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CANTO XXII

DEMONI E BARATTIERI NELLA PECE


Giuseppe Crimi

Il canto XXII dell’Inferno appartiene, assieme con il XXI e il XXIII, a un trittico che ha
goduto di una costante attenzione da parte della critica dantesca, soprattutto per i richiami al
demoniaco “comico”. Tra le interpretazioni più acute e felici dei versi si deve includere
quella di Domenico De Robertis, alla quale si possono aggiungere quelle successive di
Gustavo Costa, Saverio Bellomo e Lino Pertile. (…) Accanto alle letture appena menzionate,
vanno annoverati i contributi di Leo Spitzer, Umberto Bosco e Michelangelo Picone, i quali
hanno tentato di porre in rilievo la teatralità dei tre canti, o meglio il loro aspetto farsesco, a
partire dal sintagma “nuovo ludo” di Inf., XXII 118, in cui ludo andrebbe inteso
nell’accezione di ‘spettacolo’.
L’attacco si presenta in tono solenne e quasi marziale (vv. 1-12). Per richiamare il
turpe segnale di partenza del diavolo Barbariccia, Dante si serve della evocazione di altri
segnali, di stampo prevalentemente bellico, che lasciano spazio a espressioni pertinenti a
giostre e tornei, le quali, come vedremo, chiuderanno in modo circolare il canto. (…)
Dopo l’insistenza sulverbo vedere e sulla prima persona, Dante ritorna al plurale,
esplicitando la pessima compagnia, con il richiamo a un proverbio diventato presto celebre
(vv. 13-15). Il numero dei demoni preposti alla scorta richiama sì la suddivisione dei reparti
militari, ma comunque identico a una visione contenuta nella Vita di Martino di Sulpicio
Severo, nella quale un uomo “confessus est decem daemonas secum fuisse”. (…).
Lo sguardo di Dante si rivolge ora alla pece bollente (vv. 16-24). Fin dall’antichità la
pece è stata uno strumento di difesa e di offesa o di tortura: Plauto (Captivi, 596-7) testimonia
una punizione riservata agli schiavi, costretti a indossare la tunica molesta, un manto
cosparso di pece cui veniva appiccato il fuoco. … il fiume di pece è un elemento infernale
che si affaccia, ad esempio, in Lucrezio (VI 256-57) e in Virgilio (IX 104-6). Il fiume di pece
bollente è una costante che brulica in tutte le visioni medievali, in non poche delle quali le
anime dei defunti sono sprofondate in maniera completa o parziale nella materia vischiosa
(…).
Più avanti ci si imbatte nella prima similitudine animalesca che investe i dannati. Una
similitudine cruciale, perché d’ora in avanti, in questo canto, come animali saranno descritti
sia i dannati sia i diavoli. La descrizione dei dannati insiste sulle similitudini animalesche (vv.
25-30). Con la menzione delle rane, i versi rappresentano il paesaggio infernale come una
palude o uno stagno: un contesto palustre che verrà richiamato all’atto dell’ultima
similitudine (vv. 130-32), cui seguirà la definizione di “bogliente stagno” (v. 141).
(…) Le azioni dei Malebranche consistono nel tormentare i dannati lacerando le loro
carni (vv. 31-42). Dante inizia a recuperare i nomi dei demoni, nomi di battaglia (si
direbbero), già introdotti nel canto XXI. Procediamo all’appello: Alichino, illustre antenato di
Arlecchino, non ha bisogno di presentazioni; Draghignazzo è facilmente riconducibile al
drago-serpente, animale demoniaco; Ciriatto, dai tratti figurativi, ricorda il porco selvatico,
cioè il cinghiale, animale dalle caratteristiche diaboliche a partire dall’interpretazione di Ps.,
79 14:”Exterminavit eam aper de silva, et singularis ferus depastus est eam”. Su Farfarello, le
ipotesi più probabili insistono sulla radice che riporta il nome alla farfalla: se così fosse,
avremmo che fare con un diavolo la cui onomastica racchiude l’idea di essere alato, una
deminutio rispetto agli angeli, e allo stesso tempo quasi un rovesciamento dell’”angelica
farfalla” di Purg. X 125. Quanto a Malacoda – premesso che Bonvesin da la Riva, nel De
scriptura nigra, v. 456, racconta che i diavoli hanno “la codha crudelissima si è pur un
serpente” – l’uso come antroponimo conosce attestazioni non isolate (…). Il prefisso mal- è,
infine, tipico dell’onomastica degli avversari. Su Rubicane fino a tempi non remoti circolava
ancora un po’ di incertezza. Secondo Inglese, il nome sarebbe chiosabile con ‘colui che fa
rosseggiare’ le vittime, scorticandole a sangue. Il verbo rubicare, in volgare, non conosce
attestazioni antecedenti a Dante e parrebbe in odore di latinismo (…). Per quel che riguarda
Cagnazzo, l’erudito Luiso fece riaffiorare dall’Archivio di Lucca un Cagnassus, ma il nome
