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La descrizione della 

peste, introduzione al Decameron del Boccaccio, è un vivido documento della


situazione politica e sociale del tempo all’interno della città di Firenze durante l’epidemia di peste del 1300.
La pestilenza ha sconvolto tutti gli equilibri preesistenti, comportando un ribaltamento dei valori, infatti si
verificano fatti scandalosi per la mentalità del tempo.
La gente si divide in gruppi di diversa opinione: alcuni sono convinti di scampare alla pestilenza vivendo
moderatamente e in completo isolamento cibandosi di delicatissimi cibi e ottimi vini; di diversa opinione
erano altri che si davano a una vita , dandosi quindi a tutti i divertimenti possibili tenendosi comunque lontani
dagli ammalati.
Approfittando della morte di molte persone i sopravvissuti, non avendo più freni inibitori, approfittavano delle
proprietà altrui senza che nessuno dicesse niente, la città, infatti, era caduta nell’anarchia, essendo morta la
maggior parte dei funzionari pubblici, le leggi non erano più rispettate .
Di conseguenza in questo clima anche i costumi morali decadono: il Boccaccio cita come esempio il fatto
che le donne non avevano più il pudore di non farsi curare da persone dell’altro sesso ma senza alcuna
vergogna ogni parte del corpo aprire; ma ormai la gente non si faceva problemi ad abbandonare anche un
famigliare malato nella logica di pensare solo alla propria sopravvivenza.
 
I servi, spinti da una irrefrenabile sete di guadagno, erano gli unici ad assistere gli ammalati, almeno in teoria
perché l’autore dice che assistevano solo immobili alla morte del padrone senza far niente, per poi
ammalarsi molto probabilmente a loro volta e non riuscire neanche a sfruttare i loro guadagni.
Nelle campagne i contadini non si occupavano più del bestiame facendolo scappare per i campi, visto che gli
uomini non pensavano a ricavare profitti dai campi o dalle bestie ma di spendere quelli già guadagnati in
attesa della morte.
In questo clima di rovesciamento dei costumi si dice che la peste abbia ucciso nella sola città di Firenze
centomila persone.
Boccaccio è a Firenze nel 1348, anno in cui imperversa il flagello della “Peste Nera”. Con questo termine (o
“Grande Morte” o “Morte Nera”) ci si riferisce normalmente all’epidemia che colpì l’Europa tra il 1347 e il
1352, uccidendo almeno un terzo della sua popolazione (25-30 milioni di morti su 75-80 milioni di persone).
Giovanni perde tra gli amici Matteo Frescobaldi, Giovanni Villani e Franceschino degli Albizzi. Lutti dolorosi
investono anche la stretta cerchia famigliare, con la scomparsa del padre e della matrigna, in seguito alla
quale Boccaccio eredita l’intero patrimonio parentale e ne assume la gestione assieme alla tutela del fratello
minore.
Evento storico di tragica rilevanza e punto di snodo nella biografia boccacciana, per l’adozione forzata delle
piene responsabilità famigliari, la peste del 1348 ritorna nelle pagine iniziali del Decameron: I, Introduzione.
L’“orrido cominciamento” diventa il motore capace di innescare l’azione del racconto, che incornicia le cento
novelle del libro. La finzione vuole che dieci giovani, sette donne e tre uomini, incontratisi nella chiesa di
santa Maria Novella durante l’imperversare del morbo, decidano di allontanarsi da Firenze e di attendere in
campagna l’estinguersi dell’epidemia, dilettandosi con giochi, danze e racconti. Il quadro di morte affidato
alla cornice del Decameron non rifugge dalla descrizione degli effetti nefasti del terribile flagello sul piano
sociale e morale. Il comune denominatore alle efferatezze presentate da Boccaccio, con il rigore del cronista
e la partecipazione del testimone oculare, è indicato nell’infrazione delle leggi naturali e sociali. Firenze,
afflitta dal morbo, conosce un imbestiamento degli esseri umani, che per timore del contagio disdegnano di
soccorrere anche i parenti più prossimi, figli inclusi. Alla rottura dei vincoli famigliari si associa il
sovvertimento dell’ordine morale e religioso, con la dissacrazione del culto dei morti e l’instaurarsi di regimi di
vita dissoluta.

