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STORIA DELLA LETTERATURA LATINA MEDIEVALE (MODULO B)

Prof.ssa Silvia Fiaschi


22/09/2020
Il modulo B, come precisato nel programma, svilupperà la lettura del “De vulgari eloquentia”. Faremo un
ingresso nella scrittura latina di Dante, in un testo che non ha avuto una grande diffusione. Questa grande
portata di trattato linguistico c’è ma non è un testo che venne diffuso in maniera così capillare come la
“Divina Commedia”. Siamo nel solco di Dante.

Servirà l’edizione del “De vulgari eloquentia”, nell’edizione del “Tavoni”, di cui si consiglia l’acquisto. Questo
va portato il martedì, per l’ora dalle 15 alle 16.

“De vulgari eloquentia”. Trattato dantesco che rientra nella produzione di Dante in lingua latina,
produzione meno frequentata ma non meno importante. Si cita anche il “De monarchia”, le “Epistulae”, poi
in volgare la “Divina Commedia” e il “Convivio”. Il “Convivio” è confinante con il “De vulgari eloquentia” non
solo in termini cronologici, ma per più di questo: sono entrambi trattati, e cronologicamente il “Convivio” è
stato scritto poco prima de “De vulgari eloquentia”. La fine della stesura del “Convivio” avvenne in
contemporanea all’inizio della stesura del “De vulgari eloquentia”: sono opere dell’esilio, il “De vulgari
eloquentia” è scritto tra il 1304 e il 1306. È posteriore o concomitante alla stesura del “Convivio” perché nel
“Convivio”, 4, 10, Dante menziona un “libello di volgare eloquentia”. Ultimo elemento di tangenza:
nonostante la differenza linguista, il “Convivio” è in lingua volgare, il “De vulgari eloquentia” è in latino, nel
“Convivio” si parla della lingua volgare. Vedremo poi l’accezione dei termini.

Dante ne parla subito, a giustificazione della sua scelta di fare una trattazione di carattere scientifico-
filosofico al tempo di Dante equipollente. Un trattato filosofico come quello del “Convivio”, benché si
richiedesse il ricorso alla lingua latina, sceglie la lingua volgare, perché è “più nobile”. Più appropriata per
spiegare per fare l’esegesi, in quanto il “Convivio” è un commento di carattere filosofico a una serie di rime
di canzoni in lingua volgare. Una trattazione scientifica avrebbe richiesto l’uso della lingua latina, che però
non sarebbe stato coerente con il testo di base. Giustifica quindi la scelta del volgare in termini di coerenza,
e nel “Convivio” pone la questione di nobiltà.

Quindi nell’universo dantesco, rilevante nella questione della lingua volgare, questa percezione e
consapevolezza che lui conduce si definisce IN OPPOSIZIONE CON LA DIMENSIONE LINGUISTICA LATINA.
Questa è la ragione per cui non si può pensare a Dante escludendo questa componente. Dante scrive in
latino e pensa in volgare, ma la dimensione linguistica è caratterizzata dall’esistenza di norma fisse -
“norma” si intende come “grammatica”, per cui è inteso il “latino”, perché il volgare non aveva la
grammatica. La norma di una lingua vien definita dopo che una lingua è già nata; Dante si serve della lingua
latina per definire quella volgare, ed è questo il taglio prospettico per definire la lettura.

Dopo questi quattro punti, il quinto: bisogna fugare l’errore di rischio e scivolate in questi termini. Nel “De
vulgari eloquentia” Dante NON riflette sulla lingua volgare per il popolo. La questione che Dante si pone è
lontana dalla dimensione sociale. La realtà linguista dantesca è diversa, è una realtà su cui si pone la
problematica e che rimane caratteristica, quella dell’ELITARIETÀ. Dante ha bisogno di fissare la norma per
scrivere in poesia, qual è il termine che devo scegliere in poesia? La formulazione più alta e sublime in
lingua volgare che è la CANZONE, struttura a cui ha dedicato le riflessioni del “Convivio”. Si pone un
problema per trovare la soluzione delle norme da affidare a chi avrebbe scritto POESIA IN LINGUA
VOLGARE. Ecco le ragioni del termine “eloquentia”, la soluzione normativa sublimata in vari termini. Ciò ha
indirizzato tutta la direzione della lingua Cinquecentesca: Bembo stabilisce delle norme per scrivere; in
epoca rinascimentale il problema sussiste, in quanto la questione era stata definita in termini elitari.
Importante è allora la riflessione teorica linguistica sul volgare e sulle lingue neolatine di Dante, e anche una
formulazione di carattere metodologico per l’indagine linguistica, quella comparativa.

Il “De vulgari eloquentia” è un’opera incompiuta in due libri, di cui il secondo non compiuto. Il primo è
dedicato alla riflessione teorica “stricto sensu”, il secondo è dedicato alle forme metriche più importati,
dove si usa la lingua volgare. Leggeremo il primo libro soprattutto.

Come si legge Dante? Partiamo con la lettura del “De vulgari eloquentia”.

- “DVE”, Paragrafo I, Incipit.

È estrapolato dall’icona del “Codice Trivulziano” alla biblioteca di Monza.

Pagg. 2 e seguenti. Entriamo in un periodo che inizia a pagina 2 e comincia a pagina 6. È un inizio lungo lo
stil è prolisso, perché così si confà all’incipit di un trattato.

Ci fermiamo a “temptabimus”, il verbo principale, “tenteremo”, con pluralia mai estatis “tenterò”. perché
questo verbo insicuro e carico di incertezza? Perché Dante sembra umile, ma era un po’ presuntuoso.
“Tenteremo di giovare (= fare un’azione che porta a un vantaggio)” - per scrivere ci vuole un motivo, senza
una ragione non si scrive - alla “locutio”, al “linguaggio” delle genti volgari, di chi parla in volgare”. “Locutio”
qui vuol dire “linguaggio/modo di parlare”, differente da “eloquentia”, “locutio”, “ydioma”, e “vulgaris”.
Con “volgari” si intende non istruite, preparata alle norme di questo tipo di “locutio”. Questa la
proposizione principale dell’incipit.

Inseriamo l’inciso “Verbo aspirante de celis”, “spirando il Verbo dal cielo”, con l’aiuto di Dio perché nulla si
fa senza Dio, tutto nel Medioevo inizia con il nome di Dio.

Sul primo rigo troviamo “neminem”, pronome negativo, ci piace perché Dante è un peccatore di
presunzione, ciò che sta facendo prima di lui non lo aveva fatto nessuno. “Cum” regge il congiuntivo
“inveniamus”, ha valore causale. “Poiché non trovo nessuno prima di me aver trattato qualcosa
(“quicquam” - dimensione volgare) sulla dottrina (= scienza) dell’eloquenza volgare {…}”, perché la dottrina
dell’eloquenza latina era stata trattata. “{…} e (= congiunzione coordinante, le due cose devono coincidere)
poiché vedo questa, cioè l’eloquenza, necessaria a tutti”, quindi c’è un’esigenza di necessità, e “cum {…}
nitantur {…}”, “perché di questa fanno uso non tanto gli uomini (genere maschile), quelli preposti all’uso
della parola - buona fetta di Medioevo -, ma anche le donne sposate/le mogli e i bambini”. Tutte le
categorie, abbiamo una gradatio decrescente, “per quanto la natura permette loro”. L’inciso sembra
riferirsi alle sole donne, perché le capacità linguistiche del bambino mutano con l’evolvere dell’età.

Essendo una cosa necessaria di cui nessuno ha mai parlato, e poiché tutti ne fanno uso, “volentes”,
“volendo delucidare in qualche modo la discrezione/il discernimento di coloro che camminano per le piazze
come se fossero cechi, ritenendo/considerando posteriori le cose che hanno davanti (-> per aiutare coloro
che camminano senza avere cognizione del problema)”.

Importanti i concetti di novità, il termine “elocutio” e il concetto di necessità connessa all’utilità. La


“locutio”, nel suo più alto grado di “eloquentia”, è una dimensione necessaria.

29/09/2020
Abbiamo osservato in precedenza una circolocuzione molto estesa, come tipico negli impianti scientifici-
filosofici. Nella complessità della sintassi dobbiamo leggere la complessità del compito che Dante si accinge
a svolgere, una circolocuzione comune lungo respiro, lungo tanto da togliere il fiato.
Due i concetti principali, a proposito di questo attacco. La NOVITÀ che non è novità per Dante però, questa
soluzione retorica, la preceisazioen del fato che sta all’inizio di una costruzione nuova, la ripropone in altre
opere una cosa nuova, che non ha mai fatto nessuno. E la NECESSITÀ, non per divagazione quindi, ma scrive
per necessità. È necessario parlare della DTTRINA DELL’ELOQUENZA perché bisogna formulare un trattato
teorico sull’eloquenza volgare che nessun prima di lui ha fatt, è necessario percè queto tipo di linguaggi
appartiene proprio a tutti, con quella climax discendente “viri / mulieres parvuli in quantum natura
permittit”.

La arte finale di queto primo paragrafo è dedicata alla metodologia. Paginr 4/6.

“Lo facciamo “aurientes”, attingendo l’acqua non solo del nostro ingegno di fronte a una coppa tanto
grande/profonda.”. Intende l’impresa che sta per compiere in termini metaforici: quello che lui deve fare è
riempire un vaso. Non solo attingendo l’ingegno, le proprie conoscenze, ma
“prendendo/riprendendo/desumendo e compilando/facendo un collage da altri”, tante sono le citazioni
nell’opera, che ci consentono anche la conoscenza di rime di autori volgari antichi, o di qualche autore
siciliano. Mette insieme le conoscenze sue, “miscentes” a quelle altrui, quando un participio, “potiora”, le
cose più importanti. Quindi l’pera di compilazione e di recupero di materiali altrui prevede l’operazione di
selezione, di mescolazione delle cose più importanti, senza prendere tutto.

Segue una proposizione finale esplicita retta da “ut” e seguita da “potionare”,


“porzionare/distribuire/servire” alla mensa un dolce idromele. Fa irruzione ancora la metafora
dell’alimentazione come PERCORSO DI CONOSCENZA, che trova massima espressione del “Convivio”.
“potionare” è un verbo che deriva dal latino biblico, e non classico. Questo si arricchisce di tanti rivoli di
tradizione, è questo il latino biblico. La lingua latina si arricchisce di tanti elementi biblici (vulgata
Georginiana).

L’idromiele, una bevanda, un “idromielis”, mescidanza di acqua e miele, o “idromelum”, acqua e succo di
mela, è comunque una bevanda fermentata. Il vino nel Medioevo si sciupava presto, ed era molto costoso.
Si beveva di più la birra. Perché si precisa che la bevanda è fermentata? Il concetto generale è la BONT. À
della bevanda, ma è anche una bevanda ottenuta con un PROCESSO DI LAVORAZIONE NON IMMEDIATO.
Questo tempo la rende dolcissima. Questa METAFORA METABOLICA associata alla conoscenza, a una
bevanda che necessita di una fermentazione, di un processo di realizzazione lungo, tempo affidato a questo
“inde”, con valore più probabilmente temporale. “Da questo momento in poi”, nel senso della prospettiva
progettuale che Dante si pone, “diffondere la pietanza dell’idromiele”.

Osservazione di carattere ortografico, idiomatico. La “y” potrebbe essere un errore un ipercorrettismo.


“indromiele” non ha etimo latino, ma greco. Per questo ci mettono la “y” iniziale, “Ydromielis”. Dante ha
cognizione della lingua greca pari a 0: percepisce la non latinità, ma non conobbe mai la lingua greca.

Paragrafo successivo, pp. 6/8.

