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di Girolamo Arnaldi
5. Valutazione critica. 21
5.1. Tempo del politico e tempo del mercante. 21
5.2. Dino e la storia di Firenze. 23
6. Nota bibliografica. 25
Dino di Compagno di Perino era tra i priori del Comune fiorentino che tennero la
carica dal 15 ottobre all’8 novembre del 1301. Come guelfo di parte bianca, fu co-
stretto a lasciare l’ufficio dopo la vittoria dei neri e di Carlo di Valois; ma sfuggì ai
bandi del 1302 grazie a una norma statutaria che vietava fossero aperti procedi-
menti giudiziari contro i priori nel corso dell’anno successivo alla decadenza dal-
la carica (salvi i reati di sangue). Dopo avere aspettato, per «molti anni», che «al-
tri scrivesse» di quei «pericolosi advenimenti non prosperevoli»1, annunziandosi
la discesa in Italia del nuovo imperatore, Enrico VII, Dino si mise a comporre la
Cronica (fine 1310?) per accompagnare e illuminare l’opera di giustizia che quegli
si apprestava a compiere. Nell’ultima pagina del libro, compiangeva la patria tri-
bolata e annunciava ai malfattori l’imminente punizione: era l’estate del 1312, e le
forze di Enrico si apprestavano a mettere il campo sotto Firenze.
Ma l’assedio fu tolto alla fine di ottobre; l’imperatore dovette ritirarsi, e, per
altre tappe, finì la vita a Buonconvento (24 agosto 1313), portando con sé le spe-
ranze di uomini come Dante e come Dino. Questi visse ancora un decennio. La
Cronica restò presumibilmente confinata nell’archivio domestico dei Compagni,
come una qualsiasi cronaca familiare. Benché di sicuro terminata, si ha l’impres-
sione che le sia mancata una revisione finale. Questa sarebbe forse riuscita a eli-
minare, se non gli errori di fatto che la costellano (spiegabili come tradimenti del-
la memoria), almeno certe incongruità e fastidiose ripetizioni.
La storia, complessa, della tradizione e della fortuna della Cronica è stata ma-
gistralmente ricostruita da Isidoro Del Lungo. Il resto del secolo XIV e anche i
due successivi trascorsero senza che la Cronica desse apprezzabili segni di vita.
Soltanto si registrano episodi come il tacito utilizzo da parte dell’Anonimo Fio-
rentino, commentatore della Commedia fra l’ultimo ventennio del XIV e i primi
del XV secolo2 o come la conoscenza che ne dimostra l’autore di una Difesa della
città di Firenze e dei Fiorentini (Lione 1577), Paolo Mini, che pure non la menzio-
na. Nel Seicento, l’erudito Carlo di Tommaso Strozzi, prima, e poi due discen-
denti di Dino, Braccio e Carlandrea di Andrea Compagni (che si accorsero di non
possedere, nell’archivio familiare, nemmeno una copia della Cronica), diedero il
1 Si cita da D. COMPAGNI, La Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di I. DEL LUNGO, in Rerum
Italica rum Scriptores, Raccolta degli storici italiani dal cinquecento al mille cinquecento ordinata da L. A. Muratori,
nuova edizione riveduta ampliata e corretta con la direzione di G. Carducci e V. Fiorini, t. IX, parte II, Città di Ca-
stello 1913, pp. 1-296, e parte II (1916), pp. 299-456 (Indici). Le citazioni nel testo sono seguite dall’indicazione del li-
bro e del capitolo della Cronica.
2 F. MAZZONI, «Anonimo fiorentino», in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 1970, pp. 291 sg.
via alla serie delle trascrizioni, che si arricchì durante l’intero secolo e l’inizio del
seguente. Essi si rifecero a quello che sapevano essere il più antico manoscritto di-
sponibile, allora di proprietà Pandolfini (si tratta dell’attuale Laurenziano Ash-
burnhamiano 443 della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze).
L’Ashburnhamiano (il Del Lungo ipotizza, come suo precedente immediato,
un antigrafo proveniente da casa Compagni e, forse, tratto direttamente dall’ori-
ginale) fu redatto dopo il 1465; da lui dipende un codice (Magliabechiano II,
VIII, 39 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) trascritto nel 1514, oltre
che la massa delle copie secentesche. Intorno al 1650, la Cronica fu compresa fra i
testi da spogliare per la terza edizione del Vocabolario della Crusca; ma solo nel
1726 vide la luce nei Rerum Italicarum Scriptores muratoriani, fra i monumenti
della storia italiana. Nell’Ottocento si infittirono le edizioni, sollecitate da un in-
teresse puristico, non scevro di risvolti politico-nazionali; negli anni della storio-
grafia positivistica, che videro «la più vasta distruzione di false storie, di falsi do-
cumenti, di false leggende», anche la Cronica «andò soggetta a grosso assalto da
parte di tedeschi e d’italiani, ma si salvò alla fine, dopo una gran paura, dalle un-
ghie degli assalitori, gagliardamente difesa dal Del Lungo»3.
La metafora bellica rende senza forzature il clima in cui la questione fu dibat-
tuta o, meglio, combattuta, durante il cinquantennio circa che va da Sedan a Vit-
torio Veneto. Nel 1874, Paul Scheffer-Boichorst (che aveva dichiarata apocrifa,
quattro anni prima, la Cronaca dei Malispini) pubblicò una dotta memoria per
provare che la Cronica era «una falsificazione»4. Gli argomenti usati sono quelli
d’uso nella critica storico-filologica di allora: discutibile era, comunque, l’assunto
basilare secondo cui un autore non poteva né sbagliare, né contraddirsi – e se in
un testo si registravano sbagli e contraddizioni bisognava sospettare l’inganno. E,
invece, la memoria tradisce spesso il Compagni, che scrive a una certa distanza
dai fatti, con un animo appassionato e non notarile. Per il filologo tedesco, la fal-
sificazione era stata compiuta verso il 1640, nell’ambiente della Crusca (lo Schef-
fer-Boichorst non conosceva l’Ashburnhamiano, e datava il Magliabechiano al se-
colo XVII).
L’autenticità della Cronica fu rivendicata, come si è detto, da Isidoro Del
Lungo, soprattutto nel monumentale e fondamentale Dino Compagni e la sua Cro-
nica, in tre volumi e quattro tomi (Firenze 1879-87). Il Del Lungo denunciava il
vizio di fondo del procedimento usato dallo storico tedesco, alle cui contestazioni
3
B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari 1921, p. 140.
4
P. SCHEFFER-BOICHORST, Die Chronik des Dino Compagni eine Fälschung, in ID., Florentiner Studien, Leip-
zig 1874, pp. 42-218.
replicava del resto punto per punto, cadendo anche in eccessi di sottigliezza; ma
il perno documentario della sua difesa fu, come si intende, il codice quattrocente-
sco: a lui noto, ma non visto, fin dal 1879; trascritto nel 1887 (III volume del Di-
no); finalmente, messo a base dell’edizione, largamente commentata, nei nuovi
Rerum Italicarum Scriptores (1907-17). Lo stesso Scheffer-Boichorst finì per rico-
noscere il proprio errore.
Resta tuttavia aperto il problema linguistico-filologico dell’edizione della
Cronica. Il fatto di avere potuto prendere visione dell’Ashburnhamiano solo così
tardi, probabilmente, indusse poi il Del Lungo a prestargli una troppo cieca fidu-
cia (solo in tre casi – Cronica, II, 4, 7 e 9 – il Del Lungo dichiara di preferire alle
corrispondenti lezioni dell’Ashburnhamiano la lezione di testimoni secondari):
qualche ulteriore sondaggio sulla tradizione potrebbe forse riservare ancora delle
sorprese. Su un altro piano, Gianfranco Folena ha di recente avvertito che «un
esame attento [del testo dell’Ashburnhamiano] mostra che gli interventi sulla lin-
gua debbono essere stati assai marcati», dal momento che «alcuni fenomeni sin-
tattici» testimoniati dalla Cronica appartengono «all’usus fiorentino piuttosto
quattrocentesco che due-trecentesco; spicca fra questi la giustapposizione di di-
chiarative e comparative e di relative completive». Sì che «non sarà temerario so-
spettare interventi del copista dell’archetipo»5.
