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DI DIRITTO
ECCLESIALE
ANNO 1996
SOMMARIO PERIODICO
3 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
6 La dimensione universale N. 1 - GENNAIO 1996
della Chiesa particolare
di Gianfranco Ghirlanda DIREZIONE ONORARIA
DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini
Editoriale
1
È da aggiungere a quest’elenco l’ordinariato militare (cf Costitutzione Apostolica Spirituali militum
curae, 7 gennaio 1986, I § 1, in AAS 78 (1986) 482; can. 372 § 2; cf anche J. BEYER, Vicariati castrensi e
Codice nuovo, in Vita Consacrata 23 (1987) 410-423; G. GHIRLANDA, voce «Ordinariato militare», in Nuo-
vo Dizionario di Diritto Canonico, a cura di C. Corral Salvador, V. De Paolis, G. Ghirlanda, Cinisello
Balsamo 1993, 733-736).
La dimensione universale della Chiesa particolare 7
il termine “portio” e non “pars”, come era nel textus prior 2, inoltre si è
voluto anche evitare la locuzione «portio Ecclesiae universalis», affin-
ché non si intendesse nel senso che si possano dare divisioni e parti
nella Chiesa di Cristo 3. D’altronde in CD 6c troviamo che le Chiese
particolari sono «unius Ecclesiae Christi partes» e in LG 23b la Chiesa
particolare è detta «portio Ecclesiae universalis». Comunque ciò che è
da ritenere è innanzitutto che il popolo di Dio è congregato nello Spi-
rito Santo, mediante il Vangelo e l’Eucaristia, quindi è un tutto
indivisibile. Per questo la Chiesa particolare, sia che la si consideri
come una “porzione” sia come una “parte” del popolo di Dio, è da ri-
tenersi una particolarizzazione dell’unica Chiesa universale.
Sinonimo dell’universalità è la cattolicità, che è una delle pro-
prietà della Chiesa di Cristo. Quindi la Chiesa è per natura sua catto-
lica, universale, in quanto è destinata a tutti gli uomini 4. Essa è il
sacramento universale di salvezza e rimarrebbe tale anche se, per
assurdo, fosse ridotta a uno sparuto numero di fedeli, localmente
molto circoscritti ( SC 26a; LG 1; 8b; 9b; 48b; AG 1a; 5a).
L’universalità intrinseca del popolo di Dio è data dal fatto che
esso è costituito dai fedeli che mediante il battesimo sono incorpora-
ti a Cristo (can. 204 § 1; cf can. 849) 5: il Cristo risorto è costituito Ca-
po di tutto l’universo e mediatore unico ed eterno tra Dio e tutta l’u-
manità (Col 1, 18-20). Per questo la Chiesa di Cristo è e non può es-
sere che una, santa, cattolica e apostolica.
Non si appartiene alla Chiesa universale mediante l’incorpo-
razione a una Chiesa particolare, ma in modo immediato, proprio
perché nella Chiesa particolare è veramente presente e operante la
Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica, e la Chiesa univer-
sale non è la somma delle Chiese particolari 6.
2
Cf Acta Synodalia (= AS) III/II, 26.
3
Cf ibid., III/VI, 163.
4
Cf G. COLOMBO, Risposta alla relazione di H.Müller, in Chiese locali e cattolicità (Atti Coll. Int. Sala-
manca 2-7 aprile 1991), Bologna 1994, p. 379.
5
Nella definizione di diocesi che si trova in CD 11a e nel can. 369 non si fa nessun riferimento al batte-
simo, probabilmente perché esso viene presupposto nella nozione di popolo di Dio; infatti non ha senso
parlare di convocazione del popolo di Dio mediante il Vangelo e l’Eucaristia senza presupporre il batte-
simo, a cui conduce l’annuncio del Vangelo e di cui è perfezione l’Eucaristia. Il discorso si può allargare
alla confermazione.
6
Cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, 28 maggio 1992, nn. 9 e
10, in AAS 85 (1993) 838-850; Enchiridion Vaticanum (= EV), 13/1774-1807. Quando un fedele cambia
domicilio, da una Chiesa particolare a un’altra, non è straniero o ospite nella Chiesa in cui si stabilisce
e, sembrerebbe superfluo dirlo, non deve essere sottoposto a nessun rito di iniziazione, perché già vi
appartiene in virtù del battesimo ricevuto in qualsiasi altra Chiesa.
La dimensione universale della Chiesa particolare 9
7
Per un approfondimento su questo punto, cf H. MÜLLER, Realizzazione della cattolicità nella Chiesa lo-
cale, in Chiese locali e cattolicità, pp. 356-366.
8
Cf C. COLOMBO, Risposta..., p. 380.
9
Cf A. LEITE SOARES, A comunhâo na constituçâo hierárquica da Igreja - Investigaçâo teologico-canóni-
ca, Porto 1992, p. 312.
12 Gianfranco Ghirlanda
sto, e quindi c’è una speciale manifestazione della Chiesa una, santa,
cattolica e apostolica (SC 41b) 10.
La Chiesa si edifica nella celebrazione eucaristica (UR 15a) e in
questa stessa viene significata e attuata l’unità di essa (UR 2a). Infatti
nella celebrazione dell’Eucaristia viene manifestata ed efficacemente
rinsaldata la comunione universale dei fedeli, perché in essa questi
sono intimamente congiunti a Cristo, confessano una sola fede, sotto
la guida del Romano Pontefice, successore di Pietro, e del Collegio
dei vescovi, in cui persevera il Collegio apostolico (UR 2b.c.d). Que-
sto carattere dell’Eucaristia, nonostante la sua celebrazione sia sem-
pre visibilmente localizzata e culturalmente contestualizzata, fa sì
che la Chiesa particolare si mantenga sempre e costantemente aper-
ta all’universalità, come qualcosa di intrinseco al suo stesso esistere
e operare 11. È l’Eucaristia stessa che apre la Chiesa particolare alla
missione universale di evangelizzazione propria di tutta la Chiesa
(AG 39a; can. 782 § 2).
Annuncio del Vangelo e celebrazione della morte e risurrezione
del Signore sono sempre inscindibilmente legati.
10
Cf Lettera Communionis notio, n. 11 (anche n. 17).
11
Cf ibid., n. 11. La Lettera della Congregazione per la Dottrina della fede – nel contesto di una valoriz-
zazione della teologia eucaristica, come valida per una comprensione della Chiesa particolare in tutta la
sua realtà di “localizzazione” e nello stesso tempo di apertura all’universalità – mette anche in guardia
di fronte a quelle affermazioni unilaterali di tale teologia, che portano ad affermare come non essenzia-
le ogni altro principio di unità e universalità della Chiesa locale, oppure che ogni congregazione di fe-
deli avrebbe ogni potestà ecclesiale, anche riguardo all’Eucaristia, per cui essa nascerebbe “ab intra” e
sarebbe autosufficiente (cf ibid.).
La dimensione universale della Chiesa particolare 13
12
Cf Lettera Communionis notio, n.12.
14 Gianfranco Ghirlanda
13
Tale sollecitudine si attua e si esprime secondo gradi diversi in vari modi, anche istituzionalizzati – il
Sinodo dei vescovi, i Concili particolari, le Conferenze dei vescovi, la Curia Romana, le visite ad limina,
la collaborazione missionaria ecc. (LG 22a; 23; AG 6f; Sinodo straordinario dei vescovi 1985, Relazione
Finale Exeunte coetu, II.C.4, in EV 9/1804) –, ma in modo pieno solo nell’azione collegiale in senso
stretto, cioè, nell’azione di tutti i vescovi insieme al loro Capo, con cui esercitano la potestà piena e su-
prema su tutta la Chiesa (ibid., 1803; LG 22b). La natura collegiale del ministero apostolico è di diritto
divino, quindi l’affetto collegiale o collegialità affettiva, come comunione episcopale, sempre vige tra i
vescovi e solo in alcuni atti si esprime come collegialità effettiva (“collegialitas effectiva”). Tutti i modi
di attuazione della collegialità affettiva in collegialità effettiva sono di diritto umano, ma in gradi diversi
concretizzano l’esigenza di diritto divino che l’episcopato si esprima in modo collegiale (LG 22a). Il gra-
do massimo di attuazione è nel Concilio ecumenico e nell’azione congiunta dei vescovi sparsi nel mon-
do (LG 22b; can. 337 §§ 1,2); tutti gli altri sopra menzionati, sia a livello universale che locale, sono di
un grado intermedio e subordinato.
Come l’affetto collegiale, cioè la comunione dei vescovi, si esprime e si attua secondo gradi diversi, co-
sì anche la comunione tra le Chiese si esprime in modi diversi. Essa sempre esiste, in quanto è realtà
essenziale della Chiesa; come totalità essa è attuata solo a livello universale, ma si manifesta sensibil-
mente anche a livello locale, nei raggruppamenti di Chiese particolari, nei patriarcati, nelle province e
nelle regioni ecclesiastiche (LG 23d; CD 39-41; cann. 431-434).
14
Cf AS III/I, 242-243.
15
In virtù della consacrazione episcopale si stabilisce il fondamento ontologico-sacramentale di parità
tra tutti i membri del Collegio; per la comunione gerarchica, invece, si ha il fondamento ecclesiologico-
La dimensione universale della Chiesa particolare 15
strutturale, della subordinazione del singolo vescovo sia al Romano Pontefice che al Collegio. Questo
perché sia il Romano Pontefice personalmente che il Collegio, sempre insieme al suo Capo, rappresen-
tano la Chiesa universale e su di essa hanno piena e suprema potestà (LG 22b; NEP 3°; 4°; cann. 331;
333 § 1; 336). In questo modo la costituzione gerarchica della Chiesa, voluta dal Signore, è nello stesso
tempo collegiale e primaziale (LG 19; Cf GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastor bonus, n. 2,
in AAS 80 [1988] 842-843).
16
Il vescovo può esercitare tale potestà solo quando il Collegio è convocato dal suo Capo ad agire co-
me tale nei due modi tassativamente stabiliti dal diritto (LG 22b; can. 337).
17
Solo il Romano Pontefice succede personalmente all’apostolo Pietro, proprio per la funzione che lui
solo deve e può svolgere in seno al Collegio (LG 20c; 22b; NEP 1°).
18
Così si comprende sia la prassi del primo millennio sia quella del secondo, e appare chiaro che la
missione canonica del Romano Pontefice è un atto strumentale riguardo alla trasmissione della potestà
di Cristo ai vescovi, e non di delega della potestà pontificia (LG 27a.b).
16 Gianfranco Ghirlanda
19
Paolo VI, nella sua allocuzione all’apertura del terzo periodo del Concilio (14 settembre1964), trat-
tando dei rapporti tra la funzione primaziale del Romano Pontefice e la potestà dei vescovi, esigiti dalla
struttura gerarchica per diritto divino della Chiesa, così si esprimeva: «[...] Haec potestatis ecclesiasti-
cae in unum veluti centrum ordinatio [...] indoli Ecclesiae respondet, quae suapte natura una et hierar-
chica est [...]. Haec ergo coniunctio et congruens rei communicatio cum Sancta Sede [...] oritur [...] ex
iure divino et ex proprio ipsius constitutionis Ecclesiae elemento. Attamen haec norma episcopalem aucto-
ritatem nullo modo extenuat, immo robore auget, sive ea in singulis Antistitibus, sive in toto Episcoporum
collegio consideratur. [...]» (AAS 56 [1964] 812).
Rivolgendosi direttamente ai vescovi, così Paolo VI proseguiva: «Alio quoque argumento has catholici
Episcopatus laudes confirmare placet, ut manifesto pateat quantum eius dignitati, quantum eius caritati
prosint hae hierarchicae communionis vincula, quae Episcopos cum Apostolica Sede coniungunt. [...]
Etenim, quemadmodum vobis, varias terrarum orbis partes incolentibus, ut veram Ecclesiae notam ca-
tholicam efficiatis atque ostendatis, necessarium omnino est centrum et principium unitatis fidei et com-
munionis quod in hac Petri Cathedra habetis...» (ibid., 813).
20
Cf CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio pastorale Ecclesiae imago (= EI), 22 febbraio 1973, n. 13,
in Enchiridion Vaticanum 4/1945-2328
21
Cf ibid., n. 42.
22
La Lettera Communionis notio, al n.14, così si esprime a questo proposito: «Unità dell’Eucaristia e
unità dell’episcopato con Pietro e sotto Pietro non sono radici indipendenti dell’unità della Chiesa, per-
ché Cristo ha istituito l’Eucaristia e l’episcopato come realtà essenzialmente vincolante. L’episcopato è
uno così come una è l’Eucaristia: l’unico sacrificio dell’unico Cristo morto e risorto. La liturgia esprime
in vari modi questa realtà, manifestando per esempio, che ogni celebrazione dell’Eucaristia è fatta in
unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con il Papa, con l’ordine episcopale, con tutto il clero
e con l’intero popolo. Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione
con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come nel caso delle Chiese cristia-
ne separate da Roma».
La dimensione universale della Chiesa particolare 17
23
Cf EI, nn. 93; 94.
24
Cf CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Tota Ecclesia, 31 gennaio 1994, n. 22, Libreria Edizioni
Vaticane, 1994.
25
Cf ibid., n. 14.
18 Gianfranco Ghirlanda
missione di salvezza “fino agli ultimi confini della terra” (Atti 1, 8), dato che
qualunque ministero sacerdotale partecipa alla stessa ampiezza universale
della missione affidata agli Apostoli. Infatti il sacerdozio di Cristo, di cui i
presbiteri sono resi realmente partecipi, si dirige necessariamente a tutti i
popoli e a tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, di nazione o età
[...]. Ricordino quindi i presbiteri che a essi incombe la sollecitudine di tutte
le Chiese» 26.
26
Evidentemente l’apertura universalistica di questo testo a maggior ragione va applicata ai vescovi,
che ricevono la pienezza del sacerdozio (LG 21b; 24a; AG 19c).
27
Cf Tota Ecclesia, al n. 25, dove si parla di inserimento nell’ordo presbyterorum.
28
Cf Communionis notio, n. 16; Tota ecclesia, n. 26; GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastores
dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 31, in AAS 84 (1992) 708-709.
La dimensione universale della Chiesa particolare 19
29
Cf Communionis notio, nn. 7; 13.
30
Cf ibid., n. 9.
31
AAS 83 (1991) 745.
20 Gianfranco Ghirlanda
Conclusioni
Cerchiamo brevemente di delineare alcune conseguenze di que-
sta mutua interiorità o immanenza tra Chiesa universale e Chiesa par-
32
Cf A. LEITE SOARES, A comunhâo..., p. 310 (traduzione nostra).
La dimensione universale della Chiesa particolare 21
NOTA BIBLIOGRAFICA
AA.VV., Chiesa particolare (Coll. “Il Codice del Vaticano II” – a cura di A. Longhita-
no), Bologna 1985.
AA.VV., Chiese locali e cattolicità (Atti Coll. Int. Salamanca 2-7 aprile 1991), Bolo-
gna 1994.
BEYER J., Chiesa universale e chiese particolari, in Vita Consacrata 18 (1982) 73-87.
G.GHIRLANDA, voci «Chiesa particolare», «Chiesa universale», «Ordinariato milita-
re», in Nuovo Dizionario di Diritto Canonico. (a cura di C. Corral Salvador, V. De
Paolis, G. Ghirlanda), Cinisello Balsamo 1993.
ID., La Chiesa particolare: natura e tipologia, in Monitor Ecclesiasticus 105 (1990)
551-568.
LANNE E., Chiesa locale, in Dizionario del Concilio Vaticano II, Roma 1969, pp. 796-
826.
VANHOYE A., La Chiesa locale nel Nuovo Testamento, in La Chiesa locale. Prospetti-
ve teologiche e pastorali, a cura di A. Amato, Roma 1976.
23
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 23-34
Alcune riflessioni sull’omnis potestas
del vescovo diocesano
di G. Paolo Montini
1
Cf, recentemente, TH. J. GREEN, The Pastoral Governance Role of the Diocesan Bishop: Foundations,
Scope and Limitations, in The Jurist 49 (1989) 480; A. INGOGLIA, Considerazioni preliminari sull’autono-
mia giuridica delle Chiese “particulares seu dioecesanae”, in Il Diritto ecclesiastico 106 (1995) I, 799-816.
24 G. Paolo Montini
ria, propria e immediata, che è richiesta per l’esercizio del suo compito
pastorale, eccetto...» (can. 381 § 1; il corsivo è nostro). È pertanto la
comunità ecclesiale cui si presiede, o meglio, le esigenze pastorali
che dalla vita di questa comunità implicitamente o esplicitamente
provengono, a determinare l’entità, il numero e la consistenza della
potestà di cui è titolare il vescovo diocesano.
Anche in questo caso la potestà di dispensa dalle leggi universa-
li della Chiesa dà un esempio significativo.
Secondo la nuova normativa il vescovo diocesano può dispensa-
re da tutte le leggi sia universali sia particolari date per il suo territo-
rio o i suoi fedeli dalla suprema autorità della Chiesa, eccetto da
quelle la cui dispensa è riservata (cf can. 87 § 1).
Tale capovolgimento di impostazione ha un riscontro verbale in
quell’espressione che il canone 381 § 1 adotta: «Al vescovo diocesa-
no compete tutta la potestà...[Episcopo dioecesano in dioecesi ipsi
commissa omnis competit potestas]» 2.
2
«Il concilio si è dichiarato così, con una decisione di principio di rango costituzionale, che è stata
contenutisticamente adottata dal codice, a favore della restaurazione dei diritti originali del vescovo»
(H. MÜLLER, Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale, in Chiese locali e cattolicità. Atti del Col-
loquio internazionale di Salamanca [2-7 aprile 1991], Bologna 1994, p. 366).
3
Circa il concetto di plenitudo potestatis cf recentemente A. MARCHETTO, “In partem sollicitudinis...
non in plenitudinem potestatis”. Evoluzione di una formula di rapporto Primato-Episcopato, in Studia in
honorem Eminentissimi Cardinalis Alphonsi M. Stickler, Roma 1992, pp. 269-298.
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 25
4 4
A. VERMEERSCH - J. CREUSEN, Epitome iuris canonici I, Mechliniae - Romae, 1929 , n. 295, p. 219.
5 6
S. SIPOS, Enchiridion iuris canonici, Romae 1954 , p. 147.
6
A. VERMEERSCH - J. CREUSEN, Epitome, n. 295, p. 219.
7
S. SIPOS, Enchiridion, p. 147.
8
È quanto si premura di specificare PAOLO VI nel motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno
1966): il decreto conciliare Christus Dominus afferma che per sé compete ai vescovi diocesani nelle lo-
ro diocesi tutta la potestà, «naturalmente sotto la clausola [ea scilicet ratione] “per quanto richiesto per
l’esercizio dei loro compiti pastorali”» (cf introductio).
26 G. Paolo Montini
9
Monsignor Carli nella relazione al III Schema del decreto CD nota chiaramente come «la potestà di
giurisdizione, che i vescovi per diritto divino ottengono, per sua natura non può essere piena» (AS
II/IV, 442).
10
Il motu proprio di PAOLO VI De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966) riferisce ad sensum e cita in
nota CD 8a, in quanto ne costituisce l’applicazione diretta, ma si preoccupa anche di specificarne la va-
lenza (cf introductio). Il motu proprio di PAOLO VI, Episcopalis potestatis (2 maggio 1967), parallelo al De
Episcoporum muneribus per le Chiese Orientali, potrà così citare sbrigativamente alla lettera e per este-
so CD 8. Il Direttorio pastorale dei Vescovi Ecclesiae Imago (22 febbraio 1973) preferirà citare LG 27a
(cf n. 42).
11
Cf Communicationes 12 (1980) 294: dell’omissione, approvata da cinque Consultori e osteggiata da
tre Consultori, non è data alcuna motivazione. Secondo alcuni questa locuzione (per se) rafforzerebbe e
chiarificherebbe la attribuzione di propria della potestà del vescovo, dichiarando che la potestà del ve-
scovo diocesano non deriva dal potere del Papa (cf H. MÜLLER, Realizzazione della cattolicità..., cit.,
p. 368).
12
PAOLO VI, nel motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966) specificherà quale sia l’uffi-
cio pastorale pienamente commesso ai vescovi diocesani: «la cura costante e quotidiana delle pecorel-
le»(cf introductio). È interessante notare la locuzione «piena cura delle anime» del can. 150, per indica-
re quella cura pastorale che comprende senz’altro l’esercizio dell’ordine sacerdotale.
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 27
La riser va 13
La relatività della pienezza della potestà del vescovo diocesano
viene messa in luce dall’istituto della riserva. Si tratta della limitazio-
ne della potestà di cui gode il vescovo diocesano nell’esercizio del
suo ministero episcopale nei confronti della sua Chiesa particolare.
13
Sull’intera problematica della riserva cf J. MANZANARES, Sulla “reservatio papalis” e la “recognitio”.
Considerazioni e proposte, in Chiese locali e cattolicità, pp. 253-277.
14
A una osservazione di questo genere da parte di un gruppo di Padri conciliari, si modificò solo la di-
zione di CD 8b, in relazione alla riserva per le dispense (cf AS IV/II, 519).
28 G. Paolo Montini
I criteri di riserva
È sempre un punto molto delicato enunciare criteri in una ma-
teria di cui contemporaneamente si stabilisca il soggetto nella supre-
ma autorità della Chiesa.
Due teoriche rendono complesso il problema:
– la prima attiene al principio secondo cui il legislatore non è te-
nuto alla sua stessa legge;
– l’altra attiene al principio secondo cui l’autorità il cui esercizio
sia normato non può chiamarsi suprema.
Per questo il can. 333 § 1 preferisce asserire che l’autorità im-
mediata del Romano Pontefice sulle Chiese particolari rafforza e ga-
rantisce la potestà propria, ordinaria e immediata, di cui godono i ve-
scovi sulle Chiese particolari a loro affidate.
E la Costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana ri-
corda che il supremo ministero dell’unità della Chiesa universale
rispetta «la potestà, che per diritto divino appartiene ai Pastori delle
Chiese particolari» (prooemium, XI; il corsivo è nostro).
Di fatto il canone 381 § 1 (come d’altronde CD 8a) non pone al-
cun criterio positivo che normi o orienti la riserva della suprema au-
torità della Chiesa 16.
Non si deve però dimenticare che lo stesso accenno all’omnis
potestas, di cui nella prima parte del canone, svolge una tale funzione
criteriologica. Asserire infatti che al vescovo diocesano compete tut-
ta la potestà necessaria per il suo ministero, implica un orientamento
a ridurre la riserva ai casi giustificati da una necessità: per sé il
vescovo dovrebbe infatti godere di tutta la potestà necessaria al suo
ministero diocesano 17. La stessa scelta di sostituire il termine, in un
15
Cf PAOLO VI, motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966), introductio.
16
La Relatio al IV Schema del Decreto CD nota la scelta di eliminare dal testo ogni accenno a causa o
fine della riserva («propter bonum commune»; «ad fidei et disciplinae unitatem servandam”): cf AS
III/II, 48.
17
Da tale principio discende poi anche il criterio interpretativo, necessariamente largo ed espansivo,
nei confronti delle potestà riconosciute ai vescovi diocesani (cf H. MÜLLER, Realizzazione della cattoli-
cità..., cit., p. 367).
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 29
18
Il testo primitivo del Decreto CD suonava così: «Restando ferma sempre e in tutto la potestà del Ro-
mano Pontefice di riservarsi delle cause, che sia per la loro natura sia per l’unità della Chiesa ritenga di
avocare a sé in considerazione di circostanze di tempo e di luogo, i vescovi residenziali per diritto co-
mune abbiano tutte le facoltà [Episcopi residentiales iure communi omnes habeant facultates] che sono
richieste dall’esercizio più pronto e più adatto della loro potestà ordinaria e immediata, da esercitare
sotto il primato giurisdizionale del Romano Pontefice. Pertanto le facoltà finora loro riconosciute siano
aumentate...» (AS II/IV, 365-366). Il termine facultates fu aspramente criticato: «Non piace la locuzione
facultates (= favori? non ineriscono intrinsecamente al compito episcopale?)» (Vescovi della Francia me-
ridionale, in AS II/IV, 396); «...abbiano le facoltà? ma se già le hanno per diritto divino!» (Monsignor
Ménager, vescovo di Meaux, in AS II/IV, 397). Ciò portò la Commissione a lasciare il termine faculta-
tes, come attesta monsignor Gargitter nella relazione al V Schema del Decreto (cf AS III/VI, 128).
19
PAOLO VI, motu proprio Episcopalis potestatis (2 maggio 1967), introductio. Le stesse parole in ID.,
motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966), introductio.
30 G. Paolo Montini
20
A questa problematica sembra ispirarsi la citazione fra le fonti del can. 381 § 1 della Epistula indiriz-
zata il 19 luglio 1972 dalle Congregazioni per i Vescovi e per il Clero al Capitolo della Cattedrale di
Roermond (Olanda). Con essa veniva respinto il ricorso del medesimo Capitolo contro il vescovo dio-
cesano e veniva «dichiarata la natura personale della responsabilità del vescovo diocesano nel governo
della diocesi, senza che possa venir sostituito da altre strutture sopradiocesane» (in X. OCHOA, Leges Ec-
clesiae post Codicem iuris canonici editae IV, Madrid 1974, n. 4073, col. 6297; il testo, in francese, ibid.,
6297-6299). Naturalmente questo principio vale finché e fintantoché le strutture sopradiocesane non
siano fornite giuridicamente e legittimamente di competenze normative.
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 31
21
Ne era ben cosciente il principio V per la codificazione: «Le cause riservate devono essere chiara-
mente elencate nel nuovo Codice. Infatti conviene che la suprema potestà [...] nello stabilire queste
cause riservate proceda per enucleazioni. Sembra che questo non sia possibile, almeno conveniente-
mente nelle attuali circostanze, a modo di indice. Nel Codice stesso esse vengano opportunamente pro-
poste» (Communicationes 1 [1969] 81). Per le leggi la cui dispensa è riservata alla Santa Sede cf il prin-
cipio IV (ibid., 80).
22
Cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum, in AAS 77
(1985) 771. La risposta fu data nella Plenaria del 14 maggio 1985, confermata dal Pontefice il 5 luglio
1985 e promulgata il 1° agosto 1985.