Siamo sempre su una dimensione teorica, come richiesto dalla formula del trattato scientifico. “Ma poiché -
colloquiale, discorsivo, vicino alla più immediata comprensione - è necessario che ciascuna dottrina non
dimostri {…}”. Non è necessario che una dottrina si dimostri, una scienza non deve fornire prova della sua
esistenza, è un assioma e pertanto esiste. Il termina “doctrina” compariva nel primo paragrafo. “{…} ma (è
necessario) che apra il suo soggetto {…}”. Se esiste un soggetto di cui parlare, esiste una dottrina. “{…} –
sovrabbondanza di pronomi - Affinché si sappia/capisca/conosca cosa sia ciò di cui si occupa, è sufficiente
chiarire qual è il soggetto di una dottrina {…}”. La dottrina non si dimostra se non spiegando il soggetto si cui
si occupa. “Dicimus quod” verbo principale, costruzione introvabile nel latino classico. “{…} Diciamo che -
senza scendere in dettagli introduttivi - chiamiamo “locutio volgare” quale di cui gli assuefanno i bambini”.
Dice “infantes” perché si riferisce a “colui che non parla”, quindi la “locutio” è un termine significativo
perché comincia a entrare già nell’egida di chi è “infans”.
Gli “infantes” si abituano, perché la “locutio” è uno strumento legato moltissimo alla fatalità del caso. La
“locutio volgare” è quella a cu vengono abituati i bambini che non parlano “ab asistentibus”. Sono gli
“assistenti” - coloro che si prendono cura di loro - ad insegnare le prime parole. Non ci viene dato neppure
il genere. In base a chi ha intorno, si arriva ad acquisire una certa “locutio vulgaris”. È un processo quindi.
“Cum primitus”, “Non appena” che regge “incipiunt” e ha valore temporale. “Quando cominciano a
distinguere le voci”. La “locutio vulgaris” è un procedimento influenzato dall’ACUSTICA AMBIENTALE.
Nella riflessione su linguaggio Dante inserisce il fatto che il linguaggio è una riproposizione di ciò che
sentiamo intorno.

“locutio” significa “LINGUAGGIO”. Non sta ancora parlando del volgare italiano, ma sta parlando più in
generale, nell’inflessione di una riflessione teorica profonda. Per questo si parla del “De vulgari eloquentia”
come primo trattato linguistico. Il LINGUAGGIO VOLGARE come strumento della comunicazione, che non è
quindi la lingua. Dante troverà il termine “idioma”. Questo è il linguaggio. Ancora non è entrato nelle
categorie da spiegare.

Dà anche una seconda definizione. Abbiamo un inciso colloquiale, “Diciamo/Chiamiamo/Definiamo


linguaggio volgare quello che prendiamo (“accipio”) senza alcun tipo di regola (di grammatica), imitando la
nutrice - quella che inizia a parlare.”. Non c’è la madre, c’è la figura che alleva. Ecco come la grammatica
viene dalla lingua: chi non la studia, non può applicarla spontaneamente. Dante dichiarerà la nobiltà della
“locutio vulgaris” per la sua spontaneità, ma anche la mancata nobiltà per l’assenza di regole
grammaticali.

Inizio capoverso 3.

“Abbiamo inoltre una locutio secundaria.”. Quella che i romani chiamarono “grammatica”. “grammatica”
equivale a “latino”. La grammatica, la lingua normata, non può che essere il latino, dato che l’altra locutio,
quella volgare, era poi dopo Dante praticata nella scrittura, non era una lingua normata. Ecco la
commistione. L’unica norma possibile è il latino, perché la prima grammatica italiana verrà fuori solo nel
‘400.

La prima grammatica è quella che apprendiamo da chi ci assiste; poi abbiamo quella che si studia con fatica
a scuola.

05/10/2020
Il LINGUAGGIO ha ancora una importanza superiore rispetto alla sua diversificazione temporale. Definita la
locutio primaria, una locutio che vige “sine omni regula”. C’è una locutio secundaria, per cui si usa lo stesso
termine “locutio”, quella che i romani chiamarono “vocaverunt gramatica”, per cui “grammatica” vuole dire
per Dante “latino”, in quanto unica locutio normata, fatta di regole.

I I, 3. Seguono due precisazioni: Dante sottace chi può condividere con l’Occidente il possesso di una locutio
secundaria normata. La Grecia fa capolino nel “De vulgari eloquentia” in maniera contraddittoria. Dante
nono conosce il greco, ma sa che esiste la Grecia. Al tempo di Dante la Grecia è una realtà territoriale che è
stata a lungo possedimento occidentale. Nei territori della Grecia erano state istituite le colonie crociate,
l’impero d’oltremare che era stato a poco a poco conquistato attraverso le Crociate. La Grecia, a metà del
Duecento, comincia a riacquistare la sua indipendenza nell’età dei paleologi.

Per dante allora questo rammento linguistico non significa nulla. Dante ne ha consapevolezza, ma il fatto
che emerga questo termine è significativo, scheggia del ricordo storico della sottrazione della Grecia
occidentale in anni non lontani dal “De vulgari eloquentia”, e la considerazione del greco moderno nelle
varietà linguistiche della confusione babelica. La Grecia viene ricordata come realtà che ha questa locutio
secundaria, una lingua normata, fatta di regole e grammatica. Dante pensa agli arabi, che neppure
menziona, ma ci pesa come realtà che possiede anche una dimensione normata, che lui tiene però distinta,
la locutio secundria, da quella dell’uso.

La locutio secundaria non riguarda tutti. Pochi arrivano alla consuetudine, abitudine, familiarità di questa.
Mentre la locutio primaia è la consuetudine, un habitus. La locutio secundaria è selettiva, perché a quella si
arriva soltanto se si studia. Si è regolati e addottrinati, migliorati e istruiti in quella: chi ha lo spazio e la forza
di assiduità dello studio, può pervenire alla conoscenza della locutio secundaria.

Il CONCETTO DI NOBILTÀ. Ecco l’opportunità d collegarsi alla questione della nobiltà, che qui contrasta
apparentemente con quanto asseriva nel “Convivio”, limitrofo al “De vulgari eloquentia”. Anche qui aveva
preso in considerazione il rapporto tra latino e volgare. Nel “Convivio” aveva asserito che la lingua più
nobile era quella latina, ma sarebbe ricorso al volgare per una questione di omogeneità e di coerenza,
perché il “Convivio” avrebbe dovuto distribuire alla mensa dei dotti il commento filosofico alle varie canoni.
Qui la prospettiva cambia, asserisce la cosa opposta: è più nobile il volgare.

Il volgare fu la prima lingua usata dal genere umano, usufruisce della lingua umana, benché questa locutio
sia divisa in diverse pronunce/modi di esprimerla - senso acustico della differenza delle lingue. L’esistenza
di una lingua Dante la storicizza, ci dà idea della differenza acustica, la prima cosa che si sente di diverso di
fronte alla diversità.

Ma c’è un substrato generale che è quello del LINGUAGGIO NATURALE, che pertiene tutto il mondo. Ci sta
introducendo alla digressione di linguistica biblica che seguirà dopo. Il genere umano ha parlato nella
locutio primaria, quindi non in maniera normata. Dietro l’aggettivo “artificialis” va letto il valore etimologico
de termine: la locutio secundaria è una locutio fatta “ad arte”, dove “arte” vuol dire
“tecnica/regola/norma”. “artificiale” è esattamente l’opposto di “naturale”.

Perso Dante ci dirà che il LATINO è una LINGUA INVENTATA. È un pensiero proprio di quel tempo, che lui
solo è stato in grado di mettere per iscritto. È una riflessione medievale importante, il latino medievale può
essere adattato a qualsiasi necessità perché non è una lingua naturale. Per Dante il latino deriva dal
volgare. Il latino è una normalizzazione del volgare.

Hanno escogitato i “grammatice positores”, individui che a un erto punto si sono messi a tavolino e hanno
inventato la “grammatica”, frutto di una decisione normativa fuori dalla produzione orale e insito nella
produzione scritta. Il problema è che il volgare non ha una norma. Dante non vuole fare l’alessandrino, ma
secondo lui il volgare non ha una norma. L’essenza della locutio secundaria normata è importantissima, un
ago della bilancia che dipende dalla secundaria, Dante ha bisogno di trovare gli studiosi della lingua volgare.

La lingua volgare è allora naturale, pertiene alla natura, dove la Natura è figlia di Dio. L’Arte è figlia
dell’uomo. La sua intenzione è quella di trattare la lingua più nobile, ha rimosso la trattazione della locutio
secundaria.

I, I 5 - Pagine 12 e seguenti.

Ora va a spiegare perché si chiama “prima”. È una trattazione scientifica, non lascia nulla al caso. La locutio
primaria è detta “nostra” perché pertiene a tutto il mondo. Che significa? Solo all’uomo è stato dato di
potersi esprimere a parole, attraverso l’uso del linguaggio, e perché solo lui ne ebbe bisogno. Abbiamo il
problema della NECESSITÀ. Allora l’uomo è superiore a tutti: a qualche realtà è superiore, a qualche altra
no. Va a collocare l’uom in una posizione mediana. La locutio non è quindi l’espressione più alta della
comunicazione.

Se agli angeli e agli animali fosse stata data la facoltà di parola, sarebbe stata data inutilmente, perché “la
natura non fa niente di inutile” - principio filosofico. Si insiste ancora sul concetto di necessità. Quindi l’atto
della parola è necessario, è un’azione necessaria e quindi scaturisce da un bisogno di comunicare con gli
altri. Ecco che il “De vulgari eloquentia” sul concetto della necessità, che insite dalla fase incipitaria
dell’opera, ci rimanda alla sua dimensione politica e civile. L’uomo non può seguire strade alternative: ha
bisogno di una norma per stare con gli altri. Bisogna intendersi, trovare dei punti di condivisione.

Allora l’esigenza profonda è il bisogno di avere una dimensione esistenziale condivisa dal punto di vista
politico e civile, che travalichi le mura della sua città. La norma allora è funzionale. La locutio come
espressione della naturalezza umana, ma se non c’è elemento di comunione che consente la
comunicazione con gli altri non funziona. L’uomo è animale sociale, politico, che ha bisogno di stare con gli
altri.

La facoltà di parola si correla al pensiero. C’è un desiderio alto di espressione, di intenzione, che non è solo
della parola “prolata”, ma è della manifestazione, enucleazione di un concetto della mente. La parola è
allora una manifestazione altissima, non spontanea, ma elaborata intellettualmente, scaturita dal bisogno d
parlare agli altri di un concetto della nostra mente.

Gli angeli e gli animali non ne hanno bisogno. Perché gli angeli comunicano, allora ecco la differenza tra il
concetto di locutio e quello di comunicazione. Dante va a distinguere sistemi comunicativi diversi: parla
degli angeli che riescono a capirsi tra loro in maniera ineffabile, senza ricorrere alla parola, un tipo di
comunicazione superiore, fatta “per speculum”, “per riflessione della mente”. Con questo sistema
comunicano anche con Dio, che non ha bisogno di parlare. Gli angeli non hanno poi bisogno di “nessun
segno di locutio”. La locutio è un signum. Il signum ha una parte fisica e una razionale, ma gli angeli non ne
hanno bisogno, il loro sistema di comunicazione è superiore.

 Pagine 22/24

Quello degli uomini è un livello intermedio, diverso, che sta a metà. Questo è un principio importante. Il
linguaggio usato dagli animali è costituito da “voces”, non è locutio. Si parla di “imitatio” del suono delal
voce. Quindi alcuni uccelli ci imitano in quanto casse di risonanza - sistema dei messi logici, dei sistemi
tecnologici attuali. Gli angeli comunicano per “speculum”, gli animali hanno delle “voces”, ma in nessun
caso si può parlare di locutio, sistema che pertiene solo l’uomo.

13/10/2020
L’uomo è un’entità che sta nel mezzo, tra gli angeli e gli animali. Solo all’uomo pertiene la locutio, per
esprimere il concetto della sua mente. Gli angeli non ne hanno bisogno perché per esprimere i loro concetti
hanno un’“ineffabile” sufficienza dell’intelletto, si comprendono senza parlare. Oppure si rispecchiano i Dio,
lo “speculum” di Dio, la conoscenza che si raggiunge attraverso la riflessione su Dio, questa è la scolastica,
la FILOSOFIA TOMISTICA. Gli animali invece sono condotti solo dall’istinto, non hanno bisogno della locutio.
Si intendono tra quelli della loro specie per istinto, in quanto l’istinto non fa ricorso alla ragione. L’uomo sta
sopra questa condizione brutale, ferina. Ci sono anche casi in natura dove l’animale sembra riprodurre un
suono, come il pappagallo. (??) Agli animali pertengono le “voces”.

Quindi “eloquentia”, “locutio”, “idyoma”, “vox” - inteso come riproduzione materiale di un suono. Gi angeli
non hanno bisogno di “signo” della locutio, il SIGNUM LOCUTIONIS.

