiore Pisa»,
1938, pp. 237-62 (Studies, p. 221 sgg.). Tuttavia la lettura
del testo induce a pensare a influenze oltre che degli scritti
ermetici «teologici», anche di quelli magico-astrologici. (Il testo

Storia d’Italia Einaudi 140


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Se dalla scuola del Valla agli studi ebraici del Pico la fi-
lologia umanistica, operando sul terreno scritturale, pre-
parava una grande offensiva critica; se la «teologia plato-
nica» sboccando nella mistica unione con Dio nel segre-
to dell’anima costituiva il prologo di tanta parte della più
fervida religiosità cinquecentesca, e giustificando le varie
religioni annunciava l’ideale della tolleranza; Savonarola,
impegnato a creare in terra una città umana degna del-
l’uomo, segnava col suo rogo del ’98 il fallimento sul ter-
reno pratico anche di non piccola parte del programma
umanistico.

dell’Epistola è stato ora ristampato da M. Brini nel cit. saggio,


pp. 34-50).
Di Egidio da Viterbo è venuto occupandosi Eugenio Mas-
sa, specialmente nei saggi Egidio da Viterbo e la metodologia del
sapere nel Cinquecento, «Pensée humaniste» cit., pp. 185-239;
L’anima e l’uomo in Egidio da Viterbo, «Arch. di Filosofia»,
1951, pp. 37-138; I fondamenti metafisici della «dignitas homi-
nis» e testi inediti di Egidio da Viterbo, Torino, 1954. Partico-
larmente notevoli Scechina e Libellus de Litteris hebraicis, a cura
di F. Secret, 2 volumi, Roma, 1959.

Storia d’Italia Einaudi 141


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

PLATONISMO E FILOSOFIA DELL’AMORE

1. Francesco Cattani da Diacceto e l’ortodossia ficiniana

Se apriamo i Discorsi del conte Annibale Romei, gen-


tiluomo ferrarese, nei quali sono introdotti a dissertar
di filosofia, per sette giornate, «dame e cavaglieri», al-
la presenza di Francesco Patrizi, vediamo che gli argo-
menti trattati sono la bellezza, l’amore, l’onore, il duel-
lo, la nobiltà, le ricchezze, le lettere. L’opera del Romei
è lo specchio fedele di quelli che furono gli effettivi temi
del comune dissertare cinquecentesco non «scolastico»,
ove in discussioni di maniera venne estenuandosi l’oppo-
sizione platonica all’aristotelismo accademico143 . Lascia-
te ai professionisti le questioni più impegnative sul piano
metafisico, rimaneva agli uomini colti il vasto campo del-
le osservazioni morali ed estetiche, nelle quali i letterati
potevano far bella mostra di rari virtuosismi stilistici. Al
centro di queste ricerche troviamo l’amore, la cui impor-
tanza come tema filosofico veniva caricandosi poi, nel-
le ricercate prose degli scrittori, di toni variamente senti-
mentali. Nella prima lezione «fatta da messer Benedetto
Varchi pubblicamente nella virtuosissima accademia fio-
rentina», leggiamo: «dall’amore solo, e non da niuna al-
tra cosa, procedettero procedono e procederanno sem-
pre tutti i beni, o d’anima o di corpo o di fortuna, che
in tutti i luoghi, per tutti i tempi, o da tutte le cose, s’eb-
bero, s’hanno o s’avranno mai... Perciocché che il cielo
si mova, n’è prima e principale cagione amore; ed il mo-

143
ANNIBALE ROMEI, Discorsi divisi in sette giornate,
Verona, 1586, (Per i nessi fra «filosofia dell’amore» e petrar-
chismo, cfr. ora l’elegante ricerca di L. Baldacci, Il petrarchi-
smo italiano nel Cinquecento, Milano-Napoli, 1957).

Storia d’Italia Einaudi 142


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

versi il cielo fa che la terra stia ferma; dal movimento del


cielo come padre, e dalla quiete della terra come madre,
nascono crescono e si mantengono tutte le cose, tanto le
viventi, come son le piante e gli animali, quanto le man-
canti di vita, come son tutte l’altre cose sotto il cielo, che
animali e piante non sono. Anzi non pur tutte le cose che
da Dio e dalla natura si fanno, si fanno solo mediante l’a-
more; ma ancora tutte quelle che parlano e che operano
tutti gli uomini»144 .
È il Varchi stesso che, altrove, ci dichiara, oltre Pla-
tone, le sue fonti: Ficino, Pico, il Diacceto, il Bembo, e,
«ultimamente», il «dialogo di Filone Ebreo», ossia l’ope-
ra in tre libri di Leone Ebreo. Ma è il Diacceto, di cui
stese un elogio eloquente, quasi «specchio non solamen-
te della vita civile, ma eziandio della specolativa», colui
che più lo mosse a meditare. Nel Diacceto si prolun-
gava la tradizione ficiniana ortodossa; «noi, tutto quel-
lo che siamo, – scriverà – se siamo cosa alcuna, siamo da
Marsilio Ficino». E Ficino è per lui «quasi familiaris...
daemon», che anche dopo morte «nostro ore loquetur».
Ma con Ficino egli sente proprio ispiratore il Pico, nel
suo sforzo di accordare Platone ed Aristotele nell’ambi-
to del cristianesimo («utrorumque cum Christiana reli-
gione convenientiam in plerisque dogmatibus»). Aristo-
tele, maestro di virtù civili, prepara l’uomo ai voli del-
la contemplazione145 . Come scrive nella prolusione a un

144
BENEDETTO VARCHI, Opere, Trieste, 1859, II, p.
531 sgg., cfr. ivi, p. 496 e sgg. (Dell’amore, Lezione una), p.
816 sgg. (Vita di Francesco Cattani da Diacceto).
145
Del Diacceto cfr. I tre libri d’amore, con un panegirico d’A-
more; et con la vita del detto Autore fatta da M. BENEDETTO
VARCHI, in Vinegia, 1566; Opera omnia, Basileae, 1563; gli
scritti vari del ms. Magliab. XII, 47 (e P. O. KRISTELLER,
Francesco da Diacceto and Florentine Platonism in the Sixteenth
Century, «Miscellanea Mercati», Città del Vaticano, 1946, vol.
IV, pp. 260-304 = Studies, p. 287 sgg.).

Storia d’Italia Einaudi 143


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corso sulla Nicomachea, «nostra guida valente è Aristote-


le che nei libri morali a Nicomaco con squisita ricchez-
za ci prepara la via onde possiamo raggiungere la somma
virtù. Chi, infatti, entra nel tempio della felicità verace,
trova subito nel vestibolo le virtù civili, di cui tratta que-
sto libro. Poiché le virtù liberatrici e dell’animo ormai
purificato, fastigio della vita intera, seguiranno dopo».
Solo che, per il Diacceto, già in questa vita noi possiamo
avvicinarci alla divinità partecipando con piena adesione
all’amoroso circolo del tutto.
«Noi diciamo Dio esser principio, mezzo e fine. Impe-
rocché per il principio intendiamo le cose da lui proce-
dere; per il mezzo a lui convertirsi; per il fine esser da lui
donate all’ultima sua perfezione: la quale consiste nella
vera unione seco. Questo significarono gli antichi pita-
gorici quando dissono la Trinità esser misura di tutte le
cose. Questo significò ancora Orfeo quando disse Giove
esser principio, mezzo e fine, e però (come dice Dionisio
Areopagita) in questo modo Iddio è splendore agli illu-
minati, perfezione ai perfetti, ai deificati divinità, ai sem-
plici semplicità, unità a quelli che partecipano dell’uno,
vita de’ viventi, essenzia di quelle cose che sono; di tutta
l’essenzia, di tutta la vita, principio e causa. E però ogni
cosa creata, o vuoi eterna, o vuoi mortale, o vuoi razio-
nale, o vuoi angelica, può esclamare insieme col Profe-
ta: Signore, lo splendore della faccia tua è segnato sopra
noi». In questo circolare convergere del tutto, la bellezza
nasce nella realtà mondana per l’intrinseco nesso di uni-
tà e molteplicità, per questo moto perenne attraverso il
quale tutto procede da sé e a sé, e tutto è erotico per il
senso di insufficienza e, insieme, per la sete profonda di
sufficienza. «Mirabile bellezza nasce nel corpo mondano
dalla unione per la quale cose tanto diverse e sì contrarie
come sono nel mondo, fatte sé amiche, costituiscono un
grande animale. E se gli è lecito comparare le cose gran-
di alle piccole il mondo è simile all’uomo». Il quale, po-

Storia d’Italia Einaudi 144


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sto nel mezzo del tutto, al punto centrale della universa-


le conversione rispecchia in modo eminente la natura an-
cipite d’amore, che è insieme mancanza e possesso. Bel-
lezza è, così, visibile espressione dell’armonia uno-molti;
l’anima è vivente «nodo dell’universo». Come l’uomo ha
il suo essere nel suo farsi, così l’amore è perenne tensio-
ne verso una meta. Nel ritmo universale che si esterio-
rizza in bellezza, l’uomo e l’amore sono un nodo viven-
te di termini. Come non si concepirebbero in una mol-
teplicità pura, così non sussisterebbero nell’assoluta uni-
tà; vivono al limite, ma ponendosi come confine rendono
possibile la vita delle due realtà confinanti.
Bellezza, ugualmente, non è in Dio, ma risplende, co-
me luce di Dio, nell’ordine angelico, e nella natura. È si-
gillo di vita vivente, manifestarsi estrinseco dell’universa
deificazione, del movimento di tutte le cose verso Dio;
visibilità del bene. «La bellezza è una grazia, uno splen-
dore della bontà, che su la prima giunta apparisce all’a-
spetto, quasi il colore alla superficie, obietto della po-
tenza visuale... per modo d’accidente». Il Diacceto in-
siste, molto platonicamente del resto, sul carattere visi-
vo della bellezza («obietto visivo»); e ne sottolinea insie-
me l’estrinsecità («per modo d’accidente»). Interiorità è
vita («gran seminario, gravido de’ semi, semi di tutte le
cose»); bellezza è apparire, fiorire («fiore della bontà»);
bellezza è avvio e, insieme, velarsi e svelarsi del miste-
ro del bene agire («bellezza... portinaria alla abitazione
secretissima della divina bontà»).

2. La grazia

Ricondotto il problema dell’amore a quello della bellez-


za, il Diacceto stesso ci impone di soffermarci su un moti-
vo particolarmente caro alla discussione del tempo: quel-
lo della grazia e della leggiadria. A mezzo il Cinquecento

Storia d’Italia Einaudi 145


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il dotto Tomitano scriveva «una bellezza senza grazia es-


sere un amo senza l’esca», intendendo per grazia alcun-
ché di sopraggiunto, e quasi di abilmente quanto artifi-
cialmente ottenuto. Concetto che ci rinvia a due grandi
teorici della grazia, il Castiglione e il Della Casa, che ne
discussero appunto sul piano di una perfetta formazio-
ne umana. Il Castiglione, nell’antitesi grazia-affettazione,
introduce il motivo della sprezzatura («quella esser vera
arte, che non appare esser arte... né più in altro si ha da
poner studio, che nel nasconderla»)146 , che è un’arte co-
sì perfetta da risolvere in sé ogni artificio; una produzio-
ne umana che giunge a sembrare tutt’uno con la divina
opera creatrice.
Anche il Della Casa si preoccupa di precisar che sia
questa grazia, che ora sembra confondersi, ora distin-
guersi dalla bellezza, aggiungendosi ad essa come una
nota che la rende gradevole. «Non si dee... contenta-
re l’uomo di fare le cose buone, ma dee studiare di far-
le anco leggiadre; e non è altro leggiadria, che una cotale
quasi luce, che risplende dalla convenevolezza delle co-
se, che sono ben composte, e ben divisate l’una coll’altra,
e tutte insieme; senza la qual misura eziandio il bene non
è bello, e la bellezza non è piacevole». E questa misura è
«una cotale dolcezza» che si manifesta in tutto il compor-
tamento. Anche qui grazia e leggiadria sono ricondotte
nell’ambito del voluto, del sorvegliato, dell’arte, insom-
ma, che par natura per la sua perfezione stessa147 .

E quel che il bello e il caro accresce all’opre,


L’arte, che tutto fa, nulla si scopre

146
BALDASSAR CASTIGLIONE, Il Cortegiano, I, 26,
(ed. Cian, Firenze, 1894).
147
GIOVANNI DELLA CASA, Galateo ovvero de’ costu-
mi, Firenze, 1707, p. 75.

Storia d’Italia Einaudi 146


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

come canterà il Tasso. La più tarda trattatistica, svilup-


pando lo stesso motivo, farà appello al moto, e la gra-
zia cercherà in una bellezza in movimento. Il Romei, nei
suoi dialoghi, mette in bocca al Patrizi questa interessan-
te conclusione: «la grazia principalmente si scorge ne’
soavi e leggiadri movimenti del corpo; perciocché stan-
do il corpo immobile, ella non è apparente; e quanto a
me direi che la Grazia non fusse altro che una certa faci-
lità o agilità che ha il corpo ad ubidir all’anima»148 .
Grazia, dunque, che non è che «fior di bellezza», os-
sia verace e compiuta bellezza, è il sensibilizzarsi, e ma-
nifestarsi nel moto corporeo di un moto spirituale. Con
chiarezza anche maggiore si esprime un oscuro scrittore
di questioni di morale e d’estetica, Alessandro Sardo, che
in un suo Discorso della bellezza, afferma che «grazia, va-
ghezza, fior di bellezza e, dantescamente, gentile aspet-
to», è cosa umana ed è il trasfondersi «nel corpo materia-
le» o dell’intelletto, di quel che v’è nell’uomo di raziona-
le, di spirituale. «Risplende la grazia per la vivacità del-
lo ingegno, per la tranquillità degli affetti, per la castità,
per la gravità, per la modestia, per l’affabilità, e... anco
per la cognizione delle cause e delle scienze»149 .
In tal modo, sotto il segno della grazia, si ribadiva il
concetto ficiniano della spiritualità della bellezza, e nel-
l’appello all’artificioso si richiamava il valore dell’arte
umana. Non deve, tuttavia, credersi che la trattatistica
restasse rigidamente fedele alla distinzione fra grazia e
bellezza, anche se oscuramente sentì l’esigenza di tenerle
separate. Il Castiglione nella celebre chiusa del Cortegia-
no, assomigliata la bellezza a «un flusso della bontà divi-
na, il quale... si spande sopra tutte le cose create, come
il lume del sole», afferma che la grazia nasce quando tale

148
ROMEI, Discorsi, pp. 13-14.
149
ALESSANDRO SARDO, Discorsi, Venezia, 1586, pp.
13-14.

Storia d’Italia Einaudi 147


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divino raggio ritrova nel ricettacolo materiale «una cer-


ta gioconda concordia di colori distinti, ed aiutati dai lu-
mi e dall’ombre e da un’ordinata distanzia e termini di li-
nee». Allora «quel subietto ove riluce adorna ed illumina
d’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole
che percota in un bel vaso d’oro terso e variato di gem-
me preziose»; ov’è degna di nota questa perfezione fon-
data sopra l’incontro fra gli elementi materiali, predispo-
sti secondo proporzioni geometriche («ordinata distan-
zia e termini di linee»), e il motivo formale («flusso della
bontà divina»)150 .
Più confuso, in fondo, il Bembo, che nel terzo libro
degli Asolani tenta di definire la bellezza attraverso il
concetto stesso di grazia: «ella non è altro che una
grazia, che di proporzione e di convenienza nasce, e
d’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’
suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa, e più
vaghi: ed è accidente negli uomini non meno dell’animo
che del corpo. Perciocché, siccome è bello quel corpo,
le cui membra tengono proporzione fra loro, così è bello
quell’animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto
più sono di bellezza partecipi l’uno e l’altro, quanto è
in loro quella grazia, che io dico, delle loro parti e della
loro convenienza più compiuta e più piena». Ove questo
insistere sul concetto di armonia e convenienza di parti
sembra riecheggiare appunto la formula del Diacceto
della bellezza unità di un molteplice, formula che ritorna
poi fermissima nel Della Casa («la bellezza Uno quanto
si può il più; e la bruttezza per lo contrario è Molti»)151 .
Ma se costante tendenza di quanti abbiamo esamina-
to è il considerar la grazia fiore della bellezza, non man-
ca neppure chi, al contrario, sussume la bellezza alla gra-

CASTIGLIONE, Il Cortegiano, p. 409.


150

Strani sviluppi del tema dell’unità nelle Opere di GIU-


151

LIO CAMMILLO, Venezia, 1560, 2 voll.

Storia d’Italia Einaudi 148


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zia definendo, come l’Erizzo, la bellezza stessa una spe-


cie («la bellezza non è che una certa grazia, la quale l’ani-
mo dilettando ferisce e col suo conoscimento muove ad
amare»)152 .
Del resto tutta una messe di rilievi, spesso molto fi-
ni, anche se destinati a confondersi in una estrema ricer-
ca di sottigliezza, noi troviamo nella vasta produzione in-
torno alla bellezza della donna. Nella quale emerge senza
dubbio l’opera del Firenzuola, che da pagine ove la bel-
lezza femminile è posta esclusivamente in rapporto alla
funzione sessuale, e considerata un astuto ritrovamento
di natura per indurre alla riproduzione, passiamo a scal-
trite discussioni platoniche153 . Anch’egli tenta di sfrutta-
re il motivo del corpo strumento, tanto più bello quanto
più adatto a servire l’anima, quanto più «trasparente» e
spiritualizzato o, almeno, preparato allo spirituale.
«Piglia due candele d’ugual bontà, d’ugual grandezza,
e in nessuna cosa sia dall’una all’altra differenza: poni-
le in due lanterne, una più trasparente, l’altra meno tra-
sparente; e vedrai che quella che è nella più trasparen-
te renderà più chiaro lume che quell’altra. Quale è la
cagione? la disposizione dello instrumento». Ma quale
debba intendersi il rapporto fra la divina luce interiore
e l’instrumento, non ci sa dire. Né più ci illumina quan-
do, volendo precisare le condizioni obbiettive della gra-
zia, ci dice che questa nasce «da un’occulta proporzione,
e da una misura che non è nei nostri libri, la quale non
conosciamo, anzi non pure immaginiamo, ed è, come si
dice delle cose che noi non sappiamo esprimere, un non
so che». Ove il Firenzuola, senza dubbio, aveva ragione

152
Di S. Erizzo cfr. la lettera a pp. 627-35 della raccolta del
Ruscelli, Lettere di XIII uomini illustri, Venezia, 1560.
153
Del FIRENZUOLA cfr. i Ragionamenti e i Discorsi
(Opere, Firenze, 1848, vol. I, pp. 81-131; II, pp. 239-80;
281-305).

Storia d’Italia Einaudi 149


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di polemizzare con i «raggi» e «altre quintessenzie», ma


non riusciva ad una posizione molto più chiara.
In verità, dissertando d’amore, e cioè della risonanza
nell’uomo della bellezza, si era necessariamente portati a
isolarne la condizione obbiettiva, e sotto il segno della
grazia i nodi vengono al pettine. Se, nella generale
atmosfera platonica, resta fermo il tema esser la bellezza
«un certo atto, o razzo d’Iddio penetrante in tutte le
cose», o, per usar sempre i termini del Brucioli, il «volto
d’Iddio» stampato nelle cose, a una ricerca più scaltrita
non sfugge la domanda più urgente: come, in alcune cose
sì, e in altre no, si precisi quella «certa grazia che muove
l’anima... per la quale esse cose son grate all’anima»154 .
Quando un tardo scrittore qual è Niccolò Vito di Goz-
ze, nel suo Dialogo d’Amore detto Antos, «secondo la
mente di Platone», ci dice che «la preparazione della bel-
lezza alla grazia consiste in tre cause: cioè nell’ordine, nel
modo e nelle forme, o specie», sembra affrontare ormai
una precisione estrema, anche se la sua fonte è dichia-
rata; e a maggiore aderenza sembra voler giungere insi-
stendo ancora su motivi di pura quantità («metro, misu-
ra, proporzione... di parti»; «debita quantità»; «linea-
menti convenevoli»)155 . Senonché non ci si spostava, qui,
dalla platonica preparazione matematica della materia.
In fondo, la linea più precisa, che poi tornerà in infi-
nite variazioni, già l’aveva data il Diacceto, considerando
la bellezza in genere come alcunché di spirituale, come
l’affiorare (il «fiorire») ai sensi, il sensibilizzarsi, il mani-
festarsi e l’apparire di un intimo valore, di un processo
interno di significato morale. È il bene che si rivela come

154
ANTONIO BRUCIOLI, Dialogi della naturale philoso-
phia e humana, Venezia, 1544, c. 105 v.
155
NICCOLO VITO DI GOZZE, Dialogo della bellezza
detto Antos secondo la mente di Platone, Venezia, 1581, p. 22
(cfr. i suoi scritti teologici negli Urb. lat. 499-500).

Storia d’Italia Einaudi 150


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bellezza, quando il limite corporeo, in luogo di ostacolo,


si fa adeguato mezzo o istrumento, trasparenza di un’inti-
ma luce, e insieme espressione esemplare, adatta partico-
larmente all’occhio (bellezza come visibilità), «per esse-
re gli occhi corpi lucidi, diafani e spirituali, non di quella
grossa carnalità composti»156 . La partecipazione intima
dell’essere al divino, e quindi la sua bontà, ecco la con-
dizione oggettiva per la traduzione sensibile, visibile, in
bellezza. Come in una lettera del 1557 scriveva Giulio
Castellani, filosofo molto noto, assalendo la cultura uf-
ficiale ostile all’arte, «costoro non s’accorgono, che l’ar-
te poetica riprendendo, vengono similmente la filosofia
a disprezzare, perciò che l’una non è dall’altra se non nel
nome diversa, insegnandoci questa e quella il vivere vir-
tuoso e onesto»157 .
E su altro piano troviamo Federigo Luigini che dedica
tutto un libro del suo trattato Della bella donna a «quan-
to spetta alla parte di dentro», perché, come con tanta fi-
nezza scriveva il Firenzuola, la bruttura dell’animo non
può non tradursi fedelissimamente nel volto, ove la bel-
lezza è «un certo buon segno manifestante la sanità del-
l’animo e la chiarezza della coscienza»158 .

156
Sugli occhi e il vedere cfr. MARIO EQUICOLA, Di Na-
tura d’Amore, Venezia, 1525: «per il vedere riconosce (la men-
te) la vera bellezza della nostra anima, la qual... ha avuto questa
sorte, di poter esser veduta, avendo il simulacro manifesto...».
157
GIULIO CASTELLANI, Opuscoli volgari editi e inedi-
ti, Faenza, 1847, pp. 74-78.
158
FEDERIGO LUIGINI, Il libro della bella donna (in
Trattati del ’500 sulla donna, Bari, 1913); FIRENZUOLA,
Delle bellezze delle donne, I. Ma è ancora da vedere, del Varchi,
il discorso Della bellezza e della grazia (Opere, II, pp. 733-35)
«nel quale si disputa se la grazia può stare senza bellezza».

Storia d’Italia Einaudi 151


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3. La metafisica d’amore

Alla scuola del Diacceto si formarono i gruppi disputanti


agli Orti Oricellari fra cui, a discuter di politica, fu anche
Niccolò Machiavelli. Ed ecco Palla e Giovanni Rucellai;
Alessandro de’ Pazzi traduttore della Poetica aristoteli-
ca; Giovanni Corsi, biografo del Ficino; Donato Gian-
notti il politico; Antonio Brucioli, seguace della Riforma,
traduttore della Politica, prolisso compilatore di dialo-
ghi fisici, metafisici e morali, ove senza originalità prete-
se ritrarre, appunto, le discussioni fiorentine. Ecco Fran-
cesco de’ Vieri, o il Verino primo, continuatore ufficia-
le della tradizione ficiniana, cui terrà dietro il Lapini da
San Giovanni, che nell’insegnamento pisano nutrirà di
dottrina matematica e di sapere filologico le esposizioni
di Platone e d’Aristotele, alle quali attingerà poi non pe-
regrina ispirazione il Verino secondo ancora impegnato,
al finire del secolo, in «ragionamenti» e «discorsi» delle
Idee, delle Bellezze e d’Amore159 .
Ma, in tutta questa tradizione accademica, traspare,
schietta, una visione estetica della realtà, la quale, nel suo
manifestarsi, è, appunto, bellezza. Anzi, come scriverà
con accenti ispirati il minorita Francesco Giorgio (Zorzi)
Veneto, musica. La sua vasta quanto curiosa opera De
harmonia mundi totius cantica tria, uscita in Venezia nel
1525, ermetica, platonica e cabalistica, vuol presentare
l’architettura dell’universo come musica. Governato da
leggi numeriche, il tutto, che è vivente immagine di Dio,
può essere interpretato solo attraverso il numero («ille
omnia rite novit, qui bene scit numerare»). Ma il nume-
ro può presentarsi diversamente, traducendosi in ritmi
vocali, in leggi fisiche, in ordinate azioni morali («alius

159
L’elenco degli scolari del Diacceto in VARCHI, Opere,
II, p. 818.

Storia d’Italia Einaudi 152


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in voce, alius in rerum proportione, alius in anima et ra-


tione...»). Il compito che il Giorgio si propone è di ri-
durre ogni aspetto in termini musicali («musicis conti-
nuo rationibus»), facendo risaltare, appunto, l’armonica
proporzionalità, la perfetta misura, la musicale bellezza
del ‘cosmo’ («pulchrum mundum totum»). In pratica la
sua trattazione si riduce a una serie di combinazioni nu-
meriche care a quel pitagorismo cabalistico che, iniziato
dal Pico, con una patina di fascinoso mistero si può ritro-
vare, oltre le compilazioni di un Alessandro Farra, fin in
pieno Seicento, alimento sotterraneo della stessa fiducia,
così forte nella grande scienza secentesca, che l’universo
intero sia scritto in lettere matematiche160 .
Le «preghiere del divino Mirandolano» avevano in-
dotto anche Jehudah Abarbanel, Leone Ebreo, a sten-
dere, «scholastico stilo», un trattato De caeli harmonia,
purtroppo perduto. Ma la sua visione dell’universo sot-
to il segno della bellezza e dell’amore ci è conservata nei
Dialoghi d’amore, composti nei primi anni del ’500, ma
pubblicati solo nel ’35, senza alcun dubbio il capolavoro
di questa letteratura161 .
Nel dialogo secondo, anche Leone Ebreo scioglie un
inno all’armonia universale. «Se ben fra li celesti man-
ca la reciproca e mutua generazione, non però manca fra
loro il perfetto e reciproco amore... Se tu contemplas-
si... la correspondenzia e la concordanzia de li moti dei
corpi celesti... e se tu conoscessi il numero degli orbi ce-
lesti, per li quali son necessari li diversi moti... vedresti

160
ALESSANDRO FARRA, Tre discorsi, Pavia, 1564 (nel
primo si discorre «dei miracoli d’amore», nel secondo della
divinità dell’uomo, imitando e compilando il Pico; nel terzo de
«l’ufcio del Capitano»). Sul valore del Giorgio v. ora un acuto
rilievo del Nardi, «Acta Congr. Schol. Intern.», Romae, 1951,
pp. 625-26.
161
Dell’opera di Leone Ebreo si è usata l’edizione di S.
Caramella, Bari, 1929.

Storia d’Italia Einaudi 153


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

una sì mirabil corrispondenzia e concordia... che tu re-


steresti stupefatto dell’advenimento e de l’ordenatore».
L’amore, infatti, non è, qui, solamente vincolo umano; è
legame universale che avvince e vivifica tutto l’universo,
senza distinzione. Ed anche gli esseri elementari «insen-
sibili, come li metalli, e specie di pietre», «hanno cono-
scimento naturale del suo fine e inclinazione naturale a
quello», e si muovono nel grande mare dell’essere, cia-
scuno verso il suo porto, «come a proprio luogo cono-
sciuto e desiato». Leone Ebreo va rintracciando un pul-
sare eterno di vita in tutte le cose, una simpatia e amicizia
del cosmo, che egli trasfigura immaginosamente, mentre
cielo e terra, fatti esseri vivi, si van disposando a soddi-
sfazione del loro perfetto amore. «Con questo recipro-
co amore s’unisce l’universo corporeo, e s’adorna e so-
stiene il mondo. E la terra o materia ha amore al cielo
come a dilettissimo marito, o amante, e benefattore; e le
cose generate amano il cielo come patre pio ed ottimo
curatore».
Le favole astrologiche, intanto, rivestono di figurazio-
ni mitologiche questa poetica filosofia della natura, la
quale a sua volta serve a spiegare le riposte significazioni
dei miti classici alla cui radice nient’altro si contiene se
non una visione del giuoco mutevole delle forze natura-
li. E fra uomo e natura v’è così perfetta compenetrazio-
ne che non sai dire, se sia l’uomo a confondersi nel tut-
to, o il tutto a umanizzarsi. La natura assume volto; essa
è qualcosa di più del campanelliano tempio vivente del
Dio; è l’opera d’arte di Dio, in cui Dio stesso vive, ani-
matore ed artefice. Un Dio che è fonte inesauribile d’a-
more; non aristotelica chiusura in sé, ma traboccante ef-
fusione di vita. «Il fine del tutto è l’unita perfezione di
tutto l’universo... Essendo dunque questa legge osserva-
ta ne l’universo, l’intelligenzia si felicita più nel muove-
re l’orbe celeste... che ne la intrinseca intelligenzia sua
essenziale, che è il proprio atto».

Storia d’Italia Einaudi 154


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Somma sapienza non è un sillogizzare sottile, ma rapi-


mento estatico e «bacio» divino e morte umana per rina-
scere in Dio. «Tale è stata la morte dei nostri beati, che,
contemplando con sommo desiderio la bellezza divina,
convertendo tutta l’anima in quella, abbandonano il cor-
po». E nell’universale circolo amoroso Dio non è solo
l’amato, Colui cui tutto tende; è anche supremo amatore,
Egli che «con amore produce e governa il mondo e col-
legalo in una unione». Solo che il suo amore, non è de-
siderio che cerca l’appagamento, ma è dono di se. «Dio
non desidera sua unione con le creature, come fanno gli
altri amanti con le persone amate, ma desidera l’unione
delle creature con sua divinità, acciò pur la loro perfe-
zione con tale unione sia sempre perfetta, e immaculata
l’operazione di esso creatore relata alle sue creature».
Se l’essenza del mondo è amore, e suo aspetto è bel-
lezza, «bellezza è grazia, che dilettando l’animo col suo
conoscimento, il muove ad amare». Secondo la tesi dei
ficiniani, bellezza è affiorare (fiorire) di bontà; è espres-
sione di un intimo processo capace di suscitare un moto
analogo nel contemplante che si apra a patirne l’effetto.
Poiché, osserva Leone Ebreo, vi sono due sorta d’amo-
re; quello che è figlio del desiderio, ed è cieco e incom-
posto, e nasce da mancanza, e si traduce in violenza e
brama smodata di possesso. «L’altro amore è quello che
di esso è generato il desiderio,... perfetto e vero amore...
è padre del desiderio e figlio della ragione»; ma di una
«ragione estraordinaria» che non comanda più all’uomo
di conservar se stesso, ma di donarsi, di offrirsi tutto al-
l’amato, di confondersi con l’amato amatore nel fattivo
processo universale. Come splendidamente dice Leone
Ebreo, chi vive una «ragione ordenaria» è come un albe-
ro frondoso, ma sterile, esaurito in sé; chi, invece, vive
d’amore si fa collaboratore del flusso fecondo che anima
l’universo «da la prima causa che ogni cosa produce fino

Storia d’Italia Einaudi 155


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

all’ultima cosa creata», consentendo con l’infinito amore


di Dio.

4. La moda delle discussioni d’amore

Leone Ebreo alimentava la filosofia d’amore della più al-


ta ispirazione religiosa, attingendo a quelle fonti a cui si
era abbeverato nel suo commento al Cantico dei Cantici
anche il suo correligionario Jochanan Alemanno, come
lui vissuto a contatto con la cultura platonica fiorentina.
Ma accanto a questi più elevati misteri d’amore troviamo
tutto un fiorire di discorsi accademici e, magari, di «bel-
le questioni» di società, come le chiama il Castiglione;
di «dubbi» in cui eran maestri i trattatisti come l’Equi-
cola, come il Calandra, che nell’Aura, un suo libro oggi
perduto, andava esaminando «qual sia maggior difficul-
tà fingere amore, ovvero amando dissimular non amare»,
e altre sessantanove consimili questioni. Questo al prin-
cipio del secolo; alla fine, l’ultimo dell’anno 1588, l’ac-
cademia ferrarese indiceva con programmi a stampa una
disputa sull’amore di Dio per le creature, quale sia, co-
me si distribuisca; se Dio ami più l’angelo o l’uomo, un
innocente o un penitente, una vergine o una cortigiana;
come possa insieme amare e odiare.
A questo sterile ed astratto accademismo si era arriva-
ti lentamente, per una serie di sviluppi che sarebbe trop-
po lungo seguire nei particolari. E v’influirono moltepli-
ci spunti, e vari interessi letterari. Ancora negli Asola-
ni del Bembo, composti fra la fine del ’400 e il principio
del ’500, e usciti in Venezia nel 1505, Amore è presen-
tato con efficacia come il propulsore e lo stimolo di ogni
umano progresso e di ogni civile società ( «quello, che né
battitura di maestro, né minacce di padre, né lusinghe o
guiderdoni, né arte o fatica o ingegno o ammaestramen-
to alcuno può fare, fallo Amore...»). Amore, «siccome

Storia d’Italia Einaudi 156


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

il sole», tutto vivifica, ingentilisce; «insegna parlare, in-


segna tacere, insegna cortesia». Forza universale, anima
e addolcisce l’universo («ride la terra, ride il mare, ride
l’aria, ride il cielo; di lumi, di canti, d’odori, di dolcez-
ze, di tiepidezze, ogni parte, ogni cosa è piena»). E il Ca-
stiglione, alla fine del Cortegiano: «tu dolcissimo vincu-
lo del mondo, mezzo tra le cose celesti e le terrene, con
benigno temperamento inclini le virtù superne al gover-
no delle cose inferiori, e, rivolgendo le menti dei mortali
al suo principio, con quello le congiungi».
Giuseppe Betussi, dopo avere nel Raverta (1544) di-
vagato su Dio bello bellificante, e aver mostrata l’identi-
tà fra la Trinità divina e la bellezza, essendo il Padre fon-
te del bello, il Figlio di bellezza, e lo Spirito il bello bel-
lificato, ne La Leonora dissertava ancora della bellezza
come esteriorizzazione dell’intima armonia. Tullia d’A-
ragona discuteva della infinità d’amore (1547), per non
dire dell’Equicola, dello Speroni, del Doni, del Franco,
del Varchi, del Sansovino, del Gottifredi, o del Nifo e
del Patrizi. I poeti collaboravano con i filosofi, ma senza
uscire dal chiuso delle questioni tradizionali, come quan-
do il Tasso, per consiglio di Antonio Montecatini, incli-
ne a curiose sintesi peripatetico-platoniche, chiese ispi-
razione al Trattato dell’amore di Flaminio Nobili, uscito
in Lucca nel 1567, ove quel fecondo ripetitore dei mo-
tivi più banali della produzione moralistica del tempo,
sull’onore, sulla nobiltà, e così via, somministrava ancora
una volta gli sfruttatissimi spunti ficiniani162 .

