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DECAMERONE-LA PESTE

Giovanni Boccaccio

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Vita

Boccaccio nacque nel 1313 probabilmente a Certaldo, Legittimato e accolto in casa


dal padre, fu avviato ai primi studi a Firenze; Nel 1327 Beccaccino si recò a Napoli
in qualità di socio della potente banca fiorentina dei Bardi; che finanziava la corte
angioina e ne amministrava gli affari. A Napoli Boccaccio rimase poi sino all'inverno
1340-41. Questo soggiorno, ebbe un'importanza determinante nella sua formazione.
Innanzitutto, nella sua pratica al banco, veniva quotidianamente a contatto con una
varietà di persone: mercanti, gente di mare, avventurieri, che confluivano nella
grande città, uno dei più importanti centri politici ed economici del Mediterraneo;
poté così maturare quello spirito di osservazione, quella conoscenza dei caratteri,
dei costumi, dei più vari strati sociali, in una parola, quella concreta e multiforme
esperienza della realtà che sarà alla base della sua arte di narratore e che trasfonderà
nelle novelle del Decameron. Poteva partecipare alla vita raffinata e gaudente
dell'aristocrazia e della ricca borghesia napoletana. Già dagli anni giovanili, si
delineano così, le due fondamentali direttrici lungo cui si muoverà tutta
l'esperienza letteraria boccacciana: quella "borghese", attenta alla realtà concreta
della vita sociale ed economica, e quella "cortese", nostalgicamente protesa verso
un mondo splendido di costumi signorili e di magnanimi comportamenti. In questi
anni napoletani si afferma in Boccaccio anche la vocazione letteraria, destinata a
trionfare ben presto sulle speranze del padre, che lo voleva mercante e banchiere,
o almeno avviato alla lucrosa professione di esperto di diritto canonico. In primo
luogo subisce il fascino della tradizione cortese, dei versi d'amore e dei romanzi
cavallereschi, Ma, sotto lo stimolo di alcuni dotti personaggi della corte angioina,
che era un centro molto vivo di cultura, comincia ad affermarsi in lui anche la
devozione per i classici latini, si dedicò allo studio del diritto canonico per imparare
il latino. Boccaccio ammira anche i classici nuovi, quelli della recente letteratura
volgare: i poeti stilnovisti, ma soprattutto Dante e Petrarca, il giovane letterato che,
con la sua fama e la sua dottrina, già domina la cultura contemporanea. Di queste
esperienze di vita e di cultura si sostanziano le prime prove, le Rime, i romanzi e i
poemi in volgare, Filocolo, Filostrato, Teseida.
A causa della crisi della banca dei Bardi, Boccaccio è costretto a tornare a Firenze
nel 1340. Allo scrittore si presentano molte difficoltà anche il problema di una
sistemazione: si reca presso vari signori, in cerca di appoggio; coltiva per anni la
speranza di una definitiva sistemazione presso la corte napoletana, a cui lo legano
le memorie giovanili, ma queste speranze vengono sempre sistematicamente
deluse. La sua città comunque lo ama come personaggio illustre e si vale di lui in
numerose missioni e ambascerie. Nel 1348 vive l'esperienza della peste, che dopo
aver colpito tutta l'Europa arriva a flagellare anche Firenze, e ne trae spunto per la
cornice narrativa in cui inserirà le cento novelle del suo capolavoro, il Decameron.
Nel 1360 il papa lo autorizza ad avere cura d’anime dopo aver scelto la condizione
di chierico, dopo aver affrontato una condizione di crisi spirituale a causa di Alfonso
di Cesarea. Nel 1362 si ritira a Certaldo dove conduce una vita appartata dedita allo
studio e alla meditazione, nel 1365 torna ad ottenere incarichi pubblici e la sua casa
divenne un centro d’incontro di un gruppo di intellettuali, il primo nucleo del
futuro dell’umanesimo fiorentino. Muore nel 1375, il 21 dicembre.