- Paragrafo 3° - Pagina 24

Valore causale/causale-temporale del “cum”. L’uomo non è mosso dall’istinto della natura (gen.) come
l’animale, ma dalla RAGIONE. L’ESERCIZIO DELLA RATIO, le manifestazioni della ragione ci diversificano gli
uni dagli altri, “riguardo il discernimento - atto supremo della ratio, capacità di distinguere/dirimere -; il
giudizio, la scelta”. “A tal punto che”, consecutiva. Come se ognuno fosse una specie a sé: l’individuo
diventa “species”, cioè SINGOLARITÀ nell’esercizio della ragione. Siamo tutti diversi l’uno dall’altro, ma
nessuno può comprender l’altro se non si trova uno strumento o mezzo di comunicazione efficace che non
può prescindere dall’uso della ratio, o al ricorso di passioni, emozioni. Non funziona nella dimensione civile
o politica di Dante.

Non capita che l’uno entri nell’altro - come succederà a Dante nell’Empireo -, come succede all’angelo.
Questo perché lo spirito umano è oscurato “grossitie acque opacitate mortalis corporis”, il corpo ostacolo
l’intellegibilità l’uno con l’altro. Ciò serve a Dante per descrivere la forma di manifestazione della locutio.

Il genere umano necessità di un SEGNO RAZIONALE E SENSIBILE - “rationale signum et sensibile”. Il modello
è acquisito a Dante dal sistema scolastico, che lui innova: questa è la grandezza di Dante. Troviamo al
filosofia aristotelica concetto tutt’altro che pellegrino. Con il termine SIGNUM Dante intende il
LINGUAGGIO, la locutio intera come insieme di segni, di elementi semiotici, ci pertiene anche l’elemento
pragmatico dell’emissione della voce. Il segno è il nobile soggetto della trattazione, ciò che enuclea la
scienza stessa, la scienza morbida. La locutio che raffinita a modo diverrà eloquentia. Quindi il signum
indica proprio il linguaggio nella sua interezza, non solo l’aspetto semiotico.

- Paragrafo 4°

Un sermo vulgaris. “primiloquium” = apax dantesco, “primo atto di parola”.

Parte dal Paragrafo II del 3° Capitolo del I Libro un passaggio di linguistica biblica. La mente di Dante, per
rintracciare il primo atto di parola, ripercorre la genesi del genere umano, segue delle argomentazioni già
trattate da qualcuno in precedenza - su queste aveva già riflettuto Sant’Agostino nel “De genesis ad
litteram”. Dante dice che il primo a palare fu ADAMO, nel Paradiso Terreste subito dopo l’atto della
Creazione. Dante si chiede quale è stato il primo atto di parola.

- Pagina 34

Dante afferma che il primo atto di parola di Adamo sarebbe stato “Dio”, per cui Adamo avrebbe parlato con
Dio. Dante precisa che l’atto della locutio sarebbe stato l’elemento finale del grande progetto di creazione
di Dio per render l’uomo l’essere più perfetto della Terra. La locutio è l’ultimo atto.

- Pagina 42

La locutio è l’atto sommo di perfezione. E la prima parola, “Dio”, che Adamo ha pronunciato in risposta, è
un atto di glorificazione. Usando la ratio, è come se ringraziassimo Dio del dono della parola, della locutio
che ci ha fatto.

- Pagine 44-45

Un dono che “si basa sul principio dell’ordine”, è l’ordine che ci ha dato. L’esercizio di locutio è un ATTO
ORDINATO, che nella sua corretta esplicazione rende grazie a Dio. È l’atto supremo di rifinitura, di
compimento, della perfezione dell’uomo rispetto alle bestie.

Chi ci insegna la locutio primaria? La nutrice, la balia. Ma Adamo che lingua ha parlato? Da dove ha preso
questo dono divino? La locutio che forma particolare ha preso in questo primo atto di parola?

- Paragrafo VI

Dante si interroga su come affrontare un sistema presente con il pensiero scientifico. Ci sono tanti idiomi
con cui si pratica l’esercizio umano, tanto che risulta che la gente non si capisce a parole. La risposta che
Dante darà circa l’idioma usato da Adamo, è diversa da quella che darà nel “Paradiso” della “Divina
Commedia”. È una divergenza cronologica che ci consente di stabilire un prima e un dopo. Qui die che la
lingua usata da Adamo è l’EBRAICO.

- Da pagina 48 e seguenti
- Pagine 49/51
“Latini” = “Italiani”. Dane non assegna a Firenze il primato della lingua volgare. I rpimi che danno segni
buoni sono i siciliani. Da qesto passago prende corpo il valore politico del trattato. Dante rinnega i
municipalismo bieco, miope, pensando a un discors politicp che supera i localismi, ce nella prospettiva
dantesca hanno fatto la rovina dellIalia. Eco la ricerac di percorsi universalistici, che consentano di uperare
qesto ateggimaneot tendente al municipio chiuso, bigotto, che non poteva essere confacete all’aspiraizone
alla comunicazioen che perine el’uomoe gli consente di esercitare il più alo grado di perfezione coem è stat
a lui consegnato da Dio.

20/10/2020
Siamo giuti a un approdo importnate: il primo atto, l’atto stsso di formalizzazione dela locutio venne
pronuncito da Adamo nellidioma ebraico. Viene pronunciata la parol a”Dio” coe risposta, in quanto Dio non
ha biosgno di parlare, di utilizzare la forma linguisticaede sepressiva dela locutio. Principio importante è
allor che la locutio è scaturita da ua tenzioen tra due soggetti: l rpimo ato di aprola è uan ripsosta in gloria
di Dio, un ringraziamento al fattoc he la locutio è la testimoninaza dell’amore di Dio per l’uomo, è il pnto di
compltezza a cui arriva il perfezionamento della creatura mana dio ha erfezinato l’uomo dandogli a locutio,
dunque il rpimo uomo furoisce, si astre dal procesoc he acomuna tutti no morati, di appedimento della
primaria locutio.

Ma Adamo, che è nato già uomo, coem ha fatto? La locutio el rpimo uomo è sttao CONCRETA, “ceat insiem
a lui”, infsa da Dio coem atto supremo di perfeaione, che richiede sempre ordine nel suo esercizio.
Ripendiamo allora la nosra edizione, dove poi lui arriverà a dire che la lingua con cui venne pronunciato il
rpimo atto di paroa f quella ebraia. Ce terine utiizza per indicare l’ebraico, qindi a forma locutionis’ il
termine è “ydioma”. Ci eravanmo lasciati a questo passaggio, cioè alle agine 46 e seguenti dell’edizione,
“DVE”, I, 6 e avanti. È imposte “ydioma” che non è “vulgaris”: con la rima parola si indicano le originali
“formae locutionis”,la rpima di utti è quela ebraica, parlata da Adamo.

I questo Dane non è invatore: che la rpiam lingua e la più nobile fosse quella ebraica era giù scrtto. Abiamo
fatto riferiemnto al “negotio” umano che si eserct con diversi idiomi. Alora nel passaggio successio
apprediamo il valore plitico, civile del DVE, che anche politico in qaunto ci dice che parlreè ATO SUPREMO
DELL’ESERCIZIO CVILE, POLITICO, lamodalità più alta dell’esrecizio della facoltà umana, lo STARE INSIEME
AGLI ALTRI. Luomo non può reaizzars senza uan DIMENSIOEN POLITICA DI NEGOTIO conaltri esesri mna, un
sistema civie.

Ante ci ricda pi la prospettiva danetsc, ANTIMUNICIPALISTICA, inq aunto era sato esiliato da Firenze. La
visone municipalistica è miope, bieca non consente di superare lafferamzione ossesiva di sé, non onsnte di
esercitare l’umano negotio. Ribadisce qui che la forma dela locutio è stta CONCEATA da Dio nlla ceazioen
stessa dell’uomo. La forma della locuuzioen che Adamo er primo averbbe utilizzato sarebbe rimasta fisa e
immutata. Intendendo “dioma” coem “froma locutionis”, all’origine ve ne sarebbe stato solo uno. Forma
per quanto riguarda i vocaboli delle cose, si per quanto riguarda la costruzione dei vocaboli (la sintassi), sia
riguard l’espressionedella frase stessa (la pronuncia).

“Di quella il gener umano avrebbe continauto a far uso in mnaiera imutabile se non fosse steta dissipata la
colap dell’uma aprsnzione.”. all’origine della disgregazione dell’unità fodamnetale dell’idioma, la
disintegazioen di quell’idom orgigiario f conseguneza di una cla, quelal di avre costrito la Torre di Babele la
punzioen a quel’atto di tracotanza fu quella dela disgregazioen del’idioma primordale, l’ebraico.

Pag. 56, Paragrafo VI

Siamo in una dimensione basso medieval. La “fabrica” è la produzione materiale; è questo ciò che Dio daàà
di concreto al primo uomo. Dante ripercorre la formaione dela Torre di Babele; un gruppo di egoist, dove er
ogni specialità c’è uan lingua diversa, non ci si parla e non ci si capisce. Si pensa di ergere uan torre che si
eleva all’altezza dell’onnipotente.

Pag. 62, Paragrafo 3

Si parla della punzione che Dio inflisse al popolo ebraico per qesta presunzione, la costruzione della Torre di
Babele.a questo punto Dante si rivolge al lettore, novità straoridnaria: c’è l’idea del dstinatario di un’opera,
ma anche l’idea di un dialogo con la realtà dei possibili fruitori di questo. [3] Richiama l’attenzione a
qualcuno che come noi sta ascoltando. Troviamo una sintassi volgarizzata. Che significa “discipina” qui?
Vuol dire “punizione” il modo in cui precedentemente Dio aveva punito il genere umano a partire dalla
cacciata dal Paradiso Terrestre. L’uomo si era dimenticat di cò che lgi era capitato pria: a nienete erano
valse le punizioni a lui inferte, coem al geere umano, precedentemente.

Un passaggio enfatico per dire che questo, la costruzione della Torre di Babele, era stato un atto di ubris e
di tracotanza inaccettabile. Questo passaggio è di sraordinaia efficacia percheè ci fa vedere la dice
diemnsioen in cui opera il pesniero e pl apratica di Dante. Nell riflessioen suelle tematche bibliche introdce
uan epressioen proverbiale, “tertio insurrexit ad verbera”. Questa dimensioen di riflessioen biblica, la
capacità diDante di smepificare grandi porcessi menatli e letterari non sminunendoli, m aportandoi al livello
della comprnsibilità dell’esperineza quotidina. Rendere uamnamente comprensibile la punzione divina,
attraverso l’inflizione di una punizione esemplare. Conseguenza sarebbe stat la dispora del pplo ebraico, la
diepsersioe nelle avei aprei del mond, della Terra conosciuta, e la nascita di tre idiomi diversi da cui
sarebbereo nate le lingue moderne.

Con “ydioma” quidni Dant indica le LINGUE BABELICHE. La locutio è i linguaggio, l’eloquaneza è la locutio
elevat alla massiam potenza arricchita di tuti qegli eletni retorici e formali che la rendono stilisticamnete
elaborata. La locutio è un sistema concreato da Dio nell’umo. L’”ydioma” è la forma locutionia, la rpiam
forma con uci la locutio si è espressa. All’inizio la stroia ellamanifestazione fisica e storica del linguaggio
umano è partita dall’UNICIT. À. Si parte da un “ydioma”, dopo la confuzione babelica se ne sono creati altri
re. Da questi idiomi post babelici sarebber poi nai i vari “vulgaria” i vari volgari, termine con cui Dnate
designa nel DVE le lingu moedrne,c he on dervan dall’ebraico, ma dagli idiiomi consegenti la confusione
babelica. La diaspora del poplo ebraico port gli uomini a collocarsi in aree diverse dell’europa e a
detreminat econseguneze.

Pag. 78, Paragrafo 8

DVE I, VIII, 3. PARLIAMO ALLORA DEL TERZO ELEMTNO LESSICALE: IL volgare. IL VOLGA VEINE FORI DA UN
UNICO CHE POI SI è TRASFORMATO IN LATRI, DA CI vengono fuori le lingue moderne. Allora abbiamo qui
questo rande segmento di GEOLINGUISTICA, che ora Dnate dci illustra.