162
Una raccolta di Trattati d’amore del Cinquecento curò
G. ZONTA (Bari, 1912); ma è raccolta inadeguata a dare
un’idea del banalizzarsi di questa produzione. Un buon elenco
in P. LORENZETTI, La bellezza e l’amore nei trattati del
’500, Pisa, 1920, pp. 165-75 («Annali della R. Scuola Normale
Superiore», XXVIII); ma vi sono lacune, non solo per quel
che riguarda lettere e scritti minori, ma anche per la maggior
trattatistica (è omesso il Nifo, De pulchro e De amore, Lugduni,

Storia d’Italia Einaudi 157


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Più interessanti, invece, le ricerche intorno «ai motti


e disegni d’amore, che comunemente chiamano impre-
se», per l’addentellato evidente con le discussioni este-
tiche dell’età del Barocco, e poi per le analoghe osser-
vazioni del Vico. Al qual proposito mentre il Giovio o
il Domenichi si andavan «trastullando» nella descrizione
delle invenzioni con cui si adornano i cavalieri «per si-
gnificare parte de’ lor generosi pensieri»;, Girolamo Ru-
scelli affrontava il problema stesso del loro valore e si-
gnificato espressivo. Uomo di non grande intelletto, ma
di larga cultura e di larghissimi interessi, il Ruscelli, cui
tanto irrise il Tasso nel suo Minturno, collegò subito il
problema delle imprese con quello del linguaggio in ge-
nere, presentando il segno visivo come universale modo
di comunicare, più adeguato della parola all’intenzione.
La parola, infatti, è individuata, e quindi mutevole, «là
ove col rappresentare e dimostrar la forma delle cose...
è naturale communemente a tutti... Onde da questo es-
ser così naturale e così commune il dimostrar per segni,

1549, che, p. 91, fa gran lodi dell’Equicola: «amicissimus


noster, meo iudicio fertilissime de amore scripsit...»). Del
Trattato dell’amor humano del Nobili è da vedere l’ed. Pasolini,
Roma, 1895, che riproduce anche le postille del Tasso. Un
più lungo discorso, invece, meriterebbe, per i suoi vasti temi,
il trattato di Guido Casoni, Della Magia d’Amore... Nella
quale si dimostra come Amore sia Metafisico, Fisico, Astrologo,
Musico, Geometra, Aritmetico, Grammatico, Dialetico, Rettore,
Poeta, Historiografo, Iurisconsulto, Politico, Ethico, Economico,
Medico, Capitano, Nocchiero, Agricoltore, Lanifico, Cacciatore,
Architetto, Pittore, Scultore, Fabro, Vitreario, Mago naturale,
Negromante, Geomante, Hidromante, Aeremante, Piromante,
Chiromante, Fisionomo, Augure, Auruspice, Ariolo, Salitore e
Genetliaco..., Venezia, 1591 (cfr. E. ZANETTE, Una figura
del secentismo veneto. Guido Casoni, Bologna, 1933).

Storia d’Italia Einaudi 158


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

è da credere che la lingua nostra s’abbia fatto il verbo


insegnare»163 .

5. La conciliazione fra Platone e Aristotele

Questa ondata di ispirazione platonica che traversa tutto


il ’500, pervadendo il dominio delle lettere e seducendo i
poeti non meno dei filosofi, era ben lungi da ogni intolle-
ranza antiaristotelica. L’Aristotele della Nicomachea, che
celebrava ultima perfezione dell’uomo il puro contem-
plare, si accordava perfettamente con la contemplazione
platonica. Non a caso Simon Porzio, il peripatetico na-
poletano, nel dialogo del Tasso a lui intitolato, esclama,
a proposito delle scienze teoretiche pure, che «il loro fi-
ne è altissimo, e collocato nella contemplazione, o nella
cognizione della verità; la qual conosciuta acqueta l’in-
telletto nella sua propria felicità; anzi il congiunge a Dio
medesimo, e, come dicono i Platonici, il fa collega de-
gl’intelletti divini». Non diversa era stata la via dell’aver-
roizzante Nifo; o del tomista Crisostomo Javelli, che po-
neva la «morale» platonica mediam inter peripateticam et
Christianam; o del ficiniano e platonico Felice Figliucci,
traduttore del Fedro e poi chiosatore dell’etica d’Aristo-
tele. E il peripatetico Antonio Montecatini, professore
in Francia, amico del Patrizi, nel pubblicare il suo vasto
commento alla Politica, dichiarava impossibile intender
Aristotele senza Platone164 .

163
Ragionamento di Mons. PAOLO GIOVIO... sopra i
motti, e disegni d’arme, e d’amore, che comunemente chiamano
imprese. Con un discorso di GIROLAMO RUSCELLI intor-
no allo stesso soggetto, Milano, 1559, p. 54 sgg. Cfr. LUDOVI-
CO DOMENICHI, Ragionamento nel quale si parla d’imprese
d’armi, et d’amore, Milano, 1559.
164
CHRYSOSTOMI JAVELLI CANAPICII... Opera,
Lugduni, 1580, II, 269 sgg. FELICE FIGLIUCCI, Della

Storia d’Italia Einaudi 159


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Ma, per lasciar da parte l’interminabile schiera dei mi-


nori interpreti, veramente caratteristico è il caso di Fran-
cesco Piccolomini, lungamente professore in Padova, e
la cui «grandissima copia» celebra anche il Tasso. Ora,
in quell’«oceano d’ogni scienza [che] sono i suoi scrit-
ti», vera enciclopedia d’ogni saper filosofico, egli si mo-
stra incline a una certa ortodossia aristotelica, fino a cri-
ticare una volta anche il tentativo pichiano di conciliazio-
ne. Ma sotto il nome di Pietro Duodo e sotto quello di
Stefano Tiepolo, furon pubblicate in Venezia e a Basilea,
fra il 1575 e il 1590, «dispute sull’anima» e a «platoniche
contemplazioni», tutte animate di furori platonici, e do-
vute in realtà allo stesso Piccolomini, che, nelle Academi-
cae contemplationes (in quibus Plato explicatur et peripa-
tetici refelluntur), spiegherà che ogni conciliazione è im-
possibile proprio poiché Aristotele non è che l’avvio per
giungere alle serene ed eccelse dimore platoniche165 .
Il peripatetismo, e non è questo l’unico esempio, ve-
niva quasi capovolgendo il cammino della storia, e con-
cedeva ad Aristotele la terra, vista come punto d’appog-
gio per sollevarsi ai cieli platonici, nella cui visione astrat-
ta dal mondo si realizza pur anche l’ideale della Nicoma-

filosofia morale libri dieci sopra i dieci libri dell’etica d’Aristotele,


Venezia, 1552. (Cfr. Il Fedro, ovvero il Dialogo del bello
di Platone tradotto in lingua toscana per F. F., Roma, 1544;
ANTONII MONTECATINI In Politica, hoc est in civiles
libros Aristotelis progymnasmata, Ferrariae, 1587-94).
165
PETRI DUODI... Peripat. de anima disput. lib. VII,
Venetiis, 1575; STEPHANI THEUPOLI Academicarum con-
templationum lib. X..., Basileae, 1590. F. PICCOLOMINI,
Universa philosophia de moribus, Venetiis, 1583; Libri ad scien-
tiam naturae attinentes, Venetiis, 1600: Compendio di scienza ci-
vile, Roma, 1858. Nella letteratura platonica del ’500 sono mol-
to notevoli le versioni in volgare (Apologia, Eutifrone, Critone,
Fedone e Timeo) e i vasti commenti (soprattutto al Fedone) del-
l’Erizzo (Venezia, 1574).

Storia d’Italia Einaudi 160


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

chea. Invece il più ortodosso platonismo, con diversa sfu-


matura, andava ricercando l’accordo segreto della filoso-
fia, della scienza e della religione, e col Verino secondo
elaborava le «vere conclusioni di Platone conformi alla
dottrina cristiana e a quella di Aristotele», impiantando-
le sul triplice accordo di Platone con la fede, di Aristotele
con Platone, di Ippocrate con Platone166 .
Lo scritto del Verino usciva in Firenze nel 1589; ma
già nella prima metà del secolo il tema del platonismo fi-
losofia perenne aveva trovato la più aperta affermazione
nei dieci libri de perenni philosophia di Agostino Steu-
co da Gubbio che, vivacemente polemizzando contro la
Riforma luterana e calvinista, tornava ai motivi essenziali
del platonismo ficiniano167 . Lutero e Calvino avevano ac-
centuato fortemente il distacco fra umano e divino, l’in-
comprensibile irraggiungibilità di Dio, la miseria e il nul-
la dell’uomo. Umana stoltezza e divina follia, filosofia e
fede, sono inconciliabili: insanabile resta il distacco fra
cielo e terra, mentre la proclamata impotenza dell’uomo
al cospetto divino sembra confermarsi nella sconfortante
visione di un’umanità che è nulla nell’azione e nel pen-
siero, e può esser qualcosa solo in una fiamma di fede,
per grazia di Dio. La soluzione platonica, impegnata a
ridare fiducia all’uomo, mostrandogli la sua similitudine
con Dio e additandogli nell’amore il dono di Dio a noi,
attraverso il quale è possibile l’offerta di noi a Dio; tutto
l’eros, pronto a trasformarsi in charitas: ecco gli elementi
che appaiono allo Steuco l’unica via di salvezza per una

166
Vere conclusioni di Platone conformi alla Dottrina christia-
na et a quella d’Aristoteles. Raccolte da Messer FRANCESCO
DE’ VIERI detto il Verino secondo, Firenze, 1589. Del Veri-
no cfr. anche Ragionamento de l’eccellenze et de’ più meraviglio-
si artificii della magnanima professione della Filosofia, Firenze,
1589.
167
AUGUSTINI STEUCHI Eugubini de perenni philoso-
phia libri X, Lugduni, 1540.

Storia d’Italia Einaudi 161


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

nuova apologetica, solo che si possa più profondamente


stabilire il legame fra tradizione sacerdotale e tradizione
filosofica, fra amor di Dio e ragione illuminata168 . Ecco
così l’idea di una luce perenne, vivente nelle anime degli
uomini, tutta chiara e svelata nel primo Adamo, poi resa
quasi opaca dal peccato, e quindi tramandata con sempre
maggior precisione, ed accolta con consapevolezza sem-
pre più profonda. Il concetto già largamente elaborato
da Ruggero Bacone, di un compiuto sapere primitivo, si
viene intrecciando con quello di un progressivo discopri-
mento del vero, finalmente confermato nel secondo Ada-
mo, mentre il mutevole rapporto delle tenebre dell’igno-
ranza e della luce del sapere vien fatto corrispondere al
ritmo morale e religioso di peccato e redenzione.
Nello Steuco è certo assente ogni concetto di progres-
so, ma v’è l’esigenza di una continuità fondata sull’unità
originaria dell’umano pensare e del suo oggetto. Adamo

168
De perenni philosophia, pp. 77-78: «Coniungunt igitur
dexteram seseque exosculantur vetus et nova theologia, et sae-
culorum intervallis disiunctae redeunt, ipsis philosophis aucto-
ribus, ad amplexum, mutuoque copulantur, et per manus philo-
sophorum ducitur in sacrarium domiciliumque suum Veritas...
O beata palam tempora quibus veritas haec, haec theologia ma-
nifestissima de caelo refulsit, quam philosophi videbant et non
videbant... Quocirca cum sint haec, non nostra solum prae-
dicatione et professione manifesta, sed ipsorum quoque phi-
losophorum testimonio probata, non video quid philosophiam
a theologia disiungat. Nam neque Aristotelem, quem suorum
maiorum theologiam admirantem saepe reperies, possumus ab
istorum consortio, si iudices aequi voluerimus esse, seiungere».
Ancora pp. 561-62: «cuncti naturali consensu atque... ratio-
nis... instinctu, ...universaque philosophia, ...id tandem cuncti
concordes, quasi ratione se ipsam excitante, ...Plato et Aristo-
teles multique alii Philosophorum adeo Clare hunc finem vide-
runt, ut pene miraculum sit, eos ratione vidisse quod post nun-
tius caelestis revelavit... Quamquam, ut dixi, perennis haec fuit
usque ab exordio generis humani philosophia...».

Storia d’Italia Einaudi 162


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ebbe tutto il sapere, egli che assisté alla creazione e vide


Dio fare, e lo sentì mentre egli stesso, l’uomo, era fatto,
onde il primo sapere fu presente coscienza dell’assoluto
fare («dum nascerentur, a Deo se creari cernerent»). Lo
Steuco è, in proposito, chiaro: l’originaria rivelazione fu
la consapevolezza immediata del nascimento universale,
non un faticoso congetturare. La dispersione fu disper-
sione materiale – nelle varie regioni del mondo – e spiri-
tuale – nella molteplicità delle lingue. Il peccato si tradu-
ce in un tangibile allontanamento. E, viceversa, la veri-
tà più a lungo dimorò fra coloro che meno si staccarono
dalla culla dell’umanità, dico Chaldaeos, Armenios, Baby-
lonios, Assyrios, Aegyptios, Phoenices, anche se nell’oscu-
ramento delle coscienze quella scienza divenne fabulosa,
et scyrpis et latebris absconsa. Torniamo così al tema fici-
niano della teologia primitiva implicita nella poesia. Ma
una raffinata esegesi della produzione poetica dell’uma-
nità ci svela, per dirla vichianamente, un linguaggio es-
senziale uniforme del genere umano, espressione di una
essenziale unità di credenze («idem semper omnes gen-
tes credidisse quod nunc credunt retinentque omnes»).
Il tomismo aveva insistito sull’unità del vero; per lo
Steuco l’unità del vero si documenta e si manifesta nel-
l’unità della filosofia perenne. «Tutti gli uomini per na-
turale consenso (naturali consensu, natura duce ac magi-
stra rapidoque veritatis aestu), per impulso (instinctu) di
quella ragione che li separa dai bruti, si sono sempre ac-
cordati nell’ammettere che non c’è nulla di superiore alla
religione...; tutta la filosofia, quasi per impulso della stes-
sa ragione, ha decretato che il vero bene è quello promes-
so da questa fede... Platone, Aristotele ed altri hanno vi-
sto così chiaramente questo fine, che par quasi un mira-
colo che abbiano raggiunto con la ragione quello che più
tardi rivelò il celeste messaggero».
Questa idea dell’accordo o sinfonia dei filosofi, qua-
si incentrata nella sintesi Platone-Aristotele, doveva non

Storia d’Italia Einaudi 163


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

diversamente da altri temi, prolungarsi in pedisseque


manifestazioni accademiche, rumorose quanto inconclu-
denti come le cinquemilacentonovantasette tesi di Jaco-
po Mazzoni da Cesena, pubblicate nel 1577 a Bologna169 .
Il Mazzoni, che doveva occuparsi poi di questioni lette-
rarie, e rinnegare in parte gli entusiasmi giovanili, ci por-
ta ormai ai tempi di Galileo, con cui fu in cordiali rap-
porti. Né più vale il platonismo dei siciliani Pietro Calan-
na e Giovanni Antonio Viperano, o del ferrarese Toma-
so Gianini, o di Paolo Beni, impegnato insieme a com-
mentar la Poetica, a discuter della priorità del Tasso su
Omero, e a chiosare il Timeo.
Ormai l’antico problema dell’accordo dei filosofi si
perdeva in compilazioni storiche e in repertori eruditi,
mentre il platonismo, dopo avere alimentato le conver-
sazioni cortigiane, si estenuava in una vaga atmosfera di
letteraria evasione dal mondo, o, nel migliore dei casi,
diveniva argomento di dotte dissertazioni.

6. Lo scetticismo di Gian Francesco Pico

La crisi finale del tentativo di conciliazione dei filosofi


aveva intuito, fin dal principio del ’500, una non volgare
figura di pensatore, il nipote di Giovanni Pico della

169
JACOBI MANZONII Cesenatis De triplici hominis vi-
ta, activa nempe contemplativa et religiosa, methodi tres, quae-
stionibus quinque millibus centum et nonaginta septem distinc-
tae, in quibus omnes Platonis et Aristotetis multae vero aliorum
Graecorum, Arabum et Latinorum in universo scientiarum orbe
discordiae componuntur, quae omnia publice disputanda Bono-
niae proposuit, Anno salutis, 1577; JACOBI MAZONII Cese-
natis In almo gymnasio pisano Aristotelem ordinarie, Platonem
vero extra ordinem profitentis, in universam Platonis et Aristote-
tis praeludia, sive de comparatione Platonis et Aristotelis, Vene-
tiis, 1597.

Storia d’Italia Einaudi 164


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Mirandola, il savonaroliano Gian Francesco. Tragica


personartà che si muove fra il rogo del profeta fiorentino
e le lotte familiari in cui perse la vita, allo scetticismo
di Sesto Empirico chiede argomenti per distruggere la
filosofia a vantaggio della religione.
Se con lo zio combatte i falsi profeti, e scrive contro
maghi, negromanti, astrologi, geomanti, chiromanti e co-
sì via, egli fermamente crede nella conoscenza profetica,
luce divina che lampeggia nell’anima umana, il cui in-
telletto vanamente si dibatte nelle tenebre insidiose del
discorso, «poiché il nostro intendimento, che è l’ultima
delle intelligenze, passa dalla potenza all’atto; e molto si
inganna nel ragionamento e nei processi discorsivi, ed è
impedito e quasi trattenuto dagli accidenti che velano le
sostanze, e dalle ignote differenze delle cose». La luce
che brilla nelle tenebre scaturisce d’improvviso come un
dono gratuito, e non ha continuità alcuna, ma ora vie-
ne e ora va (vicissimque pro accessu et recessu). Ed è l’in-
contro e l’accordo mirabile e perfetto della fantasia e del-
l’intelletto, verificandosi il quale l’uomo può giungere a
cogliere il futuro.
Ora, proprio in queste affermazioni del De rerum
praenotione è implicita quella critica del sapere filoso-
fico che costituisce l’ossatura della meditazione di Gian
Francesco170 . L’umana conoscenza è intuizione, o lega-
ta al senso, o nelle forme sublimi della profezia quando
l’intelligibile si congiunge in una miracolosa corrispon-

170
Le opere di Gian Francesco Pico sono in gran parte rac-
colte nel II vol. della ed. di Basilea, 1573, degli scritti dello zio.
Cfr. anche On the Imagination by G. F. Pico of M., the Latin
text, with an intr. and an English transl. and notes by H. Ca-
plan, Cornell Univ. Press, 1930. A proposito della polemica
intorno all’imitazione cfr. GIORGIO SANTANGELO, La
polemica fra P. Bembo e G. F. Pico intorno al principio d’imita-
zione, «Rinascimento», I, 1950 pp. 323-340. Il Santangelo ha
anche ripubblicato i testi. Firenze, 1954.

Storia d’Italia Einaudi 165


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

denza col sensibile. Ma questo è dono, è grazia, è un di-


vino concedersi, quando ciò che è al di là dell’umano si
esprime in forme aperte all’uomo.
La filosofia come processo razionale è discorso; è pre-
tesa di giungere alla verità con le forze della ragione na-
turale. Se la filosofia potesse assolvere il compito asse-
gnatole esaurirebbe gran parte della religione. Se fosse
vera la teoria di una pia philosophia, e cioè di un accordo
sostanziale fra i filosofi classici e il cristianesimo, sfume-
rebbe il significato più vero del cristianesimo, e insieme
il suo valore più profondo. Apologetica platonica e apo-
logetica aristotelica, o plotiniana, o pitagorica, stabilen-
do una continuità dov’è un abisso, vanificano la reden-
zione stessa. I filosofi non vanno d’accordo; la ragione
non basta a se stessa. Sul tessuto di menzogne del ragio-
namento; sulle contraddizioni dell’intelletto; sull’insuffi-
cienza radicale dell’umana ricerca, si leva la sufficienza
sovrarazionale della rivelazione. Giovanni Pico nell’ac-
cordo dei filosofi trovava la testimonianza della Verità;
«mihi autem – scrive Gian Francesco – venit in mentem,
consentaneum magis esse et utile magis, incerta reddere
philosophica dogmata».
Quell’antichità classica, vantata dai più come un para-
digma di perfezione, ci viene presentata da Gian France-
sco Pico come la più folle delle contraddizioni. E su que-
sta crisi della ragione, su questa umanità fallita nei suoi
tentativi assurdi, si leva, salda, la parola del Cristo. Ma
l’Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis discipli-
nae Christianae non è solo una critica della conoscenza
umana degna d’essere avvicinata, come pur si è fatto, a
Montaigne. Essa è la quasi pascaliana distruzione di tut-
to quel mondo di valori umani, di quel regnum hominis,
che il Rinascimento aveva esaltato. Con la filosofia cado-
no lettere, arti, grammatica, retorica, matematica.
L’uomo in sé è nulla; è errore e colpa. Solo la religio-
ne, come abbandono totale di sé a Dio, sine lite, sine dis-

Storia d’Italia Einaudi 166


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sensione, sine vago et anxio discursu; solo una fede com-


pleta cui corrisponda un dono divino, può dare all’uomo
la Verità e la pace.
Consapevole del pericolo cui l’umanesimo andava in-
contro, di vanificare quello che di più profondo c’è nel-
l’uomo, Gian Francesco, ispiratore dell’intransigenza an-
tifilosofica del Concilio Lateranense del 1517, nella po-
lemica col Bembo sull’imitazione non esitava a rifiutare
il valore letterario della forma umanistica.

Storia d’Italia Einaudi 167


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

L’ARISTOTELISMO E IL PROBLEMA
DELL’ANIMA

1. Pietro Pomponazzi

Su un altro piano, e in un’atmosfera diversa, un profondo


rinnovamento si operava anche nella cultura più rigida-
mente ispirata a premesse aristoteliche, fossero poi que-
ste averroiste, o alessandriste, o, magari, tomiste e sco-
tiste. Ben difficile è, senza dubbio, tener distinte le va-
rie correnti, e le influenze di Temistio o di Simplicio ac-
canto a quelle più note ed evidenti già ricordate, mentre
spunti platonici variamente si insinuano a rendere estre-
mamente fittizia la tradizionale antitesi fra Firenze uma-
nistica e platonizzante, e Padova aristotelica ed averroi-
stica. Tuttavia è innegabile che anche gli incontri, quan-
do vi sono, nascono per l’incrociarsi di vie diverse, per il
convergere da varie parti di temi in origine distanti. Co-
me non è difficile notare quando si volga l’attenzione an-
che a quel motivo caratteristico della centralità umana,
che pur sembra talora accostare in superficie la ficinia-
na Theologia platonica e il De immortalitate animae del
Pomponazzi.
Pietro Pomponazzi, il maggiore degli aristotelici del
’500, successore del Vernia (quel Nicoletus philosophus
celeberrimus, celebre invero quanto sterile di produzio-
ne), nel 1488 ancor giovanissimo fu chiamato in Padova
a tenere un corso parallelo ad Alessandro Achillini, a cui
più tardi succedette sulla cattedra bolognese. L’Achilli-
ni, che secondo il Giovio era stato suo maestro, anche se
meno brillante e meno profondo del Pomponazzi, non
fu certo pensatore da poco. Averroista, aveva fatto ricor-
so aperto alla più caratteristica espressione della formula
della «doppia verità» quando aveva dichiarato di sceglie-

Storia d’Italia Einaudi 168


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

re, a proposito dell’intelletto, «fra due opinioni false (ri-


spetto alla fede) la più probabile, e cioè quella averroisti-
ca». Nei suoi scritti lo vediamo impegnato a trattare gli
argomenti d’uso, fisici, medici, logici, con un interesse
preponderante per quello che era tema d’obbligo delle
scuole universitarie: l’anima. Che l’intelletto umano fos-
se forma del corpo gli sembrava una pericolosa riduzione
dello spirituale al corporeo, e nella separazione vedeva la
salvezza sicura dell’autonomia del pensiero. D’altra par-
te l’uomo, nodo vivente del corporeo particolare e del-
l’universale intelligibile, gli appariva «termine del mon-
do materiale, perché in lui si uniscono cose materiali e
immateriali, onde si svela la guisa per cui è vincolo del-
le inferiori e delle superiori». Che era la solita conclu-
sione alla quale, sempre su terreno aristotelico, arrivava
un altro maestro del Pomponazzi, Pietro Trapolino, che
nell’immancabile commento all’anima secondo Aristote-
le ed Averroè, riafferma la medietà dell’intelletto, forma
separata, eppure animatrice della materia171 .
In questa atmosfera, dunque, si alimentò l’indagine
del Pomponazzi, che alla centralità umana arrivò per vie
ben diverse da quelle ficiniane e pichiane. In Padova,

171
Le opere dell’Achillini son riunite nell’ed. di Venezia,
1508. I commenti del Trapolino sono manoscritti (cfr. B.
NARDI, Appunti sull’averroista bolognese Alessandro Achillini,
«Giornale critico della filosofia italiana», 33, 1954, pp. 67-108).
Del Pomponazzi cfr. l’ed. di Venezia del 1525, e per il De
fato e il De incantationibus l’ed. di Basilea del 1567 a cura del
Gratarol (ma, ora, del De fato è uscita l’ed. critica a cura di R.
Lemay, Lugano, 1957; del De immortalitate cfr. l’ed. Morra,
Bologna, 1954); per le Dubitationes in IV meteor. Arist. lib.
l’ed. veneta del 1563. Dei corsi di lezione fu parzialmente edito
quello sull’anima dal Ferri nel 1877; ma finalmente vengono ora
studiati sistematicamente e pubblicati nelle parti importanti da
Bruno Nardi («Giornale critico della filos. ital.», 1950-56; cfr.
anche Il commento di Simplicio al «De anima» nelle controversie
della fine del sec. XV e del sec. XVI, «Arch. di filosofia» 1951).

Storia d’Italia Einaudi 169


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

infatti, i tentativi più dichiaratamente umanistici in sen-


so letterario non trovarono terreno adatto e degeneraro-
no facilmente in una arida ricerca grammaticale. Il Ver-
nia lodava il Barbaro per le versioni da Temistio e, for-
se, per certi suoi interessi logici; ma né il Barbaro, né,
poi, l’elegante ed erudito Niccolò Leonico Tomeo, ami-
co e raccomandato del Bembo, si affermarono oltre una
ristretta cerchia di letterati puri172 . Mantenevano, al con-
trario, vigore le discussioni di logica formale e di fisica
degli occamisti, che riusciranno a sedurre in giovinezza
anche il Pomponazzi. Ed erano vive le discussioni degli
scotisti, fra cui emergeva il Trombetta, efficace polemi-
sta; né mancavano i tomisti che a un certo momento cre-
dettero di annoverare tra i loro anche il Pomponazzi. Il
domenicano Crisostomo Javelli da Casale, dopo la pub-
blicazione del De immortalitate, rimpiangerà l’atteggia-
mento del Pomponazzi come un tradimento («i moltissi-
mi a te devoti... si stupiscono che tu abbia volto le spal-
le a Tommaso, guida saldissima tua e mia...»). In real-
tà il Peretto non fu ripetitore né di s. Tommaso, né di
Averroè, e critico di Averroè lo ricorda il Contarini, co-
sì come un altro suo allievo trascriveva nei suoi appun-
ti gli scherni fatti a lezione contro «isti fratres truffaldi-
ni, dominichini, franceschini vel diabolini». La filosofia
era per lui non dogma, ma aspra ricerca, che amava pa-
ragonare all’avvoltoio che rode il fegato a Prometeo in-
catenato. E il filosofare egli raffigurava come un perenne
discuter se stessi, e combattere, e cadere in eresia (opor-
tet enim in philosophia haereticum esse qui veritatem in-
venire cupit). Proprio per questo egli irrideva i chiosa-
tori, i ripetitori, quelli che Galileo chiamerà i trombetti
dell’altrui opinione.

172
Il Tomeo raccolse i suoi Dialoghi nel 1524 (ed. Venezia)
e nel 1525 gli Opuscula. Gli scritti filosofici del Contarini, più
volte stampati, sono raccolti nell’ed. veneta del 1588.

Storia d’Italia Einaudi 170


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Non a caso lo Speroni lo presenta critico acerbo di


quanti, ai suoi giorni, «confidandosi solamente nella co-
gnizione della lingua», hanno osato «por mano» ai li-
bri d’Aristotele, «quelli a guisa degli altri libri d’umanità
pubblicamente esponendo».
Non diversamente dall’Achillini il Pomponazzi aveva
cominciato col trattare problemi di fisica e di logica, ri-
prendendo la questione proposta in origine dagli occa-
misti inglesi, e poi dibattuta a Parigi, e in Italia da Gae-
tano di Thiene e dal Marliano, dei rapporti fra variazioni
quantitative e qualitative (de intensione et remissione for-
marum). Ma l’opera che per fervore di discussioni più lo
impegnò uscì nel 1516 a Bologna come tentativo di risol-
vere su un piano schiettamente razionale il problema del-
l’immortalità. L’uomo, la sua natura ancipite, la sua cen-
tralità, erano stati i grandi temi del ’400; ed anche Ficino
aveva dedicato al problema dell’immortalità dell’anima
il suo capolavoro. Pomponazzi vede la questione con un
rigore estremo, connettendola con una sua chiara conce-
zione dell’ordine naturale. «La natura – egli osserva una
volta – procede per gradi; i vegetali hanno già un po’ d’a-
nima; seguono gli animali dotati soltanto di tatto, gusto,
e indefinita immaginazione; vengono quindi gli animali
tanto perfetti da sembrare dotati di intelligenza, che co-
struiscono case e si organizzano in civili società, come le
api, tanto che un gran numero di uomini sembrano infe-
riori ai bruti per intelligenza». Proprio la continuità re-
ca con sé il concetto di medietà, di anelli congiungenti e
sintetizzanti. «Vi sono animali medî fra le piante e le be-
stie, come le spugne marine, fisse a guisa di piante, ma
senzienti a mo’ di animali. V’è la scimmia, che non sai
se sia bestia o uomo; v’è l’anima intellettiva media fra il
temporale e l’eterno».
Senonché qui non poteva sfuggire al Pomponazzi il
carattere nuovo di questa medietà, non più collocata fra
gradi diversi della natura, ma al confine fra natura e so-

Storia d’Italia Einaudi 171


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

pranatura, fra necessità e libertà. Tutto il suo sforzo è


volto proprio a capire che cosa possa significare la par-
tecipazione dell’anima al mondo sopranaturale. Ché egli
è fieramente avverso soprattutto alla separazione plato-
nica, e quindi, in fondo, averroistica, anche se dell’aver-
roismo conserva tutta la spregiudicatezza critica. Troppi
sono i legami fra sentire ed intendere, né si può spiegare
l’intendere senza un costante riferimento al sentire. «E
se l’essenza con cui sento fosse diversa da quella con cui
intendo, in che modo io che sento potrei essere colui me-
desimo che intende? Ed è ridicolo il supporre che si trat-
ti quasi di due uomini insieme congiunti le cui cognizio-
ni siano corrispondenti». Non solo la separazione netta,
ma una qualunque occasionalistica corrispondenza viene
così disdegnosamente scartata.
Contro averroisti e platonici era naturale che Pompo-
nazzi si accostasse così a Tommaso, che aveva ben sotto-
lineato l’intrinsecarsi nell’uomo di forma e materia. L’in-
fluenza di Alessandro di Afrodisia, così insistente nel
proporre l’identità con Dio della luce intellettuale, è as-
sai meno appariscente di quanto si sia spesso sostenuto,
mentre i contemporanei, e in particolare avversari scal-
triti come lo Javelli, si compiacquero di porre sul mede-
simo piano Pomponazzi e il grande tomista Tommaso da
Vio. Anzi secondo lo Javelli nessuna distinzione, sul pro-
blema dell’anima, si potrebbe fare fra i due173 .
In realtà Pomponazzi critica l’Aquinate per aver con-
cluso dalle sue premesse a un’anima «veracemente e as-
solutamente immortale», laddove l’immortalità umana
è solo «impropria», come solo parzialmente slegato dal
corpo è l’intelletto, in quanto cioè ci si riferisca all’indi-
pendenza relativa della sua funzione. Quando, metafo-

173
Quaestiones subtilissimae super tres libros Arist. de an.,
Venetiis, 1552, fol. 131; v. THOMAS DE VIO, Scripta
philosoph., I, Roma, 1938.

Storia d’Italia Einaudi 172


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ricamente, Pomponazzi parla di un profumo di immor-


talità (odorat), vuol indicare appunto, nell’uomo, un’an-
sia, un’esigenza, una ideale direzione, non un carattere
posseduto, che sarebbe in sé assurdo e contraddittorio.
Nell’ascesa di tutta la natura l’uomo è il culmine; ma là
dove Pico faceva dell’uomo il limite, dinanzi al quale il
mondo naturale si inchinava come ad alcunché di supe-
riore (sisti pedem, receptui canit), Pomponazzi pone l’uo-
mo nei confini naturali, anche se proteso oltre. E non
sempre, ché talora leggiamo osservazioni ben amare: «se
tu esaminerai le regioni abitate, troverai che quasi tutti
gli uomini sono più bestie che uomini, e rarissimi sono
quelli che sembrano razionali. Ed anche quelli raziona-
li, non possono chiamarsi così in senso proprio, ma so-
lo per confronto con altri sommamente bestiali, così co-
me le donne non sono mai veramente sagge, ma solo in
rapporto ad altre particolarmente sciocche».
Una separazione totale, come quella ammessa dai pla-
tonici; una immortalità che concepisca la vita autonoma
dell’anima è, dunque, impossibile. Proprio perché me-
dietà, orizzonte, l’anima non può essere staccata da quel-
la realtà di cui è confine senza essere snaturata e falsata,
resa inconcepibile nelle sue operazioni, che hanno biso-
gno sempre di un dato sensibile.
Né il rifiuto dell’immortalità, o almeno della certezza
razionale dell’immortalità, può scuotere la moralità. Vir-
tù e felicità, intimamente connesse, anzi aspetti diversi di
una sola realtà, sono la stessa armonia interiore. Il vizio
che la spezza, se imbestia l’uomo, gli toglie insieme ogni
gioia («chi dunque, benché mortale, preferirà il vizio fa-
cendosi con ciò bestia, anzi peggiore della bestia?»).
Con tutto ciò lo scritto del Pomponazzi finisce am-
biguamente, su un problema neutro, ripetendo per l’im-
mortalità press’a poco quello che S. Tommaso aveva det-
to per l’eternità del mondo: «coloro che procedono per
le vie della fede, rimangono fermi e saldi». Nel De nutri-

Storia d’Italia Einaudi 173


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tione, il più radicale degli scritti editi pomponazziani, in


cui qualcuno, esagerando, ha trovato un chiaro materia-
lismo, leggiamo questa affermazione: «io credo vera se-
condo Aristotele la divisibilità, non solo delle anime del-
le piante e degli insetti, ma in genere di tutte quelle che
siano atto di una materia inferiore. E questo benché se-
condo quella Verità [rivelata], che Aristotele non conob-
be, l’anima umana debba considerarsi assolutamente in-
divisibile. Il che, tuttavia, mi sembra debba porsi solo
per fede, e non per ragione naturale... . La Chiesa, inve-
ce, non si fonda sulle stoltezze dei filosofi, né sulla uma-
na ragione, che è tutta avvolta di nebbie, ma sullo Spiri-
to santo, sull’evidenza di indiscutibili miracoli; ora né le
ragioni né le parole d’Aristotele debbono farci abbando-
nare questo santo proposito». Era sincero o ironico, qui,
il Pomponazzi? O voleva soltanto accentuare la possibi-
lità paradossale di fare appello oltre la chiusura terrena,
a un atto di fede?