32 G. Paolo Montini
Conclusione
La Chiesa particolare mostra la sua dimensione universale cer-
to nella chiara affermazione e concretizzazione della “pienezza” della
potestà del vescovo diocesano entro la medesima. In questo si mani-
festa l’inerenza della Chiesa universale nella Chiesa particolare, se-
condo il celeberrimo testo di LG 23a:
«I Vescovi [...] sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro
Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali
[...] esiste la sola e unica Chiesa cattolica».
23
Cf AAS 79 (1987) 1249. La risposta fu data dalla Plenaria del 26 maggio 1987, confermata dal Pontefi-
ce il 20 giugno 1987 e promulgata il 3 settembre 1987.
24
Nel commento alla interpretazione in merito alla forma canonica del matrimonio, Fr. J. URRUTIA nota
che la riserva di cui al can. 87 § 1 possa essere sia esplicita sia implicita, ancorché sempre espressa (cf
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 33
Sarebbe ben lontano dalla dottrina e dallo spirito del concilio Va-
ticano II porre un’alternativa o un conflitto fra “pienezza” della potestà
(dei vescovi) e riserva (pontificia). Quest’ultima non si aggiunge dal-
l’esterno come una limitazione che subentra a una pienezza nativa 25.
La compresenza di “pienezza” e di limiti risponde piuttosto alla
dinamica stessa della comunione ecclesiale, che è comunione gerar-
chica 26.
È significativa, a questo riguardo, una qualche contraddizione
emersa nello stesso svolgimento del concilio Vaticano II.
Da un lato i Padri conciliari, nell’affermazione della collegialità
episcopale, si accorsero di potervi desumere una rivalutazione del-
l’ufficio episcopale e della sua potestà.
Dall’altro dovettero ben presto accorgersi che la collegialità epi-
scopale, nella sua strutturazione, richiedeva limitazioni alla potestà
dello stesso ufficio episcopale.
È stato il caso delle Conferenze episcopali.
Un vescovo delle Canarie affermò tutta la sua meraviglia che
«nel Concilio Vaticano II, considerato il concilio dell’esaltazione e della glori-
ficazione dei vescovi [sic!], si istituisca un certo organo giuridico, finora mai
visto [scil. le Conferenze episcopali], il cui scopo sia quello di limitare la po-
testà e restringere la libertà dei vescovi» (AS II/V, 79).
Periodica 74 [1985] 628). Si potrebbe pure appellare a una riserva ex natura rei, cioè richiesta dalla na-
tura stessa della potestà. Quest’ultima, benché non prevista esplicitamente dal testo codiciale, potrebbe
essere letta nel “diritto” di cui al can. 381 § 1. Certo, in qualsiasi soluzione vien meno la certezza della
delimitazione della competenza, che si può considerare tra i fini principali intesi dalla normativa in og-
getto.
25
Cf L.M. CARLI, Ufficio pastorale dei Vescovi, Leumann (Torino) 1967, pp. 225-227.
26
PAOLO VI, nel motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966), richiama a proposito della
riserva il concetto di comunione gerarchica così come spiegato dalla Nota Explicativa Praevia: «Questa
potestà [...] comporta certi compiti da esercitarsi da molti Vescovi che operano unanimemente per vo-
lontà di Cristo nel suo corpo mistico, secondo l’ordine della gerarchia. Pertanto questa potestà si attua
quando accede “la determinazione canonica, ossia giuridica, per opera dell’autorità gerarchica”, che
viene concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità della Chiesa» (cf introductio).
34 G. Paolo Montini
G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia
35
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 35-57
I presbiteri “fidei donum”
speciale manifestazione della comunione
delle Chiese particolari tra loro
e con la Chiesa universale
di Pierantonio Pavanello
Introduzione
Nel 1957 Papa Pio XII nell’Enciclica Fidei donum dedicata alle
«condizioni presenti delle missioni cattoliche» esortava i vescovi a
mettere a disposizione delle giovani Chiese d’Africa alcuni dei loro
sacerdoti per un certo periodo di tempo 1. Da questo appello del Pon-
tefice è derivato l’uso di definire fidei donum quei presbiteri che, per
mandato del loro vescovo, prestano, per un tempo determinato, il lo-
ro ministero in una Chiesa particolare diversa da quella in cui sono
incardinati. Questa esperienza, iniziata sul finire degli anni ’40 (quin-
di già prima dell’Enciclica Fidei donum) e sviluppatasi grandemente
negli ultimi decenni, manifesta in un modo tutto speciale il vincolo di
comunione che lega le Chiese particolari tra loro e con la Chiesa
universale. Il ministero dei presbiteri fidei donum infatti si è rivelato
di grande utilità per far crescere la coscienza dell’universalità della
Chiesa e dei legami che intercorrono tra le Chiese particolari. Infatti
come ha affermato Giovanni Paolo II
«la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa universale raggiunge la
sua perfezione solo quando anch’esse prendono parte all’impegno missiona-
rio in favore dei non cristiani, dentro e fuori dei propri confini. In questo stu-
1
«Un’altra forma di aiuto scambievole, certo di più grave incomodo, è adottata da alcuni Vescovi, che
autorizzano l’uno o l’altro dei loro sacerdoti, sia pure a prezzo di sacrifici, a partire per mettersi, per un
certo limite di tempo, a disposizione degli Ordinari di Africa. Così facendo, rendono loro un impareg-
giabile servizio, sia per assicurare l’introduzione, saggia e discreta, di forme nuove e più specializzate
nel ministero sacerdotale, sia per sostituire il clero di dette diocesi nelle mansioni dell’insegnamento,
ecclesiastico e profano, cui quello non può più far fronte. Volentieri incoraggiamo siffatte iniziative ge-
nerose e opportune; preparate e messe in atto con prudenza esse possono portare una soluzione pre-
ziosa in un periodo difficile, ma pieno di speranza per il cattolicesimo africano» (PIO XII, Lettera Enci-
clica Fidei donum, in AAS 49 [1957] 236-237).
36 Pierantonio Pavanello
Cenni storici
a) I precedenti remoti
La partecipazione di presbiteri diocesani all’attività missionaria
non è una novità dei nostri tempi ma ha precedenti importanti nella
storia della Chiesa, basti solo pensare ai preti diocesani che nel ’500
parteciparono all’evangelizzazione delle Americhe 3 o alla fondazione
nel 1664 a Parigi del collegio Missions étrangères de Paris (Mep) che
aveva lo scopo di formare dei preti diocesani che si dedicassero alle
missioni senza farsi religiosi.
Nel corso del 1800 particolarmente vivo fu il desiderio delle
Chiese particolari di partecipare all’opera missionaria. Ne sono se-
gni evidenti gli istituti missionari (talvolta nella forma di istituti reli-
giosi, talora invece di società di vita comune) fondati proprio con
2
GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Plenaria della Congregazione dell’Evangelizzazione dei Popoli 14
aprile 1989, in AAS 81 (1989) 1139.
3
«La partecipazione delle diocesi all’attività missionaria “diretta” comincia a realizzarsi già nei primi
decenni del ’500 con l’evangelizzazione delle Americhe, verso cui partivano, ogni due anni, dei preti
diocesani inseriti, già agli inizi del Seicento, nella vita pastorale, con la conseguenza che i religiosi era-
no spinti a ritirarsi nelle periferie delle città o a spostarsi verso i pagani dell’entroterra. Restano emble-
matiche le vicende legate al vescovo di Puebla J. De Palafox y Mendoza (1600-1659) e alla sua lettera
pastorale Venerable congregación de san Pedro, dove i sacerdoti diocesani erano presentati come appar-
tenenti all’ordine di Pietro e superiori ai missionari religiosi» (G. BUTTURINI, La cooperazione tra le chie-
se: tappe evolutive di un processo in corso, in Credere oggi 14/79 [1994] 12).
I presbiteri “fidei donum” 37
questo scopo: in Italia basti pensare al PIME, nella cui carta di fon-
dazione si afferma che è compito della Chiesa particolare collabora-
re con il Papa per l’evangelizzazione dei popoli, o all’Istituto Missioni
Estere (Saveriani) fondato da monsignor Conforti, vescovo di Par-
ma, che ne fu superiore generale fino alla morte. In vari paesi del
mondo, poi, sorsero a iniziativa di singoli vescovi o dell’intero episco-
pato di una nazione, seminari per preparare sacerdoti per le Chiese
di missione o povere di clero, come il Collegio per l’America del
Nord di Lovanio fondato nel 1857, sul cui esempio nel 1952 verrà
istituito sempre a Lovanio il Collegio per l’America Latina, e l’All
Hallows’ College di Dublino nato per la formazione di preti irlandesi
da inviare nelle Chiese anglofone dell’America settentrionale e del-
l’Australia. Comune a tutte queste iniziative era però la convinzione
che i presbiteri diocesani in quanto tali non potevano partecipare al-
la missione ad gentes: pertanto non restava loro altra possibilità che
entrare in un istituto missionario o chiedere l’incardinazione in una
diocesi di missione 4.
4
Per dare un’idea della mentalità prevalente nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale può
essere utile ricordare un episodio riferito all’autore da un anziano missionario. All’inizio degli anni ’30
in una diocesi del Nord Italia fu sufficiente che un gruppo di seminaristi, giunti alla fine del liceo, mani-
festasse l’intenzione di abbracciare la vita missionaria, perché fossero dimessi dal Seminario diocesano
prima ancora della fine dell’anno scolastico. Il vescovo riteneva infatti di aver adempiuto al suo impe-
gno verso le missioni favorendo l’apertura in diocesi di un seminario di un istituto missionario e consi-
derava la vocazione missionaria dei suoi seminaristi in contraddizione con l’appartenenza al seminario
diocesano.
5
Per un bilancio dell’esperienza dei preti fidei donum nel secondo dopoguerra fino al tempo del Conci-
lio cf F. CAVALLI, Solidarietà cattolica per la ripresa religiosa nell’America Latina, in La Civiltà Cattolica
111/IV (1960) 379-383, ID., Clero diocesano dell’Europa e dell’America Settentrionale al servizio della
Chiesa nell’America Latina, ibid., 115/IV (1964) 124-137; ID., Caratteristiche e valori del servizio tem-
poraneo del clero diocesano estero nell’America Latina, ibid., 446-459.
38 Pierantonio Pavanello
comune anche al clero secolare. Ora sono vescovi e gerarchie di intere na-
zioni a impegnarsi per il bene della Chiesa oltre i confini delle comunità a es-
si affidate, non già col non opporsi all’aspirazione sporadica di qualcuno dei
loro sacerdoti, ma in più con lo stimolare la generosità di altri e con l’adope-
rarsi perché essa sia soddisfatta in un piano organico nel quale il contributo
dei singoli sia meglio valorizzato. È in fondo porre su un piano missionario
tutta una diocesi o tutta la Chiesa di un paese, non più con l’attività indiretta
finora svolta, bensì con la partecipazione personale di un gruppo di sacerdo-
ti, là dove i bisogni della Chiesa universale sono più urgenti» 6.
6
ID., Solidarietà cattolica..., cit., p. 381.
I presbiteri “fidei donum” 39
7
PIO XII, Lettera Enciclica Fidei donum, in AAS 49 (1957) 245-246.
40 Pierantonio Pavanello
c) Il Concilio
L’invio di preti diocesani in America Latina e in Africa aveva
creato una nuova coscienza dell’universalità della Chiesa e del rap-
porto che intercorre tra le Chiese particolari. Questa nuova consape-
volezza, maturata non solo attraverso la ricerca teologica, ma da con-
crete esperienze di cooperazione tra le chiese, non poteva non trova-
re espressione al Concilio. Tralasciando le tematiche più generali, ci
fermiamo a sottolineare alcune affermazioni conciliari relative al no-
stro tema.
Nel Decreto Christus Dominus nel contesto della partecipazione
dei vescovi alla sollecitudine per tutte le chiese si parla dei loro dove-
ri in relazione alla missione ad gentes e si raccomanda loro di mette-
re a disposizione della missione alcuni dei loro preti:
«Si studino inoltre di preparare degni sacerdoti e ausiliari sia religiosi, sia
laici, non solo per le missioni, ma anche per le regioni che hanno scarsezza
di clero. Facciano anche ogni possibile sforzo perché alcuni dei loro sacer-
doti si rechino o in terra di missione o nelle diocesi predette a esercitarvi il
I presbiteri “fidei donum” 41
ministero per tutta la loro vita o almeno per un determinato periodo di tem-
po» (n. 6).
8
Cf EV 2, nn. 752-913. Per una valutazione di questo documento dal punto vista dell’attività missiona-
ria cf J. GRECO, La dinamica missionaria del motu proprio “Ecclesiae sanctae”, in La Civiltà Cattolica
118/II (1967) 552-562. Per l’applicazione delle norme relative al passaggio di sacerdoti da una diocesi
all’altra cf CONGREGAZIONE DEI VESCOVI, Norme Litterae apostolicae 29 giugno 1974, in EV 5, nn. 553-562.
9
M.P. Ecclesiae sanctae n. 1 (EV 2, n. 757). Il Consiglio fu poi istituito dalla Costituzione apostolica Re-
gimini Ecclesiae Universae con sede presso la Congregazione del Clero (n. 68 § 2; cf EV 2, n. 1608).
I presbiteri “fidei donum” 43
Nella Costituzione apostolica Pastor bonus non si parla più di questo consiglio, ma tra i compiti della
Congregazione per il clero viene indicato anche quello di «provvedere a una più adeguata distribuzione
dei presbiteri» (art. 95 § 2; cf EV 11, n. 927). Per adempiere a questo compito la Congregazione per il
Clero si serve di un’apposita commissione interdicasteriale che si propone di promuovere lo scambio
di preti tra diocesi, e in particolare di preti preparati per lavorare alla formazione nei seminari.
10
«§ 2. Fuori del caso di vera necessità della propria diocesi, gli ordinari non neghino il permesso di
emigrazione ai chierici che conoscano preparati e che stimano adatti a esercitare il sacro ministero nel-
le regioni che soffrono per la penuria di clero; curino però, attraverso una convenzione scritta con l’or-
dinario del luogo di arrivo, che siano definiti i diritti e i doveri dei loro chierici.
§ 3. Parimenti gli stessi ordinari s’interessino affinché i chierici, che dalla propria diocesi intendono re-
carsi in quella di un’altra nazione, siano adeguatamente preparati per esercitare in quel luogo il sacro
ministero, cioè che acquistino conoscenza degli istituti, delle condizioni sociali, della lingua di quella
regione, nonché degli usi e delle abitudini di quegli abitanti.
§ 4. Gli ordinari possono concedere ai loro chierici il permesso di passare a un’altra diocesi per un tem-
po determinato, magari rinnovabile più volte, ma a condizione che gli stessi chierici restino incardinati
alla propria diocesi e che ritornandovi godano di tutti i diritti e doveri che avrebbero se vi fossero stati
impegnati nel sacro ministero» (EV 2, nn. 760-762).
11
Un’ampia relazione dei lavori di questo congresso si può leggere in F. ROMITA, La distribuzione del
clero. Il mondo è la mia parrocchia, in Monitor Ecclesiasticus 95 (1970) 361-401.
44 Pierantonio Pavanello
12
Cf EV 7, nn. 234-287.
13
Note direttive Postquam apostoli n. 14 (cf EV/VII 260).
14
Ibid., n. 15 (cf EV 7, n. 261).
I presbiteri “fidei donum” 45
15
Ibid., n. 29 (cf. EV 7, n. 283).
46 Pierantonio Pavanello
16
Cf Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 (1982) 1876-1883.
17
Ibid., 1878.
18
Ibid., 1881.
19
Cf EV 11, nn. 2459-2650 (sullo stesso tema cf GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Plenaria nella Con-
gregazione dell’Evangelizzazione dei Popoli 14 aprile 1989, in AAS 81 [1989] 1136-1141).
20
Ibid., n. 4 (in EV 11, n. 2513).
21
GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Redemptoris missio circa la validità del mandato missionario,
n. 68 (in EV 12, n. 680).
22
«In questo senso l’incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta
anche una serie di atteggiamenti e di scelte spirituali e pastorali, che contribuiscono a conferire una fi-
I presbiteri “fidei donum” 47
sionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero» (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica
Pastores dabo vobis n. 31 [EV 13, n. 1306]). «L’appartenenza e la dedicazione di un presbitero a una
Chiesa particolare non rinchiudono in essa l’attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto
esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare sia del ministero sacerdotale. [...] Se
questo spirito missionario animerà generosamente la vita dei sacerdoti, sarà facilitata la risposta a quel-
l’esigenza sempre più grave oggi nella Chiesa che nasce da una diseguale distribuzione del clero»
(ibid., n. 32 [EV 13, nn. 1311.1313]). «Il sacerdote deve maturare nella coscienza della comunione che
sussiste tra le diverse Chiese particolari, una comunione radicata nel loro stesso essere di Chiese che
vivono in loco la Chiesa unica e universale di Cristo. Una simile coscienza di comunione interecclesiale
favorirà la “scambio dei doni”, a cominciare dai doni vivi e personali, quali sono gli stessi sacerdoti. Di
qui la disponibilità, anzi l’impegno generoso per il realizzarsi di un’equa distribuzione del clero» (Ibid.,
n. 74 [EV 13, n. 1517]).
23
Cf n. 14.
24
L. cit.
25
Can 271: «§ 1. Al di fuori di una situazione di vera necessità per la propria Chiesa particolare, il Ve-
scovo diocesano non neghi la licenza di trasferirsi ai chierici che sappia preparati e ritenga idonei ad
andare in regioni afflitte da grave scarsità di clero, per esercitarvi il ministero sacro; provveda però che
mediante una convenzione scritta con il Vescovo diocesano del luogo a cui sono diretti, vengano defini-
ti i diritti e i doveri dei chierici in questione.
48 Pierantonio Pavanello
ne del tutto nuovo 26, in quanto la norma non ha precedenti nel Codi-
ce del 1917 e riprende, senza variazioni di rilievo, le disposizioni del
M.P. Ecclesiae sanctae.
La storia della redazione documenta come la norma del can.
271 sia stata fin dall’inizio strettamente legata all’istituto dell’incardi-
nazione. Tra i criteri per la revisione di tale istituto il coetus incarica-
to di questa materia indicava infatti già nel 1966 27 la necessità di dare
norme che permettano una migliore distribuzione del clero nel mon-
do e che provvedano alla situazione di quei presbiteri diocesani che
vengono inviati a esercitare il loro ministero in un’altra Chiesa che
soffre per la scarsità di clero. A tal fine si proponeva di inserire nel
testo codiciale i §§ 1 e 4 del M.P. Ecclesiae sanctae, riservandosi di
spostare al capitolo sulla formazione dei chierici i §§ 2 e 3, che di fat-
to poi diedero origine all’attuale can. 257.
Nelle fasi successive furono apportate solo modifiche marginali:
il termine emigrandi nel § 1 divenne transmigrandi; fu mutata la collo-
cazione (dopo i canoni sull’incardinazione e l’escardinazione, mentre
nel primo schema la norma sulla licentia transmigrandi si trovava do-
po l’attuale can. 268) 28. Il soggetto che concede la licenza non è più
l’ordinario come in Ecclesiae sanctae ma il vescovo diocesano, a sotto-
lineare che si tratta di un affare di grande importanza. La relazione,
che riassume le osservazioni pervenute dalla consultazione che pre-
cedette la Plenaria del 1981, segnala la richiesta di fare esplicita men-
zione dei compiti regionali o nazionali e degli incarichi di insegna-
mento negli istituti cattolici. La risposta fa osservare che il canone già
comprende tali casi 29.
§2. Il Vescovo diocesano può concedere ai suoi chierici la licenza di trasferirsi in un’altra Chiesa parti-
colare per un tempo determinato, rinnovabile anche più volte, in modo però che i chierici rimangano
incardinati nella propria Chiesa particolare e, se vi ritornano, godano di tutti i diritti che avrebbero se
avessero esercitato in essa il ministero sacro.
§ 3. Il chierico che è passato legittimamente a un’altra Chiesa particolare, rimanendo incardinato nella
propria Chiesa, per giusta causa può essere richiamato dal proprio Vescovo diocesano, purché siano ri-
spettate le convenzioni stipulate con l’altro Vescovo e l’equità naturale; ugualmente, alle stesse condi-
zioni, il Vescovo diocesano dell’altra Chiesa particolare, potrà, per giusta causa, negare al chierico la li-
cenza di un’ulteriore permanenza nel suo territorio».
26
La novità può essere compresa comparando l’attuale can. 271 con il can. 144 del Codice del 1917, in
cui nell’ambito dei diritti e doveri dei chierici si trattava della licenza di trasferirsi temporaneamente in
un’altra diocesi senza menzionare la finalità apostolica e missionaria.
27
Cf sessione del 24-28 ottobre (cf Communicationes 15 [1983] 158-159; 165-166).
28
Cf sessione del 9-14 aprile 1973 (cf Communicationes 24 [1992] 301.322) e sessione del 14 gennaio
1980 (cf Communicationes 14 [1982] 69).
29
Cf Communicationes 14 (1982) 168.
I presbiteri “fidei donum” 49
30
Parla di un diritto del chierico che il vescovo non può negare J. RIBAS, Incardinación y distribución
del clero, Pamplona 1971, pp. 266 ss. (citato in J. LISTL - H. MÜLLER - H. SCHMITZ, Handbuch des Katholi-
schen Kirchenrechts, Regensburg 1983, p. 203, nota 23). Analogamente D. COMPOSTA nel commentario
della Pontificia Università Urbaniana afferma: «Per una equa ripartizione delle forze apostoliche il can.
271 accetta un certo diritto di migrazione da parte di coloro tra il clero che si sentano mossi da carità
apostolica» (Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma 1985, p. 159).
50 Pierantonio Pavanello
31
GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis n. 74 [EV 13, n. 1517].
32
Cf can. 270.
33
Non sembra condivisibile quanto scrive a questo proposito J.E. LYNCH: «If grave reasons are required
for a bishop to withhold an excardination that is sought for the good of the Church or of the individual cle-
ric (can. 270), no less can justify opposing a temporary transfer» (The Code of Canon Law. A Text and
Commentary, New York - Mahwah 1985, p. 198). L’analogia tra l’escardinazione e la licentia transmi-
grandi non regge proprio per la diversa finalità dei due istituti giuridici. Se, come abbiamo cercato di
dimostrare, il can. 271 riguarda la modalità in cui il ministero dei presbiteri (o dei diaconi) di una Chie-
sa particolare si apre alla dimensione universale della cooperazione tra le chiese, perché il vescovo pos-
sa negare la licenza saranno sufficienti anche delle giuste cause (quali per esempio le esigenze di una
programmazione diocesana nell’aiuto ad altre chiese).
I presbiteri “fidei donum” 51
34
La Postquam apostoli parla di una speciale vocazione per chi presta il ministero in un’altra diocesi in-
dicando anche le doti naturali che tale vocazione presuppone (cf CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Note di-
rettive Postquam apostoli nn. 23 e 24 [EV 7, n. 277]). Dovere del vescovo sarà pertanto quello di discer-
nere questa vocazione speciale. Ciò da una parte significa che non potrà concedere la licenza se non ne
ravviserà la presenza in chi la chiede e d’altra parte non potrà chiedere a coloro che sono privi di que-
sta speciale vocazione la disponibilità a prestare il ministero fuori della diocesi.
35
Sull’oggetto della convenzione indicazioni più dettagliate si trovano nelle Note direttive Postquam
apostoli nn. 26-30.
36
«L’Amministratore diocesano non può concedere l’escardinazione e l’incardinazione, come pure la
licenza di trasferirsi in un’altra Chiesa particolare, se non dopo un anno di sede episcopale vacante e
col consenso del collegio dei consultori».
52 Pierantonio Pavanello
opportuno che, almeno per quanto riguarda gli indirizzi generali, sia
consultato il Consiglio presbiterale come raccomanda il can. 500 § 2.
Una valutazione complessiva del can. 271 non può non rilevare
come la sua formulazione non esprima tutta la ricchezza ecclesiolo-
gica contenuta nell’esperienza dei presbiteri fidei donum: la norma
codiciale sembra muoversi nella prospettiva di un impegno indivi-
duale, permesso dal vescovo, più che in quella della comunione tra
le Chiese particolari, attuata attraverso lo scambio di quel dono vi-
vente e prezioso costituito dai ministri sacri. Ciò trova una spiegazio-
ne nell’iter stesso della redazione del canone: all’inizio dei lavori fu-
rono recepite, quasi alla lettera, le norme contenute nel M.P. Eccle-
siae sanctae, norme che come già abbiamo rilevato, si ponevano più
nell’ottica della distribuzione del clero che in quella della cooperazio-
ne tra le Chiese particolari. Di conseguenza era sottolineata la dispo-
nibilità dei singoli, che i vescovi erano invitati ad accogliere, più che
lo sforzo organico di collaborazione coinvolgente il presbiterio e l’in-
tera Chiesa particolare. Le modalità concrete dei lavori di revisione,
poi, non consentirono che nel testo del canone fosse recepita la pro-
spettiva ecclesiologicamente più completa presente nelle Note diret-
tive Postquam apostoli, in cui il problema della distribuzione del cle-
ro viene presentato all’interno della più vasta cooperazione tra le
chiese 37.
Le osservazioni che precedono ci portano ad affermare che il
can. 271 contiene solo alcune condizioni minime a cui il vescovo de-
ve attenersi nel concedere la licenza a un presbitero o a un diacono
di esercitare il ministero presso un’altra Chiesa particolare. Se si
vorrà però valorizzare pienamente il significato di questa esperienza
occorrerà fare in modo che il trasferimento in altra diocesi non sia
solo frutto di una scelta individuale, permessa o anche solamente
tollerata dal vescovo, ma decisione maturata in un clima di corre-
sponsabilità, che coinvolge il presbiterio nel suo insieme e l’intera
Chiesa particolare. Occorrerà inoltre che dalla logica di aiuto si pas-
si a quella dello scambio, valorizzando il rientro per arricchirsi dei
doni e della testimonianza delle Chiese presso le quali i presbiteri
hanno prestato il loro ministero.
37
Va osservato che le Note direttive Postquam apostoli vengono indicate nella edizione del Codice del
1989 tra le fonti del can. 271, riconoscendo implicitamente che nell’interpretazione e nell’applicazione
del canone non si può prescindere da tale documento.