Ma rima va precisata uan cosa: seondo Dante le lingue moderne sono fruttodi uno sbaglio. Il rpoblema dei
“vulgaria” è che hnano pesro qella identità che avrebbe consentito di intendersi. L’asetto carateristico di
tutte le lingue è la DIVERSIT. À. Questa, nella rospettiva che Danet ci dà nel DVE, è un aspetto NEGATIVO oe
s gli uoini, continuando a parlre lingue diverse, contnuassero a scontare il peccato, a pagare il fio per la
colpa commessa. La diversificazione delle lingue nel DVE è un FENOMENO NEGATIVO, er ci si sono trovate
nelcrs dellumnaità situazioni e soluzioni, tra ui la lingua LATINA, invenetat per risovere problemi

Per qel che riguarda la locutio primaria, lu sta ceracnd un volgare preciso. Per palare diverse lingue c’è la
locutio secundaria. Per quanto rigaurda la DIVERSIFICAZIONE e la MOBILIT. À dela lingua, Dnate non
manterrà sempre la stessa poisione. Infati nel Pardaiso della DC la sua posiizone sarà diversa. Qesto cambio
di posizone che Dante assume nel Paradiso, nel Canto XXVI, quando indontra Adamo. Dante interroga
Adamo su vari dbbi, el’ultma domanda ce lui fa è cirac la lingua originariemnete parlata.
La lingua con cui parlò con Dio era già morta, spenta, perché nell’esperienza umana non c’è niente
durevole. Passando i tempi, cambiano gli intressi e le aitudini, non cè conseguenza che sia furtto dell’uso
dela ragione, ome l’atto dla parola. Il “favellare” è opera naturale, un att naturale. Siamoa un
livellosueccssivo dela speculazioen dantesca. L’atto della parola è un atto natuale, non an copa da scontare:
è uan scelta secondo il modo a ogno più confacente.

Fa po riferiemtno alal discesa agli inferi di Adamo. La motivazione della prima parola che Dio mette in bocca
adadam, nella resentazione prosettiva del Paradiso, è già cambiata. Ciò accade perché le abitudini dei
mortali sono coe le fronde, che cadonoe si rinnovano sui rami. Nel Paradiso Dante approda, e ciò è indizio
significativo della cronologia delle pere. Questa valutazione rappresenta un’evoluzione del pensiero: la
diversità, la mutevolezza e la mobilità sono principi cosituitvi delle liugne moderne. Ciò non inficia alla
possiiblità di uan lingua primordiale, originaria. La lingua è mutevole, erchè l’atto di parola è opera
naturale, le cos cambiano.

Ciò ci fa riflettere che si possono sconrgere più leemtni di contraddizione. Il percorso evolutivo del suo
sistema id pensiero e dele sue evuzioni vanno segite nel corso della sua produzione. Ma è l’instabilità che
ce lo rende vicino. Importante è la capacità di adattarsi, di ripensare di riflettere. Qudila posiizone che
Dante sostiene sulla soria della lingua e sula lingua di Adamo non è la stessa alla quale si può dire che poi
approderà. Lui non denomina la lingua di origine. [Ua scelta che ha abbellitto il popolo ebraico, ha
caratterizzato quel precis momento storico.]

Assunto importante è che la lingua cambia con gli uomini e con il tempo. Il tempo come elemento di
trasformaione della lingua, Dnate lo porta in causa sul persocrso di analisi dei dialetti, che parte dala Sivilia,
dalla Corte di Federico II. Il tempo è portnate: quando cominci questopercorso di analisi che avia dal
Paragrafo 9-10, poi dice che se uno va a Bologna, e sente parole usate in un tempo prcedente,, ogg nonl
ecapise. Allora il tempo fatttore che influsice sulla mutevolea della lingua, aspet importante già nel DVE.

 Immagine mondo al tempo di Dante - Tradizione “mappamondi”, tripartizione della terra “T in O”;

È la tripartizione a ui Dante fa riferiemnto quando pensa alla diaspor del popolo preseclto, l’area incui anrà
a inistere per quanot riguarda la formzioen delle tre lingue. {…} (??)

27/10/2020
{…} Perché di fornte a quest doga della fede devessere così? Perché erano così felici? Erano felci cehcifosse
questa ossibilità non tanto per loro, ma per le loro mamme. La gioia dipoter, ella prospettiva del Pariso, una
prospetiva di gioia generosa, che ha uno spirito assoluto di CARITÀ. Questo è un cortocircito straordinario,
uan srima meraviglisa: “Amme” – deformaione volgare di uan parola ebraica -, e “mamme”.

Da chi ci viene l’“ydioma”, che Dio aveva “concreato”, creato insieme ad Adamo? Leggiamo il “Pd. XV 112”.
Si parla di Cacciaguida, l’avo di Dante, che va incontro a Dante parlando in latino, raccontando della sua
esperinea. Prima che Dante se ne vada, Cacciaguida compiange con lui la degenerazioe sociale di Firenze al
tempo, sulla base della costruzoen più geuna e costituete, la “Crchia antica”. Ccciagida nra del “bel tempo
antico”, percui finché la donna è stta ala fuso e al pennecchio, è stata garnazia del’ordine e del
contenimento sociale. Non si può dire che Dante fsse misogino. Oguna era sicura che sarebbe stata spolta
vicino casa. La veglia che la mamma faceva al bambino funzionaza pronunciando un idioma che trastula
rpiam i padri e poi le madr, riposrta all’idae del piaccere – il linguaggnasce “ad placitum”, secondo l prrpia
volontà. il linguaggio vezzegiativo si trasfrma in storia, arriviamo a un livello più alto.

Pagine 70 e seguenti.

Partiamo al concettoc he la moltiplicazioen del linguaggio frutto della confusione babelica,conseguenza di


un atto di tracotanza e superbia, il terzo a cui Dio ha porvveduto con una punizione. A partire dal paragrfa
VIII Dante raconte le conseguenze dell aconfuzione babelica che hanno detreminato fenoemni igratir, lo
spostamento del popolo eletto dalla terra pormessa verso alr territri del mondo consociuto, verso l’Europa.
L’idea che Dante ha del mondo è quella che abbiamo guardato la volta scorsa.

Abbaimo visto il tipico esempio di mappamondo “T in O”, la zoan orientale da cui si sarebe spotato il
popolo ebraico in altri territor,e averbbe comportato la ascita di ulteriori idiomi. La migrazioen si fa
fenomeno costitutivo della diffusione dele lingue. All’Europa, il punto a ci Dante deve approdare per parlare
del suo volgare, si arriva a seguito della confusione babelica. Dalla confusione babelica c’è uan migrazione
che determina la nascita di tre idiomi post-babelici, gli “ydiomata” babelici, l’“ydioma trifario”. Lo schema ci
aiuta a precisare il “mappamondo T in O”: come selo dovessimo rovesciare, lo acshema fatto occupa il terzo
d’Europa verso cui c si è spostati dall’Asia. Tra l’Asia e l’Europa ci mette il greco.

Coloro che arrivarono in Europa, che ci siano arrivati perla rima volta o che ci fossero già, portarono re
idiomi, che attecchirono in tre zone diveres. Alcuni presero la parte meridionale dell’Europa, l’AREA
ROMANZA, dove Dante lavora. Ad altri tocc in sorte la regioen settentrionale, l’area germanica. Ed era
ricominciata la raippropiazioen della grecia da paret dei Paleologi, riconquistata tra il XII e l’XI seclo dai
Crociati. (??) Sono i GRECI, ma Dante della grecità e sopratttto de greco on ha cognizione, né percezione
delle differenze linguistiche di quel territorio. I greci stannoa est dell’area romanza e di qela geramnica, che
si spartiscono l’Europa. A proposito della “locutio secundaria”, aveva deto che questa la avevano i latini e i
greci, e aveva fatto anch eun’allusioen agl rabi. I greci hanno uan lingua dota che lui ignora, ma anche a lroo
aseegna la locutio secundaria, benché li consideri tra gli idiomi babelici che hanno detrminatola nascita
delle lingue moderne.

Andiamo al Paragrafo 3 di Pagina 78. Qui lui precisa che i “vulgaria” (= “le lingue moderne”) presero origine
da un unico idioma. Lo dimostra a partire dal paragrafo 4, la ragione per cui può asserire che i diversi
“vulgaria” che sono dati dai tre “ydiomata” hanno avuto origine da un unico gruppo che si è spostato. Tutto
ciò che c’è, da Danubio e dal Mar Nero sino ai confini occidentali d’Inghilterra, le Colonne d’Ercole, è
delimitato dai confini di Itali e Franchi, e dall’Oceano. Ciò che va da est all’Inghilterra, lo ottenne solo un
idioma, il PROTO-GERMANICO. Anche se sia poi sfociato in diversi volgari. Tutti questi volgari sono derivati
da un unico idioma babelico, che aveva occupato questo territorio, la parte settentrionale dell’Europa, di
cui lui spiega i confini. Il principio medesimo è “il fatto che quasi tutti quelli di cui ho parlato ora rispondono
affermando jo”, quindi una parola molto smile. Introduce un’analisi comparativa delle lingue, a partire dal
“sì”. Sulla base di questo fa l’ANALISI DELLE LINGUE DEL SI.

Al Paragrafo 4 Dante liquida velocemente il greco, cioè la zona meridionale, perché non ne sa nulla. Ha visto
che dal proto-germanico, cioè dai confini degli Ungheresi verso Oriente, lo occupò un altro idioma. Lo
colloca, non lo menziona e lo abbandona. Lui fa la riflessione sulle lingue moderne per l’area germanica e
per quella romanza.

Paragrafo 5, pagine 82 e seguenti. Definisce l’area geografica, “tutto ciò che resta dell’Europa” rispetto ai
Greci e ai Germani, lo tenne un terzo idioma. Questo terzo idioma appare a sua volta trifario, rappresentare
a sua volta tre idiomi diversi. Come fa a dirlo? Facendo l’analisi comparativa sul “sì”. Quindi il terzo idioma è
a sua volta trifario, perché nell’affermare alcuni dicono “oc”, altri “oil”, altri “sì”. “Oc” lo dicono gli
occitanici, gli abitanti della Francia del sud, che per dante è unica cosa con la parte settentrionale della
Spagna. Quelli d’“oil” li chiama francesi, quelli del “sì” li chiama latini, quindi italiani. In questa coscienza
profonda lui puoi collocherà al sua ide del latino come lingua di invenzione, che nasce qui, a partire dal
volgare del “sì”.

Riporta una serie di elementi il cui ambito semantico è interessante. Nonostante i tre volgari diversi, lui
sente l’identità. Nell’esemplificazione riporta parola di cui per noi è chiara la radice latina, per dante va
tenuto conto del procedimento diverso. Dante sente la somiglianza del volgare italiano con queste parole, e
interpreta ciò come documento, prova del fatto che da questo specifico ambito linguistico è stato costruito
il latino, a partire dal volgare. Procede ancora una volta per raffronto, e non si ferma al “sì”.

Ci spiega infine dove colloca la lingua d’“oc”, d’“oil”, del “sì”. Siamo a pagina 84 e seguenti. Di coloro che
parlano “oc”, questi si trovano nella parte occidentale dell’Europa meridionale, la Spagna, fino a Genova.
Chi dice invece “sì”, occupa la parte orientale dai predetti confini, da Genova “fino al promontorio italiano
con cui comincia il mare Adriatico”, la Sicilia. Chi invece dice “oil” è “settentrionale” rispetto ai primi, li
colloca in Francia. A Oriente ci sono gli Alamanni, i tedeschi, a Occidente sono bagnati da mare anglico,
verso la Manica, e terminano nei monti dell’Aragonia, i Pirenei. A Sud sono chiusi dai provenzali e dal
declivio delle Alpi Pennine. Questa è la rappresentazione data da Dante dei confini di coloro che parlano
“oil”, a nord rispetto alle altre due che ha appena prima enunciato.

Abbiamo visto l’idioma primordiale, i tre idiomi babelici, e il terzo dei tre idiomi babelici a sua volta trifario,
diviso in “oc”, “oil” e “sì”.