2. La polemica sull’immortalità

Troppo lungo sarebbe seguire in tutti i suoi sviluppi


l’ampia discussione cui dette luogo il libretto del Pom-
ponazzi, bruciato pubblicamente in Venezia, vilipeso dai
pulpiti, maltrattato dalle cattedre. Scrivono contro di es-
so e l’acre Ambrogio Fiandino e Bartolomeo di Spina e
Crisostomo Javelli e il Fornari, ma, soprattutto, Gaspare
Contarini e Agostino Nifo da Sessa174 , cui il Pomponazzi
risponderà coll’Apologia e col Defensorium. Le obbiezio-
ni fondamentali vertevano tutte sulla possibilità, negata
dal Pomponazzi, di sostanze separate. L’intelletto, che

174
Del Nifo cfr. oltre il De immortalitate animae, Venetiis,
1525, il De intellectu, Venetiis, 1527 e il comm. al De anima,
Venetiis, 1503.

Storia d’Italia Einaudi 174


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

è conoscenza dei puri princìpi primi, delle forme slega-


te da ogni materia, mostra con questa sua attività la falsi-
tà della tesi per cui è impossibile un pensare indipenden-
te dal fantasma sensibile. Inoltre, in quanto pura capaci-
tà di tutto comprendere, l’intelletto respinge con questo
ogni legame con la estensione, ogni divisibilità. Non a
caso il Contarini si richiama al famoso argomento di Avi-
cenna dell’«uomo volante», caro anche al Ficino, volto a
dimostrare la pura spiritualità dell’anima. Mentre il Nifo
faceva appello alle intelligenze celesti, ammesse da Pom-
ponazzi, e proprio come agenti estrinseci (assistenti), in
senso tipicamente platonico.
Che il Nifo fosse un confusionario chiacchierone è te-
si antica, se già al Varchi pareva «che non solo in que-
sto, ma in moltissimi altri luoghi abbia, senza giudizio o
considerazione alcuna, detto tutto quello che gli veniva,
non che nella mente, alla bocca; il che per avventura, gli
potette avvenire non tanto dalla natura sua, quanto dal-
la grandissima reputazione ed incredibile autorità». Re-
putazione e autorità dovute poi ad una erudizione scon-
finata e ad una produzione che non lasciò intentato al-
cun campo, anche se, troppo spesso, i resultati rimase-
ro piuttosto scadenti. Nella discussione sull’anima egli
era stato scolaro del Vernia, aveva sentito forti influenze
averroistiche, per finire in una certa separazione platoni-
ca. Ma la sua funzione storica non fu in determinate dot-
trine, che sarebbe impossibile fissare, bensì nella sua cul-
tura, nell’avere idealmente collegate le scuole di Padova
e Bologna con quelle di Firenze e Pisa, e poi di Napo-
li e Salerno, onde il suo nome risuona, più che nelle di-
spute de’ filosofi, nelle pagine di letterati come Galeaz-
zo Florimonte, il buon Galateo, o come Torquato Tas-
so, che gli dedicò due dialoghi sul piacere, ritraendo al
vivo lo spirito mondano di quel divulgatore, per non di-
re, platonicamente, rivenditore al minuto della filosofia.
«Io, che filosofo sono – gli fa dire il Tasso – come So-

Storia d’Italia Einaudi 175


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

crate non ho indorato le suole ai piedi, ma più tosto co-


me Scipione [le ho] avvezzate alle pianelle, e agli agi del-
le scuole greche». Averroismo fu per lui affermazione di
spregiudicatezza, più che solida e seria posizione; tanto è
vero che fu sempre pronto a diluirla in un platonismo di
maniera, perfettamente adattabile alle riunioni mondane
che preferiva al chiuso delle accademie.
Tutt’altro temperamento ebbe, anche se impegnato
negli stessi problemi, Simone Porzio, che insegnò fra Pi-
sa e Napoli, e fu amico del bizzarro e dotto Giovan Bat-
tista Gelli, scrittore, filosofo e calzolaio, che univa le ispi-
razioni ermetiche della tradizione ficiniana al rigore scar-
no del peripatetismo più puro175 . Il Porzio fu veramente
e rigorosamente alieno da ogni separazione dell’anima, e
per questo combatté averroisti e simpliciani, e ad Ales-
sandro di Afrodisia rimproverò l’identificazione con Dio
della luce intellettuale. La mente, pur con la nobiltà del-
le sue azioni, è opus naturae. L’aristotelismo se bene inte-
so, non significa altro che questa rigida fedeltà alla natu-
ra, questa chiusura dell’uomo nei limiti terreni. Di qui il
contrasto con quel Jacopo Antonio Marta, discepolo del
Nifo, che, polemizzando col Porzio, e più tardi col Te-
lesio, volle ancora trovare un appoggio alla religione in
Aristotele.
In realtà una rigida classificazione di precise correnti,
che pure è stata spesso vanamente tentata, nei riguardi
del problema dell’anima, è cosa impossibile. Né si pos-
sono isolare i seguaci di Temistio, di Simplicio o d’A-
verroè, quelli d’Alessandro, quelli d’Avicenna, i tomisti
e così via, anche se, volta a volta sentiamo parlare di sim-
pliciani o d’averroisti, di tomisti e d’alessandristi. Abbia-

175
SIMONIS PORTII NEAPOLITANI De humana men-
te disputatio, Florentiae, 1551 (la trad. it. del Gelli in un ms.
della Naz. di Parigi). Gli «opuscoli» del Porzio con l’Apologia
del MARTA, Neapoli, 1578.

Storia d’Italia Einaudi 176


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

mo visto Pomponazzi apparire agli uni seguace ortodos-


so d’Alessandro d’Afrodisia, e allo Javelli, domenicano e
platonizzante, nella identica posizione del più grande to-
mista del ’500, il De Vio. In realtà le varie denominazio-
ni sono solo bandiere di battaglia, ed hanno un significa-
to puramente polemico. Così un Giulio Castellani, che si
professa ammiratore e seguace del Porzio, che dichiara
insieme di accettare il commento di Alessandro di Afro-
disia, e la posizione di Pomponazzi, ma che ama Ficino
e Platone, e a un tempo imita Vincenzo Maggi peripate-
tico ortodosso, in sostanza vuole soprattutto rivendica-
re alla filosofia una precisa indagine psicologica che mo-
stri lo svolgersi dal sensibile dell’attività di pensiero, sen-
za preoccupazioni religiose. Ed infatti la sua critica di-
chiarata va contro i simpliciani di Padova e gli averroi-
sti, in quanto separano, e cioè staccano, platonicamen-
te, un mondo spirituale dalla natura. E la sua condan-
na non risparmia un suo parente, Pier Niccolò Castel-
lani che, traducendo la plotiniana Theologia Aristotelis,
aveva in qualche modo fornito nuovi argomenti alla tesi
della separazione176 .
D’altra parte, se ai seguaci d’Alessandro gli averroisti
sembravano troppo inclini alla trascendenza per la sepa-
razione estesa all’intelletto possibile, e quindi per un cer-
to platonismo, gli averroisti a loro volta si ponevano, di
fronte ai tomisti, come campioni di un pensiero libero
e critico. Il Varchi, che aveva non poche tenerezze per
Averroè, discutendo dell’anima, affermava: «la presen-
te materia, oltra l’essere dubbiosa e malagevolissima di
sua natura, è stata trattata da tanti tanto scuramente e di-
versamente, che né anco quelli che sono stati molti anni
per molti studii osano di favellare sicuramente: anzi que-

176
G. CASTELLANI, De humano intellectu libri tres, Bo-
noniae, 1561. Cfr. del Varchi la lezione Sulla creazione ed infu-
sione dell’anima razionale, Opere, II, pp. 311 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 177


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sta è quella cosa, della quale chi più sa, meno ardisce di
ragionarne».

3. Jacopo Zabarella

In verità il problema dell’anima si complicava variamen-


te; nato come questione intorno all’immortalità, se si po-
tesse dimostrare razionalmente, si sviluppava imponen-
do la soluzione di problemi gnoseologici e psicologici.
Ma non vale cercare le molteplici venature nei troppi
professori che stamparono o lasciarono manoscritte le lo-
ro lezioni dallo Zimara, l’averroista di stretta osservanza,
al Bacilieri o al Bernardi mirandolano, al simpliciano Pa-
sero detto il Genova, al gran Pendasio, al Burana, al Vi-
mercati e al Montecatini, a Vito Piza o al Piccolomini, al
Cremonini o al Liceti, per non dire dei più oscuri ancora.
Più utile ripercorrere con Jacopo Zabarella le tappe prin-
cipali della disputa, da lui magistralmente esaminata ed
illustrata177 . L’antitesi fondamentale Platone-Aristotele si
è, secondo lui, ripetuta in Alessandro e Averroè. Per l’a-
verroismo, infatti, l’anima è forma assistente, e cioè una
realtà compiuta in sé e per sé, atto in atto («quella di-
cesi forma assistente che, quasi stando presso l’oggetto
per guidarlo, non solo è separabile, ma è separata e divi-
sa dalla materia, a cui non dà l’essere, come il nocchie-
ro che è nella nave è separato dalla nave, perché è estra-
neo all’essenza della nave»). I seguaci d’Alessandro, al
contrario, pongono l’anima come forma informante, che
nella nave è la natura stessa di nave, e nell’uomo la spe-
cie, vivente nell’individuo concreto. Insomma, secondo
Zabarella, le polemiche intorno all’aristotelismo circa l’a-
nima ripetono le difficoltà del platonismo, mentre si af-

177
JACOBI ZABARELLAE De rebus naturalibus libri
XXX, Venetiis, 1590.

Storia d’Italia Einaudi 178


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

frontano aristotelici genuini e platonici camuffati da ari-


stotelici.
Lo stesso equivoco insidioso rinasce nel problema del-
l’intelletto quando la separazione platonica si riaffaccia a
staccare ora questo ora quell’intelletto, dilacerando l’a-
nima e riaffermando la separazione stessa. Ponendo con
gli averroisti l’intelletto possibile separato, nel rapporto
del nocchiero alla nave, porremo insieme l’atto dell’in-
tendere come transiens, o accidentale, rispetto all’uomo,
non come immanens, o essenziale. Gli averroisti parla-
no, è vero, di una connessione obiective dell’intelletto al-
l’uomo, perché intendere non si può se non attraverso la
sensibilità; ma, incalza Zabarella, in tal caso è come dire
che, poiché il nocchiero vede la nave, la nave stessa, ol-
tre che vista, è anche veggente. Né val più, a favore della
separazione, la considerazione che l’intelletto pensa gli
universali che sono disgiunti del tutto da ogni materia.
Disgiunti, in questo caso, vuol dire astratti, e l’astrazione
significa una separazione secundum operationem, non se-
cundum esse. E questo significa che v’è nell’uomo un’at-
tività distinta, ma non staccata, dalle modificazioni orga-
niche. Così come può dirsi che l’anima è nocchiero, non
nel senso che sia staccata dal corpo, ma nel senso che do-
mina gli organi, li modifica e li indirizza, unità immanen-
te all’organismo e che fa, dell’organismo, appunto un or-
ganismo. La separazione di cui parla Aristotele non è,
dunque, un assoluto distacco platonicamente inteso, ma
è l’indicazione di un rapporto. Il processo conoscitivo,
insomma, è processo autonomo, in cui dalla sensazione
si ascende all’intelletto senza interventi esteriori.
La chiarezza dello Zabarella, lucida mentalità logica,
cercheremmo invano nei suoi successori, e non solo nel
Piccolomini, sempre incerto fra Aristotele professato e
Platone nascostamente amato, ma anche nel celebre Ce-
sare Cremonini da Cento, scolaro del Pendasio, amico
del Tasso e del Patrizi, collega di Galileo, uomo senza

Storia d’Italia Einaudi 179


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dubbio rispettabile per la fierezza con cui difese, con-


tro insidie e minacce e critiche, la sua fede nella ricerca
razionale. All’Inquisitore sapeva rispondere: «quanto al
mutare il mio modo di dire, non so come potrei io pro-
mettere di trasformar me stesso. Chi ha un modo, chi un
altro. Non posso né voglio ritrattare le esposizioni d’A-
ristotele perché l’intendo così». Anch’egli dissente dagli
averroisti che intendono l’anima forma assistente, ma re-
sta poi incerto col Nifo alla definizione dell’anima-forma
che usa del corpo come di uno strumento (utens corpore
pro instrumento ad varias operationes). Né più di lui vale
un Liceti, sulla cui debolezza speculativa ha gettato an-
cora una volta uno sprazzo di notorietà solo il rapporto
con Galileo.
In sostanza la lunga discussione sull’anima e sull’intel-
letto, che occupa tanta parte dell’aristotelismo italiano,
spostava, ma non mutava, il tema impostato dai platoni-
ci. L’anima è l’estremo della natura; ma è cosa compre-
sa nel mondo naturale, ed è quindi mortale, e legata al-
le vicende fisiche; oppure tutto il suo operare, conosci-
tivo ed etico, la sua ancipite essenza, la pongono in una
posizione irriducibile al piano naturale puro e semplice?
Il problema, che si presentava in termini gnoseologici e
morali, era nella sua profondità metafisico. Ora l’incer-
ta posizione di tutto l’aristotelismo, percorso e insidiato,
non solo dall’immanente platonismo, ma dal neoplatoni-
smo arabo e dalle interpretazioni cristiane, era incapace
di sviluppare coerentemente quella direzione naturalisti-
ca cui sembrava più legato178 .

178
Per i testi sull’anima dei minori aristotelici cfr. E. RE-
NAN, Averroës et l’averroisme, Paris, 1852. F. FIORENTI-
NO, Pietro Pomponazzi, Firenze, 1868; K. WERNER, Der
Averroismus in der christlich-peripat.Psychol. d. späteren Mit-
telalters, Wien, 1881. L. MABILLEAU, Etude historique sur
la philosophie de la Renaissance en Italie. C. Cremonini, Paris,
1881; B. Nardi, La fine dell’averroismo, in «Pensée humaniste»

Storia d’Italia Einaudi 180


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

4. Il problema religioso nell’aristotelismo

Dove, tuttavia, l’aristotelismo ci appare più fecondo è al


di fuori dei problemi classici in cui si suole, invece, col-
locare. È, forse, nelle discussioni di logica e di metodo,
nella morale e nella politica. Qui, nell’adesione fedele al-
la realtà sinceramente descritta, gli aristotelici sono vera-
mente spiriti sottili. Così Pomponazzi non è certo me-
no grande nel De incantationibus o nel De fato, opere di
una non comune arditezza e di un’innegabile profondi-
tà, eppure tanto meno celebri del De immortalitate. Nel
De incantationibus si propone il problema del sopranna-
turale, della possibilità di interventi di un ordine diverso
sul piano naturale. In un luogo anche troppo famoso dei
Discorsi sulla prima deca di Tito Livio Machiavelli discu-
te delle varie religioni esclusivamente in rapporto alla lo-
ro efficienza pratica, politica. Nell’ambito di una visio-
ne esclusivamente terrestre l’appello al cielo è considera-
to, anch’esso, un fenomeno puramente mondano, inte-
ressante nei suoi aspetti sociali, innegabili e vastissimi.
Pomponazzi è spirito per più lati affine al Machiavel-
li. Entrambi considerano solo la terra, e nell’uomo vedo-
no sì un mirabile costruttore, ma sempre e soltanto una
creatura terrena, chiusa nel limite terreno, oltre il quale
non escludono la possibilità di una fede, assolutamente
gratuita, completamente slegata dalla ragione, anche se
interessante l’indagine razionale per i fenomeni concre-
ti attraverso cui si ripercuote nella nostra vita mondana.
E come Machiavelli esamina quelle ripercussioni sul pia-
no politico, Pomponazzi le considera da un punto di vi-
sta psicologico, logico e fisico: in che modo, insomma, il
fatto religioso incide sulla natura umana, e la trasforma;

cit., pp. 139-151. Singolare, del Cremonini, in un Marc. lat., la


Quaestio utrum animi mores sequantur corporis temperantiam.

Storia d’Italia Einaudi 181


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

che valore hanno le affermazioni di influenze miracolose


di cause soprannaturali? La risposta del De incantationi-
bus è chiarissima: «noi possiamo salvare ogni esperien-
za mediante cause naturali, né v’è ragione alcuna che ci
costringa a far dipendere da démoni taluni fenomeni. È
inutile dunque introdurli; ed è ridicolo e fatuo abbando-
nare l’evidenza e la ragione naturale per andare a cercare
quello che non è né verosimile né razionale».
Tutto il complesso dei miracolosi interventi può essere
agevolmente ricondotto nell’ambito delle cause naturali,
o, meglio, è miracoloso né più né meno di quello che
miracolose sono tutte le altre connessioni causali. Non
si spiegano i miracoli come non si spiega perché il canto
del corvo produca sventura, come non si spiega perché
un’erba guarisca una malattia (sicut ignoramus per quam
naturam sciammonium purget bilem). Ove Pomponazzi
ci mette davanti a uno dei suoi tipici capovolgimenti:
tutto rientra nell’ordine dell’esperienza e della ragione;
tutto è spiegabile, tranne questa stessa spiegazione. E
in questo margine egli lascia ancora una volta aperto il
cammino a Dio. Astri e simboli religiosi agiscono in
modo naturale, come naturalmente agiscono le formule
magiche e le immagini astrologiche; solo che «la Croce è
efficace unicamente come segno di quel Legislatore, che
anche gli altri rispettano».
Uguale paradosso noi troviamo nel De fato, posto al
centro del conflitto fra il contingentismo di Alessandro
di Afrodisia e la universale necessitazione stoica. Anche
qui Pomponazzi sembra prima propendere per la posi-
zione dello stoicismo («l’opinione stoica appare molto
probabile»), per rifiutarla poi riammettendo per il sa-
piente, «divinità terrena», una pienezza di libertà. Sul-
le bestie umane, dominate dalle leggi di natura, si levano
i pochi saggi che, trasformando la condanna in una re-
denzione, si sollevano sulla natura incrinandone irrime-
diabilmente la compattezza.

Storia d’Italia Einaudi 182


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Quando lo Speroni, legato in tanti modi al Peretto, op-


porrà, nel dialogo sulla retorica, al filosofo solitario, as-
sorto in metafisiche contemplazioni, il retore a «civile»,
senza rendersene conto distinguerà fra una visione scola-
stica tradizionale della filosofia come metafisica sistema-
tica, e un’operosa riflessione impiantata sulla vita, e vol-
ta a modificare la vita stessa. E, in questo senso, in par-
te inconsapevolmente, si impegnava il Pomponazzi me-
desimo.

Storia d’Italia Einaudi 183


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

LOGICA, RETORICA E POETICA

1. Problemi logici e metodologici

Se dalle cattedre universitarie più spesso si attendeva una


parola intorno alle questioni psicologiche, intorno alle
quali sembrava quasi annodarsi ogni più grave problema
metafisico e religioso, non meno impegnative erano le
discussioni logiche, che vedevano a fronte gli ortodossi
aristotelici e quanti, invece, sentivano, attraverso temi
retorici e grammaticali, farsi avanti l’esigenza di una
disciplina del pensiero più aderente alla concretezza del
pensare. In un luogo della prima giornata dei Massimi
sistemi Galileo mette in bocca al Salviati una condanna
della logica formale, come «strumento» che diventa fine
a se stesso. «La logica è l’organo col quale si filosofa»;
ma «il suonar l’organo non s’impara da quelli che sanno
far organi, ma da chi sa sonare; la poesia s’impara dalla
continua lettura de’ poeti; il dipignere... col continuo
disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei
libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli
e non i logici». Insomma, a nulla giova la discussione su
astratti schemi dimostrativi, che restano sterili e vuoti. E
questa non era solo condanna di un metodo, ma di una
filosofia, «quella muta e oziosa filosofia, della quale si
può dire, come della fede, che senza l’opera è morta».
E operare significa, in queste parole di Stefano Guazzo
avere una cognizione feconda, e capace di agire nella
civile «conversazione»179 .

179
La civil conversatione del Sig. STEFANO GUAZZO,
gentiluomo di Casale di Monferrato, divisa in quattro libri...
nuovamente dall’istesso autore corretta e ...ampliata, Venezia,

Storia d’Italia Einaudi 184


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Insomma, la logica deve essere consapevolezza critica


d’un pensare in atto. Assai prima del Galileo l’aveva det-
to con eloquenza Alessandro Piccolomini, che di logica
scrisse a lungo e più volte, sempre sostenendo che «tutte
le scienze sono da imparare insieme in un certo modo mi-
schiate e ligate, in guisa che l’una ha bisogno alcuna vol-
ta dell’altra»180 . Proprio per questo, «quantunque una di
quelle scienze, al giudicio di tutti, sia prima, nondime-
no, quando quelle ancora, che seguono dopo lei, si sa-
ranno apprese, quella prima parimente, quantunque in-
nanzi appresa fusse, tuttavia diventerà perciò più perfet-
ta». Né mai il Piccolomini si stancherà di ripetere che è
vano disperdersi «dietro alle inutili e minute questioncel-
le» dei logici occamisti, non avendo valore alcuno il di-
sputare per disputare. «Laonde molte volte mi vien pietà
di coloro che, nell’età pochi anni addietro alla nostra, ne
gli studii delle lettere s’essercitavano conciosiaché... dal-
la verità sempre si dipartivano, alla quale per proprie e
diritte strade, non per torte e rimote, fa mestieri che ven-
gan coloro che, non il vero per dubitare e per contende-
re, ma il dubitare per trovare il vero s’ingegnano d’andar
cercando». Che era un sottolineare il momento inventi-
vo rispetto al dimostrativo e, in fondo, uno svalutare la
logica confinata, secondo quanto altrove lo stesso Picco-
lomini aveva detto, alla dimostrazione, spettando ad al-
tre scienze l’invenzione e la definizione. Esaminando in-
fatti in un suo opuscolo del 1547 la validità della mate-
matica, aveva riservato alla logica propriamente detta i
due metodi risolutivo e compositivo come strumenti di
dimostrazione, sostenendo che solo per accidens spetta

1586, pp. 16, 19, 24. Del Guazzo cfr. anche le Lettere, Torino,
1591.
180
ALESSANDRO PICCOLOMINI, L’istrumento della
filosofia, Venezia, 1560; Della institution morale libri XII, in
Venetia, 1582, pp. 125, 133.

Storia d’Italia Einaudi 185


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

alla logica stessa l’invenzione. Laddove, per esempio, il


Varchi, dissertando del metodo, ed identificando logica
e dottrina del metodo, comprenderà «sotto questo nome
così la Topica..., o vero l’invenzione, come la giudiziale,
cioè la Dimostrativa», definendo poi in genere la logica
come «quella o scienza o arte o più tosto facoltà, la qua-
le sola ne mostra la via e ne guida così a tutte le scienze
come a tutte le arti»181 .
Comunque, mentre generale era la riprovazione delle
sottigliezze dei terministi che avevano imperversato fino
ai tempi del Pomponazzi, l’attenzione si volgeva sempre
più verso l’invenzione, e si sottolineava il momento ana-
litico o risolutivo, come mezzo prezioso per giungere al-
la definizione. E basta, in proposito, prendere il Tratta-
to dell’istrumento e via inventrice degli antichi del plato-
nizzante Sebastiano Erizzo per trovarvi solennemente af-
fermato come «per mezzo della divisione noi ritroviamo
quello che più nelle cose importa, che sono tutte le dif-
ferenzie loro essenziali, delle quali la definizione si com-
pone». Non solo, ma la risolutiva, com’egli dice, è via
unica dell’invenzione; né a caso si riferisce a Galeno e al-
le scienze naturali. «Sì che non bisogna traviare da que-
sto sentiero, che la divisione sia istrumento e via – che è
quello che i Greci dicono metodo – inventrice delle co-
se. Né si può in alcun modo dire che per questa non si
acquisti l’invenzione».
Ed a Galeno e all’esperienza e all’utile, e ad una ne-
cessità di rinnovare vecchi schemi insufficienti, fa appel-
lo nel suo opuscolo De methodo anche Giacomo Acon-
cio, di cui è pur notevole, di nuovo, la preferenza da-

181
A. PICCOLOMINI, In mechanicas quaestiones... comm.
de certitudine mathem. discipl., Romae, 1547, p. LXXIII; v.
VARCHI, Opere, II, p. 797.

Storia d’Italia Einaudi 186


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ta al processo risolutivo, come unico efficace strumento


inventivo182 .

2. Zabarella e le polemiche padovane

Al Varchi, nelle Lezioni già ricordate, pareva oziosa di-


stinzione, a proposito della logica, il domandarsi se sia
scienza o arte. Non così ai maestri padovani, tra i qua-
li lo Zabarella giungerà in proposito a conclusioni vera-
mente interessanti. Per oltre mezzo secolo, commentan-
do Aristotele e Averroé, i professori di Padova si erano
affaticati a determinare i processi che dagli effetti porta-
no alle cause, e, di nuovo, dalle cause agli effetti. Il To-
mitano, grammatico e retore insigne, aveva insistito sul
fatto che la scienza della natura procede dagli effetti al-
le cause, mentre il movimento dall’universale al partico-
lare (sillogistico) è caratteristico nella sistemazione di un
sapere già acquisito. Il regresso, che non è che l’induzio-
ne, costituisce tutta la forza della ricerca costruttiva (in-
quisitio). Il ritmo caro a Galileo di analisi-sintesi era già
formulato con molta chiarezza.
Lo Zabarella era scolaro del Tomitano e, come logi-
co, ebbe a più riprese a sostenere vivaci polemiche, fra
le quali, innanzitutto, deve ricordarsi quella con France-
sco Piccolomini, della cui posizione, incerta fra Aristote-
le e Platone, già s’è detto. Lo Zabarella distingueva fra
metodo e ordine, indicando con metodo, a cui dava la
massima importanza, il momento inventivo, il passaggio
dal noto dell’esperienza all’ignoto della causa, laddove
l’ordine non significava per lui che un semplice proces-

182
S. ERIZZO, Trattato dell’istrumento e via inventrice degli
antichi Venezia, 1554; Lettere di XIII huomini illustri, pp. 620-
25; GIACOMO ACONCIO, De methodo e opuscoli, ed., G.
Radetti, Firenze, 1944, p. 166.

Storia d’Italia Einaudi 187


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

so giustificativo secondario. Per il Piccolomini, al con-


trario, fondamentale è l’ordine, rispecchiamento in noi
della struttura data da Dio alle cose, e quindi riprodot-
ta nel pensiero (constitutio quaedam divina ad unum pri-
mum caput et ducem relata). Con tono non diverso il Var-
chi, trattando appunto dell’ordine rispetto al metodo, ri-
corda come «di tutte le arti e di tutte le scienze sono i se-
mi in noi, e i princìpi da Natura, e chi insegna o appara
alcuna cosa deve sempre seguitare lei». In altri termini
non solo la logica è metafisica, ma tutta la trama obbiet-
tiva della realtà è presupposta nella mente.
Zabarella, al contrario, non solo batte sulla distinzio-
ne, che abbiamo visto sottolineata anche da Alessandro
Piccolomini, di invenzione e dimostrazione, ma nega che
la logica sia scienza; che abbia, cioè, come oggetto la real-
tà. La logica è una tecnica, un’arte umana, che serve alla
costruzione del sapere scientifico183 . «La logica – egli di-
ce – riguarda nozioni seconde, termini, che sono inven-
zioni nostre, e possono non esistere. Non sono cose ne-
cessarie, ma contingenti, e perciò non se ne ha scienza,
perché la scienza è solo delle cose necessarie». Gli uomi-
ni creando le intenzioni seconde (concetti) l’hanno crea-
ta, ma essa ha un posto analogo alla grammatica.
Proprio su questo punto, anzi, lo Zabarella, o, meglio
il suo scolaro Ascanio Persio ebbe una vivace polemica
col vecchio logico Bernardino Petrella (e col suo allie-
vo Giulio Marziale, se non è questo uno pseudonimo del
Petrella stesso). Il Petrella, infatti, sostenne con molta te-
nacia esser la logica scienza, ed aver per oggetto non ter-

183
Cfr. ZABARELLA, Opera logica, Francoforte, 1608;
FR. PICCOLOMINI, Universa philosophia de moribus, nella
ed. di Venezia, 1594 (gr. I, cap. XIV-XXIV; Comes politicus,
pro recta ordinis ratione propugnator...) PERSIO, Defensiones;
PETRELLA, Quaestiones logicae, Patavii, 1571 e 1576; del
Varchi cfr. Del methodo, Opere, II, pp. 796 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 188


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

mini, ma puri concetti; non seconde intenzioni ma prime


nozioni. Ed è sommamente istruttivo notare come il Pe-
trella si trovasse poi nell’impossibilità di passare dal suo
mondo di concetti entificati alla realtà fisica, mentre ana-
lisi e sintesi si riducevano a un circolo vizioso tra forme
astratte e vuote. Per lo Zabarella, invece, il processo lo-
gico è strumento che mira, oltre i termini, alle cose signi-
ficate, e intende ad esse. Il metodo mira a guidare e sor-
vegliare i processi cogitativi, le ricerche fisiche e metafi-
siche nella loro indagine dal noto all’ignoto. Non è più
un moto di scomposizione e ricomposizione di nozioni
astratte, ma un passaggio dai fatti alle cause e dalle cau-
se ai fatti. Non si tratta di un ragionamento geometrico,
in cui nel soggetto è contenuto il predicato, ma di una
venazione di concetti dove la logica chiarisce le guise e
le astuzie della caccia (instrumentum est ipsa via divisiva
vel compositiva, per quam docet... quomodo praedicata ve-
nari debeamus, et horum venatio est venatio ipsius defini-
tionis ignotae). Ora il metodo non è che la tecnica della
caccia all’ignoto (non disponit scientiae partes, sed a no-
to ducit nos in cognitionem ignoti). E questo metodo ve-
natorio, o inventivo, è ritmato in due momenti: regres-
so risolutivo dall’effetto alla causa; processo compositivo
per cui dalla causa vediamo generarsi l’effetto (produce-
re et generare finem illum possumus). La cosa è ritrova-
ta nel suo segreto rapporto di sé a sé; è approfondita e il-
luminata in se stessa. «L’induzione non prova una cosa
mediante un’altra; in certo modo essa rivela la cosa attra-
verso la cosa stessa. E poiché la cosa è meglio conosciu-
ta come particolare che come universale, perché è sensi-
bile come particolare e non come universale, l’induzione
è un processo, che va dalla cosa alla cosa medesima; dal-
la cosa nell’aspetto più ovvio, alla cosa nell’aspetto più
oscuro e riposto. Così per induzione non si conoscono
solo i princìpi delle cose, ma anche i princìpi dello stesso
sapere scientifico che si dicono indimostrabili». La logi-

Storia d’Italia Einaudi 189


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ca, come movimento intimo onde la cosa è compresa nel


riferimento a sé, e nella riflessione, non poteva esser col-
ta più chiaramente. Né il metodo galileiano poteva es-
ser meglio chiarito. Nella lezione LXVI della Dialettica
del Cremonini, raccolta dal suo scolaro Troilo Lancetta,
l’avversario di Galileo definiva: «ordo compositivus in-
cipit a principiis et progreditur per ipsa ad rerum cogni-
tionem; ordo vero resolutivus incipit a fine, et ipsius ha-
bita praecognitione progreditur ad ea considerando per
quae talis finis haberi possit»184 .

3. Logica e retorica. Mario Nizolio

Filosofo senza dubbio molto penetrante fu Zabarella; ep-


pure, nonostante il suo acume, egli ha dell’antico mol-
to più di un grammatico quale Mario Nizolio, che nei
quattro libri del De veris principiis et vera ratione philo-
sophandi, stesi contro il Maioragio, ma in realtà volti a di-
struggere quanto restava del vecchio schematismo logico
aristotelizzante, mirava a delineare i processi viventi del
pensiero colto nel suo ritmo, al di fuori di ogni cristal-
lizzazione di idee o di universali fittizi. Il suo tentativo,
perché non fu che un tentativo, ma pur degno delle lo-
di e dell’ammirazione di un Leibniz, voleva presentare le
pulsazioni della mente nei suoi rapporti con le cose e con
gli uomini, sorprendendo l’unità del processo che anima
così la comunicazione linguistica, come tutte le strutture
conoscitive. Per questo, secondo il Nizolio, bisogna libe-
rarsi innanzitutto da ogni soprastruttura fittizia – univer-
salia stulta et inepta – e ritrovare la purezza nostra e delle
cose nella verginità dell’espressione linguistica, traduzio-

184
CAESARIS CREMONINI CENTENSIS... Dialectica,
addita in fine singularum lectionum paraphrasi a Troylo de
Lancettis, Venetiis, 1663, p. 89.

