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PRIMA PROVA VERSO LA PRIMA PROVA

Volume 5 5 – GABRIELE D’ANNUNZIO

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ANALISI E INTERPRETAZIONE DI UN TESTO LETTERARIO


Analizzate il testo che segue, rispondendo alle domande del questionario.

LE STIRPI CANORE
Gabriele D’Annunzio inserì questa poesia, risalente al luglio-agosto del 1902, nella raccolta Alcyone.

I miei carmi son prole


delle foreste,
altri dell’onde,
altri delle arene,
5 altri del Sole,
altri del vento Argeste.
Le mie parole
sono profonde
come le radici
10 terrene,
altre serene
come i firmamenti,
fervide come le vene
degli adolescenti,
15 ispide come i dumi,
confuse come i fumi
confusi,
nette come i cristalli
del monte,
20 tremule come le fronde
del pioppo,
tumide come le narici
dei cavalli
a galoppo,
25 labili come i profumi
diffusi,
vergini come i calici
appena schiusi,
notturne come le rugiade
30 dei cieli,
funebri come gli asfodeli
dell’Ade,
pieghevoli come i salici
dello stagno,
35 tenui come i teli
che fra due steli
tesse il ragno.
Gabriele D’Annunzio, Alcyone, in Antologia della poesia italiana, a cura di C. Segre e C. Ossola, Einaudi, Torino, 1999

1. prole: figli.
6. vento Argeste: nome greco per identificare il tipico vento di ponente.
15. dumi: pruni. Il termine è un latinismo.
27-28. i calici... schiusi: il poeta si riferisce ai petali dei fiori che si sono appena aperti delicatamente.
31. asfodeli: piante appartenenti alla famiglia dei gigli che, secondo la tradizione classica greca e latina, fiorivano nel regno dei morti.

Idee per insegnare l’italiano a cura di R. Benali, L. Gasperini, S. Pasquarella La riproduzione di questa pagina tramite fotocopia è autorizzata ai soli fini
A. Scalisi Con altri occhi plus – © Zanichelli 2019 1 dell’utilizzo nell’attività didattica degli alunni delle classi che hanno adottato il testo
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Volume 5 5 – GABRIELE D’ANNUNZIO

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COMPRENSIONE DEL TESTO


1. Svolgete la parafrasi della poesia.
2. Qual è il tema centrale della poesia?

ANALISI DEL TESTO


3. Individuate i periodi di cui si compone la poesia.
4. Individuate la presenza di latinismi all’interno del testo.
5. L’uso di quale figura retorica caratterizza la lirica?
6. D’Annunzio utilizza un’incalzante aggettivazione per definire le parole poetiche. Individuate gli
aggettivi e spiegatene il significato.

COMMENTO
7. Confrontate le Stirpi canore con La pioggia nel pineto, individuando analogie sul piano formale e del
contenuto.
8. Evidenziate quali sensazioni emergono dalla lettura di questa lirica dannunziana.

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ANALISI E PRODUZIONE DI UN TESTO ARGOMENTATIVO


NATALINO SAPEGNO, L’OPERA DI D’ANNUNZIO
Vi proponiamo le pagine che Natalino Sapegno (1901-1990) dedica nella sua storia letteraria a
Gabriele D’Annunzio.