INTRODUZIONE PARAFRASI
La descrizione della peste contenuta nell’introduzione alla prima giornata del Decameron, è certamente una
delle pagine più tragiche e poetiche dell’opera immortale di Boccaccio. Benché il testo originale sia
facilmente leggibile, presenta diversi passaggi che hanno bisogno di interpretazione e pertanto, in questo
articolo, abbiamo deciso di riproporre il testo integrale trasposto in italiano corrente per facilitarne ancora di
più la lettura e la comprensione.
LA DESCRIZIONE DELLA PESTE A FIRENZE
Era l’anno del Signore 1348 quando nella città di Firenze arrivò la peste che ci fu mandata o per l’influsso
maligno dei corpi celesti o per castigo di Dio per punire le nostre inique opere.
La pestilenza era iniziata anni prima nelle regioni orientali dove aveva provocato moltissime morti per poi
espandersi verso l’occidente.
Contro il morbo non risultarono efficaci né il senno né i provvedimenti; la città fu pulita da tutta l’immondizia a
opera degli officiali preposti, si vietò agli infetti di entrarvi e furono dati molti consigli per conservare la salute;
si organizzarono anche molte processioni e suppliche a Dio.
Quasi all’inizio della primavera del 1348 scoppiò il morbo. La peste non si manifestò come in oriente
dove, a chiunque uscisse il sangue dal naso, era destinato a morire; il primo sintomo era la
comparsa di rigonfiamenti all’inguine o sotto le dita dei piedi. Alcuni crescevano simili a una comune
mela, altri somigliavano a un uovo ed erano volgarmente detti gavòccioli.
I bubboni, in breve tempo, si espandevano in ogni parte del corpo; successivamente la malattia mutò
provocando macchie nere o livide che in alcuni apparivano grandi e rade e in altri piccole ma frequenti;
queste macchie, così come i bubboni, erano presagio di futura morte.
Nessuna medicina o consiglio medico risultavano efficaci. La malattia per sua natura resisteva alle cure
perché i medici (tra i quali, oltre gli scienziati, c’erano uomini e donne che, senza avere alcuna nozione di
medicina si erano improvvisati esperti) ignoravano da cosa fosse causata. Non solo erano pochi quelli che
guarivano ma quasi tutti entro il terzo giorno dalla comparsa dei sintomi morivano e molti non manifestavano
febbre o altri segnali.
La pestilenza era particolarmente contagiosa e si propagava come fa il fuoco quando entra in contatto con
cose secche o unte. Il morbo si espanse contagiando coloro che entravano in contatto con i malati ma anche
chi toccava o usava gli oggetti degli infermi.
Ascoltare quello che devo dire è straordinario e se non lo avessi visto con i miei occhi non lo avrei
ritenuto possibile neanche se udito da persone particolarmente degne di fede. La peste non passava
solo da uomo a uomo ma contagiava anche gli animali che ne morivano in breve tempo. Sono
testimone che un giorno, alcuni gettarono per strada gli stracci di un morto per il morbo. Due porci vi
si avventarono sopra e morirono poco dopo come avvelenati. Da questo e altri episodi nacquero
paure che alimentarono credenze in chi restava vivo e tutti fuggivano i malati convinti di conservare
la sanità.
 Alcuni credevano che vivere moderatamente, evitando le cose superflue, li avrebbe preservati dal male e,
restando isolati da chiunque, chiusi nelle loro case, non volevano neanche sentire parlare di morte o
infermità.
Altri, di opinione contraria, affermavano che il bere, il mangiare e qualsiasi tipo di bagordo, fosse una cura
certa al morbo. Essi frequentavano le taverne dove bevevano a dismisura, le case erano state abbandonate
e utilizzate da qualunque avventore. Nonostante la loro spregiudicatezza, anch’essi erano attenti a fuggire gli
infermi.
