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Paradiso 

L. Azzetta, L. Battaglia Ricci, S. Cristaldi, A. Gagliardi, S. Gentili,


R. Hollander, G. Inglese, G. Ledda, S. Marchesi, G. Mazzotta,
C. Moevs, C. Sini, C. Villa, F. Zambon

a cura di
Tommaso Montorfano

MARIETTI 1820
Grafica e impaginazione: Camillo Addis

Stampa e confezione: Legatoria Varzi, Città di Castello (PG)

Rimaniamo a disposizione di eventuali aventi diritto che non è stato possibile


identificare o contattare.

I Edizione 2010

© 2010 Casa Editrice Marietti S.p.A. – Genova-Milano

www.mariettieditore.it

ISBN 978-88-211-9414-6

Finito di stampare nel mese di luglio 2010


Indice

Prefazione VII
Nota di edizione XIII

Tavola delle abbreviazioni 

Canti I-II
Il prologo alla terza cantica, di Robert Hollander 3

Canti III-IV-V
I segni del Paradiso, di Giuseppe Ledda 

Canti VI-VII
Ermeneutica del «segno», ermeneutica della storia, di Simone Marchesi 

Canti VIII-IX
L’arco di Cupido e la freccia di Aristotele, di Sonia Gentili 

Canti X-XI-XII
Nel cielo del Sole, di Lucia Battaglia Ricci 

Canti XIII-XIV
Salomone e il cielo della luce, di Carlo Sini 

Canti XV-XVI-XVII
Cacciaguida, di Giorgio Inglese 

Canti XVIII-XIX-XX
I cieli di Marte e di Giove, di Claudia Villa 
Canti XXI-XXII
Contemplazione e Poesia, di Giuseppe Mazzotta 

Canti XXIII-XXIV
Sulle tracce del pipistrello, di Antonio Gagliardi 

Canti XXV-XXVI
La scrittura d’amore, di Francesco Zambon 

Canti XXVII-XXVIII-XXIX
«Al divino da l’umano»:
i canti XXVII, XXVIII, e XXIX del Paradiso, di Christian Moevs 

Canti XXX-XXXI
Profili oltre il tempo e lo spazio, di Sergio Cristaldi 

Canti XXXII-XXXIII
La geometria e il volto, di Luca Azzetta 

Indice dei nomi 

Indice dei luoghi danteschi citati 


Canti XXV-XXVI

La scrittura d’amore*

Francesco Zambon

[L’esilio è] come la misteriosa germina-


zione del grano sotto la terra.
Y H-L, Kuzari

L’atto creatore presuppone un movimen-


to d’esilio, una distanza e, nella prassi
umana, un ritiro dagli onori e, certamen-
te, dal territorio impuro del potere.
Á V, Poesía y exilio

I canti XXV e XXVI del Paradiso completano un trittico che inizia con il
canto XXIV e narra il triplice esame al quale Dante è sottoposto da Pietro,
Giacomo e Giovanni, i tre apostoli prediletti da Gesù che secondo l’esegesi
cristiana medioevale simboleggiavano le tre virtù teologali: fede, speranza e
carità. Essi sono dedicati dunque, rispettivamente, alla speranza, sulla quale
il poeta è esaminato da Giacomo, e alla carità, sulla quale egli è interrogato
da Giovanni. Fra i due canti, tuttavia, vi è una saldatura più stretta che fra il
XXIV e il XXV, poiché la manifestazione di Giovanni – l’«ultimo foco» – è
descritta già nella parte finale del canto XXV (v. 121): il «sùbito abbarbaglio»
(Par., XXVI 20), l’improvviso accecamento di Dante alla sua vista, costituisce
una sorta di ponte tematico e simbolico fra i due canti, segnando una frontie-
ra che – come vedremo – è anche un limite fra il dominio della ratio e quello
della caritas, fra intelletto e amore. Gli esami veri e propri sono condotti con
un evidente parallelismo, reso meno schematico da alcune studiate variazioni:
quelli relativi alla fede (nel canto XXIV) e alla speranza (nel XXV) compor-
tano tre domande (che cos’è la virtù in questione, in quale misura Dante la

* Lezione tenuta il giorno 5 maggio 2010 – Università degli Studi di Milano.


248 FRANCESCO ZAMBON

possiede e da quale origine essa proviene), alle quali seguono le tre risposte;
nel caso della speranza, la risposta alla seconda domanda è anticipata ed è for-
nita non dallo stesso poeta ma da Beatrice, che lo previene («a la risposta così
mi prevenne», v. 51) per evitargli di apparire – diremmo con le parole della
Vita Nova – «laudatore di sé medesimo» (Vn., 19.2 [XXVIII 2]). Dallo schema
dei primi due esami si differenzia in maniera più netta quello del terzo (canto
XXVI), anch’esso articolato in tre parti: oggetto della caritas (che comporta
anche la sua definizione), «filosofici argomenti» e «autorità» scritturali (vv. 25,
26) che dirigono verso questa virtù, ragioni affettive (le «corde» e i «morsi»,
vv. 49, 55) che spingono il cuore a praticarla. Lo spazio a disposizione non
ci consente di studiare qui in dettaglio i due esami descritti nei canti XXV e
XXVI; ci soffermeremo perciò su quattro punti cruciali che ne scandiscono lo
svolgimento: il tema dell’esilio; il ruolo profetico della poesia; la temporanea
cecità e la nuova vista acquisita da Dante grazie a Beatrice; il personaggio di
Adamo e la sua lingua.

La grande apertura del canto XXV, in cui Dante evoca la propria condi-
zione di esule ed esprime la speranza di ritornare a Firenze in veste di poeta, è
certamente uno dei passi più ispirati e celebrati della Commedia:

Se mai continga che ’l poema sacro


al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello.
(Par., XXV 1-9)

La profonda suggestione che continuano a esercitare questi versi deriva in


gran parte dalla proiezione dell’esperienza soggettiva del poeta esiliato, che
sogna il ritorno in patria, su un fondale immenso che abbraccia tutte le realtà
fisiche e spirituali, quasi che in essa si compendi il destino stesso dell’uomo.
Massima infatti è l’escursione semantica dei termini che scandiscono, ver-
so dopo verso, la dichiarazione dantesca: contingenza ed eternità («Se mai
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 249

continga che ’l poema sacro»);1 terra e cielo («al quale ha posto mano e cielo e
terra»); esilio e patria («fuor mi serra / del bello ovile»); male e bene («agnello,
/ nimico ai lupi»); infamia e gloria («con altra voce omai, con altro vello /
ritornerò poeta»). Sono così nominate le più vaste coordinate spaziali e tem-
porali, metafisiche e morali, al cui centro si trovano la dolorosa vicenda e
la sublime missione del poeta fiorentino. Non a caso il verso centrale delle
tre terzine («del bello ovile ov’io dormi’ agnello») è costruito su una sorta di
chiasmo metrico-fonico in cui l’omoteleuto «bello» : «agnello» incapsula, dan-
dole grande rilievo, la paronomasia «ovile»-«ov’io», centro musicale e ideale
dell’intero prologo al canto: il simbolo biblico dell’ovile (che sviluppa l’im-
magine dell’agnello, contrapposto ai «lupi» del verso successivo) si rifrange
duplicandosi nell’avverbio «ov[e]», quasi a elevarlo a pura astrazione, a luogo
per eccellenza, luogo assoluto dal quale il soggetto («ov’io») misura ogni cosa.
Ma il passo è sintatticamente strutturato in forma di periodo ipotetico e si
apre con una triplice nota di disincanto e di irrealtà: «se mai continga», dove
i termini che significano la possibilità dell’evento («se» e «continga»), sono
quasi negati da quel «mai» che cade fra loro come un funebre rintocco. Per di
più, il latinismo «continga» (che naturalmente è legato in Dante all’idea della
contingenza, cioè delle realtà materiali e caduche) evoca il passo dell’Eneide in
cui il protagonista, prima di scendere nell’Averno, chiede alla Sibilla Cumana
di poter incontrare il padre ormai morto: «Ire ad conspectum cari genitoris
et ora / contingat, doceas iter et sacra ostia pandes» («d’andare a vedere il caro
padre, / mi sia concesso: e tu dimmi la strada, la sacra soglia tu aprimi»).2 Il
sogno del ritorno in patria è subito incrinato da una indiretta allusione al
regno dei morti.
Questi versi vanno naturalmente accostati ad altri noti riferimenti di Dan-
te al proprio esilio. Precisi rapporti testuali li legano al congedo della “mon-
tanina” (Amor, da che convien pur ch’io mi doglia): «forse vedrai Fiorenza, la
mia terra / che fuor di sé mi serra» (Rm., 15 [CXVI] 77-78), e «tal, che se piega
vostra crudeltate, / non ha di ritornar qui libertate» (ivi, 83-84). Essi rinviano
soprattutto al celebre passo del Convivio in cui Dante giustifica, appunto con
la sua condizione di esule, la «durezza», cioè la difficoltà e oscurità, che potrà
presentare talora il suo commento alle canzoni incluse nell’opera. Rilevante è
in particolare il fatto che tale condizione sia qui addotta come la causa di una
vera e propria diminutio capitis del poeta e come il motivo di uno svilimen-
to – agli occhi di chi ora lo incontra «per le parti quasi tutte alle quali questa
. I corsivi, qui e nei testi seguenti, sono miei.
. V. Aen. 6, 108-109: trad. in V, Eneide, acd. R. C O, Torino, Ei-
naudi, 1967, p. 211.
250 FRANCESCO ZAMBON

