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Paradiso
a cura di
Tommaso Montorfano
MARIETTI 1820
Grafica e impaginazione: Camillo Addis
I Edizione 2010
www.mariettieditore.it
ISBN 978-88-211-9414-6
Prefazione VII
Nota di edizione XIII
Canti I-II
Il prologo alla terza cantica, di Robert Hollander 3
Canti III-IV-V
I segni del Paradiso, di Giuseppe Ledda
Canti VI-VII
Ermeneutica del «segno», ermeneutica della storia, di Simone Marchesi
Canti VIII-IX
L’arco di Cupido e la freccia di Aristotele, di Sonia Gentili
Canti X-XI-XII
Nel cielo del Sole, di Lucia Battaglia Ricci
Canti XIII-XIV
Salomone e il cielo della luce, di Carlo Sini
Canti XV-XVI-XVII
Cacciaguida, di Giorgio Inglese
Canti XVIII-XIX-XX
I cieli di Marte e di Giove, di Claudia Villa
Canti XXI-XXII
Contemplazione e Poesia, di Giuseppe Mazzotta
Canti XXIII-XXIV
Sulle tracce del pipistrello, di Antonio Gagliardi
Canti XXV-XXVI
La scrittura d’amore, di Francesco Zambon
Canti XXVII-XXVIII-XXIX
«Al divino da l’umano»:
i canti XXVII, XXVIII, e XXIX del Paradiso, di Christian Moevs
Canti XXX-XXXI
Profili oltre il tempo e lo spazio, di Sergio Cristaldi
Canti XXXII-XXXIII
La geometria e il volto, di Luca Azzetta
La scrittura d’amore*
Francesco Zambon
I canti XXV e XXVI del Paradiso completano un trittico che inizia con il
canto XXIV e narra il triplice esame al quale Dante è sottoposto da Pietro,
Giacomo e Giovanni, i tre apostoli prediletti da Gesù che secondo l’esegesi
cristiana medioevale simboleggiavano le tre virtù teologali: fede, speranza e
carità. Essi sono dedicati dunque, rispettivamente, alla speranza, sulla quale
il poeta è esaminato da Giacomo, e alla carità, sulla quale egli è interrogato
da Giovanni. Fra i due canti, tuttavia, vi è una saldatura più stretta che fra il
XXIV e il XXV, poiché la manifestazione di Giovanni – l’«ultimo foco» – è
descritta già nella parte finale del canto XXV (v. 121): il «sùbito abbarbaglio»
(Par., XXVI 20), l’improvviso accecamento di Dante alla sua vista, costituisce
una sorta di ponte tematico e simbolico fra i due canti, segnando una frontie-
ra che – come vedremo – è anche un limite fra il dominio della ratio e quello
della caritas, fra intelletto e amore. Gli esami veri e propri sono condotti con
un evidente parallelismo, reso meno schematico da alcune studiate variazioni:
quelli relativi alla fede (nel canto XXIV) e alla speranza (nel XXV) compor-
tano tre domande (che cos’è la virtù in questione, in quale misura Dante la
possiede e da quale origine essa proviene), alle quali seguono le tre risposte;
nel caso della speranza, la risposta alla seconda domanda è anticipata ed è for-
nita non dallo stesso poeta ma da Beatrice, che lo previene («a la risposta così
mi prevenne», v. 51) per evitargli di apparire – diremmo con le parole della
Vita Nova – «laudatore di sé medesimo» (Vn., 19.2 [XXVIII 2]). Dallo schema
dei primi due esami si differenzia in maniera più netta quello del terzo (canto
XXVI), anch’esso articolato in tre parti: oggetto della caritas (che comporta
anche la sua definizione), «filosofici argomenti» e «autorità» scritturali (vv. 25,
26) che dirigono verso questa virtù, ragioni affettive (le «corde» e i «morsi»,
vv. 49, 55) che spingono il cuore a praticarla. Lo spazio a disposizione non
ci consente di studiare qui in dettaglio i due esami descritti nei canti XXV e
XXVI; ci soffermeremo perciò su quattro punti cruciali che ne scandiscono lo
svolgimento: il tema dell’esilio; il ruolo profetico della poesia; la temporanea
cecità e la nuova vista acquisita da Dante grazie a Beatrice; il personaggio di
Adamo e la sua lingua.