03/11/2020
Abbiamo visto nella scorsa lezione lo schema linguistico, in forma di diagramma a torta, dove vengono
rappresentati gli idiomi babelici insidiatosi in Europa dopo la condanna inflitta al popolo ebraico per le sue
colpe, l’“idioma trifario”. Questo è lo schema secondo il mappamondo “T con O”, la concezione tolemaica
del mondo. Dante molla due situazioni, e insiste sull’idioma babelico che va ad occupa la parte meridionale
d’Europa, parlando di un terzo idioma a sua volta trifario, triplice. Lo schema grafico è inserito a sussidio
della lettura dei passi affrontati la volta scorsa.

Pagine 88 e seguenti, dal Paragrafo IX in poi. Il IX Paragrafo del Terzo Libro è importante: Dante dice che fin
qui si è appoggiato a fonti bibliografiche esistenti e precedenti, mentre di questo momento in oi dice di
doversi preparare a percorrere una strada mai battuta. Ora deve far da sé, deve lavorare sulla variazione
intervenuta su quello che all’inizio era un solo idioma. Come si è arrivati alla differenziazione? Va a lavorare
sull’area dell’idioma romanzo, pare gialla del diagramma a torta.

Pagine 91/93. Ripetiamo un concetto già espresso: come faceva a dire che, benché trifario, l’idioma
romanzo ha un’unicità di origine? Sulla base di alcune parole. Ora ripete lo stesso conetto ma lo argomenta
in maniera più solida, porta esempi ulteriori. Il fatto che sia stato unico, che ci sia stato una ccordo di molti
vocaboli, è dimostrato dagli “eloquentes doctores”. Qui il termine designa i poeti che hano scritto in
LINGUA ROMANZA, nelle tre lingue diverse. Si tratta di dottori “eloquentes”, di grado sommo, quasi a dire
che in anticipo qualcuno a quel grado supremo era già pervenuto. Per cui la via scientifica è stata già da
qualcuno conseguita, la “locutio primaria” diventa “eloquentia summa” quando si scrive in poesia, in
particolare nel grado assoluto della “canzone”. Allora cita GIRAUT DE BORNEIL, il RE DI NAVARRA, e GUIDO
GUINIZZELLI. Quest’ultimo, poeta rappresentativo del “dottore dell’eloquenza” della lingua del sì, è un
poeta stilnovista di Bologna.

Si è detto che la collocazione cronologica del “DVE” non è sicura come non lo è quasi nulla, ma si colloca tra
il 1304 e il 1312, è di certo un’opera posteriore all’esilio. È sicuramente posteriore al 1304, anno della
famosa Battaglia della Lastra. Opinione più accreditata è che sia stato scritto negli anni in ci Dante era a
Bologna, proprio per Bologna e per i bolognesi. Si tratta di una città speculativa per il ruolo che Dante le dà
sul versante dialettale. Capiamo allora l’importanza del DVE come fonti indiretta di citazioni di poesia
romanza, molti dei quali veri e propri unicum.

Nei paragrafi che seguono Dante sottolinea, per indagare sul principio di DIVERSITÀ, di differenziazzione di
questo stesso idioma babelico, che ci sono due variabili: lo SPAZIO e il TEMPO. Torna, per indicare i dialetti,
il termine “locutio” a pag. 94: si tratta di forme di locutio primaia non raffinata, ma dialettale, che danno il
problema di mancanza di comunicazione.
Pag. 96, Paragrafo VI. Abbiamo un’asserzione scolastica, un’affermazione aristotelica, che dice anche
dell’impianto storico-argomentativo che sottende al testo. Ripete posizioni già espresse. La lingua
concreata da Dio nell’uomo era stabile, la mutevolezza è stata conseguenza della Torre di Babele. L’idea
della locutio che è stata costruita sulla base della volontà, “a placitum”, è fondante. La confusione fu oblo di
quella situazione precedente, e tutto ciò che pertiene l’uomo non può essere stabile.

Dante de poi che non c’è da stupirsi che una persona anziana non capisca un giovane, ecc.: anche la
variabile del tempo influisce sui cambiamenti del linguaggio, e inibisce il sistema idealizzato da Dante della
comunicazione. Come si spiega allora il principio di mutevolezza della locutio?

Pagg. 102 e seguente, Paragrafi X e XI. “civicasse” è uno splendido neologismo dantesco. Perché Dante non
individua il latino come idioma? Perché il latino coincideva con la grammatica, quindi non è un “ydioma”,
ma appunto è la “locutio secundaria”. La situazione idiomatica riguarda la “locutio primaria”. Che il latino
fosse una lingua storica viene fuori due secoli dopo, in età umanistica, con un grande dibattitto intorno a
personaggi di spicco. Nella prospettiva del DVE, la precisazione era che per Dante il latino non è un idioma.

Paragrafo X. Abbiamo un linguaggio importante: “locquela”, “sermo”. Ribadisce il concetto di variabilità


delle cose. Il “sermo” è inteso di LINGUAGGIO INTERLOCUTORIO. Nella prospettiva dantesca il linguaggio, la
“locutio” è personatura, bisogno di stabilire un rapporto con un altro, non può essere senza un
interlocutore. In questo senso, “sermo” è di certo un sinonimo, e ciò ci dice la profondità del valore politico
della riflessione dantesca. Due si sono messi di pari grado in relazione, l’uomo e Dio. La congruità è proprio
una convenzione, e questo concetto della convenzione diventa importante per l’affermazione successiva,
che riguarda l’INVENZIONE DELLA LINGUA LATINA.

Paragrafo XI. Per far fronte a questa mutevolezza, sono stati stimolati gli “inventores gramatice facultatis”,
gli inventori della facoltà della grammatica, dove “gramatica” significa “lingua latina”. Si tratta di un’identità
inalterabile del linguaggio, della lingua, nei diversi tempi e nei diversi luoghi. Dove sono esistiti questi
inventori e quando hanno operato. Nell’idea di Dante dopo al confusione babelica, per far fronte al
problema delle trasformazioni, della variabilità e della mutevolezza, prima che gli scrittori latini iniziassero a
scrivere. Quindi la “gramatica” è stata inventata in un passato antico compreso tra la confusione babelica e
i primi usi della “locutio secundaria”.

Che significa “esse potest varaibilis”? Perché è stata regolata dal consenso di molte genti? Dante sta
facendo la genesi della lingua latina: il fatto che avesse regole scritte e sia stata stabilita a tavolino. Il
consenso di molte genti ha arginato le variabili di tempo e spazio che determinano mutevolezza. A questo
“consenso di molte genti” si è pensato che Dante alludesse al latino come a una lingua inventata, comune a
tutti. Ma non è ciò che dice: la riflessione, il consenso che individua all’interno della lingua latina come
lingua di unione, va dentro a una specifica categoria d genti.

Siamo nell’area romanza del diagramma a torta. Allora Dante va a cercare la norma latina nell’area
romanza. Le genti non sono allora genti di tutto il mondo: Dante pensa allora alla condivisione della lingua
del sì. Secondo Dante i latini parlavano italiano, la lingua del sì. Questa assimilazione, questa osmosi
profonda, fa pesare Dante e quelli del suo tempo che la situazione fosse opposta a ci che è storicamente
avvenuto.

Abbiamo un inno alla necessità comunicativa di questi tempi. C’è una ridondanza di espressione che
rimandano al concetto di variazione, fluttuanza. Quindi qual è stata la prima ragione di invenzione della
“gramatica”, il latino? Per evitare che noi non conoscessimo per nulla, o in maniera imperfetta, gli antichi. Il
primo fine è allora stato la CONOSCENZA DEL PASSATO, la possibilità di non far perdere la MEMORIA. Allora
ecco la norma che sottrae l’espressione della facoltà di parola all’arbitrio del tempo e dello spazio, è stata
inventata per la conservazione della memoria del passato, per poter attingere e toccare “auctoritates et
gesta antiquorum”. La norma ci serve non solo per interloquire con il passato, ma anche con il DIVERSO.
Dante poi abbandona la riflessione sul latino, perché subito sotto lascia la questione e va a parlare
dell’idioma trifario. Fa poi le categorie, e va avanti a cercare l’eloquenza di questo volgare che dunque sta
all’inizio. Allora la locutio latina è “secundraia” perché è venuta dopo.

10/11/2020 - Convegno con Mirko Tavoni


Seminario “Domande sul ‘De vulgari eloquentia’”. Mirko Tavoni è un filologo e un linguista italiano esperto
di Dante. Ha insegnato per quasi tutta la carriera presso l’Università di Pisa, e lì ha tenuto fino al 2019 la
cattedra di “Storia della lingua italiana”. L sua attività si estende sui grandi versanti della lingua e della
filologia italiana del Tre e Quattrocento, ma anche su tutti quelli che possono essere i risvolti informatici di
questi testi. Tanti sono stati i suoi incarichi presto università e sedi di ricerca straniere. La sua produzione
scientifica è vasta: ricordiamo “Latino, grammatica e volgare: storia di una questione umanistica”, tanti
contribuiti sulla figura e sulla lingua di Dante, fino ad approdare nel 2011 nell’importante “Volume dei
Meridiani” dove sono state pubblicate le opere minori di Dante. Importante questo approdo, perché si
tratta di un processo diretto da Marco Santagata.

La sua è stata un’accettazione propositiva: l’idea è quella di strutturare il seminario in forma di domande.
Per il “De vulgari eloquentia” ha valore epistemologico, in quanto Dante ci dice che il primo atto di parola di
Adamo venne in forma di risposta. Lo stesso Dante si domanda in che modo l’uomo abbia parlato per la
prima volta, e non lo sfiora l’idea che il linguaggio sia nato da un’asserzione. La comunicazione e il
linguaggio impongono che quando si parli ci sia un interlocutore.

Domande terminologiche. La prospettiva con cui il “De vulgari eloquentia” è stato affrontato è insolita
rispetto alla norma. Noi lo studiamo dalla parte del latino, in quanto la trattazione teorica iniziale del I libro
non è il latino assolutamente accessorio, si tratta di un sistema interessante.

1. Cosa significa esattamente l’aggettivo “nobilis” nell’uso che Dante fa per definire il volgare (ma anche il
latino)?

2. A partire dal Capitolo VII del Libro I Dante introduce un ventaglio terminologico più ampio per indicare il
linguaggio: “sermo”, “loquela” sono da considerare sinonimi di “locutio”?

1. Sul concetto di “nobiltà” c’è molta bibliografia recente, e opinioni diverse. Nell’uso dantesco di queste
parole, in particolare nel periodo di composizione del “Convivio” e della “Vita nova”. Nelle opere di Dante si
trovano delle CONCORDANZE ELETTRONICHE (sito “DanteSearch”). Si tratta di una ricerca grammaticale,
morfologica. Su “Lemma” digitiamo “nobil-”, come striga principale, prefisso delal parola, in modo che
venga fuori tutta la famiglia del sostantivo “nobiltà”. Compare questa parola in ben 11 opere. Dalla
costatazione sulle frequenze distribuite nel tempo, negli anni di scrittura dei trattati - tra il 1304 e il 1306,
forse si può aggiungere il 1307 per il “Convivio” -, in entrambe le opere, una volgare e una latina, si tratta di
un concetto che dilaga. La conclusione di carattere generale, opinabile, è che l’intesa concentrazione sul
tema della nobiltà sia dovuta all’attenzione di Dante al TEMA POLITICO della nobiltà in questi anni. Sono
anni che seguono di poco l‘esilio, quando Dante si trova in una sistemazione biografa che gli consente di
riprendere la sua attività.