Nato a Pescara nel 1863, morto nel 1938, GABRIELE D’ANNUNZIO fu lo scrittore più largamente noto, se
non il più letto ed amato, della generazione postcarducciana. Alla notorietà contribuirono anche le vicende
della vita, che egli volle ricinte di un fascino di leggenda, adorne e splendide come un monile d’età fastose e
decadute, composte in un ritmo ascendente dalla chiassosa mondanità degli anni giovanili fino alla gloria
nazionale dell’interventista, del combattente, dell’acceso polemista del dopoguerra, del liberatore di Fiume:
una vita di esteta, ma sorretta da un fondo di paesana robustezza, intesa ad esaltare l’anarchia e l’indisciplina
di un temperamento egocentrico nella luce fittizia di una missione civile, di un esasperato patriottismo.
Anche nell’arte egli fu uno dei rappresentanti più acclamati di quell’estetismo, di quel culto del bel gesto e
della parola ornata, che ebbe allora i suoi campioni tra gli epigoni del decadentismo europeo: un
decadentismo, che aveva cessato di essere una religione e una vocazione poetica, per diventare una moda e
una posa, e apparteneva piuttosto alla storia del costume che non a quella della letteratura. Tutta chiusa nei
limiti di un’esperienza sensuale e verbale acuita ed esasperata, sorda nonostante le apparenze ad ogni
interesse spirituale, poverissima d’interiorità fino a riuscire quasi disumana, quest’arte, fiorita in opere
innumerevoli, cimentata nelle più difficili prove di bravura, variata dall’esterno con un gioco abile di pretesti
e di atteggiamenti (ma sostanzialmente immobile, incapace di progresso e priva di svolgimento), ci appare
oggi nel complesso assai lontana dal nostro gusto, ci costringe talora ad ammirare, ma non ci commuove, e
non di rado ci infastidisce.
Le prime prove di D’Annunzio prendono l’avvio nella lirica (Canto novo, 1882) dal Carducci, e quasi
contemporaneamente nei racconti (Terra vergine, 1882; San Pantaleone, 1886) dal Verga e dai naturalisti.
Ma il Carducci imitato nelle poesie non è quello più umano e nuovo dei giambi e delle rime, sì quello delle
odi barbare, spogliato per giunta delle sue generose intenzioni civili, ridotto a una misura di impressionismo
sensuale e di rettorica paganeggiante. E così nelle novelle, assenti le ragioni sociali e la pietà del Verga o di
Maupassant1, resta intatto soltanto e si esaspera il gusto di una vita primordiale e ferina 2, e il canone
dell’impersonalità si converte in un’ostinata e gratuita volontà di osservazione, fredda e crudele, impassibile.
Il momento essenziale della storia poetica di D’Annunzio, quello in cui si riconosce e prende forma la sua
vocazione, è il soggiorno romano: allora egli comincia ad attuare nella vita il suo ideale estetizzante, e
intanto accoglie nella sua poetica gli influssi dell’ultima cultura europea. Di qui ha inizio la sua grande
avventura, e anche quella dispersione, che asseconda con miracolosa prontezza le effimere voghe e si offre
via via a tutte le suggestioni. Si susseguono i tentativi e gli assaggi nelle direzioni più varie e disperate. Dalle
esperienze parnassiane3 dell’Intermezzo di rime (1884), dell’Isotteo (1885) e delle Elegie romane (1891), il
poeta passa ai toni languidi, sfibrati, di una sensualità stremata e triste, alla Verlaine e alla Maeterlinck 4, del
Poema paradisiaco (1893). Il romanziere, dopo avere, nel Piacere (1889), esaltato in forme tra
autobiografiche e favolose, la sua esperienza di vita salottiera, mondana, preziosa; accoglie dall’esterno
l’influsso del romanzo psicologico russo nel Giovanni Episcopo e nell’Innocente (1892); quindi scopre in
Nietzsche5 il mito del superuomo, che egli deforma nel senso di un amoralismo 6 per creature privilegiate, che
si costruiscono al di fuori di ogni legge la loro «vita inimitabile», e in parte adegua al vieto 7 concetto del
poeta-vate, profeta ed eroe della sua stirpe. Da quest’ultimo atteggiamento nascono quasi tutti i nuovi
romanzi (Le vergini delle rocce, 1896; Il fuoco, 1900; Forse che sì forse che no, 1910) e gran parte del teatro
del D’Annunzio (La città morta, 1898; La gloria, 1899; La Gioconda, 1899; Francesca da Rimini, 1901; La
fiaccola sotto il moggio, 1905; Più che l’amore, 1907, La nave, 1908; Fedra, 1909, ecc.), nonché tre dei libri
delle Laudi, che rappresentano il momento maggiore della sua attività lirica: Maia (o Laus Vitae, 1903),
Elettra (1903) e Merope (1912). È il periodo in cui D’Annunzio attinge il vertice della sua sapienza e della
sua arte, intesa come possesso raffinatissimo degli strumenti linguistici, metrici, musicali. Ma in tanto
splendore di forme, la poesia è per lo più assente. Nei romanzi cerchi invano rigore costruttivo,
immediatezza di racconto, umanità di personaggi. Le tragedie sono esercitazioni letterarie, repertori
d’immagini suntuose o lussuriose, del tutto privi di senso drammatico. Le poesie epiche, celebrative,