La grande apertura del canto XXV, in cui Dante evoca la propria condi-
zione di esule ed esprime la speranza di ritornare a Firenze in veste di poeta, è
certamente uno dei passi più ispirati e celebrati della Commedia:
continga che ’l poema sacro»);1 terra e cielo («al quale ha posto mano e cielo e
terra»); esilio e patria («fuor mi serra / del bello ovile»); male e bene («agnello,
/ nimico ai lupi»); infamia e gloria («con altra voce omai, con altro vello /
ritornerò poeta»). Sono così nominate le più vaste coordinate spaziali e tem-
porali, metafisiche e morali, al cui centro si trovano la dolorosa vicenda e
la sublime missione del poeta fiorentino. Non a caso il verso centrale delle
tre terzine («del bello ovile ov’io dormi’ agnello») è costruito su una sorta di
chiasmo metrico-fonico in cui l’omoteleuto «bello» : «agnello» incapsula, dan-
dole grande rilievo, la paronomasia «ovile»-«ov’io», centro musicale e ideale
dell’intero prologo al canto: il simbolo biblico dell’ovile (che sviluppa l’im-
magine dell’agnello, contrapposto ai «lupi» del verso successivo) si rifrange
duplicandosi nell’avverbio «ov[e]», quasi a elevarlo a pura astrazione, a luogo
per eccellenza, luogo assoluto dal quale il soggetto («ov’io») misura ogni cosa.
Ma il passo è sintatticamente strutturato in forma di periodo ipotetico e si
apre con una triplice nota di disincanto e di irrealtà: «se mai continga», dove
i termini che significano la possibilità dell’evento («se» e «continga»), sono
quasi negati da quel «mai» che cade fra loro come un funebre rintocco. Per di
più, il latinismo «continga» (che naturalmente è legato in Dante all’idea della
contingenza, cioè delle realtà materiali e caduche) evoca il passo dell’Eneide in
cui il protagonista, prima di scendere nell’Averno, chiede alla Sibilla Cumana
di poter incontrare il padre ormai morto: «Ire ad conspectum cari genitoris
et ora / contingat, doceas iter et sacra ostia pandes» («d’andare a vedere il caro
padre, / mi sia concesso: e tu dimmi la strada, la sacra soglia tu aprimi»).2 Il
sogno del ritorno in patria è subito incrinato da una indiretta allusione al
regno dei morti.
Questi versi vanno naturalmente accostati ad altri noti riferimenti di Dan-
te al proprio esilio. Precisi rapporti testuali li legano al congedo della “mon-
tanina” (Amor, da che convien pur ch’io mi doglia): «forse vedrai Fiorenza, la
mia terra / che fuor di sé mi serra» (Rm., 15 [CXVI] 77-78), e «tal, che se piega
vostra crudeltate, / non ha di ritornar qui libertate» (ivi, 83-84). Essi rinviano
soprattutto al celebre passo del Convivio in cui Dante giustifica, appunto con
la sua condizione di esule, la «durezza», cioè la difficoltà e oscurità, che potrà
presentare talora il suo commento alle canzoni incluse nell’opera. Rilevante è
in particolare il fatto che tale condizione sia qui addotta come la causa di una
vera e propria diminutio capitis del poeta e come il motivo di uno svilimen-
to – agli occhi di chi ora lo incontra «per le parti quasi tutte alle quali questa
. I corsivi, qui e nei testi seguenti, sono miei.
. V. Aen. 6, 108-109: trad. in V, Eneide, acd. R. C O, Torino, Ei-
naudi, 1967, p. 211.
250 FRANCESCO ZAMBON
lingua si stende, peregrino» (Conv., I 3 4) – delle sue stesse opere letterarie, già
compiute o ancora da compiere:
Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e
liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che
forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non
solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni mia opera, sì già fatta come
quella che fosse a fare.