I presbiteri “fidei donum” 53
38
Per un’ampia esposizione dell’impegno della Chiesa italiana in questo ambito cf Dall’aiuto allo scam-
bio. Venticinque anni di esperienza dei sacerdoti “fidei donum”, Bologna 1984; R. ZECCHIN, I sacerdoti fi-
dei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Roma-Padova 1990;
G. TAMIOZZO, L’esperienza dei sacerdoti “fidei donum”, in Credere oggi 14/79 (1994) 37-53.
39
Questo seminario fu chiuso nel 1975 in quanto l’aumentata sensibilità missionaria delle diocesi con-
sigliava di formare i chierici nei seminari delle rispettive diocesi. Le strutture del seminario vennero
impegnate per i corsi di preparazione per presbiteri, religiosi/e, laici in partenza per la missione. Può
essere interessante conoscere anche quante persone furono interessate a tali corsi di preparazione.
Per l’America Latina dal 1963 al 1992 3242 persone: 1269 religiose, 495 religiosi; 818 laici/laiche; 660
presbiteri diocesani. Per l’Africa dal 1972 al 1992 1034 persone: 627 religiose; 119 religiosi; 159 laici/lai-
che; 129 presbiteri diocesani (cf G. TAMIOZZO, L’esperienza dei sacerdoti..., cit., pp. 38-39). Per quanto ri-
guarda l’attività del CEIAL cf G. SALVINI, Una collaborazione ecclesiale tra Italia e America Latina: il
CEIAL - CUM, in La Civiltà Cattolica 144/II (1993) 369-376.
40
Il dato e quelli che seguono provengono dall’Ufficio elaborazione dati del CUM di Verona (cf R. BE-
RETTA, Italia, la “carica” dei quindicimila, in Avvenire 12 novembre 1995, p. 19). Attualmente sul servi-
zio dei fidei donum pesa la diminuzione delle vocazioni, che ha colpito anche diocesi tradizionalmente
ricche di clero, che nei decenni precedenti hanno inviato un numero significativo di presbiteri in mis-
sione.
54 Pierantonio Pavanello
41
Può essere utile riportare anche alcuni dati relativi all’esperienza di una diocesi italiana. La diocesi
di Vicenza attualmente conta 32 presbiteri fidei donum (28 in America Latina e 4 in Africa). Ad essi va
aggiunto un diacono permanente fidei donum in America Latina. Sono 17 i presbiteri rientrati in diocesi
al termine del loro servizio missionario. I primi due preti vicentini partirono per il Brasile nel 1968: dal-
la diocesi di Ipamerì la presenza vicentina si estese a quelle di Afogados, di Ponta de Pedra, di Goiania
e di Luisiana. Dal 1969 preti di Vicenza lavorano anche in Colombia nella diocesi di Monteria. Nel 1995
è stata aperta una nuova missione in Ecuador nella diocesi di Portoviejo. In Africa Vicenza è impegnata
dal 1976 in Camerun dapprima nella diocesi di Sangmnelima, spostandosi poi in una zona di prima
evangelizzazione nelle diocesi di Maroua e Yagoua.
Anche verso l’Asia vi fu un tentativo di apertura con la presenza, durata qualche anno, di due preti in
India nella diocesi di Benares, che tentarono di inserirsi nel dialogo interreligioso promosso da quella
Chiesa particolare. L’esperienza dovette essere interrotta per la difficoltà di rinnovare il permesso di
soggiorno.
42
Cf ECEI 3, nn. 936-1040. Di particolare interesse per il nostro tema specifico il n. 22 sul rapporto tra
Chiesa universale e Chiese particolari, il n. 25 sul ruolo dei presbiteri quali protagonisti della missione;
il n. 49 sui servizi missionari diocesani, quale mezzo concreto perché le iniziative missionarie non sia-
no lasciate all’iniziativa privata, ma diventino realmente un fatto ecclesiale.
43
Cf ECEI 3, nn. 237-297: in particolare riguardano il nostro tema i nn. 17 e 23 in cui si riconosce lo
specifico ministero missionario dei presbiteri diocesani fidei donum.
44
Cf ECEI 3, nn. 1719-1737.
I presbiteri “fidei donum” 55
45
CEI, I sacerdoti diocesani in missione nelle Chiese sorelle, Nota pastorale della Commissione per la
cooperazione tra le Chiese, I (ECEI 3, n. 1721).
46
Ibid., III ( ECEI 3, n. 1724).
56 Pierantonio Pavanello
47
Uno schema di convenzione è stato predisposto dalla Commissione CEI per la cooperazione tra le
Chiese (ECEI 3, nn. 2960-2971). Tale schema va aggiornato tenendo conto della successiva normativa
CEI di applicazione dell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense, normativa che ha preso in
considerazione anche il problema del sostentamento dei presbiteri fidei donum. Pur non essendo stati
inseriti nel nuovo sistema di sostentamento del clero, è stata garantita anche a loro una somma mini-
ma, pari a quella riconosciuta ai sacerdoti inseriti nel sistema. A partire dal 1990 tale somma viene cor-
risposta in parte dalla diocesi ad quem, in parte da quella a quo e, nella misura di 4.800.000 lire annue,
dalla CEI. L’intervento della CEI ha pertanto carattere integrativo e le somme necessarie vengono pre-
levate dalla quota dell’8 per mille dell’IRPEF assegnata alla Chiesa cattolica e destinata dalla CEI a «in-
terventi caritativi a favore del Terzo Mondo». La CEI, attingendo allo stesso fondo, assegna alla diocesi
di provenienza la somma necessaria per assicurare l’iscrizione volontaria dei sacerdoti fidei donum al
fondo clero dell’INPS (cf Delibera CEI n. 45 del 30 dicembre 1988 [ECEI 4, n. 1335]; Determinazioni
relative agli interventi in favore dei sacerdoti fidei donum previsti dalla Delibera CEI n. 45 § 2 [ECEI 4,
nn. 1643-1650]).
48
È l’aspetto forse più problematico di tutta l’esperienza fidei donum: motivazioni di carattere psicolo-
gico ed esistenziale, ma anche condizioni ecclesiali non favorevoli, fanno sì che si registri una certa
tendenza a rimanere in missione ben oltre il tempo massimo previsto dalla CEI, o che chi è rientrato
chieda di ripartire. Tale tendenza rischia di mettere in discussione la possibilità di uno scambio e di un
arricchimento, che avviene proprio attraverso il reinserimento nel presbiterio di origine dei fidei do-
num. Per il contributo che può venire a una diocesi dall’esperienza fidei donum rispettivamente in Ame-
rica Latina, in Africa e in Asia cf G. TAMIOZZO, L’esperienza dei sacerdoti..., cit., pp. 49-50.
I presbiteri “fidei donum” 57
Conclusioni
Dopo aver ripercorso l’itinerario storico attraverso il quale si è
sviluppata l’esperienza dei presbiteri fidei donum e averne visto la re-
cezione nel Codice di diritto canonico (can. 271), nonché l’applicazio-
ne nella Chiesa italiana, pensiamo risulti evidente l’assunto da cui sia-
mo partiti: la possibilità per i presbiteri diocesani di prestare il mi-
nistero in Chiese diverse da quella in cui sono incardinati è uno
strumento di grande valore per realizzare la comunione tra le Chiese
particolari e sperimentare l’universalità della Chiesa. Il trasferimento
di un presbitero da una diocesi all’altra non deve pertanto essere vi-
sto solamente come una risposta a situazioni di particolare necessità
o come espressione di una scelta individuale, ma realizzarsi come au-
tentico fatto ecclesiale. Per questo va riconosciuto con un certo ram-
marico che la formulazione del can. 271 non riesce a esprimere in
pienezza il significato ecclesiale racchiuso nell’esperienza fidei do-
num. Ciononostante la storia della redazione e gli interventi del Ma-
gistero ordinario, precedenti e successivi alla pubblicazione del Codi-
ce, ci sembra indirizzino a interpretare la licentia transmigrandi di cui
parla il can. 271 come lo strumento giuridico che permette di aprire a
una dimensione universale la dedicazione dei presbiteri diocesani a
una Chiesa particolare. Sarà cura dei presbiteri e dei vescovi fare in
modo che la disponibilità a trasferirsi presso altre Chiese sia valoriz-
zata in tutte le sue dimensioni, superando la logica dell’aiuto, per ap-
prodare a quello scambio di doni tra le Chiese, che ne realizza la co-
munione. Il dono infatti non si ferma alla persona del missionario:
«esso si diffonde a tutta la Chiesa e a tutte le chiese. È il profumo della carità
che riempie ancora una volta la Chiesa come a Betania. Lo scambio in que-
sto senso è forse il capitolo più ricco della missione, anche per il suo futuro,
perché tocca ed esprime l’essenza stessa della Chiesa che è comunione» 49.
PIERANTONIO PAVANELLO
Via S. Francesco Vecchio, 18
36100 Vicenza
49
Ibid., 49.
58
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 58-65
Gli istituti di vita consacrata:
segno dell’universalità
nella Chiesa particolare
di Silvia Recchi
4
Cf G. GHIRLANDA, Ecclesialità della vita consacrata, in AA.VV. La vita Consacrata (coll. «Il Codice del
Vaticano II» sotto la direzione di A. Longhitano), Bologna 1983, pp.13-52.
60 Silvia Recchi
5
Cf J. BEYER, Il diritto della vita consacrata, Milano 1989, pp. 118ss.
6
S. CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI, Note direttive Mutuae relationes (= MR), in
AAS 70 (1978) 473-506, 23d.
62 Silvia Recchi
le, bensì una realtà teologica, manifestazione del mistero della Chiesa.
In questo senso universalità non è pluralismo etnico-culturale o inter-
nazionalità geografica. Essa si basa sulla relazione con la nota di catto-
licità della Chiesa 11. Tutto ciò ha certamente anche un risvolto opera-
tivo: il campo dell’impegno dei membri degli istituti di vita consacrata
è vasto quanto quello della stessa Chiesa in cui mostrano pubblica-
mente che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza
lo spirito delle beatitudini. Essi partecipano attraverso le loro opere di
misericordia alla funzione pastorale della Chiesa (can. 676). L’azione
apostolica appartiene alla loro stessa natura (can. 675 § 1). Sono chia-
mati all’impegno della predicazione in forza della loro peculiare con-
sacrazione (can. 758), a collaborare alla formazione catechetica del
popolo di Dio (cann. 776, 778), all’impegno nel campo dell’educa-
zione e della scuola (can. 801) e non ultimo a impegnarsi nell’evange-
lizzazione e nell’attività missionaria (can. 783) 12.
Fa sempre parte della loro vocazione l’essere nelle Chiese par-
ticolari promotori di comunione. Essi possono esserlo a titoli diversi:
innanzitutto grazie al significato stesso della loro consacrazione nella
Chiesa; quindi grazie alla loro testimonianza di universalità del mes-
saggio evangelico che supera ogni differenza razziale, tribale, cultu-
rale; grazie ancora alla loro disponibilità e solidarietà verso tutti, so-
prattutto i più poveri; infine grazie al legame che spesso stabiliscono
tra la Chiesa e i gruppi marginalizzati spesso non raggiunti dalla pa-
storale ordinaria 13.
Per la loro vita in comunione fraterna i consacrati sono un esem-
pio della riconciliazione universale in Cristo (can. 602). Gli istituti dio-
cesani sono un richiamo radicale e profetico a questa comunione uni-
versale, a cui la Chiesa particolare deve tendere nella concretezza
delle sue strutture e della sua pastorale. L’istituto diocesano resta pur
sempre un dono fatto alla Chiesa, ma che appare in un luogo determi-
nato per aiutarla a testimoniare i valori del Vangelo. Per questo il ve-
scovo deve accoglierlo, discernerlo, verificarlo, inserirlo nella vita
della propria chiesa, tutelarlo perché cresca in fedeltà a se stesso.
Suscitando un carisma di vita consacrata, lo Spirito suscita nella
Chiesa non soltanto una spiritualità, ma una comunione di vita orga-
11
Cf IL 72.
12
Cf V. DE PAOLIS, Gli istituti di vita consacrata nella Chiesa, in AA.VV. La vita Consacrata ..., p. 101. Cf
anche pp. 99-115.
13
IL 73.
64 Silvia Recchi
Conclusione
Ogni istituto di vita consacrata, anche diocesano, per il caratte-
re proprio della sua vocazione e missione, contiene gli elementi del-
l’universalità e della particolarità, dell’unità e del pluralismo. Se il
principio di particolarità permette di non sfuggire alla concretezza
dei problemi e dei rapporti e quindi di edificare la Chiesa di Cristo
partendo da un luogo concreto, il principio di universalità permet-
terà di superare ogni tentazione di chiusura egoistica. Infatti se la vi-
ta e l’azione degli istituti prendono corpo in una dimensione partico-
lare, il carisma e la sua natura trascendono questa dimensione parti-
colare e portano il respiro di tutta la Chiesa.
Tutto ciò non rimane su un piano di sentimento, ma ha conse-
guenze concrete nella vita di una chiesa particolare che con ciò vie-
ne aiutata a superare il rischio di limitarsi a un territorio determinato
e di rinchiudersi su se stessa.
Ecco perché la vocazione dell’universalità, propria della Chiesa
e dei suoi capi, risplende ancor di più nella presenza degli istituti di
vita consacrata, dono del Signore alla sua Chiesa.
SILVIA RECCHI
Institut Catholique
B.P. 11628 Yaoundé
Cameroun
14
E. GRASSO, Unità e pluralismo: è possibile? Fondamenti teologici ed ecclesiologici, in Consacrazione e
Servizio 43 (1994) 11ss.
66
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 66 -75
Commento a un canone
Battezzare i bambini in pericolo di morte
anche contro la volontà dei genitori
(can. 868 § 2)
di Mauro Rivella
Un po’ di storia
Il can. 868 § 2 trova come corrispettivo nel CIC 1917 il can. 750
§ 1:
«Il bambino degli infedeli è battezzato lecitamente, anche contro la volontà
dei genitori, quando versi in pericolo di vita, così da prevedere prudente-
mente che morirà prima di giungere all’uso di ragione».
1
Per una presentazione generale dell’argomento, cf G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, in Quaderni
di diritto ecclesiale 4 (1991) 131-140.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 67
2
Bolla Cantate Domino, sess. IX del 4 febbraio 1442 (COD 576).
3
Sessione VII del 3 marzo 1547 (COD 686).
4
F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de Sacramentis, vol. I De sacramentis in genere, de Baptismo,
7
Confirmatione et Eucharistia, Torino 1962 , nn. 142-146.
68 Mauro Rivella
5
Cf J.M. MARTÌ, La regulación canónica del bautismo de niños en peligro de muerte, in Ius canonicum
31 (1991) 712-718.
6
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III, q. 65, art. 4, ad 1.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 69
7
Ibid., II-II, q. 10, art. 12, ad 2.
8
Per le varie fasi del lavoro di revisione, cf Communicationes 3 (1971) 200; 7 (1975) 30; 13 (1981) 224.
70 Mauro Rivella
9
P. COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Relatio complectens synthesim animadversio-
num..., Città del Vaticano 1981, p. 201.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 71
10
EV 1, n. 1057.
11
EV 7, n. 565.
72 Mauro Rivella
12
EV 9, nn. 545; 547.
13
Cf CCC 1256.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 73
14
Il can. 1366 stabilisce che vengano puniti con una censura o con altra giusta pena i genitori che fan-
no battezzare o educare i figli in una religione acattolica. Dal momento che il diritto penale è soggetto a
interpretazione stretta e non ammette applicazione analogica, non si può invocare questo canone per
giustificare una sanzione penale nei confronti di quei genitori cattolici che si opponessero al battesimo
dei figli.
15
L’intervento della Conferenza episcopale canadese è del 12 marzo 1986; la lettera della Congregazio-
ne dei Sacramenti è del 27 maggio 1986; quella della Congregazione della Dottrina della Fede del 27
agosto 1986. Per i testi, cf B. DALY, Canonical Requirements of Parents in Cases of Infant Baptism Accor-
ding to the 1983 Code, in Studia Canonica 20 (1986) 427.
74 Mauro Rivella
16
Nel 1993 la Corte si è pronunciata rispettivamente su un caso di repressione del proselitismo, che si
configura come reato all’interno dell’ordinamento greco, e sulla potestà dei genitori di diverso credo in
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 75
MAURO RIVELLA
via Lanfranchi, 10
10131 Torino
ordine all’educazione religiosa della prole, in riferimento a un caso austriaco. Per il dispositivo delle sen-
tenze e un commento di T. SCOVAZZI, cf Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n.s. 2 (1994) 719-750.
76
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 76 -102
Considerazioni
a partire dal can. 868 § 1, 2°1
ovvero
«Genitori “pagani”,
perché chiedete i sacramenti per i vostri figli?...
volete farne dei “lapsi”2?»
di Adriano Celeghin
1
La presente riflessione è maturata tenendo conto sia dell’intero paragrafo del can. 868, sia dei cann.
890 e 914.
2
Venivano chiamati “lapsi” quei cristiani che, nel periodo delle persecuzioni, davanti alla prova concre-
ta della fede, non avevano il coraggio di dichiararsi cristiani e rinnegavano la propria fede.
3
Si vedano come esempio i cann. 868; 889 § 2; 890. Cf pure: CEI, Direttorio di pastorale familiare per
la Chiesa in Italia, nn. 105-106, 25 luglio 1993, Roma 1993, p. 104.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 77
4
A. LAURENTIN - M. DUJARIER, Il Catecumenato - Fonti neotestamentarie e patristiche. La Riforma del Va-
ticano II, Roma 1995, p. 72; cf anche p. 87. Gli studi recenti sull’iniziazione cristiana sono numerosi e
forniscono comuni elementi generali. In questo articolo seguiamo il testo sopra citato. Per altri riferi-
menti bibliografici rimandiamo al nostro studio: A. CELEGHIN, L’iniziazione cristiana nel CIC del 1983,
in Periodica de re canonica 84 (1995) 31-75, 267-314.
5
A. LAURENTIN - M. DUJARIER, Il Catecumenato..., cit., p. 76.
6
Cf ibid., pp. 83 e 86.
78 Adriano Celeghin
7
Cf ibid., pp. 83, 86, 93, 97.
8
Ibid., p. 100.
9
Cf ibid., pp. 100-110.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 79
10
Avvenire, 24 novembre 1995, 20.
80 Adriano Celeghin
11
SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Pastoralis actio, 20 ottobre 1980, n. 18 (EV 7,
n. 583).
12
Cf C.M. MARTINI, Vivere il Vangelo del matrimonio, Milano 1990, pp. 52-59.
13
G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, in Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991) 134.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 81
14
Pastoralis actio, n. 22.
15
L. cit.
16
Cf cann. 867 § 2 e 889 § 2.
82 Adriano Celeghin
Codice, con una indicazione molto vaga 17, chiede che non sia «estra-
neo al senso cristiano» (can. 855). Pur nella fluidità concettuale della
formulazione del canone, pare importante cogliere uno spunto di ri-
flessione sul senso della identità cristiana da dare al battezzando. In
tal caso i genitori non sceglieranno il nome a partire da criteri sociali
(che non sia, per esempio, un nome troppo diffuso), né da criteri
emotivi (il fatto che suoni bene o non venga storpiato), ma prende-
ranno in considerazione anche la scelta del nome a partire dal senso
del nome stesso (esempio: Matteo = dono di Dio, che sarebbe da ap-
plicarsi a ogni figlio!) o dal richiamo a una vita cristiana vissuta da un
cristiano concreto e ben identificato, al quale guardare per imparare
a vivere seguendo le indicazioni del Vangelo.
Un terzo elemento, sul quale instaurare un dialogo tra genitori
e comunità, è la comunità stessa. È sufficiente guardare al Rito del-
l’Iniziazione cristiana degli adulti per avere un’idea adeguata dell’im-
portanza della comunità nella celebrazione dei sacramenti. La do-
manda dei sacramenti è fatta alla Chiesa ed è essa che li dona 18. Il
fatto che anche il Codice (can. 857 § 2) parli della chiesa parrocchia-
le propria dei genitori come luogo del battesimo sta a richiedere che
il sacramento venga celebrato lì dove si riunisce la comunità di ap-
partenenza. La disposizione del canone non è giuridica nel senso più
restrittivo e vuoto; essa ha un’apertura pastorale di grande rilievo, in
linea con il principio che ogni dono del Signore passa attraverso una
comunità ben determinata e cresce se trova riferimento in una co-
munità precisa.
Un quarto argomento, sul quale articolare il dialogo tra genitori
e comunità, è quello riguardante la preparazione adeguata dei geni-
tori e dei padrini sui contenuti e sugli obblighi dei sacramenti. Tra i
diversi strumenti che si possono utilizzare, vengono suggeriti lezio-
ni, esortazioni pastorali, preghiera, incontri tra più famiglie e anche
incontri personali con il parroco (cf cann. 851, 2°; 867 § 1).
Il far leva sulla preparazione adeguata, sostenuta dalle relative
esemplificazioni, fa intuire quanto la Chiesa ci tenga a conferire i sa-
cramenti a persone che ne siano consapevoli, in modo che si viva
una celebrazione ampiamente partecipata, spiritualmente consape-
17
Cf A. CELEGHIN, I sacramenti dell’iniziazione cristiana, in AA.VV., La funzione di santificare della Chie-
sa (ed. Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico - XX Incontro di studio), Milano 1995, pp. 68-69.
18
Cf ibid., pp. 89-91; cf anche: ID., L’iniziazione cristiana nel CIC 1983, pp. 278 - 286.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 83
19
Cf Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, 320, pp. 190-191.
84 Adriano Celeghin
20
Si veda a questo proposito l’ultima parte del documento sopra citato: Pastoralis actio, nn. 30-31, pub-
blicato prima della promulgazione del CIC vigente, e la proposta di un vescovo del Togo, citata in nota,
a cui il documento sembra voler rispondere.
21
Cf Communicationes 3 (1972) 200; 6 (1974) 36; 13 (1981) 223-224.
22
In Communicationes 13 (1981) 215 si legge: «Ipse mallet ut prius sermo instituatur de infantium et
postea adultorum baptismo, contra eos qui baptismum procrastinare intendunt». A partire dalla constata-
zione dell’esistenza di quest’unico intervento ci pare un po’ forzata l’interpretazione proposta da
G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, cit., p. 138.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 85
questo dono non sia consapevolmente accolto e non porti i frutti che
da esso ci si deve aspettare 23. Nei due numeri del paragrafo di que-
sto canone il Legislatore sembra volersi muovere tra due estremi
identificabili nelle due espressioni riferite ai genitori: «consentano» e
«dandone ragione». Da una parte afferma l’illiceità del conferimento
del sacramento qualora non ci fosse il consenso dei genitori. All’altro
estremo espone invece la necessità di comunicare ai genitori i motivi
in base ai quali chi ha fatto un discernimento circa la fondata speran-
za della successiva educazione cattolica non ha trovato elementi a fa-
vore del conferimento del sacramento.
Pare evidente che il parroco, o chi per lui, sia tenuto a fare tale
valutazione e che per attuare tale servizio sia chiamato a considera-
re, con rispetto e comprensione, gli elementi che vengono offerti so-
prattutto dai genitori in occasione non solo del battesimo, ma anche
della confermazione (can. 890) e della prima confessione e comunio-
ne (can. 914).
La problematica suscitata ruota attorno all’espressione «dando-
ne ragione», la quale implica un serio discernimento che non può
non riguardare il contesto in cui il dono della fede e la grazia dei sa-
cramenti potrà crescere, che è quello della famiglia.
23
Cf ibid., pp. 27-32; rimandiamo anche ai nostri studi ricordati sopra in nota e ricordiamo pure un’al-
tra nostra pubblicazione: ID., Disposizioni per l’ammissione alla Cresima e itinerario mistagogico, in
Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991) 164-167.
86 Adriano Celeghin
24
Cf R. PAGANELLI, Educare alla fede nel postmoderno, in Settimana 9/14-15 (1995) 11.
25
C. ROCCHETTA, Iniziazione cristiana: chi ha il coraggio di cambiare?, in Settimana 9/26 (1995) 12. Si
veda anche: CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni ’90,
8 dicembre 1990, n. 6.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 87
Risiede in questo dato di fatto uno dei paradossi più incongruenti della no-
stra pastorale: un cammino di “iniziazione” della Chiesa che non “inizia” alla
Chiesa! Sarà già molto se una parte di questi “iniziati”, forse un 15%, andrà
alla messa la domenica!» 26.
26
L. cit.
27
GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, n. 36.
28
Cf Evangelizzazione e testimonianza della carità, nn. 8, 31; CEI, Il Vangelo della carità per una nuova
società in Italia, 19 dicembre 1994, n. 9.
88 Adriano Celeghin
29
Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 31.
30
S.M. CAMPANINI, Una Chiesa che si fa famiglia, in Presenza Pastorale 65 (1995) 736.
31
Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, n. 9.
32
Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 31.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 89
lore e la quasi totalità dei genitori vivevano i valori cristiani che, a lo-
ro volta, proponevano ai figli. Riferimenti precisi sono i segni della
partecipazione alla messa domenicale e dell’inserimento della fami-
glia nella vita della comunità.
Nel periodo postbellico si inizia a mettere in crisi la cultura pre-
cedente, il cui apice può essere individuato alla fine degli anni ’60 e
ci si avvia verso l’affermazione del pensiero debole. I genitori di que-
sto periodo sono quelli che continuano a proporre ai figli (e preten-
dere per loro) i sacramenti, il catechismo e anche, in un certo modo,
la vita ecclesiale. Questi dati però non coincidono più con un profon-
dissimo radicamento ai valori cristiani; derivano piuttosto da una de-
cisione di opportunità nel continuare gesti ed esperienze (considera-
ti non dannosi) che quegli stessi genitori avevano vissuto. La ragio-
ne non sta nel dire: «Scelgo per i miei figli cose che sono importanti
anche per me», ma: «Faccio fare ai miei figli quanto i miei genitori
hanno fatto fare a me». Mentre viene a vacillare il riferimento ai valo-
ri, sembra tenere ancora il riferimento alle esperienze: ricevere i sa-
cramenti e, per un certo tempo, partecipare alla messa e alla vita del-
la comunità (con caratteristiche che talora sono dettate dalla menta-
lità consumistica: accolgo le opportunità che la comunità cristiana
mi offre, senza volermi pienamente responsabilizzare e soltanto fino
a quando non trovi alternative). Questi genitori non riescono comun-
que a far continuare l’esperienza di vita cristiana (per esempio mes-
sa e vita di comunità) oltre un certo tempo che, normalmente, coin-
cide con il conferimento della cresima.