In tanta afflizione e miseria l’autorità delle leggi sia umane sia divine era quasi sparita poiché gli uomini erano
morti o malati o erano rimasti senza collaboratori e a ognuno era possibile fare solo quello che riusciva a
svolgere.
Altre persone, rispetto a quanto scritto per gli altri, percorrevano una via di mezzo non rinunciando
completamente ai piaceri terreni ma neanche esagerando nei vizi. Andavano in giro portando in mano erbe o
spezie che annusavano frequentemente essendo convinti che gli effluvi giovassero al cervello perché
sembrava che l’aria fosse carica della puzza dei morti, degli infermi e delle medicine.
Alcuni erano più drastici e stimavano che l’unica cosa utile per scampare alla peste fosse fuggire. Molti
abbandonarono la città, le loro case, le loro cose e i loro parenti e si trasferirono nel contado di Firenze o di
altri luoghi come se Dio non intendesse punire con quella pestilenza la malvagità degli uomini ovunque si
trovassero ma, adirato, intendeva punire solo i cittadini chiusi fra le mura di fiorentine. Benché gli uomini che
seguivano le diverse opinioni su come comportarsi per sfuggire al morbo non morissero tutti, molti furono
contagiati e abbandonati dagli altri.
Ogni cittadino schifava l’altro e quasi nessuno aveva cura del vicino; i parenti rare volte o mai si
facevano visita e se lo facevano rimanevano distanti.
La paura era entrata nel petto degli uomini al punto che i fratelli si abbandonavano così come lo zio e il
nipote, la sorella e il fratello e spesso la moglie il marito; cosa ancora più grave e quasi impossibile a
credersi, i padri e le madri abbandonavano i figli come se non fossero loro.
Agli infermi non restava che il conforto degli amici (pochi) o dei servitori che, attratti dal guadagno, si
limitavano a porgere qualche oggetto o ad assisterli nel momento della morte. Da questo stato di cose
scaturì un uso fino ad allora mai visto: nessuna donna inferma, per quanto bella fosse, disdegnava di avere
un uomo a suo servizio al quale mostrava ogni parte del corpo come avrebbe fatto con qualsiasi donna.
Questo comportò fama di minore onestà a quelle che guarirono. Molti di coloro che assistevano le donne
morirono.Per mancanza di assistenza e per la violenza della pestilenza molti morivano di giorno e di notte.
Era usanza (come oggi) che quando qualcuno spirava le donne sue parenti e le vicine, si radunassero nella
casa del defunto e, unendosi a quelle già presenti, piangevano il morto. Fuori la casa del trapassato si
raccoglievano molte persone e in base al suo stato sociale arrivavano i religiosi che, con il feretro sulle
spalle, lo accompagnavano nella chiesa da questi eletta come sepoltura.
Con l’acuirsi della pestilenza tutte queste pratiche cessarono. La gente moriva senza il pianto delle donne e
molti trapassarono in completa solitudine; a pochissimi era concesso il conforto dei parenti e invece di
spargere lacrime era invalso l’uso di festeggiare con risate e motti.
Erano pochi i corpi accompagnati in chiesa da non più di dieci o dodici persone; i feretri non erano
più portati sulle spalle dei cittadini ma da uomini del popolo che si facevano chiamare becchini e che
guadagnavano da questo servizio. I morti non si conducevano più alla chiesa da loro eletta prima del
trapasso ma a quella più vicina accompagnati dai chierici. Quest’ultimi, dopo una celebrazione
veloce, con l’aiuto de becchini deponevano il morto in qualunque sepoltura ancora vuota.
La peste infettò soprattutto la gente del popolo che non essendo né assistita né curata, moriva quasi tutta e
molti cadaveri finirono sulla strada.
Molti dipartivano in casa e la puzza dei loro corpi in decomposizione allertavano dell’avvenuto decesso; i
vicini, per paura di essere infettati, da soli o con l’aiuto di portantini, li traevano dalle abitazioni e li
adagiavano davanti la porta d’ingresso. Così le autorità preposte, presa visione dei cadaveri, potesse
mandare le bare. Alcuni, per la mancanza di casse da morto, erano deposti su semplici tavole.