5 G. FOLENA, Filologia testuale e storia linguistica, in AA.VV., Studi e prohlemi di critica testuale. Convegno di stu-
di di filologia italiana nel centenario della Commissione per i testi di lingua (Bologna, 7-9 aprile1960), Bologna 1961, pp.
29-31. Sulla scorta del Folena, G. Aquilecchia insiste sul «tono polemico» della Cronica, che «non trova alcun paral-
lelo prima degli scritti politici della fine del secolo XIV», e ritiene giunta l’ora «che si scoprano le interpolazioni con-
tenute nel testo e le si denuncino». Indica poi, come primo e maggiore esempio, la notizia sull’ambasceria di Dante a
Roma in II, 25 (G. AQUILECCHIA, Dante and the Florentine Chroniclers, 1965; trad. it. Dante e i cronisti fiorentini,
pubblicata in appendice alla versione originale del saggio, in ID., Schede di italianistica, Torino 1976, pp. 73-96; le ci-
tazioni a p. 92). Nel caso specifico, si registra l’opposto parere di G. PETROCCHI, «Biografia», in Enciclopedia Dan-
tesca cit., Appendice, Roma 1978, p. 29a, secondo cui «nell’assenza di documenti pubblici, tocca dar massima fede al
resoconto del Compagni».
ne, mediatore di una pacificazione fra i guelfi e la maggior parte delle famiglie
ghibelline. Nei capitoli 4-19 sono narrati l’istituzione del priorato delle arti, la
guerra contro Arezzo (e la battaglia di Campaldino, 1289), l’emanazione degli
Ordinamenti di giustizia e l’esilio di Giano della Bella. Nei capitoli 20-24 sono
esposti i precedenti e raccontato lo scoppio e le prime manifestazioni della nuo-
va «discordia», interna alla parte guelfa, tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati e
i loro rispettivi alleati; negli ultimi capitoli del libro (capp. 25-27), si mostra co-
me queste due fazioni assunsero, da analoghe fazioni pistoiesi, i nomi di bianchi
e neri.
Nei capitoli 1-25 del libro II si snodano le diverse fasi della lotta fra i bianchi
e i neri fiorentini, sino al trionfo di questi ultimi, dovuto all’appoggio decisivo di
Carlo di Valois, inviato del papa Bonifacio VIII, e all’esilio dei primi, «i quali an-
darono stentando per lo mondo, chi qua e chi là». I capitoli 26-36 illustrano le
condizioni della città sotto i neri e gli inutili tentativi dei bianchi, con i loro allea-
ti ghibellini, di rimettervi piede: fino alla morte di Bonifacio, di cui gli uni si «ral-
legrorono» e gli altri si «contristoron assai» (cap. 35).
Il libro III si apre con l’elezione del nuovo papa Benedetto XI («il mondo si
rallegrò di nuova luce»); prosegue come il precedente, su un doppio binario, fino
al capitolo 22. Quindi, al centro della scena si colloca «Arrigo conte di Luzim-
borgo di Val di Reno della Magna», seguito dal momento della sua elezione a re
dei Romani (27 novembre 1308) a quello della sua incoronazione imperiale nel-
l’Urbe (10 agosto, secondo Dino: ma in effetti 29 giugno 1312), attraverso le con-
trastate vicende della sua spedizione italiana. Con i capitoli 37-41 siamo di nuovo
a Firenze, per assistere alle morti violente, avvenute nel frattempo, di alcuni fra i
principali uomini del governo, come Betto Brunelleschi. L’ultimo capitolo (cap.
42) culmina nell’auspicio che l’intero mondo, su cui Firenze ha sparso i semi del-
la corruzione, le si rivolti ora contro nella persona dell’Imperatore.
Quella del Compagni non è una “cronaca”, nel senso proprio di un racconto
storico ordinato cronologicamente (la successione degli avvenimenti vi è tutt’altro
che rispettata); e non è “fiorentina”, perché tralascia fatti salienti di vita locale
(come, per esempio, la guerra contro Pisa negli anni 1290-93), mentre fa largo
spazio alla spedizione di Enrico, che occupa da sola la terza parte del libro III.
Già il Muratori indicò acutamente nel rerum delectus, la ‘scelta dei contenuti’, il
carattere distintivo della Cronica, rispetto alle cronache fiorentine più antiche e
più recenti. Il taglio complessivo, la delimitazione degli orizzonti geografico e cro-
nologico, le inclusioni ed esclusioni di eventi e personaggi, vi appaiono stabiliti in
funzione di un progetto, con un rigore che non manca di sorprendere. L’autore ha
rimuginato fra sé e sé per «molti anni» la materia del libro che intendeva scrivere
– quella storia di cui era stato, fino all’ottobre-novembre 1301, spettatore e prota-
gonista a un tempo, e di cui, dopo tale data, era solo spettatore, mal rassegnato e
per nulla spassionato e sereno.
Il passaggio da una condizione all’altra era stato imposto dalla vittoria dei ne-
ri sui bianchi: era inevitabile che quella «discordia» assurgesse a momento essen-
ziale dell’intero vissuto di Dino. Secondo quanto si legge nel Proemio, la decisio-
ne di scrivere, benché «stimolata» preumanisticamente da «le ricordanze dell’an-
tiche istorie», fece tutt’uno con la necessità di rammentare «i pericolosi adveni-
menti non prosperevoli, i quali ha sostenuti la nobile città figliuola di Roma, mol-
ti anni, e spezialmente nel tempo del giubileo dell’anno MCCC».
Ciò che precede I, 22 (tranne il capitolo 21, che tratta di avvenimenti del
1300, ma successivi al 1° maggio) funge dunque da semplice antefatto: diretto in
I, 20, dove sono riferite le avvisaglie del conflitto fra Cerchi e Donati; indiretto,
nei capitoli 2-19: ma qui si palesa al massimo grado la determinazione con cui Di-
no seppe operare la scelta dei materiali che ritrovava immagazzinati nella memo-
ria. Come dimostra chiaramente il racconto di I, 22, la divisione seguita all’episo-
dio di Calendimaggio si spiega, per Dino, soltanto avendo presenti i conflitti che
avevano animato la precedente storia fiorentina: «tutti i Ghibellini tennono co i
Cerchi, perché speravano avere da loro meno offesa; e tutti quelli che erano del-
l’animo di Giano della Bella, però che parea loro fussono stati dolenti della sua
cacciata». Ed ecco che nei capitoli dal 2 al 19, i fili che collegavano i fatti del 1300
al passato vengono ripresi e riannodati. Narrato il famoso scontro del 1215, fra
Uberti e Buondelmonti, Dino passa subito al 1280, per descrivere, nel nuovo as-
setto di irreversibile prevalenza guelfa e non cancellata turbolenza ghibellina, lo
svolgimento del confronto fra i «grandi» e i «popolani», il movimento popolare
degli anni 1293-95, che vide come protagonista, prima, e poi come capro espiato-
rio, Giano della Bella. Nei successivi anni di riflusso (1295-1299), già si rivelano
tutte le premesse della tragedia: «La città, retta con poca giustizia, cadde in nuo-
vo pericolo, perché i cittadini si cominciorono a dividere per gara d’uficî, abbo-
minando l’uno l’altro» (I, 20). Se l’impianto monografico fosse sufficiente a di-
stinguere la “storia” dalla “cronaca”, il libro del Compagni sarebbe dunque – al-
meno per una buona metà – un libro di storia, e non una cronaca.