non era di ambito strettamente lucchese (…) certo è che qui il nome si allinea perfettamente a
una delle azioni dei diavoli, descritti nella caccia al dannato come mastini e come cani.
Documentazione più scarna per Barbariccia (…). Tuttavia non andrà trascurato che il
particolare della barba denuncia il ruolo del demonio come parodia del decurio: con la barba
fiorita, ad es., veniva descritto Carlo Magno. Notizie esigue per Graffiacane. Per Calcabrina
si può allegare Properzio, Elegiae I 8 7-8: “tu pedibus teneris positas fulcire pruinas, / tu
potes insolitas, Cynthia, ferre nives?” (…) senza dimenticare che al Nord, già nel Duecento, è
attestato, come cognome, Calcaprina. Su Libicocco – spesso interpretato come una fusione di
Libeccio e Scirocco – era intervenuto, al solito, il Torraca, che ricordava l’esistenza della
famiglia Billicozzo e Bicciococco, mentre Spitzer ipotizzava che il nome derivasse da
apricot, con l’accezione di ‘folle, impaziente’.
Un’ultima considerazione: sì è parlato in principio di nomi di battaglia. Forse si
potrebbe recuperare una vecchia ipotesi di Mario Principato, il quale pensava a questi diavoli
modellati sui ribaldi-barattieri assoldati dal Comune anche per scorribande e incursioni.
Tant’è che il nome del diavolo Scarmiglione, secondo una recente ipotesi di Fabrizio
Franceschini, è prelevato proprio dal sostantivo scarmiglione, con il quale si indicava il
soldato di rapina, termine di cui lo studioso propone un’unica attestazione in una cronaca
umbra. (…)
Con il verbo arruncigliare (v. 35) tocchiamo uno dei motivi portanti di questo canto,
lo strazio mediante uncini e strumenti affini, che si ripropone in varie forme … .
A proposito di queste torture va fatta una breve giunta. Si è accennato al duplice
significato del termine barattiere. Ilaria Taddei scrive che “nelle città toscane i barattieri
fungevano spesso da carnefici: erano gli esecutori materiali di tutta una serie di pene
corporali che andavano dalla fustigazione alle torture di vario genere, dall’amputazione di
membra alla pena capitale eseguita per mezzo della decapitazione, l’impiccagione e la
combustione”. (…)
Dante si rivolge a Virgilio per sapere chi sia il dannato martoriato dai Malebranche
(vv. 43-63). Il linguaggio dantesco continua a connotarsi per una estrema precisione. (…)
Su indicazione di Barbariccia, Virgilio a questo punto, chiede a Ciampolo se egli sia a
conoscenza di dannati di orgine italiana, mentre gli altri diavoli solo per poco riescono a
trattenersi dal desiderio di scarnificare il Navarese (vv. 64-75). Dopo il primo assalto dei
diavoli, Virgilio prosegue con un’altra domanda, alla quale Ciampolo risponde evocando i
barattieri italiani (vv. 76-96).
(…) La porzione di testo successiva si concentra sul patto tra Ciampolo e i diavoli. Il
Navarrese, con un fischio, chiamerà i compagni immersi sotto la pece – altre prede da
straziare – purché i diavoli lascino la presa e si allontanino (vv. 97-105). (…)
Dopo le premesse per la sfida, i versi creano un momento di sospensione, con
l’appello al lettore, il quale viene informato della assoluta novità del ludo (vv. 118-32). Del
sintagma “nuovo ludo”, che significa ‘un torneo mai visto prima’, si rinviene un esempio
latino, in un contesto simile a quello dantesco, nella più tarda Cronaca di Girolamo Borselli.
(…) La beffa giocata da Ciampolo fa sì che Calcabrina si lanci contro Alichino (vv. 133-44).
Il verbo ghermirsi (con qualcuno) significa ‘azzuffarsi’, ma riconduce pure all’ambito, tutto
settoriale, degli uccelli da rapina …
Negli ultimi versi Dante offre la descrizione della triste disfatta dei Malebranche (vv.
145-51). Il finale, che, dopo la zuffa, vede i diavoli impeciati ripescati dai compagni, …, si
riallaccia alla scena iniziale della lontra catturata, serrando così perfettamente il cerchio. Una
scena, quella conclusiva, che ribalta al contempo anche quella di XXI 55-57, dove i dannati
erano paragonati a carne che bolliva nel calderone. Il canto giunge al termine con
un’immagine gastronomica del v. 150. Su questa crosta in pochi si sono sbilanciati, ma
seguendo Inglese, che cita un passo di Sacchetti (Trecentonovelle CLXXXVII 3), si direbbe
proprio un termine gastronomico riferito alla ‘crosta’ nella quale venivano cucinati i volatili,
oltre che i conigli, come si evince da una ricetta dei tempi di Dante. Un termine che
apparirebbe così coerente con un sistema culinario, in cui i diavoli cuoci vengono beffati,
patendo, essi stessi, la metamorfosi di pietanza.

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