(Conv., I 3 5)
Questa pagina stabiliva già un nesso strettissimo fra esilio e poesia, che si
osserva anche in apertura del canto XXV del Paradiso e sul quale dovremo tor-
nare. Ci si può chiedere il perché di questo prologo dedicato al proprio esilio
nel canto della speranza. La prima e ovvia risposta è che Dante vi esprime la
speranza di ritornare a Firenze e di esservi incoronato poeta. Ma si tratta di
una risposta incompleta, che non spiega ancora il rapporto profondo esistente
fra il prologo e il tema del canto. In realtà, Dante vi ha racchiuso la chiave
stessa per l’interpretazione dell’intero poema. Non è naturalmente una chiave
di natura occultistica, come quelle proposte dalla corrente ermeneutica che va
da Gabriele Rossetti a Luigi Valli e a più recenti epigoni, benché negli studi di
questi autori non manchino qua e là intuizioni che i dantisti farebbero bene a
non trascurare.3 Si tratta della chiave offerta dal poeta stesso (o da un autore
che, almeno su questo punto, ne rispecchiava fedelmente le idee) nella Episto-
la a Cangrande.4 Converrà partire dalle parole con cui Beatrice risponde alla
seconda delle domande sulla speranza poste da Giacomo. Dopo aver dichiara-
to che la «Chiesa militante» (v. 52), quella che opera nella storia, non ha alcun
figlio che possieda in misura maggiore di Dante questa virtù, Beatrice afferma
che proprio per questo «li è conceduto che d’Egitto / vegna in Ierusalemme
per vedere» (vv. 55-56) – cioè gli è concesso di venire dall’esilio terreno alla
patria celeste per contemplarla – prima di aver terminato la sua vita. Si allude
qui naturalmente alla fuga degli Ebrei dall’Egitto sotto la guida di Mosè e
al loro ritorno nella Terra Promessa, narrati nel libro dell’Esodo e poi ripresi
in altri luoghi del Vecchio Testamento, specialmente nei Salmi e nei Profeti:
Osea, Isaia e Geremia presentano la realizzazione nei tempi messianici delle
promesse di Dio a Israele come un nuovo esodo. Ciò che i profeti del Vec-
. Cfr. in proposito M.P. P (acd.), L’idea deforme. Le interpretazioni esoteriche di Dante,
Milano, Bompiani, 1989.
. Per le discussioni sulla sua autenticità, cfr. R. H, Dante’s Epistle to Cangrande, Ann
Arbor, The University of Michigan Press, 1993.
LA SCRITTURA D’AMORE PARADISO XXVXXVI 251
. J. D, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris, Beau-
chesne, 1950, p. 143 (la traduzione è nostra).
. Cfr. M. P, «Vita nuova» e tradizione romanza, Padova, Liviana, 1979, p. 134.
252 FRANCESCO ZAMBON
Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem
simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero
accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii
libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.8
Non può sfuggire il parallelismo che viene in tal modo istituito fra il si-
gnificato allegorico attribuito alla Commedia, quello del salmo In exitu Israel
de Aegypto (con i suoi diversi livelli) e quello che allo stesso salmo – o più in
generale al tema dell’esodo – attribuisce Beatrice nel canto XXV del Paradiso,
identificando l’exitus con lo stesso viaggio ultraterreno di Dante, cioè con la
materia del suo poema. Nei temi dell’esilio e del ritorno in patria viene così
indicato, si diceva, il senso ultimo della Commedia: pellegrinaggio dall’esilio
alla patria, dalla terra al cielo, dal peccato alla salvezza, dall’uomo a Dio. Con
il tema allegorico del pellegrinaggio, inoltre, è del tutto coerente la figura di
Giacomo, simbolo della speranza. Già nella Vita Nova Dante aveva precisato
che «peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno strec-
to: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori della sua patria; in modo
strecto non s’intende peregrino se non chi va verso la Casa di Sa’ Iacopo o
riede» (Vn., 29.6 [XL 6]); aggiungendo poco oltre che costoro si chiamano
«peregrini in quanto vanno alla Casa di Galitia, però che la sepultura di Sa’
Iacopo fue più lontana dalla patria [cioè da Gerusalemme] che d’alcuno altro
apostolo» (Vn., 29.7 [XL 7]). Seguono, nella Vita Nova, la visione di Beatrice
da parte dello «spirito peregrino» del poeta, innalzatosi fino all’Empireo in un
excessus mentis, e la «mirabile visione» finale che per noi è scontato collegare al
viaggio ultraterreno narrato nella Commedia. Del resto, nel Convivio la Galizia
è esplicitamente associata al mondo celeste, alla Galassia: «la Galassia, cioè
quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la Via di Sa’ Iacopo» (Conv., II 14
1). E a questo punto diventa del tutto chiaro il ruolo del prologo del canto
XXV, dedicato da Dante alla propria condizione di esule: esso fa del poeta
un’immagine per eccellenza della condizione di tutti gli uomini sulla terra
e, in virtù della smisurata speranza che lo anima («la Chiesa militante alcun
figliolo / non ha con più speranza», vv. 52-53), lo destina anche a compiere
una straordinaria missione sulla terra, una missione che può essere senz’altro
definita profetica.