Iniziata nel maggio del 1300, la nuova «discordia», che è ormai dei bianchi e
dei neri, si gonfia nei mesi successivi e raggiunge il punto culminante nell’autun-
no dell’anno seguente, in coincidenza con il secondo priorato del Compagni, che
dura appena ventitré giorni, fino a quando (8 novembre) i neri ottengono tutto il
potere per sé. A questo punto, in seguito all’esilio e all’annichilamento di una del-
le «parti», la «discordia» cessa di essere un fatto interno fiorentino, e come tale
può dirsi conclusa, anche se i fuoriusciti bianchi e ghibellini non desistono, alme-
no fino al luglio 1307, dai tentativi di rientrare in patria.
Si comprende bene come a Dino interessino soprattutto quei ventitré giorni
in cui si giocò la partita decisiva. Poiché non segue strettamente l’ordine cronolo-
gico, e la divisione dei capitoli non è originale, una quantificazione precisa è im-
possibile: sta di fatto che in soli dieci capitoli (I, 23-27 e II, 1-5) arriva dal 1° mag-
gio 1300 al 15 ottobre 1301, mentre per giungere all’8 novembre dello stesso an-
no ne impiega quattordici (II, 6-19), ai quali vanno aggiunti almeno i cinque (20-
24) in cui «l’esposizione dei fatti dà luogo a un’impennata retorica»6.
Il primo impulso a narrare questi fatti, che mutarono radicalmente la sua vi-
ta, si manifestò nel Compagni, che aveva significativi trascorsi da letterato7, se
non già nello scorcio del 1301, certo subito dopo le condanne dell’anno seguente
(II, 25), che gli fecero il vuoto intorno. Che ci abbia pensato subito è confermato
in modo indiretto nel Proemio, dove dice che lo stimolo a scrivere si era fatto sen-
tire «lungamente» e che, per «molti anni», era rimasto senza effetto, perché si ri-
teneva «insufficiente» e credeva «che altri scrivesse». Nell’attesa, la storia conti-
nuava il suo corso: i neri, ben presto a loro volta divisi, proseguivano nelle loro
malversazioni, i bianchi e i ghibellini nei loro maldestri tentativi di riscossa. La
potenziale materia della Cronica si accresceva, così, oltre quella che avrebbe do-
vuto essere la sua conclusione naturale, in conformità del proposito originario di
raccontare la discordia fra i bianchi e i neri.
Poiché le ragioni addotte nel Proemio appartengono a un tópos di modestia,
come ha precisato il Pirodda, rimane da spiegare il perché di questa lunga gesta-
zione. Dino aspettava, in realtà, che maturassero le condizioni perché un pubbli-
co di lettori fiorentini fosse in grado di ricevere, senza più pericolo per gli averi e
per la vita, il messaggio etico-politico che doveva intrecciarsi al racconto dell’ac-
caduto. Pur restando possibile rivolgersi agli «strani», soprattutto ai suoi concit-
tadini Dino voleva far giungere la sua parola di cronista, per proseguire la predi-
cazione di saggezza, di moderazione, di pace civile, che aveva, a suo tempo, intra-
presa dalla «ringhiera» dei consigli, e dovuta bruscamente interrompere nell’au-
tunno del 1301. Finché i fiorentini stessi, rovesciata la situazione creatasi allora,
non fossero stati messi in condizione di approfittare degli insegnamenti che quel-
lo scritto avrebbe recato in sé, meglio valeva continuare a riflettere sull’accaduto,
6
G. PIRODDA, Per una lettura della «Cronica» di Dino Compagni, in «Filologia e letteratura», XIII (1967), pp.
337-93, in particolare pp. 353-63.
7 Per notizie sul Compagni letterato, cfr. anzitutto I. DEL LUNGO, Dino Compagni e la sua «Cronica», I, Firenze
1879, pp. 313-509. Per la sola Canzone del pregio, cfr. Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino 1969, pp. 627-
37.
dandosi alla lettura delle «antiche istorie» e, chissà, alla composizione dell’Intelli-
genza, il poema che, se suo, deve essere stato steso in questo giro di anni8.
Quando giunse la notizia che Enrico VII aveva attraversato le Alpi (fine
1310) e veniva «discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse uno
agnolo di Dio» (III, 24), Dino vide inaspettatamente profilarsi, di là del vicolo
cieco in cui tuttora si trovava con i suoi concittadini, «coloro che saranno eredi
de’ prosperevoli anni» (Proemio), ossia i fiorentini di un tempo che ora si annun-
ciava vicino, di segno diverso da quel presente su cui si distendevano ancora le
conseguenze nefaste del dramma di dieci anni prima. A utilità di questa genera-
zione, futura ma prossima, Dino si accinse a redigere la Cronica.
Arrivato d’un balzo al momento in cui racconta del trionfo dei neri, e dato a
ciascuno il suo nelle apostrofi collettive, e per campioni individuali, dello studia-
tissimo capitolo II, 22, Compagni non si risolve a fare punto, come avrebbe potu-
to, affidando a un prologo, più esteso dell’attuale Proemio, o a un epilogo, le sue
speranze nella prossima rivincita. Tenta bensì di collegare il 1301-302 con il 1310,
compiendo un’operazione analoga a quella che gli è riuscita brillantemente quan-
do si era trattato di mettere in rapporto gli avvenimenti dell’ultimo Duecento con
la «discordia» che apre il nuovo secolo. Ma stavolta urta contro la difficoltà di te-
nere dietro, simultaneamente, ai movimenti dei fuoriusciti, alle confuse iniziative
dei paciari pontifici e alle rivalità insorte fra i neri (II, 27-36; III, 1-22); si disper-
de poi nel seguire i progressi di Enrico, che lo costringono ad entrare nel gine-
praio delle lotte intestine delle città italiane settentrionali (III, 23-26). La Cronica
si trasforma insensibilmente in cronaca contemporanea. Il Del Lungo calcola in
settimane la distanza che separa l’ultimo fatto narrato e la stesura delle ultime ri-
ghe della Cronica. Da opera chiusa che doveva essere, questa diventa un’opera
aperta: aperta e quindi, infine, partecipe della difficoltà e dell’incertezza in cui la
spedizione di Enrico via via si avvolge nel corso del 1312.
Fra III, 36 (incoronazione imperiale) e la conclusione, cinque capitoli ci ri-
portano a Firenze, rappresentata come regno dell’impunità: «Gli uomini vi si uc-
cidono; il male per legge non si punisce; ma come il malfattore à degli amici, e può
moneta spendere, così è liberato del malificio fatto» (cap. 42); e tuttavia Dino può
elencare una serie di casi clamorosi e provvidenziali che dimostrano come il muta-
mento della situazione sia già cominciato. Dal bilancio tracciato nel capitolo 41 ri-
sulta infatti che «cinque crudeli cittadini» sono morti, di morte violenta, in punti
diversi della città ma tutti vicini al Campo di Fiore, cioè al luogo «dove [...] puni-
8 Ma cfr. Poeti minori del Trecento, a cura di N. Spegno, Milano-Napoli 1952, pp. 633-34 (a sostegno della pater-
sconsi i malifattori di mala morte»: e sono Corso Donati, Nicola de’ Cerchi, Pazzi-
no de’ Pazzi, Gherardo Bordoni; che anche di mala morte sono finiti altri due ca-
pi di parte nera, Rosso della Tosa e Betto Brunelleschi; mentre l’ultimo rimasto,
Geri Spini, vive in paura e «in gran guardia», essendo stati revocati nel 1311 i ban-
di contro Donati e Bordoni, ai quali in precedenza aveva disfatte le case.