lingua si stende, peregrino» (Conv., I 3 4) – delle sue stesse opere letterarie, già
compiute o ancora da compiere:

Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e
liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che
forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non
solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni mia opera, sì già fatta come
quella che fosse a fare.
(Conv., I 3 5)

Questa pagina stabiliva già un nesso strettissimo fra esilio e poesia, che si
osserva anche in apertura del canto XXV del Paradiso e sul quale dovremo tor-
nare. Ci si può chiedere il perché di questo prologo dedicato al proprio esilio
nel canto della speranza. La prima e ovvia risposta è che Dante vi esprime la
speranza di ritornare a Firenze e di esservi incoronato poeta. Ma si tratta di
una risposta incompleta, che non spiega ancora il rapporto profondo esistente
fra il prologo e il tema del canto. In realtà, Dante vi ha racchiuso la chiave
stessa per l’interpretazione dell’intero poema. Non è naturalmente una chiave
di natura occultistica, come quelle proposte dalla corrente ermeneutica che va
da Gabriele Rossetti a Luigi Valli e a più recenti epigoni, benché negli studi di
questi autori non manchino qua e là intuizioni che i dantisti farebbero bene a
non trascurare.3 Si tratta della chiave offerta dal poeta stesso (o da un autore
che, almeno su questo punto, ne rispecchiava fedelmente le idee) nella Episto-
la a Cangrande.4 Converrà partire dalle parole con cui Beatrice risponde alla
seconda delle domande sulla speranza poste da Giacomo. Dopo aver dichiara-
to che la «Chiesa militante» (v. 52), quella che opera nella storia, non ha alcun
figlio che possieda in misura maggiore di Dante questa virtù, Beatrice afferma
che proprio per questo «li è conceduto che d’Egitto / vegna in Ierusalemme
per vedere» (vv. 55-56) – cioè gli è concesso di venire dall’esilio terreno alla
patria celeste per contemplarla – prima di aver terminato la sua vita. Si allude
qui naturalmente alla fuga degli Ebrei dall’Egitto sotto la guida di Mosè e
al loro ritorno nella Terra Promessa, narrati nel libro dell’Esodo e poi ripresi
in altri luoghi del Vecchio Testamento, specialmente nei Salmi e nei Profeti:
Osea, Isaia e Geremia presentano la realizzazione nei tempi messianici delle
promesse di Dio a Israele come un nuovo esodo. Ciò che i profeti del Vec-

. Cfr. in proposito M.P. P (acd.), L’idea deforme. Le interpretazioni esoteriche di Dante,
Milano, Bompiani, 1989.
. Per le discussioni sulla sua autenticità, cfr. R. H, Dante’s Epistle to Cangrande, Ann
Arbor, The University of Michigan Press, 1993.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 251

chio Testamento descrivono come un evento futuro, il Nuovo Testamento lo


mostra come già avvenuto nella vita e nel magistero di Cristo: numerosissimi
sono infatti nei Vangeli e negli altri scritti neotestamentari i riferimenti alla
fuga degli Ebrei dall’Egitto, all’attraversamento del Mar Rosso e al cammino
verso la Terra Promessa. Come ha osservato Jean Daniélou, «il palese intento
degli autori del Nuovo Testamento [è quello] di presentare il mistero di Cristo
al tempo stesso come un prolungamento e un superamento dei grandi eventi
della storia di Israele al tempo di Mosè. Dio aveva manifestato la sua potenza
per liberare il popolo dall’Egitto. Ma l’umanità restava preda di un’altra cat-
tività, più completa e più spirituale. Anche i profeti avevano annunciato che
la potenza di Dio si sarebbe manifestata in una nuova liberazione, più grande
dell’altra, che sarebbe stata accompagnata da una nuova alleanza. Ora il pro-
posito degli autori del Nuovo Testamento sta tutto nel mostrare che proprio
questo si è compiuto in Cristo».5 Nella successiva esegesi cristiana, l’Esodo è
per lo più interpretato come una figura del battesimo, grazie al quale gli uomi-
ni sono liberati dal peccato (simboleggiato dalla cattività egiziana) e condotti
alla salvezza (la Terra Promessa). Più in generale, esso rappresenta dunque la
peregrinatio dalla civitas terrena a quella coelestis, dall’esilio mondano alla Ge-
rusalemme celeste, cioè a Dio.6 Il tema è dunque strettamente legato a quello
della vita come pellegrinaggio, formulato già da san Paolo nella Seconda lettera
ai Corinzi e poi largamente sviluppato dal pensiero cristiano (II Cor 5, 6-8):
«Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino: per fidem enim ambula-
mus, et non per speciem; audemus autem, et bonam voluntatem habemus
magis peregrinari a corpore, et praesentes esse ad Dominum» («Finché siamo
nel corpo siamo esuli dal Signore; camminiamo infatti nella fede e non ancora
nella visione. Pieni di fiducia abbiamo la buona volontà di esulare dal corpo e
di abitare presso il Signore»).
Uno dei testi biblici che sintetizzano questo tema è il salmo 113, In exitu
Israel de Aegypto. Ora, nel canto II del Purgatorio è proprio questo il salmo
intonato dalle anime dei salvati sulla nave del «celestial nocchiero» (v. 43) che
approda sulla spiaggia del Purgatorio, dove si trovano Dante e Virgilio:

‘In exitu Isräel de Aegypto’


cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
(Purg., II 46-48)

. J. D, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris, Beau-
chesne, 1950, p. 143 (la traduzione è nostra).
. Cfr. M. P, «Vita nuova» e tradizione romanza, Padova, Liviana, 1979, p. 134.
252 FRANCESCO ZAMBON

Il significato che Dante, sulla scorta della tradizione esegetica cristiana,


attribuisce al salmo 113 è da lui stesso chiarito nel II libro del Convivio, dove
egli lo cita per spiegare in che cosa consista il quarto dei quattro sensi della
Scrittura, quello «anagogico». Egli scrive infatti:

Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente


si spone una scrittura, la quale ancora [che sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose
significate significa delle superne cose dell’etternal gloria, sì come vedere si può in quello
canto del Profeta che dice che nell’uscita del popolo d’Israel d’Egitto Giudea è fatta santa e
libera: che avegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che
spiritualmente s’intende, cioè che nell’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e
libera in sua potestate.
(Conv., II 1 7)