Nella sua bella lettura dei canti XXX e XXXI del Purgatorio, Corrado Bo-
logna ha citato il paradosso di Borges secondo cui Dante avrebbe edificato
«il miglior libro che la letteratura abbia mai prodotto [cioè la Commedia] per
interpolarvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice».9 Sarebbe suggestivo
Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti
acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina» (trad.
cit., p. 613).
. J.L. B, L’ultimo sorriso di Beatrice, cit. in C. B, Canti XXX-XXXI. Il ritorno di
Beatrice, in B. Q (acd.), Esperimenti danteschi. Purgatorio 2009, Casale Monferrato, Mariet-
254 FRANCESCO ZAMBON
pensare, leggendo l’apertura del XXV del Paradiso, che egli abbia scritto il
poema sperando di poter tornare – in virtù della sua fama di poeta – nella
propria città perduta. In effetti è ciò che affermano letteralmente questi versi;
ma non sta in questa troppo umana speranza il senso vero del sognato ritorno
a Firenze «con altra voce» e «con altro vello». Il passo va innanzitutto accostato
al canto XVII del Paradiso, quello in cui Cacciaguida profetizza a Dante il suo
esilio e lo incoraggia a scrivere il poema in cui è narrato il suo viaggio nei tre
regni dell’Oltretomba. Ai dubbi del poeta, consapevole del fatto che, se rife-
rirà ciò che ha appreso nel corso del viaggio, questo «a molti fia sapor di forte
agrume» (v. 117), il trisavolo risponde invitandolo a rendere manifesta tutta
la sua visione. E aggiunge:
L’«altra voce» del canto XXV è precisamente questo «grido», il grande poe-
ma, con il quale la vita di Dante «s’infutura», come aveva detto lo stesso Cac-
ciaguida (Par., XVII 98), ben oltre quella dei suoi concittadini: è la voce di
una poesia che, ci ha insegnato Bruno Nardi, non è concepita come semplice
«artificio letterario», ma come «visione profetica» ispirata da Dio.10 Tale è ap-
punto il senso di quel «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra»,
espressione che non va intesa – secondo una interpretazione ancora corrente
(cfr. per esempio il commento Pasquini-Quaglio) – come «a cui hanno offerto
materia la scienza celeste e la storia terrena»;11 essa significa proprio «a cui
hanno collaborato (“posto mano”) sia l’uomo che Dio», cioè la cui ispirazione
– come quella dei profeti – è di origine divina. Basta ricordare del resto i vv.
22-24 e sgg. del I canto del Paradiso: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che
l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo manifesti [...]». L’«altro vello»
rinvia allo stesso ordine di significati. Senza escludere che, in senso letterale,
esso possa indicare i capelli bianchi del poeta che si immagina ormai vecchio
nella sua città,12 per comprenderne il senso profondo occorrerà mettere in
luce tutte le implicazioni che ha per Dante il simbolo del vello. Bisogna infatti
pensare alla similitudine con gli Argonauti sviluppata nel II canto del Para-
diso, dove la straordinaria impresa che Dante si accinge a compiere (quella di
narrare il suo viaggio celeste) è paragonata a quella di Giasone che solcò con i
suoi compagni un’acqua mai percorsa per conquistare il vello d’oro:
. Interpretazione, questa, confortata dal passo parallelo della sua prima Egloga (Eg., II 42-44):
«Nonne triumphales melius pexare capillos / et patrio, redeam si quando, abscondere canos / fronde
sub inserta solitum flavescere Sarno?» («Non è forse meglio pettinare per il trionfo i capelli, e, se mai
torni in patria sulle rive dell’Arno, lì nasconderli canuti sotto la fronda intrecciata, dove ero solito
aver florida chioma?»).
256 FRANCESCO ZAMBON
. D A, Commedia. Paradiso, acd. A.M. C L, Milano, Monda-
dori, 20003 [1994], ad loc.
. Cfr. Purg., XXXII 103.