Si tratta di un bilancio tendenzioso. Sarebbe stato difficile per chiunque far
passare per interventi provvidenziali – forieri di una speranza alternativa a quella,
ormai declinante, che si appuntava su Enrico – le morti violente (1309-12) di Ros-
so, Pazzino e Betto, che erano semmai la riprova di un clima di violenza sempre
più generalizzata: tanto più difficile per il Compagni, che nutriva e affettava senti-
menti di mitezza e di moderazione. Ecco allora la trovata delle cinque morti, vio-
lente, ma meritate, e avvenute tutte in prossimità del luogo deputato al supplizio
dei condannati, e perciò in certo modo legalizzate dal fatto topografico: in questo
indicava il miracolo, capace di ridare al popolo minuto la smarrita fiducia nella
giustizia divina. Ostinandosi a sperare in un raddrizzamento della situazione fio-
rentina, dopo che l’elezione di Enrico aveva rimesso in moto le cose italiane, il
Compagni dà a quella semplice coincidenza il valore di un “segno”. Nell’econo-
mia dell’ultima sezione della Cronica, i capitoli 37-41 vengono così ad assumere il
carattere di un secondo finale, destinato a convivere con quello imperniato sul-
l’avvento di Enrico (la giustizia divina, con i suoi miracoli, preannuncia il ristabili-
mento dell’impero della legge a opera dell’imperatore), o a sostituirlo, nel presa-
gio del fallimento dell’impresa imperiale.
Dove il De Sanctis vedeva un conflitto fra «la morale de’ libri e la morale del
mondo», i critici successivi hanno intravisto altri conflitti, tutti però in qualche
modo esemplati su quello: per il Del Lungo, il contrasto base è fra aspirazioni co-
munali e reliquie feudali; per il Sapegno, si coglie nella Cronica il conflitto fra eti-
ca astratta e pratica accorta e spregiudicata di un mondo politico in via di assesta-
mento, ma è un errore insistere sulla «ingenuità di Dino»10; per il Morghen, «l’i-
spirazione religiosa domina tutta l’opera», dove si avverte un «contrasto profon-
do» fra «la coscienza religiosa e morale dell’autore» e «la triste realtà della vita
politica della sua città», ch’egli vede «con lo stesso occhio disincantato del Ma-
chiavelli», «con un risalto tutto suo ed un peso che mai prima d’allora sembrava
aver avuto», ma pur sempre «come il regno del Maligno»11; – per il Tartaro, che
corregge la lettura in chiave politica del Pirodda12 – «può accadere [...] che nella
testimonianza dei fatti “occorrenti” s’incontrino le linee più lunghe del provvi-
denzialismo con quelle, più brevi ma non meno marcate, che rintracciano gli
umori, i problemi empirici del politico [...] e i dati più minuti della situazione fio-
rentina»13; per il Bezzola, la «conclamata ingenuità» del Compagni «si riscatta
ogni tanto nel giudicare a posteriori certe azioni o nel mettere in rilievo talune sot-
tigliezze politico-psicologiche, a cui aveva dovuto per forza avvezzarsi, in tanti an-
ni di vita pubblica»14.
Il provvidenzialismo del Compagni non è senza crepe: Dio (cfr. III, 23-24 e
37), talvolta il diavolo (I, 22; III, 28), nei momenti cruciali sono soggetti attivi di
storia; ma troviamo anche tracce di spiegazioni naturalistiche: «Sì come nasce il
vermine nel saldo pome, così tutte le cose che sono create a alcun fine, conviene
che cagione sia in esse che al lor fine termini» (III, 19). I valori morali affermati
sono genericamente cristiani, e non c’è da stupirsene. Ma allo stesso modo che l’e-
tica cavalleresca rappresentava un’evidente deformazione e forzatura del messag-
gio evangelico, anche l’etica “popolana” – pacifista, compromissoria, legalistica e
rinunciataria –, che si riflette nella Cronica, è un’involontaria caricatura di quello,
il frutto di una scelta altrettanto parziale. La famosa «ingenuità di Dino» ha spes-
so, per questo, qualcosa di affettato. Ha l’aria di venire esibita come un atteggia-
10
Cfr. N. SAPEGNO, Il Trecento (1933), Milano 1934, pp. 537-77.
11
R. MORGHEN, La storiografia fiorentina del Trecento. Ricordano Malispini, Dino Compagni e Giovanni Villani
(1958), in ID., Civiltà medioevale al tramonto, Bari 1973, pp. 102-7; le citazioni, passim.
12 G. PIRODDA, Per una lettura cit., p. 349.
13 A. TARTARO, Delusione e moralismo del Compagni, in ID., Il manifesto di Guittone e altri studi fra Due e Quat-
mento che qualifica lui e la sua parte nei confronti degli avversari, piuttosto che di
essere intimamente condivisa e vissuta.
Quando, al profilarsi del pericolo, frate Benedetto consiglia ai priori in carica
dal 15 ottobre 1301 di fare indire dal vescovo una processione espiatoria e propi-
ziatoria, «seguitammo il suo consiglio; e molti ci schernirono, dicendo che meglio
era arrotare i ferri» (II, 13); qualche giorno dopo, Dino in persona riceve dal can-
celliere e dal marescalco di Carlo di Valois il giuramento che impegna il loro si-
gnore a custodire la città e rispettare l’autorità dei priori, «e mai credetti che uno
tanto signore, e della casa reale di Francia, rompesse la sua fede» (II, 17). Ma al-
tre volte, soprattutto quando si tratta di rappresentare il mondo antagonistico
delle «famiglie» (le consorterie, i magnati), la regola del gioco cambia e viene in-
vece esibita una rude e inattesa spregiudicatezza. Così, senza batter ciglio (Dante
reagisce altrimenti), il Compagni racconta i casi degli Uberti, che, venuti a cono-
scenza del proposito dei loro consorti Amidei di dare una lezione a Buondelmon-
te de’ Buondelmonti, «dissono voleano fusse morto: ché così fia grande l’odio
della morte come delle ferite; cosa fatta capo à» (I, 2). E così racconta del consor-
te del vescovo aretino, che, dovendosi deliberare in merito alla proposta di fare
uccidere il vescovo medesimo, «disse che sarebbe stato molto contento l’avessono
fatto, non l’avendo saputo; ma essendo richiesto, non lo consentirebbe, ché non
volea esser micidiale del sangue suo» (I, 8); così di Paffiera Cavalcanti, che rag-
giunto con alcuni compagni Pazzino de’ Pazzi, «con una lancia li passò le reni, e
caduto nell’acqua gli segorono le vene, e fuggirono verso Val di Sieve» (III, 40).
Un senso vago della politica come forza – come «vigore», per usare la parola
che ricorre in alcuni punti nodali della Cronica – non è estraneo al Compagni (cfr.
I, 17: «Scacciato Giano della Bella [...], il popolo minuto perdé ogni rigoglio e vi-
gore»; II, 19: dopo l’entrata in Firenze del Valois, «la gente comune perdé il vigo-
re»; II, 15: «I neri, conoscendo i nimici loro vili e che aveano perduto il vigore,
s’avacciorono di prendere la terra»). E, quando se ne dà il caso, il «buon Dino» si
compiace anche di lucide analisi, serratamente politiche, dei comportamenti al-
trui (cfr. I, 27: accusati dai loro avversari di essere proghibellini, i Cerchi «non lo
negavano, credendo esserne più temuti, e con questo batterli, dicendo: “E’ ci te-
meranno più, dubitando che noi ci accostiamo a loro e i Ghibellini più ci ameran-
no, avendo speranza in noi”»; III, 39: Betto Brunelleschi, ex ghibellino passato ai
guelfi neri ormai vincitori, «molto trattava male i bianchi e i Ghibellini senza niu-
na piatà, per due cagioni: la prima, per esser meglio creduto da quelli che regge-
vano; l’altra, perché non aspettava mai di tal fallo misericordia»), arrivando al
punto di ascrivere a sé e ai suoi colleghi il merito di avere fatto in un caso ricorso,
15
F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana cit.