Storia d’Italia Einaudi 190


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ne spontanea del rapporto fondamentale dell’uomo col


mondo185 .
Non conviene infatti dimenticare l’iniziale dichiara-
zione del Nizolio sulla ridicola futilità delle ricerche che
non si rivolgano alla morale, alla politica e all’economia;
alle «scienze mondane», insomma. Né può trascurarsi,
quando si legga nel primo suo principio generale del fi-
losofare che alla base di tutto deve trovarsi la conoscen-
za delle lingue greca e latina, essere per lui tali lingue l’e-
spressione concreta ed esemplare della direzione origi-
naria dello spirito umano. Per cui lo studio grammatica-
le e retorico, subito dopo raccomandato (sine quibus om-
nis doctrina prorsus est indocta, et omnis eruditio inerudi-
ta), non è che la presa di contatto con l’articolarsi effetti-
vo dell’interiorità umana, con i suoi ritmi, con i suoi pro-
cessi: «logica reale» e non «formale». Ed ecco, infatti,
subito, la critica alla metafisica, preoccupata solo di una
verità vuota, indifferente a ogni indagine de utilitate et de
pertinentia rerum, quasiché sia possibile parlare di verità,
quando si prescinda da quel concreto e umano rappor-
to in cui, soltanto, la verità è vera (quasi nihil intersit, re-

185
M. NIZOLII De veris principiis et vera ratione philoso-
phandi contra pseudo-philosophos libri IV, in quibus statuuntur
ferme omnia vera verarum artium et scientiarum principia... et
praeterea refelluntur fere omnes M. A. Majoragii obiectationes
contra eundem Nicolium, Parmae, 1553. Com’è noto lo scrit-
to fu ripubblicato da Leibniz con introduzione e note, Franco-
forte, 1671 (Antibarbarus philosophicus, sive Philosophia scho-
lasticorum impugnata libris IV de veris ecc.). Sul Nizolio latini-
sta cfr. P. MANUTII Epistularum libri V, Venetiis, 1561, cc.
35-36. (Del De veris principiis del Nizolio abbiamo ora la bel-
la ed. di Q. Breen, 2 voll., Roma, 1956; sul N. v. gli studi del
Breen stesso e i due saggi di Paolo Rossi, nei volumi miscella-
nei La crisi dell’uso dogmatico della ragione, a cura di A. Ban-
fi, Milano, 1953, e Testi umanistici sulla retorica, «Archivio di
filosofia», 1953, pp. 57-92).

Storia d’Italia Einaudi 191


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

rum quae traduntur, esse non solum non falsas sed etiam
non inutiles, non supervacuas, nec impertinentes).
Unica vera scuola filosofica la lettura dei grandi classi-
ci, continua e penetrante, per comprendere la loro paro-
la; e, a un tempo, la comprensione del linguaggio uma-
no comune (intelligentia communis usus loquendi tum eo-
rum, tum etiam populi). Comprensione, questa, che solo
l’esperienza può dare, poiché ci muoviamo, qui, sul ter-
reno della libera creazione umana, completamente auto-
noma. In questa adeguazione di sé alla coscienza degli
uomini, in questa civile conversazione, scopriremo vera-
mente il nostro segreto, e il senso e il valore dell’umanità
nelle sue relazioni (veram sapientiam veramque eloquen-
tiam). E quello stesso appello iniziale ai classici perderà
qualunque equivoco sottinteso di abdicazione alla pro-
pria libertà; sarà null’altro che un mezzo per ritrovare la
propria verità. Dichiaratamente il Nizolio, nel suo quar-
to principio, riafferma la piena indipendenza d’indagine
(libertas et vera licentia, sentiendi ac indicandi de omni-
bus rebus), proprio in omaggio al vero (ut veritas ipsa re-
rumque natura postulat). Oltre ogni autore, al di sopra
di Platone e d’Aristotele, restano, unici e veri maestri, i
sensi, il pensiero e l’esperienza.
Né, d’altra parte, la comprensione scientifica della
realtà significa il rifugio in nebulosi universali, ma l’a-
derenza al reale singolo, afferrato nel suo intimo rappor-
to di sé con sé e con i reali dello stesso genere. Il Nizolio
insiste in una polemica mai interrotta, opponendo all’a-
strazione che finge, oltre gli enti, altri enti fittizi, la com-
prensione con cui la mente afferra, simul et semel, sin-
gularia omnia cuiusque generis. La quale comprensione
poi, come dirà altrove, lungi dal perdersi per entro le nu-
bi dell’astrazione, resta aderente al senso e alla coscien-
za. Insomma, alla logica aristotelica si vuol sostituire una
nuova logica che nasca per entro gli effettivi moti della
interiorità umana, e ne costituisca la concreta consape-

Storia d’Italia Einaudi 192


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

volezza critica. E poiché lo studio dei poeti, e in genere


del linguaggio, fa presente un vivo articolarsi espressivo,
che insieme traduce e suscita moti reali dell’animo, e at-
tinge la profondità del mondo quale si rivela nei rappor-
ti con l’uomo, attraverso i comportamenti che nell’uomo
suscita, ecco che la nuova logica, lungi dal modellarsi sui
processi matematici, vuole impiantarsi sui processi effet-
tivi con cui la mente comunica con le menti e intende e
interpreta la realtà186 .

186
Op. cit., I, 7: «respondeo tibi, domine Aristotele, etiam
si nulla erunt universalia stulta et inepta, ut vere non sunt, ta-
men artes et scientiae et definitiones tradentur et erunt de sin-
gularibus et individuis..., non per naturam propriam et priva-
tam, sed per communem et perpetuam successionem aeternis,
nec de omnibus singillatim et seorsum, sed in universum vel
universe, hoc est simul et semel acceptis... Vestrum universa-
le fit per fictam illam et vanam, ut vos appellatis, intellectus
abstractionem a singularibus... Nostrum vero universum effi-
citur per comprehensionem et acceptionem omnium cuiusque
generis singularium simul et semel, sine ulla intellectus a sin-
gularibus abstrahentis ope, sed solo intelligentiae singularia ip-
sa comprehendentis auxilio... Vestrum universale licet per na-
turam existat in singularibus, tamquam nubes quaedam in aere
pendens, ubi sunt ideae Platonis...; nostrum universum et per
naturam est singularibus, et per intellectum non separatur a sin-
gularibus, non magis quam populus et exercitus cum intelligun-
tur a nobis et omnino ipsum nihil aliud est, nisi ipsa singularia
simul et semel per intellectum comprehensa et quasi congrega-
ta... Vestrum universale vos, non solum ab intellectu solo fie-
ri, sed etiam ab intellectu solo cognosci ac percipi vultis, ab ex-
terioribus vero sensibus nequaquam. Nostrum universum, licet
ipsum quoque ab intellectu quodam modo fiat, ita comprehen-
dente, ut dixi, simul omnia singularia, et ab eodem cognosca-
tur intelligaturque, utpote ab ipso comprehensum, tamen per-
cipitur et usurpatur etiam a sensibus tam esterioribus quam in-
terioribus, si non omnino, at certe magna ex parte». Cfr. III,
7, la definizione di comprehensio: «actio quaedam sive operatio
intellectus nostri, qua mens hominis singularia omnia sui cuiu-
sque generis, simul et semel comprehendit, et de eis ita compre-

Storia d’Italia Einaudi 193


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

4. La retorica e la «civile conversazione»

Nella posizione di Nizolio rifluiva tutta l’esperienza del-


l’umanesimo, e il senso che, se all’uomo conviene il mon-
do umano, è ancora una logica umana, dell’umana e ci-
vile conversazione, quella che bisogna formulare. On-
d’è che l’attenzione si rivolge al linguaggio come mani-
festazione esemplare dell’umanità. Stefano Guazzo, nei
suoi dialoghi su La civile conversazione, usciti la prima
volta nel 1574, afferma appunto che «la medesima natu-
ra ha dato la favella all’uomo, non già perché parli seco
medesimo, ...ma perché se ne serva con altri; e voi vede-
te che di questo istromento ci serviamo in insegnare, in
dimandare, in conferire, in negociare, in consigliare, in
correggere, in disputare, in giudicare, in isprimere l’af-
fetto dell’animo nostro, co’ quali mezzi vengono gli uo-
mini ad amarsi, e a congiungersi fra loro». Ma la lingua
non è solo il tessuto connettivo dell’umana società; è la
vivente tradizione del sapere umano, per cui la scienza si
realizza e si trasmette: «non si può ricevere alcuna scien-
za, se non ci è insegnata da altrui...; la conversazione è
non solamente giovevole, ma necessaria alla perfezione
dell’uomo».
Anzi principio e fine d’ogni sapere è proprio questo
dialogo umano («il sapere comincia dal conversare e fi-
nisce nel conversare»), in cui non solo si mette a pro-
va il nostro sapere («la disputa è il cribro della verità»),
ma si sveglia l’anima nostra, e si incita a feconda ricerca.
Umanità, anzi, è questo conversare, questo parlare, que-
sto dialogo, che in sé riassume ogni concreto significato
della vita spirituale. «Si potrebbe dar l’elleboro al solita-
rio come al pazzo, e qualunque persona avrà riguardo...

hensis artes omnes et scientias tradit ratiocinationes et ceteras


argumentationes generales facit».

Storia d’Italia Einaudi 194


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

all’etimologia della voce uomo, che nella lingua greca, se-


condo il parere d’alcuni dotti scrittori, significa insieme,
s’accorgerà che non si può essere uomo senza conversa-
zione, perché chi non conversa non ha esperienza, chi
non ha esperienza non ha giudicio, chi non ha giudicio è
poco men che bestia»187 .
Sottinteso alla trattazione modesta ma fortunata del
Guazzo, menzionata qui quasi come esemplare, è l’altro
problema del rapporto fra retorica e filosofia, fra una lo-
gica formale e il vario vivente processo per cui la veri-
tà s’ingenera e si comunica. Problema che forse nessun
trattatista propose e chiari con la lucidità dello Speroni,
non a caso uscito dalla scuola del Pomponazzi188 . Nel
Dialogo delle lingue lo Speroni si proponeva la questio-
ne del latino e del greco, domandandosi se, al posto della
logica formale, debba porsi lo studio delle lingue classi-
che, quasi di per sé sufficiente all’apprendimento del ve-
ro («non altramente che se lo spirito d’Aristotele, a gui-
sa di folletto in cristallo, stesse rinchiuso nell’alfabeto di
Grecia»). Era, ed egli se ne rendeva ben conto, sostituire
al formalismo un altro formalismo. Humanitas aveva si-
gnificato ritrovamento, attraverso la parola, di un pensie-
ro; e, nei classici, attraverso un’espressione sorvegliatissi-
ma e adeguatissima, di un pensiero sommo. La degenera-
zione degli studia humanitatis aveva portato con sé il gra-
ve errore che una lingua potesse aver «da se stessa privi-
legio di significare i concetti del nostro animo», inducen-
do nella stolta credenza del latino e del greco esprimenti
per sé le strutture logiche del pensiero in forma definiti-
va. Quello che si era verificato con la logica aristotelica,
valida finché viva in un pensiero, ma morta e inutile se

187
STEFANO GUAZZO, La civil conversazione (Venezia,
1586), p. 14.
188
SPERONE SPERONI, Dialoghi, Venezia, 1552, c. 110
sgg.

Storia d’Italia Einaudi 195


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

considerata come schema fisso e immutabile, tornava ad


attuarsi con le lingue antiche, staccate dall’intenzionali-
tà originaria dell’animo ( «ma tutto consiste nell’arbitrio
della persona»).
Tuttavia se lo Speroni, com’è naturale, difende l’uma-
nità del volgare, sente in pieno il problema della retori-
ca come arte del persuadere di fronte alla logica, come
filosofia che possiede la verità e la sua norma. La solu-
zione più semplice e più comune, e la troviamo nel To-
mitano, che l’espose appunto all’accademia degl’Infiam-
mati, presidente lo Speroni, tendeva a mostrare «la filo-
sofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta», come
quella che doveva trovar la verità, perché poi il retore la
potesse presentare «con eleganza», in modo da persua-
dere, addolcendo di soavi licori gli orli del vaso pieno di
farmachi salutari189 .
Anche lo Speroni muove da una posizione analoga, ri-
conducendo la retorica entro i limiti di un abbellimen-
to dei termini, fatto allo scopo di rendere più accettabi-
li i concetti («un gentile artificio d’acconciar bene e leg-
giadramente quelle parole, onde noi uomini significhia-
mo l’un l’altro i concetti dei nostri cuori»). Onde la re-
torica sembra ridursi sotto il concetto dell’arte, destina-
ta ad abbellire con scopi educativi la verità. Lo Speroni,
così, paragona la retorica alla pittura; «le parole nascono
al mondo dalla bocca del volgo, come i colori dalle erbe;
ma il grammatico dell’orator famigliare, quasi fante di di-
pintore, quelle acconcia e polisce, onde il maestro della
retorica dipingendo la verità, parli e ori a modo suo». E,
tuttavia, come al pittore non basta vedere la natura e la

189
B. TOMITANO, Quattro libri della lingua toscana... ove
si prova la filosofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta con
due libri nuovamente aggiunti di precetti necessari allo scrivere
e parlare con eleganza, III ed., Padova, 1570 (nell’ed. veneta
del ’46 al secondo libro è aggiunta una notevole parafrasi della
Retorica d’Aristotele).

Storia d’Italia Einaudi 196


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sua verità, ma conviene «lungamente dimenticarsi» per


tradurne l’ineffabile anima, conì il retore deve conoscere
«un certo non so che della verità che di continuo ci sta
dinanzi»; di quella verità che ci parla e ci vive nel cuo-
re, «sì come cosa, la quale nei nostri animi, naturalmen-
te di saperla desiderosi, sin da principio volle imprimer
Domenedio»190 .
E qui, evidentemente ricordando la fine del Fedro pla-
tonico, lo Speroni fa un passo avanti, attribuendo alla re-
torica e alla poesia la funzione di svegliar l’anima, susci-
tando in noi la verità. Non, dunque, abbellimenti del ve-
ro, e al vero subordinati e posteriori, ma del vero nun-
zi e presentimenti, o, meglio, guide e indici della verità
stessa nel processo del suo articolato ritrovamento. Ai fi-
losofi, egli osserva, poesia e retorica possono sì sembra-
re simili alla frutta che si serve alla fine del pranzo, «ma
a coloro che già non sono, e son per farsi filosofi, le due
arti predette sono i fiori che innanzi ai frutti delle scien-
ze, le menti loro di fruttare desiderose, quasi pianta la
primavera, si dilettano di fiorire».
La insostituibile funzione della retorica è proprio nel-
l’educare, nell’insegnare, nel trasformare un presenti-
mento in un possesso, nel persuadere e nel formare. «In-
darno adunque d’insegnare... non dilettando ci fatichia-
mo... e dilettando senz’altro – quanta è la forza del com-
piacere – siamo possenti di persuadere». E solo in que-
sta persuasione, in questo attivo raggiungimento del ve-
ro, ottenuto in una calda collaborazione che è l’ideale
colloquio, sottinteso eppure immancabile, se la parola è
suasiva; solo così riportiamo «la desiata vittoria, non per
forza,... ma come grazia a noi fatta dagli ascoltanti... E
veramente quello è buono oratore, il qual parlando d’al-
cuna cosa principalmente, non con la causa trattata, sì

190
S. SPERONI, Dial. della Rhettorica (Dialoghi, Ven.
1596, c. 130 sgg).

Storia d’Italia Einaudi 197


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

come fanno i filosofi, ma con l’arbitrio, col nuto, e col


piacere degli auditori, tenta e procura di convenire».
Senonché, per questa via, se a parole si fanno onori ai
filosofi, in realtà si celebrano i rétori, cui non spettano,
è vero, le solitarie fisiche contemplazioni, ma rimango-
no le reali e umane conversazioni civili. Per questo, pro-
ponendosi la questione se a capo delle repubbliche uma-
ne debbano stare i filosofi o i rétori, lo Speroni non esi-
ta. Le leggi delle città terrene «per oneste cagioni, aven-
do rispetto ai tempi, ai luoghi, alla utilità, alle sue for-
ze e all’altrui, spesse fiate da un dì all’altro mutano for-
ma e sembiante». Le leggi non sono Dee; sono umani
prodotti, che vengono trasformati in idoli. Ora il sag-
gio reggitore deve non già conformarsi a una rigida nor-
ma universale, ma «ragionevolmente» comprendere ciò
che è reale. «Ragione è bene che le nostre repubbliche,
non da scienze dimostrative vere e certe per ogni tempo,
ma con retoriche opinioni variabili e tramutatili – quali
son le opere e le leggi nostre – prudentemente sian go-
vernate». Che è poi, condotto a consapevolezza e giusti-
ficato, l’appello del Guicciardini al particolare in antitesi
con la considerazione del Machiavelli per l’universale, ri-
gidamente necessario. E par di leggere, dei Ricordi, quel
celebre avvertimento: «è grande errore parlare delle co-
se del mondo indistintamente e assolutamente, e, per di-
re così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione
ed eccezione per la varietà delle circumstanze, in le qua-
li non si possono fermare con una medesima misura; e
queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in
su’ libri, ma bisogna lo insegni la discrezione».

5. La questione della lingua

V’era, in questo ricercare il valore della retorica, e nel


contrapporla, per la sua aderenza al concreto, alla logica,

Storia d’Italia Einaudi 198


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

non tanto una condanna della filosofia in genere, quanto


una manifesta insoddisfazione di certa scolastica filoso-
fia, unita alla fiducia di raggiungere la realtà umana per
altre vie. Né vi sarà da stupire se i più accorti letterati, i
figli dei più profondi umanisti, proprio per amor del con-
creto, andranno, sul piano linguistico, difendendo, non
il latino, ma il volgare. Ché la pretesa di mantenersi fer-
mi al latino era in fondo appoggiata all’idea di una nor-
ma fissa nell’umana società, che è, invece, moto e svilup-
po e vita. I classici, riconducendo all’umanità effettua-
le, dopo aver grecamente e latinamente insegnato, in no-
me di quell’insegnamento stesso dovevano indurre a ri-
pudiare il greco e il latino. Come in un testo dello Spe-
roni dice il Pomponazzi, assai più schietto era l’Aristote-
le riesposto in mantovano da chi ne comprendeva dav-
vero l’ideale intenzione, che non l’Aristotele chiosato in
greco da chi non andava oltre la forma estrinseca. Appa-
rente capovolgimento, dunque, in quella difesa del vol-
gare che si andrà allargando nel ’500 tra coloro che ave-
van tratto vital nutrimento dagli studi delle lettere, e per
fedeltà alla schiettezza umana vagheggiata dagli antichi
affermavano ora il diritto per gli uomini di esprimersi in
modo adeguato al proprio sentire. E se non giova riper-
correre qui la vasta letteratura che, dal Bembo al Caro, al
Trissino, al Varchi, al Castelvetro, al Muzio, al Tolomei
e agli altri moltissimi, minutamente esaminò nei suoi va-
ri aspetti il problema del volgare, conviene tuttavia men-
zionare la precisa affermazione del Varchi essere il volga-
re nuova lingua, che rispetto alla latina «non si dee chia-
mar corruzione, ma generazione». E le stesse lingue poe-
tiche son barbare finché sono alterazione erronea del la-
tino, ma non più «tanto barbare, quanto per avventura
credono alcuni», se si coglie in esse il nascimento di una
nuova lingua.
Alla scuola degli antichi, cercati polemicamente con-
tro i moderni, si imparava alla fine a rispettare i moder-

Storia d’Italia Einaudi 199


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ni e a comprenderne la modernità, il cui significato e le


cui conquiste proprio alla luce delle precedenti conqui-
ste trovavano sapore e valore191 .

6. La poetica

Vincenzo Maggi, e con lui Bartolomeo Lombardi, com-


mentando la Poetica d’Aristotele, e sostenendo che la
poesia è al servizio della morale, non esitarono a ridur-
re poesia e poetica all’etica192 . I platonici, come il Patrizi,
Francesco Piccolomini e, specialmente, Jacopo Mazzo-
ni, affermarono essere la poetica disciplina civile, men-
tre il Patrizi dichiarava addirittura esser l’opuscolo ari-
stotelico il nono libro della Politica. Gli aristotelici più
ortodossi la riconducevano invece alla logica, e senten-
ziavano col Varchi esser «la dialettica, la loica e la poeti-
ca... quasi una medesima cosa, non essendo differenti so-
stanzialmente ma per accidente». Anzi, essendo la poe-
tica «parte o spezie della loica, nessuno può esser poe-
ta, il quale non sia loico: anzi quanto ciascheduno sarà
miglior loico, tanto sarà ancora più eccellente poeta».
In entrambi i casi alla poesia si attribuiva un compito
strumentale, educativo, morale, ma non certo illuminan-
te. Se il platonismo aveva cercato nel bello una ascesa a
Dio, l’aristotelismo vi vede un mezzo di formazione mo-
rale o di chiarificazione intellettuale, sussidiaria alla logi-
ca, sul piano della retorica. E di questo si deve tener con-
to nel considerare il largo interesse con cui il ’500 guardò

191
L’Ercolano, dialogo di BENEDETTO VARCHI, dove
si ragiona delle lingue e in particolare della toscana e fiorenti-
na con la correzione di LODOVICO CASTELVETROe la
Varchina di GIROLAMO MUZIO, Firenze, 1846.
192
In Aristotelis librum de Poetica explanationes, Venetiis,
1560. Gli scritti del Varchi nella cit. ed. delle Opere, vol. II.

Storia d’Italia Einaudi 200


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

alla Poetica, messa dapprima in circolazione dalla versio-


ne latina di Giorgio Valla (1498), ma poi pubblicata nel
testo, e di nuovo tradotta in latino e in volgare, e com-
mentata, parafrasata, illustrata dal Pazzi, dal Segni, dal
Maggi, dal Vettori, dal Castelvetro, dal Piccolomini, per
non parlare delle trattazioni del Vida, del Trissino, del
Daniello, del Giraldi, del Muzio, del Varchi, del Mintur-
no, dello Scaligero, del Tasso, e dei moltissimi minori.
Se l’ispirazione platonica delle discussioni intorno al
bello non si attenuava, l’aristotelismo riconduceva le di-
scussioni estetiche nell’ambito della comunicazione o
«conversazione» umana, chiedendosi qual sia l’oggetto
della rappresentazione poetica, e quale la funzione prati-
ca del poetare. «Poeta è chi scrive cose finte, e amplia le
vere, riducendole alla perfezione della qualità convenien-
te al suggello preso a manifestare». Così il quasi ignoto
Alessandro Sardo; ma non diversamente gli altri trattati-
sti, per cui poetare è imitare «cioè fingere o rappresen-
tare», come dice il Varchi, «per ammendare e corregge-
re la vita» senza fatica alcuna, ma con «diletto grandissi-
mo». E per giungere a quella tal rappresentazione con-
verrà che il poeta conosca un po’ tutto, e sia scienzia-
to prima che poeta; «è di mestieri al poeta... d’aver co-
gnizione dell’arti e delle scienze..., e geografo e astrologo
o teologo e d’ogni altra scienza bene intendente dimo-
strarsi». Così Bernardo Tasso per cui l’artista deve es-
sere còlto in tutto, e di tutto avere esperienza, per pote-
re poi «tutte quelle ricchezze... con lucidissimo ordine
e con vaghe parole accomodare a’ luoghi loro»; e que-
sto allo scopo di adornare la mente degli uomini d’ottimi
costumi193 .

193
SARDO, Discorsi, p. 76; VARCHI Della poetica, Opere
II, 685; BERNARDO TASSO, Ragionamento della poesia, in
Opuscoli inediti o rasi di classici o approvati scrittori, tomo I,
Firenze, 1845, p. 174.

Storia d’Italia Einaudi 201


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Le quali conclusioni garbatamente esponeva, traen-


dole «dall’erudito Robortello, dal nostro giudiziosissi-
mo messer Vincenzo Magi, e dall’eccellente messer Pier
Vittorio». Senonché proprio qui s’inserivano i maggio-
ri problemi; non basta ripetere, come fanno un po’ tutti,
che essenza della poesia, e dell’arte in genere, è «fingere
o rappresentare» la realtà mescolando il vero col fittizio
(«addit ficta veris, aut ficta veris imitatur», dice lo Scali-
gero). Non basta concludere sentenziosamente imitatur
ut doceat; si tratta di cogliere il modo di quella poetica
imitazione, che è, innanzitutto, un fabbricare apparente,
che produce immagini di cose non come sono, ma come
potrebbero e dovrebbero essere, con lo scopo di dilet-
tare, insieme, e di educare194 . Che è l’elaborata conclu-
sione cui lo Scaligero giunse dopo le dissertazioni dei Ca-
priano, dei Leonardi, dei Minturno, e, specialmente, del-
l’acuto Castelvetro, intorno al tormentatissimo parallelo
fra poesia e storia, e alla natura specifica della imitazio-
ne poetica. Qual è, infatti, l’oggetto imitato? Non raro è
l’appello al classico esempio di Zeusi che trasse l’imma-
gine di una bellissima fanciulla dalla vista di più modelli
racchiudenti ciascuno una perfezione singola.
Vi insiste, fra gli altri, Giulio Cammillo, che nel Di-
scorso sopra Hermogene, pubblicato dal Patrizi e lodato

194
JULII CAESARIS SCALIGERI Poetices libri septem,
Apud Petrum Santandreanum. 1594, p. 2: «differunt autem
(Historia et Poesis), quod alterius fides certa verum et profite-
tur et prodit, simpliciore filo texens orationem, altera aut addit
ficta veris, aut fictis vera imitatur, maiore sane apparatu... Hanc
autem Poesim appellarunt, propterea quod, non solum redde-
ret vocibus res ipsas quae essent, verum etiam quae non essent,
quasi essent, et quo modo esse vel possent, vel deberent, re-
praesentaret. Quamobrem tota in imitatione sita fuit. Hic enim
finis est medium ad illum ultimum, qui est docendi cum de-
lectatione». Cfr. B. WEINBERG, Scaliger versus Aristotle on
Poetics, «Mod. Philol.», 1942, pp. 337-60.

Storia d’Italia Einaudi 202


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dal Tasso, si riferisce come a carattere proprio dell’imi-


tazione poetica all’unità realizzata attraverso la sintesi ul-
tima, in un’unica forma, di molti aspetti particolari. Il
poeta, insomma, organizza i dati singoli in modo da da-
re, non un mucchio di elementi, ma un’unità vivente, un
organismo; come osserva il Giraldi Cintio, «mi pare che
si possano assomigliare i corpi de’ poemi alla compositu-
ra del corpo umano»195 . Ma che il ’500 veda l’imitazio-
ne poetica come tentativo di rappresentar la vita vivente
della realtà, è stato spesso osservato. Ciò che più impor-
ta è il notare come la discussione non si fermi qui, ma si
voglia render ragione più a fondo della differenza fra il
puro e semplice ritrarre ciò che è, e l’opera poetica, che
oltrepassa, non solo la fedeltà storica, ma la realtà stes-
sa qual è. Nell’esempio di Zeusi è implicito il concetto
che l’arte esprime sensibilmente, in una sua creatura vi-
sibile, ciò che è quasi disperso e diffuso nei molti («colui
che imita un perfetto, imita la perfezion di mille raunata
in uno»). Ma proprio questo concretare in un’immagi-
ne singola il tutto, sembra insieme far vivere in una sola
realtà tutta la vita, esaltando oltre il consueto una indivi-
dua singola creatura. Onde necessario all’arte sembra il
continuo trascorrere «tutti li sensi favolosi, come di Sa-
turno, de’ Titani, de’ Giganti, e Centauri, e Sirene, e Tri-
toni, e Lestrigoni, e Ciclopi, e Perseo. Dir cose che ec-
cedano la natura dell’uomo, ma mostruosamente... Dir
che cose inanimate servano agli Iddii con alcuno senso...
Dir universalmente e mostruosamente le cose impossibi-
li e incredibili...». Ma, di continuo, conviene trapassare
di nuovo dal divino nel concretissimo ( «sottilmente nar-
rar le cose particolarmente»), e calare il divino, l’assolu-
to ( «non parer dir da se stessi quelle cose che si dicono,

195
Opere di M. GIULIO CAMMILLO, Venezia, 1560,
vol. II, p. III; G. B. GIRALDI CINTIO, Scritti estetici, 1864,
vol. I, p. 20.

Storia d’Italia Einaudi 203


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ma... far che l’orazione paia propria degli dei») per entro
quanto v’è di più simile e determinato («nell’istoria ciò
renderebbe bassezza»)196 .

7. Il «Naugerius» di Girolamo Fracastoro

Se l’esame dei concetti aristotelici dell’imitazione, come


fondamento dell’attività poetica, e del verosimile come
suo oggetto, tendeva a precisare i caratteri dell’arte co-
me forma dell’umana produzione, il vecchio lievito pla-
tonico agiva col motivo della bellezza liberatrice, espres-
sione sensibile della bontà, elevazione dell’anima a Dio.
È ben difficile, non dirò opporre, ma anche solo chiara-
mente distinguere un tema aristotelico da uno schietta-
mente platonico, sol che si vada oltre la precettistica, o
l’insieme di osservazioni singolari. Come l’imitazione ci
rimanda a ciò che, di là dall’apparenza, è forma univer-
sale fatta sensibile, valore eterno sensibilizzato, fatto vi-
sibile, così la funzione liberatrice dell’arte ci riconduce
entro l’ambito dell’eros come spinta verso il divino.
Bernardo Tasso, dopo avere esaltato la felicità del suo
secolo per aver finalmente scoperto «la Poetica di quel
famosissimo Filosofo, la quale con tanto ordine e sì par-
ticolarmente insegna l’arte del poetare», conclude poi,
citando Platone, che «il fine della Poesia non è altro che,
imitando le umane azioni, con la piacevolezza delle favo-
le, con la soavità delle parole in bellissimo ordine con-
giunte, con l’armonia del verso, gli umani animi di buo-
ni e gentili costumi e di varie virtù adornare». Dal quale
moralismo e pedagogismo non era poi difficile trapassare
nel platonismo di Torquato Tasso che mette in bocca al
Minturno, nel dialogo a lui intitolato, formule degne del-

196
GIULIO CAMMILLO, Opere, II, p. 119 (Cfr. I, p.
219).

Storia d’Italia Einaudi 204


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

la più rigida ortodossia ficiniana. Infatti, dopo aver pro-


spettato la tesi secondo cui la bellezza sarebbe «una vit-
toria che la forma riporta della materia», o, meglio, «un
sembiante, ovvero una immagine del bene», viene esclu-
dendo dal concetto stesso di bellezza ogni contaminazio-
ne di materia. «Laonde io mi meraviglio del Nifo e degli
altri Peripatetici, che riposero la bellezza nella materia,
perch’ella è per sua natura brutta e deforme oltremodo,
anzi è la bruttezza istessa: laonde il bello ai troverebbe
nel brutto, quasi in proprio soggetto: il che mi pare mol-
to sconvenevole, perché il bello dee germogliar nel bel-
lo, quasi fiore in fiore». E così la bellezza sembra sfuggi-
re ogni umano contatto e «non patisce d’esser descritta,
o circoscritta dal luogo, dal tempo, dalla materia, o dalle
parole»197 .
Naturalmente il Tasso non si tenne fermo a questa
posizione estrema, ma venne mitigandola nell’asserzio-

197
BERNARDO TASSO, loc. cit., pp. 174, 179; TOR-
QUATO TASSO, Il Minturno ovvero della bellezza (Prose fi-
losofiche, Firenze, 1847, 413). Cfr. nei Discorsi sul Poema Eroi-
co: (disc. II,. Venezia, 1587, c. 10 r). «Scelta ch’avrà il Poeta
materia per se stessa capace d’ogni perfezione, li rimane l’altra
assai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizione poe-
tica, intorno al quale officio, come intorno a proprio soggetto
quasi tutta la virtù dell’arte si manifesta. Ma però che quello
che principalmente costituisce e determina la natura della Poe-
sia, e la fa dall’Istoria differente, è il considerar le cose non co-
me sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere state
avendo riguardo piuttosto al verisimile in universale che alla ve-
rità dei particolari, prima d’ogn’altra cosa deve il Poeta avverti-
re se nella materia ch’egli prende a trattare v’è avvenimento al-
cuno il quale altrimente essendo successo o più del verisimile, o
più del mirabile o per qualsivoglia altra cagione portasse mag-
gior diletto e tutti i successi che sì fatti trovarà, cioè che meglio
in un altro modo potessero essere avvenuti senza rispetto alcu-
no di vero o di Istoria, a sua voglia muti e rimuti e riduca gli ac-
cidenti delle cose a quel modo ch’egli giudica migliore col vero
alterato il tutto finto accompagnando».

Storia d’Italia Einaudi 205


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ne che bellezza è armonia de’ dissimili («proporzione e


misura delle cose che hanno parti dissimili»), segno im-
perfetto di un’unità increata ch’è oltre la bellezza («Dio...
non è bello né perfetto perché non è fatto»).
Ma colui che meglio d’ogni altro riuscì ad armonizza-
re il tema dell’imitazione aristotelica con i più fini motivi
platonici fu il Fracastoro nel suo Naugerius sive de Poe-
tica dialogus, ov’è chiaramente detto che il poeta imita,
non la cosa, ma l’idea, e che così facendo non fa che rea-
lizzare nel modo più pieno e più perfetto la cosa medesi-
ma nella sua compiuta realtà.
In genere, tutta la trattatistica aveva inteso l’arte o, pla-
tonicamente, come invito ad evadere verso i cieli dell’i-
dea, o, in modo più aderente allo spirito mondano dell’a-
ristotelismo, come formazione umana, e, soprattutto, co-
me dilettosa forma d’educazione. Per Fracastoro, se pur
sono innegabili le risonanze educatrici dell’arte, la poe-
sia trova in se stessa il proprio fine e la propria misura. E
di qualunque argomento essa tratti o discuta, ne discu-
te e ne tratta sempre in quanto poesia, poeticamente, se-
condo quel suo peculiar modo ond’è, appunto, poesia.
Per questo, neppure è lecito porre una qualsiasi mate-
ria come peculiare del poeta; omnis materia poetae con-
venit. Ma, se mai, sarà propria del poeta l’arte di ben di-
re, di esprimere, cioè, l’idea rivestendola di bellezza (idea
simplex, pulchritudine vestita), realizzandola a pieno nel-
la sua libertà d’espressione, e nella completezza del suo
significato (liberam et in universum pulchram). Il poe-
ta non finge e non falsifica; è colui che vede ed esprime
l’idea nella sua visibile bellezza.
Proprio nella precisione sistematica, con cui riprende,
e quasi conclude e concilia tesi varie e contrastanti, sta la
radice del successo del dialogo fracastoriano. Ove si par-
te dalla natural tendenza dell’uomo a imitare e a canta-
re (natura insitum canere, et musica quadam agi), per de-
finir la poesia, al di fuori dei suoi effetti (piacere, inse-

Storia d’Italia Einaudi 206


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

gnamento, meraviglia), e dei suoi contenuti, in funzione


esclusiva del suo raggiungimento dell’universale198 . Uni-
versalità che, per Fracastoro, è, insieme, libertà199 .