LA SCRITTURA D’AMORE PARADISO XXVXXVI 257
I commentatori hanno spesso notato come il tema della speranza non sia
esplicitamente trattato nella Lettera di Giacomo; ma non deve sfuggire che il
vistoso latinismo «repluo» (uno dei numerosi presenti nei canti XXV e XXVI)
deriva proprio – e con un chiaro intento allusivo – dal testo biblico. Alla fine
della lettera, infatti, Giacomo invita i fedeli a pregare citando un episodio re-
lativo al profeta Elia (cfr. III Rg 17-18) il quale ottenne, mediante la preghiera,
prima che non piovesse per tre anni e sei mesi, poi che piovesse facendo così
fruttificare la terra:
Helias homo erat similis nobis passibilis: et oratione oravit ut non plueret super terram,
et non pluit annos tres, et menses sex. Et rursum oravit: et caelum dedit pluviam, et terra
dedit fructum suum.15
– dopo l’esame sulla carità – del recupero della vista grazie allo sguardo di
Beatrice. Il paragone esplicito fra la virtù dello sguardo di Beatrice e quella
«ch’ebbe la man d’Anania» (Par., XXVI 12) nel restituire la vista a san Paolo,
temporaneamente accecato dalla luce di Gesù che «circumfulsit eum» sulla
via di Damasco (Act 9, 17-18), istituisce non soltanto un rapporto fra i due
episodi, ma anche un decisivo parallelismo tra la figura di Dante e quella
dell’Apostolo. Tale parallelismo riguarda in primo luogo il privilegio del viag-
gio nell’Oltretomba «anzi la morte» (Par., XXV 41), con un definitivo supe-
ramento – dopo la consacrazione da parte dei tre apostoli – della negazione
formulata nel II canto dell’Inferno: «Io non Enëa, io non Paulo sono» (v. 32).
Come si è già accennato, esso interessa un aspetto fondamentale del viaggio
paradisiaco di Dante: cioè l’esperienza mistica, l’excessus mentis, la visione del-
le realtà celesti e di Dio stesso. Ma in questo parallelismo vi è anche un altro
aspetto importante, che si ricollega precisamente al tema della profezia e sul
quale è opportuno soffermarsi un momento. Già il Foscolo, che su questo
punto ha scritto pagine molto acute e troppo dimenticate nel suo Discorso
sul testo della Commedia di Dante, ha menzionato un passo della Lettera ai
Galati che risulta illuminante per l’interpretazione dei tre canti paradisiaci
dedicati alle virtù teologali. Nel secondo capitolo, infatti, san Paolo riferisce
come, al suo ritorno a Gerusalemme dopo quattordici anni di assenza, gli
apostoli Giacomo, Pietro e Giovanni riconobbero la piena autenticità del suo
vangelo, rivolto ai gentili come quello di Pietro era rivolto ai Giudei (Gal 2,
9): «Cum cognovissent gratiam, quae data est mihi, Iacobus, et Cephas, et
Iohannes, qui videbantur columnae esse, dextras dederunt mihi» («Avendo
riconosciuto la grazia che mi era stata concessa, Giacomo, Cefa [cioè Pietro] e
Giovanni, che erano reputati le colonne, mi diedero la loro destra»). Si tratta
proprio dei tre apostoli che esaminano Dante nel Paradiso e lo promuovono
nelle virtù da loro simboleggiate. È evidente che il poeta si attribuisce qui un
ruolo apostolico e profetico analogo a quello di san Paolo: il messaggio che
egli porta fra gli uomini – il «poema sacro» – acquisisce uno statuto simile a
quello dell’evangelium che Paolo è autorizzato a predicare fra le genti da Pie-
tro, Giacomo e Giovanni. Come ha scritto il Foscolo, il compito che Dante
si attribuisce è quello di un riformatore religioso «per la missione profetica
alla quale di proprio diritto, e senza timore di sacrilegio, si consacrò con rito
sacerdotale nell’altissimo dei cieli».16
Resta da chiarire il punto più enigmatico e discusso di questo episodio:
. U. F, Discorso sulla Commedia di Dante, in I., Opere edite e postume, 12 voll., Fi-
renze, Le Monnier, 1923, III, p. 177.
LA SCRITTURA D’AMORE PARADISO XXVXXVI 259
Tanto ei [scil. Deo] efficimur similiores, quanto magis in ejus cognitionem caritatemque
proficimus; et in tantum eum propinquius ac familiarius videmus, in quantum cognoscen-
do eum ac diligendo efficimur ei similiores. In quo quantuscumque hic profectus fuerit,
longe est ab illa perfectione, qua Deus videbitur sicuti est facie ad faciem: ubi tanta erit ex-
cellentia, ut multo plus adipiscatur caritas, quam vel fides credidit, vel spes desideravit: plus
inveniat adeptio, quam formabat cogitatio. Regio namque est illa viventium ac videntium,
intellectualium et intelligibilium, ubi sine ulla corporis similitudine veritas cernitur, nullis
opinionum falsarum nebulis offuscatur.20
Anche se le tre virtù sono intimamente congiunte nella vita spirituale (cfr.