16
N. SAPEGNO, Il Trecento cit.
uomini usi alla guerra» (I, 10). Per il Compagni la società è fatta di cavalieri, «no-
bili e grandi cittadini» (I, 11), e di «mercatanti e artieri» (cfr. I, 4), «uomini debo-
li e pacifici» (II, 5). Il clero, come ordine a sé, non esiste; sullo sfondo si intravve-
de, semmai, il “quarto stato”: non tanto il popolo «minuto», che acquista «vigo-
re», per un momento, con Giano della Bella (sono «artieri» anche loro), quanto le
«povere femminelle che filavano a filatoio» e producevano la ricchezza che finiva
poi nelle mani dei grandi – «i cavalieri del filatoio» (III, 38) – e dei popolani ric-
chi (ma di questi il Compagni non parla). Ai mercatanti e artieri spettava di dirit-
to il governo della città. I cavalieri, da parte loro, costituivano una perenne mi-
naccia contro la convivenza civile, ma erano altresì «un elemento in un certo sen-
so indispensabile ed efficiente nella politica del Comune [...], specialmente nei
momenti di complicazioni esterne o di larghe imprese politiche e militari»17, co-
me la guerra contro Arezzo. L’equilibrio è vistosamente instabile, e Dino introdu-
ce un “coro” per denunciarne la precarietà. Nei primi mesi del 1301, i seguaci dei
Cerchi, che avevano per il momento il controllo di Firenze e – si badi bene – era-
no solo in parte «popolani», presero una serie di misure militari di carattere pre-
ventivo: «Ma i savi uomini diceano: “E’ sono mercatanti, e naturalmente sono vi-
li; e i lor nimici sono maestri di guerra e crudeli uomini”» (I, 27). I fatti del 4 no-
vembre dànno ragione ai «savi uomini». Il cronista non manca di registrare tali
fatti in una sequenza, in cui l’inazione di tutti nell’ora decisiva deriva come in un
corollario dall’inettitudine alla guerra dei priori, non però denunciata o lamenta-
ta (oltretutto, Dino era uno di loro), bensì constatata come un puro e inelimina-
bile dato di fatto (II, 15). A differenza dei due priori del 1289, i priori del 1301
erano rimasti tutti nei limiti imposti dal loro ufficio e dal loro status sociale.
Quando, nel descrivere i primi giorni del governo, il Compagni annota: «Demo
[ai neri] intendimento di trattare pace, quando convenìa arrotare i ferri» (II, 5),
concede troppo, senza intima convinzione, al senno di poi. Il pregiudizio pacifista
era lungi dall’essere superato. In città, per tenere a bada i «gentili uomini usi alle
guerre» c’erano le leggi. Ma le leggi andavano applicate e fatte rispettare, compi-
to non facile per un governo praticamente disarmato.
Nel narrare del suo primo ingresso nella vita pubblica, che ebbe luogo in rap-
porto con l’istituzione del priorato delle arti, il Compagni inserisce una dichiara-
zione, il cui preciso significato non è ancora del tutto chiaro: «io [...] per giovane-
za non conoscea le pene delle leggi, ma la purità de l’animo e la cagione che la
città venia in mutamento» (I, 4). Il Del Lungo interpreta parafrasando: «essendo
17
N. OTTOKAR, Il comune di Firenze alla fine del Dugento, Torino 1962, pp. 134-35.
ancor giovane non intendevo, per manco d’esperienza, tutta la gravità delle leggi
che sentivo in quelle radunate proporre contro i Grandi; ma avevo bensì coscien-
za delle mie rette intenzioni […], e vedevo la necessità di porre un rimedio o un
freno alla baldanza de’ Grandi stessi, la quale era perpetua cagione alla città di
mutamenti e disordini»18. Questo è il passaggio in cui il Compagni più nettamen-
te prende le distanze dal suo io di ieri. E ciò avviene proprio sul punto – l’ammi-
nistrazione della giustizia – cui nell’intera Cronica si mostra più sensibile. Ma, se
l’interpretazione del Del Lungo, con il rimando alle riunioni che si tennero nei
primi mesi del 1282 in vista dell’istituzione del priorato, è troppo riduttiva, sareb-
be d’altra parte irrealistico pensare che il Compagni spingesse la sua autocritica
fino al punto di rinnegare quella che il Sestan definisce «una certa candida fiducia
popolaresca nella virtù taumaturgica delle leggi»19 – fiducia che era il nocciolo
della mentalità “popolana”. Dino si muove sempre all’interno di questo orizzon-
te. Molto probabilmente, l’accenno alle «pene delle leggi» introduce, fino da I, 4,
la microunità della Cronica dedicata a Giano della Bella e agli Ordinamenti di giu-
stizia del 1293 (I, 11-18), sezione in cui, come nei capitoli sul priorato del 1301, il
dato autobiografico si fa più fortemente sentire. Anche dall’esperienza del gonfa-
lonierato del ’93 il Compagni era uscito seriamente scottato. Ancora una volta,
nel riandare a quei mesi, si era certo proposto in partenza di non rinnegare nien-
te (non si dimentichi che, nel 1300, fra i seguaci dei Cerchi furono anche «quelli
che erano dell’animo di Giano della Bella»), ma, tornatoci su, finì col mettere a
nudo le contraddizioni della linea “popolana”, con lo svelare un altro arcano del-
la sua parte.
Reagendo con determinazione alla situazione insostenibile che si era venuta a
creare, «molti buoni cittadini popolani e mercatanti», con alla testa Giano, che
era fra i priori entrati in carica il 15 febbraio ’93, «afforzorono il popolo»: viene
istituito, accanto ai sei priori, un gonfaloniere di giustizia, con alle dipendenze
«mille fanti [...] che avessono a esser presti a ogni richiesta [...] in piaza o dove bi-
sognasse. E fecesi leggi [...] contro a’ potenti che facessono oltraggi a’ popolani: e
che l’uno consorto fosse tenuto per l’altro; e che i malifìci si potessono provare
per due testimoni di pubblica voce e fama»; si determinano poi i criteri in base ai
quali si doveva stabilire chi fosse «grande» e si decretò infine l’esclusione dal
priorato dei «grandi» in tal modo accertati (I, 11). Più che a ristabilire un preca-
rio equilibrio, impossibile a mantenersi, fra cavalieri, da un lato, e mercanti e arti-
18
D. COMPAGNI, La Cronica cit., p. 16, nota 11.
19
E. SESTAN, Dante e Firenze, in ID., Italia medievale, Napoli 1966, pp. 270-91; la citazione è a p. 283.
giani dall’altro, gli Ordinamenti miravano a istituire una giustizia, soprattutto pe-
nale, dichiaratamente di parte, che tutelasse in forma adeguata i soli «uomini de-
boli e pacifici».
Tale giustizia di parte rispondeva a un’esigenza troppo connaturata nel modo
di essere “popolano”, perché il Compagni di quasi vent’anni dopo potesse pensa-
re di disdire il gonfaloniere del ’93 (Dino era stato il terzo gonfaloniere in quel-
l’anno, e aveva fatto «disfare» le case dei Galigai). Egli era certamente convinto
che, se Giano della Bella avesse avuto la meglio sui grandi nel ’94-95, la «discor-
dia» del 1300 non avrebbe dispiegato i suoi effetti perniciosi. Ciò non toglie che
la linea di rigore antimagnatizio adottata allora da Giano e dai suoi compagni non
comportasse inconvenienti, anche gravi (come Dino poté ricavare anche dalla sua
esperienza diretta: cfr. II, 11. Ma il Compagni non rinnega mai la scelta di campo
del ’93: non nel ’95, quando, proprio in coincidenza con la riforma degli Ordina-
menti (6 luglio), che ne temperava le punte estreme, ha inizio il suo primo allon-
tanamento quinquennale dalla vita pubblica; e neppure nel 1310-12 quando, scri-
vendo la Cronica, si limita a confessare che ora, a differenza di quando era giova-
ne, è consapevole delle «pene delle leggi».