Il rapporto fra questa interpretazione e il passo del Purgatorio è trasparente:


le anime appena giunte sulla spiaggia, in effetti, stanno per iniziare il loro pel-
legrinaggio verso la salvezza, verso la Patria celeste; e si può inoltre osservare
come il loro exitus sia chiaramente contrapposto al viaggio nella stessa dire-
zione, ma verso la catastrofe, di Ulisse. Ora questo cammino dal peccato alla
salvezza, dall’esilio terreno alla Patria celeste, dal mondo a Dio è anche il tema
essenziale di tutta la Commedia. E a confermarlo è ancora una volta Dante
stesso, quando illustra nella Epistola a Cangrande il significato allegorico del
suo poema. Dopo aver premesso che «quod istius operis non est simplex sen-
sus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum» («che il significato
di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos,
cioè di più significati», Ep., XIII 20)7 e dopo averne distinto i quattro livelli
in termini analoghi a quelli del Convivio (letterale, allegorico, morale, ana-
gogico), egli cita ancora una volta come esempio il salmo 113, In exitu Israel
de Aegypto, di cui fornisce i vari significati. Infine, applicando questo metodo
ermeneutico alla Commedia, ne illustra il senso allegorico:

Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem
simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero
accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii
libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.8

. La traduzione è quella di G. B, in D A, Opere minori, 2 voll., Milano-


Napoli, Ricciardi, 1979, II, p. 611.
. Ep., XIII 24-25: «È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle
anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 253

Non può sfuggire il parallelismo che viene in tal modo istituito fra il si-
gnificato allegorico attribuito alla Commedia, quello del salmo In exitu Israel
de Aegypto (con i suoi diversi livelli) e quello che allo stesso salmo – o più in
generale al tema dell’esodo – attribuisce Beatrice nel canto XXV del Paradiso,
identificando l’exitus con lo stesso viaggio ultraterreno di Dante, cioè con la
materia del suo poema. Nei temi dell’esilio e del ritorno in patria viene così
indicato, si diceva, il senso ultimo della Commedia: pellegrinaggio dall’esilio
alla patria, dalla terra al cielo, dal peccato alla salvezza, dall’uomo a Dio. Con
il tema allegorico del pellegrinaggio, inoltre, è del tutto coerente la figura di
Giacomo, simbolo della speranza. Già nella Vita Nova Dante aveva precisato
che «peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno strec-
to: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori della sua patria; in modo
strecto non s’intende peregrino se non chi va verso la Casa di Sa’ Iacopo o
riede» (Vn., 29.6 [XL 6]); aggiungendo poco oltre che costoro si chiamano
«peregrini in quanto vanno alla Casa di Galitia, però che la sepultura di Sa’
Iacopo fue più lontana dalla patria [cioè da Gerusalemme] che d’alcuno altro
apostolo» (Vn., 29.7 [XL 7]). Seguono, nella Vita Nova, la visione di Beatrice
da parte dello «spirito peregrino» del poeta, innalzatosi fino all’Empireo in un
excessus mentis, e la «mirabile visione» finale che per noi è scontato collegare al
viaggio ultraterreno narrato nella Commedia. Del resto, nel Convivio la Galizia
è esplicitamente associata al mondo celeste, alla Galassia: «la Galassia, cioè
quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la Via di Sa’ Iacopo» (Conv., II 14
1). E a questo punto diventa del tutto chiaro il ruolo del prologo del canto
XXV, dedicato da Dante alla propria condizione di esule: esso fa del poeta
un’immagine per eccellenza della condizione di tutti gli uomini sulla terra
e, in virtù della smisurata speranza che lo anima («la Chiesa militante alcun
figliolo / non ha con più speranza», vv. 52-53), lo destina anche a compiere
una straordinaria missione sulla terra, una missione che può essere senz’altro
definita profetica.

Nella sua bella lettura dei canti XXX e XXXI del Purgatorio, Corrado Bo-
logna ha citato il paradosso di Borges secondo cui Dante avrebbe edificato
«il miglior libro che la letteratura abbia mai prodotto [cioè la Commedia] per
interpolarvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice».9 Sarebbe suggestivo

Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti
acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina» (trad.
cit., p. 613).
. J.L. B, L’ultimo sorriso di Beatrice, cit. in C. B, Canti XXX-XXXI. Il ritorno di
Beatrice, in B. Q (acd.), Esperimenti danteschi. Purgatorio 2009, Casale Monferrato, Mariet-
254 FRANCESCO ZAMBON

pensare, leggendo l’apertura del XXV del Paradiso, che egli abbia scritto il
poema sperando di poter tornare – in virtù della sua fama di poeta – nella
propria città perduta. In effetti è ciò che affermano letteralmente questi versi;
ma non sta in questa troppo umana speranza il senso vero del sognato ritorno
a Firenze «con altra voce» e «con altro vello». Il passo va innanzitutto accostato
al canto XVII del Paradiso, quello in cui Cacciaguida profetizza a Dante il suo
esilio e lo incoraggia a scrivere il poema in cui è narrato il suo viaggio nei tre
regni dell’Oltretomba. Ai dubbi del poeta, consapevole del fatto che, se rife-
rirà ciò che ha appreso nel corso del viaggio, questo «a molti fia sapor di forte
agrume» (v. 117), il trisavolo risponde invitandolo a rendere manifesta tutta
la sua visione. E aggiunge:

Ché se la voce tua sarà molesta


nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
(Par., XVII 130-135)

L’«altra voce» del canto XXV è precisamente questo «grido», il grande poe-
ma, con il quale la vita di Dante «s’infutura», come aveva detto lo stesso Cac-
ciaguida (Par., XVII 98), ben oltre quella dei suoi concittadini: è la voce di
una poesia che, ci ha insegnato Bruno Nardi, non è concepita come semplice
«artificio letterario», ma come «visione profetica» ispirata da Dio.10 Tale è ap-
punto il senso di quel «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra»,
espressione che non va intesa – secondo una interpretazione ancora corrente
(cfr. per esempio il commento Pasquini-Quaglio) – come «a cui hanno offerto
materia la scienza celeste e la storia terrena»;11 essa significa proprio «a cui
hanno collaborato (“posto mano”) sia l’uomo che Dio», cioè la cui ispirazione
– come quella dei profeti – è di origine divina. Basta ricordare del resto i vv.
22-24 e sgg. del I canto del Paradiso: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che
l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo manifesti [...]». L’«altro vello»
rinvia allo stesso ordine di significati. Senza escludere che, in senso letterale,

ti, 2010, p. 296.


. Cfr. B. N, Dante profeta, in I., Dante e la cultura medievale, nuova edizione acd. P.
M, Bari, Laterza, 1983, pp. 265-326.
. Cfr. D A, Commedia. Paradiso, acd. E. P e A. Q, Milano,
Garzanti, 1986, ad loc.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 255

esso possa indicare i capelli bianchi del poeta che si immagina ormai vecchio
nella sua città,12 per comprenderne il senso profondo occorrerà mettere in
luce tutte le implicazioni che ha per Dante il simbolo del vello. Bisogna infatti
pensare alla similitudine con gli Argonauti sviluppata nel II canto del Para-
diso, dove la straordinaria impresa che Dante si accinge a compiere (quella di
narrare il suo viaggio celeste) è paragonata a quella di Giasone che solcò con i
suoi compagni un’acqua mai percorsa per conquistare il vello d’oro:

Voialtri pochi che drizzaste il collo


per tempo al pan degli angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.
(Par., II 10-18)

La metafora della navigazione per indicare il canto poetico ricorre anche


altrove nella Commedia (cfr. per esempio Purg., I 1-2: «Per correr miglior ac-
que alza le vele / omai la navicella del mio ingegno»). Il «legno» dantesco «che
cantando varca» (Par., II 3) si contrappone in modo evidente a quello con cui
Ulisse partì per il suo «folle volo» (Inf., XXVI 125), così come gli si contrap-
poneva nel II canto del Purgatorio – si è visto – la navigazione delle anime
salvate che intonano il salmo In exitu Israel de Aegypto. La navigazione poetica
è specchio di quella che conduce alla salvezza eterna. E non è certo un caso
che il riferimento agli Argonauti ricompaia proprio alla fine del Paradiso, nel
canto XXXIII, quando Dante contempla in Dio l’unità di tutto l’universo:

Un punto solo m’è maggior letargo


che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
(Par., XXXIII 94-96)

. Interpretazione, questa, confortata dal passo parallelo della sua prima Egloga (Eg., II 42-44):
«Nonne triumphales melius pexare capillos / et patrio, redeam si quando, abscondere canos / fronde
sub inserta solitum flavescere Sarno?» («Non è forse meglio pettinare per il trionfo i capelli, e, se mai
torni in patria sulle rive dell’Arno, lì nasconderli canuti sotto la fronda intrecciata, dove ero solito
aver florida chioma?»).
256 FRANCESCO ZAMBON

Cioè: il brevissimo momento di questa visione abbagliante ha causato al


poeta un oblio maggiore dei venticinque secoli che lo separano dall’impresa
degli Argonauti. Come ha osservato nel suo commento Anna Maria Chia-
vacci Leonardi, «quella nave che solca arditamente il mare è la stessa poesia
di Dante che tenta di raffigurare l’infinito».13 E il vello d’oro conquistato da
Giasone diventa così figura del «poema sacro» che narra l’itinerario verso Dio;
è questo – in senso simbolico – anche l’«altro vello» del nostro prologo: una
poesia che ha ormai la voce della profezia. Nell’ottavo cielo, limite fra storia
ed eterno, Dante si incorona in qualche modo come il profeta della «Chiesa
militante» sulla terra, come dirà Pietro – al termine del triplice esame sulle
virtù teologali – nel canto XXVII:

E tu, figliuol, che per lo mortal pondo


ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo.
(Par., XXVII 64-66)

Parole che fanno eco a quelle, precedentemente evocate, di Cacciaguida:


«tutta tua visïon fa manifesta» (Par., XVII 128). Certo, il reditus alla Gerusa-
lemme celeste narrato nella Commedia appare come un risarcimento spirituale
dell’esilio da Firenze; ma questo ritorno non basta: esso dovrà produrre il poe-
ma con il quale Dante potrà tornare nella sua città – quella in cui era stato
battezzato, era entrato nella fede – come poeta e profeta «in pro del mondo
che mal vive».14 Questo ruolo che egli si attribuisce risulta evidente anche da
alcune allusioni bibliche, che non mi sembra siano state finora adeguatamen-
te sottolineate. Rispondendo alla terza domanda sulla speranza («onde a te
venne», cioè da dove, da quale fonte ti è venuta, v. 47), Dante cita – oltre a
Davide – la Lettera di Giacomo e, riprendendo la metafora della pioggia che
aveva già usato per l’autore dei Salmi («ma quei la distillò nel mio cor pria /
che fu sommo cantor del sommo duce», vv. 71-72) e che figurava già nel canto
precedente («La larga ploia / de lo Spirito Santo», v. 91-92), dichiara:

«Tu mi stillasti, con lo stillar suo,


ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».
(Par., XXV 76-78)

. D A, Commedia. Paradiso, acd. A.M. C L, Milano, Monda-
dori, 20003 [1994], ad loc.
. Cfr. Purg., XXXII 103.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 257

I commentatori hanno spesso notato come il tema della speranza non sia
esplicitamente trattato nella Lettera di Giacomo; ma non deve sfuggire che il
vistoso latinismo «repluo» (uno dei numerosi presenti nei canti XXV e XXVI)
deriva proprio – e con un chiaro intento allusivo – dal testo biblico. Alla fine
della lettera, infatti, Giacomo invita i fedeli a pregare citando un episodio re-
lativo al profeta Elia (cfr. III Rg 17-18) il quale ottenne, mediante la preghiera,
prima che non piovesse per tre anni e sei mesi, poi che piovesse facendo così
fruttificare la terra:

Helias homo erat similis nobis passibilis: et oratione oravit ut non plueret super terram,
et non pluit annos tres, et menses sex. Et rursum oravit: et caelum dedit pluviam, et terra
dedit fructum suum.15

È stata probabilmente l’insistenza di Giacomo sul tema della pioggia


(«plueret... pluit... pluviam») a suggerire a Dante l’uso del latinismo «repluo».
E non vi è dubbio che nel farlo egli volesse alludere anche alla figura del pro-
feta Elia, evocata nella lettera. La pioggia spirituale con cui il poeta è stato
irrorato da Giacomo, e che egli intende riversare sugli altri uomini per mezzo
della sua poesia, ha il suo archetipo in quella prodotta dal profeta Elia; ed Elia
fu rapito in cielo come san Paolo, la cui ascesa al terzo cielo costituisce come
si sa il grande modello biblico del viaggio dantesco. A conferma di questo
collegamento si può ricordare che, nel XXXII canto del Purgatorio, il risveglio
di Dante dopo il sonno seguito alla fioritura della pianta inaridita, simbolo del
sacrificio redentore di Cristo, è paragonato proprio a quello dei tre apostoli
Pietro, Giovanni e Giacomo sul monte Thabor, al momento della trasfigura-
zione, dopo la visione abbagliante del Signore fra Mosè e, appunto, Elia (cfr.
Purg., XXXII 73-84). E si può aggiungere che la caduta dei tre apostoli abba-
gliati sul Thabor è citata anche nella Epistola a Cangrande, insieme al rapimen-
to celeste di san Paolo, a proposito della visione ineffabile avuta nel Paradiso
(cfr. Ep., XIII 80). Siamo qui nel cuore della teologia poetica dantesca: Elia,
protagonista di una ascensione in cielo, è anche una incarnazione del ruolo
profetico che la poesia di Dante rivendica orgogliosamente.

Questi riferimenti ci conducono direttamente all’episodio che segue,


a cavallo fra XXV e XXVI canto: quello dell’apparizione di Giovanni, del
temporaneo abbagliamento di Dante nel tentativo di fissarlo direttamente e
. I Iac 5, 17-18 (corsivi miei): «Elia era un uomo passibile come noi; e pregò ardentemente
che non piovesse sulla terra, e non piovve per tre anni e sei mesi. E pregò di nuovo: e il cielo diede
la pioggia, e la terra diede il suo frutto».
258 FRANCESCO ZAMBON

– dopo l’esame sulla carità – del recupero della vista grazie allo sguardo di
Beatrice. Il paragone esplicito fra la virtù dello sguardo di Beatrice e quella
«ch’ebbe la man d’Anania» (Par., XXVI 12) nel restituire la vista a san Paolo,
temporaneamente accecato dalla luce di Gesù che «circumfulsit eum» sulla
via di Damasco (Act 9, 17-18), istituisce non soltanto un rapporto fra i due
episodi, ma anche un decisivo parallelismo tra la figura di Dante e quella
dell’Apostolo. Tale parallelismo riguarda in primo luogo il privilegio del viag-
gio nell’Oltretomba «anzi la morte» (Par., XXV 41), con un definitivo supe-
ramento – dopo la consacrazione da parte dei tre apostoli – della negazione
formulata nel II canto dell’Inferno: «Io non Enëa, io non Paulo sono» (v. 32).
Come si è già accennato, esso interessa un aspetto fondamentale del viaggio
paradisiaco di Dante: cioè l’esperienza mistica, l’excessus mentis, la visione del-
le realtà celesti e di Dio stesso. Ma in questo parallelismo vi è anche un altro
aspetto importante, che si ricollega precisamente al tema della profezia e sul
quale è opportuno soffermarsi un momento. Già il Foscolo, che su questo
punto ha scritto pagine molto acute e troppo dimenticate nel suo Discorso
sul testo della Commedia di Dante, ha menzionato un passo della Lettera ai
Galati che risulta illuminante per l’interpretazione dei tre canti paradisiaci
dedicati alle virtù teologali. Nel secondo capitolo, infatti, san Paolo riferisce
come, al suo ritorno a Gerusalemme dopo quattordici anni di assenza, gli
apostoli Giacomo, Pietro e Giovanni riconobbero la piena autenticità del suo
vangelo, rivolto ai gentili come quello di Pietro era rivolto ai Giudei (Gal 2,
9): «Cum cognovissent gratiam, quae data est mihi, Iacobus, et Cephas, et
Iohannes, qui videbantur columnae esse, dextras dederunt mihi» («Avendo
riconosciuto la grazia che mi era stata concessa, Giacomo, Cefa [cioè Pietro] e
Giovanni, che erano reputati le colonne, mi diedero la loro destra»). Si tratta
proprio dei tre apostoli che esaminano Dante nel Paradiso e lo promuovono
nelle virtù da loro simboleggiate. È evidente che il poeta si attribuisce qui un
ruolo apostolico e profetico analogo a quello di san Paolo: il messaggio che
egli porta fra gli uomini – il «poema sacro» – acquisisce uno statuto simile a
quello dell’evangelium che Paolo è autorizzato a predicare fra le genti da Pie-
tro, Giacomo e Giovanni. Come ha scritto il Foscolo, il compito che Dante
si attribuisce è quello di un riformatore religioso «per la missione profetica
alla quale di proprio diritto, e senza timore di sacrilegio, si consacrò con rito
sacerdotale nell’altissimo dei cieli».16
Resta da chiarire il punto più enigmatico e discusso di questo episodio:

. U. F, Discorso sulla Commedia di Dante, in I., Opere edite e postume, 12 voll., Fi-
renze, Le Monnier, 1923, III, p. 177.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 259

quello che riguarda il temporaneo accecamento di Dante. È evidente che esso


non si può in alcun modo spiegare come figura di un qualche peccato o errore
dal quale il poeta dovrebbe essere sanato:17 lo esclude il paragone indiretto con
la visione di Gesù che accecò san Paolo sulla strada di Damasco. Nei suoi Ap-
punti sul canto XXVI del «Paradiso», una delle letture più penetranti del canto,
Pier Vincenzo Mengaldo respinge – fra le altre – anche l’interpretazione, defi-
nita «mistica», di Giovanni Fallani, secondo il quale tale cecità rappresentereb-
be «quella notte misteriosa e oscura, che la mistica spiega come una necessità
per la quale l’anima deve passare per giungere alla perfetta unione di amore
con Dio».18 Secondo Mengaldo l’ipotesi è «resa ardua dall’impostazione ri-
solutamente anti-mistica che qui Dante per l’appunto dà allo svolgimento
del motivo della carità».19 E, ricollegandosi alle indicazioni dei commentatori
antichi (in particolare Pietro di Dante), egli mette in rapporto la perdita della
vista con la superiorità di Giovanni sugli altri apostoli e con quella della cari-
tas, che egli rappresenta, sulle altre virtù teologali. In realtà, questa interpreta-
zione non è affatto in contraddizione con quella proposta da Fallani: si tratta
qui, infatti, non di descrizione di una diretta esperienza mistica (come avverrà
alla fine del Paradiso), ma di mistica speculativa. L’accecamento simboleggia
il superamento della fede e della speranza a opera della carità quale è ampia-
mente descritto nella teologia mistica cistercense e vittorina del XII secolo,
alla quale Dante fa qui chiaramente riferimento: in particolare, alle dottrine
di Guglielmo di Saint-Thierry, di Bernardo di Clairvaux e di Riccardo di San
Vittore. Gli ultimi due – si ricordi – figurano come personaggi del Paradiso (e
sono anche citati a proposito dell’excessus mentis nella Epistola a Cangrande),
mentre le opere del primo erano abitualmente attribuite allora a Bernardo.
Il tema è chiaramente illustrato nei due trattati sulla fede di Guglielmo
di Saint-Thierry, lo Speculum fidei e l’Aenigma fidei. Nel secondo (par. 6) egli
scrive:

Tanto ei [scil. Deo] efficimur similiores, quanto magis in ejus cognitionem caritatemque
proficimus; et in tantum eum propinquius ac familiarius videmus, in quantum cognoscen-
do eum ac diligendo efficimur ei similiores. In quo quantuscumque hic profectus fuerit,
longe est ab illa perfectione, qua Deus videbitur sicuti est facie ad faciem: ubi tanta erit ex-
cellentia, ut multo plus adipiscatur caritas, quam vel fides credidit, vel spes desideravit: plus

. Così ancora, dopo numerosi altri, P-Q, ad loc.


. G. F, Analogie tra Dante e S. Paolo, come introduzione agli aspetti mistici del Paradiso,
in A.V., Lectura Dantis mystica, Firenze, Olschki, 1969, p. 455.
. P.V. M, Appunti sul canto XXVI del «Paradiso», in I., Linguistica e retorica di Dan-
te, Pisa, Nistri-Lischi, 1978, p. 231.
260 FRANCESCO ZAMBON

inveniat adeptio, quam formabat cogitatio. Regio namque est illa viventium ac videntium,
intellectualium et intelligibilium, ubi sine ulla corporis similitudine veritas cernitur, nullis
opinionum falsarum nebulis offuscatur.20

Anche se le tre virtù sono intimamente congiunte nella vita spirituale (cfr.
Speculum fidei, 52), vi è profonda differenza fra la conoscenza di Dio me-
diante la fede e quella mediante la carità, come Guglielmo afferma altrove
(Speculum fidei, 105):

Cognitio autem haec Dei, alia fidei est, alia amoris vel caritatis. Quae fidei est, huius vitae
est; quae vero caritatis, vitae aeternae, vel potius, sicut Dominus dicit, haec vita aeterna
est. Aliud quippe est cognoscere Deum sicut cognoscit vir amicum suum; aliud cognoscere
eum sicut ipse cognoscit semetipsum.21

Tale contrapposizione è ricondotta da Guglielmo a quella paolina fra visio-


ne «per speculum in aenigmate» e visione «facie ad faciem» (I Cor 13, 12), fra
il nunc della conoscenza attraverso immagini e phantasmata, e il tunc della di-
retta visione di Dio in cielo. Si tratta dunque della progressione gnoseologica
che conduce dalla fede e dalla ragione alla grazia illuminante, cioè all’amore.
Scrive Guglielmo nell’Aenigma fidei (§ 41):

Item primus gradus in auctoritate fundatus, fidei est, habens formam fidei, probate auc-
toritatis probabilibus testimoniis formatam. Secundus rationis est, non rationis humane,
sed ejus que propria fidei est; habens et ipse formam sanorum in fide verborum divine
auctoritati per omnia concordem. [...] Tertius jam gratie illuminantis et beatificantis est,

. G  S-T, Deux Traités sur la foi. Le Miroir de la foi. L’Énigme de la foi,
acd. M.-M. D, Paris, J. Vrin, 1959, p. 96: «Noi diventiamo tanto più simili a Dio, quanto più lo
conosciamo e progrediamo nel suo amore; noi lo vediamo tanto più da vicino e più familiarmente,
quanto più gli diventiamo simili conoscendolo e amandolo. Ma per quanto grande sia il progresso
compiuto, esso è lontano dalla perfezione secondo la quale Dio sarà veduto faccia a faccia così come
egli è. Allora l’eccellenza di questa visione sarà tanto grande che la carità andrà ben al di là di ciò che
avrà creduto la fede o di ciò che avrà desiderato la speranza. Il possesso darà più di quel che conce-
piva il pensiero. Quella infatti è la regione dei vivi e di coloro che vedono, delle cose intellettuali e
intelligibili, dove la verità è contemplata senza alcuna somiglianza corporea, non è velata da alcuna
nube di opinioni false» (cfr. anche PL 180, 399).
. G  S-T, Le Miroir de la foi, acd. J.-M. D, Paris, Les Édi-
tions du Cerf, 1982, p. 174: «Altra è la conoscenza di Dio che si ha per mezzo della fede, altra è
quella che viene dall’amore o dalla carità. Quella mediante la fede è di questa vita, quella mediante
la carità è della vita eterna; o piuttosto, come dice il Signore, è la vita eterna. Altra cosa, in effetti,
è conoscere Dio come un uomo conosce un amico, altra è conoscerlo come egli conosce sé stesso»
(cfr. anche PL 180, 392).
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 261

finiens fidem, seu potius beatificans in amorem, a fide ad speciem transmittens, inchoando
cognitionem non eam que fidei est, et cum fide hic incipit esse in homine fideli, sed de
qua Apostolus dicit: «Nunc cognosco ex parte; tunc autem cognoscam sicut et cognitus
sum».22