198
Naugerius (H. FRACASTORII Opera omnia, Venetiis,
1584), c. 115-116: «alii singulare ipsum considerant, poeta ve-
ro universale, quasi alii similes sint illi pictori, qui vuitus et re-
liqua membra imitatur, qualia prorsus in re sunt, poeta vero il-
li assimiletur qui non hunc, non illum vult unitari, non uti forte
sunt, et defectus multos sustinent, sed, universalem et pulcher-
rimam ideam Artificis sui contemplatus, res facit, quales esse de-
ceret. Quippe omnes, quibus bene dicendi facultas tributa est,
bene quidem atque apposite dicunt, quantum cuique convenit.
Sed inter illos hoc interest, quod, praeter poetam, nullus simpli-
citer bene atque apposite dicit, sed in genere suo tantum et quan-
tum attinet ad constitutum sibi finem, hic quidem docendi, ille
persuadendi, et siquis eiusmodi finis est. Poeta vero per se, nul-
lo alio... fine, nisi simpliciter bene dicendi circa unumquodque
propositum sibi...».
199
«Vult quidem, et ipse, et docere et persuadere et de aliis
loqui, sed non quantum expedit, et satis est ad explicandam
rem, tamquam adstrictus eo fine, verum ideam sibi aliam faciens
liberam et in universum pulchrum, dicendi omnes ornatus, om-
nes pulchritudines quaeret, quae illi rei attribui possunt.» «Non
...rem nudam, uti est, ...sed simplicem ideam, pulchritudinibus
suis vestitam, quod universale Aristoteles vocat...» Interessan-
te, in una lettera al Ramusio, l’allusione ai commentatori del-
la Poetica (Lettere di XIII huomini illustri, pp. 738-39): «quan-
to mi scrivete del commento d’Averroè sopra la Poetica, io non
l’ho mai veduto, né curato di vedere, perché non ci può esse-
re cosa se non da ridere, eccetto s’egli non citasse qualche com-
mentator Greco, onde si potesse cavar qualch’utile. Quello del
Robortello io non ho veduto, similmente, né quello del Maggio
bresciano, che intendo ha fatto favor grande al nostro povero
M. Bartolomeo Lombardo, attribuendogli tanto».

Storia d’Italia Einaudi 207


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

RICERCHE MORALI

1. Moralità e «modi civili»

Uno dei testi classici della trattatistica cinquecentesca,


il Galateo di Monsignor Giovanni Della Casa, ove si
vien formando un giovane a ben vivere «nella comune
conversazione», si apre con una serie di rilievi veramente
interessanti. L’uomo non è chiamato in ogni momento
della sua vita a cimentarsi nei più tragici conflitti, né
deve ad ogni istante dar prova delle sue più alte virtù.
La vita d’ogni giorno non ci vede combattenti contro
tigri circasse o leoni africani, ma contro fastidiosissime
mosche e zanzare dei nostri paesi. «La giustizia, la
fortezza, e le altre virtù più nobili e maggiori, si pongono
in opera più di rado, né il largo e il magnanimo è astretto
di operare ad ogni ora magnificamente; anzi non è chi
possa ciò fare in alcun modo molto spesso, e gli animosi
uomini e sicuri similmente rade volte sono costretti a
dimostrare il valore e la virtù loro con opera». Ma se
la virtù nelle sue forme eroiche è dei giorni di festa, ai
giorni comuni appartiene invece la convivenza operosa
con gli uomini, «e la convenevolezza de’ modi, e delle
maniere, e delle parole, giovano non meno a’ possessori
di esse che la grandezza dell’animo, e la sicurezza altresì,
a’ loro possessori non fanno». I «modi» son quelli che
più ci congiungono ai nostri simili; e se peccare contro
questa «conversazione» non è, certo, peccato mortale,
tuttavia la natura subito ci punisce con somma gravezza,
«privandoci, per questa cagione, del consorzio e della
benivolenza degli uomini».
Su una distinzione fra doti del costume e virtù morale,
fra socialità e moralità, il Della Casa impianta gran par-
te della sua trattazione, in cui, per altro, tutta la moralità

Storia d’Italia Einaudi 208


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

viene veramente vivendo e distendendosi in quell’umano


costume, «che a chiunque si dispone di vivere, non per
le solitudini o ne’ romitori, ma nella città e tra gli uomi-
ni», serve come base fondamentale per ogni attività se-
riamente valida. E in quel costume prende corpo e con-
cretezza la virtù, facendosi, da solitaria esercitazione, vi-
ta concreta200 . Non diversamente, del resto, da quanto
ci induce a concludere una lettera che nel ’49, sempre il
Della Casa, indirizzava ad Annibale Rucellai a proposi-
to dell’eloquenza. La quale, veramente, trasforma la let-
tera morta in vivo spirito, e della scienza, e perfino del-
la massima evangelica, fa persuasione operante. «Il Van-
gelo c’insegna, che noi amiamo il prossimo; ma il predi-
catore, s’egli è buono oratore, ci sforza a ire a trovare il
nostro nimico, ed abbracciarlo».
L’opera è maturata, non dal sapere freddo, ma dal ca-
lore di un contatto umano; «quello che io non fo... leg-
gendo la Scrittura, e poi fo udendo la predica, è tutto
opera e frutto dell’eloquenza», la quale è arte di consen-
tire, di comunicare, di convenire, ed è "«differente dalla
dottrina e dalla erudizione».
Di qui una moralità che è, soprattutto, sincerità di
rapporti fra uomini e, insieme, pienezza di educazione di
uomini; che è, insomma, disciplina, come nel Cortegiano
definiva il Castiglione. Per il quale ogni uomo, ha, senza
dubbio «incluso e sepolto nell’anima» il seme delle virtù
morali; ma v’è necessità del «bono agricultore», che
coltivi ed apra la via a quei semi; v’è necessità «della
artificiosa consuetudine», la quale trasformi l’uomo e lo
faccia veramente umano. E questo, non già estirpando

200
DELLA CASA, Galateo, p. 4-6; Lettere, p. 75 (Sul Della
Casa cfr. L. CARETTI, Giovanni della Casa, uomo politico e
scrittore, nel vol. Filologia e critica, Milano-Napoli, 1955, pp.
63-80).

Storia d’Italia Einaudi 209


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

gli affetti, come voglion di Stoici, ma armonizzandoli per


entro una misura201 .
Tutto il Cortegiano, col suo spirito inconfondibile, è in
questa valutazione della passione umana, che va tempe-
rata, non strappata. Agostino Nifo, nel suo opuscolo De
principe (Libellus de his quae ab optimis principibus agen-
da sunt, uscito in Firenze nel 1521), osservava appunto
che temperante è, non chi non desidera, ma chi debita-
mente desidera («qui quae debet, et ut debet, et quando
debet, concupiscit»).
Si capisce così, che fondamentale rimanesse il proble-
ma della educazione; e cioè del trarre a compimento i se-
mi latenti di virtù, «levando... le spine e ’l loglio», finché
maturino felici frutti. Né a caso le due opere ora menzio-
nate, insigni nella produzione del secolo, sono indirizza-
te entrambe a formare l’uomo «civile»202 . Ed uno dei più
prolissi chiosatori della Nicomachea, Felice Figliucci, che
pubblicò proprio a mezzo il ’500 il suo vasto e fortuna-
to libro Della filosofia morale, ov’è pur tanto platonismo,
insisteva sulla necessità che, «prima che alla contempla-
zione e speculazione ci mettiamo», si conoscano bene le
nostre passioni ed affetti per renderli «mitigati e compo-
sti». Solo in questo equilibrio armonico della vita emoti-
va «l’animo nostro al tutto preparato e disposto rendia-

201
CASTIGLIONE, Il Cortegiano, I, 14.
202
Rientra in certo modo in questa linea L’Anassarcho del
Lapino (Frosino Lapini), o vero Trattato de’ Costumi, o modi che
si debbono tenere, o schifare nel dare opera agli studij. Discorso
utilissimo ad ogni virtuoso e nobile scolare, Firenze, 1571 (cfr.
p. 74: «non per altro son dati i Precettori a’ discepoli, che per
iscoprire e migliorare con l’arte quel che la natura, come suo
più caro dono, dentro a l’uomo ha occultato e racchiuso...»).
Del Lapini, il biografo del Diacceto, vedi anche le Stanze sopra
la dignità dell’huomo, Firenze, 1566 e una Lezione del fine della
poesia, Firenze, 1567.

Storia d’Italia Einaudi 210


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

mo a ricevere in sé il seme che la contemplazione vi spar-


ge».
Né ci inganni troppo, anche nel Figliucci, la concla-
mata superiorità del contemplare, somma attività dell’in-
telletto, ma, appunto per questo, riserbata agli angeli e
agli spiriti puri, «dove le azioni e le opere morali e vir-
tuose sono proprie dell’uomo»203 .

2. La «institution» dell’uomo

Uomo significa – insiste Alessandro Piccolomini – un


«animale civile e comunicativo». Di questo dobbiamo
occuparci, e questo, appunto, dobbiamo formare. Che
se anche fosse possibile che un uomo, materialmente par-
lando, potesse viver solo, e da solo soddisfare ai propri
bisogni, non uomo sarebbe, ma «di ferro e di marmo», se
non comunicasse con i suoi simili. In terra, solo attraver-
so la comunicazione umana l’uomo si solleva verso Dio, e
giunge alla felicità; «dilettevolissima... è la communican-
za e la natural benevolenzia..., conciosiacosa che... per
il mezzo di questa umana benevolenzia l’uomo all’uo-
mo, beneficandosi insieme e aiutandosi, simile si rende
a Dio».
L’aristotelico Piccolomini, non solo pone l’indiamen-
to nell’azione comune, ma la scienza stessa e la contem-
plazione connette in modo indissolubile con la sua con-
dizione «civile, amicabile, benefica, conversativa». Poi-
ché l’uomo è parola; poiché unico fra gli animali emette
non voci e grida, ma parole e discorsi, con cui non soltan-
to formula agli altri i suoi pensieri e ritrovati, ma li per-
feziona, collaborando, in un modo che al solitario sareb-
be precluso. Con molta chiarezza il Piccolomini insiste

203
FELICE FIGLIUCCI, Della filosofia morale libri dieci
sopra i dieci libri dell’Etica d’Aristotele, Venezia, 1552, cc. 3-5.

Storia d’Italia Einaudi 211


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

su questa continuità della formazione del genere umano,


e di un sapere scientifico, che solo una tradizione di sfor-
zi collettivi può costituire. «Perché all’uomo... più ol-
tre conviene che al diletto e dolor del senso solo rispet-
to avere, non bastandogli la voce sola per quello che trat-
tar doveva, [la natura] gli volse dar la favella con la qua-
le i varii pensieri e le diverse invenzioni, che intorno al-
le scienzie e alle operazioni utili e virtuose con la ragione
forma nella mente dentro, potesse, communicando il tut-
to con la favella, far si che, soccorrendosi gli uomini ed
aiutandosi e supplendo l’uno a quel che comincia l’altro,
riducessero a perfezione le scienze e le virtù; dalle qua-
li due cose depende il lor sommo bene e la felicità loro».
Chi, fuori dalla conversazione umana, si ritiri sui monti o
nelle selve, «per pazzia o... mala fortuna», se ancora ab-
bia volto d’uomo, si ridurrà a discorrere «con gli sterpi
e co’ sassi». Ma già sarà decaduto dalla sua natura, per-
ché il «solitario, veramente piuttosto fiera che uomo si
dee stimare», avendo bisogno l’uomo, «per commodo e
per ornamento della sua vita», di cose che «senza l’aiuto
d’altri non può avere».
Il Piccolomini, appunto perciò, batte sui due motivi
della educazione perenne ( «educa... ed è educato») e
della vita civile, della città, «la qual tutte l’altre commu-
nicanze, amicizie e parentele abbraccia, e circonda; per
la cui salute ha da por l’uomo le sostanzie, gli amici, i pa-
renti, e ’l sangue proprio s’ella bisogno n’avrà mai». Na-
sce così, intorno al ’40, quella Instituzione dell’uomo no-
bile, nato in città libera, che, più volte largamente rima-
neggiata, ebbe larga fortuna e diffusione per tutto il se-
colo. Opera, com’egli si compiaceva di dire, economica
e politica, oltreché morale, che cominciava dal conside-
rare la città «libera», e nella vita civile tendeva a risolve-
re, come strumenti, tutte le scienze e le arti. Delle quali
lo vediamo introdur via via la trattazione, proprio e solo
in funzione di quella società che, unica, è capace di da-

Storia d’Italia Einaudi 212


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

re all’uomo la felicità. «Uomini, non angeli siamo», egli


insiste, e «divina cosa è lo speculare», né «a noi proprio,
mentre che uomini siamo». «Laonde è cosa degna di ma-
raviglia che tanti signori degli Studii d’Italia con ogni di-
ligenzia s’ingegnino, che i desiderosi delle lettere abbia-
no occasione di farsi dotti nelle scienze fisice, matema-
tice e metafisice», tralasciando invece le «onoratissime
scienze donde s’impari l’arte del vivere, cioè la via delle
virtù e de’ buoni costumi, che ci guidino alla felicità che
ci potria far beati».
Né il Piccolomini esita a capovolgere la tesi degli ari-
stotelici: cittadini del cielo non ci fa la speculazione fi-
sica, ma una concreta moralità terrena. La scienza della
natura non fa che sopravalutare il corpo rispetto all’in-
teriorità, né ci avvicina, anzi ci allontana, da quell’intui-
zione suprema che attende i beati. «Essendo composti
noi d’una parte che poco vale e presto manca, e d’un’al-
tra ch’è degna molto e sempre dura, per la salute di quel-
la prima, senza perdonare a spesa e fatica, in favore del-
la medicina... se ne vergan le carte, e ne rimbombano ad
ogni or le scuole; e per la cura e salute dell’altra poi non
è chi pensi di far parola, se già dir non volessimo che al-
la cura delle menti nostre attendano coloro che, per gli
studi d’Italia, con la misura del giusto interpretando le
leggi, fanno altrui conoscere la mente dei Legislatori».
Né deve credersi perciò che il Piccolomini sia fanati-
co sostenitore di una educazione grammaticale, ché anzi,
molto lucidamente, osserva come i greci, modelli a noi di
umanità, non se la formassero affatto attraverso lo studio
delle lingue. E altra cosa son gli studi grammaticali e lin-
guistici, altra quelli umani, quali gli studi storici e poe-
tici, attraverso cui, solamente, può il giovane arrivare al-
le scienze utili per la vita civile. La storia, infatti, «qua-
si uno specchio della vita», ci permette di vivere «col pe-
ricolo e nelle spese di coloro che sono viventi innanzi».
Ed i poeti, «se prudentemente saran dichiarati, maravi-

Storia d’Italia Einaudi 213


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

glioso frutto a’ fanciulli, quanto a’ costumi, apporteran-


no come soleva tra i Greci Omero». Poiché Omero e la
sua poesia, e non la lingua greca come tale; e Virgilio ed
Orazio, e non la grammatica latina, costituiscono quegli
studi letterari che sono vera scuola di umanità204 .
In una delle varie edizioni dell’opera sua il Piccolomi-
ni prometteva di trattar l’argomento insieme «peripateti-
camente et platonicamente». In realtà, non solo rimane-
va fedele al peripatetismo, ma andava svincolandosi an-
che da quanto di ascetismo platonico rimaneva nella Ni-
comachea, a quel modo, del resto, che il Mureto incen-
trava la sua attenzione su quel libro quinto della giustizia
che, in particolare, prendeva a commentare. E lo stesso
Francesco Piccolomini, autore di una prolissa trattazio-
ne morale, la Universa philosophia de moribus, di intona-
zione platonica, in un suo Compendio della scienza civi-
le, «regola dell’umana vita, legge delle nostre azioni, fida
scorta nel periglioso sentiero di questo corso mortale, ed
insomma sicura strada per ritornare alla patria celeste»,
distingueva e raccomandava una «virtù civile», adatta a

204
ALESSANDRO PICCOLOMINI, Della Institution
morale libri XII. Ne’ quali egli levando le cose soverchie, e ag-
giungendo molte importanti, ha emendato, e a miglior forma, e
ordine ridotto tutto quello, che già scrisse in sua giovinezza delle
Institution dell’uomo nobile. In Venetia, 1582. (La prima ed.,
Venetiis, 1543, aveva il curioso titolo: De la institution di tutta
la vita de l’huomo, nato nobile e in città libera. Libri X. In lin-
gua toscana, dove e Peripateticamente e Platonicamente, intorno
a le cose de l’Ethica, Iconomica, e parte de la Politica, è raccol-
ta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfet-
ta e felice vita di quello. Composti dal S. Alessandro Piccolomi-
ni, a beneficio del Nobilissimo Fanciullino Alessandro Colombi-
na, pochi giorni innanzi nato, figlio de la Immortale Mad. Laudo-
mia Forteguerri. Al quale, (havendolo egli sostenuto a battesimo)
secondo l’usanza dei compari: dei detti libri fa dono.

Storia d’Italia Einaudi 214


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

realizzare in terra il fine umano, di fronte alla virtù eroi-


ca, che, appunto, appartiene soltanto agli «eroi»205 .

3. Influenze aristoteliche e commenti alla «Nicomachea»

In Roma, il 16 dicembre del 1563, Marco Antonio Mure-


to pronunciava una orazione de moralis philosophiae lau-
dibus, in cui, appunto, citava dalla Repubblica il luogo
famoso – «nobilissimam vocem, tamquam ex oraculo» –
in cui si dice che gli Stati saranno felici solo il giorno in
cui, o i capi saranno filosofi, o i filosofi diverranno so-
vrani. E soggiunge, commentando, che la vera filosofia
non consiste nella logica e nella fisica (in disserendi subti-
litate, aut in pervestigandis rerum naturalium causis), ma
nella morale e nella politica, nel procacciare cioè la fe-
licità agli uomini (beatas respublicas efficere). A questo
fine, tuttavia, l’indagine morale amava trarre ispirazione,
piuttosto che dal platonismo, da Aristotele, dei cui scritti
etici si moltiplicano i commenti e le imitazioni. E nel ’50
Bernardo Segni, offrendo al granduca Cosimo de’ Medi-
ci la sua versione in volgare della Nicomachea con un va-
sto commento, tratto in gran parte da quello latino del-
l’Acciaiuoli, additava nella classica trattazione il migliore
strumento possibile per l’educazione degli uomini. Sog-
giungeva, anzi, che, poiché la speculazione pura è «nel-
l’uomo, non come in uomo, ma come in chi vive di vita
più che da uomo», convien ragionare piuttosto della vita
«attiva, come di quella in che s’abbia più parte».

205
FRANCESCO PICCOLOMINI, Breve discorso della
istituzione di un principe e compendio della scienza civile, a cura
di Sante Pieralisi, Roma, 1858; Universa philosophia de moribus,
Venetiis, 1594 (è la II ed.; la prima è del 1583. Il commento del
Mureto nella raccolta cit., pp. 103-117; la sua versione, del ’65,
pp. 371-410).

Storia d’Italia Einaudi 215


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Tuttavia chi vada scorrendo chiose e commenti, da


quelli del Nifo, o dello Javelli, a quelli del Figliucci o
dello Scaino, per non dir d’altri molti; chi riprenda vaste
e massicce compilazioni come quella del Brucioli, ben di
rado incontra qualche accento nuovo. Dei più famosi,
come del Pomponazzi, del Nifo o del Porzio, si trovano,
se mai, interessanti riflessi, che traversano la letteratura
moralistica in genere di tutto il secolo206 .
Così derivano dall’insegnamento del rumoroso filoso-
fo di Sessa i Ragionamenti sull’etica d’Aristotele, di Ga-
leazzo Florimonte, che non è poi che il Galateo del Del-
la Casa207 . E sono dialoghi in volgare, garbati e piani, ma
tutt’altro che originali, se non, forse, per talune inserzio-
ni di temi teologici e di motivi agostiniani. Il Nifo ritro-

206
La traduzione italiana del Segni, più volte ristampata,
uscì a Venezia nel 1550. Nel ’47 a Firenze, era uscita una
traduzione latina di Pier Vettori. Di A. SCAINO, cfr. L’etica
d’Aristotele ridotta in modo di parafrasi con varie annotazioni e
diversi dubbi, Roma, 1574 (del 78 è la Politica). I Dialoghi della
naturale e morale filosofia del Brucioli, di cui s’è detto, uscirono
in Venezia nel 1544. Del ’47, sempre pubblicata in Venezia,
è la versione della Politica (Gli otto libri della repubblica che
chiamano Politica d’A.), dedicata a Piero Strozzi.
207
Ragionamento di Mons. GALEAZZO FLORIMON-
TE, vescovo di Sessa, sopra l’Ethica d’Aristotile, Venezia, 1567.
La prima edizione, del ’54 fu rifiutata dall’autore, per essere sta-
ta pubblicata manchevole, senza suo consenso («di che io non
poco mi dolsi»). Così parla delle trattazioni in volgare: «non
già... che io speri qualche gran lode d’un’opera così priva d’o-
gni ornamento... alla quale, se io avessi saputo che il Signor
Alessandro Piccolomini, o il Figliucci, o alcun altro gentile spi-
rito avessero questa medesima materia trattato nella lingua no-
stra, non avrei posto mano...». In realtà, ed è interessante sot-
tolinearlo, la prima edizione si presentava come fedele riprodu-
zione del pensiero morale del Nifo: Ragionamenti di M. AGO-
STINO DA SESSA, con l’illustriss. S. Principe di Salerno so-
pra l’Ethica d’Aristotile raccolti dal Rev. Mons. Galeazzo Flori-
montio..., Parma, 1562.

Storia d’Italia Einaudi 216


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

viamo ancora, e non a caso, a discorrere del piacere in


due dialoghi del Tasso (Il Gonzaga ovvero del piacer one-
sto; Il Nifo ovvero del piacere, ch’è un rimaneggiamento
del primo), ov’è ben ritratto il temperamento tutt’altro
che ascetico del Sessano.
Sempre il Tasso intitolava al Porzio, «il migliore, più
famoso filosofo, non solo di Napoli, ma d’Italia tutta»,
il dialogo Delle virtù. Simone Porzio, scolaro del Pom-
ponazzi, aveva a più riprese discusso questioni legate al-
l’etica, e nel De dolore, del 1551, ov’è sostenuta la na-
tura non corporea, ma spirituale del dolore, e nelle dis-
sertazioni sulla libertà, di cui ci resta l’opuscolo «se l’uo-
mo diventa buono o cattivo volontariamente», che, sem-
pre nel ’51, uscì contemporaneamente nell’originale la-
tino e nella versione di Giovan Battista Gelli, calzolaio
fiorentino, dantista e filosofo e arguto scrittore, del Por-
zio amicissimo. Ma là dove il Porzio non si slegava dal-
la posizione d’Alessandro d’Afrodisia, il Gelli in garba-
tissimo modo riprendeva i temi dell’umanesimo quattro-
centesco quando, subito nella dedica della Circe affer-
mava esser solo l’uomo capace di «eleggersi per se stesso
uno stato e un fine suo; e camminando per quel sentiero
che maggiormente gli aggrada, guidare piuttosto secon-
do lo arbitrio della propria volontà, che secondo la in-
clinazion della natura, come più gli piace, liberamente la
vita sua». Prometeo e camaleonte, l’uomo; ond’è traspa-
rente la favola di Circe, e ricca d’insegnamenti la conclu-
sione cui giungono, per esempio, la talpa e l’ostrica: es-
ser più felice la condizione loro della condizione umana,
perché priva d’inquietudine e lieta della propria perfe-
zione («essendo io perfetta in questa mia specie, e viven-
domi senza un pensiero al mondo, io mi ci voglio stare»).
Ché tutta l’umana dignità e perfezione è in uno sconten-
to perenne, in uno squilibrio, in una imperfezione sapu-
ta e sofferta («stato pieno di tanti affanni e di tante mi-
serie»); in un perenne bisogno, in un continuo decade-

Storia d’Italia Einaudi 217


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

re nel tempo, e trovar limiti reali e fittizi; «poca sicurtà,


...nell’animo, delle cose presenti, paura... e cura delle fu-
ture, sospetto... di quei della sua specie con i quali egli
è forzato conversare continuamente, timore e... rispetto
delle leggi».
Solo l’elefante comprende che la grandezza dell’uomo
consiste nella sua sofferenza, che è la sua libertà. «Perché
tutte l’altre creature hanno avuto una certa legge, per la
quale elle non possono conseguire altro fine che quello
che è stato ordinato loro dalla natura, né possono uscire
in modo alcuno di que’ termini che ella ha assegnato
loro. E l’uomo per avere questa volontà libera, può
acquistarne uno più degno, e uno manco degno, come
pare a lui, o inchinandosi inverso quelle cose che sono
inferiori a lui, o rivolgendosi verso quelle, che gli sono
superiori». Ma appunto perché comprende il discorso
d’Ulisse, l’elefante diviene uomo.
Di questa condizione umana, ambigua, sofferente ep-
pur nobile per il legame terreno, son pieni anche i Capric-
ci del bottaio, ove si insinua continuamente lo spirito del-
l’ascetismo platonico, «perché e’ non sono beni... questi
beni mondani»208 . Nella Circe, anzi, v’è un interessante
cenno al danaro, utile strumento, fattosi poi, per l’avari-
zia, fonte di schiavitù e sofferenze umane209 . Nei Marmi

208
S IMONIS P ORTII De dolore, Flor. 1551. G. B. GELLI,
La Circe, I Capricci del Bottaio ecc., Milano, 1878. Una «urbana
e modesta» riflessione morale, tratta dalla tradizione medieva-
le del Panciatantra, ritroviamo nella Prima veste dei discorsi de-
gli animali del Firenzuola («la filosofia apparisce più bella con
mansueto aspetto, puro e semplice abito, che coll’orrido super-
cilio coperto da qualsivoglia cappello; e... chi per parer savio si
mostra in volto torbido e collerico, il più delle volte ha l’intel-
letto così rozzo come egli dimostra nel sembiante»); e così pure
ne La filosofia morale di G. B. Doni (nuova ed., Ferrara, 1610).
209
Circe. ed. cit., p. 67: «furono da voi ritrovate le città,
dove poi poteste, abitando comodamente insieme, provvedere

Storia d’Italia Einaudi 218


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

il Doni, mentre insiste sull’infinita miseria del possesso,


nell’inquietudine umana vede, non segno di gloria, ma
condanna. Anche all’uomo era stata assegnata una sorte,
quella d’Adamo in paradiso. L’uomo, peccando, è deca-
duto nel regno del tempo e della morte, dell’apparire va-
no. «Il tempo e la morte son signori del tutto. Ultima-
mente, non ci trovo altro al mondo che opinione: l’uo-
mo si ficca una fantasia maledetta nel capo e va dietro a
quella, pascendosi tanto che finisce i suoi giorni; oggi si
conturba tutto per la roba, domani s’adira per la digni-
tà, l’altro si cruccia per i figlioli, tal ora muor di doglia
e spesso crepa d’allegrezza; così ogni dì, ogn’ora muta
voglia, faccenda e stato»210 .

4. Vita attiva e contemplativa

Non altrettanto brio troviamo nei dialoghi del Tasso, ove


i temi d’obbligo ritornan tutti, ma senza originalità vera.
Più gioverebbe, forse, ricercare le osservazioni sparse dal
Varchi in certe sue lezioni sull’invidia e la gelosia , o
magari le raccolte di lettere, che sono talora trattatelli

a’ bisogni l’un dell’altro. E acciocché voi conseguiste meglio


questo fine, non avendo sempre bisogno uno di quelle cose
che ha colui che ha bisogno delle sue, voi trovaste ancora il
danaro, mezzo certamente bellissimo, e molto accommodato
per la commutazione delle cose: ma poiché egli arreca tanti
comodi al viver vostro, voi l’amate tanto straordinariamente,
che e’ non è cagione fra voi di manco male, che si sia di bene».
Ma cfr. in proposito di Bernardo Davanzati i due scritti, del
1588. Sulle monete e sui cambi.
210
A. F. DONI, I Marmi, a cura di E. Chiorboli, Bari, 1928,
vol. I, p. 268 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 219


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

edificanti, come la lunga epistola di Claudio Tolomei a


Dionigi Atanagi sulla ricchezza e la povertà211 .
Le opere dichiaratamente morali, dialoghi o trattati,
tornano sempre sui motivi consueti che si fanno fastidio-
samente banali. Ed ecco le innumerevoli discussioni sul
duello, sull’onore, sulle virtù del gentiluomo, sulla nobil-
tà, dal massiccio trattato di Antonio Bernardi della Mi-
randola, plagiato dal Possevino, agli scritti del Farra, del
Sardo, del Romei, del Nobili, alle solite composizioni del
Muzio, ai dialoghi del Tasso. Ecco il Trattato della lode,
dell’honore e della gloria del Verino secondo, e i dialoghi
Dello dignità di Bernardino Baldi; per non dir dei con-
fronti fra le armi e le lettere. Non a caso le sette giorna-
te in cui il Romei distribuì i suoi Discorsi sono dedicate
appunto a questi argomenti212 .

211
B. VARCHI, Opere, II, p. 568 sgg.; C. TOLOMEI,
Delle lettere, libri sette, Venezia, 1585, p. 162 sgg.
Ma, tra le lettere, vi sarebbe larga messe da cogliere; cfr.
per es. quella del Caro a Bernardo Spina dove si toccano i
soliti temi della vita monastica e solitaria, del ritiro dal mondo
ecc. ANNIBAL CARO, De le lettere familiari, volumi due,
Venetia, 1587; Lettere familiari (1531-1544), Firenze, 1920 (e,
ora, l’ed. critica a cura di A. Greco, 3 voll., Firenze, 1957-61).
212
Cfr. per es. A. BERNARDI DELLA MIRANDOLA,
Eversiones singularis certaminis; G. B. POSSEVINO, Dialogo
dell’onore nel quale si tratta del duello, Venezia, 1553; POM-
PEO DELLA BARBA, Due... dialoghi... de’ segreti della na-
tura... sull’armi e le lettere, Venezia, 1558; G. MUZIO, Il duel-
lo, Venezia, 1553; Il Cavalier, Roma, 1569; Il gentiluomo, trat-
tato della nobiltà, Venezia, 1571; Avvertimenti morali Venezia
1572; F. NOBILI, De hominis felicitate, De vera et falsa volup-
tate, De honore, Lucae, 1563; A. FARRA, Settenario... sull’in-
nalzarsi dell’anima alla contemplazione di Dio, Venezia, 1594;
FRANCESCO DE’ VIERI, Trattato dell’honore, della fama,
et della gloria, Firenze, 1580; B. BALDI, Della dignità; L’arcie-
ro, in Versi e prose, Firenze, 1859, pp. 293-402. Il commen-
to alla Nicomachea del Bernardi della Mirandola nell’Urb. lat.
1414.

Storia d’Italia Einaudi 220


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Un posto a sé, tuttavia, meritano i Dialoghi di Spero-


ne Speroni, già più volte menzionati, e nella loro prima
stesura ripresi in parte da Alessandro Piccolomini, quan-
do questi compose originariamente la sua Istituzione. Lo
Speroni, vedemmo, ebbe vivissimo il senso della «comu-
nicazione» umana, ed alle lingue e alla retorica dedicò al-
cune delle sue pagine più degne. Ma nella seconda par-
te dei dialoghi egli venne largamente discutendo anche
di altri problemi assai gravi, e in particolare del rapporto
fra vita attiva e contemplativa, e della storia. Intorno al
primo punto, la conclusione messa in bocca ad Antonio
Brocardo è ferocemente avversa al puro contemplare, vi-
ta, com’egli dice, non umana né cristiana. Quando si co-
stituiron le città, egli afferma, fra gli uomini deboli, inuti-
li, miseri «e non ben vivi», vi fu qualcuno «non migliore,
ma meno scempio de’ suoi consorti, il quale, per coprire
la sua viltà, finse una vita, onde e’ paresse di rifiutar tut-
to il bene che non poteva ottenere, la qual vita niuna co-
sa umanamente operando, ma vanamente considerando
le cagioni dell’opere della natura e di Dio... con un bello
e gran nome, non più inteso da alcuno, fu chiamata spe-
culativa». Così «nacque e crebbe e visse... felicemente
nella follia de’ volgari la vana vita contemplativa»; vana
perché, tutta presa a investigare il mondo di Dio, rima-
ne estranea al nostro mondo, ch’è il mondo degli uomi-
ni. E i «filosofi speculativi,... tutti intesi alla vanità del-
lo speculare, tanto sanno del nostro vivere umano, quan-
to saprebbe chi... fosse nato tra’ mutoli, o fuor del mon-
do albergasse». L’uomo è come una spada che Dio ha
fatto, non perché mediti su sé e le cose, ma perché valga
al combattimento; «l’uomo non dee spendere suo tempo
in investigare troppo curiosamente in qual guisa creasse
Dio la nostra anima, ma lei fatta dee adoperare in ma-

Storia d’Italia Einaudi 221


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

niera che in ogni sua operazione buono essendo, sempre


voglia esser buono, e sempre buono sia riputato»213 .
Per bocca del Brocardo lo Speroni giungeva qui a una
posizione estrema ma significativa, apertamente rivolta
contro la cultura accademica, la quale, platonica o ari-
stotelica che fosse, insisteva sulla superiore dignità del
contemplare. Né a caso il Tasso mette in bocca al Por-
zio l’ammonimento: «non superbisca... la nostra umana
prudenza, né si stimi tanto, ch’ella possa paragonarsi col-
la dignità della sapienza, perché le cose, ch’ella conside-
ra, sono umane, ma dell’uomo sono molte cose più divi-
ne...». E poco innanzi, discorrendo del saggio virtuoso
che fugge il mondo, aveva osservato come egli non fug-
ga «fra le cose inferiori, ma fra le superiori; non fra le ca-
duche, ma fra l’immortali; non fra le terrene, ma fra le
celesti; e nella fuga si assomiglia a Dio»214 .
Così se prendiamo il terzo volume del corpus aristoteli-
co-averroistico pubblicato in Venezia dai Giunta, possia-
mo leggere, nella prefazione ai libri morali, stesa da Gio-
van Bernardo Feliciano, una discussione de duplici homi-
nis felicitate, duplicique eius vita, activa et contemplativa,
ove la perfetta felicità del contemplante è esaltata nella
sua stessa solitudine totale (hominem verum et contem-
plativum non esse sociabilem)215 .
Per questo assume un singolare rilievo l’ampia e com-
plessa trattazione di Paolo Paruta, nei dialoghi Della per-
fezione della vita politica216 , pubblicati nel 1579, ed in cui

213
Dialoghi del Sig. SPERON SPERONI, nobile Padova-
no, di nuovo ricorretti a’ quali sono aggiunti molti altri non più
stampati, Venezia, 1596, pp. 180-215.
214
T. TASSO, Prose filosofiche, Firenze, 1847, I, pp. 22, 33.
215
ARISTOTELIS Stagiritae Libri, Tertium volumen, Ve-
netiis, 1574 (FELICIANI praefatio).
216
PAOLO PARUTA, Opere politiche, a cura di C. Monza-
ni, Firenze, 1852, vol. I, p. 118 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 222


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

figura anche uno dei personaggi del dialogo dello Spe-


roni, Gaspare Contarini. L’opera del Paruta, che nel
suo andamento ricorda non poco le discussioni quattro-
centesche intorno alla vita civile, tocca anche, in gene-
re, tutti i temi tradizionali, come ad esempio, quello del-
la fortuna217 . Ma affronta in pieno il problema della di-
gnità della vita attiva. Nessuno nega, osserva il Paruta,
che il puro contemplare, nella sua totale perfezione, qua-
le potrà realizzarsi in intelletti angelici, sia cosa sublime.
Ma all’uomo, vincolato al senso, tale sommità è preclu-
sa. «In quel modo, adunque, che miglior artefice è colui
che esercita perfettamente alcuna arte, tuttoché ella non
sia tra le più nobili, che quell’altro non è, il quale datosi
ad arte più degna, altro di quella non ne abbia appreso
che certi princìpi; così più vero uomo e più felice si deve
stimare chi è ornato d’un abito perfetto di prudenza...».
Né, questa, è una rinuncia. L’uomo, in verità, raggiun-
ge Dio proprio nel rapporto umano, «avendo rispetto al
beneficio che può l’uno prestare all’altro, insieme viven-
do nella vita civile. Quale... sarà studio più nobile, quale
più vera filosofia, che quella che ci ammaestra nelle no-
stre umane azioni, e ci insegna di ben reggere noi stessi,
la famiglia e la Patria? Perciocché, non è la filosofia, co-
me ben diceva Pindaro, quasi un’arte statuaria, che fac-
cia le figure mutole, prive di sentimento: anzi, ha ella a
risvegliarci gli spiriti, e a renderli meglio disposti e pronti
alle operazioni civili; onde, da quella ammaestrati, pos-
siamo con maggior frutto adoperarci per lo ben comu-
ne... Queste son opere veramente egregie e divine; alle

217
Sulla fortuna lo Speroni compose un dialogo molto biz-
zarro sostenendo che, «così come il nostro intendere non è a
caso, ma è umano artifizio così il caso non è inteso d’alcuno, et
è caso pure perciò, né lo sarebbe se intendendo si conoscesse»
(Dialogo sopra la fortuna ed. cit., pp. 509-15).