Accanto alla distinzione di funzioni fra cavalieri e mercanti e alla connessa
necessità che i secondi facciano un uso politico, di parte, della giustizia penale, il
terzo arcano della mentalità “popolana”, che il Compagni svela ripercorrendo,
nella Cronica, i momenti più importanti della sua presenza nella vita pubblica fio-
rentina, è costituito dalla cieca fiducia nell’espediente di «accomunare»(o «racco-
munare») gli uffici, cioè spartire il potere fra le parti contrastanti, come toccasana
per i mali della città. Dalla «gara degli uffici», che la superbia dei grandi e dei lo-
ro emuli popolani contribuiva di continuo a generare, nascono le discordie; rac-
comunando gli uffici, si ristabiliscono ipso facto l’ordine e la concordia. La pace
del cardinal Latino aveva rappresentato, a suo tempo, un modello per operazioni
di tal genere, e il Compagni lo illustra con evidente compiacimento proprio all’i-
nizio della Cronica (I, 3). Ma «stando amendue le parti nella città, godendo i be-
nefici della pace, i Guelfi che erano più potenti cominciorono di giorno in giorno
a contraffare a’ patti della pace» (I, 4). Commenta l’Ottokar: «I principi di convi-
venza pacifica e di partecipazione proporzionale al potere [...] dimostrarono na-
turalmente in queste condizioni tutta la loro caducità [...]. La mancanza di ogni
base positiva e reale del potere costituisce il tratto più caratteristico dell’ordine
politico del Legato»20. Con l’istituzione del priorato, di poco successiva, le arti,
20
N. OTTOKAR, Il comune di Firenze cit., p. 8.
più che offrire «un sostegno dell’ordine pubblico diventato inefficiente e perico-
loso, [...] si sostituiranno direttamente alla combinazione artificiale del 1280»21.
Il Compagni non mostra di avere appreso la lezione. Al centro del program-
ma di governo dei priori entrati in carica il 15 ottobre 1301, accompagnati dalle
speranze del «popolo minuto» e dei bianchi, egli mette proprio la «volontà d’aco-
munare gli ufici [...] dicendo: “Questo è l’ultimo rimedio”». Ma aggiunge amara-
mente (e qui si fa sentire la meditazione retrospettiva) che «i loro adversari n’eb-
bono speranza, perché li conosceano uomini deboli e pacifici; i quali sotto spezie
di pace credeano leggiermente poterli ingannare»; e si sente in obbligo di chiarire
le due ragioni che avevano indotto quei priori, e se stesso fra loro, ad assumere un
atteggiamento che prestava il fianco a un’accusa di imperdonabile ingenuità: «La
prima, per piatà di parte22 [...]; la seconda, perché cagion non v’era altro che di
discordia, però che l’offese non erano ancora usate tanto, che concordia esser non
vi dovesse, raccomunando gli onori» (II, 5) (in altre parole, non erano ancora sta-
te pronunciate condanne capitali, da guelfi contro guelfi). Beninteso, Dino sape-
va benissimo che una divisione in parti uguali dell’autorità non poteva andar di-
sgiunta da un corrispondente equilibrio di forze: e lo dimostra quando spiega i
motivi del conflitto nato fra Corso Donati e gli altri capi neri nel 1308 (III, 19).
Ma la lucidità del giudizio veniva meno, quando si trattava di sé e della sua parte.
Per il Compagni, ricerca della verità storica e ricerca dei colpevoli di delitti pre-
sentano difficoltà analoghe e richiedono accorgimenti simili. In un caso come nel-
l’altro si deve poter assodare la verità dell’accaduto anche quando non si è stati
presenti al fatto. Gli Ordinamenti di giustizia, lodati dal Compagni, prevedono
fra l’altro che «i malifìci23 si potessono provare per due testimoni di pubblica vo-
ce e fama» (I, 11; il temperamento del ’95 stabilì che i testi dovessero essere alme-
no tre). Come cronista, Dino afferma di essersi proposto fin dall’inizio di «scrive-
re il vero delle cose certe che io vidi e udi’, però che furon cose notevoli, le quali
ne’ loro principii nullo le vide certamente come io»; ma, siccome neanche lui ha
potuto vedere tutto, deve scrivere anche «secondo udienza» (in base al sentito di-
re): e poiché molti mentono sapendo di mentire, e così inquinano la verità, si im-
pegna a «scrivere secondo la maggior fama» (I, 1). In tale modo, il criterio di ac-
21 Ibid., p. 11.
22 Sia i bianchi sia i neri erano di parte guelfa.
23 Imputati a un magnate.
certamento indiretto del vero giudiziale, fondato sui “testimoni di pubblica fa-
ma”, che potevano sovvenire agli inquirenti quando non erano disponibili “testi-
moni di verità” (che avessero assistito di persona al fatto), era accolto, con i ne-
cessari adattamenti, quale criterio di accertamento del vero cronachistico. A pro-
va che il Compagni tendeva ad associare mentalmente queste due distinte opera-
zioni si adduca questa circostanza: la sola volta che fa riferimento a una difficoltà
insorta, nel corso della stesura della Cronica, per essersi trovato di fronte a due
versioni contrastanti dell’accaduto, indica il punto controverso nell’identità dei
mandanti dell’uccisione di Corso Donati: «e io, volendo ricercare il vero, dili-
gentemente cercai e trovai» (III, 21). Ma che poi il principio enunciato fosse di
applicazione più ardua del previsto, risulta dimostrato dal fatto che, a III, 39, di-
mentico di quanto aveva scritto, si contraddice, e dà, come responsabile dell’as-
sassinio, Betto Brunelleschi, e non più Rosso della Tosa e Pazzino de’ Pazzi, co-
me aveva detto più sopra. Con tanta maggiore insistenza, Dino sottolinea, me-
diante un uso disinvolto della prima persona (cfr. I, 4, 12, 14, 21, 24; II, 5, 7, 8,
10, 11, 17, 19, 21), i casi che concorrono a configurare la sua fisionomia di super
“testimone della verità”, bastandogli un inciso apposto al suo nome, compreso
fra quelli dei priori entrati in carica 15 aprile 1289, per rivendicare esplicitamen-
te la paternità dell’opera cui stava attendendo: «Dino Compagni autore di questa
Cronaca» (I, 8).
Si è già accennato alla sostanziale differenza d’impianto che si rileva dal con-
fronto fra il libro di Dino e le cronache fiorentine del tempo. Dino rifiuta lo sche-
ma che obbliga a cominciare ogni narrazione dalle origini della città: ai miti della
fondazione concede solo un fuggevole ricordo (I, 1: «nobile città [...] edificata
sotto il segno di Marte»), che certo prepara la descrizione delle guerre civili, con
associazione non diversa da quella dantesca (Inferno, XIII, 143-45). Alla tradizio-
ne municipale, poi, Dino ricorre soltanto per l’episodio del 1215 che fu principio
della «maledetta» divisione fra guelfi e ghibellini: non poteva fare a meno di tor-
nare su quell’atroce colpo di forza, ma subito dichiara non essere sua «intenzione
scrivere le cose antiche, perché alcuna volta il vero non si ritruova» (I, 2). La sto-
ria di Dino, proprio perché tutta politica e polemica, ha bisogno di un «vero» po-
liticamente accertabile e rappresentabile: la sua fonte principale non può dunque
essere altra che la viva esperienza della lotta, anche se il Compagni non manca di
ricorrere a documenti e relazioni per le vicende (si pensi, soprattutto, alle gesta di
Arrigo) che si producono al di là dei confini cittadini.
Quanto alle «antiche storie», le cui «ricordanze» stimolatrici sono citate nel
Proemio, Dino non fa nomi, laddove il contemporaneo, o quasi, Giovanni Villani
ostenta il catalogo dei pretesi «maestri», e in ogni modo documenta il canone vi-
gente: «Virgilio e [...] Sallustio e Lucano e Tito Livio e Valerio e Paolo Orosio»24.
Il Compagni ha certo ben presente Sallustio, e attraverso Catilina costruisce la fi-
gura di Corso Donati: «Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma
più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno
di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a malfare, col qua-
le molti masnadieri si raunavano e gran seguito avea» (II, 20). E la picciola ora-
zione di Corso, in III, 19: «Costoro s’appropriano tutti gli onori; e noi altri, che
siamo gentili uomini e potenti, stiamo come strani: costoro ànno gli scherigli25, i
quali li seguitano: costoro [...] partonsi il tesoro, del quale noi, come maggiori do-
vremo esser signori», deve pure qualcosa al discorso del patrizio ribelle, in De co-
niuratione Catilinae, 20.