Alcuni feretri contenevano più di una persona: moglie e marito, due o tre fratelli o il padre e il figlio. Spesso
accadde che i preti scortavano tre o quattro bare; quando pensavano di dover seppellire un solo trapassato,
ne dovevano seppellire invece sette o otto e anche di più.
Ormai i morti non suscitavano commozione e la grandezza dei mali aveva reso anche gli ignoranti rassegnati
a quelle disgrazie che in situazioni normali (quando sono lievi e casuali) non ispirano rassegnazione neanche
ai soggetti più saggi. Per l’assenza di sepolture, nei cimiteri delle chiese furono scavate grandi fosse comuni
e i morti, stipati a strati, erano ricoperti con poca terra finché la cavità non risultasse colma.
La peste non risparmiò neanche il contado e per le ville e i campi la gente moriva senza assistenza
medica. I villani, così come i cittadini, erano diventati lascivi e abbandonavano le loro cose e il loro
lavoro.
Anziché curarsi delle bestie e dei frutti della terra, si godevano i giorni che gli rimanevano. Gli animali
uscivano dagli stazzi e di giorno vagavano per i campi per far ritorno a sera.
Tra il marzo e il luglio di quell’anno si crede che nella città di Firenze morissero non meno di
diecimila persone.
SARAMAGO -CECITA’
Bene, parlavamo di piacere e arricchimento. Se il secondo termine del binomio è di certo azzeccato, devo
ammettere che proprio piacere piacere, Cecità, considerati gli attuali chiari di luna, non lo regala.
Intendiamoci: stiamo parlando di un capolavoro, ma anche di un testo amaro, spietato, duro, difficile. A
cominciare dallo stile (quello inconfondibile dell’autore): un muro di testo continuo, senza a capo, senza
interruzioni, senza segni grafici che indichino i dialoghi. A vedersi, toglie il fiato. Non vi illudete, le
duecentosettantasei pagine dell’edizione economica Feltrinelli mentono: se vi accingete a leggere Cecità vi
approcciate a leggere un librone di settecento pagine concentrate per rispettare l’Amazzonia. Ma, e questo è
il miracolo, la lettura scorre spedita e si rimane incollati al testo. Non so come ciò sia possibile, non
chiedetelo a me, chiedetelo a Saramago, evidentemente non si è premi Nobel per caso.
L’espediente dell’epidemia (la cecità di cui si parla è da contagio), in questo libro come in Camus, non è che
il pretesto per riflettere sull’uomo, sulle relazioni interpersonali e i rapporti di forza, esasperando nella cornice
dell’emergenza e dell’internamento quelle che sono le ordinarie caratteristiche dell’animo umano. Seguiamo
le vicende dei “primi ciechi”, i quali, prima che l’epidemia si diffonda, vengono rinchiusi in un ex manicomio. I
pasti sono razionati, l’assistenza è nulla e ogni spostamento è impedito e represso senza pietà da militari
posti a presidio del luogo di “ricovero”. La comunità dei ciechi è costretta dunque a organizzarsi per la
sopravvivenza: emergono le personalità in grado di fare da leader, insorgono i conflitti e le brutture di una
condizione degradata a uno stadio animalesco. Saramago non ci risparmia nulla: morte, sopraffazione,
violenza, escrementi lungo i corridoi, per le strade, sui corpi. Nulla è risparmiato al lettore, in quella che
sembra essere la metafora di un sistema di relazioni economico-sociali in cui gli oppressi divengono a
propria volta oppressori. Ben presto la popolazione di ciechi che il governo ha confinato senza pietà e senza
umanità si divide: un gruppo di farabutti prende a confiscare lo scarso cibo consegnato quotidianamente
dall’esercito e a distribuirlo solo in cambio di beni di valore e dei “favori” delle donne. Ecco, Saramago non ci
risparmia neanche lo stupro sino alla morte. Dice la verità, e la verità è fatta anche di questo, della crudeltà di
cui l’uomo è capace, e della sopraffazione che assurge a legge dei rapporti umani quando le relazioni
economiche (banalmente, la distribuzione del cibo) sono sorrette dal principio della forza. Non c’è necessità
di epidemie o di guerre perché ciò si verifichi. Il romanzo, dopo le prime pagine, si allontana dal modello
de La peste e diventa una discesa degli inferi e nell’orrore, un Cuore di tenebra senza fiume e senza spazi
aperti.