I genitori di oggi si presentano come un risultato del passaggio
precedente. Sono i figli del “pensiero debole”, ancora legati però a
determinati adempimenti. Hanno ancora un riferimento alla prassi di
“dare” i sacramenti ai propri figli, senza fare grandi pressioni sull’im-
pegno religioso e senza proporre questo aspetto con convinzione e
come importante per i propri figli.
I vescovi italiani rilevano questa situazione già nel 1969 quando,
tra le altre cose, scrivono:
«Mai come oggi i genitori devono procedere nella loro opera educativa con
pazienza e fiducia. Mai come oggi devono essere preoccupati dell’esempio
che offrono ai figli, in particolare nella vita morale e religiosa. Vanno racco-
mandate quelle iniziative che possono aiutare i genitori a compiere il loro
dovere di educatori» 33.
33
CEI, Matrimonio e famiglia oggi in Italia, 15 novembre 1969, n. 13.
90 Adriano Celeghin
È vero che i vescovi dicono pure che «non mancano aspetti po-
sitivi quali: [...] una accresciuta consapevolezza delle responsabilità
proprie dei genitori nel procreare e nell’educare i figli» 35, ma nella vi-
sione globale sembrano sottolineare l’aggravamento degli aspetti ne-
gativi.
I genitori di questo tempo fanno “fare i sacramenti” (battesimo,
prima confessione e prima comunione), ma non hanno alcuna deter-
minazione per una scelta religiosa e, appena i figli mostrano di non
avere più alcun interesse in questo campo, lasciano correre ogni im-
pegno. La verifica sta nel fatto che un certo numero di ragazzi, pur
avendo ricevuto il battesimo, ed essendosi accostati anche alla prima
comunione, non ricevono più la cresima, perché “si stancano” prima.
Quanto guida questo rapporto con la fede e la comunità è segnato
spesso dall’indifferenza: l’assenza di un giudizio di valore sull’espe-
rienza cristiana non può comunicare forti contenuti e ingenera un’as-
senza di capacità di scegliere.
Questi figli, quando diventeranno a loro volta genitori, davanti
all’assenza di una proposta precisa e chiaramente testimoniata in cui
si sono trovati a vivere, con fatica potranno avere nei sacramenti del-
l’iniziazione cristiana un preciso riferimento per la vita dei propri fi-
gli. Se continueranno a chiederli per i loro figli saranno tentati di li-
mitarsi al battesimo (le altre “tappe” corrono il rischio di essere trop-
po impegnative per i genitori), a meno che i bambini non facciano
forza per partecipare con gli amici ad alcune esperienze della comu-
nità cristiana, e quando insistono, forse, non è per documentate ra-
gioni di fede, ma spesso per avere una possibilità in più per rompere
34
Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, n. 6.
35
Ibid., n. 5.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 91
zione alla vita divina: per sé, il dono di questi beni non deve essere differito
ai bambini.
2) Devono essere prese delle garanzie perché tale dono possa svilupparsi
mediante una vera educazione nella fede e nella vita cristiana, sicché il sa-
cramento possa raggiungere pienamente la sua “realtà”. Di solito esse sono
date dai genitori o dai parenti stretti, benché possano essere supplite in di-
verso modo nella comunità cristiana. Ma se tali garanzie non sono veramen-
te serie, si potrà essere indotti a differire il sacramento, o addirittura a rifiu-
tarlo, qualora siano certamente inesistenti» (n. 28).
36
Pastoralis actio, n. 25.
37
L. cit.
94 Adriano Celeghin
38
Cf I. GORDON, De iudiciis in genere, II. Pars dynamica, Roma 1972, pp. 99-101.
39
Si vedano a questo proposito i canoni relativi all’istruzione catechetica (cann. 773-780) e il canone
843 introduttivo alle diposizioni relative ai singoli sacramenti.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 95
40
Opinione diversa sembra essere espressa da G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, cit., p. 138
96 Adriano Celeghin
Quali conclusioni?
È necessario che chiunque conferisce un sacramento senta la re-
sponsabilità di valutare le condizioni che favoriscono lo sviluppo della
vocazione cristiana e della grazia conferita dal sacramento stesso.
Allo stesso modo è indispensabile che chi chiede un sacramen-
to, per sé o per altri, se non immediatamente almeno dopo i primi
contatti si mostri disponibile a lasciarsi aiutare a capire sempre di
più il senso del sacramento e a diventare maggiormente consapevole
degli impegni che ne derivano per viverli.
Nel rapporto tra queste due indicazioni deve articolarsi tutta l’a-
zione pastorale.
Da una parte è necessario ricordare ai presbiteri che ogni richie-
sta va valutata; che il presbitero non deve sentirsi costretto ad ammi-
nistrare comunque i sacramenti, ma è invitato a farlo responsabilmen-
te. Questo richiede che i preti, dopo aver trattato la questione nelle ri-
spettive comunità, affrontino il problema tra di loro, ne mettano in
luce i diversi aspetti e individuino anche alcune linee per una azione
pastorale comune, verificando pure i risultati dell’impostazione finora
tenuta. Questo può essere attuato attraverso varie modalità che coin-
volgono tutte le componenti ecclesiali, per esempio incontri del pre-
sbiterio, Consigli pastorali parrocchiali, decanali e diocesani ecc., fino
all’espressione più qualificata che è quella del Sinodo diocesano.
Il Codice, a questo proposito, chiama in causa il diritto partico-
lare, che, se non andiamo errati, fino a oggi è stato applicato solo in
poche diocesi. Abbiamo preso in considerazione le disposizioni date
nella Diocesi di Milano, che ci sembrano essere le ultime emanate.
Dalla lettura ci è però parso di constatare che si sia fatta la scelta di
ripetere sotanzialmente quanto disposto in modo generale dal cano-
ne del CIC 41.
41
Cf DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, 1° febbraio 1995, n. 104. Riportiamo il testo:
«104. L’ eventuale differimento del battesimo
§ 1. Se ogni prospettiva di educazione cristiana appare esclusa, il battesimo non può essere celebrato e
va quindi differito. Tuttavia, prima di rimandare il sacramento, si aiutino i genitori a comprendere l’in-
coerenza della loro richiesta; inoltre, nelle forme più opportune si avviino contatti pastorali capaci di
portare in futuro alla domanda del battesimo.
§ 2. Si prevedano forme di aiuto e accompagnamento anche per quei genitori che, in contrasto con la
disciplina ecclesiastica attuale, intendessero differire il battesimo dei loro figli. Si ascoltino le loro moti-
vazioni per poterli seguire ulteriormente nell’azione pastorale».
Questa disposizione sostanzialmente non aggiunge nulla a quanto afferma il can. 868 § 1, 2°, e non en-
tra ancora in merito alle forme di aiuto e di accompagnamento. A nostro avviso, per fornire indicazioni
che aiutino gli operatori di pastorale in maniera precisa e uniforme su tutta questa grave questione, sa-
rebbe necessario provvedere alla stesura di un Direttorio. A nostro parere non sarebbe fuori luogo che
questo lavoro venisse enunciato già nell’articolo del Sinodo Diocesano che tratta di questo argomento.
102 Adriano Celeghin
ADRIANO CELEGHIN
Viale S. Marco, 80D
30173 Mestre (Venezia)
103
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 103 -108
Gli istituti secolari:
una vocazione per i nostri giorni
di Emilio Tresalti
I) Gli istituti secolari (IS) sono una forma di vita consacrata che
si rapporta in modo tutto peculiare con il mondo 1.
Gli IS (laicali) possono dare un contributo importante e specifi-
co alla evangelizzazione 2.
Essi offrono alla Chiesa tutta e ai suoi Pastori dei cristiani laici,
che assumono la radicalità evangelica mediante i consigli evangelici
vissuti attraverso l’impegno per tutta la vita dei voti.
Gli IS non agiscono come tali attraverso proprie opere ma piut-
tosto mettono i loro membri a disposizione del Vangelo 3.
La caratteristica dei membri degli IS è di realizzare una sintesi
vitale di secolarità e consacrazione.
Per la natura stessa della nostra vocazione siamo ben consapevo-
li del sorgere di nuovi valori e culture nei quali la vita consacrata deve
essere messa a frutto, collocandosi essa nel contesto della nuova e-
vangelizzazione del mondo contemporaneo. Riteniamo che la nostra
forma di vita possa dare un contributo specifico all’evangelizzazione
delle culture e, nello stesso tempo, all’inculturazione del Vangelo.
Vorrei qui mettere in evidenza alcuni aspetti che riguardano in
modo particolare gli IS.
1
Cf cann. 710-714.
2
In tutto l’articolo avrò presenti soltanto gli IS laicali; ritengo infatti che il discorso relativo a quelli cle-
ricali e misti vada diversamente articolato.
3
«Essi devono ascoltare, come rivolto soprattutto a loro, l’appello dell’Esortazione apostolica Evangelii
nunziandi: “Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politi-
ca, della realtà sociale, dell’economia, così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita interna-
zionale, degli strumenti della comunicazione sociale” (n. 70). Ciò non significa evidentemente che gli isti-
tuti secolari in quanto tali debbano assumere questi compiti. Ciò spetta normalmente a ciascuno dei loro
membri. Dovere degli istituti stessi è quindi formare la coscienza dei loro membri ad una maturità». PAO-
LO VI, Ai Responsabili Generali degli IS, 25 agosto 1976, in Gli Istituti Secolari - Documenti, CMIS, Ro-
6
ma 1990 , p. 38.
104 Emilio Tresalti
4
Cf CARD. B. HUME, Relatio ante disceptationem, 4a, Sinodo dei Vescovi, IX Assemblea Generale, 2-29
ottobre 1994.
5
LG 31.
Gli istituti secolari: una vocazione per i nostri giorni 105
6
«Il concilio esorta i cristiani, che sono cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fe-
delmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sa-
pendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di
106 Emilio Tresalti
poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga
ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno. Al contrario, però, non sono meno in erro-
re coloro che pensano di potersi immergere talmente negli affari della terra, come se questi fossero
estranei del tutto alla vita religiosa, la quale, consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di cul-
to e in alcuni doveri morali. Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita
quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo. Contro questo scandalo già nell’Anti-
co Testamento elevavano con veemenza i loro rimproveri i profeti, e ancora di più Gesù Cristo stesso,
nel Nuovo Testamento, minacciava gravi pene. Non si venga a opporre, perciò, artificiosamente, le atti-
vità professionali e sociali da una parte e la vita religiosa dall’altra. Il cristiano che trascura i suoi doveri
verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna. Siano contenti
piuttosto i cristiani, seguendo l’esempio di Cristo, che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro at-
tività unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale
insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio. Ai lai-
ci spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando es-
si, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno
le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi.
Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze
della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e le realizzino.
Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della
città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettano luce e forza spirituale» (GS 43).
7
PAOLO VI, Nel XXX Anniversario della Provvida Mater, in Gli Istituti Secolari - Documenti, CMIS, Ro-
6
ma 1990 , p. 40.
Gli istituti secolari: una vocazione per i nostri giorni 107
8
G. LAZZATI, De natura vinculi sacri in Institutis non-religiosis, in Periodica de Re Morali, Canonica, Li-
turgica 67 (1978) 489-497.
108 Emilio Tresalti
1
P. URSO, La struttura interna delle Chiese particolari, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa. II. Il
popolo di Dio. Stati e funzioni del popolo di Dio. Chiesa particolare e Chiesa universale. La funzione di in-
2
segnare, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Roma 1990 , p. 426. I compiti del Consi-
glio per gli affari economici della diocesi vengono descritti alle pp. 426-428; quelli del Collegio dei Con-
sultori alle pp. 438-439. Un’analoga descrizione viene fornita da M. MARCHESI, I consigli diocesani, in
AA.VV., Chiesa particolare, Bologna 1985, alle pp. 135-137 per il Collegio dei Consultori, e alle pp. 147-148,
per il Consiglio per gli affari economici. Si noti per inciso che quest’ultimo autore auspica, almeno per il
Collegio dei Consultori, l’esistenza di un regolamento («Sia la modalità di designazione, sia il modo con
cui il Collegio esprime l’aiuto vengono lasciati al Vescovo, in quanto la legge non offre disposizioni tassa-
tive. Anche per le modalità di aiuto è bene che siano determinate in un regolamento, per evitare che sia-
no lasciate alla diplomazia o al capriccio di una persona o alla situazione del momento»: p. 135).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 111
Un commento ai testi
La lettura dei due regolamenti, riportati al temine di questo arti-
colo, non dovrebbe suscitare particolari difficoltà. Come si può nota-
re a un primo approccio, volutamente si è tenuta una struttura paral-
lela tra i due diversi documenti, struttura a cui ci si riferisce in que-
sto commento.
2
Cf DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, Centro Ambrosiano, Milano 1995, pp. 750.
3
I testi dei regolamenti, statuti, direttori dei diversi organismi di partecipazione della diocesi di Mila-
no (a partire dal livello parrocchiale) erano stati raccolti, con una significativa introduzione del cardina-
le Martini, in un volumetto dal titolo molto esplicito: Consigliare nella Chiesa. Norme per gli organismi
di partecipazione della diocesi di Milano, Centro Ambrosiano di documentazione e studi religiosi, Mila-
no 1991, pp. 134.
112 Carlo Redaelli
* Il titolo
Perché regolamento e non statuto? Facendo riferimento al Co-
dice di diritto canonico si scopre che il Titolo V del Libro I distingue,
nella traduzione italiana, tra statuti e regolamenti. I primi, come spe-
cifica il can. 94 § 1, se intesi
«in senso proprio, sono regolamenti [ordinationes] che vengono composti a
norma del diritto negli insiemi sia di persone sia di cose, e per mezzo dei
quali sono definiti il fine dei medesimi, la loro costituzione, il governo e i
modi di agire».
4
Per il riferimento del termine statuto in senso proprio alle persone giuridiche o, al più, anche alle as-
sociazioni prive di personalità giuridica, cf Communicationes 14 (1982) 138-139.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 113
1. Natura e finalità
I due regolamenti riprendono per i rispettivi organismi la cita-
zione letterale del Sinodo diocesano 47°. Due sono gli elementi che
meritano attenzione nei testi sinodali qui ripresi. Anzitutto il tentati-
vo di differenziare la natura dei due organismi, quando intervengo-
no in parallelo con riferimento all’amministrazione dei beni della dio-
cesi: il Collegio dei Consultori deve operare «con particolare atten-
zione alle finalità pastorali dei beni ecclesiastici»; il Consiglio per gli
affari economici «con particolare riguardo ai profili tecnici, soprat-
tutto giuridici ed economici». Si noti che le espressioni «con partico-
lare attenzione» e «con particolare riguardo» intendono affermare la
non esclusività dei due profili specifici: il Collegio non deve trascura-
re gli aspetti economici, né il Consiglio quelli pastorali. Il Codice non
precisa questa duplicità di punti di vista, ma i lavori di riforma che
hanno portato all’attuale testo legislativo la fanno intendere, soprat-
tutto quando affermano con chiarezza che il Collegio dei Consultori
è un organismo inventato solo perché non è agevole convocare con
frequenza il Consiglio presbiterale e anche perché un gruppo ristret-
to permette una più facile espressione di pareri 5.
5
Cf Communicationes 5 (1973) 230; 14 (1982) 218.
114 Carlo Redaelli
2. Compiti
Questa parte dei due regolamenti descrive i compiti del Colle-
gio e del Consiglio, cercando di delinearli in modo organico e com-
pleto. Per il Collegio dei Consultori si danno tre grandi ambiti: com-
piti in sede impedita o vacante (art. 3); compiti in materia ammini-
strativa, distinguendo per i casi in cui è richiesto il consenso e quelli
in cui è sufficiente il parere (art. 4); compiti in rappresentanza del
Consiglio presbiterale (art. 5). Per il Consiglio per gli affari econo-
mici si distinguono quattro ambiti: compiti generali di indirizzo, so-
prattutto di carattere normativo (art. 3); espressione del consenso
(art. 4); espressione del parere (art. 5); compiti di indirizzo e di
coordinamento in riferimento ai cosiddetti enti centrali della diocesi
(art. 6). Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo punto. Come è no-
to, in tutte o quasi le diocesi italiane, accanto all’ente diocesi, nato
dalla riforma concordataria, esistono altri enti – denominati “opera
diocesana”..., “fondazione”..., “opera pia”... ecc. – che, per usare un’e-
spressione del Sinodo di Milano ripresa nel regolamento del Consi-
glio per gli affari economici, «perseguono finalità generali di carattere
diocesano, qualunque sia la loro configurazione giuridica» (art. 6).
Essi, quindi, si distinguono solo formalmente dall’ente diocesi, ma
possono essere considerati come costituenti il grande soggetto dioce-
si e, con i loro beni, l’unico patrimonio della diocesi 6. Pare corretto e
opportuno che questi diversi enti, pur conservando la loro autono-
mia e i compiti e le responsabilità proprie dei loro amministratori,
siano coordinati dal vescovo sulla base delle indicazioni del Consi-
glio per gli affari economici. È opportuno che ciò avvenga sia quan-
do tali enti sono inseriti nell’ordinamento canonico, come persone
giuridiche pubbliche soggette al vescovo e, quindi, per quanto di
competenza, al Consiglio (e al Collegio); sia quando formalmente
possiedono un’altra configurazione giuridica (per esempio fondazio-
ne civile). Anche in questo caso, infatti, gli amministratori dell’ente
devono essere consapevoli che il loro ente è, per così dire, solo fidu-
ciariamente intestatario di beni e di attività della diocesi: devono per-
tanto attenersi alle indicazioni del vescovo e del suo Consiglio 7.
6
Cf CEI, Istruzione in materia amministrativa, nn. 76-77.
7
Cf su questo tema: C. REDAELLI, Patrimonio degli enti che fanno parte della diocesi e loro attività, in
L’Amico del Clero 75 (1993) 113-127.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 115
4. Presidente e segretario
La situazione specifica di Milano ha suggerito di prevedere co-
me situazione normale la non presenza del vescovo nei due organi-
smi. Essi sono, pertanto, presieduti, rispettivamente, il Collegio dei
Consultori da un vicario episcopale per mandato speciale, e il Consi-
glio per gli affari economici, dal moderator Curiae (che nella diocesi
di Milano è il secondo vicario generale detto pro vicario generale),
116 Carlo Redaelli
come delegato del vescovo (n.b.: essendo prevista dal can. 492 § 1 la
possibilità di presidenza di un delegato, non è richiesto un mandato
speciale, a norma del can. 134 § 3).
5. Sessioni
Gli articoli dei due regolamenti dedicati allo svolgimento delle
sessioni sono particolarmente interessanti in due punti. Anzitutto
dove prevedono la successione nell’esame delle pratiche comuni: dal
momento che il Collegio deve dare un parere pastorale, viene stabili-
to che si parta da questo organismo. Qualora, infatti, una pratica non
fosse pastoralmente opportuna, non è necessario approfondirla da
un punto di vista tecnico o economico. Se, al contrario, un’operazio-
ne è pastoralmente utile o persino necessaria, i criteri economici, nei
limiti del possibile, non devono diventare determinanti in vista del-
l’autorizzazione.
8
Cf risposta del 5 luglio 1985 (riportata in EV 9, n. 1661).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 117
7. Procedura d’urgenza
Si tratta di un problema che può ricorrere in medie e grandi
diocesi, quando, nonostante una regolare e intensa frequenza delle
sessioni del Consiglio e del Collegio, possono capitare delle pratiche
118 Carlo Redaelli
CARLO REDAELLI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
I. Natura e finalità
Articolo 1
«Il Collegio dei Consultori [CoCo], formato da presbiteri scelti dal-
l’Arcivescovo tra i membri del Consiglio presbiterale, ha il compito di coa-
diuvare l’Arcivescovo nell’amministrazione dei beni della diocesi e delle
persone giuridiche a lui soggette, con particolare attenzione alle finalità pa-
storali dei beni ecclesiastici. Altre funzioni, oltre a quelle specificamente
previste dal Codice di diritto canonico in caso di sede vacante o impedita,
possono essere delegate al Collegio dei Consultori dal Consiglio presbite-
rale, secondo le modalità stabilite nel proprio statuto, o attribuite dall’Arci-
vescovo allo stesso Collegio» (Sinodo 47°, cost. 177 § 1).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 119
Articolo 2
Le norme relative alla sua natura, ai suoi compiti e al suo funziona-
mento sono stabilite dal Codice di diritto canonico, dalle delibere applicati-
ve della CEI in materia amministrativa, dal Sinodo diocesano 47° e dal pre-
sente Regolamento.
II. Compiti
Articolo 3
Il CoCo esercita funzioni di reggenza della diocesi in caso di sede im-
pedita o di sede vacante:
a) in sede impedita:
elegge il sacerdote che deve governare la diocesi, qualora non ci sia il Ve-
scovo coadiutore o sia a sua volta impedito e non sia stato indicato un reg-
gente dal Vescovo stesso, a norma del can. 413 § 1 (can. 413 § 2);
b) in sede vacante:
1. in mancanza del Vescovo ausiliare, informa la Santa Sede della morte del
Vescovo (can. 422);
2. in mancanza del Vescovo ausiliare o di uno specifico intervento della
Santa Sede, regge la diocesi fino alla costituzione dell’Amministratore
diocesano (can. 419);
3. entro otto giorni da quando si è ricevuta notizia che la sede vescovile è
vacante, elegge l’Amministratore diocesano (can. 421 § 1);
4. assiste alla professione di fede dell’Amministratore diocesano (can. 833,
4°);
5. svolge i compiti propri del Consiglio presbiterale, che decade in sede va-
cante, fino alla costituzione del nuovo Consiglio entro un anno dalla pre-
sa di possesso del nuovo Vescovo (can. 501 § 2);
6. esprime il proprio consenso all’Amministratore diocesano in relazione a
tre circostanze:
– la concessione dell’escardinazione, dell’incardinazione e della licenza
di trasferirsi in altra Chiesa particolare, dopo un anno di sede vacante
(can. 272);
– la rimozione dall’ufficio del Cancelliere o di altri notai di Curia (can.
485);
– la concessione delle lettere dimissorie (can. 1018 § 1, 2°);
7. viene sentito in alcuni suoi membri dal Legato pontificio in occasione
della nomina del nuovo Vescovo diocesano o del Vescovo coadiutore
(can. 377 § 3);
8. assiste alla presa di possesso del nuovo Vescovo (can. 382 § 3; cf can.
404 per la presa di possesso del Vescovo coadiutore e ausiliare).
120 Carlo Redaelli
Articolo 4
Il CoCo coadiuva l’Arcivescovo nell’amministrazione dei beni della
diocesi e delle persone giuridiche a lui soggette:
a) esprimendo il proprio consenso circa:
1. gli atti di amministrazione straordinaria posti dall’Arcivescovo in qualità
di amministratore della diocesi o di altri enti diocesani, così come indivi-
duati dalla CEI (can. 1277; delibera CEI n. 37);
2. gli atti di alienazione di beni ecclesiastici di valore superiore alla somma
minima fissata dalla CEI (delibera n. 20: lire 300 milioni) oppure di “ex
voto” e di oggetti di valore artistico e storico (can. 1292);
3. la stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti all’Arci-
diocesi o ad altra persona giuridica amministrata dal Vescovo diocesano,
di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20, eccet-
to il caso che il locatario sia un ente ecclesiastico (can. 1297; delibera
CEI n. 38);
b) esprimendo il proprio parere circa:
1. le scelte di maggior rilievo, nell’ambito dell’amministrazione dei beni del-
la Chiesa diocesana, sia di carattere generale (per esempio sulle modalità
di investimento delle somme appartenenti agli enti ecclesiastici), sia per
casi singoli (per esempio la destinazione di un immobile di particolare va-
lore di proprietà di un ente centrale della diocesi) (can. 1277);
2. la nomina e la rimozione dell’Economo della diocesi (can. 494 §§ 1 e 2);
3. l’utilizzo del “fondo comune diocesano” a favore prevalentemente delle
parrocchie in particolari difficoltà (cost. 328);
4. ogni altra questione su cui l’Arcivescovo ritiene opportuno sentire il Col-
legio.
Articolo 5
Il CoCo, in rappresentanza del Consiglio presbiterale e su mandato
dello stesso, è chiamato a esprimere all’Arcivescovo il proprio parere circa:
a) l’erezione, la soppressione e la modifica delle parrocchie (can. 515 § 2);
b)la costruzione di una nuova chiesa (can. 1215 § 2);
c) la riduzione a uso profano di una chiesa (can. 1222 § 2);
d)le determinazioni per la diocesi di Milano della normativa relativa al so-
stentamento del clero (ammontare della quota a carico degli enti, con-
cessione di riduzioni, modalità di attribuzione dei punti aggiuntivi ecc.);
e) ogni altra questione di competenza del Consiglio presbiterale e dallo
stesso delegata, a norma del proprio statuto, al Collegio.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 121
Articolo 6
«Il Collegio dei Consultori della nostra diocesi è composto da dodici
presbiteri, scelti dall’Arcivescovo tra i membri del Consiglio presbiterale in
carica, cosicché tutte le zone pastorali e i principali settori pastorali della
diocesi vi siano rappresentati» (cost. 177 § 2).
Articolo 7
Il Collegio dura in carica cinque anni, tuttavia al termine del quin-
quennio continua a esercitare le sue funzioni fino alla costituzione del nuo-
vo CoCo (can. 502 § 1).
Durante il mandato i componenti del Collegio restano in carica anche
se cessano di essere membri del Consiglio presbiterale. Qualora nel corso
del quinquennio si rendesse necessario sostituire uno o più Consultori, i
nuovi membri dureranno in carica fino al termine del mandato dell’intero
Collegio.
Articolo 8
I Consultori hanno l’obbligo di presenziare alle sessioni. In caso di
tre assenze ingiustificate consecutive, il Consultore decade dal mandato.
La partecipazione al Collegio è a titolo gratuito, salvo il rimborso per
le spese di viaggio.
Articolo 9
Il CoCo «è presieduto dall’Arcivescovo o, per mandato speciale, da un
Vicario» (cost. 177 § 2; cf can. 502 § 2). Il Vicario partecipa alle riunioni in
rappresentanza dell’Arcivescovo e si astiene dalle votazioni.
Qualora l’Arcivescovo partecipi alle sedute del CoCo, ne assume an-
che la presidenza.