Anche l’altra allusione diniana ai fatti dei Romani rinvia, come è ben com-
prensibile, alle guerre civili (II, 1: «Fate come fe’ Sulla nella città di Roma, che
tutti i mali che esso fece in X anni, Mario in pochi dì li vendicò»), e dovrebbe pre-
supporre – direttamente o indirettamente – una lettura di Orosio. Il Compagni
non cura qui precisione cronologica, e assume sotto il nome di Silla l’intera epoca
del conflitto: «[...] quis enim unum civile bellum per decem annos his temporibus
agitatum audierit?»26. Orosio insiste, d’altra parte, sulla straordinaria efferatezza
della breve riscossa mariana; lascia uno spunto circa la “giustizia” che le stragi
partigiane si rendono l’una con l’altra («Cinna bonorum neces malorum caede
supplevit»)27. In generale, Orosio può offrire un modello, strutturale e stilistico,
di storiografia provvidenzialistica e polemica insieme.
Tra i volgari, il poeta Dino – amico e corrispondente di Guido Cavalcanti –
non avrà ignorato le lettere di Guittone, o almeno fra esse la formidabile agli «In-
fatuati miseri Fiorentini»: «O che non più sembrasse vostra terra deserto, che cità
sembra, e voi dragoni e orsi che cittadini! [...] Come cità può dire ove ladroni fan-
no legge e più pubrichi istanno che mercatanti? E ove signoreggiano micidiali, e
non pena, ma merto riceveno dei micidi? E ove son omini devorati e denudati e
morti in diserto?»28. Nei suoi tratti più aspramente oratori, la Cronica ripete certi
24
G. VILLANI, Cronica. Con le continuazioni di Matteo e Filippo, VIII, 36, scelta, introduzione e note di G. Aqui-
lecchia, Torino 1979, p. 78.
25 Cioè ‘sgherri’, guardie armate.
26 OROSIO, Historiarum adversum paganos libri septem, V, 22,12, a cura di K. Zangemeister, Leipzig 1889, p. 179
(«chi infatti potrebbe aver notizia di un’unica guerra civile combattuta in questi tempi per dieci anni?»).
27 Ibid., 19, 24, p. 175 («Cinna parificò con l’uccisione dei malvagi le stragi dei buoni»).
28 GUITTONE D’AREZZO, Lettere, edizione critica a cura di C. Margueron, Bologna 1980, pp. 156-157. Cfr. an-
che ibid., p. 158: «O miseri miserissimi disfiorati, ov’è l’orgoglio e la grandezza vostra, ché quasi sembravate una no-
5. Valutazione critica.
vella Roma, volendo tutto suggiugare al mondo? E certo non ebbero cominciamento li Romani più di voi bello [...]. O
miseri, mirate ove siete ora, e ben considerate ove sareste, fùstevi retti a una comunitate! [...]».
29 Cfr. G. LUZZATTO, Nota XIX alla sua edizione di D. COMPAGNI, Cronica (1906), Torino 1978, pp. 97-98:
«Utili è un termine del linguaggio commerciale di allora, che vorrebbe dire godibili, in cui cioè si poteva godere del-
l’impunità per qualunque misfatto».
30 Cfr. ID., Nota XXII, ibid., p. 103: «dove pagasti le dodicimila lire? o davanti a qual tribunale comparisti per ren-
derne ragione?».
31 Vale ‘quietanzò’.
32 ‘Compagni’ nel consueto senso mercantile.
Ma il fattore economico, in quanto tale, non è presente nella Cronica, non so-
lo come elemento di spiegazione storica positiva (che sarebbe stato davvero trop-
po), o come sfondo ambientale (ciò che offre costantemente il Villani), ma nep-
pure, moralisticamente, come causa suprema dell’imperante disordine civile e
morale (che è, insomma, la posizione dantesca). I «proibiti» e «falsi guadagni» so-
no invero addotti, ma solo al principio e alla fine (I, 1 e III, 42), in omaggio a una
convenzione – si direbbe – più che a un convincimento. Non l’avarizia, ma la su-
perbia, generatrice della funesta «gara degli uffici», è il vizio di gran lunga più
praticato e più condannato nella Cronica, in quanto foriero di divisioni e discor-
die (cfr. I, 2, 11, 20, 22; II, 8, 12, 26; per l’avarizia, cfr. III, 19, e II, 14, dove si trat-
ta di un’accusa circonstanziata contro i Cerchi).
Il senso particolarmente acuito del tempo, che, in questa età di transizione,
caratterizza la mentalità del mercante rispetto a quella di tutti gli altri membri del
consorzio civile33 determina nel Compagni una curiosa forma di insofferenza per
la perdita di tempo connessa con i riti della vita pubblica: come se provasse disa-
gio nell’avvertire che il tempo nel quale agiva professionalmente non era lo stesso
nel quale era costretto a operare da politico. Nel riandare alle vicende del priora-
to del 1301, quando i tre mesi previsti per tale incarico furono ridotti con la forza
a meno di un terzo, il cattivo uso, lo sperpero di questo terzo residuo gli appare
retrospettivamente come una delle ragioni principali della sconfitta subìta. A pro-
durre questo sperpero sarebbe stata in parte l’insipienza dei suoi compagni di fa-
zione (cfr. II, 10: «Tenea la ringhiera impacciata mezo il dì; e eravamo ne’ più bas-
si tenpi dell’anno»: detto di Bandino Falconieri, uno del consiglio straordinario
dei Quaranta convocato dai priori nell’ultima settimana di ottobre; II, 15: «i si-
gnori non usi a guerra, occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stan-
te si fe’ notte», del 4 novembre), in parte l’astuzia degli avversari, i quali, ancora
prima che i nuovi priori, appena designati, entrassero in carica34, e poi in seguito,
con costanza, cercarono di far naufragare in un mare di chiacchiere i già inade-
guati sforzi di Dino e dei suoi colleghi per riportare la pace in Firenze (cfr. II, 13:
«e tralle domande e le risposte il dì se ne andava: i baroni di messer Carlo gli oc-
cupavano con lunghe parole»; II, 18: «Il giorno seguente [6 novembre] i baroni di
33 Cfr. J. LE GOFF, Au Moyen Âge: Temps de l’Église et temps du marchand (1960), in ID., Pour un autre Moyen
Âge. Temps, travail et culture en Occident: 18 essais, 1977 (trad. it. Nel Medioevo: tempo della Chiesa e tempo del mer-
cante, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino 1977, pp. 3-
23).
34 Cfr. II, 5: «I Guelfi Neri incontamente furono accordati andarli a vicitare a quattro e a sei insieme, come a loro
accadeva [...] E così perdemo il primo tempo, che non ardimo a chiudere le porti, né a cessare l’udienza a’ cittadini».
messer Carlo, e messer Cante d’Agobbio, e più altri, furono a’ priori, per occupa-
re il giorno e il loro proponimento con lunghe parole»).