Storia d’Italia Einaudi 223


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

quali appena meritano d’esser paragonate quelle dell’uo-


mo solitario, come se a sé solo nato fusse».
Pochi anni prima, nel ’74, Stefano Guazzo poneva
ugual concetto in quei suoi dialoghi de La civil conver-
sazione, che volevano essere insieme un manuale di belle
maniere e di morale volgarizzata. E l’uomo simile all’a-
pe, «che non può viver sola», e la natura del linguaggio,
e la moralità come socialità, sono i motivi che nell’opera
tornano, fino al fastidio, per oltre seicento pagine, mo-
desta ma significativa epigrafe di tutta una vasta corren-
te di pensiero, che sul fallimento politico d’Italia sperava
ancora di vedere l’alba di un rinnovamento morale.

5. Storia e vita politica

Quanto strettamente connesse a queste riflessioni fosse-


ro le meditazioni sulla storia, e le ricerche storiche me-
desime, non è chi non veda. Il Sigonio, tessendo in una
sua orazione le lodi della storia, osservava appunto che
essa non è, «se non la diligente e chiara dimostrazione
della scienza morale»218 . Gli storici ci attestano la real-
tà di quello che i moralisti ci insegnano, e accordano co-
sì sul terreno concreto essere e dovere (etenim philoso-
phi quid agere homines debeant, historici, quid praeclare
egerint, docent). Senza la conferma dello storico i precet-
ti morali sembrerebbero appelli vani e ridicoli, lanciati al
vento, laddove l’esempio li trasforma in solenni guide e
vitali orientamenti.
In un vastissimo dialogo, un trattato vero e proprio,
ov’è menzionato largamente anche il Pomponazzi, Spe-
ron Speroni cerca di determinare che sia la storia, ma
senza muoversi dal parallelo d’Aristotele fra storia e poe-
sia, riducendo la storia alla narrazione del particolare. Il

218
G. SIGONII orationes (Lugduni, 1590), p. 87.

Storia d’Italia Einaudi 224


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

quale, tuttavia, si presenta come la verità che lo storico,


col sussidio dell’arte retorica, rende efficace219 .
Né più oltre sembra andare il platonico Patrizi nei suoi
dialoghi Della historia, usciti in Venezia nel 1560, il quale
cercava sì nel corso degli eventi la certificazione di un
divino piano provvidenziale, ma soprattutto vi trovava
insegnamenti di prudenza politica e incitamenti alla vita
virtuosa. E, come lui, Aconcio nelle note che stese,
imitandolo, quattro anni dopo220 .
Tuttavia, più che in considerazioni teoriche sulla sto-
ria, i frutti di questa meditazione sul concreto agire de-
gli uomini nel mondo umano maturarono nelle disserta-
zioni politiche, che di storia si alimentavano appunto, e
che si costituivano insieme come avvertimenti civili e co-
me filosofiche considerazioni intorno alle umane vicen-
de. Effettualità storica e meditazione morale si congiun-
gevano nella politica, oscillante fra il commento al pas-
sato e l’insegnamento per una ricostruzione avvenire, al
margine fra etica e storia, fra vagheggiamento di platoni-
che città ideali e crudele fedeltà all’inesorabile corso de-
gli eventi, non giudicati, ma integralmente accettati. Di
qui i trattati di politica in forma di commenti a opere sto-
riche, le quali – al dir del Giannotti221 – ci permettono «di
conoscere con vivi esempi quelle cose che si deono fuggi-
re e quelle che si deono seguitare». E tale insegnamento

219
SPERONI, Dialoghi, pp. 361-502 (interlocutori Silvio
Antoniano, Paolo Manuzio e Girolamo Zabarella).
220
Della Historia dieci dialoghi di M. FRANCESCO PA-
TRITIO, ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti al-
l’Historia et allo scriverla et all’osservarla, Venezia, 1560; J.
ACONCIO, Delle osservazioni et avvertimenti che aver si deb-
bono nel leggere delle historie, in Opere, ed. Radetti, p. 303 sgg.
(Cfr. FR. ROBORTELLUS, De historica facultate, Florentiae,
1548).
221
D. GIANNOTTI, Opere (Della repubblica veneta, pref.),
in Scritti politici, Milano, 1830, p. 32.

Storia d’Italia Einaudi 225


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ci viene, insiste il Giannotti, non per qualche valore pa-


radigmatico degli antichi, ma perché essi furono sottili e
precisi espositori; «laonde io giudico che quelli si deb-
bano assai commendare, i quali... investigando i costu-
mi dei tempi nostri, non sono di quelli al tutto disprez-
zatori, ma ne ritraggono quel frutto e quella utilità, che
si puote di cose non perfetti trarre». La storia ci propo-
ne dinanzi, viva nella sua dinamica articolazione, la so-
cietà, e ci permette di cogliere in essa quella immutabi-
le umana natura, che è rimasta sostanzialmente la stessa
col volger dei tempi. È vero, infatti, osserva Machiavelli,
che le cose umane sono sempre in moto; ma, e vi insiste-
ranno ugualmente un Cardano o un Bruno, si tratta, non
di un processo, ma di un vano mareggiare («o le salgono
o le scendono»). E l’ammirazione per l’antico non nasce
che da un maggiore distacco, e dallo spegnersi delle pas-
sioni («timore e invidia»), finché l’occhio si faccia capace
di cogliere nella sua essenza immutabile l’umanità civile,
tanto che sembra venir meno fin la ragione «del lauda-
re e biasimare». «E pensando io come queste cose pro-
cedino, giudico il mondo sempre essere stato ad un me-
desimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono,
quanto di tristo, ma variare questo tristo e questo buo-
no di provincia in provincia»222 . La considerazione della
storia convince Machiavelli della immutabilità sostanzia-
le dell’umana natura e delle umane vicende, ove il mar-
gine lasciato dalla necessità obbiettiva alla nostra virtù è
ben poco, e non sai mai se esso non sia in fondo che il
frutto di una nostra opinione, e insufficiente conoscen-
za. Proprio di qui nasce talora un’ambivalenza di scelle-
ratezza e virtù, che se non potrà redimersi di fronte alla
coscienza morale, si riscatta tuttavia in una fredda e ra-
zionale visione dell’essenza delle cose. Nella quale tut-

222
MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio, II.

Storia d’Italia Einaudi 226


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to rientra, anche la religione intesa come fenomeno e av-


venimento puramente umano, riassorbito in una visione
che prescinde da quanto esorbiti dal necessario, eterno,
uniforme accadere.
Che era poi, in Machiavelli, un trapassare su un piano
metafisico, insinuando in quella che voleva esser monda-
na e concreta visione del mondo degli uomini la premes-
sa di una concezione rigidamente naturalistica della real-
tà. Come colse sottilmente il Guicciardini, innamorato
di una aderente fedeltà alla mobile e singolare esperien-
za umana. «Io per me non so che maggior diletto mi po-
tessi avere, che udire parlare delle cose pubbliche e ci-
vili un uomo di grande età e di singolare prudenza, che
non ha imparato queste cose in su’ libri da’ filosofi, ma
con la esperienza e con le azioni, che è il modo vero dello
imparare»)223 .
Guicciardini, infatti, si tiene ben fermo a quel limi-
te di indeterminatezza lasciato incerto dal Machiavelli,
sempre preoccupato della natura delle cose. Guicciar-
dini non ci parla di quel che è naturale, necessario; di
quello che si verifica sempre. Egli insiste sulla «varietà
delle circumstanze», sulla «diversità», sulla fluidità del-
la «esperienza», sull’accidentale, sul caso, sulle «varie na-
ture degli uomini». E «le cose del mondo» egli insegna
a «giudicarle e risolverle giornata per giornata». Che fu
il segno più alto della sua sapienza civile, rifiuto preci-
so di ogni astrazione filosofica d’intorno al civile mondo
degli uomini, avvio consapevole a una filosofia dell’uma-
no, veramente fedele all’effettualità dei rapporti umani.
E con ciò Guicciardini si poneva oltre quei tardi cinque-
centisti, che non più su Livio, ma ormai su Tacito, eppur

223
F. GUICCIARDINI, Del reggimento di Firenze, I, Opere
inedite, 1858, vol. II, p. 13. (Cfr., a questo proposito, V. DE
CAPRARIIS, Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia,
Bari, 1950, p. 14 sgg.).

Storia d’Italia Einaudi 227


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sempre sulle orme di Machiavelli, ancor vedranno sto-


ria, politica e morale come determinazione della «verità
immutabile» della natura dell’uomo e delle cose224 .

224
Discorsi del Signor FILIPPO CAVRIANA, cav. di S.
Stefano sopra i primi cinque di Cornelio Tacito, Firenze, 1597
(«Al Lettore»).

Storia d’Italia Einaudi 228


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

INDAGINI SULLA NATURA

1. Leonardo da Vinci

Alla radice di gran parte della scienza del Rinascimento


resta, sottinteso, il presupposto, dal Ficino messo in chia-
ra luce, di una corrispondenza perfetta fra mente uma-
na e realtà attraverso la matematica, in cui si rispecchia
esemplarmente il ritmo preciso con cui Dio ha creato l’u-
niverso (numero, pondere et mensura). Questo sottinte-
so pitagorico-platonico, di una specie di armonia presta-
bilita fra mondo e uomo, fondata sul platonico Dio geo-
metrizzante, è comune così a Leonardo, «omo sanza let-
tere», come a Galileo, nemico dei «trombetti» ripetitori
dell’antico, ma dogmaticamente sicuro del fatto che Dio
ha scritto l’universo in caratteri matematici.
Era l’implicito riferimento, fattosi esplicito poi nel
cartesianismo, al Dio verace, all’immutabile fondamen-
to della ragione divina. Come osservava al principio del
’500 Luca Pacioli, «Idio mai non se po’ mutare», e «tut-
to ciò che per lo universo inferiore e superiore si squa-
terna, quello de necessità al numero, peso e mensura fia
soctoposto»225 . Il cabbalismo di Pico e dei pichiani, fi-
no alle sue estreme risonanze nel ’600, è fondato su que-
sta pitagorica fiducia nelle virtù del numero. Non diver-
so l’atteggiamento di Leonardo da Vinci, il quale, se di-
spregia i grammatici, irrigiditi sull’opposizione fra scien-
ze della natura e dello spirito, vede poi la natura, molto
ficinianamente, pregna della divina ragione «che in lei in-
fusamente vive». La sua esperienza, come atteggiamen-

225
L. PACIOLI, Divina proportione, Vienna, 1889 (I ed.,
1508).

Storia d’Italia Einaudi 229


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to, non è diversa da quell’umile rispetto predicato dagli


umanisti dinanzi ai testi che essi leggevano e interpreta-
vano. Solo che Leonardo, oltre le opere dei poeti, voleva
leggere l’opera di Dio, il libro del mondo; «or non san-
no questi – egli esclama – che le mie cose son più da es-
ser tratte dalla sperienza, che d’altrui parola, la quale fu
maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio».
A suo modo anche Leonardo è figlio degli umanisti; il
loro metodo, che era il ritorno, oltre ogni diaframma, al-
la realtà genuina, era il suo metodo; solo che, per tornare
alla realtà fisica, bisognava far giustizia di ogni autorità,
e liberare le cose degli «accidentali vestiti». «La sapien-
za è figliola della sperienzia. Chi disputa allegando l’au-
torità, non adopera lo ’ngegno, ma piuttosto la memoria.
Fuggi li precetti di quelli speculatori che le loro ragioni
non sono confermate dalla isperienzia». Esperienza che
è porta aperta a vedere la ragione delle cose; esperienza
che è, non negazione della ragione, ma rispetto per la ra-
gione delle cose oltre la nostra ragione: «nessun effetto
è in natura sanza ragione: intendi la ragione e non ti bi-
sogna sperienzia». Perché di una cosa è soprattutto con-
vinto Leonardo con fermissima fede, che la natura è in-
timamente retta da una regola razionale («la natura è co-
stretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamen-
te vive»); che questa regola si esprime e si traduce ma-
tematicamente («nissuna umana investigazione si po’ di-
mandare vera scienzia, s’essa non passa per le matemati-
che dimostrazioni»); che questa anima razionale dell’uni-
verso è forza che penetra ovunque, sigillo molteplice del-
l’unico Sole del tutto («el suo lume allumina tutti li cor-
pi celesti, che per l’universo si compartono, tutte l’anime
discendon da lui perché il caldo, ch’è in nelli animali vi-
vi, vien dall’anime, e nessun altro caldo né lume è nell’u-
niverso»). E non è chi non veda quanto di ficiniano vi sia
in questo Sole.

Storia d’Italia Einaudi 230


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

L’esperienza non ha che una funzione intermedia, ac-


certatrice, che svela come il discorso razionale non si
esaurisca nella mente come possibilità pura. «Se tu dirai
che le scienze, che principiano e finiscono nella mente,
abbiano verità..., si niega», perché «in tali discorsi men-
tali non accade sperienzia, senza la quale nulla dà di sé
certezza». E questa verifica è necessaria al ragionamen-
to umano perché la mente umana non è creatrice, come
quella divina, alla quale invece si assimila quella dell’ar-
tista il cui concepimento sbocca non in una verifica, ma
in una produzione; «la deità ch’ha la scienza del pittore
si trasmuta in una similitudine di mente divina, imperoc-
ché con libera potestà discorre alla generazione...».

2. Girolamo Cardano

Reminiscenze platoniche, unite a un vivo interesse per


l’indagine naturale, ritroviamo in quel Girolamo Carda-
no che il Bruno nel De immenso condannava senz’altro
come rudis et amens fabulator. Nell’epistola nuncupato-
ria, premessa a quella vasta e curiosa enciclopedia che è
il De rerum varietate, non senza efficacia il Cardano pre-
senta la sete insaziata di conoscenza che lo spinge alla ri-
cerca: «la gioia e la felicità suprema, per l’uomo, consi-
ste nel conoscere gli arcani segreti del cielo, i misteriosi
penetrali della natura, le menti divine, l’ordine dell’uni-
verso». E questo sapere libera veramente l’uomo dal suo
peso mortale («a mortalitate ipsa seiungitur»). E que-
sto sapere il Cardano credeva di avere abbracciato nel
suo complesso, e unificato nella sua fontale divina radice:
«quella sublime altezza, da nessuno raggiunta dopo Plo-
tino, e cioè l’origine e il fine di tutte le cose, io l’abbrac-
ciai nei miei sette libri De aeternitatis arcanis; ed ugual-
mente l’ordine dell’universo e di tutte le singole cose in
esso contenute, nei quattro libri De fato». Ammiratore

Storia d’Italia Einaudi 231


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dell’esperienza, e sostenitore a oltranza dell’indagine na-


turale, egli, tuttavia, ne sentiva l’insufficienza, ed affer-
mava così, in pari tempo, i diritti della ragione matema-
tica. Anzi, com’egli ripete, solo un processo discenden-
te dall’uno ai molti potrebbe evitare incertezza al nostro
sapere («inde incerta nostra cognitio, quae si ab uno ad
multa descendere posset, confusionem vitaret»). Ma il
legame col corpo, l’instabile sintesi senso-ragione, ci im-
pedisce di afferrare in pieno quelle essenze ideali («res
incorporeae»), che sono i princìpi dei corpi stessi («quae
etiam corporum sunt principia»), e soprattutto ci toglie
la visione adeguata del nesso causante, per cui le cose
stesse si generano dai loro princìpi. Il nostro sapere fi-
sico è un sapere di superficie; è uno scivolar sulle cose,
senza penetrarne l’anima, mediante pure analogie e simi-
litudini («anima humana, in corpore posita, substantias
rerum attingere non potest, sed in illarum superficie va-
gatur... scrutando mensuras..., similitudines...»). La ma-
tematica è valida nella sua formalità astratta; la sua cer-
tezza risiede nella mente che la produce, e che, essendo
insieme la cosa prodotta, la possiede a pieno («scientia
vero, quae res facit, est quasi ipsa res...»). Ma la possie-
de nell’ambito preciso della sua produzione, senza poter
valutare integralmente la validità sua per la conoscenza
della realtà fisica.
Cardano, insomma, sente tutta la difficoltà del passag-
gio dal mentale al reale, dalle idee («a principiis animae
ab initio inditis») alle cose. Egli è ben convinto dell’ordi-
ne del tutto («tantum rerum ordinem»), del vincolo che
il tutto unifica ( «omnia connexa sunt atque in un unum
deducta»), ma non sa trovare il nodo, il punto dell’unio-
ne, e resta perplesso fra l’unità postulata dalla ragione
e la dispersione dell’esperienza. Per cui dogmaticamen-
te è tratto a negar vita e movimento al tutto, immobiliz-
zato attraverso la dottrina dell’eterno riorno, che riduce
il divenire a mera parvenza. «Ritornano, non solamente

Storia d’Italia Einaudi 232


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

le cose naturali, ma anche le nostre opinioni... Restano


le stesse anime, uguali di numero..., e infinite volte si ri-
petono le medesime opinioni, le vere e le assurde». Co-
me per Bruno, che insisterà eloquentemente sul mede-
simo concetto, i molti e l’Uno si fissano senza sviluppo,
e gli stessi processi dell’intelletto, quasi coesteso al tut-
to («quasi coextenditur omnibus») sfumano in un ritmo
che si meccanicizza e perde valore («contrahitur et ex-
tenditur, fulget et obscuratur, silet et operatur»). Tan-
to è vero che il trapasso al divino, che Cardano non ne-
ga, e che apre all’uomo la possibilità del miracolo, resta
misterioso e miracoloso esso stesso. Eppure solo lì, nella
connessione Uno-molti, sta il segreto dei molti e del loro
ordine; ma saperlo è precluso all’uomo – si scirem, Deus
essem.
Per questo l’esperienza si sgretola in mille osservazio-
ni slegate, e la metafisica si inaridisce nella postulazione
astratta dell’Uno plotiniano; per questo, forse, Cardano,
come poi anche il Della Porta, guarda, piuttosto che al
corso normale degli eventi, allo straordinario e al miste-
rioso, sognando il bagliore illuminante di una divina ri-
velazione («afflatus, cum manifeste cognoscimus admo-
neri divinitus»)226 .

3. Girolamo Fracastoro e G. B. Della Porta

Su un piano, invece, assai più rigoroso d’esperienza –


magistra experientia – volle mantenersi in tutte le sue in-
dagini Girolamo Fracastoro, il quale si preoccupa sem-
pre di ritrovare la causa particolare e propria, e non uni-
versale e prima («hic non universalem et primam causam
quaerimus, sed particularem et propriam, quale esse non
potest eorum ullum, quae immaterialia sunt»). E questo

226
Dall’edizione di Lione, 1663, in 10 voll., di tutte le opere.

Storia d’Italia Einaudi 233


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

è il tema che si propone nel De sympathia et antipathia


rerum, dove, ricercando le origini del «mirabile consen-
so» che avvince le particelle costitutive delle cose, inten-
de simpatia e antipatia in termini di mere forze fisiche,
escludendo qualunque elemento misterioso o «spiritua-
le». E con lo stesso tono combatte l’astrologia applica-
ta alla medicina, e, nel Turrius, descrive fenomenologica-
mente i processi del conoscere.
Lo scienziato, come tale, descrive e precisa le cause
particolari, o, come meglio si direbbe, i nessi costanti
che collegano l’uno all’altro fenomeno. La causa, e cioè
la potestà generatrice delle cose, è su altro piano, inat-
tingibile alla umana cognizione. Ne canterà il poeta, e
Fracastoro fu fine poeta, inneggiando alla libera, divina,
generatrice Natura, capace, se voglia, di mutare l’ordine
stesso delle cose («forsitan et tempus veniet...»).
In una lettera a Giovan Battista Ramusio il Fracasto-
ro si vantava che, nei suoi «bizzarri» studi di medicina
astrologica, sui giorni critici, aveva salvato ogni cosa con
cause naturali («io salvo ogni cosa del moto dei nostri
umori»)227 . Giovan Battista della Porta nei molti suoi
scritti di magia, di astrologia e simili, partiva anch’egli
dalla stessa esigenza, di ricondurre sotto il segno dell’in-
dagine scientifica quel complesso di corrispondenza fra
corpo e anima che sembrano invece dominio del meravi-
glioso e dello straordinario: «osservare con occhi di lince
i fenomeni, onde, compiuta l’osservazione, tosto si pos-
sa operare». Magia naturale, così, è scienza, che offre un
pronto trapasso alla tecnica228 ; fisiognomonia è determi-

227
Lettere di XIII huomini illustri, p. 713; H. FRACASTO-
RI Opera, Venetiis, 1584.
228
JO. BAPTISTA PORTAE... Magiae naturalis libri vi-
ginti (Hanoviae, 1644), I, 2: «unde vos, qui Magiae visuri acce-
ditis, nil aliud Magiae opera credatis, quam naturae opera, uti
ars ministra, et sedula famulatur...».

Storia d’Italia Einaudi 234


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

nazione dei rapporti di interdipendenza fra animo e cor-


po, fra materia e spirito, fra le stelle e la vita umana; «l’e-
sperienza ci fa scorgere con facilità che l’animo non è im-
passibile rispetto ai moti del corpo, così come il corpo si
corrompe per le passioni dell’animo».
Ma, tosto, il Della Porta si lascia sedurre dal meravi-
glioso, dall’eccezionale, dal miracolo, e non esita a pro-
clamare che «chi cerca una ragione di tutto, distrugge in-
sieme scienza e ragione; chi non ha fede nei miracoli del-
la natura, cerca in qualche modo di distruggere la filoso-
fia». Non, come nel Fracastoro, l’umile impegno a segui-
re il comportamento costante, ma il costante desiderio di
sorprendere la chiave dell’attività produttrice delle cose,
«il secreto e lo modo d’oprare... molto alto e degnissi-
mo», la pietra filosofale, l’arte del miracolo. Ed è vera-
mente curioso questo rovesciamento, per cui, partiti per
costruir la scienza sull’uniforme, si vuol poi, nell’eccezio-
nale, trovar la spia della creatività stessa della divina Na-
tura. Che era, in fondo, un modo diverso di tradurre l’in-
quietante problema del Cardano, di passare dall’Uno di-
vino al molteplice reale, che l’uomo arriva sì a descrivere,
ma non riesce a spiegare229 .

4. Andrea Cesalpino

Un più fedele peripatetismo, senza indulgenze per so-


gni magici, ci offrono invece le Quaestiones peripateticae
di Andrea Cesalpino, uscite in Venezia nel 1571, e nel-
le quali l’aristotelismo è inteso come rinvio all’esperien-
za concreta. È vero, com’egli afferma, che Aristotele ha
innalzato la filosofia al suo estremo culmine umano, tan-

229
De furtivis literarum notis, vulgo de ciferis, libri quatuor,
Neapoli, 1563, Introd.: «ita me semper ad haec propensum
natura tulit, ut arcani quid et abditi inde depromerem...».

Storia d’Italia Einaudi 235


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

to che, «dopo quasi duemila anni, ogni fatica è volta a


intendere solo Aristotele». Ma è anche vero che seguire
Aristotele non significa altro che osservare la natura. «Se
dai corpi naturali noi riceviamo un insegnamento senza
errori, perché dunque avere maggior fede nella ragione?
È una debolezza dell’intelligenza abbandonare la perce-
zione per invocare la ragione». Il dato immediato non
mente mai; «possiamo noi credere a una menzogna della
natura, quando ci indica il polo con la calamita, ...o non
dobbiamo piuttosto attribuire la menzogna alla ragione
che si allontana dalla natura?»
E questa natura egli presenta, aristotelicamente, mos-
sa verso un fine, scandita in ordine per gradi, ma ove ogni
grado intende alla propria perfezione. In questo modo fi-
nalità non significa svalutazione dell’inferiore di fronte al
superiore, ma, anzi, rivalutazione di ogni momento in sé
considerato. Così non vi sono parti o funzioni vergogno-
se: «nella natura non ci sono vergogne, anche le cose più
vili hanno la loro parte di divino».
Proprio l’accentuazione del valore di ogni momento,
di ogni grado della realtà come in sé perfetto, lo indurrà,
trattando dell’anima, a volgersi verso l’immanenza piena,
e la connessione più stretta del sensibile con l’intelligibi-
le, fino a domandarsi «in qual modo mai si possano diffe-
renziare le anime degli uomini da quelle degli altri esse-
ri mortali»230 . Naturalmente egli non si fermò qui, e con
somma ambiguità tentò di salvare l’immortalità dell’ani-
ma individuale. Ma la sua posizione resta comunque del
massimo interesse, più che per sottili osservazioni parti-
colari, per questo suo aristotelismo che si fa aperta e fer-
ma difesa dei diritti dell’esperienza e dell’immediata os-
servazione della natura. Non a caso il De rerum natura

230
A. CESALPINO, Questiones peripateticae, Venetiis,
1571.

Storia d’Italia Einaudi 236


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

juxta propria principia del Telesio si svolgerà spesso col


tono di un commento alla fisica d’Aristotele.

5. Bernardino Telesio

Bernardino Telesio, cosentino, fu discepolo nei primi an-


ni di uno zio, Antonio Telesio, oscuro poeta inneggian-
te alla omniparens natura in versi lucreziani. Ma sarebbe
molto artificioso cercare in lui un’ispirazione originale,
in un’epoca in cui un po’ tutti, su esempi illustri, segui-
vano una moda diffusa. Né Bernardino Telesio fu estra-
neo alla cultura filosofica del suo tempo, ma studiò a Pa-
dova, ed ebbe stima e venerazione per Vincenzo Mag-
gi, il ben noto aristotelico, cui sottopose i primi due li-
bri del suo capolavoro, discutendone lungamente ed ot-
tenendone l’approvazione («principia non improbavit, et
quod non e principiis flueret videre nihil potuit»). Ideale
connessione, dunque, con il più intelligente aristotelismo
ufficiale, di cui non si può non tener conto.
Ai contemporanei, e a quanti l’han preceduto, Tele-
sio rimprovera soprattutto di aver costruito arbitrari si-
stemi, miscugli strani d’esperienza e ragione, non rispet-
tando né ascoltando la natura, ma barbaramente facen-
dole violenza. «Troppo fiduciosi in se stessi, senza osser-
vare come conveniva le cose in sé e le loro forze, senza
riconoscere nelle cose la grandezza, intelligenza e capa-
cità, che ad esse erano state date, ma gareggiando in sa-
pienza con Dio nel ricercare con la ragione i princìpi e
le cause del mondo, credendo di dover inventare quello
che non riuscivano a trovare, hanno immaginato il mon-
do a loro arbitrio (veluti suo arbitratu mundum effinxe-
re)». E l’hanno veramente ricreato, se anche in modo del
tutto fittizio, a propria immagine e somiglianza, a emula-

Storia d’Italia Einaudi 237


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tori non solamente della sapienza, ma della potenza an-


cora di esso Dio»231 .
Telesio sdegna tali metodi (tardiore ingenio et ani-
mo remissiore), e si propone una sapienza non divina
ma umana (humanae omnino sapientiae amatores culto-
resque), semplice fino all’umiltà. Il sottinteso polemico
contro il concetto di un uomo che fa sé misura dell’uni-
verso si svela nell’insistenza con cui batte sul fatto che
la sua opera non reca in sé nulla di mirabile (nihil di-
vinum, nihil admiratione dignum, nihil etiam valde acu-
tum). Misura del nostro sapere, come del nostro opera-
re, è la natura quale si svela al senso, che è, anch’esso, na-
tura. «Noi abbiamo seguito il senso e la natura; la natura
che, perennemente concorde con se stessa, opera e com-
pie sempre le medesime cose nel medesimo modo (per-
petuo sibi ipsi concors, idem semper et eodem agit modo,
atque idem semper operatur)». Ove ciò che più interes-
sa è questa fede, ingenua insieme e dogmatica, nella uni-
formità e costanza della natura, sempre uguale a sé, fis-
sa, dominata da norme inderogabili. Natura uniforme,
che si rivela pienamente nel senso, che è, anzi, essa stes-
sa senso per l’universale sensibilità («tutti gli enti hanno
senso»).
Analizzando, infatti, la struttura della realtà, Telesio si
scosta meno di quel che può a prima vista apparire dal-
l’aristotelismo. Complessa, egli insiste, è la sostanza di
ogni ente reale, e formata da un substrato recettivo, che
è la materia, e da due forze agenti, il caldo e il freddo.
Ora, benché talvolta egli chiami sostanze per sé ciascuno
di questi elementi, in realtà ogni particella («quantulavis

231
BERNARDINI TELESII De rerum natura, a cura di V.
Spampanato, Modena, 1910, Roma, 1926; Delle cose naturali,
trad. di Francesco Martelli (1573), dall’ed. in due libri (I
manoscritti palatini di Firenze, a cura di F. Palermo, III, Firenze,
1868, pp. I-232).

Storia d’Italia Einaudi 238


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

entis cujusvis particula, quin punctum quodvis») è sem-


pre un’unità complessa, costituita da un intimo rappor-
to di passività-attività, forza agente-resistenza; di aspet-
ti, insomma, che sola una considerazione astratta isola e
prende per sé232 .
Ma v’è di più: tutta la realtà, in ogni suo aspetto e mo-
mento, è dotata di sensibilità, e, germinando dal senso
ogni cognizione, di una qualche aurorale forma di cono-
scenza. Il sentire è intrinseco alla stessa natura agente, la
quale per conservarsi dovrà avere una, per quanto oscu-
ra, notizia di quel che le giova e di quel che le nuoce. «Se
le nature conservar si deono – scrive il Telesio nella reda-
zione in due libri dell’opera sua – è di bisogno che non
solamente fusse loro impresso un sommo appetito del-
la propria conservazione, e un sommo odio della propria
distruzione, ma una forza ancora di conoscere le propor-
zionate e le simili, le contrarie e le dissimili. Perché in-
vano appetiranno di conservarsi e osterranno di corrom-
persi, se non conosceranno quelle dalle quali sien con-
servate, e quelle dalle quali sieno offese»233 . La ragione
poi, su cui Telesio sembra fondare questa originaria do-
tazione del mondo, ha un sapore del tutto platonico e
teologizzante: Dio è buono, non ha invidia, ha compiu-
to un mondo perfetto, e non può, dunque, aver tolto al-
le creature il mezzo di conservarsi; «e tutte queste pro-
prietà si veggono attribuite alle nature agenti, acciò che
non paia, che Colui che le creò si sia dimenticato di con-
servarle, e come artefice pigro, non abbia lor donato tut-

232
De rerum natura, I, 2: «nam si... agentes operantesque
naturae, calor nimirum frigusque moli, cui sese indunt, unum
prorsus fiunt, itaque nullam entis ullius partem invenias, quae
vel moles sola vel sola agens natura sit, sed quantulavis entis
cuius vis particula, quin punctum quodvis, ex utraque, penitus
alteri commixta altera et unum utraque alteri facta constat...»
233
Delle cose naturali, I, 34; p. 57 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 239


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

te le cose necessarie alla lor conservazione; cioè, la forza


e il senso...».
Come, in ogni sia pur piccola parte della realtà v’è,
sempre, attività e passività, opaca resistenza materiale e
forza agente, così, inscindibile, v’è, in tutto, sentire e,
quindi, conoscere. Conoscere e essere si compenetrano,
a quel modo stesso che negli ionici si compenetravano
essere e vita.
Dinanzi all’obbiezione, che si prospetterà anche Cam-
panella, che gli altri esseri, diversi dagli animali, non han-
no organi sensori, Telesio risponde con molta chiarezza
che sono, quelli, semplici mezzi e strumenti della sensi-
bilità. «Ma non perché a nessuna dell’altre cose sia da-
to gli organi e gli strumenti, con li quali apparisce che gli
animali sentino, si debbe dire che solamente gli anima-
li sieno dotati della facultà del sentire, e che gli altri en-
ti ne sieno al tutto privati. Perché non apparisce... che
li strumenti sensorii dieno facoltà di operare o di sentire,
o facilità all’anima che sente, ma solamente fanno que-
sto, cioè introducon l’azione delle cose sensibili...». An-
zi, là dove la differenziazione non è avvenuta, tutto l’ente
è senso in ogni sua parte; « non hanno bisogno né di fo-
rami, né di meati..., ma essendo similari e veramente uno,
è necessario che, patendo egualmente, sentino così nel-
le parti esteriori come nelle interiori e intrinsiche». Co-
me potentemente dirà Bruno, sono tutto occhio a tutto
l’orizzonte234 .
Ma il senso, e questo Telesio chiarirà bene, non è né
la passione dello spiritus, ossia della sottile materia che si
agita nell’interno del senziente, né l’azione o sollecitazio-
ne esterna delle cose («vel illarum actio impulsioque, vel
spiritus passio commotioque»). È, invece, la percezione
di tali mutamenti («illarum harumque perceptio sensus

234
Delle cose naturali I, 35; p. 60.

Storia d’Italia Einaudi 240


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sit oportet»). Che era quanto accettar la tesi dell’univer-


sale animazione delle cose235 .
Come si vede, le premesse telesiane di una natura stu-
diata juxta propria principia, sull’unico fondamento del
senso, trovavano una grave limitazione in una serie di
presupposti metafisici dogmaticamente assunti. Magis
metaphysica videtur quam physica, gli osserva il Patrizi,
che gli domanda insieme qual senso mai abbia potuto
svelargli l’intima struttura del mondo, e la materia, e la
stessa sensibilità universale236 . La pretesa telesiana di op-
porre alla fisica aristotelica, tutta traversata da posizioni
metafisiche, un pura fisica, empiricamente costruita, fal-
liva in pieno. E non già, come qualche critico moder-
no ha sostenuto, per aver Telesio presupposto al mondo,
quasi cartesianamente, un Dio creatore; o per aver sot-
tratto all’indagine naturale la morale; o per aver inserito,
nell’uomo, sul meccanismo sensibile, l’anima separata e
creata. Telesio contraddiceva le sue premesse quando af-
fermava l’uniformità della natura, quando supponeva la
struttura della sostanza, quando immaginava, e non pro-
vava, la sensibilità universale. Ma, come tanto finemente
gli scriveva Francesco Patrizi, se la sua meditazione non
reggeva sul piano scientifico, si riscattava su quello me-
tafisico. E la sua idea di un intrinsecarsi senza residui di
senso e natura, di passività e attività e coscienza; di un
mondo che è uno e lo stesso, sia come mondo reale che
come mondo sentito; tutto questo doveva aprire una via
feconda alla riflessione campanelliana intorno alla strut-
tura dell’essere. Ma sulla linea di Telesio v’è, appunto la
metafisica di Campanella, e non la fisica di Galileo.