Speculum fidei, 52), vi è profonda differenza fra la conoscenza di Dio me-
diante la fede e quella mediante la carità, come Guglielmo afferma altrove
(Speculum fidei, 105):
Cognitio autem haec Dei, alia fidei est, alia amoris vel caritatis. Quae fidei est, huius vitae
est; quae vero caritatis, vitae aeternae, vel potius, sicut Dominus dicit, haec vita aeterna
est. Aliud quippe est cognoscere Deum sicut cognoscit vir amicum suum; aliud cognoscere
eum sicut ipse cognoscit semetipsum.21
Item primus gradus in auctoritate fundatus, fidei est, habens formam fidei, probate auc-
toritatis probabilibus testimoniis formatam. Secundus rationis est, non rationis humane,
sed ejus que propria fidei est; habens et ipse formam sanorum in fide verborum divine
auctoritati per omnia concordem. [...] Tertius jam gratie illuminantis et beatificantis est,
. G S-T, Deux Traités sur la foi. Le Miroir de la foi. L’Énigme de la foi,
acd. M.-M. D, Paris, J. Vrin, 1959, p. 96: «Noi diventiamo tanto più simili a Dio, quanto più lo
conosciamo e progrediamo nel suo amore; noi lo vediamo tanto più da vicino e più familiarmente,
quanto più gli diventiamo simili conoscendolo e amandolo. Ma per quanto grande sia il progresso
compiuto, esso è lontano dalla perfezione secondo la quale Dio sarà veduto faccia a faccia così come
egli è. Allora l’eccellenza di questa visione sarà tanto grande che la carità andrà ben al di là di ciò che
avrà creduto la fede o di ciò che avrà desiderato la speranza. Il possesso darà più di quel che conce-
piva il pensiero. Quella infatti è la regione dei vivi e di coloro che vedono, delle cose intellettuali e
intelligibili, dove la verità è contemplata senza alcuna somiglianza corporea, non è velata da alcuna
nube di opinioni false» (cfr. anche PL 180, 399).
. G S-T, Le Miroir de la foi, acd. J.-M. D, Paris, Les Édi-
tions du Cerf, 1982, p. 174: «Altra è la conoscenza di Dio che si ha per mezzo della fede, altra è
quella che viene dall’amore o dalla carità. Quella mediante la fede è di questa vita, quella mediante
la carità è della vita eterna; o piuttosto, come dice il Signore, è la vita eterna. Altra cosa, in effetti,
è conoscere Dio come un uomo conosce un amico, altra è conoscerlo come egli conosce sé stesso»
(cfr. anche PL 180, 392).
LA SCRITTURA D’AMORE PARADISO XXVXXVI 261
finiens fidem, seu potius beatificans in amorem, a fide ad speciem transmittens, inchoando
cognitionem non eam que fidei est, et cum fide hic incipit esse in homine fideli, sed de
qua Apostolus dicit: «Nunc cognosco ex parte; tunc autem cognoscam sicut et cognitus
sum».22
Mira igitur est caecitas intellectus, qui non considerat illud quod prius videt et sine quo
nihil potest cognoscere. Sed sicut oculus intentus in varias colorum differentias lucem, per
. G S-T, Deux Traités, cit., p. 128: «Il primo grado, che si fonda
sull’autorità, è quello della fede, che possiede la forma della fede, formata secondo le testimonianze
credibili di una autorità provata. Il secondo è quello della ragione, non della ragione umana, ma di
quella propria della fede: possiede la forma di parole esatte dal punto di vista della fede, conforme
in tutto all’autorità divina [...]. Il terzo grado è già quello della grazia illuminante e beatificante;
esso porta a compimento la fede, o piuttosto la beatifica trasformandola in amore, facendo passare
dalla fede alla visione, perché dà inizio a una conoscenza che non è quella della fede, che inizia sulla
terra con la fede nel fedele, ma quella di cui l’Apostolo dice: “Ora conosco in parte; allora conoscerò
come sono conosciuto” [I Cor. 13, 12]» (cfr. anche PL 180, 414).
. D A, Tutte le opere, trad. di P. S, Milano, Rusconi, 1981, p. 410.
. G N, Vita di Mosè, acd. M. S, Milano, Mondadori, 1984, p.
155.