Questo libro dice la verità, senza edulcorarla. È questa la forte sensazione che se ne ricava. Non risparmia il
male, ma non omette di rappresentare i gesti di umanità e le possibilità di riscatto che pure fanno parte del
reale. Nell’internamento nascono amori improbabili come quello tra la disinibita ragazza dagli occhiali scuri e
un vecchio orbo; il bambino che ha perso la mamma viene accudito dalle donne del gruppo, a lui è riservata
la miglior parte del cibo; la necessità di sopravvivenza spinge gli internati a darsi un’organizzazione
improntata alla solidarietà. Infine, è un moto di ribellione e di pietà verso una compagna non sopravvissuta
allo stupro collettivo a dare la forza di reagire a una delle cieche del gruppo dei “buoni”: sola, muove guerra
ai sopraffattori incendiandone la camerata; al prezzo della vita, regala la liberazione dal giogo agli altri.
Non mancano le figure positive, dunque: l’unica donna che ha conservato la vista, la moglie del medico (la
vera protagonista del romanzo: è attraverso i suoi occhi che si racconta la storia) mette la propria abilità al
servizio degli altri. Quando si scoprirà che non c’è più cordone militare a presidio della quarantena, perché
ormai tutti, anche i soldati, hanno contratto il morbo, sarà lei a condurre il gruppuscolo di sopravvissuti per le
strade della città, a ospitare i ciechi nella propria casa, a procurare il cibo. Finché, inspiegabilmente come è
venuta, la cecità non sparisce.
Lieto fine? No, non direi affatto. L’affresco che rimane è di enorme crudezza.
Accanto al tema dei rapporti di forza e della sopraffazione, magari un po’ più nascosto, c’è a il tema
dell’insensatezza del male. Un male che colpisce i buoni come i cattivi, che giunge senza che si sappia il
perché e va via altrettanto immotivatamente, che risparmia la moglie del medico senza che se ne conosca la
ragione, e che lascia dietro di sé i morti. Muoiono stupratori e donne inermi, bambini e ladri d’auto, militari e
anziane sole. Chi sopravvive, sopravvive per caso o per fortuna. È il male che è cieco e che è ingiusto.
Nessun intervento divino giunge a salvare dall’ingiustizia o a ripararla; quando la moglie del medico,
estenuata dalla disperata e vana ricerca del cibo, entra per caso in una chiesa, trasalisce: anche le statue di
Cristo e dei santi sono bendate e cieche.

TRAMA…
In un tempo e un luogo non precisati, all'improvviso l'intera popolazione perde la vista per un'inspiegabile
epidemia. Chi viene colpito dal male è come avvolto in una nube lattiginosa. Le reazioni psicologiche sono
devastanti, l'esplosione di terrore e di gratuita violenza inarrestabile, gli effetti della patologia sulla
convivenza sociale drammatici. La cecità cancella ogni pietà e fa precipitare nella barbarie, scatenando un
brutale istinto di sopravvivenza. Nella forma di un racconto fantastico, Saramago disegna con maestria,
essenzialità e nettezza la grande metafora di un'umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e distinguere
le cose razionalmente, artefice di abbrutimento, crudeltà, degradazione. Ne risulta un avvincente romanzo di
valenza universale sull'indifferenza e l'egoismo, il potere e la sopraffazione, la guerra di tutti contro tutti, una
dura denuncia del buio della ragione, con uno spiraglio di luce e salvezza che non ne annulla il pessimismo
di fondo.