235
De rerum natura, VII, 2; III, pp. 3-4.
236
Le obbiezioni del Patrizi e le risposte del Telesio (Solutio-
nes Thylesii) in F. FIORENTINO, B. Telesio, Firenze, 1872,
II, pp. 375-396.

Storia d’Italia Einaudi 241


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

6. La metafisica della luce

Scolari del Telesio furono, il suo fedele espositore Serto-


rio Quattromani che univa l’amore per Petrarca all’am-
mirazione per la nuova filosofia, Antonio Persio che lo
difese contro il Patrizi, il Donio e, infine, sommo, il Cam-
panella che lo difese contro il Marta237 .
Tuttavia all’influsso telesiano non sfuggì lo stesso
Francesco Patrizi da Cherso, professore di filosofia pla-
tonica all’Università di Ferrara, scolaro in Padova del
Tomitano, del Passero, di Lazzaro Buonamici, di Fran-
cesco Robortello. Da tanti aristotelici trasse un odio pro-
fondo contro Aristotele, che riversò nelle Discussiones
peripateticae monumento insigne di critica, ove ad Ari-
stotele vengono contrapposti i presocratici, col lor natu-
ralismo, mentre al maestro di color che sanno si muo-
ve quella medesima accusa di incongruenza che abbia-
mo già vista rivolta a Telesio. Dopo tanta esaltazione dei
sensi perché porre a base della fisica dei princìpi che non
potranno mai cader sotto i sensi? Admiror principia ea
posuisse quae nullis sensibus percipiantur.
Ma la sua metafisica, attinta alle più disparate fonti
stoico-platoniche, compilate con i più torbidi elemen-
ti della tradizione ermetico-caldaica, si rifaceva alla tra-

237
La philosophia di Bernardino Telesio ristretta in brevità,
et scritta in lingua toscana dal MONTANO ACCADEMICO
COSENTINO (Sertorio Quattromani), Napoli, 1589 (ed. E.
Troilo, Bari, 1914); ANTONII PERSII Apologia pro B. Tele-
sio adversus Franciscum Patritium. Responsiones ad obiecta F.
Patritii contra Telesium (Cod. Magliab., Cl. XII, 39); cfr. anche
l’Apologia di Antonio Solino (Cl. XII, I). J. A. MARTAE...
Propugnaculum Aristotelis adversus principia B. Telesii..., Ro-
mae, 1587; TH. CAMPANELLAE Philosophia sensibus de-
monstrata... Neapoli, 1591; Prodromus Philosophiae instauran-
dae, id est dissertationis de natura rerum compendium, Franco-
furti, 1617.

Storia d’Italia Einaudi 242


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dizione ormai classica della scuola ficiniana. Egli vuol


cominciare, è vero, dal senso (a sensibus exordium pri-
mum). Primo dei sensi è la vista; oggetto della vista la lu-
ce; fondamento primo del mondo la luce, corpo incorpo-
reo, forma e materia, ille primaevus fluor, che discenden-
do da Dio, pater luminum, si identifica quasi con lo spa-
zio che vien permeando, infinita com’esso, infinita come
il mondo238 .
Mentre, da un lato, la visione pampsichistica e l’esalta-
zione del senso e la concezione dello spazio lo congiun-
gevano a Telesio; mentre la posizione del mondo infi-
nito lo riconciliava con Bruno che pur l’aveva ingiuria-
to come «sterco di pedanti»; la ispirata celebrazione del-
la luce richiama lo Zodiacus vitae di Marcello Palinge-
nio Stellato239 . Nel mondo sopraceleste si distende, per
lui, infinita la luce, immagine dell’infinita potenza di Dio
(«quoniam potuit facere infinita, putandum est fecisse
infinita, omnemque explesse vigorem»). Dio infinito si è
manifestato nell’infinito; che è ragionamento caro a Bru-
no, ove assume talora colore spinoziano.
La luce penetra il mondo celeste e terreno, e si fa luce
visibile. Quaggiù nella fugace vicenda del mondo («terra
breve hospitium»), nel vano fuggir delle cose ( «nugae

238
FR. PATRITII Discussiones peripateticae, Basileae, 1581
(la prima parte era uscita in Venezia nel 1571); Nova de univer-
sis philosophia, libris quinquaginta comprehensa: in qua Aristo-
telico methodo, non per motum, sed per lucem et lumina ad pri-
mam causam ascenditur. Deinde nova quadam et peculiari me-
thodo tota in contemplationem venit divinitas. Postremo metho-
do Platonico rerum universitas a canditore Deo deducitur... Ve-
netiis, 1593 (Ferrariae, 1591). Nel 1558 aveva pubblicato la pla-
tonica Città felice.
239
Cfr. MARCELLI PALINGENII STELLATI... Zodia-
cus vitae... libri XII, Lugduni, 1608; v. anche il De immortalita-
te animarum di ANTONIO PALEARIO (Opera, Amsteloda-
mi, 1696, pp. 573-632) e il De principiis rerum di SCIPIONE
CAPECE.

Storia d’Italia Einaudi 243


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

et mera somnia sunt haec»), l’uomo tende con spasimo


verso la patria celeste.
Patrias optate revisere sedes
Hanc igitur fragilem vitam contemnite cuius
Principium est fletus, medium labor et dolor, at mors
Finis.

Storia d’Italia Einaudi 244


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

DA GIORDANO BRUNO A TOMMASO


CAMPANELLA

1. Rinascimento e Riforma

L’impulso profondo a un rinnovamento radicale, che era


implicito in tanta parte dell’umanesimo, non poteva non
manifestarsi anche sul terreno religioso. Se in Italia spar-
sa risonanza ebbe la Riforma protestante, e solo spora-
dici fuochi si accesero qua e là, in gruppi di intellettua-
li, guardati con indifferenza e spesso aspramente critica-
ti, anche nell’ambiente più colto, non mancarono invece,
su terreno filosofico, sogni di rinnovamento totale dell’u-
mana convivenza, che investivano insieme politica e reli-
gione. La Riforma traboccava talora in una nuova chiu-
sura confessionale, in un aspra intolleranza, in una de-
pressione dell’uomo e in una condanna del mondo. L’u-
manesimo era stato riscatto dell’umano, celebrazione di
libertà, rispetto per ogni credenza, libera critica e tolle-
ranza. Valla aveva insegnato a leggere i testi sacri con oc-
chi acuti, e sgombri da preoccupazioni dogmatiche, tan-
to da meritare l’incondizionato elogio di Erasmo, quale
fondatore della nuova filologia biblica. Ficino aveva mo-
strato le occulte corrispondenze di tutte le fedi, e il na-
scosto accordo d’ogni religione e d’ogni filosofia, nel lo-
gos che tutto giustifica e tutto fonda. Libera critica, s’è
detto, e tolleranza. Da cui non poteva non nascere il di-
segno di una nuova convivenza umana, moralmente rico-
struita, razionalmente fondata, capace di dare agli uomi-
ni la felicità terrena e la salvezza dell’anima.
Nella seconda metà del ’500 Francesco Sansovino, de-
scrivendo l’ideale Repubblica d’Utopia, ci mostrerà una
religione basata su «un’occulta e eterna divinità, sopra
ogni capacità umana, la quale con la virtù, non con la

Storia d’Italia Einaudi 245


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

grandezza, si stende per questo mondo»240 . E questo Dio


gli Utopiensi sono poi pronti a riconoscere nel Dio padre
del cristianesimo, che si presenta così come la perfetta re-
ligione razionale. Religiosa è la loro visione della vita as-
sociata, e la religione è alla base del viver civile. «La prin-
cipal controversia tra loro è disputare in qual cosa consi-
sta la vera felicità dell’uomo... Ma inchinano... a crede-
re che nella volontà consista il viver felice. E si servono a
questo della Religione, la qual però appresso loro è gre-
ve e severa, né mai disputano della felicità, che non uni-
scano insieme alcuni principi tolti dalla religione e dal-
la filosofia. Senza i quali pensano che la ragione umana
sia tronca e debole ad investigar la vera felicità... Ben-
ché tal principi vengano dalla Religione, tuttavia pensa-
no che siano con ragioni e fondamenti umani condotti a
crederli e a concederli»241 .
Non è chi non veda la stretta parentela fra una co-
sì fatta Repubblica d’Utopia e i «regni di Cristo» o le
Repubbliche cattoliche, ovverosia universali «raunanze»,
germoglianti su terreno più chiaramente religioso, anche
se ereticale242 . In simili speranze di umana ricostruzione
spirituale confluirono senza dubbio, e s’alimentarono, le
ispirate costruzioni dei massimi pensatori del tardo Rina-
scimento, quali Bruno e Campanella, vicinissimi a volte,
anche se talora invece lontanissimi, proprio per la comu-

240
FRANCESCO SANSOVINO, Del governo et ammini-
strazione di diversi regni et repubbliche, così antiche come mo-
derne, Venezia, 1578, p. 197.
241
SANS0VINO, Op. cit., p. 189.
242
Cfr. l’anonima Forma d’una Repubblica Catholica del 1581
(ed. CANTIMORI, in Per la storia degli eretici italiani nel
XVI sec. in Europa, Roma, 1937, «Studi e documenti della R.
Accademia d’Italia»). [La Forma è in realtà del Pucci; vedila ora
ristampata dal Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, «Memorie
dell’Acc. delle Scienze di Torino», s. III, t. 4, parte II, 1957,
pp. 69-104.

Storia d’Italia Einaudi 246


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ne speranza di un rinnovarsi del mondo. Essi presenta-


no, certo, uno strano miscuglio di credenze astrologiche,
di pratiche magiche, di sogni messianici. Ma sono acco-
munati da un’ansia di umana liberazione, che li nobilita
e li riscatta d’ogni errore e d’ogni ingenuità. «Con que-
sta filosofia – son parole di Giordano Bruno – l’animo mi
s’aggradisce e me si magnifica l’intelletto. Però, qualun-
que sii il punto di questa sera che aspetto, se la mutazio-
ne è vera, io che son nella notte, aspetto il giorno». Fin-
ché la luce, «in cotesta patria» non avrà illuminato per
tutti di solare splendore «certe ombre dell’Idee», che ri-
splendono per ora alla mente del saggio, «le quali inve-
ro spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi,
fan rimanere gli asini lungi a dietro».

2. Religione e filosofia in Bruno

Che un profondo bisogno di rinnovamento spirituale pe-


netri tutta l’opera del Bruno, non può in nessun modo
negarsi, anche se si voglia gettare il dubbio sui suoi pre-
cisi intenti riformatori («sarìa tornato in Germania per
finire la sua setta»). Un afflato religioso traversa tutti i
suoi scritti e li infiamma, anche se poi lo induce perfi-
no alla bestemmia della religione cristiana. Ma se la cri-
tica alle superstizioni volgari, estesa talora a ogni forma
di religione positiva, sboccava nello Spaccio nei noti at-
tacchi alla divinità del Cristo e, in genere, alla venerazio-
ne dei Santi («descendono poi ad odorar in sustanza per
dèi quei che a pena hanno tanto spirito quanto le nostre
bestie»), egli sinceramente poteva riaffermare davanti ai
suoi giudici la propria convinzione che al fondo di tut-
te le religioni, positive e razionali, v’è la necessità di am-
mettere «un primo elargitore supremo» («secondo tutte
le religioni, delle quali altre sono fondate sopra la rivela-
zione, come la nostra, altre sopra qualche ragione, come

Storia d’Italia Einaudi 247


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

quella degli antichi Romani, Greci, et Egittij, tutte con-


vengono nella necessità di conoscere un primo elargitore
supremo»)243 .
Tuttavia ben difficilmente potrebbe ricondursi questa
sua sincera religiosità nell’ambito di una qualunque con-
fessione religiosa, cattolica o protestante. Contro i pro-
testanti, e se ne vanterà durante gli interrogatori vene-
ti, ebbe più volte espressioni di critica aspra a proposi-
to della dottrina della giustificazione per la fede. Il Bru-
no, dell’opera umana così aperto esaltatore, non poteva
non scagliarsi contro i nuovi «corrottori di leggi, fede e
religione», i quali «insegnano li popoli a confidar senza
l’opera, la quale è fine di tutte le religioni». E ritornan-
do senza posa sullo stesso motivo, rimprovera nello Spac-
cio ai calvinisti la loro negazione della libertà umana, e
quindi della stessa possibilità per l’uomo di professare la
vera religione («secondo la loro dottrina, non è in liber-
tà de l’elezion loro di mutarsi a questa fede»). Tuttavia,
anche a non dar troppo credito alle confessioni blasfeme
raccolte dai suoi compagni di prigionia, non è certo pos-
sibile ricondurlo, non dirò nell’ambito del cattolicismo,
ma neppure in quello di un vago cristianesimo. La chia-
ra allegoria del Cristo sotto la specie del centauro Chi-
rone, che troviamo nello Spaccio, sbocca in una irrisione
non attenuata neppure dal troppo trasparente velo del-
l’immagine («ma in questo consiste la difficultà: cioè, se
cotal terza entità produce cosa megliore... se, essendo a
l’essere umano aggionto l’essere cavallino, vien prodotto

243
Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, ed. Gen-
tile, Bari, 1925-27, II, p. 201: «perché finalmente la loro adora-
zione si termina ad uomini mortali, dappoco, infami, stolti, vi-
tuperosi, fanatici, disonorati, infortunati, inspirati da geni per-
versi, senza ingegno, senza facundia e senza virtude alcuna; i
quali vivi non valsero per sé, e non è possibile che morti va-
gliano per sé o per altro» Cfr. A. MERCATI, Sommario del
processo di Giordano Bruno, Città del Vaticano, 1942, p. 90.

Storia d’Italia Einaudi 248


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

un divo degno della sedia celeste, o pur una bestia degna


di esser messa in armento e stalla»)244 .
Bruno è, senza dubbio, ebbro di Dio; ardentemente
brama d’essere Atteone che ha visto nuda Diana ed è
sbranato dai cani, e morto al mondo è tutto aperto alla
divina grandezza. «Cossì gli cani, pensieri de cose divi-
ne, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, al-
la moltitudine, sciolto dalli nodi de’ perturbati sensi libe-
ro dal carnal carcere della materia; onde non più vegga
come per forami e per fenestre la sua Diana, ma, aven-
do gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto
de tutto l’orizonte». Ma questo infinito orizzonte l’uo-
mo «eroico» attua in se stesso. A Dio non giunge come
a realtà fuori di sé; né egli, uomo, è Dio. I pensieri di co-
se divine lo vincono e annullano la sua umana chiusura,
e in lui si apre l’infinito orizzonte; «degli suoi cani, degli
suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata
preda; perché, già avendola contratta in sé, non era ne-
cessario di cercare fuor di sé la divinità»245 . La qual di-
vinità non è che l’unità dell’essere, la semplicità fontale
che è l’infinità stessa («monas omnium numerorum fons,
simplicitas omnis magnitudinis et compositionis substan-
tia..., monadum monas, nempe entium entitas»); quell’u-
nità che oltrepassa, ma invera e chiarisce, risolvendola in
sé, e giustificandola, la molteplicità sensibile246 . «Di sor-
te che tutto guarda come uno, non vede più per distin-
zioni e numeri, che secondo la diversità de’ sensi, come
de diverse rime, fanno vedere ed apprendere in confu-

244
G. BRUNO, Opere italiane, I, p. 301; II, pp. 65, 223-24.
245
BRUNO, Opere italiane, II, pp. 472-74.
246
Opera latine conscripta, 1879-91, I, 3, pp. 136, 146:
«Deus est monadum monas, nempe entium entitas; quapropter
etiam vulgo philosophantibus ens et unum non differunt. Sicut
ergo per monadem omnia sunt unum, ita et per monadem sunt;
quando quod unum non est, nihil omnino est».

Storia d’Italia Einaudi 249


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sione. Vede l’Anfitrite, il fonte de tutti i numeri, de tutte


specie, de tutte raggioni, che è la Monade, vera essenza
de l’essere di tutti».
Religiosa è questa conversione radicale dai molti al-
l’uno, dalla parvenza alla radice: «non adoravano Gio-
ve, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità,
come fusse Giove». Religione è questo adorare, non le
cose, ma Dio nelle cose, e le cose come manifestazioni
di Dio, «avendo riguardo alla divinità, secondo che ne
è prossima e familiare, non secondo è altissima, absolu-
ta in se stessa, e senza abitudine alle cose prodotte». Re-
ligione è questo contatto col divino che si rivela, che si
manifesta, che si comunica. «Quel Dio, come absoluto,
non ha che far con noi; ma per quanto si comunica al-
li effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la na-
tura istessa; di maniera che, se lui non è la natura istes-
sa, certo è la natura della natura; ed è l’anima de l’anima
del mondo, se non è l’anima istessa». Per questo saggia-
mente si è adorato Dio nelle cose, «latente nella natura,
oprandosi e scintillando diversamente in diversi sugget-
ti, e per diverse forme fisiche». E via via che il divino sa-
rà colto in cose mortali, sarà pur degna la fede che, oltre
quei veli, coglierà Dio. «Ecco dunque come mai furono
adorati crocodilli, galli, cipolle, e rape; ma gli dei e la di-
vinità in crocodilli, galli ed altri». Mutano i tempi e i cul-
ti; crollano gli altari ma rimane unica la divinità «la qua-
le in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi, successivamen-
te e insieme, si trovò, si trova e si troverà in diversi sug-
getti quantunque siano mortali». E in questo suo mani-
festarsi terreno, in questo suo rivelarsi, cambia aspetto e
nome («secondo che diversamente si comunica... prende
diversi nomi»), ed è diversamente invocata, «e per vie in-
numerabili, con raggion proprie e appropriate a ciascu-
no, si ricerca, mentre con riti innumerabili si onora e co-
le». Nomi e preghiere mutano secondo luoghi e tempi;
non muta Dio unica luce che si riflette in infiniti spec-

Storia d’Italia Einaudi 250


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

chi: «onde al fine si trova che tutta la deità si riduce ad


un fonte, come tutta la luce al primo e per sé lucido, e le
imagini che sono in diversi e numerosi specchi, come in
tanti suggetti particulari, ad un principio formale e idea-
le, fonte di quelle»247 .
Asinina idolatria è ridurre Dio alle cose, far discendere
la nostra adorazione a oggetti vili o «a uomini mortali»;
religione è ascendere «da forme naturali» alla divinità,
«una e semplice ed absoluta in se stessa, multiforme e
omniforme in tutte le cose». Se il religioso non si fa uno
con Dio, non è ancora l’eroe che, vista la Diana ignuda,
lascia in pasto ai cani la sua carne; è tuttavia l’uomo
pio che si converte, e comincia l’ascesa per penetrare
alla divinità, la caccia in cui finalmente di cacciatore si
trasformerà in preda.
Ma, d’altra parte, questo intrinsecarsi di Dio alle cose,
e questo incontrarsi del sapiente col divino, spiegano an-
che il rilievo dato dal Bruno al momento magico della vi-
ta religiosa. Anzi, per lui, il fondatore di religioni si ser-
ve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convin-
cere ed educare. Mosé, «che in tutte le scienze degli Egi-
zii uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mira-
bili cose servendosi delle leggi stesse di natura. «La ma-
gia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente Ma-
gia non è altro che una cognizione de i secreti della na-
tura con facoltà d’imitare la natura nell’opere sue, e fare
cose meravigliose agl’occhi del volgo: quanto alla magia
mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise,
e da tutti li honorati ingegni»248 .

247
Opere italiane, II, pp. 188-200; cfr. il De visione Dei del
Cusano.
248
Sommario, p. 87 (e p. 101); Spaccio, Opere, II, p. 198; e
De magia (Opera lat. Conscripta, III, p. 403: «nullum magiae
genus noticia et cognitione indignum, quantoquidem omnis
scientia est de genere bonorum...»).

Storia d’Italia Einaudi 251


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

3. La concezione bruniana dell’universo

La posizione bruniana nei riguardi della religione già av-


via a intendere la sua posizione filosofica. Né traggano
in inganno certe sue affermazioni di fedeltà a san Tom-
maso, spesso ripetute, anche in tutta sincerità, e in mo-
menti tragici della sua vita249 . Nell’Aquinate egli venera-
va il trionfo della ragione, l’aristotelismo compatto; non
il trionfo della fede. Il suo mondo non è il mondo del
cristiano; è una natura vivente che torna a se stessa sen-
za sviluppo, nella immobilità reale sottesa a una ciclicità
inesorabile. Già abbiamo visto la lapidaria affermazione
del Candelaio, e quella sicura attesa di chi sa come il flut-
to che oggi s’innalza domani tornerà ad abbassarsi. Per
cui la vita stessa che in sé rimane immota è, in sostanza,
parvenza di vita.
Bruno scelse a più riprese come suo motto il detto
dell’Ecclesiaste, che vergò di sua mano nel 1587 sull’al-
bo dell’Università di Wittemberg. «Salomon et Pytha-
goras. Quid est quod est? ipsum quod fuit. Quid est
quod fuit? ipsum quod est. Nihil sub sole novum». E su
questo concetto tornò senza posa, nei dialoghi De la cau-
sa, nel Sigillus sigillorum, nelle risposte, eloquenti, ai suoi
giudici250 . Riferendosi allo spirito divino inteso come ani-
ma dell’universo, aggiunge: «da questo spirito poi, che è
detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia pro-
venire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima
e vita, la qual però intendo essere immortale; come an-
co alli corpi. Quanto alla loro substanzia, tutti sono im-
mortali, non essendo altro morte che divisione e congre-

249
Documenti della vita di G. B. a cura di V. Spampanato e
G. Gentile, Firenze, 1933, pp. 40, 107, 154; Sommario, p. 89.
250
De la causa, Opere, I, p. 191; Opera lat. Conscripta, II, II,
p. 213; Documenti, p. 96; Sommario, p. 115.

Storia d’Italia Einaudi 252


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

gazione; la qual dottrina pare espressa nell’Ecclesiaste».


Più precise ancora talune risposte stese dal Bruno du-
rante il processo a difesa e illustrazione delle sue tesi. A
proposito delle anime egli sottolinea: «come dalla gene-
ralità dell’acqua viene, e depende, la particolarità di que-
st’e quell’acqua,... e torna a quella,... così il spirito che
è in me, in te, in quello, viene da Dio e torna a Dio».
E dopo aver ribadito, a proposito delle cose che, tutte,
«non possono essere altro che quel che sono state, né sa-
ranno altro, che quel che sono, ...e solamente accade se-
parazione, e congiunzione, o composizione, o divisione,
o traslazione», richiama solennemente ancora una volta
il versetto dell’Ecclesiaste. A proposito, poi, dell’anima,
riprende un’immagine della Lampas triginta statuarum,
e la sviluppa lucidamente. L’anima universale è come
uno «specchio grande generale», che riflette un’immagi-
ne («il quale è una vita, e rappresenta una Immagine»).
Frantumato, «quanti sono fragmenti del specchio, tante
sono forme intere». Ma effimere, «tamquam aqua decur-
rens»; perché ricomponendosi nell’unità dello specchio,
«l’Imagini, ch’erano in ciascun fragmine, sono annichila-
te, ma resta... la sostanza, la quale era, e sarà»251 .

251
Lampas triginta statuarum, 22 (Opera lat. conscripta, III,
p. 59 sgg): «cum materia sit caussa multitudinis et divisionis,
forma vero unitatis, dicimus fulgorem divinitatis spiritum es-
se per se unum et facere unum (ab uno enim secundum quod
unum non procedit nisi unum), tamen quia est, operatur in uni-
verso extento et materiali, quo quidem divisionem recipiente et
in partium multiplicationem materiam distribuente accidit mul-
titudo, ut ea anima quae in toto tota et in uno una videbatur,
iam in multa veluti fragmenta distracto corpore, et in diver-
sas hypostases numerales multiplicato, multae fiunt animae...
Quod ita ferme est, quemadmodum si unus sit sol et unum con-
tinuum speculum, in toto illo unum solem licebit contemplari;
quod si accidat speculum illum perfringi et in numerabiles por-
tiones multiplicari, in omnibus portionibus totam repraesenta-
ri videbimus et integram solis effigiem, in quibusdam vero frag-

Storia d’Italia Einaudi 253


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Bruno, è vero, dichiarò allora che Dio, «con la poten-


za della voluntà», sottrae a questo loro destino le anime
degli uomini, facendo «li spiriti immortali per grazia di
Dio». Ma la logica della sua concezione lo portava al-
trove: a questa fissità di un ciclo in cui, si parli di na-
tura o di spirito, nulla si crea e nulla si distrugge. On-
d’è che, filosoficamente, anche se «Catolicamente par-
lando», annullava di fatto ogni distinzione possibile fra
anima nell’uomo e anima dei bruti, stimando «vera l’o-
pinione de’ Pitagorici... circa quella continua metamfi-
sicosi, cioè transformazione, e transcorporazione de tut-
te l’anime», essendo l’anima dell’uomo «medesima in es-
senza specifica e generica con quella delle mosche, ostre-
che marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove
animata»252 . E data la concezione che «non è corpo che
non abbia più o men vivace e perfettamente communi-
cazion di spirito in se stesso», l’unica anima, «ch’ha sus-
sistenzia distinta dal corpo organigo contra Aristotele»,
vien partecipandosi senza mutazione, uguale in tutte le
cose.
Questa naturale fissità del tutto, questa assenza pro-
fonda, totale, d’ogni effettiva creazione si rispecchia nel
rapporto fra mondo e Dio, nel concetto stesso di Dio,
uno e infinito. Come, a proposito dell’anima, Bruno ri-

mentis vel propter exiguitatem, vel propter infigurationis in-


dispositionem, aliquid confusum vel prope nihil de illa forma
universali apparebit, cum tamen nihilominus insit, inexplicata
tamen. Itaque si quemadmodum uno perfracto speculo prop-
ter partium multiplicationem animalium animarum multiplica-
ta sunt supposita, si accidat iterum partes omnes in unam mas-
sam coalescere, unum erit speculum, una forma, una anima, si-
cut si omnes fontes, flumina, lacus et maria in unum concur-
rant oceanum, unus erit Amphitrites». Cfr. Opere ital., I, p.
196 sgg.
252
Opere ital. II, p. 274 sgg. (Cabala del cavallo pegaseo).

Storia d’Italia Einaudi 254


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

pete che ab uno, secundum quod unum, non procedit ni-


si unum, e che, quindi, ogni moltiplicazione è parven-
te e transitoria dispersione materiale, così il rapporto
fra mondo naturale e Dio non è di libera creazione, ma
di necessaria manifestazione. La natura infinita non è
che l’apparire di un Dio che, essendo infinito, non può
non apparire nell’infinito. «Io tengo un infinito univer-
so, cioè effetto della infinita divina potenzia, perché io
stimavo cosa indegna della divina bontà e potenzia che,
possendo produr oltra questo mondo un altro ed altri in-
finiti, producesse un mondo finito». Bruno non si stanca
mai di insistere su questo punto, considerandolo nei suoi
aspetti, anche morali. Non è ammissibile che una poten-
za infinita e perfetta produca ciò che è finito e imperfet-
to: se lo facesse sarebbe almeno malvagia e invidiosa («si
Deus finita fecisset, potens facere infinita, multi homi-
num illo essent laudabiliores»). Di qui i «sillogismi de-
mostrativi» dei dialoghi De l’infinito: «il primo efficien-
te, se volesse far altro che quel che vuol fare, potrebbe
far altro che quel che fa; ma non può voler far altro che
quel che vuol fare; dunque non può far altro che per quel
che fa. Dunque, chi dice l’effetto finito pone l’operazio-
ne e la potenza finita. Oltre (che viene al medesimo): il
primo efficiente non può far se non quel che vuol fare;
non vuol fare se non quel che fa; dunque non può fare se
non quel che fa. Dunque chi nega l’effetto infinito, nega
la potenza infinita»253 .
Su questo legame necessario fra Dio e il mondo è fon-
data e l’infinità dell’universo e la sua eternità e, infine,
la sua stessa fondamentale unità. Come è detto in forma
lapidaria nei dialoghi De l’infinito (e nel De immenso è
ripetuto), «bisogna che di un inaccesso volto divino sia
uno infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri,
poi si trovino mondi innumerabili», la cui intima vicissi-

253
Opere ital., I, p. 300 sgg.; Sommario, p. 113.

Storia d’Italia Einaudi 255


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tudine non incide sull’eternità del tutto. È come un’inte-


riore circolazione per entro un tutto immutabile, «in mo-
do che, di medesima anima e intelligenza, il corpo sem-
pre si va a parte a parte cangiando e rinovando»254 .
Ma come dall’infinita potenza divina necessariamente
si inferisce il mondo infinito, così dal mondo si risale
all’unità fontale; simulacro dell’inaccesso volto divino,
l’universo infinito ci esprime Dio, così come le acque
esprimono la sorgente255 . E v’è corrispondenza perfetta,
anche se l’uomo, finché è mondano, non potrà veder
Dio che nella sua mondana diffusione. Perché questo
diffondersi nell’universal simulacro, questo esser natura,
è l’esprimersi stesso di Dio, è l’unità nella sua diffusiva
ricchezza.
Vel nihil est natura, vel est divina potestas,
Materiam exagitans, impressusque omnibus ordo
Perpetuus256 .
Dio è, e non è, la natura; poiché la natura è Dio nelle
cose, è la divina potenza nella sua manifestazione («in re-
bus ipsis manifestata»). S’è parlato di una equazione da
Bruno non sempre posta chiaramente; ma in realtà Bru-
no non oscilla nella sua affermazione: Dio, unità inac-
cessibile come tale, si esprime, si manifesta, si svela nel-
lo spechio della multiforme natura, «per modo di vesti-
gio, come dicono i Platonici, di remoto effetto, come di-
cono i Peripatetici, di indumenti, come dicono i Cabali-
sti, di spalli o posteriori, come dicono i Thalmutisti, di
specchio, ombra ed enigma, come dicono gli Apocalip-

254
Opere ital., I, p. 295; I, p. 321.
255
Opera, I, 4, p. 79; «si quippe sunt pulchre facta, mo-
ta, ordinata, concordantia, oportet esse unum concordantem,
ordinantem, moventem, et exornantem necessario, quemadmo-
dum ex sensu fluminum et plantarum sensum fontium et radi-
cum colligere cogimur».
256
Opera lat., I, 2, p. 193.

Storia d’Italia Einaudi 256


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

tici». Il quale manifestarsi di Dio, ed esplicarsi ed espri-


mersi suo, non è che un passaggio da un’unità, assolu-
ta e attuale in un atto solo, a una diffusione «a tempi a
tempi, a loco a loco, a parte a parte»; la qual faccia di-
stesa e spiegata, tuttavia, presa nella sua complessa tota-
lità è, ancora una volta, tutto ( «come medesimo, sem-
pre e in cadaun loco fa tutto...»)257 . Ma in questa disten-
sione che tutto comprende, in questa circolazione, o «re-
voluzione vicissitudinale e sempiterna», per cui nel se-
no onnicomprensivo dell’universo tutte le vicende sem-
pre si attuano, nessuna effettiva conquista si dà, nessu-
na perdita reale. È come un mareggiare sul «volto inac-
cesso» dell’Uno assoluto; ed ogni momento, in varia col-
locazione, contiene ogni particolare vicenda, ogni onda,
ogni goccia. «Nella natura è una revoluzione e un circo-
lo», per cui ciò che è alto discende («tutto quel medesi-
mo, che ascende, ha da ricalar a basso»), e ciò che è in-
feriore s’innalza, nella totale perfezione. «Alta e magnifi-
ca vicissitudine, che agguaglia l’acque inferiori alle supe-
riori, cangia la notte col giorno, e il giorno con la notte, a
fin che la divinità sia in tutto, nel modo in cui tutto è ca-
pace di tutto». Solo che, a ben guardare, anche l’accen-
no teleologico che par emergere da questa frase, sembra
nuovamente disperdersi,
E il medesmo garbuglio
Medesme tutte sorti a tutti imparte.
Nel gran mare dell’essere, nella molteplicità mirabi-
le in cui si dispiega l’Uno, «da abiti ed effetti diver-
sissimi per gli oppositi mezzi e contrarii si ritorna al
medesimo»258 . Vicende e individui si riducono a vane

257
Opere ital., I, p. 247 sgg.
258
Opere ital., II, p. 430: «però ora che siamo stati nella fec-
cia delle scienze che hanno parturito la feccia delle opinioni, le
quali sono causa della feccia degli costumi ed opere, possiamo
certo aspettare de ritornare a meglior stati».