In caso di sede vacante o impedita, la presidenza spetta a chi sostitui-
sce interinalmente l’Arcivescovo o, in sua mancanza, al sacerdote del Col-
legio più anziano di ordinazione (can. 502 § 2).
122 Carlo Redaelli
Articolo 10
Spetta al Presidente, in particolare: convocare il Collegio, moderare
le sedute, sottoporre all’Arcivescovo i pareri e le delibere, mantenere i rap-
porti con altri organismi diocesani, in particolare con il Consiglio episcopa-
le, il Consiglio presbiterale, il Consiglio per gli affari economici diocesano
(CAED) e gli Uffici di Curia.
Articolo 11
Il Segretario è nominato dall’Arcivescovo, anche al di fuori dei mem-
bri del CoCo, e svolge la stessa funzione presso il CAED, «al fine di garan-
tire un efficace coordinamento tra il Collegio dei Consultori e il Consiglio
per gli affari economici della diocesi» (cost. 179 § 1). Egli dura in carica
per cinque anni e il suo mandato può essere rinnovato anche più volte.
Spetta in particolare al Segretario, o a un collaboratore da lui incari-
cato: redigere il verbale delle sedute, curare l’archivio del Collegio, prepa-
rare il materiale relativo alle diverse pratiche in accordo con i competenti
Uffici di Curia e trasmettere agli stessi le delibere dopo l’approvazione del-
l’Arcivescovo.
V. Sessioni
Articolo 12
Il CoCo si raduna normalmente ogni due settimane per esaminare le
pratiche di sua competenza. Alcune sessioni possono essere dedicate allo
studio di tematiche particolari.
Convocazioni straordinarie, o in seduta congiunta con il CAED, pos-
sono essere richieste dall’Arcivescovo, dal Presidente o da almeno sette
Consultori.
Articolo 13
Il Presidente può invitare a partecipare al CoCo, senza diritto di voto,
le persone la cui presenza riterrà utile ai fini della sessione, in particolare i
Responsabili degli Uffici di Curia interessati dalle materie in discussione.
Articolo 14
Entro i tre giorni precedenti la sessione, il Segretario trasmette ai
Consultori l’ordine del giorno, firmato dal Presidente, e mette a disposizio-
ne presso la propria sede la documentazione relativa alle pratiche da esa-
minare.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 123
Articolo 15
Le singole questioni vengono illustrate dal Presidente, o, su suo inca-
rico, dal Segretario o dal Responsabile dell’Ufficio competente.
Articolo 16
Nel caso di pratiche di competenza anche del CAED, esse verranno
«di norma esaminate previamente dal Collegio dei Consultori, al fine di e-
sperire anzitutto una valutazione più direttamente pastorale» (cost. 179 § 2).
A tale scopo il CoCo dovrà mantenersi «in costante rapporto con i Vi-
cari episcopali di zona ed eventualmente con i Responsabili degli enti, an-
che tramite il componente del Collegio scelto dall’Arcivescovo come colle-
gamento con la zona o il settore interessati» (cost. 177 § 3).
Articolo 17
Quando il Collegio è chiamato a offrire un parere o a dare il consenso
circa una determinata questione, i Consultori devono pronunciarsi formal-
mente tramite voto, su invito del Presidente.
Il voto viene normalmente espresso a voce o per alzata di mano. Su ri-
chiesta dell’Arcivescovo o del Presidente o su istanza di almeno cinque
Consultori, il voto deve essere dato in forma segreta.
La deliberazione è approvata se, presenti la maggioranza assoluta dei
Consultori, ha ricevuto il voto favorevole della maggioranza assoluta dei
presenti. In caso di parità di voti, il consenso (cf art. 4) del CoCo si ritiene
non dato, il parere (cf artt. 4 e 5), invece, viene trasmesso all’Arcivescovo
con le motivazioni dei diversi orientamenti.
È diritto di ogni Consultore richiedere che venga messa a verbale, e
possa così essere conosciuta dall’Arcivescovo, la propria opposizione moti-
vata o qualunque altra osservazione.
Ciascun Consultore «non può intervenire alla discussione e parteci-
pare al voto quando si tratti di questioni relative a enti presso i quali svolge
funzioni di responsabilità amministrativa» (cost. 354).
Articolo 18
I Consultori e i partecipanti al CoCo sono tenuti al riserbo sulle que-
stioni discusse. Sono vincolati anche al segreto sull’espressione del voto e
sulle questioni trattate, quando è richiesto dal presidente (can. 127 § 3).
124 Carlo Redaelli
Articolo 19
Il verbale delle sessioni, redatto dal Segretario, viene presentato al-
l’Arcivescovo dal Presidente.
Tuttavia le pratiche di competenza anche del CAED, che hanno otte-
nuto l’approvazione del CoCo, non vengono sottoposte direttamente all’Ar-
civescovo, ma vengono trasmesse dal Presidente del Collegio al Presiden-
te del CAED. Spetta a quest’ultimo la presentazione all’Arcivescovo in un
unico verbale delle pratiche approvate dai due organismi.
Articolo 20
Qualora esistano ragioni d’urgenza per deliberare su una pratica di
competenza del CoCo e non sia possibile attendere la riunione program-
mata del Collegio, si può ricorrere a una procedura speciale.
Sarà sufficiente, in questo caso, per l’approvazione della pratica il be-
nestare del Presidente o, in sua assenza, quello di due Consultori.
Nella seduta successiva, il Presidente o uno dei Consultori firmatari
della delibera d’urgenza, illustrerà al CoCo la pratica in questione, motivan-
do la decisione presa con carattere d’urgenza.
I. Natura e finalità
Articolo 1
«Il Consiglio per gli affari economici della diocesi [CAED] è l’organi-
smo che coadiuva l’Arcivescovo nell’amministrazione dei beni della diocesi
e delle persone giuridiche a lui soggette, con particolare riguardo ai profili
tecnici, soprattutto giuridici ed economici» (Sinodo diocesano 47°, cost.
178 § 1).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 125
Articolo 2
Le norme relative alla sua natura, ai suoi compiti e al suo funziona-
mento sono stabilite dal Codice di diritto canonico, dalle delibere applicati-
ve della CEI in materia amministrativa, dal Sinodo diocesano 47° e dal pre-
sente Regolamento.
II. Compiti
Articolo 3
Il CAED esercita funzioni di indirizzo per l’amministrazione dei beni
della Chiesa diocesana, offrendo all’Arcivescovo pareri circa:
a) l’elaborazione della normativa diocesana sui beni (cann. 1276 § 2; 1277),
in particolare nell’individuare gli atti di amministrazione straordinaria
posti dagli enti soggetti all’Arcivescovo (can. 1281 § 2) e nello stabilire
la misura e le modalità del tributo ordinario (can. 1263);
b) le scelte di maggior rilievo, sia di carattere generale (per esempio sulle
modalità di investimento delle somme appartenenti agli enti ecclesiastici),
sia per casi singoli (per esempio la destinazione di un immobile di partico-
lare valore di proprietà di un ente centrale della diocesi) (can. 1277).
Articolo 4
Il CAED esprime all’Arcivescovo il proprio consenso circa:
a) gli atti di amministrazione straordinaria posti dall’Arcivescovo, così co-
me individuati dalla CEI (can. 1277; delibera CEI n. 37);
b) gli atti di alienazione di beni ecclesiastici di valore superiore alla somma
minima fissata dalla CEI (delibera n. 20: lire 300 milioni) oppure di “ex
voto” e di oggetti di valore artistico e storico (can. 1292);
c) la stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti alla Ar-
cidiocesi o ad altra persona giuridica amministrata dal Vescovo diocesa-
no, di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20,
eccetto il caso che il locatario sia un ente ecclesiastico (can. 1297; deli-
bera CEI n. 38).
Articolo 5
Il CAED esprime all’Arcivescovo il proprio parere circa:
a) gli atti di amministrazione straordinaria, posti dagli enti diocesani, per i
quali è richiesto il nulla osta dell’Ordinario (can. 1281 § 1; cost. 338 § 1;
decr. arc. 30 novembre 1990, prot. gen. 2283/90) nei termini previsti dal-
la normativa diocesana;
126 Carlo Redaelli
Articolo 6
«Nell’esercitare le sue funzioni di controllo e vigilanza sull’ente Arci-
diocesi di Milano e sugli altri enti centrali, il Consiglio avrà cura di verifica-
re gli indirizzi delle loro attività anche al fine di assicurarne il necessario
coordinamento» (cost. 179 § 5).
In particolare:
a) definisce le modalità a cui l’Economo della diocesi e gli Amministratori
degli enti centrali della diocesi («ovvero degli enti che perseguono fina-
lità generali di carattere diocesano, qualunque sia la loro configurazione
giuridica»: cost. 178 § 3) devono attenersi nell’adempimento del loro
compito e ne verifica l’esecuzione (can. 494 § 3);
b) ogni anno, entro il mese di aprile, cura che venga predisposto il bilancio
preventivo dell’Arcidiocesi e dei singoli enti centrali e ne approva il bi-
lancio consuntivo (cann. 493 e 494 § 4);
c) su proposta del Moderator Curiae, delibera l’assunzione e il trattamento
economico del personale laico della Curia, secondo il Regolamento della
stessa.
Articolo 7
«Il Consiglio per gli affari economici è composto da membri scelti dal-
l’Arcivescovo in ragione delle loro specifiche competenze» (cost. 178 § 2),
nel numero minimo di cinque e massimo di nove consiglieri. «Essi siano
preferibilmente laici a norma della costituzione 355» (ibidem).
I membri del CAED devono avere i requisiti di cui al can. 492. «La ca-
rica di consigliere del Consiglio per gli affari economici è di norma incom-
patibile con quella di membro dei consigli di amministrazione degli enti
centrali della diocesi» (cost. 178 § 3).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 127
Articolo 8
«Il Consiglio dura in carica cinque anni» (cost. 178 § 4; can. 492 § 2),
tuttavia al termine del quinquennio continua a esercitare le sue funzioni fi-
no alla costituzione del nuovo CAED. Il mandato dei consiglieri può essere
rinnovato più volte (can. 492 § 2).
Qualora nel corso del quinquennio si rendesse necessario integrare il
numero o sostituire uno o più consiglieri, i nuovi membri dureranno in ca-
rica fino al termine del mandato dell’intero Consiglio.
Articolo 9
Al momento dell’accettazione della nomina, i Consiglieri garantisco-
no con giuramento davanti all’Ordinario di svolgere onestamente e fedel-
mente il proprio incarico (can. 1283, 1°).
I Consiglieri hanno l’obbligo di presenziare alle sessioni. In caso di
tre assenze ingiustificate consecutive, il Consigliere decade dal mandato.
I Consiglieri hanno diritto al rimborso delle spese di viaggio e i Con-
siglieri laici anche a un gettone di presenza nella misura stabilita periodica-
mente dal Presidente.
Articolo 10
Oltre ai membri effettivi, sono sempre tenuti a partecipare alle riunio-
ni del Consiglio: l’Economo diocesano, il Responsabile dell’Ufficio ammini-
strativo e l’Avvocato generale. Essi non hanno diritto di voto, ma contribui-
scono con la loro specifica competenza ed esperienza alla formazione delle
deliberazioni del Consiglio (cost. 178 § 2).
I Responsabili degli altri Uffici di Curia sono invitati dal Presidente di
volta in volta, in occasione della presentazione di pratiche di loro compe-
tenza.
Articolo 11
Il CAED è presieduto dal Pro-vicario generale, Moderator Curiae, co-
me delegato dell’Arcivescovo (can. 492 § 1). Egli, partecipando alle riunio-
ni in rappresentanza dell’Arcivescovo, si astiene dalle votazioni.
Qualora l’Arcivescovo partecipi alle sedute del CAED, ne assume an-
che la presidenza.
128 Carlo Redaelli
Articolo 12
Spetta al Presidente, in particolare: convocare il Consiglio, moderare
le sedute, sottoporre all’Arcivescovo i pareri e le delibere, mantenere i rap-
porti con altri organismi diocesani, in particolare con il Consiglio episcopa-
le, il Collegio dei Consultori (CoCo) e gli Uffici di Curia.
Articolo 13
Il Segretario è nominato dall’Arcivescovo, anche al di fuori dei mem-
bri del CAED, e svolge la stessa funzione presso il CoCo, «al fine di garan-
tire un efficace coordinamento tra il Collegio dei Consultori e il Consiglio
per gli affari economici della diocesi» (cost. 179 § 1). Egli dura in carica
per cinque anni e il suo mandato può essere rinnovato anche più volte.
Spetta in particolare al Segretario, o a un collaboratore da lui incari-
cato: redigere il verbale delle sedute, curare l’archivio del Consiglio, prepa-
rare il materiale relativo alle diverse pratiche in accordo con i competenti
Uffici di Curia e trasmettere agli stessi le delibere dopo l’approvazione del-
l’Arcivescovo.
V. Sessioni
Articolo 14
Il CAED si raduna normalmente ogni due settimane per esaminare le
pratiche di sua competenza. Alcune sessioni possono essere dedicate allo
studio di tematiche particolari. Convocazioni straordinarie, o in seduta con-
giunta con il CoCo, possono essere richieste dall’Arcivescovo, dal Presi-
dente o da almeno tre Consiglieri.
Articolo 15
Il Presidente può invitare a partecipare al CAED, senza diritto di vo-
to, le persone la cui presenza riterrà utile ai fini della sessione, oltre ai Re-
sponsabili degli Uffici di Curia interessati dalle materie in discussione (cf
art. 10).
Articolo 16
Entro i tre giorni precedenti la sessione, il Segretario trasmette ai
Consiglieri l’ordine del giorno, firmato dal Presidente, e mette a disposizio-
ne presso la propria sede la documentazione relativa alle pratiche da esa-
minare.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 129
Articolo 17
Le singole questioni vengono illustrate dal Presidente o, su suo inca-
rico, dal Segretario o dal Responsabile dell’Ufficio competente.
Articolo 18
Quando il Consiglio è chiamato a offrire un parere o a dare il consen-
so circa una determinata questione, i Consiglieri devono pronunciarsi for-
malmente tramite voto, su invito del Presidente.
Il voto viene normalmente espresso a voce o per alzata di mano. Su ri-
chiesta dell’Arcivescovo o del Presidente o su istanza di almeno tre Consi-
glieri, il voto va espresso in forma segreta.
Quanto sottoposto a votazione è approvato se, presenti la maggioran-
za assoluta dei Consiglieri, ha ottenuto il voto favorevole della maggioran-
za assoluta dei presenti. In caso di parità di voti, il consenso (cf art. 4) del
CAED si ritiene non dato; il parere (cf artt. 3 e 5), invece, viene trasmesso
all’Arcivescovo con le motivazioni dei diversi orientamenti.
È diritto di ogni Consigliere richiedere che venga messa a verbale, e
possa così essere conosciuta dall’Arcivescovo, la propria opposizione moti-
vata o qualunque altra osservazione.
Ciascun Consigliere «non può intervenire alla discussione e parteci-
pare al voto quando si tratti di questioni relative a enti presso i quali svolge
funzioni di responsabilità amministrativa» (costt. 178 § 3 e 354).
Articolo 19
I Consiglieri e i partecipanti al CAED sono tenuti al riserbo sulle que-
stioni discusse. Sono vincolati anche al segreto sull’espressione del voto e
sulle questioni trattate, quando è richiesto dal Presidente (can. 127 § 3).
Articolo 20
Il verbale delle sessioni, redatto dal Segretario, viene presentato al-
l’Arcivescovo dal Presidente.
Il verbale contiene, oltre alle pratiche di competenza solo del CAED,
anche quelle di competenza comune con il CoCo e approvate dai due orga-
nismi.
130 Carlo Redaelli
Articolo 21
Qualora esistano ragioni d’urgenza per deliberare su una pratica di
competenza del CAED e non sia possibile attendere la riunione program-
mata del Consiglio, si può ricorrere a una procedura speciale.
Sarà sufficiente, in questo caso, per l’approvazione della pratica il be-
nestare del Presidente o, in sua assenza, quello di due Consiglieri.
Nella seduta successiva, il Presidente, o uno dei Consiglieri firmatari
della delibera d’urgenza, illustrerà al CAED la pratica in questione, moti-
vando la decisione presa con carattere d’urgenza.
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE
SOMMARIO PERIODICO
133 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
135 Le unità pastorali: N. 2 - APRILE 1996
motivi, valori e limiti
di Francesco Coccopalmerio DIREZIONE ONORARIA
STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini
Editoriale
I motivi
1) Gruppi di sacerdoti che reggono in solido una o più parroc-
chie (cf can. 517 § 1). Il motivo di tale previsione, come introdotto dal
Codice, non dice nulla di preciso: «Quando le circostanze lo richiedo-
no» (ibid.). Il motivo della previsione codiciale, almeno nel caso in
cui al gruppo di sacerdoti vengono affidate più parrocchie, sembra
essere duplice: la scarsità di sacerdoti e/o l’intenzione di promuovere
maggiore unità tra parrocchie e sacerdoti.
136 Francesco Coccopalmerio
I valori e i limiti
La duplice tipologia determina al contempo il duplice valore
delle “unità pastorali”: mentre le seconde sono sempre valide e au-
spicabili, le prime sono solo una necessità della congiuntura storica.
Ciò significa che la pastorale diocesana deve atteggiarsi in mo-
do differenziato nei confronti dell’una o dell’altra tipologia.
1) È importante coltivare la pastorale d’insieme e quindi preve-
dere utili strutture che consentano di:
a) evitare inopportune divergenze tra le comunità viciniori o
coordinare le stesse attività al fine di fornire ai fedeli servizi pastorali
più efficaci (si pensi all’esempio elementare dell’orario delle messe
coordinato tra più parrocchie vicine);
b) rendere di fatto attuabili attività pastorali specializzate che
non potrebbero essere intraprese da ogni singola comunità;
c) favorire la comunione, non solo fattuale, ma anche spirituale,
fra operatori pastorali, specialmente tra i presbiteri;
d) valorizzare per più comunità alcune specifiche competenze
(si veda, per esempio, il sacerdote addetto alla cura dei giovani).
Sono in definitiva alcuni principi che presiedono alla struttura
del vicariato foraneo (cf cann. 374 § 2; 555).
Lo stesso potrebbe dirsi per le parrocchie di piccole città, an-
che se queste fossero parte di un vicariato più ampio.
2) È necessario a volte, specie oggi, adottare misure di riduzio-
ne del personale, attivando così “unità pastorali”: soprattutto quelle
di più parrocchie affidate a un solo parroco (can. 526 § 1) o di più
138 Francesco Coccopalmerio
FRANCESCO COCCOPALMERIO
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
139
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 139-163
Unità pastorali:
contributo per una definizione
di Agostino Montan
1
Sull’origine del nome e sulla sua diffusione in Italia cf G. CAPRARO, “Unità pastorali” tra sociologia e
teologia, in Il Regno - Attualità 38 (1993) 629-630. Sul dibattito in Germania cf S. LANZA, La nube e il fuo-
co, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, pp. 114-118.
2
Cf S. GANDOLA, Cammino di avvio nelle diocesi, in V. GROLLA, Unità pastorali nel rinnovamento della
pastorale parrocchiale, Edizioni Dehoniane, Roma 1996, pp. 123-148. Sulle UP cf anche ID., L’agire della
Chiesa. Lineamenti di teologia dell’azione pastorale, Edizioni Messaggero, Padova 1995, pp. 173-178. Un
vivo ringraziamento va al Centro di Orientamento Pastorale (Roma), in particolare alla segretaria Stefa-
nia Gandola, per la premurosa sollecitudine con la quale è stato messo a disposizione il materiale per la
presente ricerca.
3
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, Centro Ambrosiano, Milano 1995, parte II, cap. 7°, costt. 155-160
(pp. 207-211); cf anche costt. 15, 2; 61, 2; 63, 5; 133, 2; 208, 3; 402, 2; 479, 2; 482,1-8.
4
Cf DIOCESI DI VICENZA, 25° Sinodo Diocesano - 1984/1987. Documento conclusivo, Vicenza 1987, n. 50;
DIOCESI DI NOVARA, XX Sinodo diocesano della Chiesa novarese (1988-1990), l. III, c. III, n. 67 e l. V, c. X.
140 Agostino Montan
5
Cf A. CAPRIOLI, Le “unità pastorali”, in Rivista del Clero Italiano 76 (1995) 726-727.
Unità pastorali: contributo per una definizione 141
6
Cf S. POLETTO, Chiamati per stare insieme. Lettera pastorale ai Sacerdoti, Diaconi, Religiose, Religiosi
e Fedeli laici per la presentazione delle Unità Pastorali e l’indizione della visita pastorale, Asti 1992.
7
Ibid., pp. 13-14.
142 Agostino Montan
8
Ibid., pp. 14-15.
9
Cf C.M. MARTINI, Le unità pastorali. Omelia del Cardinale Arcivescovo nella Messa crismale del gio-
vedì santo, Centro Ambrosiano, Milano 1994, p. 22.
Unità pastorali: contributo per una definizione 143
10
Ibid., p. 23; S. POLETTO, Chiamati per stare insieme, cit., pp. 11-12.
11
C.M. MARTINI, Le unità pastorali, cit., pp. 23-24.
144 Agostino Montan
12
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., p. 207.
13
DIOCESI DI VICENZA, 25° Sinodo Diocesano, cit., n. 50.
Unità pastorali: contributo per una definizione 145
di vista dei presbiteri, che della vitalità pastorale delle diverse comu-
nità e delle esigenze del territorio.
Nella diocesi di Vicenza il concetto di UP, dopo il Sinodo, è stato
ripensato in termini più ampi, in rapporto ad altre realtà suscettibili di
articolarsi in UP, anzi in riferimento a tutte le parrocchie della dioce-
si. Del nuovo indirizzo parla il vescovo della diocesi, monsignor Pie-
tro Nonis, nel documento La costituzione delle UP (21 novembre
1992), opuscolo nel quale vengono dati orientamenti e fornite propo-
ste operative sulle UP. Il progetto di costituire in tutta la diocesi le UP,
scrive monsignor Nonis,
«non potrà essere imposto dall’alto, con una normativa di carattere generale,
ma dovrà essere il frutto di un cammino di conversione alla comunione e al-
la corresponsabilità, e troverà concreta applicazione là dove si creeranno
progressivamente le condizioni necessarie. Questo significa che tutte le par-
rocchie sono fermamente impegnate fin da ora ad avviare il cammino necessa-
rio, cercando momenti e forme di condivisione di vita e di missione con le al-
tre comunità con le quali potranno un giorno stabilire un legame più artico-
lato e continuativo» 14.
14
ID., La costituzione delle Unità Pastorali. Orientamenti e proposte operative, Vicenza 1992, pp. 3-4.
15
Ibid., p. 27, n. 22. Il processo di ripensamento della pastorale nella città di Vicenza è già approdato al-
la costituzione di un “Gruppo di coordinamento per la pastorale della città” incaricato di programmare
una concreta pastorale unitaria per le comunità cristiane del Comune di Vicenza, con l’obiettivo di co-
stituire le UP: cf P. NONIS, Lettera del Vescovo - Gruppo di coordinamento per la pastorale della città in
Vicenza (18 ottobre 1993), in Rivista della diocesi di Vicenza (1993) 1298-1303 (indicazioni per la costi-
tuzione del gruppo).
146 Agostino Montan
16
DIOCESI DI NOVARA - CONSIGLIO PRESBITERALE, Documento sulle unità pastorali, in Rivista della Diocesi
di Novara 2 (1993) 92.
17
Sull’esperienza novarese cf N. ALLEGRA, Parrocchie unite in Novara centro, in Unità pastorali. Verso
un nuovo modello di parrocchia?, Edizioni Dehoniane, Roma 1994, pp. 117-127. Anche nella Diocesi di
Concordia-Pordenone, l’UP è pensata entro i confini della forania: cf la lettera pastorale del vescovo dio-
cesano Sennen Corrà, in Le unità pastorali: un rinnovato impegno di responsabilità comune, in Quader-
no pastorale n. 1, estratto da Rassegna diocesana di Concordia-Pordenone 3 (1992) 4-5. Il Sinodo della
Diocesi di Trento considera il decanato come «la parrocchia del futuro» (o «del domani») con lo scopo
di suscitare la collaborazione tra le parrocchie per una cura pastorale più efficace: cf DIOCESI DI
TRENTO, La famiglia di Dio sulle strade dell’uomo. Costituzioni sinodali, Edizioni diocesane - Sezione pa-
storale n. 14, Trento 1986, costt. nn. 57-58, pp. 51-52 .
18
Cf S. GORETTI (Vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino), Per una pastorale d’insieme. Le
unità pastorali (11 agosto 1992), Assisi 1992.
Unità pastorali: contributo per una definizione 147
19
Ibid, pp. 13-14.
20
G. CAPRARO, “Unità pastorali” tra sociologia e teologia, cit., pp. 629.636.
21
L. cit.
148 Agostino Montan
22
Cf ARCIDIOCESI DI PISA, Anno pastorale 1992-1993. Orientamenti pastorali, nn. 7, 8, 12, 13, 14 (docu-
mentazione: S. GANDOLA, Cammino di avvio nelle diocesi, cit.).
23
Cf ARCIDIOCESI DI PALERMO, Decreto. Revisione delle norme circa le zone pastorali e i vicari episcopa-
li territoriali, 8 settembre 1987, in Rivista della Chiesa Palermitana, “Speciale” Il Vicariato (1987) 1-20.
Unità pastorali: contributo per una definizione 149
Tipologie di UP
Le definizioni o descrizioni di UP sino a qui esaminate sono al-
quanto generiche e aperte. Si rende necessario individuare figure o
modelli possibili di UP, così da mostrare nel concreto che cosa può
comportare la collaborazione organica tra parrocchie vicine. La do-
cumentazione studiata presenta delle tipologie piuttosto diversifica-
te, con qualche contradditorietà. Ciò dice che si è ancora in una fase
di sperimentazione e di ricerca, e che il coordinamento di più par-
rocchie in unità meglio funzionali non è privo di problematicità.
Cf anche Lettera dell’Em.mo Arcivescovo al Presbiterio Diocesano (28 settembre 1991), in Rivista della
Chiesa Palermitana 4 (1991) 198-201.
150 Agostino Montan
24
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., p. 208.
Unità pastorali: contributo per una definizione 151
25
DIOCESI DI NOVARA - CONSIGLIO PRESBITERALE, Documento sulle unità pastorali, cit., p. 93.