Correlativamente, la brevitas, di cui spesso si compiace (cfr. I, 21: «Rispose gli
aveva cari; e molto li guardò, e non li volle», detto del cardinal Matteo d’Acqua-
sparta che rifiuta i duemila «fiorini nuovi» offertigli dai priori nel 1300; III, 22:
«altri ebbe le voci35, e altri la moneta; ma lui ebbe il vescovado», elezione di An-
tonio d’Orso a vescovo di Firenze nel 1309), non è solo un artificio stilistico, che
testimonia la sua «consapevolezza retorica»36, ma anche un atteggiamento menta-
le, che emerge con chiarezza tutte le volte che, nel parlare di eventi che lo ebbero
a spettatore o protagonista, rileva con soddisfazione che si procedette spedita-
mente, sui binari di collaudate procedure (cfr. I, 9: «Dicitori vi furono assai; le
pallottole segrete si dierono: vinsesi d’andare per Casentino», delibera dell’itine-
rario per muovere contro Arezzo nel 1289; II,10: «Io domandai messer Andrea da
Cerreto [...] se fare si potea uficio nuovo sanza offendere gli Ordini della Giusti-
zia. Rispose che non si potea fare», quesito circa la legittimità dell’elezione dei
nuovi priori prima del tempo dovuto, formulato nell’ottobre del 1301), o illustra
le ragioni che in altre circostanze lo indussero a guadagnare tempo, a non proce-
dere (cfr. II, 11: «Narrarono le parole del Papa: onde io a ritrarre37 sua anbascia-
ta fui colpevole: missila ad indugio, e feci loro giurare credenza; e non per malizia
la indugiai. Appresso raunai sei savi legisti, e fecila inanzi loro ritrarre, e non la-
sciai consigliare [...]», ritorno a Roma di due degli ambasciatori inviati ai primi di
ottobre del 1301). Per il Compagni mercante prestato alla politica, fattosi poi cro-
nista di se stesso, la giusta misura del tempo in cui si distendeva un’azione era un
coefficiente non trascurabile del successo di questa. Per non dire delle azioni di
riparazione della giustizia (come si è visto, una sua preoccupazione costante), nel-
le quali la tempestività nel procedere contro il reo gli pareva l’elemento essenzia-
le, anche per assicurare l’esemplarità del castigo inflitto (cfr. II, 15: «Il podestà
non mandò la sua famiglia a casa il malfattore: né il gonfaloniere della giustizia
non si mosse a punire il malificio, perché avea tempo X dì», ferimento di Orlan-
duccio Orlandi, 4 novembre 1301).
35
Cioè i voti.
36
G. PIRODDA, Per una lettura cit., p. 349.
37 Vale ‘riferire ai consigli’.
piamente del Compagni, come fonte di primaria importanza per questo periodo.
La scelta tematica (e politica) che sta alla base della Cronica – fatta per piacere ai
dantisti – non incontra tuttavia, di norma, il gusto dei moderni. Una riserva al ri-
guardo è già implicita nel Proemio alle Istorie fiorentine del Machiavelli, il quale,
del resto, non conosceva la Cronica. Accennando alle «notabilissime» e moltepli-
ci «divisioni» interne, che caratterizzarono Firenze nei confronti delle altre re-
pubbliche, Machiavelli crea una sequenza e opera una selezione («in prima si di-
visono infra loro i nobili38 dipoi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la ple-
be»)39, rispetto alla quale le residue «divisioni», e dunque anche quella fra bianchi
e neri, sono relegate in un canto.
Nel 1899, nel suo prodigioso Magnati e popolani, il Salvemini attribuisce agli
anni 1280-95 una importanza fondamentale nella storia fiorentina, e capovolge
così l’impostazione del Compagni, e dei dantisti, che tendevano a ridurli a pro-
logo della «divisione» del 130240. Più vicino al Compagni, non certo nella preva-
lenza attribuita alla crisi del 1300, bensì per ciò che concerne i due punti, tutt’al-
tro che marginali, della continuità della storia fiorentina della fine del XII e del-
l’inizio del XIV secolo, e della straordinarietà, rispetto a questo periodo preso
nel suo insieme, del «movimento popolare degli anni 1293-94» (inteso come
«reazione delle masse anonime delle Arti – maggiori come minori – contro i co-
stumi politici e la pratica di governo dell’oligarghia dirigente») 41 pare invece Ni-
cola Ottokar, di là dalle enormi e ovvie differenze di impostazione e consapevo-
lezza storiografica.
La cura impiegata dal Compagni nel precisare, caso per caso, i motivi che
spinsero i maggiori magnati e popolani a schierarsi con i Cerchi o con i Donati
(cfr. I, 22), e l’importanza data alle strategie matrimoniali dei grandi casati (I, 3 e
20), o alla fenomenologia, in genere, delle unioni familiari stipulate nel caldo dei
conflitti (cfr. II, 19 e 23), venendo a costituire altrettante indicazioni concrete a
favore della bontà di quel metodo prosopografico, che all’Ottokar sembrava esse-
re la chiave che apriva tutte le porte, erano fatte per conciliare a Dino le simpatie
dello storico russo. Questi riconosce che il Compagni rappresenta le cose come
erano o, se si preferisce, come a lui, Ottokar, sembrava che fossero, in contrasto
con gli schematismi di chi si ostinava a ipotizzare i «magnati» e i «popolani»
schierati costantemente, nell’intero periodo, su due fronti contrapposti: «L’impo-
38
Tra guelfi e ghibellini.
39
N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, a cura di P. Carli, Fienze 1927, I, p. 8.
40 Cfr. G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (1899), Torino 1960.
41 N. OTTOKAR, Il comune di Firenze cit., p. 25.
tenti non erano aiutati, ma i grandi gli offendevano, e così i popolani grassi che
erano negli ufici e imparentati con grandi [...] Onde i buoni cittadini popolani
erano malcontenti, e biasimavano l’uficio de’ Priori, perché i Guelfi grandi erano
signori» (I, 5)42.
6. Nota bibliografica.
Il testo della Cronica, con ampio commento e appendici critiche, si può leg-
gere nell’edizione a cura di I. Del Lungo, in Rerum Italicarum Scriptores, raccolta
degli storici italiani dal cinquecento al mille cinquecento ordinata da L. A. Mura-
tori, nuova edizione riveduta ampliata e corretta con la direzione di G. Carducci
e V. Fiorini, t. IX, parte II, Città di Castello 1913, pp. 1-296, e parte II (1916), pp.
299-456 (Indici). Fra le edizioni d’uso corrente, si segnalano quella con Introdu-
zione e note di G. Luzzatto (1906), Torino 1978; quella a cura di G. Bezzola, Mi-
lano 1982. Ogni ricerca su Dino deve prendere le mosse dagli studi dello stesso
Del Lungo: Dino Compagni e la sua Cronica, 3 voll., Firenze 1879-87; e Storia
esterna vicende avventure d’un piccol libro de’ tempi di Dante, 2 voll., Milano-Ro-
ma-Napoli 1917-18, dove si troveranno minutamente esaminate anche le vicende
dell’ottocentesco Dino Streit. Fra i contributi più recenti, in prospettiva storiogra-
fica: A. DEL MONTE, La storiografia fiorentina dei secoli XII e XIII, in «Bulletti-
no dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», LXII
(1950), pp. 248-64; R. MORGHEN, La storiografia fiorentina del Trecento: Ricor-
dano Malispini, Dino Compagni e Giovanni Villani (1958), in ID., Civiltà medioe-
vale al tramonto, Bari 1973, pp. 102-7. Al Compagni sono dedicati capitoli in tut-
te le principali storie letterarie: dal classico F. DE SANCTIS, Storia della lettera-
tura italiana, a cura di N. Gallo, in ID., Opere, a cura di C. Muscetta, VIII-IX, To-
rino 1958, pp. 139-51 (cfr. p. 139: «Attore e spettatore, prende una viva parteci-
pazione a quello che narra, e schizza con mano sicura immortali ritratti. Non è
questa una cronaca, una semplice memoria di fatti: tutto si move, tutto è rappre-
sentato e disegnato, costumi, passioni, luoghi, caratteri, intenzioni, e a tutto lo
scrittore è presente, si mescola in tutto, esprime altamente le sue impressioni e i
suoi giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile»), a
N. SAPEGNO, Il Trecento (1933), Milano 1934, pp. 537-577; P. RICCI, Dino
Compagni e la prosa storiografica del ’300, in AA.VV., Letteratura italiana. I mino-
ri, Milano 1961, I, pp. 208-12; G. PETROCCHI, Cultura e poesia del Trecento, in
42
Cfr. ibid., p. 66.