Storia d’Italia Einaudi 257


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

parvenze, a variazioni di spazio e tempo; ma sotto l’ap-


parenza molteplice resta il medesmo. «La Parca non so-
lamente nel geno della materia corporale fa indifferente
il corpo dell’uomo da quel dell’asino, ed il corpo degli
animali dal corpo di cose stimate senz’anima; ma ancora
nel geno della materia spirituale far rimaner indifferente
l’anima asinina dall’umana, e l’anima che costituisce gli
detti animali, da quella che si trova in tutte le cose: co-
me tutti gli umori sono uno umore in sostanza, tutte le
parti aeree sono un aere in sustanza, tutti gli spiriti sono
dall’Amfitrite d’un spirito, ed a quello ritornan tutti».
Nulla muore, anche se i composti individuali si muta-
no. In realtà il mutamento è parvenza, e stoltezza il timo-
re di morte – anima sapiens non timet mortem. La sostan-
za non muore, né muta; la sostanza è, eterna, una, indif-
ferente alla varietà di aspetti che da essa si manifestano259 .
«Il cieco spavento della morte... non già s’accosta dove
l’inespugnabil muro de la filosofica contemplazion vera
circonda, dove la quiete de la vita sta fortificata e posta in
alto, dove è aperta la verità, dove è chiara la necessitade
de l’eternità d’ogni sustanza»260 .

4. La «contemplazione»

Liberatrice, dunque, la bruniana «contemplazione».


Ove chi s’interni, veramente s’accorge dell’intima me-
desimezza delle cose, dell’universo intero uno nella sua
radice ( «è dunque l’universo uno, infinito, immobile»),
uno nella sua verità, fine, sostanza. V’è come un pulsa-
re continuo per cui l’Uno si manifesta, discende, e ritor-
na a sé. Il processo manifestante è descenso «alla produ-
zion delle cose»; la comprensione è ascenso «alla cogni-

259
Opere ital., I, pp. 191 sgg., 211 sgg.
260
Opere ital., II, p. 212.

Storia d’Italia Einaudi 258


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

zion di quelle». Ma in questo ciclo perenne si traduce la


vitale pulsazione dell’essere, ov’è ugualmente valido l’U-
no e il suo manifestarsi, il descenso e l’ascenso, la disper-
sione e il ritorno. «Ecco qua la raggione, per cui non do-
viam temere che cosa alcuna diffluisca, che particolar ve-
runo o si disperda o veramente inanisca, o si diffonda in
vacuo, che lo dismembre in adnichilazione. Ecco la rag-
gion della mutazion vicissitudinale del tutto; per cui co-
sa non è di male, da cui non s’esca, cosa non è di buo-
no, a cui non s’incorra, mentre per l’infinito campo, per
la perpetua mutazione, tutta la sostanza persevera mede-
sima e una». Contemplare è afferrare l’indifferenza fon-
damentale dell’essere, e, nell’ascenso all’unità, conqui-
stare la pace, abbandonando «doglia o timore,... piacere
o speranza». Contemplare è raggiungere «la via vera al-
la vera moralità», farsi «magnanimi»; diventare più gran-
di degli dèi venerati dal volgo, «spreggiatori di quel che
fanciulleschi pensieri stimano».
I «veri contemplatori dell’istoria della natura» com-
prendono che non v’ha nell’universo distanza o separa-
zione, non grande né piccolo, non vicino o lontano, non
bene né male. «Non è altro volare da qua al cielo, che
dal cielo qua; non altro ascendere da qua là, che da là
qua; né altro è descendere dall’uno all’altro termine. Noi
non siamo più circonferenziali ad essi, che essi a noi; lo-
ro non sono più centro a noi, che noi a loro; non altri-
menti calcamo la stella e siamo compresi dal cielo che es-
si loro». La comprensione della medesimezza del tutto
è liberazione «da vana ansia e stolta cura di bramar lon-
tano», poiché il bene è presso a noi, entro di noi. È li-
berazione da vano timore, perché nulla muta, ma tutto,
unicamente, «cangia volto». L’infinito ritrova la sua sal-
vezza nell’Uno, e l’Uno manifesta nell’infinito la sua fe-
conda inesausta vita. Il contemplante si libera allora da
ogni suo timore o speranza, da ogni dispersione nel fu-

Storia d’Italia Einaudi 259


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

turo, o, in genere, nell’alterazione, per godere la «vera


beatitudine... dell’esser presente»261 .

5. La riforma morale

Ma proprio qui, nell’intendere questo rapporto circolare


fra Dio e l’universo, è tutto il problema di Bruno: ché
se questo processo, ontologicamente, sembra svanire in
una sostanziale immobilità, d’altra parte, ecco che si
trasfigura in un farsi effettivo, anche se interiore a Dio.
Negli Eroici Furori si insiste sul motivo che «il corpo è
ne l’anima, l’anima ne la mente, la mente o è Dio o è
in Dio»; e nello Spaccio non si distingue fra processo
gnoseologico e sviluppo ontologico, fra verità e realtà,
fra conoscere e fare. «L’atto della cognizion divina è
la sostanza de l’essere di tutte le cose»; e, ancora: «è
una sorte de verità, la quale è causa delle cose, e si
trova sopra tutte le cose; un’altra sorte, che si trova
nelle cose, ed è delle cose; ed è una terza, ed ultima, la
quali è dopo le cose, e dalle cose. La prima ha nome
di causa, la seconda ha nome di cosa, la terza ha nome
di cognizione». Non v’è differenza fra vero e ente; e
la verità «è ideale, naturale e nozionale; ...metafisica,
fisica e logica»262 . Solo che nella compattezza di questo
processo interno all’essere, per cui perennemente l’unità
torna a se stessa e coglie il suo significato manifestandosi
in una molteplicità che, essendole intrinseca, si annulla
perennemente nel suo seno; solo che, appunto, in questo
circolo dove nulla è nuovo, e nulla può esserci di nuovo,
la riforma morale inserisce una novità radicale. L’uomo
che «per essenza è in Dio», e anzi è tutt’uno con Dio,
per l’operazione intellettuale, e la voluntà conseguente

261
Opere ital., I, p. 281 sgg.
262
Opere ital., II, pp. 367, 264 (cfr. Opera lat., II. 3, p. 94).

Storia d’Italia Einaudi 260


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e beatifico


oggetto». All’immediatezza di una unità originaria data,
si oppone un volontario ritorno, che è conquista e novità.
Che è quanto, sul piano etico-religioso, Bruno chiara-
mente indica nell’antitesi fra coloro che sono condanna-
ti «a parlar ed operar come vasi e istrumenti», e coloro
che agiscono «come principali artefici ed efficienti». O,
per citare la nota similitudine, «gli primi son degni co-
me l’asino che porta li sacramenti; gli secondi come una
cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la
divinità, e quella s’admira, adora, ed obedisce; negli se-
condi si considera e vede l’eccellenza della propria uma-
nitade». In tal modo, tuttavia, il circolo di descenso ed
ascenso perde tutta la sua ciclicità meccanica per trasfor-
marsi in un progresso morale, in un circolo amoroso, in
un continuo arricchimento dell’essere.
Il passaggio dai dialoghi metafisici a quelli morali sem-
bra mutare la prospettiva bruniana. Quando nel quinto
dei dialoghi Della causa, dopo l’esaltato inno all’unità e
medesimezza del tutto Bruno si domanda: «perché dun-
que le cose si cangiano?», senza esitazione risponde «che
non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo
di essere». Modi diversi, ma unità, identità sostanziale;
e nessuna conquista, nessun arricchimento, ma sposta-
mento locale attraverso immutate e immutabili stazioni
per entro l’uno infinito immobile («questo lo ha inteso
Salomone, che dice non esser cosa nuova sotto il sole»).
«Volto labile... di uno immobile... ed eterno essere»; an-
zi, «ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è co-
me nulla, anzi è nulla». Ma poi questo nulla si anima
nello Spaccio e, attraverso la riforma morale e religiosa,
gli si apre davanti la possibilità di trasformare il passivo
«vaso» del divino, in «artefice efficiente», ove s’ammira
«l’eccellenza... della umanitade». Ecco la celebrazione
dell’attività umana «per l’emulazione d’atti divini», del-
le «nove e maravigliose invenzioni». Ecco quel tanto si-

Storia d’Italia Einaudi 261


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

gnificativo elogio del lavoro che vince l’ozio; quella con-


danna cruda dell’età dell’oro e d’ogni paradiso terrestre;
quell’esaltazione dell’opera («e per questo ha determina-
to la providenza, che vegna occupato ne l’azione per le
mani...»), della costruzione della civiltà, che si libera po-
co a poco «dall’esser bestiale», quando, «per l’emulazio-
ne d’atti divini e adattazione di spirituosi affetti, nate le
difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl’ingegni,
inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di gior-
no in giorno, per mezzo de l’egestade, dalla profundi-
tà de l’intelletto umano si eccitano nove e maravigliose
invenzioni»263 .
Alla qual lode del lavoro corre parallela la celebrazio-
ne della virtù del pentimento, che è la crisi che rompe la
fatale discesa dell’uomo, e rende l’anima afflitta «per il
stato presente», riconducendola a se stessa «come per ri-
membranza de l’alta ereditade». Pentirsi è inserire nella
propria condizione terrena «il fervido amore di cose su-
blimi»; il pentimento nasce, è vero, sulla carne e sul pec-
cato, nella terra e nel dolore, ma «come la vermiglia rosa,
che da le adre e pungenti spine si caccia». Nella staticità,
essenziale all’essere, la crisi morale del senso della colpa
«è come una lucida e liquida scintilla, che dalla negra e
dura selce si spicca, fassi in alto, e tende al suo cogna-
to sole». Qui v’è più che un profondo significato mora-
le; è il ritmo dell’essere, che nella sua mobile immutabi-
lità, si fa processo realizzatore di bene, quando la negra
e dura selce si spezza, per sprigionare la lucida fiamma
dell’amore264 .
Ma dolore, senso aspro della colpa e lavoro, sono le
uniche strade che fanno umanamente degna la realtà. Là
dove la metafisica non scorge che la fissità in sé chiu-
sa dell’Uno eterno e perfetto, la moralità, che discaccia

263
Opere ital., II, p. 152 sgg.
264
Opere ital., II, p. 129.

Storia d’Italia Einaudi 262


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

le fiere delle passioni, trasfigura la passività dell’accogli-


mento del dato in una riconquista, che è una trasforma-
zione radicale. Mentre l’asinità è accettazione supina, vi-
ver morti gli anni propri, non peccare e non riscattarsi,
non cogliere con Adamo il frutto proibito, ma non sten-
der con Prometeo la mano a strappare il fuoco divino
«per accendere il lume nella potenza razionale». L’asi-
nità è l’accettazione senza lotta; è l’essere cose nel mon-
do, non uomini: «fermaro i passi, piegaro... le braccia,
chiusero gli occhi, bandiro ogni propria attenzione o stu-
dio...; quindi non si volgono a destra o a sinistra, se non
secondo la lezione... che gli dona il capestro... »265 .
La riforma dello Spaccio è, veramente, la riduzione del
ritmo descenso-ascenso a un moto di liberazione morale,
ove la raggiunta conoscenza della legge del tutto, facen-
dosi nella coscienza umana norma di vita, sostituisce alla
passione come sigillo di soggezione l’amore come «con-
tatto intellettuale di quel nume oggetto». Non più «un
raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lac-
ci di ferine affezioni; ma un impeto razionale, che siegue
l’apprension intellettuale del buono e bello».

6. L’eroico furore

Lo Spaccio della bestia, e cioè la vittoria sulla passività,


sul predominio della carne, la nascita alla vita umana, che
è operazione morale, che è volontà operosa e coscien-
te («la voluntade umana siede in poppa de l’anima»), ha
origine con la consapevolezza di sé e del proprio difet-
to, e insieme del proprio significato; con una inquietu-
dine che ci fa accorti che, immersi nella natura, non sia-
mo solo natura. L’uomo emerge dal cieco ciclo delle co-
se quando lo invita un «certo lume che siede nella speco-

265
Opere ital., II, p. 269.

Storia d’Italia Einaudi 263


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

la... della nostra anima», e che è la voce critica, l’incrina-


tura del nostro stare, qualcosa di libero («est ergo quod-
dam velut libere agens»), di spregiudicato, di socratica-
mente ironico («e qua... è significato... per Momo»). È
«l’atto del raziocinio de l’interno conseglio», la «lanter-
na de la raggione», che pone l’uomo dinanzi a se stesso,
alla sua vita ferina, e fa nascere in lui rossore del suo es-
sere, pentimento del suo peccare e sollecitudine. Ansia
cioè di farsi, di «vaso» della divinità, di «asino» che re-
ca il divino, come tutte le cose lo recano, cipolle e coc-
codrilli, divino anch’egli e tempio vivente, che a Dio vo-
lontariamente e liberamente si offre. Perché le passio-
ni son di due specie, «amori volgari e naturaleschi» da
un lato, e dall’altro «divini ed eroici furori». Nel primo
caso l’uomo è trascinato da «impeto irrazionale»; è cie-
co; è tutto la sua chiusura, che ribadisce nella sua «ceci-
tà», nulla vedendo tranne se stesso, e il suo particolar go-
dimento, passivamente subendo la sua sorte. Ma v’è un
amore non di sé, ma dell’essere; non del proprio limite,
ma della verità; un amore che non è oblio, ma una me-
moria della propria radice, un’alienazione dalla propria
chiusura; una dimenticanza di sé, che non è negligenza di
se stesso, ma amore e brama del bello e buono, «con cui
si procuri farsi perfetto con trasformarsi ed assomigliar-
si a quello». Qui il perdersi è un conquistarsi, il dimen-
ticarsi èun ricordare; qui l’agire trabocca nel patire, e il
patir si identifica con l’agire supremo. Laddove l’aman-
te d’amore volgare è schiavo e soggetto, perché è chiu-
so essere dinanzi a chiuso essere, e volendo assoggetta-
re al suo piacere si fa schiavo del suo piacere, colui che
ama d’amore vero, che, cioè, vuole nel singolo l’eterno, e
lo vuole con volontà pura, «doviene un dio dal contatto
intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pen-
siero che de cose divine, e mostrasi insensibile in quel-
le cose che comunemente massime sentemo». L’un pati-
re è patire dal finito, l’altro è patire la presenza del Dio,

Storia d’Italia Einaudi 264


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

aprirsi a Dio, seguirne la legge. E qui l’amore «non è fu-


ror d’atra bile, che fuor di conseglio, raggione ed atti di
prudenza lo faccia vagare, guidato dal caso e rapito dal-
la disordinata tempesta... Ma è calor acceso dal sole in-
telligenziale ne l’anima, e impeto divino, che gl’impron-
ta l’ali; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenzia-
le, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro
probato e puro, ha sentimento de la divina e interna ar-
monia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simme-
tria della legge insita nelle cose». La passione dell’esse-
re è subito trasfigurata in attiva collaborazione con l’es-
sere, allorquando l’uomo «sotto l’imagini sensibili.... va
comprendendo divini ordini266 .
La storia di questa conversione dal patire sensibile, e
cioè dalla soggezione al fato, al patire eroico, e cioè alla li-
berazione, è storia del processo dell’emergere di una mo-
ralità umana dalla natura. E qui è il problema bruniano,
assai più che non nella determinazione se l’Uno sia nel
mondo come il nocchiero nella nave. Perché quel pro-
blema si risolveva in questo problema: come nella passi-
vità di ogni ente finito, soggetto al fato, si distingua un al-
tro patire, che è un verace agire con Dio in Dio. Che sarà
poi il problema diversamente espresso nel mito di Atteo-
ne che, mosso alla caccia della Diana ignuda, trova il suo
fine nel diventare di predatore preda. È la mente uma-
na, l’intelletto che, giunto alla presenza del divino, «ra-
pito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi
convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi
cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere
la bramata preda; perché, già avendola contratta in sé,
non era necessario di cercare fuor di sé la divinità». Ove
l’interno e l’esterno coincidono, e i molti e l’uno, quan-
do l’uomo, fatto prima «selvatico» rispetto alla dispersa
moltitudine, «non più vegga come per forami e per fine-

266
Opere ital., II. p. 360 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 265


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

stre la sua Diana, ma, avendo gittate le muraglia a terra»,


si faccia «tutto occhio a l’aspetto di tutto l’orizzonte267 .

7. Problemi nuovi in Tommaso Campanella

Senza dubbio, per molti aspetti, la posizione del Campa-


nella esce dai quadri del pensiero rinascimentale per sal-
darsi strettamente al moto religioso nato dalla Controri-
forma, alle polemiche politiche alimentate dalla reazio-
ne al Machiavelli, agli interessi scientifici del ’600 culmi-
nanti in Galileo. Basta pensare a quel suo professato ma-
chiavellismo, candidamente ammesso sotto la condanna
aperta ed insistente, per rendersi conto di quanta paren-
tela vi sia fra la sua posizione e quella dei teorici della ra-
gion di stato, ai quali doveva del resto attingere a piene
mani. «Il mondo diventò pazzo,... e gli savi, pensando
sanarlo, furon forzati a dire e fare e vivere come gli paz-
zi, se ben nel loro segreto hanno altro avviso». Anche
Campanella, come Cartesio, avanza mascherato.
E di questa sua originalità dinanzi alla cultura nata
dall’umanesimo; di questi suoi scopi pratici, morali e
politici, cui si subordina la stessa ricerca scientifica, il
Campanella non fa mistero. In quella celebre lettera
a Monsignor Antonio Querengo, scritta nel luglio del
1607 «dal profondo Caucaso» del carcere napoletano,
ove istituisce un confronto fra sé e il Pico, rimprovera
alla «fenice degl’ingegni» d’essere stato «scarsissimo»
nelle «cose morali e politiche» per aver speso la vita
«a voltar libri». «Filosofo più sopra le parole altrui
che nella natura, donde quasi niente apprese», il Pico
incarna una mentalità e una posizione tutta opposta a
quella campanelliana. «Ecco dunque il diverso filosofar
mio da quel di Pico; ed io imparo più dall’anatomia

267
Opere ital., II, p. 472 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 266


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondo


mirabilissima) che non da tutti li libri che sono scritti dal
principio di secoli sin a mo’, dopo ch’imparai a filosofare
e legger il libro di Dio: al cui esemplare correggo i libri
umani malamente copiati e a capriccio, e non secondo sta
nell’universo libro originale»268 . C’è il motivo centrale di
tanta parte della posizione del Campanella, destinato a
tornare nel noto paragone dell’Apologia per Galileo fra
natura, sacro libro di Dio, e scrittura, tra le quali non v’è,
né può esservi, contrasto269 .
Di qui il Campanella traeva argomento a porre come
fonte unico di conoscenza il contatto diretto, immedia-
to, fra uomo e cose. S. Agostino e Lattanzio hanno con
un sillogismo negato gli antipodi, «ed un marinaro gli ha
fatti bugiardi col testimoniar de visu». I ragionamenti,
su ogni argomento, giungono a porre l’equivalenza delle
opinioni; «in questo secolo oscuro... tutti filosofi e sofi-
sti, religione, empietà e superstizione hanno egual regno
e paion d’un colore». Né «per sillogismo», si può deci-
dere «qual sia più vera legge, tra la cristiana e la maco-
metana ed ebraica; e tutti scrittori vacillano sopra l’em-
pietà aristoteliche; e le scole parlano con dubbio e mus-
sitando».
Nel proemio alla Metafisica questo appello alla comu-
nicazione diretta col mondo, e quindi con Dio, si precisa
ancora. I sillogismo «è come uno strale con cui cogliamo
nel segno rimanendo lontani dall’oggetto, e senza gustar-

268
TOMMASO CAMPANELLA, Lettere (a cura di V.
Spampanato), Bari, 1927 p. 134.
269
Apologia pro Galileo: «et propterea mundus vocabatur ab
initio Sapientia Dei (ut revelatum est Sanctae Brigittae) et liber,
ut omnes in eo legeremus... Ergo sicut Apostolis prae ceteris
credimus in Scriptura, naturae libro primo... Concordant enim
codices Dei utrique alter alteri...» (Le Opere di GALILEO
GALILEI, Firenze, 1846, V, pp. 507-509). Cfr. Poesie, ed.
G. Gentile, Firenze, 1939, p. 20 sgg.

Storia d’Italia Einaudi 267


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

lo (est quasi sagitta qua scopum attingimus a longe absque


gustu)»; l’autorità è un toccar le cose per mano d’altri
(est tangere quasi per manum alienam). Conoscenza vera
si ha per diretto e profondo contatto, con grande dolcez-
za, intrinsecandosi con l’oggetto (per tactum intrinsecum,
in magna suavitate)270 .
Campanella insiste sulla trascrizione sensibile di que-
sto rapporto, per sottolinearne l’immediatezza, la non
discorsività, congiungendo in un sol termine cognizione
sensibile e intuizione intelligibile sul tipo dell’esperienza
illustrata da Ruggero Bacone. Come Bacone egli parte
dalla tradizionale analogia del vedere, della luce. Ed insi-
ste, s’è detto, sui due libri che Dio ha offerto all’uomo, la
natura e la scrittura. Sempre nel citato proemio alla Me-
tafisica Campanella osserva, che «Dio parla a noi in due
modi, e cioè producendo le cose stesse, o rivelandole se-
condo il modo degli uomini, come il maestro ai discepo-
li». In ogni caso scrive un libro in cui possiamo appren-
dere guardando (codicem vivum facit, in quo despicientes
addiscamus).
E, tuttavia, proprio questa celebre analogia visiva non
soddisfa più Campanella; proprio l’immagine, a lui co-
sì cara, del mondo «libro e tempio di Dio», dell’ «origi-
nal libro della Natura», lo spinge a andare oltre. La pa-
rola, infatti, e la scrittura di Dio, son produzione di co-
se; dicere autem Dei ac scribere est ipsum facere realiter,
sicut nostrum est declarare facta vel facere intentionaliter.
Per questo gli antichi hanno chiamato il mondo sapien-
za di Dio; per questo, perché non siamo Dio, noi pro-
duciamo solo favole, e non cose (quas realiter exprime-
remus, si Deo aequivalentes essemus), e la nostra poesia,
non è creazione, ma finzione. Per questo, nella Poetica,
i poeti che non si propongano fini civili sono conside-

270
Metaph. (Parisiis, 1638), pp. 2-5; Poesie, p. 30.

Storia d’Italia Einaudi 268


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

rati excrementa reipublicae, merito religanda271 . Ma se il


conoscere-specchiare, se il conoscere che, nella metafora
visiva, si denuncia come un puro riprodurre, non soddi-
sfa Campanella, il parallelo con Dio apre la via a un altro
più diretto contatto, a un compenetrarsi reale con l’og-
getto conosciuto, a un intrinsecarsi effettivo. «Sapien-
tia dicitur a sapore, qui sensui gustus intrinsecatur». E
l’uomo sapit proprio in quanto fa suo il sapor della co-
sa (quatenus sentit sapit, non quatenus ratiocinatur... quo-
niam sapor rei, sicuti est, illi communicatur)272 .
Ora non si insisterà mai abbastanza sul valore partico-
lare di questo sentire, non a caso dal Campanella ripe-
tutamente avvicinato all’estremo culmine dell’intuizione
platonica, non già alla percezione telesiana; o, se si vuo-
le, percezione telesiana trasfigurata poi in termini di sa-
pienza intuitiva (intuitiva sapientia, et tactus quidam gu-
stusque divinus, faciens scire res sine motu et discursu, ut
etiam Plato dixit...). Non a caso l’immagine deriva di-
rettamente dalla tradizione mistica musulmana, dal sûfi-
smo, e la troviamo negli stessi termini già in Gundissa-
lino che accoglieva la trasformazione operata dagli arabi
del vedere plotiniano e platonico in un gustare.

271
Poetica, a cura di L. Firpo, Roma, 1944, p. 260.
272
Metaph. (Parisiis, 1638), p. 65. Cfr. GUNDISALINI
de anima («Arch. his. doctr. et litt. du M. A.», IV, 1929-
30, pp. 90-91): «sapientia a sapore dicta est... et merito...
quia cum omnes alii sensus, praeter tactum, ...a se remota
sentiant, gustus ex omnibus... hoc habet proprium ut sentire
non possit nisi quod se, nullo mediante, tetigerit...». E a
p. 87: «scientia... sensibilis et mutatio formae sensatae cum
sentiente... scientia intelligibilis est mutatio formae intellectae
cum intelligente...». Cfr. su questa teoria GILSON, Les
sources gréco-arabes de l’augustinisme avicennisant, loc. cit. e
J. TEICHER, D. Gundisalino e l’agostinismo avicennizzante,
in «Riv. Filosof. neoscolastica», 1934.

Storia d’Italia Einaudi 269


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Il senso, dunque, ha qui un significato diverso dall’em-


pirismo aristotelico, e si presenta come intrinsecazione,
e quindi compartecipazione con la cosa, e cioè con quel-
l’intimità della cosa che è lo stesso processo espressivo di
Dio, il fare divino, che è l’Essere che adegua Potenza ed
Amore. Non è un vedere, quindi, o specchiare, riprodu-
cendo immagini, ma un compenetrare il processo vitale
del tutto; un gustare, insomma, la soavità della vita uni-
versale (Hic, in mundo, Deus... Verbo ipsum exprimit...).
L’esperienza, che abbatte le barriere fra interno ed
esterno, fa intima l’intimità della cosa, riconducendoci
a quella reale espressione divina attraverso la cui com-
partecipazione ci facciamo in qualche modo equivalenti
a Dio. Ove, come già in Ruggero Bacone, l’empirismo si
impianta e si converte nel misticismo.

8. «L’imparare e il conoscere sono pur qualche morte»

Questa vena mistica inserita nel sentire telesiano, men-


tre rompe la definizione che sentire è perceptio passionis,
per farne un contatto diretto con l’Essere, induce Cam-
panella a riprendere tutto il problema del senso. E sen-
so – egli dice – è non già informazione (perder la propria
forma, quindi, e farsi tutt’uno con l’oggetto), ma immu-
tazione, e cioè farsi, sì, l’oggetto, ma non completamen-
te («e, allora il fuoco e il sole conosco quando da loro so-
no mutato; ma non del tutto, che sarìa farmi fuoco, ma
poco...»). Conoscere, e conoscere è innanzitutto senti-
re («la ragione è senso strano e non proprio»), è sem-
pre illuiarsi, accogliere l’altro in sé, farsi l’altro in se stes-
si («però chi è più passibile e molle, più è atto a sentire e
divenir savio»)273 . E dunque conoscere è morire, «perché

273
Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers,
Bari, 1925, pp. II e 151.

Storia d’Italia Einaudi 270


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

ogni morte è mutarsi in altro e ogni mutamento è qualche


morte». Ed essendo il mutamento farsi l’oggetto, esso è
pur morte, ancorché parziale, accompagnandosi sempre
questo nostro internarci nell’oggetto alla consapevolezza
di noi («sensus nostrimet ipsorum, abditus qui est actus»),
al senso intimo per il quale non ci disperdiamo nella co-
sa, ma ci teniamo fermi a noi stessi. Ma proprio qui in-
terviene quel rovesciamento dal senso alla sapienza, su
cui Campanella batte. Se il sentire in quanto farsi l’og-
getto, e quindi patire, significa accogliere un nuovo limi-
te, e quindi morire, il contemplare Dio interno a tutte le
cose, l’Essere cioè che tutte le costituisce, significa spez-
zare la negatività della realtà e farsi reali veramente. «E
l’imparare e il conoscere, sendo un mutarsi nella natura
del conoscibile, sono pur qualche morte, e solo mutarsi
in Dio è vita eterna, perché non si perde l’essere nell’in-
finito mar dell’essere, ma si magnifica».
Con una bella immagine, trasferendo il suo problema
sul piano morale, Campanella osserva che, «come la lu-
ce incorporea si fa, nelli vapori dell’Iride, gialla, rossa e
verde... all’istessa maniera l’anima s’infà delle passioni...
e se si lascia vincere patirà pena». Ma se l’uomo, invece
di esser sopraffatto dal limite delle cose, le ricolloca nella
realtà, riafferrandole nell’essere in cui si sia così colloca-
to, allora «perché è penetrante e penetrato» dalla divini-
tà, perché «s’incinge, cioè s’impregna di Dio», si fa «lieto
conoscitore e beato». Tutto il maggiore sforzo di Cam-
panella è, appunto, di mostrare la possibilità di un tra-
passo, sul piano del senso, inteso come diretta esperien-
za, alla totalità dell’essere («la Teologia vera è tutta mani-
festata e rivelata alli sensi dell’uomo»). Trapasso possibi-
le quando la senziente conoscenza, che tocca le cose, vie-
ne slegandole dal loro limite, dal loro niente, per ricollo-
carle nella realtà divina del tutto, per coglierle, cioè, nel
processo in cui Dio si esprime, affermandone, non la ne-
gatività, ma la positività. Di qui l’insistenza polemica di

Storia d’Italia Einaudi 271


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

Campanella contro l’astrazione aristotelica, che impove-


risce e diluisce le cose riducendole a schemi vuoti («è de’
fanciulli e degli ignoranti che conoscono l’uomo in co-
mune, ma non le sue particolarità, ed è propriissimo alle
bestie che tutti gli uomini stimano di una sorte, come noi
tutte l’ova d’una gallina»). La verità di Pietro non è nel-
l’astratto uomo, ma nel generarsi concreto di Pietro, nel-
la comprensione di tutte le sue minutezze, che «chi ve-
de... di fuori si pensa esser tutte uguali, ma chi mira den-
tro distingue». Mirar dentro che, poi, distrugge il rap-
porto stesso dentro-fuori per la comprensione e compe-
netrazione del processo del tutto («ogni scienza al sen-
so s’appoggia, non dico all’occhio, orecchio, ma alla sen-
ziente conoscenza [anima in eis], poiché Paolo alienato e
Caterinella mia videro tanto, né sanno se in corpo o fuor
di corpo»). Ove i fondamenti metafisici di Campanella,
pur collegandosi con alcune tesi del platonismo rinasci-
mentale in genere, oltrepassavano per interessi e conclu-
sioni l’ambito di quel pensiero. Del quale rimaneva in-
vece e la concezione di una matematicità della realtà fisi-
ca, e la tesi della animazione universale, e, ancora, il co-
rollario pratico di una conversione dell’umanità intera,
attraverso soccorsi anche magici, alla vera religione. La
quale, a sua volta, si presenta come fede nel Verbo, tutto
spiegato nel mondo: religione naturale, ma coincidente
col cristianesimo visto, appunto, come l’espressione più
piena della Sapienza divina.
Ma proprio in questo complesso, qualche volta equi-
voco, di motivi, Campanella oltrepassa, ormai, la proble-
matica del Rinascimento.

Storia d’Italia Einaudi 272


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

EPILOGO

Se l’umanesimo fu, veramente, rinnovata fiducia nell’uo-


mo e nelle sue possibilità, e comprensione della sua at-
tività in ogni direzione, all’influenza umanistica è giusto
rivendicare, come si è fatto, anche il nuovo metodo d’in-
dagine scientifica, la rinnovata visione del mondo, il nuo-
vo moto verso le cose per dominarle ed usarle. La cul-
tura italiana dal ’400 al ’500 vide, pur in mezzo a tante
oscillazioni e a tanti contrasti, la convergenza di una pie-
na formazione umana, compiuta attraverso gli studia hu-
manitatis, e di una libera e fattiva espansione nel mondo.
La vecchia e forte espressione burckhardtiana che con-
giungeva la riaffermazione dell’uomo e del mondo, del-
lo spirito e della natura, deve connettersi, senza timor di
retorica, all’antica celebrazione di una rinnovata armo-
nia raggiunta dalla Rinascenza. Armonia e misura di una
umanità completa, non incrinata da quanto di torbido,
di aspro, di oscuro, traversa quei secoli: che anzi proprio
la durezza di quei contrasti, la profondità di quel trava-
glio, rende più nobile il volto di quell’età: ricca forse co-
me nessun’altra di personalità esemplari, siano esse l’Al-
berti o Lorenzo, Michelangelo o Giordano Bruno.
Con grande verità Augustin Renaudet ha scritto una
volta che «l’Italia del Rinascimento unisce in sé tutti i
conflitti». L’uomo che si celebra è questa sintesi vivente,
questo nodo, questo mediatore, questo vincolo; il mon-
do di cui si parla, il Dio che si onora, sono i poli di que-
sta tensione, ma sono visti in questa tensione. E la me-
ditazione filosofica, tutta volta a sottolineare questa sin-
tesi umana, a «educare» a questa missione, è la meno ri-
ducibile che mai sia stata a schematizzazioni e a classi-
ficazioni. È un tono, un accento, che circola ed anima
ogni problema e ogni ricerca; è ammonimento, all’arti-

Storia d’Italia Einaudi 273


Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano

sta, allo scienziato, al sacerdote, al politico, della sua mi-


sura umana. Per questo essa è varia e molteplice, e sem-
bra polverizzarsi ora in un’orazione politica, ora in un
trattato di belle maniere, ora in un manuale tecnico; è ri-
chiamo, in ogni indagine particolare, al compito umano
cui non si deve mancare. Infranto lo schema della filoso-
fia teologizzante, la scienza dell’universale invano si cer-
cherebbe nelle scolastiche sistemazioni professorali: es-
sa vive come coscienza di sé presente in ogni concreta ri-
cerca. E questa è davvero l’aurora del pensiero moder-
no: per questo tutta la cultura del Cinquecento europeo
è pregna di echi della cultura italiana. Per questo lo sto-
rico futuro della cultura filosofica rinascimentale in Ita-
lia dovrà legger piuttosto libri di politica, di morale, di
retorica, di logica e di scienza, che non di quella scola-
stica filosofia cui era stato dato un crollo mortale. Do-
po il quale la patria di Galileo, di Vico, di Giannone, di
Muratori, dei politici ed economisti del ’700, e, domani,
di Leopardi, è sembrata a taluni priva di pensiero filoso-
fico, non avendo più potuto dimenticare la lezione del-
l’umanesimo, anche quando la sua degenerazione retori-
ca sembrò averne inaridita la fonte. Ma chi nella filosofia
vede appunto una presente consapevolezza critica dello
spirito umano alle varie forme della sua attività, un sem-
pre vivo render conto a sé della propria umana misura
così nei limiti come nelle possibilità, un operoso proce-
dere mai pago del termine, un continuo elaborare nuo-
vi strumenti per un’attività inesauribile; chi così inten-
de il filosofare, non può non sottolineare la positività di
cosiffatto orientamento «umanistico».

Storia d’Italia Einaudi 274

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