262 FRANCESCO ZAMBON
quam videt cetera, non videt, et si videt, non advertit; sic oculus mentis nostrae, intentus in
entia particularia et universalia, ipsum esse extra omne genus, licet primo occurrat menti,
et per ipsum alia, tamen non advertit. [...] Assuefactus ad tenebras entium et phantasmata
sensibilium, cum ipsam lucem summi esse intuetur, videtur sibi nihil videre; non intelli-
gens, quod ipsa caligo summa est mentis nostrae illuminatio, sicut, quando videt oculus
puram lucem, videtur sibi nihil videre.25
E alla fine dello scritto – là dove si tratta appunto «de excessu mentali
et mystico, in quo requies datur intellectu», cioè del superamento mistico
dell’intelligenza – egli cita estesamente proprio la Teologia mistica dello pseu-
do- Dionigi e commenta (VII 6):
Si autem quaeris, quomodo haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non
intellectum; gemitus orationis, non studium lectionis; sponsum, non magistrum; Deum,
non hominem; caliginem, non claritatem; non lucem, sed ignem totaliter inflammantem et
in Deum excessivis unctionibus et ardentissimis affectionibus transferentem.26
Questi passi sono già stati accostati da Étienne Gilson alla visione dantesca
di Dio nel canto XXXIII del Paradiso («[...] se non che la mia mente fu percos-
sa / da un fulgore in che sua voglia venne», vv. 140-141).27 Ma se lì abbiamo
la descrizione della effettiva esperienza contemplativa, nei canti XXV e XXVI
ne troviamo espresso attraverso le stesse immagini il fondamento teologico: la
caritas rappresenta il superamento della conoscenza razionale di Dio offerta
dalla fides (come dalla spes), che non è più in grado di vedere e diventa cieca.
È precisamente ciò che afferma Dante, divenuto simile a colui «che, per ve-
. B B, Itinerario della mente verso Dio, acd. M. P e M.
R, Milano, BUR, 2001, pp. 146-148: «Straordinaria è dunque la cecità dell’intelletto che
non considera ciò che vede per primo e senza il quale nulla può conoscere. Come l’occhio rivolto
alla varietà dei colori non vede la luce per mezzo della quale vede le altre cose, e se la vede non se ne
rende conto, così l’occhio della nostra mente, rivolto agli esseri particolari e universali, non si rende
conto dell’essere stesso che è al di là di ogni genere, sebbene si manifesti per primo alla mente e per
suo mezzo si manifestino tutte le altre cose [...]. Assuefatto alle tenebre degli enti e alle immagini
delle realtà sensibili, quando vede la luce stessa del sommo essere gli pare di non vedere nulla. Non
comprende che questa somma oscurità illumina la nostra mente; allo stesso modo, quando l’occhio
corporeo vede la luce pura gli sembra di non vedere nulla».
. Ivi, p. 171: «Se chiedi in che modo ciò possa accadere, interroga la grazia, non la scienza,
il desiderio, non l’intelligenza; il lamento della preghiera, non lo studio; lo sposo, non il maestro;
Dio, non l’uomo; l’oscurità, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto brucia e trasporta
in Dio attraverso l’unzione dell’estasi e l’ardore dell’amore».
. Cfr. É. G, La Philosophie de saint Bonaventure, Paris, J. Vrin, 1924, pp. 438-439 nota
1. Cfr. anche M. M, La trasparenza e il riflesso. Sull’«alta fantasia» in Dante e nel pensiero me-
dievale, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 127-137.
LA SCRITTURA D’AMORE PARADISO XXVXXVI 263
der, non vedente diventa» (Par., XXV 120): a spegnere la sua vista, egli dice
all’inizio del canto successivo, è stata «la fulgida fiamma» di Giovanni (v. 2),
cioè dell’amore. Per completare il commento a questo episodio, non biso-
gna dimenticare che nella letteratura e nell’arte del tardo medioevo Giovanni
Evangelista diventa spesso una figura dell’anima deificata, cioè dell’anima che
si unisce a Dio nell’amore. È quanto afferma per esempio una grande mistica
quasi contemporanea di Dante, Hadewijk di Anversa; ne è allora simbolo
l’aquila – come di Giovanni, chiamato anche qui da Dante «l’aguglia di Cri-
sto» (v. 53) – che vola verso le altezze celesti e fissa direttamente gli occhi nel
sole.28 Che cosa significa allora la restituzione della vista al poeta da parte di
Beatrice? Si tratta evidentemente dell’acquisizione di un genere di conoscenza
superiore a quello razionale, di quello che Guglielmo di Saint-Thierry chiama
sapientia o meglio ancora intellectus amoris: cioè di una forma di intelligenza
(non razionale) che si realizza attraverso la diretta unione amorosa con Dio.29
Basti soltanto citare un ispirato passo della sua Expositio super Cantica Canti-
corum (par. 94):
. Cfr. J.F. H, John the Divine. The Deified Evangelist in Medieval Art and Theology,
Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2002, pp. 92-93.