26
Cf N. ALLEGRA, Parrocchie unite in Novara centro, cit., pp. 117-127.
Unità pastorali: contributo per una definizione 153
27
Le unità pastorali, cit. (cf n. 17), p. 5.
28
V. GROLLA, Unità pastorali nel rinnovamento della pastorale parrocchiale, cit., pp. 55-59.
154 Agostino Montan
29
Non è fuori luogo ricordare l’ammonimento del giurista romano Iavoleno (I sec. d.C.): «Omnis defi-
nitio in iure civili periculosa» (Digesta, l. 17, De diversis regulis iuris antiqui, 202). Anche alla scienza
positiva canonica interessa principalmente stabilire ciò che è di diritto (quid sit iuris), più che ciò che il
diritto è in sé (quid ius?).
30
Scrive monsignor Poletto: «Tocca a ogni cristiano costruire la Chiesa perché sia, in ogni tempo e in
ogni luogo, il segno e lo strumento dell’azione salvifica di Gesù. Ognuno nella sua comunità deve sen-
tirsi membro vivo e operante, disponibile alla chiamata dello Spirito che concede a ciascuno il suo dono
in favore della Chiesa; ognuno deve essere disponibile a svolgere un determinato ruolo attivo (ministe-
ro) accogliendo l’invito dei pastori» (Chiamati per stare insieme, cit., p. 16).
31
Scrive ancora monsignor Poletto: «Ogni comunità, anche piccola, ha diritto a un autentico ed effica-
ce servizio pastorale. Tale servizio è certamente qualificato dallo specifico ministero che solo il sacer-
156 Agostino Montan
dote può svolgere, come la celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti. Ma è pure costituito in
parte notevole da attività che possono essere svolte da laici [...]. Ogni comunità, per essere tale, ha bi-
sogno certamente di un animatore locale, come punto di riferimento e di unità. Ma questo ruolo può
essere assunto anche da un diacono, un religioso, una religiosa, un laico, un catechista, senza che ne-
cessariamente si richieda la presenza di un parroco fisso che risieda sul posto. Occorre dunque la con-
versione a una mentalità ispirata a questa visione di Chiesa la quale, mentre promuove e responsabiliz-
za i laici, esenta il sacerdote da attività che non gli sono proprie» (ibid.).
32
Il problema della direzione della comunità cristiana, non ancora esplicitamente presente nei testi stu-
diati in questo contributo, è posto in modo chiaro in un documento del Segretariato della Conferenza
Episcopale Tedesca: VESCOVI TEDESCHI, Il servizio pastorale nella parrocchia, in Regno - Documenti 41
(1996) 160-167.
Unità pastorali: contributo per una definizione 157
33
Per quanto concerne la legale rappresentanza della parrocchia va fatto riferimento al documento
CEI Istruzione in materia amministrativa, EDB, Bologna 1992, p. 70, n. 84.
158 Agostino Montan
34
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., cost. 160 § 1, p. 211.
35
Cf S. LANZA, La Chiesa si realizza in un luogo: riflessione teologico-pastorale, in N. CIOLA (a cura di),
La parrocchia in un’ecclesiologia di comunione, EDB, Bologna 1996, pp. 109-158. Sul non elitarismo del-
la parrocchia e su altri elementi relativi alla comunità dei fedeli cf due allocuzioni di GIOVANNI PAOLO II:
1) Ai Vescovi della Lombardia, in occasione della visita “Ad limina Apostolorum”, 18 dicembre 1986, in
L’Osservatore Romano, 19 dicembre 1986; 2) Ai Vescovi Francesi, nella medesima occasione, 30 gennaio
1987, in L’Osservatore Romano, 31 gennaio 1987.
36
Sulla relazione tra l’antico Israele e la terra, tra la Chiesa di Dio e la terra e sulla realizzazione della
chiesa in un luogo, si veda: J.M. TILLARD, L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Les
Éditions du Cerf, Paris 1995, pp. 15-17, 42-56.
Unità pastorali: contributo per una definizione 159
37
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., cost. 159 § 2 , p. 210.
160 Agostino Montan
38
Per l’approfondimento delle diverse tipologie cf. A. MONTAN, Forme istituzionali di cooperazione tra
parrocchie di un medesimo territorio e “unità pastorali”, in Unità pastorali. Verso un nuovo modello di
parrocchia?, Edizioni Dehoniane, Roma 1994, pp. 57-76.
Unità pastorali: contributo per una definizione 161
Conclusione
Il progetto pastorale contenuto nell’espressione UP è esigente e
serio. L’obiettivo non è fare meno pastorale, ma farne di più e in mo-
do più adeguato rispetto a quanto fatto finora, e tutto ciò in un conte-
sto attraversato dai gravi problemi ai quali ho fatto rapido cenno al-
l’inizio.
162 Agostino Montan
39
Discorso di Paolo VI in apertura del secondo periodo del Concilio (29 settembre 1963), in EV 1,
n. 149*.
40
Torna utile rileggere quel testo: «Si badi opportunamente al principio che deriva dal precedente, e
che si chiama il principio di sussidiarietà, da applicare tanto più nella Chiesa, in quanto l’ufficio dei Ve-
scovi con le potestà annesse è di diritto divino. In forza di questo principio, mentre si mantengono l’unità
Unità pastorali: contributo per una definizione 163
AGOSTINO MONTAN
Piazza S. Giovanni in Laterano, 4
00120 Città del Vaticano
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 164-173
Forme
di collaborazione interparrocchiali
secondo il Codice
di Gianni Trevisan
Il vicariato foraneo
1
La terminologia usata tradizionalmente è assai varia (arcipretura, decananto, pievania). Per un ap-
profondimento della problematica merita di essere letto il contributo già presentato su questa rivista:
G.P. MONTINI, I Vicari foranei in Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991) 376-389.
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 165
2
Cf SC 42, 1; LG 26, 1; 28, 2; AG 37, 1. Cf pure F. COCCOPALMERIO, Il concetto di parrocchia nel nuovo
Codice di diritto canonico, in Quaderni di diritto ecclesiale 2 (1989) 127-142.
3
Communicationes 12 (1980) 284.
166 Gianni Trevisan
Il vicario foraneo
L’innovazione del Codice che configura il vicariato foraneo come
luogo di collaborazione interparrocchiale appare chiaramente anche
se si confrontano i compiti del vicario foraneo. Secondo il CIC 1917 le
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 167
4
A. MONTAN, Forme istituzionali di cooperazione tra parrocchie di un medesimo territorio e “unità pa-
storali”, in AA.VV., Unità pastorali - Verso un modello di parrocchia, Roma 1994, p. 54.
168 Gianni Trevisan
5
Quest’ultimo accenno alla collaborazione è normalmente inteso come riferito soltanto agli eventuali
altri sacerdoti che svolgono qualche ufficio in parrocchia (per esempio il vicario parrocchiale); così in-
teso però non risulterebbe vero per tutte le parrocchie, in particolare per quelle con un numero di abi-
tanti ridotto. A mio avviso il testo del canone potrebbe riferirsi anche alla collaborazione con presbiteri
e diaconi del vicariato foraneo, risultando così vero per tutte le parrocchie e indicando la necessità per
ogni parroco, e quindi per ogni parrocchia, di collaborare con le altre realtà vicine.
6
G.P. MONTINI, I Vicari foranei, cit., p. 384.
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 169
e che «gode di personalità giuridica per il diritto stesso» (can. 432 § 2).
In essa «hanno autorità, a norma del diritto, il Concilio provinciale e il
Metropolita» (can. 432 § 1), ma le competenze di quest’ultimo sono
«ormai minime, con elenco tassativo. [...] Sulle diocesi suffraganee deve vi-
gilare perché siano conservate con scrupolo la retta fede e la disciplina ca-
nonica, e se vi sono abusi non interviene, ma ne avverte il Papa. Supplisce la
visita canonica, avvisandone la Santa Sede, se non la fa il Vescovo proprio.
[...] Il suo ruolo si manifesta particolarmente in occasione del concilio pro-
vinciale...» 7.
7
A. GIACOBBI, Strutture di comunione tra le Chiese particolari, in AA.VV., Il Diritto nel mistero della
Chiesa, II, Roma 1990, pp. 536-538.
8
Il Regno - Documenti 41 (1996) 157.
170 Gianni Trevisan
9
Certamente è una struttura diversa la Conferenza episcopale perché si tratta di «un organismo di per
sé permanente, costituito dall’assemblea dei vescovi di una nazione o di un territorio determinato, i
quali esercitano congiuntamente alcune funzioni pastorali per i fedeli di quel territorio, per promuove-
re maggiormente il bene che la Chiesa offre agli uomini, soprattutto mediante forme e modalità di apo-
stolato opportunamente adeguate alle circostanze di tempo e di luogo, a norma del diritto» (can. 477).
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 171
10
A. MONTAN, Forme istituzionali..., cit., p. 66.
172 Gianni Trevisan
11
In merito a questo argomento rimando al contributo di C. REDAELLI, Il Vicario Parrocchiale in Qua-
derni di diritto ecclesiale 3 (1990) 32-34.
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 173
Conclusione
Il Codice recepisce l’indicazione conciliare in ordine alla colla-
borazione interparrocchiale e la applica conseguentemente al vica-
riato foraneo, lasciando comunque ampio spazio anche per altre pos-
sibili forme, non solo per quelle che sono determinate almeno nelle
linee essenziali, ma anche per quelle che il diritto particolare potreb-
be elaborare in considerazione delle diverse situazioni sociali, geo-
grafiche e storiche.
Va osservato che le possibilità di collaborazione interparrocchia-
le indicate dal Codice permettono di essere attuate con delle struttu-
re collegiali, dove è il gruppo che insieme decide e attua quanto pro-
gettato. La collaborazione fra parrocchie non è solo questione di col-
laborazione fra parroci, ma si allarga anche alle altre componenti del
popolo di Dio, i religiosi e i laici, e coinvolge anche le associazioni di
laicato, le comunità religiose e i diaconi permanenti che hanno una
dimensione per loro natura sovraparrocchiale.
GIANNI TREVISAN
Via S. Pietro, 19
32100 Belluno
174
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 174-194
La cura pastorale della parrocchia
non affidata al sacerdote
di Giangiacomo Sarzi Sartori
1
Cf parte II, sezione II, titolo III, capitolo VI del Libro secondo del CIC: De paroeciis de parochis et de
vicariis paroecialibus.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 175
2
Sulla storia del can. 517 § 2 è utile riferirsi a: Communicationes 8 (1976) 24; Schema 1977 can. 349 § 3;
Communicationes 13 (1981) 147.149.306; Schema 1980 can. 456 § 2; Relatio 1981, in Communicationes
14 (1982) 222; Schema 1982 can. 517 § 2.
3
Si vedano le osservazioni del vescovo mons. Coccopalmerio nella pubblicazione curata dalla Pontifi-
cia Università Gregoriana: F. COCCOPALMERIO, De paroecia, Roma 1991, pp. 107-110.
176 Giangiacomo Sarzi Sartori
I diaconi
Per ciò che concerne l’attività del diacono l’interpretazione è ab-
bastanza semplice perché, nonostante le questioni che accompagna-
no la definizione dell’identità e della missione diaconale 4, la tradizio-
ne, la dottrina e la disciplina ecclesiale prevedono quali siano le fun-
zioni che competono a questa figura in attuazione del suo ministero e
in conformità con le prerogative dell’ordine del diaconato (can. 1009
§ 1). Esso costituisce il primo grado del sacramento dell’ordine; li co-
stituisce «ministri sacri»; e fa in modo che siano «consacrati e desti-
nati a pascere il popolo di Dio, adempiendo nella persona di Cristo
Capo, ciascuno nel suo grado, le funzioni di insegnare, santificare e
governare» (can. 1008).
Il carattere indelebile con il quale il ministro sacro è segnato
esprime il cambiamento ontologico che avviene per mezzo del sacra-
mento dell’Ordine e nello stesso tempo la perpetuità di tale cambia-
mento. Questa realtà indica anche la differenza fra laici e ministri sa-
cri 5; infatti, solo i ministri ordinati, adempiendo «nella persona di
Cristo Capo» le funzioni di insegnare, santificare e governare, pasco-
no il popolo di Dio. Così, il Codice al can. 1008 precisa opportuna-
4
Vedi J. BEYER, De diaconatu animadversiones, in Periodica 69 (1980) 441-460.
5
In LG 10 si afferma questa differenziazione, ma anche la connessione tra il sacerdozio comune e quello
ministeriale «con la potestà sacra di cui è investito»: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio mi-
nisteriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordi-
nati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro a suo proprio modo partecipano all’unico sacerdozio di Cristo».
178 Giangiacomo Sarzi Sartori
6
Cf Communicationes 10 (1978) 181; PAOLO VI, Sacrum diaconatus ordinem, in EV 2, n. 1369. Si veda-
no le osservazioni di G. GHIRLANDA, L’Ordine Sacro, in AA.VV., I Sacramenti della Chiesa, Bologna 1989,
pp. 256-263.
7
Così LG 29a parla del servizio dei diaconi: «...sostenuti dalla grazia sacramentale, nel servizio (diaco-
nia) della liturgia, della parola e della carità sono al servizio del popolo di Dio, in comunione col Vesco-
vo e il suo presbiterio. Appartiene al diacono, conforme gli sarà stato assegnato dalla competente auto-
rità, amministrare solennemente il Battesimo, conservare e distribuire l’Eucaristia, in nome della Chie-
sa assistere e benedire il Matrimonio, portare il Viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai
fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacra-
mentali, presiedere al rito del funerale e della sepoltura»; cf anche CD 15a.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 179
Le persone consacrate
Circa le persone consacrate, ricordiamo che al can. 758, con
una annotazione di carattere generale ma molto promettente per gli
8
Notiziario della Conferenza episcopale italiana 6 (1° giugno 1993) 150-176.
180 Giangiacomo Sarzi Sartori
sviluppi a cui può portare, si prevede che i membri degli istituti di vi-
ta consacrata, in forza della propria consacrazione a Dio, vengano as-
sunti dal vescovo in aiuto alle necessità della Chiesa per annunciare
il Vangelo.
Per un particolare titolo vocazionale e di condizione nella Chiesa
può dunque rivelarsi assai opportuno che alle persone consacra-
te – si pensi specialmente alle religiose che operano profondamente
inserite nella vita delle nostre diocesi – venga richiesta una partecipa-
zione alla cura pastorale delle parrocchie. E infatti, negli istituti reli-
giosi dediti all’apostolato, l’azione pastorale appartiene alla loro stessa
natura e spesso anche alla peculiarità del loro carisma di fondazione.
Perciò il Codice ricorda che l’intera vita dei membri dev’essere per-
meata di spirito apostolico e, d’altra parte, tutta l’azione apostolica sarà
animata dallo spirito religioso (can. 675 § 1). Ne consegue che l’affida-
mento delle parrocchie, prive di parroco, alle religiose di vita attiva in
nessun modo contrasta con la loro vocazione, se teniamo in considera-
zione quanto già il decreto conciliare Perfectae caritatis ebbe a dire
con un’affermazione di sicuro valore per orientare la comprensione
del carisma della vita consacrata nella missione della Chiesa:
«I membri di qualsiasi istituto ricordino anzitutto di aver risposto alla divina
chiamata con la professione dei consigli evangelici, in modo che essi, non
solo morti al peccato, ma rinunciando al mondo, vivano per Dio solo. Tutta
la loro vita, infatti, è stata posta al servizio di Dio, e ciò costituisce una spe-
ciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella conscarazione batte-
simale, e ne è un’espressione più perfetta. Avendo poi la Chiesa ricevuto
questa loro donazione di sé, sappiano essi di essere anche a servizio della
Chiesa» (PC 5).
e ancora dichiara:
«Gli istituti mantengano e svolgano fedelmente le opere proprie e, tenendo
presente l’utilità della Chiesa universale e delle diocesi, adattino le opere
stesse alle necessità dei tempi e dei luoghi, adoperando i mezzi opportuni
anche se nuovi...» (PC 20) 9.
9
Sul tema della missione della vita consacrata si veda J. BEYER, La Chiesa si interroga sulla vita consa-
crata, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 363 ss, soprattutto 374-379; O.G. GIRARDI, Vita consacra-
ta e Chiesa locale, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 388-402; S. RECCHI, La missione della vita
consacrata nella Chiesa missione, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 403-411.
182 Giangiacomo Sarzi Sartori
I laici
In diversi contesti il Codice richiama le possibilità di coopera-
zione e di partecipazione alla cura pastorale da parte di chi non è
insignito del sacerdozio ministeriale, e in particolare presenta molte-
plici ministeri ecclesiali affidabili ai laici 10. Per esempio nella norma-
tiva canonica si parla dei laici che possono essere assunti stabilmen-
te ai ministeri di lettori e di accoliti (can. 230 § 1); o di laici che nelle
azioni liturgiche possono assolvere la funzione di lettore con incari-
co temporaneo e che possono godere della facoltà di esercitare le
funzioni di commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto
(can. 230 § 2); o di coloro che senza essere lettori o accoliti istituiti
mediante il rito liturgico, possono supplire alcuni dei loro uffici eser-
citando il ministero della parola (esclusa l’omelia, riservata al sacer-
dote e al diacono: can. 767 § 1), presiedendo alle preghiere liturgi-
che, amministrando il battesimo e distribuendo la comunione secon-
do le disposizioni del diritto (can. 230 § 3). Si tratta, soprattutto in
quest’ultimo paragrafo del canone, di un elenco non tassativo, ma e-
semplificativo («videlicet») che la disciplina propone circa i ministeri
laicali per orientare a quegli ambiti di servizio ecclesiale che sono af-
fidabili a persone che non hanno ricevuto il ministero sacro, ma che
possono assumere taluni incarichi di grande importanza per la vita
ordinaria di una comunità cristiana e per la cura pastorale dei fedeli
di una parrocchia. Sono, dunque, ministeri laicali previsti in ordine
alle azioni liturgiche e ad altri compiti: ministeri stabili di lettore e di
accolito 11, ministeri liturgici temporanei, ministeri straordinari di
10
Sull’identità, i diritti e doveri, la missione dei laici si veda G. FELICIANI, Il popolo di Dio, Bologna
1991, capitolo terzo I laici, pp. 93-119. Sul tema dell’identità del laico secondo l’esortazione di Giovanni
Paolo II Christifideles laici e sul tema della formazione dei laici in vista delle funzioni o ministeri che
possono svolgere si veda: G. SARZI SARTORI, Il Laico nel mondo. Gli orientamenti dell’esortazione postsi-
nodale e la normativa canonica, in Quaderni di diritto ecclesiale 2 (1989) 319-328; ID., I laici e la cono-
scenza della dottrina cristiana (can. 229 § 1), in Quaderni di diritto ecclesiale 7 (1994) 334-342.
11
Questi ministeri sono stati riorganizzati dal papa PAOLO VI con la Lettera Apostolica Ministeria quae-
dam (15 agosto 1972) EV 4, nn. 1749-1770. A tale riguardo si vedano anche i due documenti pastorali
della Conferenza episcopale italiana: I ministeri nella Chiesa (15 settembre 1973) ed Evangelizzazione e
ministeri (15 agosto 1977) ECEI 2, nn. 546-600; 2745-2873.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 183
12
Si veda a questo riguardo la costituzione conciliare LG 33.
184 Giangiacomo Sarzi Sartori
13
Così afferma il responso della Commissione per l’interpretazione autentica del Codice del 20 giugno
1987.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 185
ha ritenuto che la scarsità del clero non sia tale da esigere il ricorso
ai laici.
Ricordiamo, infine, che anche il rito delle esequie ecclesiasti-
che senza la messa può essere celebrato dal diacono e, se la neces-
sità pastorale lo esige, con il consenso della Sede Apostolica, la Con-
ferenza episcopale può designare per questo specifico servizio litur-
gico anche un laico (cf can. 1176 § 2 e Ordo exequiarum, n. 19).
Sono, quindi, numerose e significative le azioni pastorali che
persone non ordinate possono esercitare a servizio della comunità
ecclesiale e in specie nell’ambito della cura pastorale di una parroc-
chia quando fosse assente in maniera stabile la figura del presbitero e
quando fossero chiamati a questa cooperazione dal vescovo diocesa-
no. Sono ministeri ecclesiali che riguardano la funzione di insegnare
e quella di santificare, eccettuati gli uffici che «natura sua» sono riser-
vati ai ministri sacri (cann. 150 e 274 § 1).
14
Vedi LG 33 in cui si afferma che «i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare
più immediatamente coll’apostolato della gerarchia [...]. Hanno inoltre l’attitudine a essere assunti dalla
gerarchia per esercitare, per un fine spirituale, alcune funzioni ecclesiastiche»; e il decreto AA 24: «La
188 Giangiacomo Sarzi Sartori
gerarchia affida ai laici alcuni compiti, che sono più intimamente collegati con i doveri dei pastori, co-
me nell’esposizione della dottrina cristiana, in alcuni atti liturgici, nella cura delle anime. In forza di tale
missione, i laici, quanto nell’esercizio del loro compito, sono pienamente soggetti alla direzione supe-
riore ecclesiastica».
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 189
15
Communicationes 3 (1971) 195.
16
Le opinioni dei consultori e degli stessi membri della Commissione allargata circa tali questioni fu-
rono tutt’altro che unanimi come risulta dai verbali dei lavori che riportano le discussioni avvenute; si
veda in particolare Communicationes 14 (1982) 71-73 e 146-149; 16 (1984) 168-169. Sul tema della pote-
stà sacra nella Chiesa si veda J. BEYER, Dal Concilio al Codice. Il nuovo Codice e le istanze del Concilio
Vaticano II, Bologna 1984, pp. 55-65.
190 Giangiacomo Sarzi Sartori
«...costituisca un sacerdote...
che sia il moderatore della cura pastorale»
Nel caso di affidamento di una partecipazione nell’esercizio del-
la cura pastorale di una parrocchia a persona priva del carattere sa-
cerdotale, il can. 517 § 2 stabilisce comunque che per le funzioni che
richiedono la potestas ordinis, e anche per la direzione del comune
17
Esortazione apostolica Christifideles laici (= CfL), n. 23.
18
CfL 23.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 191
chia contenuta nello Schema del 1977, «per non ridurre eccessiva-
mente la portata di questa nuova figura né coartare troppo l’ambito
di competenza di questi incaricati» 19.
Conclusioni
L’esame della disciplina ecclesiale, al di là delle condizioni e dei
vincoli che giustamente pone per l’esatta comprensione dei ministe-
ri, delle funzioni e degli uffici ecclesiastici e per il loro corretto eser-
cizio a vantaggio del popolo cristiano, fa rilevare l’importanza del fat-
to che, a norma del diritto, oggi sia possibile e, in certe circostanze
persino doveroso, affidare una partecipazione della cura pastorale
delle parrocchie a persone che non sono sacerdoti.
Si parla di «cura pastorale» e non soltanto di qualche servizio u-
tile, ma secondario o contingente; e si parla di «partecipazione nel-
l’esercizio» di un ministero che è proprio del sacerdote chiamato a
essere il «pastore proprio» di una comunità parrocchiale e, quindi, di
una responsabilità apostolica assai significativa.
Già questa considerazione dà rilievo al dettato del Codice che,
riprendendo il magistero del Vaticano II, accentua l’impegno – il di-
ritto-dovere – di un maggior coinvolgimento e di una più matura par-
tecipazione di tutti i christifideles all’esperienza ecclesiale e all’opera
evangelizzatrice di tutta la comunità dei fedeli, in una Chiesa che de-
ve vivere più profondamente la sua dimensione comunionale ed e-
sprimere in maniera più trasparente ed efficace la sua interna e in-
trinseca dinamica ministeriale.
Dunque, anche se a partire dalla norma canonica l’eccezionalità
del caso sembra motivata in modo esclusivo dalla penuria di sacer-
doti; nonostante si tratti di una soluzione piuttosto contingente nella
quale si sceglie per necessità; e pur constatando che la possibilità
suggerita dalla disciplina risolve solo parzialmente il problema, poi-
ché escluso l’esercizio di potestà derivanti dal presbiterato, si esten-
de solo ad aspetti riconducibili alla normativa sui diaconi e sui laici,
va rilevato che il Codice intende sottolineare l’urgenza di un contri-
buto alla vita ecclesiale che nel tempo attuale può e deve provenire
non solo dai ministri sacri, bensì da ogni battezzato, dalle diverse vo-
cazioni e carismi e dai molti ministeri esercitabili nella Chiesa a sua
edificazione e, con la Chiesa, per la vita del mondo.
19
Communicationes 13 (1981) 149.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 193
20
Cf CfL II, 18-31.
21
CfL III, 32-44
22
CfL, 20.
194 Giangiacomo Sarzi Sartori
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 195-208
Commento a un canone
Il momento della vacanza di un ufficio
conferito per un tempo determinato
o fino a una determinata età (can. 186)
di G. Paolo Montini
«Nel caso in cui un ufficio si perda per scadenza del termine di tempo stabi-
lito o per raggiunto limite di età, la perdita dell’ufficio ha effetto solamente
dal momento in cui è intimata per iscritto dall’autorità competente».
5
Cf Communicationes 21 (1989) 227. Il mutamento di ordine è proposto esplicitamente, ma non moti-
vato.
6
Diamo qui di seguito un elenco dei principali uffici conferiti ad tempus definitum. Vi si potrebbe distin-
guere il caso di uffici conferiti nel contesto di organismi, consigli e istituti (che poi hanno autonomamen-
te una propria scadenza) e il caso di conferimenti di uffici per un tempo non definito in anni, giorni e me-
si, ma, per esempio, con riferimento a eventi futuri (cf, per esempio, il commissario designato dall’auto-
rità ecclesiastica moderatore di una associazione pubblica per gravi ragioni [can. 318 § 1]; i membri del
Consiglio della Segreteria del Sinodo dei vescovi: fino all’inizio della successiva Assemblea [can. 348
§ 1]; i segretari speciali di un’Assemblea del Sinodo dei vescovi: fino alla fine della medesima Assemblea
[can. 348 § 2]) o in diretta connessione con altri uffici (cf uffici conferiti durante munere).