È ancora una forma di conoscenza, ma non è più una conoscenza di tipo


razionale: è intellectus amoris. Questa conoscenza sopra e perfino contro la ra-
gione coincide con l’esperienza dell’excessus mentis e dell’unione con Dio. Ora
tale esperienza è descritta in tutta la teologia mistica cristiana – con riferimen-
to ai suoi grandi modelli biblici, le visioni divine di Mosè nel roveto ardente
e sul monte Sinai e il raptus di san Paolo al terzo cielo – come la contempla-
zione di una luce accecante, di una luce tenebrosa o di una tenebra luminosa.
Così invoca questa visione lo pseudo-Dionigi Areopagita nella Teologia mistica
(cap. II): «Noi preghiamo di trovarci in questa tenebra luminosissima e me-
diante la privazione della vista e della conoscenza poter vedere e conoscere ciò
che sta oltre la visione e la conoscenza con il fatto stesso di non vedere e di
non conoscere».23 E Gregorio Nisseno, rispondendo alla domanda sul perché
Dio sia apparso a Mosè prima nella luce (nel roveto ardente) e poi nelle tene-
bre (sul Sinai), scrive nella Vita di Mosè (II 163): «In questo è infatti la vera
conoscenza di ciò che ricerchiamo, in questo vedere nel non vedere, perché
ciò che cerchiamo supera ogni conoscenza, circondato da ogni parte dall’in-
comprensibilità come da tenebre».24 Questi temi e queste immagini ritornano
frequentemente nella teologia cistercense e vittorina del XII secolo; essi riap-
paiono poi, con particolare rilievo, anche in un autore più vicino a Dante, il
Bonaventura dell’Itinerarium mentis in Deum. Parlando del momento in cui il
pensiero si fissa sul puro essere, l’esse divinum, Bonaventura scrive (V 4):

Mira igitur est caecitas intellectus, qui non considerat illud quod prius videt et sine quo
nihil potest cognoscere. Sed sicut oculus intentus in varias colorum differentias lucem, per

. G  S-T, Deux Traités, cit., p. 128: «Il primo grado, che si fonda
sull’autorità, è quello della fede, che possiede la forma della fede, formata secondo le testimonianze
credibili di una autorità provata. Il secondo è quello della ragione, non della ragione umana, ma di
quella propria della fede: possiede la forma di parole esatte dal punto di vista della fede, conforme
in tutto all’autorità divina [...]. Il terzo grado è già quello della grazia illuminante e beatificante;
esso porta a compimento la fede, o piuttosto la beatifica trasformandola in amore, facendo passare
dalla fede alla visione, perché dà inizio a una conoscenza che non è quella della fede, che inizia sulla
terra con la fede nel fedele, ma quella di cui l’Apostolo dice: “Ora conosco in parte; allora conoscerò
come sono conosciuto” [I Cor. 13, 12]» (cfr. anche PL 180, 414).
. D A, Tutte le opere, trad. di P. S, Milano, Rusconi, 1981, p. 410.
. G N, Vita di Mosè, acd. M. S, Milano, Mondadori, 1984, p.
155.
262 FRANCESCO ZAMBON

quam videt cetera, non videt, et si videt, non advertit; sic oculus mentis nostrae, intentus in
entia particularia et universalia, ipsum esse extra omne genus, licet primo occurrat menti,
et per ipsum alia, tamen non advertit. [...] Assuefactus ad tenebras entium et phantasmata
sensibilium, cum ipsam lucem summi esse intuetur, videtur sibi nihil videre; non intelli-
gens, quod ipsa caligo summa est mentis nostrae illuminatio, sicut, quando videt oculus
puram lucem, videtur sibi nihil videre.25

E alla fine dello scritto – là dove si tratta appunto «de excessu mentali
et mystico, in quo requies datur intellectu», cioè del superamento mistico
dell’intelligenza – egli cita estesamente proprio la Teologia mistica dello pseu-
do- Dionigi e commenta (VII 6):

Si autem quaeris, quomodo haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non
intellectum; gemitus orationis, non studium lectionis; sponsum, non magistrum; Deum,
non hominem; caliginem, non claritatem; non lucem, sed ignem totaliter inflammantem et
in Deum excessivis unctionibus et ardentissimis affectionibus transferentem.26

Questi passi sono già stati accostati da Étienne Gilson alla visione dantesca
di Dio nel canto XXXIII del Paradiso («[...] se non che la mia mente fu percos-
sa / da un fulgore in che sua voglia venne», vv. 140-141).27 Ma se lì abbiamo
la descrizione della effettiva esperienza contemplativa, nei canti XXV e XXVI
ne troviamo espresso attraverso le stesse immagini il fondamento teologico: la
caritas rappresenta il superamento della conoscenza razionale di Dio offerta
dalla fides (come dalla spes), che non è più in grado di vedere e diventa cieca.
È precisamente ciò che afferma Dante, divenuto simile a colui «che, per ve-
. B  B, Itinerario della mente verso Dio, acd. M. P e M.
R, Milano, BUR, 2001, pp. 146-148: «Straordinaria è dunque la cecità dell’intelletto che
non considera ciò che vede per primo e senza il quale nulla può conoscere. Come l’occhio rivolto
alla varietà dei colori non vede la luce per mezzo della quale vede le altre cose, e se la vede non se ne
rende conto, così l’occhio della nostra mente, rivolto agli esseri particolari e universali, non si rende
conto dell’essere stesso che è al di là di ogni genere, sebbene si manifesti per primo alla mente e per
suo mezzo si manifestino tutte le altre cose [...]. Assuefatto alle tenebre degli enti e alle immagini
delle realtà sensibili, quando vede la luce stessa del sommo essere gli pare di non vedere nulla. Non
comprende che questa somma oscurità illumina la nostra mente; allo stesso modo, quando l’occhio
corporeo vede la luce pura gli sembra di non vedere nulla».
. Ivi, p. 171: «Se chiedi in che modo ciò possa accadere, interroga la grazia, non la scienza,
il desiderio, non l’intelligenza; il lamento della preghiera, non lo studio; lo sposo, non il maestro;
Dio, non l’uomo; l’oscurità, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto brucia e trasporta
in Dio attraverso l’unzione dell’estasi e l’ardore dell’amore».
. Cfr. É. G, La Philosophie de saint Bonaventure, Paris, J. Vrin, 1924, pp. 438-439 nota
1. Cfr. anche M. M, La trasparenza e il riflesso. Sull’«alta fantasia» in Dante e nel pensiero me-
dievale, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 127-137.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 263

der, non vedente diventa» (Par., XXV 120): a spegnere la sua vista, egli dice
all’inizio del canto successivo, è stata «la fulgida fiamma» di Giovanni (v. 2),
cioè dell’amore. Per completare il commento a questo episodio, non biso-
gna dimenticare che nella letteratura e nell’arte del tardo medioevo Giovanni
Evangelista diventa spesso una figura dell’anima deificata, cioè dell’anima che
si unisce a Dio nell’amore. È quanto afferma per esempio una grande mistica
quasi contemporanea di Dante, Hadewijk di Anversa; ne è allora simbolo
l’aquila – come di Giovanni, chiamato anche qui da Dante «l’aguglia di Cri-
sto» (v. 53) – che vola verso le altezze celesti e fissa direttamente gli occhi nel
sole.28 Che cosa significa allora la restituzione della vista al poeta da parte di
Beatrice? Si tratta evidentemente dell’acquisizione di un genere di conoscenza
superiore a quello razionale, di quello che Guglielmo di Saint-Thierry chiama
sapientia o meglio ancora intellectus amoris: cioè di una forma di intelligenza
(non razionale) che si realizza attraverso la diretta unione amorosa con Dio.29
Basti soltanto citare un ispirato passo della sua Expositio super Cantica Canti-
corum (par. 94):