. Su questa fondamentale nozione della teologia mistica di Guglielmo, rinvio a F. Z
(acd.), Trattati d’amore cristiani del XII secolo, 2 voll., Milano, Mondadori-Valla, 2007, Introduzione
generale. Il problema dell’amore nel pensiero cristiano del XII secolo, I, pp. XXXVII-XLVIII, e alla
bibliografia ivi indicata.
. G S-T, Exposé sur le Cantique des Cantiques, acd. J.-M. D-
, Paris, Les Éditions du Cerf, 1998, p. 218: «Quando talvolta la grazia sovrabbonda fino a una
sicura e manifesta esperienza di qualcosa di Dio, come di una cosa reale, in modo del tutto nuovo
si fa improvvisamente sensibile al senso dell’amore illuminato ciò che nessun senso corporeo può
sperare, nessuna ragione può pensare, nessun intelletto è capace di comprendere eccetto l’intelletto
dell’amore illuminato» (cfr. anche PL 180, 505).
264 FRANCESCO ZAMBON
È una precisa citazione della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore (vv.
51-54):
. Su questo punto restano fondamentali le osservazioni del quasi dimenticato F. P, La
Beatrice svelata [1865], rist. anast. acd. G. L M, Palermo, Flaccovio, 2001, pp. 231-241.
LA SCRITTURA D’AMORE PARADISO XXVXXVI 265
. Cfr. Z (acd.), Trattati d’amore cristiani, cit., I, pp. XVII-XXVI.
266 FRANCESCO ZAMBON
il mondo coincideva col dono linguistico che egli aveva fatto ad Adamo, una
sorta di matrice generativa di tutte le lingue che non coincideva ancora con
l’ebraico»;35 a questa dottrina corrisponderebbe la concezione dantesca di una
forma locutionis edenica, sorta di matrice generativa di tutte le lingue affine
all’intelletto attivo. Anche per Abulafia, del resto, il “protolinguaggio” era sta-
to dimenticato dagli Ebrei nel corso dell’esilio.
Le implicazioni di queste teorie linguistiche sul piano estetico sono di
grande portata. Già Mengaldo aveva osservato come la nuova tesi dantesca
messa in bocca ad Adamo comporti una più profonda giustificazione dell’uso
del volgare nella Commedia; essa infatti, sottraendo all’ebraico il suo privilegio
tradizionale di lingua sacra, pone in qualche modo il volgare sullo stesso piano
del linguaggio adamitico, entrambi sottoposti alla naturale mutevolezza degli
idiomi.36 Tale palinodia diventerebbe così, come ha scritto Contini, «una sorta
di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poe-
ma scritto in una lingua peritura».37 Se si ammette l’ipotesi Corti-Eco sulla
certa forma locutionis di Adamo, è possibile andare ancora oltre. Riferendosi
alla ricerca dantesca del «volgare illustre» nella selva dei volgari italiani, Eco
parla del «sogno di una restaurazione della forma locutionis edenica, naturale
e universale»;38 ma questa restaurazione non avverrebbe più attraverso il recu-
pero di una mitica lingua ebraica perduta, bensì inventando una lingua nuo-
va, moderna, con la quale Dante intenderebbe sanare la ferita post-babelica:
«Della lingua perfetta – scrive Eco – questo volgare illustre avrà la necessità
(opposta alla convenzionalità) perché come la forma locutionis perfetta per-
metteva ad Adamo di parlare con Dio, il volgare illustre è quello che permette
al poeta di rendere le parole adeguate a ciò che debbono esprimere, e che non
sarebbe esprimibile altrimenti».39 Si può così osservare nel canto XXVI un
parallelismo fra piano spirituale e piano linguistico, che si esprime sottilmente
anche attraverso le metafore. Se il primo linguaggio, o la forma archetipica del
linguaggio, è compendiato nella lettera I che significa Dio, Dio stesso era stato
indicato in quanto oggetto della caritas per mezzo delle due lettere estreme
dell’alfabeto: «Alfa e O è di quanta scrittura / mi legge Amore» (vv. 17-18). E
qui la metafora della scrittura riecheggia abbastanza chiaramente la definizio-
. Z (acd.), Trattati d’amore cristiani, cit., II, pp. 422-423: «Perciò ne parla degnamente
solo colui che compone le parole come il cuore gli detta dentro» (cfr. anche PL 184, 583).
. Cfr. C, Linguaggio poetico, cit., p. 239.