Cecità di José Saramago è un romanzo pubblicato nel 1996 edito da Einaudi. Nel romanzo è presente
una forte vena di critica sociale e fantascienza apocalittica.
In una città e in un tempo mai nominati, un automobilista, che verrà poi chiamato il primo cieco, mentre
attende al semaforo si accorge di essere diventato improvvisamente cieco.
Infatti egli vede, non come accade comunamente, tutto bianco. Grazie ad un uomo (che si rivelerà un
ladro approfittatosi della sua condizione di non vedente) ritorna a casa, dove racconta l'accaduto a sua
moglie. I due si recano da un medico specialista, dove trovano un vecchio con una benda nera su un
occhio, un ragazzino che sembrava strabico, accompagnato da una donna e una ragazza dagli occhiali
scuri. Saranno questi i protagonisti anonimi del romanzo.
Il medico, dopo aver esaminato l'uomo, non riesce a fornire una diagnosi. Uno dopo l’altro, il ladro di
automobili, il medico, la moglie del primo cieco, vengono colpiti dalla strana malattia. L'epidemia si
diffonde in tutta la città e il governo del paese decide di trasferire i contagiati in un ex manicomio,
adibito per l’occasione a presidio per la quarantena. L’unica, misteriosamente, immune al contagio è la
moglie del medico che, fingendo di aver perso la vista, si unisce al gruppo aiutandoli a sopravvivere.
Inizialmente, la distribuzione degli alimenti da parte delle guardie avviene regolarmente, ma ben presto
i ciechi si ritrovano abbandonati, perché la cecità si diffonde anche tra i soldati e i politici, fino a colpire
tutto il paese. Intanto negli edifici in cui i ciechi erano stati rinchiusi si organizzano nuove forme di
società. I ciechi malvagi inizieranno a controllare la distribuzione del cibo per poter ricattare i più deboli
e ottenere favori sessuali dalle donne. La moglie del medico riuscirà a uccidere il capo dei ciechi
malvagi durante uno di questi stupri collettivi. Nel tentativo di rendere inoffensivi questi ultimi, un'altra
donna dà fuoco ad un mucchio di coperte nella loro camerata, ma il fuoco si diffonde e finisce per
avvolgere tutto l'edificio. La moglie del medico riesce però a salvare il gruppo di protagonisti ma molti
ciechi muoiono nel mentre.
Giunta all'esterno dell'ex manicomio, la moglie del medico vedrà i risultati dell'epidemia. Infatti le strade
sono disseminate di orrore e morte, mentre le persone, cieche anch’esse, lottano tra di loro per la
sopravvivenza. Mentre il gruppo della moglie del medico cerca di organizzare la vita del gruppo, tutti i
ciechi guariscono inspiegabilmente, senza alcuna ragione apparente, proprio come era sopraggiunta
l'epidemia.
Sono gli occhi sani della moglie del medico a guidare il lettore nel lento oblio della cecità bianca e di
come questa muti le elementari leggi del vivere sociale.
Il tema fondamentale è una riflessione sulla razionalità e la ragione. Caratteristiche che dovrebbe
distinguere gli esseri umani dagli animali ma che al tempo stesso, come teorizzano sia Hobbs che
Saramago, vengono a meno nel momento in cui si ha paura di morire e gli istinti primordiali riaffiorano.
Nonostante tutto Saramago non ci fa perdere la speranza, illuminando le stragi e le atrocità con
l’umanità e la gentilezza, condite da perseveranza, della moglie del medico, che infatti ci porterà ad un
lieto fine. Tramite questa metafora ci fa percepire la possibilità che tutti noi abbiamo di smettere di
essere indifferenti verso l’utilizzo spasmodico della futilità nel mondo contemporaneo. Lo scopo di
Saramago è paradossalmente aprirci gli occhi tramite il suo stile, i personaggi infatti non hanno nome e
i dialoghi non sono segnalati in alcun modo, perché vuole farci sentire spiazzati come un cieco che
debba riconoscere da che parte provenga una voce.

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