7
Cf G.P. MONTINI, Il presupposto della nomina del parroco e la permanenza nell’ufficio, in La parroc-
chia, Città del Vaticano, di prossima pubblicazione. In questo lavoro si trovano molti riferimenti alla
problematica e all’interpretazione del can. 186.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 197
8
Attiene a un altro argomento e riguarda altri principi giuridici la questione se un giudice, cessato dal-
l’ufficio e intimatagli anche tale cessazione, possa continuare a trattare le cause in corso al momen-
to della cessazione dall’ufficio pronunciando la sentenza. Cf al riguardo, e con parere affermativo,
J.M. PINTO GOMEZ, La giurisdizione, in AA.VV., Il processo matrimoniale canonico. Nuova edizione rive-
duta e ampliata, a cura di P.A. Bonnet - C. Gullo, Città del Vaticano 1994, p. 131.
9
Il Regolamento Generale della Curia Romana riferisce all’art. 11 § 3 il prescritto del can. 186: «La ces-
sazione dall’ufficio, però, ha effetto soltanto dal momento in cui è comunicata per iscritto dalla compe-
tente autorità» (cf pure il richiamo nell’art. 43 § 7).
10
La questione del limite di età è stata distinta nella redazione finale del testo del Codice dalla questio-
ne dell’attribuzione del titolo di «emerito» (cf can. 185).
198 G. Paolo Montini
11
Cf, per esempio, il can. 538 ove non è recensito, fra i modi con cui si cessa dall’ufficio di parroco, il
raggiungimento né del settantacinquesimo anno di età né di alcuna altra età. Sarà particolarmente pru-
dente pertanto scegliere nell’annuncio della vacanza della parrocchia dizioni che rispettino la natura
dell’atto giuridico (rinuncia) connesso con il raggiungimento del settantacinquesimo anno di età di un
parroco. Non si potrà pertanto annunciare «la vacanza della parrocchia [...] per raggiunti limiti di età
del parroco».
Più corretta la dizione usata da L’Osservatore Romano che, nel caso di vescovi, si riferisce a «rinuncia
presentata in conformità al can. 401 § 1».
12
È probabilmente da comprendere in questa linea l’osservazione del Segretario della Commissione
per la Riforma del Codice: «Cessatio ab officio non venit expletione aetatis sed per auctoritatis actum»
(Communicationes 23 [1991] 263). Infatti anche nell’automaticità della cessazione l’intervento dell’auto-
rità non è assente, dato che l’autorità ha stabilito tale termine e modo di cessazione. È però vero che è
opportuno che l’autorità si renda conto direttamente della cessazione dell’ufficio nel momento in cui
avviene.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 199
13
Il canone è stato introdotto senza peculiari motivazioni, quando ancora non era chiara e definita la
normativa del can. 186 (cf Communicationes 21 [1989] 227; 23 [1991] 262-263). Per quanto attiene al no-
stro scopo il canone non ha grande rilievo dal momento che, perché la perdita dell’ufficio abbia effetto,
dev’essere intimata dall’autorità competente, che perciò stesso sa e le è nota la vacanza. Il canone po-
trebbe rilevare più propriamente là dove il procedimento di provvista richieda l’intervento di più sog-
getti. Il suo parallelo nel CIC 1917 (can. 191 § 2) depone per quest’ultima lettura.
14
La scelta del legislatore canonico è stata preceduta, nell’opera di riforma del Codice, da non poche
incertezze. Mentre fin dall’inizio fu previsto un canone che rimandasse all’intimazione scritta della
competente autorità la cessazione dall’ufficio per raggiunti limiti di età (cf Communicationes 21 [1989]
228), non così fu per la cessazione dall’ufficio per la scadenza del termine di tempo stabilito. Per que-
st’ultimo caso si previde in un primo tempo, come «res minus odiosa» che «elapso hoc tempore officium
amittit(ur), nisi in eodem iam confirmatus fuerit» (cf ibid., 250). Era perciò prevista nel I Schema del
Codice una disparità di trattamento fra cessazione dell’ufficio per raggiunti limiti di età e cessazione
dall’ufficio per scadenza del termine di tempo stabilito.
Nel II Schema del Codice, dopo le osservazioni degli Organi di consultazione si giunse in Commissio-
ne alla proposta di un unico canone che trattasse congiuntamente dei due casi e attribuendo a essi la
medesima normativa (cf ibid., 23 [1991] 263).
15
Che la vacanza dell’ufficio sia l’effetto della perdita dell’ufficio, lo si desume esplicitamente dal con-
fronto dei canoni 150 § 1 e 183 § 1 del CIC 1917. Nel Codice vigente il significato è implicito.
200 G. Paolo Montini
Ciò significa che nulla muta nella titolarità, nel possesso e nel-
l’esercizio dell’ufficio né oggettivamente né soggettivamente tra la
scadenza temporale prevista o il raggiungimento dell’età determina-
ta e l’intimazione scritta da parte dell’autorità competente.
Per fare un esempio.
Il sacerdote che in una diocesi italiana sia stato nominato espli-
citamente a parroco di una certa parrocchia per il periodo di nove
anni, scaduti i nove anni, computati dalla data della bolla di nomina,
permane parroco a ogni effetto di quella parrocchia, finché non rice-
va dal vescovo diocesano l’intimazione scritta in cui si avverta che il
termine è scaduto.
Ne consegue che:
– il parroco non può lasciare di fatto l’ufficio il cui termine sia
scaduto, in quanto egli ne è parroco a tutti gli effetti, dovendo assol-
vere (o meglio: continuare ad assolvere) a tutti i doveri inerenti al-
l’ufficio e potendo godere di tutti i diritti direttamente e indiretta-
mente connessi con l’ufficio di parroco;
– il vescovo diocesano non può provvedere a quell’ufficio, per-
ché non è giuridicamente vacante 16;
– il parroco non è tenuto ad avvertire il vescovo diocesano della
scadenza imminente o oltrepassata;
– il vescovo diocesano non è tenuto a intimare al parroco la ces-
sazione per scadenza del termine di nove anni.
Abbiamo detto che, dopo la scadenza del termine o il raggiungi-
mento dell’età, il titolare dell’ufficio continua nell’ufficio fino alla inti-
mazione, a tutti gli effetti. Ciò non è completamente vero poiché una
differenza – e rilevante – esiste: egli diventa in realtà titolare dell’uf-
ficio rimuovibile ad nutum 17. Nel momento in cui l’autorità compe-
16
Pertanto si deve riconoscere al titolare dell’ufficio il cui limite di tempo sia già stato raggiunto, ma cui
non sia stato ancora intimato, la possibilità di ricorrere contro l’atto o decreto con cui l’autorità compe-
tente provveda al medesimo ufficio, nominandone un (altro) titolare: «Provisio officii de iure non vacan-
tis est ipso iure irrita [...]» (can. 153 § 1). Potrà chiedere la dichiarazione di invalidità della nomina.
Non preclude tale ricorso l’intimazione che segua eventualmente alla nomina che si impugna. Il titolare
con tale intimazione cessa dall’ufficio, ma non per questo viene sanata la nomina eseguita in preceden-
za: « [...] nec subsequenti vacatione convalescit» (can. 153 § 1).
Non preclude tale ricorso neppure la dichiarazione di invalidità della nomina e la riproposizione della
stessa nomina dopo la intimazione della scadenza del limite di tempo. Il ricorrente ha infatti il diritto di
vedersi comunque riconoscere la titolarità dell’ufficio fino alla intimazione. Dovrà certo dimostrarne
l’interesse (economico, morale, spirituale).
Cf al riguardo una Florentina (prot. n. 22099/90 C.A.) presso la Sectio Altera del Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica.
17
L’espressione «rimuovibile ad nutum» è imprecisa in quanto l’autorità competente, intervenendo
(anche tardivamente) nell’intimare, non rimuove, ma dà effetto alla cessazione dall’ufficio. Si tratta
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 201
piuttosto della condizione in cui un titolare di un ufficio lo possiede potendo perderlo ad nutum dell’au-
torità competente.
18
Non esistendo tale problema ed essendo in contesto diverso, il prescritto del can. 186 non è ripetuto
per la cessazione della potestà delegata, che cessa automaticamente «elapso tempore» (can. 142 § 1),
pur con un’eccezione equitativa per il foro interno (cf can. 142 § 2).
19
Il permanere nel proprio ufficio, potendosi però occupare soltanto del governo ordinario o degli af-
fari ordinari è sì conosciuto dall’ordinamento canonico, ma per ipotesi molto limitate: cf, per esempio,
l’art. 44 §§ 2-3 Regolamento Generale della Curia Romana circa gli uffici di Camerlengo, Sostituto per
gli Affari Generali della Segreteria di Stato, Segretario di Dicasteri ed equiparati, nel periodo di sede
vacante.
20
Non essendo de iure vacante l’ufficio, l’autorità competente a provvedere non può essere dichiarata
nel caso né negligente né impedita (cf can. 155).
202 G. Paolo Montini
21
Cf F.J. URRUTIA, Les normes générales. Commentaire des canons 1-203, Paris 1994, n. 895, p. 253;
V. DE PAOLIS, Il Libro primo del Codice: Norme generali, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa. I. Il
diritto nella realtà umana e nella vita della Chiesa. Il Libro I del Codice: le Norme generali, a cura del
2
Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Roma 1988 , p. 424.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 203
22
Anche questo caso non è esente da incertezze là dove sia invalsa l’interpretazione giuridica secondo
cui non siano de se incompatibili due uffici parrocchiali. Questa interpretazione è sufficientemente dif-
fusa nel caso di parrocchie vicine di esigue dimensioni.
204 G. Paolo Montini
Autorità competente
L’autorità cui il canone si riferisce è quella competente a prov-
vedere all’ufficio, anzi a quell’ufficio, qualunque sia il titolo specifico
di competenza in quel caso specifico.
Non si tratta pertanto di una comunicazione da parte di un qual-
siasi organo, anche sovraordinato (Curia diocesana, cancelliere della
Curia diocesana, vicario episcopale, segretario ecc.): si tratta di una
comunicazione che crea la vacanza e dev’essere originata da quella
medesima autorità che è abilitata poi a provvedere.
Certamente potrebbe comunque darsi il caso che una pluralità
di autorità sia nel caso (cumulativamente) competente all’intimazio-
ne: se una pluralità di autorità è competente a provvedere (cf vesco-
vo diocesano e vicario generale con mandato speciale); se una perso-
na è delegata dall’autorità competente con delega a provvedere e/o a
intimare la cessazione dall’ufficio; se la cessazione e/o la provvista
sia atto complesso in cui intervengono più autorità (cf can. 682) 23.
Diritto-dovere all’intimazione
Per rispondere adeguatamente alla questione è necessario anzi-
tutto distinguere di quale ufficio si tratti.
23
Cf J.H. PROVOST, Canon 1984 [ma 184]. Due Process Against the Loss of a Limited Tenured Office
When the Predetermined Time Has Elapsed, in CANON LAW SOCIETY OF AMERICA, Roman Replies and CLSA
Advisory Opinions 1986, ed. W.A. Schumacher - J.J. Cuneo, Washington 1986, p. 54.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 205
24
Ciò non toglie che vi siano casi “ragionevoli” in cui l’autorità competente tergiversi per un certo tem-
po e ritardi nell’intimazione.
Ciò può avvenire quando la scadenza del termine di tempo dell’ufficio sia prossima al raggiungimento
del limite di età per il medesimo ufficio. Si pensi a un Officiale della Curia Romana il cui quinquennio
scada vicino al limite del settantacinquesimo anno di età. Non si dà questo per i parroci, per il fatto che
il settantacinquesimo anno di età non è e non può essere scadenza di termine temporale per l’ufficio di
parroco (cf l. cit.).
Ciò può avvenire quando l’autorità competente è prossima a una nomina del titolare dell’ufficio, la cui
scadenza temporale sia appena avvenuta.
Nel caso in cui si proceda a nomina ad tempus, nel cui spazio di tempo cada il raggiungimento del
limite di età, quest’ultimo limite prevale, tanto da essere menzionato nella stessa nomina ad tempus
(cf l. cit.).
206 G. Paolo Montini
Rinnovo automatico?
Alcuni autori hanno supposto che il trascorrere della scadenza
di tempo definito senza alcun atto dell’autorità competente potesse
comportare il rinnovo automatico del tempo definito e perciò del ti-
tolare nell’ufficio.
A volte tale supposizione è stata suffragata dall’esplicito cenno
che in alcuni testi normativi si rinviene alla rinnovabilità del termine
definito di tempo (cf, per esempio, cann. 492 § 2 e 494 § 2).
Tale supposizione però manca di ogni fondamento sia consi-
derando il can. 186, che rimarrebbe contraddetto e senza ragione,
sia considerando il can. 153 § 2, che registra solo una possibilità e
non una necessità («fieri potest») di una provvista precedente alla
scadenza.
Ben diverso è il caso in cui chi ha dal diritto universale potere
normativo nella determinazione del tempo definito per un ufficio,
stabilisca o un rinnovo automatico o una prorogazione del tempo de-
finito per un tempo definito in modo diverso 25.
25
È il caso, per esempio, della Conferenza episcopale francese che esplicitamente prevede il regime di
prorogazione per la nomina dei parroci ad tempus (cf can. 522) e ne spiega la natura: «Prorogation veut
dire prolongement de durée sans obligation de renouvellement pour une durée égale au premier mandat».
Questa norma si distingue dal ritardo nella intimazione del raggiungimento del termine per il fatto che
nel periodo della prorogazione l’ufficio del parroco gode di stabilità.
È il caso del decreto della Conferenza episcopale portoghese nello stesso contesto normativo: «Tal no-
meaçao será renovada automaticamente por um novo sexénio e assim sucessivamente, sempre que o Bi-
spo, para o bem das almas, nao determinar expressamente o contrário, pelo menos dois meses antes de se
perfezar o prazo».
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 207
26
L’iter stesso della codificazione sembra deporre per questa interpretazione. Il I Schema del Codice,
infatti, affermava esplicitamente che tale provvista avrebbe avuto effetto «expleto hoc tempore» (cf Com-
municationes 21 [1989] 213). Il mutamento avvenuto nella discussione delle osservazioni pervenute da-
gli Organi di consultazione («Probatur textus, mutato [...] “expleto hoc tempore” cum “a die vacationis”»)
non intende mutare il significato del canone, ma solo rendere più chiaro che nel caso non si tratta di
una mera «praevia designatio» della persona all’ufficio, ma «de provisione quae effectum habet a die va-
cationis» (cf ibid., 23 [1991] 251).
È questa medesima interpretazione che soggiace poi al decreto della Conferenza episcopale portoghe-
se, di cui sopra, circa il rinnovo automatico dei parroci nel loro termine definito.
208 G. Paolo Montini
vrebbe valere anche nel caso in cui ci si trovi dopo la scadenza del ter-
mine e prima dell’intimazione (è il caso del can. 186). In tal modo la
provvista potrebbe sempre precedere l’intimazione, anche ritardata.
Credo che la lettera del can. 153 § 2 che si pone nella previsio-
ne dei sei mesi precedenti alla scadenza di questo tempo, cioè quello
determinato dal diritto, e non quello prolungato ope canonis 186,
non lasci spazio alla seconda interpretazione.
A mo’ di conclusione
La diffusione di nuovi termini di esercizio degli uffici ecclesia-
stici deve rendere attenti non solo alla corretta interpretazione so-
stanziale della novità legislativa, ma anche alla corretta interpretazio-
ne formale di una normativa cui non si è a tutt’oggi abituati. Entram-
be devono e possono concorrere all’unico vero bene delle anime
(salus animarum), naturalmente dei fedeli e dei pastori.
G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
Brescia
209
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 209-238
Il Diritto pubblico ecclesiastico:
una disciplina canonistica
tra passato e futuro. II
di Giuseppe M. Siviero
1
Cf Quaderni di diritto ecclesiale 3 (1993) 332-351.
2
«La sua novità sta nell’aver elaborato una disciplina giuridica nuova dal profilo metodologico rispetto
alla canonistica classica e di aver affrontato per la prima volta, nella parte dedicata allo ius publicum in-
ternum, il problema della natura del diritto della Chiesa, superando così lo status quaestionis medioeva-
le. [...] Tuttavia la connessione ultima tra Chiesa, società perfetta, e diritto ecclesiale è fatta dipendere
ultimamente non dalla struttura interna della Chiesa in quanto tale, ma volontaristicamente ed estrinse-
cisticamente dalla volontà di Cristo il quale avebbe voluto costituire la Chiesa sia come società perfetta
sia come società giuridica» (E. CORECCO, Teologia del Diritto canonico, in Nuovo Dizionario di Teologia,
[= NDT], Paoline, Cinisello Balsamo 1991, 1692).
210 Giuseppe M. Siviero
3
«...una svolta radicale da operare nella concezione e nella prassi della Chiesa. Si tratta di passare da
un’ecclesiologia piramidale, gerarcologica, dove da Cristo si perviene ai battezzati per la visibile media-
zione gerarchica, a un’ecclesiologia di comunione, dove la dimensione pneumatologica è posta in pri-
mo piano, e lo Spirito è visto agire su tutta la comunità, per farne il corpo di Cristo, suscitando in essa
la molteplicità dei carismi, che si configurano poi nella varietà dei ministeri al servizio della crescita
della comunità stessa. La Chiesa intera viene così a essere pensata dinamicamente: essa non è stabilita
una volta per sempre e autosufficiente fino alla fine del tempo grazie all’istituzione gerarchica che a tut-
to provvede, ma è continuamente suscitata e rinnovata dalla fedeltà dello Spirito, che continua nella sto-
ria “per una non debole analogia” (LG 8) il mistero dell’Incarnazione» (B. FORTE, Le forme di concretiz-
zazione storica della chiesa [gerarchia-laicato-vita religiosa], in Credere oggi 28 [1985] 59).
4
Come tutti sanno lo stesso GIOVANNI PAOLO II, nella Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges
(25 gennaio 1983) con la quale promulgava il nuovo Codice definì il medesimo come «un grande sforzo
di tradurre in linguaggio canonistico [...] l’ecclesiologa conciliare».
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 211
5
«Si tratta [...] di mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del Vangelo il mondo moder-
no [...], dare alla Chiesa la possibilità di contribuire più efficacemente alla soluzione dei problemi del-
l’età moderna»: così GIOVANNI XXIII nella Costituzione apostolica Humanae salutis (25 dicembre 1961)
con la quale indiceva il concilio Vaticano II, i cui documenti più importanti risulteranno non a caso im-
pastati di spirito giovanneo.
212 Giuseppe M. Siviero
del secolo manifesterà poi altre fasi di segno alterno che riguarderan-
no e segneranno l’attuazione del Concilio stesso e le vicende ecclesia-
li a noi contemporanee di cui ovviamente qui non parliamo. A livello
socioculturale e politico, dopo l’amarissima esperienza delle due guer-
re mondiali, muta il vecchio assetto politico europeo; cresce l’impor-
tanza delle relazioni internazionali e della diplomazia plurilaterale; si
affacciano nuovi soggetti alla ribalta della vita internazionale; si e-
spandono, nonostante tutte le spinte contrarie e il perdurare dei tota-
litarismi, i sistemi democratici e, in particolare, il modello-mito della
società e della democrazia statunitense; si diffonde l’industrializzazio-
ne; cresce globalmente l’economia e l’interdipendenza dei sistemi e-
conomici; declinano le certezze metafisiche e si affermano filosofie
centrate sull’uomo e sulla storia; si manifestano nuove esigenze di
partecipazione nella società; la secolarizzazione si può definire relati-
vamente vincente in larghi strati dei paesi occidentali; si diffondono
nuove rivendicazioni e istanze di liberazione dei popoli e dei soggetti
ecc. Perdura d’altra parte in quasi tutto il secolo un’incapacità quasi
strutturale dell’Occidente a uscire dalla propria visione eurocentrica
dell’uomo, del mondo e dei problemi, visione cui anche la Chiesa cat-
tolica e la sua migliore teologia molto spesso inconsciamente sog-
giacciono.
A livello intraecclesiale si nota il fiorire della ricerca teologica in
genere e degli studi biblici e patristici in particolare; le istanze di
riforma della liturgia; il movimento ecumenico; la problematica mis-
sionaria e i problemi che la missione e le missioni pongono alla Chie-
sa; l’indigenizzazione dell’episcopato nelle nuove Chiese; l’internazio-
nalizzazione di alcune istituzioni ecclesiastiche centrali come la diplo-
mazia pontificia e la curia vaticana; le aggregazioni laicali e il loro
apostolato; le nuove frontiere aperte dalla pastorale del lavoro, della
gioventù, delle aree urbane; la piena accettazione del principio della
laicità dello Stato da parte della cultura politica di ispirazione cattoli-
ca; il ripensamento delle vecchie teorie sui rapporti Chiesa-Stato; il
mutare lento ma certo dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti
del mondo e della modernità e altri fattori offrono alla Chiesa cattoli-
ca l’occasione di approfondire la conoscenza e la coscienza di sé e dei
suoi compiti, al fine di elaborare un nuovo grande progetto che la
possa portare con freschezza verso il terzo millennio.
Questo contesto per se stesso richiedeva e insieme favoriva –
poiché in certa misura ne offriva gli strumenti – una risposta globale
e coraggiosa da parte della Chiesa cattolica da esso fortemente in-
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 213
6
«Singolare fenomeno: mentre la Chiesa, cercando di animare la sua interiore vitalità dello spirito del
Signore, si distingue e si stacca dalla società profana, in cui è immersa, viene al tempo stesso qualifi-
candosi come fermento vivificante e strumento di salvezza del mondo medesimo, e scoprendo e corro-
borando la sua vocazione missionaria, ch’è quanto dire la sua essenziale destinazione a fare dell’uma-
nità, in qualunque condizione essa si trovi, l’oggetto dell’appassionata sua missione evangelizzatrice».
(PAOLO VI, Discorso di apertura del secondo periodo del concilio [29 settembre 1963]).
7
Cf per esempio DV 24; GS 62; UR 4.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 215
8
«Nella formulazione delle leggi sarà nostro dovere promuovere il dialogo il più ampio possibile, così
da leggere e interpretare insieme, sotto la guida dello Spirito, il disegno di Dio sulla vita delle nostre
comunità. Siamo convinti che si debba arrivare alla promulgazione delle leggi e alle successive neces-
sarie modificazioni attraverso un cammino di comunione, assicurando sia la partecipazione attiva della
comunità, sia il servizio di guida e di governo dei pastori, a cui spetta deliberare». (CEI, Documento pa-
storale: Comunione, comunità e disciplina ecclesiale [1° gennaio 1989], n. 55).
9
OT 16.
216 Giuseppe M. Siviero
La collegialità episcopale
Il legame tra sacramentalità dell’ordine e collegialità episcopale
può essere considerato un progresso tra i più importanti della teolo-
gia conciliare: esso infatti chiarisce meglio di quanto non avesse fat-
to la dottrina precedente il ruolo cardine della figura del vescovo nel-
l’ordinamento della Chiesa cattolica 10. Il carisma istituzionale del
vescovo, infatti, non più compreso a partire dal concetto di giurisdi-
zione, cioè da un modello societario tipico del diritto pubblico statua-
le, quanto a partire dal sacramento, cioè da una genuina e originaria
dimensione ecclesiale, è portatore di una costitutiva corresponsabi-
lità nel servizio e perciò modifica sensibilmente lo schema verticisti-
co della Chiesa cattolica romana in uno schema più comunionale e
sinodale.
Ciò d’altra parte favorisce anche una visione meno formale e
più teologica e unitaria della sacra potestas, insieme a una effettiva
articolazione nell’esercizio del discernimento e delle responsabilità
pastorali, anche a livello di Chiesa locale. Sicché, tratta fuori dalle
secche dei modelli burocratico-temporalistici e radicata nel sacra-
mento e nel servizio ecclesiale, la leadership pastorale della comu-
nità cristiana risulta più comprensibile e accettabile nonché meglio
equipaggiata nel rispondere ai bisogni emergenti del popolo di Dio,
il cui futuro, per quanto sempre ricco di incognite, è tuttavia ben ra-
dicato nel solco della grande tradizione di origine apostolica e patri-
stica che sempre ha compreso la Chiesa come communio delle con-
crete comunità locali le quali, sotto la presidenza del vescovo, cele-
brano l’eucaristia, vivono la carità e testimoniano la fede 11.
10
Cf G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen Gentium, Milano 1982,
pp. 197-339.
11
In verità a un’analisi attenta non può sfuggire, insieme al grande fascino di un’ecclesiologia di
comunione centrata sul principo dell’unica eucaristia e sul ministero diretto del vescovo, la considera-
zione delle difficoltà che nascono qualora si voglia ribadire l’esemplare modello pastorale dei primi tre
secoli all’interno della assai più complessa struttura-prassi della Chiesa odierna nella ancor più com-
plessa società contemporanea. Cf al riguardo le osservazioni di S. DIANICH, sia nell’esposizione più si-
stematica della voce «Ministero», in NDT, cit., 889-914; sia nell’esposizione più giornalistica di un re-
cente articolo dal titolo Piccole o grandi diocesi?, in Vita pastorale 6 (1995) 32-33.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 217
12
Cf LG 2 e 4.
13
LG 31.
14
LG 31.
15
Una panoramica introduttiva sull’argomento si trova in Credere oggi 2 (1988) intitolato Carismi e mi-
nisteri: cf in particolare il contributo di E.R. TURA, Per uno sfondo teologico dei ministeri, 45-57.
16
«L’ecclesiologia del Vaticano II, pur presentandosi globalmente come universalistica, in quanto sot-
tolinea soprattutto i fattori che ne assicurano l’unità e la missione a livello universale, tuttavia ha anche
218 Giuseppe M. Siviero
E proprio in virtù
«di questa cattolicità le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole parti si accrescono con
l’apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre, e coi loro sforzi
verso la pienezza dell’unità» 19.