Allora progetta il “Convivio”, di cui va sottolineato che l’ha spinto sia prima a scrivere il “Convivio” sia
scrivere un trattato che divulghi la filosofia aristotelica a uso dei nobili, e non e pubblico universale a cui si
rivolge. La maggior parte degli uomini non sanno il latino, sono tagliati fuori dalla filosofia professionale.
Allora si propone come filosofo laico, che fa filosofia volgare al di fuori dell’università, non a uso dei colleghi
ma a uso del pubblico volgare. Pubblico che si configura come universale, ma che in realtà è pubblico dei
nobili, dei letterati. Ha voluto mettere la filosofia al servizio dei governanti, come strumento per l’uso
razionale e giusto del potere.
Al suo interno c’è anche un uso intensivo dei temi nel “De vulgari eloquentia”, a partire dal I Capitolo del I
Libro, per cui dice che delle due forme del linguaggio la più nobile è quella del volgare. In seguito, ne
trattato, tira in ballo la nobiltà, quella sociale e politica. In altri casi tratta di argomentazione linguistica. Gli
oggetti linguistici che tratta, si domanda quale di questi sia più nobile. Abbiamo visto che la “locutio
vulgaris” è più nobile di quella “secundaria”, poi tra i volgari si chiederà qual è quella più nobile. Guardiamo
il III Capitolo del II Libro: si chiede se siano più nobili le ballate o i sonetti, ecc. il concetto di nobiltà è allora
in primo piano, e ciò dipende dal fatto che come filosofo civile aveva in primo piano la nobiltà, e si chiedeva
allora tra i filosofi chi era il più nobile. In questi anni prende in considerazione il fatto che i nobili possano
essere la salvezza della frantumazione dei comuni e dei municipi toscani. Esempi di città pacificate da
regime nobile, lui ne ha due: uno, nel “De vulgari eloquentia”, è FORLÌ, la città più nobile della Romagna;
l’altra è VERONA, dove ha concepito il progetto del “Convivio”, in quanto c’era un ambiente che lo ispirava.
Questo apprezzamento della nobiltà è il primo passo verso il pensiero politico che lo caratterizzerà, l’IDEA
IMPERIALE, di primo passo con l’idea di nobiltà. Non deve essere nobiltà di sangue, c’è un uso generale.

L’uso di “nobile” in linguistica. Parla del volgare come lingua più nobile, in aperta contraddizione con ciò
che aveva detto nel “Convivio”, che il latino fosse più nobile. Questa classica contraddizione è TATTICA:
entrambi i giudizi, opposti, convergono nel sostenere la finalità del volgare. Nel “Convivio”, scritto per
primo, si pone come filosofo laico, e vuole giustificare il perché della scrittura del trattato in volgare
piuttosto che in latino. Il volgare seguita “ad uso”, il latino “ad arte”, quindi il commento alle canzoni latine
va scritto in volgare. Ciò allora è a favore della STARTEGIA PRO-VOLGARE.

Quando scrive il “De vulgari eloquentia”, un anno dopo, si trova in una situazione personale e ambientale
diversa. Si trattava a Bologna, in un ambiente para-universitario, e scrive il trattato in latino perché vuole
essere letto da teorici e filosofi. Qui si può permettere l’audacia inaudita per cui il volgare è più nobile. E ciò
per la stesa ragione che presenta nel “Convivio”. Il volgare è “naturale”, il latino è “artificiale”. È la stessa
opposizione di prima: a introducendo il concetto di “natura”, la natura è figlia di Dio, superiore all’arte;
l’arte è “nipote” di Dio, prodotta dall’uomo. Allora nell’approfondimento filologico il volgare è più nobile in
quanto naturale.

Altre interpretazioni. Questa idea di Tavoni, del “Convivio” come dedicato ai nobili, non è condivisa da tutti.
Ci sono studiosi che non accettano questa restrizione sociologia, che ha un bel vantaggio in realtà: storicizza
in trattato concretamente, circa il luogo e il periodo, lo status vitae di Dante e il pubblico a cui è destinato.
Altra recente teoria sulla nobiltà è di Catach Rosier, autrice dell’edizione francese. Lei ha espresso pensiero
simile.

 Sito “academia.edu”;

2. Un risultato acquisito della ricerca negli ultimi decenni è che Danta usa questi termini linguistici,
“locutio”, “ydioma”, “loquela”, “sermo”, ecc. con specializzazione semantica - acquisizione dell’ultimo
decennio, poco tempo prima si parlava di un’alternanza in nome della variatio -. I termini specializzati sono
“locutio” e “ydioma”. “locutio” è nome nationis da “loqui”, è l’attività del palare. Infatti nel I Capitolo del
“De vulgari eloquentia” la “locutio sermonis” è più nobile della “locutio secundaria”: significa che quel tipo
di linguaggio, tutte le lingue volgari, rientrano nel parlare volgare, nel linguaggio naturale. Ci sono
indubbiamente tanti “vulgaria”, che realizzano tutti la “locutio vulgaris”. Nella “locutio secundaria” ci sono
molti meno esempi, ma ce ne sono due: latino e greco. Allora “locutio” significa parlare; associandolo a un
aggettivo, si mette un significato preciso, naturale o artificiale.

“ydioma” è una LINGUA PARTICOLARE. Nel “De vulgari eloquentia” troviamo 16 ricorrenze, il che fa
corrispondere alla specializzazione semantica. Nei primi capitoli ha parlato di “linguaggio” e “locutio”, il
termine “ydioma” viene dal IV Capitolo in poi, quando parla della creazione del linguaggio. Poi continua a
parlare degli “ydiomata” nella confusione babelica, e ancora quando passa all’indagine sul campo sulle
lingue d’Europa, dicendo che da Babele sono venute verso Europa genti che hanno portato tre idiomi.
“trifario” è stato confuso, si intende il portare un triplice idioma, quindi tre idiomi babelici.

Le prime lingue nate a Babele le chiama “ydiomata”, e l’ulteriore differenziazione ha dato luogo ad altre
lingue chiamate “vulgaria”. Sono questi i tre termini specializzati. “lingua”, “loquela”, “sermo” on sono
specializzati, significato tutti “lingua”.

Definizione di “nobile” di Tommaso D’Aquino. “nobile” vuol dire “più vicina a Dio”. È più nobile perché è la
più vicina a Dio. Legato allora l’aspetto della scolastica e della riflessione tomistica.

3. Perché nel Medioevo, e nel caso specifico in Dante, si evince una concezione della lingua latina come
‘artificiale’? Da cosa deriva quest’idea? Quanto ha influito sul pensiero di Dante la scolastica?

4. Come mai Dante non individua proprio nel latino, in quanto uno degli idiomi frutto della diaspora giunto
in Europa, quello da cui derivarono i volgari francesi e quello italiano?

3. Nel Medioevo ha nessuno era venuto in mente che tutti i volgari della penisola italiana potessero
derivare dal latino. Questo perché la situazione di diglossia nella quale erano immersi gli uomini del
Medioevo impediva di concepire quest’idea. In tutta l’Europa neolatina, ma anche nell’Occidente cristiano,
tutti vivevano in una diglossia, per cui c’erano una lingua volgare per l’uso quotidiano, tendenzialmente non
scritta, e una lingua di cultura, il latino, valido per tutto l’Occidente cristiano. Allora il rapporto tra queste
due lingue appariva essere entità di natura diversa, una naturale e una artificiale. La definizione di Dante è
la più corretta e sintetica formalizzazione che tutti avevano. L’una è la lingua appresa dalle nutrici, dalla
mamma, ha questa modalità di apprendimento; l’altra è studiata.

La loro esperienza linguistica era allora di due strumenti linguistici di natura diversa. Era inconcepibili che
quello naturale non derivasse da quello artificiale. In principio esistevano dei volgari, e su di essi i
“gramatices positores” avevano inventato le lingue artificiali, il latino. L’affinità tra volgare e latino era
evidente in tuta la Romagna, soprattutto per l’Italia. Lo dice Dante nel “De vulgari eloquentia”, nel famoso
passo tratto dal I Libro, IX Capitolo, VI Paragrafo. I rimatori illustri, di lingua doc, d’oil, e del sì, contengono
in molti vocaboli. Ciò lui lo dice per dire che doveva esserci un solo idioma prima di differenziarsi. Para di un
idioma babelico che stava a monte di molti idiomi volgari prima del sì. Non poteva venirgli in mente che le
tre lingue volgari derivassero dal latino.

I “gramatices positores”, prendendo le parole volgari, ne hanno costruito intono una struttura
grammaticale riflessa, e hanno costruito la grammatica latina. A noi sembra intuitivo, ma non lo è.

L’idea della controversia umanistica su quale lingua parlassero i romani si apre un secolo dopo, tra il 1435 e
gli anni ’80 del Quattrocento. È lì che BIONDO FLAVIO, un umanista dice che il latino era lingua parlata da
tutti, naturale e riflessa sulla lingua delle persone. Con le flessioni volgari, il latino volgare si è imbastardito,
e sono comparsi i volgari. Allora è comparsa la tradizione linguistica popolare, per cui il latino parlato si è
trasformato in lingue volgari autonome, diverse dalla lingua madre; nella tradizione dotta, il latino dotto e
studiato a scuola, si è mantenuto uguale a sé. Allora l’idea è che il latino sia lingua artificiale.

C’è stato un periodo in cui questo concetto è stato espresso come se il latino fosse ESTERNATO, lingua
artificiale nazionale. Leggendo Egidio rmano, lui dice che il latino è “idioma dei dotti”, “ydioma clericorum”,
latino delle università. Lui si rappresenta il latino come lingua internazionale della cultura senza rapporto
con le lingue volgari circostanti. L’idea di Dante è invece che il latino sia stato costruito artificialmente, a
partire solo dalle tre lingue romanze: d’oc, d’il e del sì, che derivavano da un unico idioma babelico. Quindi
il latino rimane all’interno di una BASE LINGUISTICA NATUALE, non è un esperanto

Poi l’idioma babelico si è differenziato nei tre volgari. E i “grammatices positores”, da questa divisione,
hanno creato il latino.
4. Questo concetto non ha particolare teorizzazione filosofica. Nell’ambito della filosofia universitaria
aristotelica, chi si è spinto più avanti a formulare la teoria del linguaggio son i MODISTI. Queste idee fanno
parte del senso comune nella cultura dell’epoca.

5. Qual è il rapporto di dante con la lingua latina degli autori classici? Credeva che anche quella fosse
“locutio secundaria”, costruita dagli uomini e quindi nata in un secondo momento rispetto ad una “locutio
primaria”? Oppure la distingue dal latino del suo tempo?

5. Non c’è ragione di credere che lui avesse articolare sensibilità diacronica. Nell’idea del latino c’è l’idea
che il latino, grazie alla sua artificialità, è IMMUTABILE. Questa sensibilità all’uso linguistico effettivo, allo
stile, al mutare di uso e stile, nel Medioevo erano insensibili a questi valori. Il movimento culturale che
metterà in primo piano questi temi, cioè parlare in latino nei termini di uso concreto degli scrittori, sarà
l’ETÀ UMANISTICA. Dante non aveva questa consapevolezza, anche se nell’ultima fase della sua poesia,
quando scrive le “Egloghe”, dimostra grande capacità di scrivere latino bucolico virgiliano. Ma si tratta di un
salto rispetto alla storia precedente, sua e dei suoi contemporanei e degli scrittori latini.

Il latino di Dante è poco studiato. L’“Enciclopedia dantesca” è stata un’impresa che ha consentito grande
progresso degli studi danteschi. Ha tutte voci circa le parole volgari di Date, dai testi latini non viene preso
nulla. Nell’appendice sulla lingua di Dante ci sono due capitoli fondamentali, uno di Bandelli, uno di altri
autori, sulle strutture del volgare di Dante, e nulla sul latino. A questa lacuna si tenta di porre rimendo con il
lancio del progetto “Vocabolari dantesco latino”. Prima è nato il “Vocabolario dantesco”, promosso
dall’Accademia della Crusca. In parallelo il “Vocabolario dantesco latino”, per creare il vocabolario delle
opere latine di Dante. Lavorare in parallelo porta a molte scoperte.

Quindi nella prospettiva dantesca il latino di Virgilio si è “perfezionato”? Entrambi hanno studiato latino a
scuola. Nel passo dell’Inferno”, XXVII Canto, c’è un dannato fasciato dalle fiamme dei tessitori di frode, che
si rivolge a Virgilio. Virgilio avrebbe parlato a Ulisse in lombardo. Parlava lombardo e scriveva in latino,
come Dante, che parlava fiorentino e scriveva in latino, ma più in volgare. Non siamo più nella situazione
dei secoli alti del Medioevo, per cui la distinzione volgare-latino significava lingua parlata-lingua scritta; ai
tempi il volgare era lingua anche scritta, non c’era più questa contraddizione.

Capitolo XXV, “Vita Nova”. Passo in cui Dante parla dell’origine della poesia in volgare. 150 anni fa i primi
trovatori scrissero le prime poesie in lingua volgare, la lingua d’oc, cosa prima mai fatta. Prima tutti avevano
scritto poesie in latino. Il volgare c’era sempre stato, ma anticamente era stato usato per scopi di
comunicazione parlata, quotidiana. Le prime poesie in volgare erano fatte per farsi intendere dalla donna,
figura illetterata. Allora l’origine della poesia volgare, dell’uso del volgare, ha ragione sociologica. Allora la
lingua volgare esisteva nell’uso fin dall’antichità.