Nam et cum nonnunquam superabundat gratia usque ad certam de Deo et manifestam


experientiam rei, fit repente sensui illuminati amoris modo quodam novo sensibile, quod
nulli sensui corporis sperabile, nulli rationi cogitabile, nulli intellectui extra intellectum
illuminati amoris fit capabile.30

Pochissimi commentatori hanno finora compreso che si tratta esattamente


di quello che Dante chiama nella Vita Nova «intelletto d’amore» (Vn., 10
[XIX]). E non è certo senza ragione che, quando si riferisce alla guarigio-
ne della vista che attende da Beatrice, egli fa apertamente allusione alla Vita
Nova:

. Cfr. J.F. H, John the Divine. The Deified Evangelist in Medieval Art and Theology,
Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2002, pp. 92-93.
. Su questa fondamentale nozione della teologia mistica di Guglielmo, rinvio a F. Z
(acd.), Trattati d’amore cristiani del XII secolo, 2 voll., Milano, Mondadori-Valla, 2007, Introduzione
generale. Il problema dell’amore nel pensiero cristiano del XII secolo, I, pp. XXXVII-XLVIII, e alla
bibliografia ivi indicata.
. G  S-T, Exposé sur le Cantique des Cantiques, acd. J.-M. D-
, Paris, Les Éditions du Cerf, 1998, p. 218: «Quando talvolta la grazia sovrabbonda fino a una
sicura e manifesta esperienza di qualcosa di Dio, come di una cosa reale, in modo del tutto nuovo
si fa improvvisamente sensibile al senso dell’amore illuminato ciò che nessun senso corporeo può
sperare, nessuna ragione può pensare, nessun intelletto è capace di comprendere eccetto l’intelletto
dell’amore illuminato» (cfr. anche PL 180, 505).
264 FRANCESCO ZAMBON

Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo


vegna remedio a li occhi, che fuor porte
quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo».
(Par., XXVI 13-15)

È una precisa citazione della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore (vv.
51-54):

De li occhi suoi, come ch’ella li mova,


escono spirti d’amore inflammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ’l cor ciascun retrova
[...].

Non vi è soluzione di continuità, nella concezione dantesca, fra l’amore


ancora carnalis per Beatrice cantato nel «libello» (Vn., 1.1 [I 1]) e quello or-
mai puramente spiritualis di cui rende testimonianza la Commedia. E appare
chiaro da questo episodio, come da altri, che Beatrice non può essere asso-
lutamente intesa come una allegoria della teologia:31 non avrebbe senso che,
dopo l’accecamento nella caritas, sia la teologia a fugare «ogne quisquilia»
(Par., XXVI 76), cioè ogni caligine, dagli occhi di Dante e a restituirgli una
vista più acuta di prima. Beatrice è invece la Sapientia o la Intelligenza attiva
(oppure, secondo la terminologia della Ep., XIII 78, la substantia intellectualis
separata), quella che illumina le menti umane innamorate di lei generando in
loro «intelletto d’amore», intellectus illuminati amoris. Ormai il poeta, dopo
aver superato anche l’esame teologico sulla caritas, sarà in grado di affrontare
direttamente la visione «facie ad faciem» della «luce etterna» di Dio (Par.,
XXXIII 83).

Il secondo grande episodio del canto XXVI, dopo la conclusione dell’esame


di Dante sulla caritas e la restituzione della vista da parte di Beatrice, è quello
dell’incontro del poeta con un «quarto lume» (v. 81), in cui è avviluppato
Adamo, «l’anima prima / che la prima virtù creasse mai» (vv. 83-84). Incontro
inatteso, di cui i commentatori si sono giustamente chiesti la ragione e il signi-
ficato in questo contesto. I più concordano nel ritenere che essi vadano cerca-
ti, da una parte, nel fatto che Dante ha in qualche modo recuperato dopo il

. Su questo punto restano fondamentali le osservazioni del quasi dimenticato F. P, La
Beatrice svelata [1865], rist. anast. acd. G. L M, Palermo, Flaccovio, 2001, pp. 231-241.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 265

triplice esame, come dopo un nuovo battesimo, la purezza e la perfezione del


primo uomo uscito dalle mani di Dio; dall’altra, nel carattere paradigmatico
che possiede la storia della caduta e della redenzione di Adamo – da lui stesso
evocata in due terzine scandite dal computo del lunghissimo numero di anni
intercorso fra il peccato originale e la discesa di Cristo agli inferi («quattromila
trecento e due volumi / di sol», «novecento e trenta / fïate», vv. 119-120 e 122-
123) – in rapporto al cammino percorso nella Commedia dallo stesso Dante e
in questo momento giunto alla sua virtuale conclusione: anche qui, del resto,
è enunciato il tema dell’esilio («non il gustar del legno / fu per sé la cagion di
tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno», vv. 115-117) che, come
si è visto, governa i canti XXV e XXVI del Paradiso. A queste considerazioni
si può aggiungere un ulteriore rilievo, di natura più tecnica, che rinvia ancora
una volta alla teologia mistica del XII e del XIII secolo. Secondo la dottrina di
Guglielmo di Saint-Thierry e di Bernardo di Clairvaux, la mente umana che si
è tutta rivolta verso l’amore di Dio giunge a restaurare in sé stessa quella «so-
miglianza» con lui (cfr. Gn 1, 26) che possedeva in origine, prima del peccato
originale, e che consiste precisamente nella caritas, poiché – a norma della
celebre affermazione di Giovanni – «Deus caritas est» (I Io 4, 8):32 superando
l’esame sulla caritas, perciò, Dante ha virtualmente restaurato dentro di sé la
somiglianza con l’immagine divina che Adamo possedeva al momento della
creazione. Incontrarlo dopo avere abbandonato la terra dell’esilio ed essere
giunto «in Ierusalemme per vedere» significa per Dante rispecchiarsi nella per-
fetta forma dell’uomo creato «a immagine e somiglianza» di Dio.
Non solo per Dante uomo, ma anche per Dante poeta. Fra i quattro temi
che Adamo affronta nel suo discorso (quanto tempo è passato dalla sua crea-
zione, quanto durò il suo soggiorno nell’Eden, in che cosa consistette il pec-
cato originale e quale fu la lingua che egli parlò), è infatti il quarto a occupare
maggiore spazio e, visibilmente, a interessare di più Dante. Come si sa, egli
riprende qui un problema già diffusamente trattato nel De vulgari eloquen-
tia (cfr. Dve., I 4-6) per rettificare alcuni punti del suo pensiero. Mentre nel
De vulgari aveva sostenuto che la lingua parlata da Adamo nel Paradiso era
l’ebraico e che la prima parola da lui proferita fu El, «Dio», qui lo stesso Ada-
mo afferma che la lingua da lui parlata scomparve completamente già prima
della costruzione della torre di Babele («La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
/ innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta»,
vv. 124-126) e che in essa «Dio» si diceva I, mentre poi si sarebbe detto El («I
s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia; / e El