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La trama

Nel 1348 la città di Firenze, presa ormai dalla miseria e dalla sofferenza causate della
peste, si ritrova senza alcuna autorità: coloro che dovevano applicare le leggi
religiose e politiche erano morti o malati, come maggior parte della popolazione.
All’interno di questa situazione di caos, dove nessuno svolgeva i propri compiti, per
qualcuno divenne lecito fare tutto ciò che desiderava; molti altri si tenevano in una
via di mezzo tra la sobrietà e l’eccesso: non si limitavano nel cibo come i primi, né
si abbondavano al bere e alle altre dissolutezze quanto i secondi, andavano
solamente in giro con mazzi di fiori o erbe profumate presso il naso ritenendola
un’ottima idea per confortare il cervello dall’aria maleodorante per i numerosi
cadaveri che giacevano a terra.
La pietà per i parenti e gli amici era ormai dimenticata: le donne abbandonavano i
mariti, gli uomini i propri parenti e i loro figli, e per paura del contagio
abbandonavano anche le loro città come se l’ira di Dio non punisse gli uomini
ovunque essi fossero, ma che una volta scatenata si volgesse ad annientare
solamente chi si trovava all’interno della città o come se ritenessero che fosse
scoccata l’ora per la città di Firenze. Le famiglie benestanti potevano permettersi di
affidare i malati agli infermieri, che attirati dagli alti ed eccessivi salari, servivano ai
malati qualunque cosa fosse da essi richiesta oppure restavano a guardarli quando
questi morivano; prestando questi servizi contraevano la peste e perdevano la vita
senza riuscir a sfruttare i propri guadagni. I costumi morali subirono una
decadenza: ogni donna bella e leggiadra non si dava più preoccupazioni nel farsi
assistere e mostrare il proprio corpo ad un uomo senza vergogna; forse questo
comportamento fu la causa di minore onestà di coloro che sopravvissero. Era
usanza che le donne parenti del morto si riunissero per compiangere la loro perdita
e che il morto venisse portato, sulle spalle dei cittadini di pari grado sociale, alla
chiesa da lui scelta prima della morte con cerimonie funebri rese solenni e da
candele accese e canti. Queste usanze cessarono con il dilagare della pestilenza. Ora
erano i becchini a prestare questi servizi dietro pagamento: sollevavano la bara, se
la collocavano sulle spalle e la portavano, senza alcun lume, alla chiesa più vicina.
Le famiglie più umili, non potendo abbondonare i propri beni, contraevano la
malattia e morivano in casa. Poi i loro corpi venivano gettati per strada dai vicini
che erano mossi più dal timore che dal fatto che la decomposizione gli potesse
nuocere rispetto alla carità verso i defunti. Gli uomini arrivavano in città con le bare
per collocarvi i morti ed in caso non ce ne fossero state abbastanza i corpi venivano
trasportati su semplici tavole di legno, altre volte due o tre corpi venivano messi in
un’unica bara. E ancor peggio, con l’aumento dei contagi e delle morti, i defunti
venivano trattati come capre: all’inizio venivano seppelliti più corpi in un’unica
bara, ma quando queste e i posti nei campi santi si esaurirono, venivano scavate
delle enormi fosse comuni.
Le campagne non furono risparmiate dalla pestilenza: per i casolari sparsi e per i
campi, i contadini poveri e miserevoli e le loro famiglie morivano di giorno e di
notte, senza nessuna cura di un medico o aiuto di un servitore. Essi non si
occupavano più del bestiame perché non pensavano più ai profitti dai campi ma
solamente a disperdere quelli che avevano già guadagnato in attesa della morte.
Si dice che la peste abbia ucciso centomila persone solo a Firenze, prima del suo
arrivo non si sarebbe mai stimato che i cittadini di questa città fossero così tanti.

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Nuclei fondanti della novella e ideologia che se ne evince

Il tema principale della novella è la peste come ci fa già intendere il titolo. Dalla
descrizione di questa malattia si possono evincere altre tematiche come la
decadenza politico religiosa e di conseguenza una critica verso la società.
L’ideologia che si evince da questo brano del Boccaccio è l’abbandono dei valori
cittadini, sociali e religiosi per via della difficoltà e della paura derivata dalla peste.