Gli stessi trovatori si legano al principio di “inventores”, come inventori non dal nulla, ma di figure la cui
intelligenza si coglie dallo scoprire ciò che già c’era, dando un assetto diverso.

Dante pensa al latino come “locutio” contrattualizzata nell’alveo delle lingue romanze e non dappertutto.
Abbiamo una rappresentazione delle dinamiche umane come consorzio, mercato, contratto e pratiche
umane. Lo usa anche per parlare dei cosiddetti “Latini” che occupano una zona del pianeta. Se i “Latini”
sono gli italiani, l’uso dei termini “Ytali” e “Latini” è indifferente?

Si tratta di un uso non ovvio né comune. Sulle ragioni per cui lui abbia preferito questa denominazione non
si sono ancora trovate opinioni fondanti. Con questa termologia lui sottolineava l’italianità del latino, e la
latinità dell’Italia. Il latino si costruisce a partire dalle tre lingue, d’oc d’oil e del sì. Ma in una traduzione
vulgata del “Tresor” di Brunetto Latini, si accomuna la dicitura che gli “inventores” della “gramatica” la
trovarono a Roma. Dalla lingua del sì hanno preso più che dalle altre, come si vede nel passo del DVE, I, X, I:
qui discute dei pregi di ciascuna delle tre lingue. Due elementi ci sono al favore della lingua di sì: nella
discussione è prevalso di prendere “sì”, hanno coniato “sic” come parola grammaticale corrispondente al
“sì”. Quindi c’è una priorità dell’italiano rispetto alle altre lingue sorelle.

“Purgatorio”, Canto VII. Sordello incontra Virgilio e gli dice che ha dimostrato la ricchezza straordinaria e di
potere estensivo de latino. Se il latino è lingua artificiale di tutti, la chiamerebbe “nostra”. Essendo i due
mantovani, la lingua “nostra” è il latino, lingua “di noi italiani”.

7. Dante, parlando del primo dei tre idiomi babelici, ovvero quello giunto in area germanica, cita alcuni
volgari moderni derivati da esso: qual è la sua effettiva conoscenza di tali lingue germaniche?

7. Dante non aveva nessuna probabile conoscenza di questi volgari. L’unica informazione - quelle letterarie
non c’erano, non arriva nulla di scritto -, da dove avrebbe potuto ascoltare questi volgari, era a Bologna,
all’università, dove c’erano queste nationes che venivano a studiare. Deve aver colto che tutte dicevano
“jo” come particella affermativa. Per le lingue germaniche come particella affermativa, è vero. Poi ha messo
dentro anche l’ungherese. Si è fatto questa idea, palando di SEGNO DI COMUNE ORIGINE BABELICA.

La straordinaria abilità argomentativa di Dante lo ha portato a costruire un quadro teorico ampio, costituito
da parti con livelli di formazione diversi. L’idioma romanzo lo conosceva tutto, di tutte le tre lingue;
dell’idioma germanico sapeva che tutti dicevano “jo”, unico indizio della loro comune origine; del greco non
dice nulla. Allora come fa a dirlo? Come fa a ipotizzare che uno dei tre idiomi fosse greco? Dalla “locutio
secundaria”. Lui sapeva che esiste la lingua greca. Non sapeva di questa, ma ne conosceva l’esistenza, di
questa come grande lingua grammaticale nel mediterraneo orientale. Nell’Europa occidentale c’era il
latino.

Il latino è la “locutio secundaria” delle lingue d’oc, d’oil, del sì. Il greco esiste. Sotto c’erano lingue volgari
che arrivavano dallo stesso ragionamento. È stato forse aiutato dal fatto che il greco aveva 5 dialetti, da
immaginarsi come equivalenti delle lingue volgari. Prima di tutto ciò, dice, ci dev’essere stato un idioma
babelico.

Ciò ci fa rifletter su Dante anche come grande AUTORE SPERIMENTALE. Sono istruzioni a cui non si può dare
subito risposta. Allora la ricerca è “caccia”, come dice nel “De vulgari eloquentia”.

8. A questo punto è sbagliato pensare che il volgare nasca dalle nutrici in quanto sono da loro che i bambini
sentono e imparano la “locutio primaria”?

8. Il volgare nasce dalle nutrici, i bambini lo apprendono dalle parole della nutrice. È il linguaggio materno.
La figura della nutrice è la più materna, la più lontana dall’idea di lingua codificata. È non solo lingua
naturale, ma ha anche connotazione del balbettio. Questa figura incarna il momento embrionale iniziale
della formazione del linguaggio nella mentre plastica degli infanti, a partire dai suoni delle parole
bambinesche, rivolte dalla nutrice e dalla mamma. Mentre di certo il latino aveva la connotazione di lingua
paterna, istituzionale, della scuola.

È interessante capire da dove nasce l’espressione comune “lingua materna”. Nel tracciare la sua storia si
po' notare la diversità rispetto all’espressione “sermo patrius”. La lingua nostra la si può definire con la
metafora della madre e del padre. La prima è più vicina alla naturalità dell’apparato linguistico.

La lingua è anche l’rogano anatomico a questa. Pertanto è sinonimo di “sermo” e “loquela”, e in sé ha


anche origine in questa metafora, che ha preciso punto in cui ci si può chiedere se in questo contesto
significhi “lingua” in senso anatomico. Prendiamo il Liber Primus del “De vulgari eloquentia”: se non ci fosse
stata Babele, questa “forma locutionis” concreata da Dio nella prima anima, di questa l’organo non avrebbe
proprietà. Le sfumature di questa espressione hanno interpretazione diversa, qui si palesa la molteplicità
della parola “lingua”.
Nel “sermo” abbiamo la “sermo cinatio”, discorso che può essere fatto solo al maschile, che ci riporta anche
all’orazione di tipo politico. In classe abbiamo discusso del passaggio del XV del “Paradiso”, il canto di
Cacciaguida, in cui si parla della donna che sta in casa e che trastulla con quell’idioma il bambino piccolo. Lì
il termine “ydioma” vuol dire linguaggio specifico?

È il modo di parlare dei bambini. Qui, avendo in comune l’idea del linguaggio particolare si vuole attivare il
senso di “idioletto”, di linguaggio bambinesco, che ancora al tempo non c’era come concetto. Quindi come
si parla con il massimo di forma fonica embrionale, nello stadio della parola ancora non ben formata. Anche
la musica.

- La figura della donna. Dante era amico della donna o no?

La risposta è che era amicissimo. “Donne ch’avete intelletto d’amore”. Dante ce l’ha nel sangue: non solo
nel modo empirico, ma nel senso profondo di “donne ch’avete intelletto d’amore”, sono coloro che lo
capiscono. Molta parte pertiene alla lirica giovanile. Nel “Convivio” è un uomo indurito dalla politica, non
sognava più. E nel contesto dell’opera intellettuale, diverso, dice di scrivere per i nobili, “molti uomini e
donne”. C’è caratteristica sociologica: sono persone dell’entourage, elitarie, della famiglia della Scala, ma
con posizione precisa. proprio in quegli anni c’erano donne della famiglia della Scala in primo piano,
facevano matrimoni alti con Federico II. Ma anche donne-soggetti politici vengono altamente considerate.

È un intellettuale attento alle donne come soggetti di cultura e intelligenza. Sarebbe irrazionale credere che
il primo atto sia stato detto dalla presuntuosa Eva, piuttosto che dall’uomo? Eva avrebbe usato il linguaggio
come primo peccato originale. Dante parla del “preliloquium” circa “l’anima del primo essere umano”,
Adamo, che apre gli occhi e dice “Dio”.

Per essere storicamente precisi, prendiamo le “Dolci rime”, canzone scritta quando è a Firenze, come
intellettuale guelfo che contrasta l’opinione di Federico II secondo cui la nobiltà è nobiltà di sangue. Ciò è
coerente con l’identità di Dante quando l’ha scritta. Quando scrive la canzone, è un esiliato, cacciato dai
guelfi, che trova rifugio nelle corti signorili. Comincia a vedere che la salvezza politica dell’Italia può venire
da ordinamenti comunali, che invece di dilaniarsi, trovano una famiglia egemone, che instaura la pace. Il
suo pensiero cambia.

A Verona, dove ha concepito il “De vulgari eloquentia”, c’è la frase di una cronista, che dice “Tutti a Verona
sono tutti della Scala”. La famiglia ha creato un consenso che ha pacificato la città. Rimane un comune, con
tutta la vitalità economica e sociale dei comuni. Non è un feudo, ma un comune che ha i vantaggi della
vitalità economia e della crescita. Ma hanno una famiglia che li ha appacificati.

Se lui commenta ciò che ha scritto dieci anni prima a Firenze crea un commento che contempera le cose,
che rimarrà fino al “Paradiso”: nella nobiltà c’è qualcosa di genetico. Chi nasce da una famiglia nobile ha più
chance di essere nobile, ma non è detto che lo sia. Chi nasce da umili origini, ha meno chance di essere
nobile, ma non è detto che non lo sia. Chi ha la fortuna di essere nobile dovrebbe, a una sua azione,
confermare questo suo essere nobile.

- La “locutio” è segno distintivo dell’uomo in quanto razionale. La “locutio primaria” è appresa in maniera
razionale piuttosto spontanea. È vista come atto razionale o sensibile?

Il volgare ha origine assolutamente naturale. Poi può crescere infintamente, non resta lì. Cresce su sé stesso
infinitamente, non serve passare al latino per trattare di temi alti e impegnativi. Lui ha scritto molti trattati
in latino. I vertici sublimi della poesia volgare che ha scritto sono sempre volgari. Il linguaggio della nutrice è
cresciuto con la persona nobile a queste altezze sublimi.

La sua militanza pro-volgare dice che per passare a temi di cultura alta, non serva passare al latino. Allora il
volgare è “illustre” perché dona gloria, è “cardinale” perché come nella porta regola il movimento, “aulico”
e “imperiale” sono termini politici. Non ci sarà bisogno del latino, il volgare sarà la lingua altissima della
lingua italiana. Il volgare ha davanti a sé spazio infinito di perfezionamento artistico.

Nel “De vulgari eloquentia” era ancora attivo nella mente di Dante il pregiudizio teologico della torre di
Babele, un elemento residuale rispetto al racconto biblico. Nel “De vulgari eloquentia” Dante aveva
scoperto il principio di INERENTE MUTEVOLEZZA della lingua. Nardi dice che questo principio, scoperto nel
“De vulgari eloquentia”, non veniva ancora applicato a tutta la realtà linguistica. Resta il principio che nella
prima fase del mondo ci si stato bisogno della torre di Babele per creare le condizioni della vita linguistica
naturale delle lingue. Caduto il pregiudizio teologico, Adamo dice che questa che parlava era la lingua
naturale.

Tavoni non crede che sia così. La torre di Babele non era dogma, lo è diventato con il Concilio di Trento.
Anche nella genesi, nel capitolo subito prima di quello di Babele, c’è il Diluvio Universale, dove le genti si
dispersero nei quattro angoli del mondo. La spiegazione del pregiudizio teologico non è forse quella giusta:
questo perché nell’architettura concettuale del “De vulgari eloquentia” la torre di Babele è il punto di
conguaglio di tutto ciò che Dante sa da diverse fonti di informazione sulle lingue, e che trovano il punto
nazionale di ancoraggio della pluralità.

Perché le lingue d’oc, d’oil, di sì, sono così simili? Perché hanno un unico idioma babelico, perché sennò
non si sarebbe più persa la comprensibilità. È un punto chiave di un modello che funziona per descrivere la
pluralità delle lingue d’Europa e le sue relazioni genetiche. È un elemento di conoscenza. Dante ha
valorizzato l’episodio della torre di Babele perché gli serviva per costruire la torre delle lingue d’Europa.
Allora il principio di mutevolezza delle lingue è sempre esistito. Contini dice che in questo modo Adamo dà
alla mutevolezza della lingua volgare il massimo dell’agilità. Il “De vulgari eloquentia” ha il paradosso di
essere un poema sacro scritto in lingua deperibile. Ma la lingua è deperibile di per sé.