. Cfr. Z (acd.), Trattati d’amore cristiani, cit., I, pp. XVII-XXVI.
266 FRANCESCO ZAMBON

si chiamò poi [...]», vv. 134-136). La ragione di questa palinodia va cercata


nell’estensione al linguaggio adamitico di quella che già nel trattato latino era
stata riconosciuta da Dante come una delle leggi fondamentali del linguaggio
umano: quella della sua mutevolezza non soltanto nello spazio ma anche nel
tempo.33 A questa legge facevano eccezione due soli idiomi: la lingua adamiti-
ca e il latino. Ora, data per scontata l’immutabilità del latino, lingua secondo
Dante convenzionale e artificiale, meno giustificata dovette apparirgli – a una
più attenta riflessione – quella della lingua di Adamo, che è un «idioma na-
turale» e quindi necessariamente soggetto alle leggi della natura. Sulle ragioni
di questa rettifica si è scritto e discusso molto; ma qui è il caso di riprendere
brevemente la questione a partire dalle proposte interpretative relativamente
recenti di Maria Corti e di Umberto Eco, soprattutto per cercare di metterne
in luce le implicazioni in rapporto al tema sul quale si apriva il canto XXV:
la concezione dantesca del «poema sacro». Secondo la Corti ed Eco, la certa
forma locutionis che a quanto afferma il De vulgari eloquentia Dio concreò
con Adamo (cfr. Dve., I 6 4) non va intesa nel senso di «una ben determinata
forma di linguaggio» (è la traduzione di Mengaldo), ma in quello di «prin-
cipio generale strutturante della lingua», cioè nel senso di una grammatica
universale che starebbe alla base dei diversi idiomi particolari. «È probabile
– scrive Eco – che Dante pensasse che con Babele fosse scomparsa la forma
locutionis perfetta, l’unica che permettesse la creazione di lingue capaci di ri-
flettere l’essenza stessa delle cose (identità tra modi essendi e modi significandi),
e di cui l’ebraico adamitico era l’inarrivabile e perfetto risultato»;34 sarebbero
sopravvissute allora solo formae locutionis imperfette, come i volgari italiani
esaminati nel primo libro del trattato. Maria Corti aveva indicato come fon-
te della concezione dantesca il grammatico Boezio di Dacia, esponente del
cosiddetto aristotelismo radicale; Eco indica, se non proprio una fonte, un
altro possibile riferimento: quello al cabbalista Abraham Abulafia, che fu in
Italia a diverse riprese tra il 1260 e il 1290. All’influsso diretto o indiretto di
Abulafia sarebbe dovuta la correzione di rotta del canto XXVI del Paradiso:
una spia significativa sarebbe costituita dal nome I per designare Dio, nome
che gli interpreti si sono sforzati con scarsi risultati di spiegare e che potrebbe
derivare dalla considerazione della sola Yod di YHVH (trascritta latinamente
come I) quale nome divino, in base alla concezione cabbalistica per cui ogni
lettera ha significato di per sé stessa. Abulafia, ricorda Eco, identificava Torah
e intelletto attivo e sosteneva «che lo schema attraverso cui Dio aveva creato
. Il punto è chiarito perfettamente da M, Appunti sul canto XXVI, cit., pp. 241-
243.
. U. E, La ricerca della lingua perfetta, Bari, Laterza, 1993, p. 52.
LA SCRITTURA D’AMORE  PARADISO XXVXXVI 267

il mondo coincideva col dono linguistico che egli aveva fatto ad Adamo, una
sorta di matrice generativa di tutte le lingue che non coincideva ancora con
l’ebraico»;35 a questa dottrina corrisponderebbe la concezione dantesca di una
forma locutionis edenica, sorta di matrice generativa di tutte le lingue affine
all’intelletto attivo. Anche per Abulafia, del resto, il “protolinguaggio” era sta-
to dimenticato dagli Ebrei nel corso dell’esilio.
Le implicazioni di queste teorie linguistiche sul piano estetico sono di
grande portata. Già Mengaldo aveva osservato come la nuova tesi dantesca
messa in bocca ad Adamo comporti una più profonda giustificazione dell’uso
del volgare nella Commedia; essa infatti, sottraendo all’ebraico il suo privilegio
tradizionale di lingua sacra, pone in qualche modo il volgare sullo stesso piano
del linguaggio adamitico, entrambi sottoposti alla naturale mutevolezza degli
idiomi.36 Tale palinodia diventerebbe così, come ha scritto Contini, «una sorta
di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poe-
ma scritto in una lingua peritura».37 Se si ammette l’ipotesi Corti-Eco sulla
certa forma locutionis di Adamo, è possibile andare ancora oltre. Riferendosi
alla ricerca dantesca del «volgare illustre» nella selva dei volgari italiani, Eco
parla del «sogno di una restaurazione della forma locutionis edenica, naturale
e universale»;38 ma questa restaurazione non avverrebbe più attraverso il recu-
pero di una mitica lingua ebraica perduta, bensì inventando una lingua nuo-
va, moderna, con la quale Dante intenderebbe sanare la ferita post-babelica:
«Della lingua perfetta – scrive Eco – questo volgare illustre avrà la necessità
(opposta alla convenzionalità) perché come la forma locutionis perfetta per-
metteva ad Adamo di parlare con Dio, il volgare illustre è quello che permette
al poeta di rendere le parole adeguate a ciò che debbono esprimere, e che non
sarebbe esprimibile altrimenti».39 Si può così osservare nel canto XXVI un
parallelismo fra piano spirituale e piano linguistico, che si esprime sottilmente
anche attraverso le metafore. Se il primo linguaggio, o la forma archetipica del
linguaggio, è compendiato nella lettera I che significa Dio, Dio stesso era stato
indicato in quanto oggetto della caritas per mezzo delle due lettere estreme
dell’alfabeto: «Alfa e O è di quanta scrittura / mi legge Amore» (vv. 17-18). E
qui la metafora della scrittura riecheggia abbastanza chiaramente la definizio-

. Ivi, p. 55.


. Cfr. M, Appunti sul canto XXVI, cit., pp. 244-246.
. G. C, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», in I., Un’idea di Dante,
Torino, Einaudi, 1976, p. 42.
. E, La ricerca, cit., pp. 52-53. Cfr. anche M. C, Linguaggio poetico e lingua «regulata»,
in E., Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 2003, pp. 242-254.
. Ivi, p. 53.
268 FRANCESCO ZAMBON

ne dell’estetica stilnovista fornita da Dante nel canto XXIV del Purgatorio:

[...] I’ mi son un che, quando


Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando.
(Purg., XXIV 52-54)

Si sa da tempo che questa definizione è ricalcata su quella che un altro


grande testo mistico del XII secolo, la Epistola ad Severinum de caritate di frate
Ivo (ma attribuita comunemente nel medioevo a Riccardo di San Vittore)
fornisce dell’origine del discorso stesso sulla caritas (par. 1): «Solus proinde
de ea loquitur digne, qui secundum quod cor dictat interius, exterius verba
componit».40 E Maria Corti ha indicato anche l’esistenza di stretti rapporti fra
l’Epistola e la trattazione dantesca sulla lingua di Adamo nel De vulgari elo-
quentia, suggerendo così «una sorta di equazione fra Dio che parla all’anima
nell’afflato mistico e il dittatore Amore che parla al poeta».41 Amore, o Dio in
quanto Amore, è il dictator sia della caritas che conduce verso Dio, sia del poe-
ma che narra questo itinerarium: «scrittura d’amore» sono sia gli affetti divini
(«quanta scrittura / mi legge Amore»), sia la Commedia. Il «poema sacro» sul
quale si apre il canto XXV realizzerebbe perciò, sul piano linguistico e poetico,
quella stessa opera di restaurazione dell’origine, quel ritorno in Patria, che
il cammino di Dante dall’esilio alla Gerusalemme celeste realizza sul piano
spirituale e morale e di cui la figura di Adamo incarna il punto d’arrivo: la
Commedia renderebbe di nuovo trasparente – in una lingua nuova, risultato
di una lunga evoluzione naturale e di un arduo sforzo intellettuale – quella
forma locutionis che in Paradiso consentiva una perfetta aderenza delle parole
alle cose. In fondo è qualcosa di non lontano da quello a cui, ai nostri giorni,
pensava Andrea Zanzotto invocando all’inizio del suo Filò – non senza un
ammicco a Dante – il suo nativo solighese:

Vecio parlar che tu à inte ’l tó saór


un s’cip del lat de la Eva...

(Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore


un gocciolo del latte di Eva...).

. Z (acd.), Trattati d’amore cristiani, cit., II, pp. 422-423: «Perciò ne parla degnamente
solo colui che compone le parole come il cuore gli detta dentro» (cfr. anche PL 184, 583).
. Cfr. C, Linguaggio poetico, cit., p. 239.

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