I personaggi

La figura principale, che può essere considerata come un vero e proprio


personaggio, è la stessa peste, la quale fa da cornice all’intero brano. Essa infatti,
contestualizzata all’intera opera del Decameron, è utilizzata dall’autore come
soluzione narrativa verosimile per giustificare la prolungata consuetudine dei
novellatori.
L’immagine della peste, inoltre, dona delle coordinate temporali e spaziali ben
precise. Oltre alla peste, un altro tema che fa da protagonista, è quello della società.
Essa è considerabile frammentata, e vede al suo interno molte correnti di pensiero
differenti. La prima, comprendeva quelle persone, che mantenevano una certa
sobrietà, e conducevano uno stile di vita misurato, controllato e sano.
Una seconda corrente, vedeva coinvolte, quelle persone che decisero di concedersi
ogni forma di eccesso, facendosi gioco della situazione drammatica anche
attraverso una frenesia apotropaica.
In un altro gruppo ancora, erano presenti quelle persone che ritenevano che miasmi
e inalazioni malsane, potevano essere purificate attraverso l’uso di erbe aromatiche,
che attraverso il loro forte profumo, avrebbero dovuto svolgere un’azione repellente
contro la peste.
Altri ancora, decisero di abbandonare le città per recarsi in luoghi isolati.
Nonostante tutto ciò, molti di loro morivano; e su coloro che non morivano,
gravarono la solitudine e l’abbandono.
Boccaccio, inoltre, si sofferma su quelli che sono gli effetti che la peste ha sull’etica
e sulla morale. I rapporti sociali, infatti, erano disgregati. Egli descrive questa
situazione attraverso un climax ascendente affermando che: il fratello abbandona
il fratello, lo zio abbandona il nipote, la donna abbandona l’uomo e i genitori
abbandonano il figlio.
Tale testo, allude quindi, ad un’epoca senza speranze, priva di scopi e ad una società
dove dall’essere affiorano solamente avarizia, opportunismo ed egoismo.

Ambientazione storica e naturale

Ambientata a Firenze, l’introduzione del Decameron, nella metà del trecento,


precisamente nel 1348 con l’arrivo della peste in Europa, e solo una condizione
straordinaria come la peste che aveva scardinato ogni convenzione sociale, poteva
risultare perfettamente funzionale all’intento dell’autore, a questo si aggiunge il
motivo del rispetto per la verità storica. La contrapposizione tra la peste e la vita
serena e della brigata ha un significato più profondo, che si collega allo stesso
nucleo centrale dell’ispirazione del Decameron.

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Analisi della lingua e dello stile

L’introduzione alla prima giornata è scritta su modello di prosa latina, utilizzando


diverse figure retoriche, inversioni, collocazioni del verbo in fondo alla fine del
periodo (r 107 ‘lasciando stare il contado e alla città ritornando’), costruzioni con
verbo all’infinito; utilizza un registro medio-alto, i periodi sono un ripetersi di
subordinate ipotattiche, sono molto lunghi e complessi e costituiti da asindeti,
principalmente di virgole, tuttavia non mancano punti e virgole e due punti. Molti
sono gli incisivi (es. r 5 ‘molti altri servavano, tra questi due di sopra i tetti, una
mezzana via…e puzzolente.’). Il lessico utilizzato è ricercato, basato sul fiorentino
letterario, con varie parole di derivazione latina (r 96 ‘colti’; r 98 ‘lascivi’) o anche
di uso popolare (r 75 ‘puzzo’), oppure di origine germanica (r 24 ‘schifasse’),
ciononostante mantiene una sua decorosità. Il testo è in gran parte descrittivo, in
quanto passa in esame i comportamenti e le reazioni della popolazione durante la
peste, da chi tentava di scappare da questa andando in campagna, a chi trattava i
parenti e il prossimo come animali malati, che non sono più in grado di dare una
mano, anzi, rischiano di far ammalare pure gli altri che gli stanno attorno, a chi
sfruttava questa occasione per fare soldi in più, come i becchini.
Il tempo del racconto è continuo, si può parlare di rallentamento, perché il tempo
della storia è inferiore del tempo di racconto, infatti si sofferma molto sulla
descrizione dei personaggi. Dal rigo 107 invece si ha una pausa, perché il narratore
si sofferma a riflettere sull’origine della malattia e sulle conseguenze che questa ha
portato.
Il narratore è esterno e onnisciente

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