17/11/2020
{…} L’esilio dato alla poesia non in maniera totalizzante ed esclusiva - con il X secolo si parla di RINASCITA,
soprattutto poetica (è detta ETAS OVIDIANA, si ripropone il modulo e lo stilema ovidiano). Ciò avviene negli
ambienti di corte. Esistono filoni contemporanei e paralleli. Ma l’avere allontanato la poesia dal percorso
più alto dell’evoluzione letteraria, quello in lingua latina, ha al contempo aperto un varco straordinario
all’espressione artistica/letteraria secondo questo modulo o canale, secondo la poesia, ai VOLGARI. Il
grande trionfo delle lingue romanze che si esprimono pure in prosa, con la “Chanson de Geste”, è
soprattutto nella prospettiva dantesca e nell’elaborazione su territorio italico, il versante della poesia. I
fenomeni vanno sempre analizzati, nell’ampiezza delle loro componenti, prospettive e conseguenze. Anche
un fenomeno negativo può determinare conseguneze positive si altr versanti.

Ciò ci ricorda l’impornat di percepre la probematicità dei fenoemni artictsi e cultualiper porvare ad
accedervi da più punti di vista. La rpiam grande riflessioen teorica sulla lingua italian ha a coglier come
obiettivo la creazioen di un sistema per scrivere in poesia. Questo tipo di approccio grandioso nella lingua
iatlaina arebbe costiutito u problea, rslto in maniera significativa solo a partire dal dpoguerra. Con la
difficolà che poi oggi avremo, u ci se e l’elaborazione del pesnieroe di uan vautaizone critica, con i tanti
dialeti della comunicazione.

Pagina 108 dell’edizione. Ci siamo interrotti sulla definizione dei “gramatices positores”, che avevano
inventato la “locutio secundaria” del latino, per avere uno sguardo verso il passato, per poter attingere alle
autorità, alle fonti, alle imprese degli antichi - la CONSERVAZIONE DELLA MEMORIA -, ma c’era anche un
sguardo verso il presente, verso un tempo che supera il distacco con i tempi trascorsi. Allora la “locutio
secundaria”, questo contrasto sottoscritto dai “gramatices positores”, ha consentito di non perdere i
rapporti con coloro che la diversità dei luoghi fa diversi da noi. Cosa vede un altro essere umano diverso da
noi? Non la diversità di per sé, perché siamo tutti in qualche modo uguali. Ciò che ci rende diversi è il
LIBERO ARBITRIO, che ci consente di ragionare in maniera diversa. La diversità superata da un uso positivo
delal ragione non va superata, dal lor dialogo si genera la società civile e il progresso. Le diversità che l
“locutio secundria” tende a superare sono quelle APPARENTI, determinante dalle usanze e da ciò che è
abitudine. La “locutio secundaria” ci consente di mantenere un’identità, un’alterità rispetto alla “locutio
primaria”, che ci consente di superare le diversità. Dobbiamo attingere in maniera non saltuaria né
imperfetta alla storia e al presente. “Adinvenerunt ergo illam [= “gramatica”]”.

{…}

X, 1. Ci spiega come mai Dante sentisse il volgare così vicino al latino, e come è arrivato al fatto che i
“gramatices positores”, nel formulare la “locutio secundaria” sarebbe partito dall’italiano. Quale delle tre
lingue romanze può essere stato più vicino agli inventori della “gramatica”? “‘sic’ adverbium affirmandi”:
per il volgare italiano ha fatto una considerazione in ambito strettamente linguistico, morfologico. Per le
lingue d’oil e d’oc fa oconsiderazioni di ordine letterario. La lingua d’oil, il francese, si è specializzato nella
produzione in prosa; uela d’oc allora lo stile prosaico è rporpio dela lingua d’oil, mentre i “vulgares
eloquentes” in lingua d’oc hanno avuto ua produioen interamnete poetica. Ognan delel due ha un
privilegio, l’italiano ne ha due.

Allora l’italiano è superiore ai due non soo perché ha poeato, si è espresso in poesia, ma anche percè alla
“gramatica” riulta essere più vicin, perché ha pù elementi in comune. Il fattoc he lui precisi, sottolinei ce
l’itaianosia più vicinoal latino, ci ribadisce ancora quanto anche la dimensione delal riflessoen slla lingua
latina, questa lingua normata e strtturata, i tempo di Dnate deformata, riformata e palasmaat, sia
impornate per al riflessioen silla lingua.

Pagine 116-117. Comincia la caccia di Dante. Ha ristertto l’oggetto desuotrattato all’italiano, a a veder dove
si posatrovae, ance lui si deve fare “inventr”, scopritore, trartore, della lingua volgare. Si rstringe la
trattazioen “ad vulgare latium”. Permane uan bivalenza, che p scorpiamo con Dante essere monovalenza ci
stringiamo sull’italaino, e vediamo dve “cacciare”. Nei capitoli successivi, con irposeguimento del capitolo X,
Dante riflette sui tanti dialetti e volgari italaini. Ne individua 14 diversi.

Qui il “vulgare”, come lessico specializzato, vuol dire in Italia “dialetto”, “diverso modo di parlare”. Si parla
del linguaggio “decentiorem”, “più decente”, e nella speculazione morale è intrinsecamente unito alla
connotazioen politica. Qui la “selva fa gioco alla “caccia”, nei confronti delal lingua volgar. Nel XI Capitolo
Dant fa un lungo elenco de vocaboli che va ad escludere: il rpimo è il romanesco e il secodno è il
amrchigiano. Ma non amnca nella sua volontà antimuninciaple di criticare anche i fiorentini. I percors ce
presentaie l’Appenninno come line di demarcazione {…}.

XII, lettura in traduzione. Da questo capitolo Dnate non individua il volgare illustre, né quelo decente, ma
individua il rpimoc he va preso in considerazione. Liberati dagli altri volgari italici, passaimo a fare un
confronto tra le cose rimaste. Coem fa la comparazione? Facendo ua comparazione nel “setaccio” tra quelli
che lì sono rimasti. Scegliendo quindi in aniera da adare ad attingere a queloc he conferisce più onore e
onorificenza, incribro nel setaccio, con un immagine molto materiale. Il primo volgare che Dnte ritien degno
di essere approfondito, l’unco che può lasciare qualcosa di postitvo, di decente e decoroso, è il SICILIANO.
Quidni la stroia della lingua nobile traccaiat nel DVE inizia dal SUD, dal sicilaino. Qeset ragio sono
conseguenza di un ordine politio che l’ in qel moemnto si è avuto.

Dante tesse un elogio verso il volgare siciliano. Date ha pesente la tradizione dei poeti siciliani, pervenuti
con uan toscenizzazioen linguistica secodno quei processi di mutamento che avevano determinato
fenomeni metrcii molto noti. Qualsiasi cosa gli italiani hanno poetato, si chiama siciliano. I “doctores
indigenas (acc.)” sono i maestri siciliani, che hanno cantato - si passa dal “poetare” al “cantare”, perché la
forma più alta di poesia per Dante è al CANZONE. I due versi sono da attribuire a GUIDO DELLE COLONNE
(pagg. 141-142), cancelliere della Corte siciliana, che fu anche poeta e autore dell’“Historia distrutionis
Troiae”, un testo ascrivibile alla tradizione dei poemi cavallerichi, am di materia latina ed epica, che abbe
anche versioni volgari. Qui il processo è opposto. Abbaimo coì uan etsimonianza diretta.

Si lascia il versante poetico, e si prende quello politico. Qesta fama trinaria, se guardiamo il segno al quale
tende, risulta essere rmasta in vergogna dei principi italiaic. Questa grandezza del sicilaino è presentata, ma
subito smentita, perché ev venuto meno qualcosa. I perincipi italici che inseguono la suerbio “non a modo
degli eroi, ma a modo dei plebei”, “heroico more”, espressioen venuta subitodopo il ricord di Guido delle
Colonne. Quaindi la gloria del volgare siciliano è rimasta ad onta dei principi italci, che inseguono al
superbia coem i lebei, senza sguire fini alti, ma si accontentano del “more plebeio”. C’erano sttai principi
che in Sivilia si erano comportati da eroi, Federico II e Manferdi, che riunisocno qul pezzo di Italai tanto a
lungo divisio tra realà amminisrative diverse.

Gli “illustres heroes” mostrano le loro “forme”, l’immagine di ciò che rappresentavano. Dante avrebbe
voluto che rappresentassero il RITORNO DELL’IMPERO: è una Corte, quella di Sicilia, ma non una
qualunque. Rappresenta una dimensione politica universale, l’IMPERO. Finché poterono, rispettarono i
comportamenti umani, piuttosto che quelli ferali, feroci. Per questa ragione un gruppo rilevante di
“nobiles”, i nobili di cuore, e coloro che erano dotati di “gratias”, di “qualità”, quindi figure positive, si
sforzarono di stare attaccate alla maestà di principi tanto grandi. la conseguenza fu che qualsiasi cosa gli
“excellentes animi Latinorum” producevano/facevano venir fuori, veniva fuori nell’aula dei principi di
questo livello (??). E poiché in Sicilia c’era n soglio regale, imperiale, è acadduto che qualsasi cosa i nostr
predecesori hanno rpodotto in volgare, si chiama “siciliano”.

5. Questa riflessioen sulla lingua, questo punto tcca grande profndtà. Nel trattao sull’eloquenza si
inesriscono due parole che non hanno significato. “Racha, racha” è un’espressioen di orgine ebraica, dal
Vangello di Matteo 5, 22. Sona come un insulto, come un’espressioen di maledizone. Parolea che non porta
con sé un significato, divenat una “vox”, un suono, un grido, non una parola eloquente. Vee inseita qui,
dopo aver intessuto l’elogo delal coret federiciana, è costretto a compiangerne la caduta. La Corte di
Federico II, con la sconfitta di Manfredi, era venuta meno, e agli Svevi erano subentrati gli SAragonesi.
Allora l’unione dell’Italia meridionale prospttata dagli Svevi era stata impossibilitata di nuovo.

Sul grido di dolore di fronte allo sgretolamneto delal realtà che Dnate aveva ritenuto portarice di positività
politica ma anche culturale, e aveva riteuto un cogiulo straordinario di interzione tra la nobiltà dei
“doctors” di eloquenza e la gestion politica, veien grdato conq eusta espressione ch suona come un
muggito quasi, e espiem, in un contesto tutto finalizzzato alla ricerca delel aprole giuste, è ancora più
stridente. L cosideraizoe parte da uno sguard su ciò che er succeso lì a quel tempo,e va avanti a descriere la
spartizioen teritoriale che affligge la frantumanzioen, il territorio d’Italai e l farntuazioen politica, che le
trombe della loro vittoria non sno canto infernale, ma invito ai carnefici e ai alsi profeti evrso i quali i
cosiddetti regnanti aprono le porte d’Italia.

Termina qui il nostro percorso di traduzione. A pagina 212 si incontrano per la prima volta i famosi quattro
aggettivi con cui si definisce il volgare, che poi Dante trova a Bologna. Lo definiamo “illustre, cardinale,
aulico e curiale”.

Il “DVE” è stato letto? Lo osserviamo dal suo “Stemma codicum”, ci sono sei manoscritti che ce lo
tramandano. {…} Questo manuale lo presero in mano i grandi intellettuali del Cinquecento che presero
parte al grande dibattitto sulla lingua. Si tratta di uno dei più importanti per la storia ella ricezione del
“DVE”. {…}

{…}
Facciamo dire da Boccaccio cosa fu il “De monarchia” di Dante e cosa portò. Predniamo un testo, il
“Trattatello in laude di Dante” di Boccaccio. Il “De monrchia” è diviso in tre linri: il rpimo rpova che per star
bene al modo deve eserci un impero; il secodno, passando per ragionamenti storici, dice che il rimato per al
detensione dell’impero resat a Roma; il terzo, per argoemnti teologici, trova la soluzoen nello scontro tra
impero e chiesa, cioè la teoria dei due soli. Allora l’autorit dell’impero procede da Dio, per cui nessuno dei
due soli ha la supremazia sull’altro. Ma entrambi sono frutto ella volontà di Dio, che pensa l’uomo cem {…}.

Fino a quel moemnto il libro aveva circolao poco, ma dopo questo utilizzo venne usato di pù {…}.

24/11/2020

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