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patriottiche annegano nell’enfasi oratoria e nell’artificio verbale. Dappertutto, «una perfezione che suona
falso», come dirà poi il Serra 8. Si salvano, per l’umanista buongustaio di questo genere di cose i particolari
descrittivi e decorativi, la musica elaboratissima di taluni periodi, qualche immagine più lieve, qualche
impressione più fresca, che prende risalto appunto dalla generale falsità e freddezza del contesto.
Ma più si salvano, di questo periodo, due opere: un dramma, La figlia di Jorio (1904), dove l’estetismo
dannunziano si alleggerisce e si sfuma collocandosi con maggior naturalezza in un paesaggio remoto,
favoloso, quasi in un mobile coloritissimo arazzo (e in quell’aria di fiaba e di pannello decorativo l’assenza
dell’impegno umano meno s’avverte); e poi le liriche dell’Alcyone (il terzo volume delle Laudi, 1904), dove
il suo costante dilettantismo isola il nucleo genuino di un abbandono al ritmo inesauribile delle sensazioni,
liberate da ogni intervento estraneo ed intellettualistico, da ogni velleità eroica e simbolica: sensazioni che si
traducono immediatamente in musica di parole, parole che si richiamano e si dilatano in un gioco di echi, di
corrispondenze, di inflorescenze puramente musicali. Qui sembra nascere anche, e si svolgerà nelle prose
liriche ed autobiografiche degli ultimi anni (dalla Contemplazione della morte e dalla Leda senza cigno alle
Faville del maglio, dal Notturno, 1921, fino al Libro segreto, 1935), un D’Annunzio nuovo, più intimo, più
raccolto, più umano insomma. In realtà anche questi scritti non fioriscono sul terreno di una poetica nuova,
più matura; bensì rappresentano il supremo affinamento del consueto atteggiamento dannunziano, che in essi
si libera almeno in parte delle peggiori incrostazioni di una cultura dilettantesca e svagata e lascia affiorare in
tutta purezza il suo gusto della musica verbale, che in sé s’appaga senza residui. Qui più che altrove – si veda
la Sera fiesolana, nell’Alcyone, e certi passi più intensi del Notturno – D’Annunzio sembra venire incontro ai
modi della grande lirica decadente; e per la prima volta più palesemente (ma già ve n’era più che un accenno
nel Poema paradisiaco) tocca note di una malinconia nuova, che attinge a strati più profondi della sua
psicologia. Non per nulla sono proprio questi – il Poema paradisiaco, l’Alcyone, il Notturno – i libri del
poeta che hanno esercitato un più chiaro influsso sugli scrittori del Novecento, dai crepuscolari fino agli
ermetici9. Ma è un influsso tutto formale e esteriore. Si capisce che il lettore moderno, costretto a respingere
con fastidio almeno i tre quarti dell’opera di D’Annunzio, preferisca indugiare su taluni accenti di una
sensualità estenuata e rarefatta, «una sensualità (come il poeta stesso ebbe a dire) rapita fuor de’ sensi»,
alleggerita e adombrata di un velo di tristezza, quella appunto di certe liriche dell’Alcyone e delle prose di
memorie dell’ultima stagione. Ma anche qui, più del movimento umano e patetico, interessa la leggerezza
nuova dell’arte, una musica più lieve, meno appariscente e più schietta, la rarefazione e la semplificazione
del tessuto verbale, che si libera dall’enfasi e dagli ornamenti barocchi senza perder nulla della sua virtù: non
insomma un’umanità nuova e un’arte più aderente a quell’umanità, più sofferta, sì appunto uno studio più
attento, devoto, esclusivo dell’arte. Anche qui D’Annunzio soffre, non le cose che dice, ma il modo di dire,
la forma (e solo in questi limiti di uno squisito tirocinio umanistico è possibile parlare, a proposito di questa
o quella opera di lui, di una maggiore o minore severità ed austerità d’ispirazione). L’adesione di
D’Annunzio alla poetica del decadentismo resta, fino all’ultimo, esteriore: non è la conquista di una
sensibilità più ricca e profonda, di un lirismo più intenso e affrancato da tutte le consuetudini del discorso
poetico tradizionale, ma solo di un complesso più vasto, più ricco, più variato, di strumenti tecnici. Dietro
l’apparente modernità di un’orchestra dilatata e condotta al massimo delle possibilità sonore, sopravvive
quell’ozioso atteggiamento umanistico, quella sensualità dilettantesca della parola, vecchia tabe 10 della nostra
civiltà, che fa di D’Annunzio, in una condizione storica e culturale tanto diversa, e meno propizia, una specie
di Monti o di Marino redivivo11.
Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana (Vol. III – Dal Foscolo ai moderni),
La Nuova Italia, Firenze, 1966

ANALISI
1. Riassumete in dieci righe la figura di Gabriele D’Annunzio che emerge dalla disamina di Sapegno.
2. Qual è «il momento essenziale della storia poetica» del «vate»? Perché è importante?
3. Quali sono i motivi del giudizio negativo di Sapegno su D’Annunzio?
4. Vi sono però due opere di D’Annunzio che vengono apprezzate. Quali? Perché?
5. «L’adesione di D’Annunzio alla poetica del Decadentismo resta, fino all’ultimo, esteriore», sottolinea
Natalino Sapegno. Spiegate questa affermazione.

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COMMENTO
6. Sapegno tratteggia un quadro a tutto tondo della poetica dannunziana. Condividete la sua
posizione? Motivate la risposta.

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