L’ecumenismo
L’ecumenismo non è solo un tema accanto agli altri, vale a dire
quello che si propone di richiamare il dovere di riconoscere gli erro-
ri, sanare le ferite, avviare una nuova “politica” ecclesiastica che miri
al ristabilimento dell’unità perduta fra i cristiani. Bensì è argomento
di tale pervasività da esigere una riconsiderazione di tutte le questio-
ni ecclesiologiche e anche pastorali in un orizzonte nuovo, quello ap-
attirato l’attenzione sui principi che costruiscono la Chiesa particolare (non solo riconoscendo la figura
e il ruolo del vescovo e del presbiterio, ma anche dando rilievo alla forza creatrice della parola viva e
dei sacramenti, soprattutto dell’eucaristia). [...] L’essenza della realtà della Chiesa è nell’azione di Cri-
sto e del suo Spirito, tramite la parola, i sacramenti e i ministeri-carismi, cui devono corrispondere la fe-
de e la carità attiva della comunità cristiana in tensione missionaria, e di testimonianza, rispetto al mon-
do. Se questo è la Chiesa, allora (senza rinnegare le condizioni di cammino ortodosso e unitario, di cui
sopra) essa sussiste realmente, e soprattutto, nelle comunità locali, nelle Chiese particolari. In esse, co-
me dice il Vaticano II, “vive l’unica chiesa di Cristo”. [...] La riconsiderazione teologica della Chiesa par-
ticolare e del suo relativo primato (entro i limiti sopra precisati) rispetto alla Chiesa intesa come fatto
universalistico, trae seco molti problemi d’ordine pratico (anche di riforma sul piano giuridico, discipli-
nare e pastorale)» (L. SARTORI, Chiesa, in NDT, cit., 163).
17
LG 13.
18
LG 23.
19
LG 13.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 219
20
UR 2.
21
UR 3.
22
UR 3.
23
UR 3.
24
UR 18.
220 Giuseppe M. Siviero
i cristiani cattolici, la loro mentalità, il loro stile di vita, la loro etica ec-
clesiale:
«Nella Chiesa tutti [...] pur custodendo l’unità nelle cose necessarie, serbino
la debita libertà, in ogni cosa osservino la carità. Poichè agendo così, mani-
festeranno ogni giorno meglio la vera cattolicità e insieme l’apostolicità della
Chiesa» 25.
25
UR 4.
26
UR 13.
27
UR 11.
28
UR 4.
29
UR 6.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 221
Più oltre, allo stesso numero, afferma anche che nella società
umana e dinanzi a qualsiasi potere pubblico, la Chiesa rivendica la
propria libertà in quanto è «autorità spirituale, costituita da Cristo Si-
gnore». A essa per mandato divino incombe l’obbligo di andare in
tutto il mondo e predicare il Vangelo a ogni creatura. Parimenti, la
Chiesa rivendica la propria libertà in quanto «è anche una società di
uomini», i quali hanno il diritto di vivere nella società civile secondo
le norme della fede cristiana. In sintesi, in questi passaggi della Di-
gnitatis humanae si proclama che la «libertas ecclesiae» è principio
fondamentale nella regolamentazione politico-pratica dei rapporti tra
la Chiesa e la comunità politica; che la Chiesa ha perfino un doppio
titolo per rivendicare tale libertà: in quanto autorità religiosa e in
quanto società di uomini; che tale libertà di agire è misurata quanti-
tativamente e qualitativamente dal criterio della salus hominum.
222 Giuseppe M. Siviero
30
La questione dei rapporti intercorsi tra Paolo VI e il Concilio e il loro vicendevole influsso è stata
trattata nel Colloquio internazionale su Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio (Brescia, 19-21
settembre 1986). Le relazioni hanno sviscerato numerosi punti: Paolo VI e la ripresa del concilio (G.
MARTINA); L’azione direttiva di Paolo VI nei periodi II e III del concilio (R. AUBERT - V. CARBONE); Les in-
terventions de Paul VI dans la préparation de Lumen Gentium (A. PRIGNON - C. TROISFONTAINES - L. DE-
CLERK); Paul VI et l’ecclésiologie de Lumen gentium (J.P. TORREL). G. COLOMBO, nel Colloquio internazio-
nale su Genesi, storia e significato dell’enciclica Ecclesiam suam (Roma 24-26 ottobre 1980) sostiene che
«anche per la Gaudium et Spes come per il decreto Unitatis Redintegratio è evidentemente impensabile
che il Concilio abbia espresso una dottrina diversa da quella della ES; più plausibile invece che la ES si
sia posta come oggettivo punto di riferimento per la dottrina del Concilio. In questa prospettiva si po-
trebbe dire che in ultima analisi il Concilio ha fagocitato la ES [...] Svolto il suo compito di offrire un ri-
ferimento al Concilio, se mai ne aveva bisogno, e qui occorre attendere il giudizio degli storici, essa ha
assolto la sua funzione» (in AA.VV, “Ecclesiam Suam”. Première Lettre Encyclique de Paul VI, Brescia
1982, p. 158).
31
Paolo VI tratta in particolare il tema “Chiesa” nei seguenti documenti e occasioni: Enciclica Eccle-
siam suam (1964); Discorsi tenuti al Concilio: in apertura/chiusura del II periodo (1963-1964); in aper-
tura/chiusura del III periodo (1964); nella 116° congregazione generale dei padri conciliari (1964); in
apertura del IV periodo (1965); nella settima e ottava sessione (1965); nella solenne conclusione (8 di-
cembre 1965); Udienze generali del mercoledì (in specie anni 1966-1972); Esortazione apostolica Evan-
gelii nuntiandi (1975).
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 223
32
Alcune espressioni di Paolo VI, tra le moltissime, sono al riguardo veramente emblematiche: «La
Chiesa cattolica [...] forma il principale oggetto delle nostre cure, delle nostre sollecitudini, del nostro
amore e della nostra devozione» (al Concistoro unico, 28 aprile 1969); «La Chiesa! È essa il nostro amo-
re costante, la nostra sollecitudine primordiale, il nostro “pensiero fisso”!» (al Sacro Collegio, 21 giu-
gno 1976); «Un pensiero ci domina [...]: ed è il pensiero della Chiesa. Noi faremo bene a lasciare che
questo pensiero ci domini. Esso contiene molti segreti; segreti che ci riguardano» (Udienza generale,
22 giugno 1977); «Di che cosa possiamo, di che cosa dobbiamo parlarvi? Della Chiesa, ancora e sem-
pre della Chiesa! Prima di tutto perché tale è la nostra missione» (Udienza generale, 25 agosto 1977);
«E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica e apostolica, ricevi col mio benedi-
cente saluto il mio supremo atto d’amore» (Testamento, 16 settembre 1978).
33
Ecclesiam suam, in L’Osservatore Romano, 10-11 agosto 1964, 6.
34
Cf Discorso di apertura del II periodo del Concilio (29 settembre 1963).
35
Udienza generale (5 settembre 1973).
224 Giuseppe M. Siviero
36
Nei più significativi discorsi di Paolo VI al Concilio, dal 1963 al 1965, si può rilevare a mo’ di campio-
ne la presenza di alcuni preminenti titoli ecclesiologici, come segue: “Ecclesia” (comprese le varianti
“Ecclesia Dei”, “Ecclesia Christi”, “Ecclesia Catholica”, “Sancta Ecclesia” ecc.) compare circa 300 volte;
“Corpus Mysticum” circa 16 volte; “Populus Dei” (con la variante “plebs Dei”) 11 volte; “Sponsa Christi” 5
volte; “Mysterium” (con la variante “arcana res”) 7 volte; “Societas” 7 volte; altri: 10 volte. G. COLOMBO
sostiene che «non si sbaglia se si afferma che, per quanto concerne la natura intima della Chiesa, l’ec-
clesiologia di Papa Montini è quella della Mystici Corporis. Conseguentemenete il passaggio, pur nella
continuità, all’ecclesiologia del “popolo di Dio”, ha costituito anche per lui un progresso...» (Genesi, sto-
ria e significato dell’“Ecclesiam Suam”, in AA.VV., “Ecclesiam Suam”..., cit., p. 142). E ancora: «L’eccle-
siologia della Ecclesiam Suam è la ecclesiologia della Mystici Corporis, però per l’aspetto innovatore,
cioè non in quanto identifica la Chiesa con l’aspetto visibile della Chiesa, ma in quanto ne sottolinea l’a-
spetto misterico, soprattutto. Paolo VI è sensibilissimo a questo aspetto. Gli è venuto direttamente dai
suoi studi, indubbiamente, ma in particolare dal card. Journet...» (discussione seguita alla sua relazio-
ne, pp. 167-168).
37
Tra i tanti vi sono i seguenti: “Misterioso edificio spirituale”, “Famiglia di adoratori del Padre in spi-
rito e verità”, “Oceano dei disegni divini, delle divine misericordie, delle verità e delle grazie, delle spe-
ranze e della storia umana”, “Famiglia di Dio”, “Madre, Maestra, Arca”, “Fenomeno divino-umano”,
“Comunione della salvezza”, “Misteriosa costruzione”, “Organismo spirituale unificato”, “Nuova strut-
tura umana, storica, universale, vivente dello Spirito di Cristo”, “Vitale condizione dell’economia stori-
co-sociale stabilita dal Signore”, “Ordine spirituale e sociale complesso”, “Ente misterioso e comples-
so”, “Corpo di Cristo Risuscitato e Risuscitatore”, “Ponte di passaggio”, “Umanità congregata nel nome
di Cristo”, “Fenomeno storico, umano, religioso”, “Zona di luce celeste proiettata sul mondo”, “Organo
della salute portata al mondo da Cristo”, “Memoria mistica e vivente di Cristo”, “La continuità di Cristo
nel tempo”, “Associazione di preghiera”, “Societas Spiritus”, “Il risultato, sempre in via di perfeziona-
mento della Redenzione”, “Popolo messianico”, “L’ostensorio di Cristo”, “Punto d’incontro dell’amore
di Cristo per noi”, “Casa delle nozze”, “Madre degli uomini vivi”, “Società dei fratelli”, “Dispensatrice
dei sacramenti”, “Società della salvezza”, “L’Auditorio di Cristo”, “Un’obbedienza liberatrice”, “Città re-
ligiosa”, “Una fraternità”, “L’umile ma fulgente lampada e il circoscritto ma sempre aperto santuario
dello Spirito Santo”, “Solidarietà collettiva e superiore”, “Fiume che promana da Cristo”, “Il fermento e
l’anima del mondo”, “Società della speranza in continua crescita”, “Popolo missionario”, “Società uni-
versale della fede e della carità”, “Comunione organica di anime libere”, “L’Israele di Dio, il Regno dei
Cieli, Città di Dio, Gerusalemme celeste, Madre dei fedeli, Campo di Dio, Vigna del Signore, Ovile di
Cristo, Casa di Dio”.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 225
«[La Chiesa è] una realtà la quale, anche nei suoi aspetti visibili e istituzio-
nali, si presenta come “sacramento”, cioè come segno e strumento d’un pia-
no divino nel mondo» 40;
38
Cf Discorso ai partecipanti al II Congresso internazionale di diritto canonico (17 settembre 1973).
Importanti al riguardo sono anche i Discorsi tenuti al I Congresso internazionale di diritto canonico
(20 gennaio 1970) e alle Udienze generali del 19 ottobre 1966 e del 30 aprile 1969.
39
Udienza generale (27 aprile 1966).
40
Udienza generale (18 novembre 1970).
41
Udienza generale (18 ottobre 1972).
42
Udienza generale (14 agosto 1968).
43
Udienza generale (26 ottobre 1966).
44
Udienza generale (12 novembre 1969).
45
Udienza generale (8 giugno 1966).
226 Giuseppe M. Siviero
46
Udienza generale (21 luglio 1971).
47
Udienza generale (21 luglio 1971).
48
Udienza generale (2 giugno 1970).
49
I concetti di Chiesa-società e Chiesa-comunità, ciascuno per sua parte, dicono certamente qualcosa
di importante sia dal punto di vista esterno, in quanto rivelano lo statuto socioculturale e anche giuridi-
co che alla Chiesa è riconosciuto in un determinato contesto storico; sia dal punto di vista interno, in
quanto manifestano il tipo di organizzazione delle relazioni vigenti in essa in un determinato momento.
Discriminante è invece il fatto che con l’espressione «ecclesia est societas perfecta» si sia voluto significa-
re, fino al concilio Vaticano II, non soltanto la formulazione giuridica (iuridice perfecta) dell’autonomia
e dell’indipendenza della Chiesa dalla sfera di domino assoluto dello Stato moderno, affermazione che
rimane ancora oggi valida, ma una sorta di ecclesiologia giuridica, costruita senza espliciti fondamenti
teologici, avvalorando una pretesa impropria e assolutamente criticabile per la ragione che non si può
costruire alcuna ecclesiologia a partire da soli concetti filosofico giuridici o comunque preteologici.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 227
50
Queste espressioni si trovano in diversi discorsi, rispettivamente: Udienza generale (10 novembre
1971); Alla Rota (28 gennaio 1971); Udienze generali (23 giugno 1971; 9 luglio 1969); Ai partecipanti al
congresso internazionale di diritto canonico (20 gennaio 1970); Udienze generali (22 maggio 1968; 13
marzo 1968).
51
Udienza generale (20 novembre 1963); vedi anche 13 marzo 1968.
52
Udienza generale (17 gennaio 1973).
53
Omelia in “Cena Domini” (30 marzo 1972).
54
Ai rappresentanti dell’Azione cattolica italiana (7 dicembre 1963). Oltre ai ben noti concetti di società
e di comunità vi sono altri concetti, quali famiglia, gruppo, movimento, popolo, organizzazione interna-
zionale ecc. cui la Chiesa può riferirsi, e che fanno anzitutto appello a un quadro di ordine sociologico.
Più problematica, anche se storicamente avvenuta, risulta invece l’applicazione alla Chiesa del concetto
di stato o impero, in quanto implicante non solo una “neutra” nozione culturale e sociologica, come per
gli altri, ma un più esplicito progetto di segno politico, come tale in evidente contrasto con la vocazione
escatologica della Chiesa cristiana. Tuttavia, il nocciolo della questione non consiste nello stabilire,
astrattamente, se la Chiesa debba essere una società o una comunità. Di fatto, al di là dei gusti e delle
ragioni di ciascuno, ciò è deciso in gran parte dal quadro storicoculturale in cui la Chiesa è inscritta e
da altre circostanze sulle quali essa non sempre ha esplicito dominio, come per esempio il numero dei
membri, il tipo di appartenenza da essi sviluppato, la cultura preesistente sulla quale si innesta l’evan-
gelizzazione ecc. Nessuno metterà, per esempio, in dubbio che i nostri tempi manifestino una preferen-
za per una Chiesa “comunità di fede” piuttosto che per una Chiesa “società religiosa”, salvo poi riscon-
tare nel tessuto organizzativo della Chiesa contemporanea notevoli commistioni tra aspetti societari e
aspetti comunitari (si vedano le ecclesiologie soggiacenti al CIC). In ultima analisi sono sempre i con-
cetti teologici di communio e di missio che, in quanto ne individuano l’asse trinitario-cristologico, risul-
tano decisivi per la decodificazione finale del fenomeno Chiesa e che, proprio per questo fatto, possono
arricchire di qualità nuove lo stesso quadro sociologico di una Chiesa concreta ottimizzandone – per
così dire – l’evidenziazione storica in linea con il suo essere sacramento di Cristo. Si può quindi certa-
mente auspicare che l’importanza degli aspetti societari non giunga mai al punto di ridurre la Chiesa a
una istituzione formale, a una serie di relazioni istituzionalizzate del tutto omogenee e funzionali ai bi-
sogni religiosi al cui soddisfacimento la Chiesa stessa può essere deputata dalla più vasta collettività ci-
vile quasi ne fosse una mera funzione. Né d’altra parte che la valorizzazione degli aspetti interpersonali
degeneri al punto di ridurre la Chiesa a un clan o a una corporazione di interessi privati. Ambedue le
posizioni, come si vede, negano la realtà genuina della Chiesa, poichè essa, in ogni caso, non può mai
rinunciare allo sforzo di esprimere al meglio delle possibilità storicoculturali date la pienezza del miste-
ro umano divino che la costituisce, cioè la comunione e la missione.
228 Giuseppe M. Siviero
55
L’istituzione, come tutti sanno, si esprime sempre attraverso dottrine-riti-simboli e nasce mediante
un più o meno lungo processo di fissazione-stabilizzazione dei valori di un determinato gruppo umano.
Essa consente al gruppo umano stesso di conservare nel tempo, al di là del mutare delle generazioni, i
suoi valori-beni collettivi, di identificarvisi e di condividerli con altri. In questo modo, infatti, tali valori-
beni non dipendono più dalla volontà-qualità-genialità-forza-ispirazione di pochi, ma possono essere – in
certa misura – facilmente tradotti e usufruiti dalla massa, scaricando il singolo dall’angoscia esistenzia-
le, dovuta alla coscienza della propria debolezza di fronte al mondo e alla vita, infondendogli sicurezza
e protezione per un’esistenza forse meno eroica ma più tranquilla e ordinata. (cf anche E. ROGGERO,
Istituzione, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Cinisello B. 1994, 1082-1088.) La funzione in via
di principio altamente benefica delle istituzioni può però immiserirsi e addirittura andare del tutto
smarrita laddove le istituzioni stesse, affidate a mediocri funzionari, non riescano più a metabolizzare
con intelligenza e tempismo gli stimoli nuovi e positivi che provengono dalla società, dagli individui più
creativi e liberi, dallo spirito di profezia ecc., come ben chiarisce il sociologo C. PRANDI: «...il momento
profetico ha il compito specifico di richiamare, sulla base di contingenze storiche (i “segni dei tempi”)
che premono dall’esterno, i moduli originari sui quali l’istituzione fonda la propria identità, di ripristina-
re l’atmosfera dello “statu nascenti”, di riproporre tensioni etiche, teologiche (e, non di rado, politiche)
capaci di rivitalizzare un organismo sottoposto al rischio costante della sclerosi, dell’irrigidimento ge-
rarchico e della continua prevaricazione da parte del campo religioso». [campo religioso = apparato
dottrinale + apparato gerarchico + apparato simbolico rituale-sacramentale] (Carismi e istituzione, in
Credere oggi 5 [1986] 16). Per quanto riguarda la Chiesa, quindi, il processo storicamente necessario di
istituzionalizzazione non può rinunciare ad assumere connotati originali, come si sforza di sottolineare
il teologo S. DIANICH: «Si può parlare di comunità dove la comunione è manifestata al livello del fenome-
no constatabile e assume un volto stabile. I protagonisti dell’evento della comunicazione della fede fan-
no la comunità quando la loro esperienza interpersonale approda a una forma di convivenza che impli-
ca condivisione di sentimenti, di parole e di opere determinate, che tendenzialmente duri nel tempo»
(Chiesa in missione: per un’ecclesiologia dinamica, Paoline, 1985, p. 195).
56
Cf i Discorsi alle seguenti Udienze generali: 16 settembre 1964; 1° giugno 1966; 5 maggio 1967; 23
luglio 1963; 9 novembre 1966; 31 agosto 1966.
57
Udienza generale (16 settembre 1964).
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 229
58
Udienza generale (22 aprile 1970). Sul tema del rinnovamento delle istituzioni vedi la lettera di Pao-
lo VI al Presidente delle Settimane sociali di Francia (8 maggio 1975).
59
Udienza generale (24 settembre 1969). In altra circostanza Paolo VI richiama a «una seconda fedeltà
oggi necessaria alla Chiesa, quella fondata sulla valutazione autorizzata e responsabile degli elementi
costitutivi o storicamente acquisiti e non arbitrariamente alienabili della Chiesa stessa, tanto nel campo
istituzionale, quanto in quello dottrinale; e questa valutazione non può essere né frettolosa né arbitra-
ria» (Udienza generale [24 settembre 1969]).
230 Giuseppe M. Siviero
60
Udienza generale (25 aprile 1968).
61
P. LOMBARDIA afferma che «sebbene il nucleo fondamentale della “costituzione” della Chiesa sia ir-
reformabile, essendo stato definitivamente stabilito da Cristo, la comunità ecclesiale si arricchisce pro-
gressivamente nella storia, nella misura in cui cresce nella conoscenza dei molteplici aspetti del dise-
gno di Dio riguardante la sua natura e la sua missone, e, pertanto, nella comprensione dei principi di
“diritto divino” concernenti la sua struttura di società giuridicamente organizzata (positivizzazione)»
(Lezioni di diritto canonico, Milano 1985, p. 80). Gli fa eco un altro studioso il quale nota che l’espres-
sione “costituzione della Chiesa” «indica la struttura della Chiesa nella quale si rispecchia la sua essen-
za. [...] È ovvio che tale struttura deve fondamentalmente e in forma irrinunciabile ritrovarsi nel NT,
benché ciò non lo si possa esigere in un senso strettamente giuridico. In secondo luogo è giusto non
confondere la “struttura” della Chiesa con le molteplici forme concrete della sua organizzazione, ovve-
ro con le sue figure storiche» (M. SEMERARO, Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Piemme, Ca-
sale Monferrato 1993, 226).
62
Udienza generale (18 maggio 1966). Anche in altra occasione Paolo VI ebbe a ribadire che «ciò che
soprattutto importa è non perdere di vista le recondite e misterose realtà che stimolano e regolano, nel-
la Chiesa, il progresso delle istituzioni. Il vangelo è il seme, Cristo è l’unico sommo vero capo, sebbene
invisibile, lo Spirito santo è l’animatore, il santificatore, il paraclito: fonte di vitalità, di conforto, di co-
raggio, di gaudio» (Ad alcuni neocardinali, 30 aprile 1969). Paolo VI commenta così UR 18 che afferma
l’unità nelle cose necessarie (si direbbe essenziali-costitutive-costituzionali): «Il necessario è una carità
senza finzione, l’identità della fede, la sottomissione all’ordine essenziale voluto da Cristo per la sua
Chiesa» (discorso in occasione della visita del “Catholicos” Khoren I di Cilicia, 9 maggio 1967). Lo stes-
so Paolo VI, nel contesto di una riflessione sull’ecumenismo, fenomeno che di per sé richiama la co-
scienza ecclesiale a perseguire incessantemente le verità necessarie dentro e al di là delle tradizioni
particolari, dice che «ritrovarsi uniti nella diversità e nella fedeltà non può che essere l’opera dello spiri-
to d’amore. Se l’unità della fede è requisito per la piena comunione, la diversità di costumi non è affatto
un ostacolo, al contrario» (Discorso nella chiesa patriarcale di S. Giorgio di Istanbul in occasione della
visita al patriarca Athenagoras, 5 luglio 1967).
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 231
63
Senza entrare qui in problematiche che coinvolgono altre competenze, soprattutto per quanto ri-
guarda la questione per molti versi cruciale del pensiero-progetto di Gesù circa la Chiesa, rileviamo
quanto meno che la carenza di organizzazione ecclesiastica lasciata da Gesù è talmente evidente, soprat-
tutto se paragonata con l’esorbitante grandezza dell’ispirazione che egli lasciò in eredità ai suoi, che le
prime generazioni cristiane, di fatto, altro non poterono fare che accettare la sfida di compiere la loro
missione e conservare la comunione senza poter contare su un modello assiomatico di Chiesa. Ciò le
indirizzò verso un necessario confronto-contaminazione con le organizzazioni politico religiose del tem-
po: dapprima quelle giudaiche, poi quelle ellenistico romane, più tardi quelle germanico barbariche e
così via. Possiamo condividere la conclusione di B. VAN IRSEL: «Le più antiche comunità cristiane non
hanno elaborato nessuna struttura propria ma hanno assunto piuttosto modelli di organizzazione che
trovarono nei diversi ambienti» (Strutture della Chiesa di domani. Riflessioni bibliche, in AA.VV., L’avve-
nire della chiesa, Congresso di Bruxelles 1970, Brescia 1970, p. 181).
64
Al Sacro Collegio (23 giugno 1970).
232 Giuseppe M. Siviero
65
Udienza generale (25 agosto 1971).
66
Angelus (22 settembre 1974).
67
Alla CEI (11 giugno 1973).
68
«Si deve evitare la visione stratificata della Chiesa, che era presente nel CIC 1917, superata dal Vati-
cano II. Essa dipendeva dalla scuola del diritto pubblico ecclesiastico, preponderante al tempo della pri-
ma codificazione, che considerava la Chiesa come società di inuguali, in connessione con la sua visione
unilaterale della Chiesa come società perfetta. Infatti, sottolineando fortemente l’inuguaglianza tra i
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 233
membri della Chiesa, veniva affermata l’esistenza della gerarchia, in modo che la Chiesa, come società
giuridicamente perfetta, risultasse pienamente indipendente dall’autorità civile. Non possiamo dubitare
che la Chiesa sia una società giuridicamente perfetta, ma dobbiamo anche dire che questa visione della
Chiesa non ne spiega tutta la reatà misterica, di sacramento della salvezza e di realizzazione della co-
munione col Dio uno e trino. Il difetto della scuola del diritto pubblico ecclesiastico consisteva nella sua
visione parziale della Chiesa, perdendo di vista il tutto» (G. GHIRLANDA, Il diritto nella chiesa mistero di
comunione, Paoline, Roma - Cinisello B. 1990, p. 52). Si veda anche la descrizione tracciata nella prima
parte di questo articolo, in Quaderni di Diritto Ecclesiale 3 [1993] 332-351.
69
La Chiesa è anche definita da Paolo VI come «complessa unità» (Udienza generale [6 ottobre
1971]). La complessità dell’articolazione giuridica della “communio” storicizzata (“communio ecclesiae”
e “communio ecclesiarum”), a fronte della semplicità dell’intuizione mistico-teologica di essa, è stata be-
ne evidenziata in varie occasioni da E. CORECCO: cf, per esempio, Aspetti della ricezione del Vaticano II
nel Codice di diritto canonico, in AA.VV., Il Vaticano II e la Chiesa, (a cura di G. Alberigo e J.P. Jossua),
Brescia 1985, pp. 333-397 (in particolare pp. 367-387).
70
Si confronti, per esempio, l’Udienza generale dell’8 luglio 1964 dove, oltreché di «paternità» e «figlio-
lanza», Paolo VI parla di «rapporto di fraternità» di «parentela strettissima», di «fratellanza». Al riguardo
anche il Concilio, malgrado tutte le distinzioni intraecclesiali che esso pure non dissolve, sancisce non
senza solennità: «Nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa [...] una vera uguaglianza [...]» (LG 32).
234 Giuseppe M. Siviero
71
«L’ordinamento ecclesiale è inteso esattamente solo se concepito come ordinamento di servizio» (Ai
parroci e predicatori quaresimalisti di Roma, 17 febbraio 1969); e «il servizio ecclesiale è compito pro-
prio di tutti i membri della chiesa» (Udienza generale, 17 giugno 1970): la citazione fatta da Paolo VI è
presa dal contributo di M. LÖHRER, La gerarchia al servizio del popolo cristiano, in La chiesa del Vatica-
no II (a cura di Barauna), Firenze 1965, p. 699. Si delinea più precisamente la descrizione della Chiesa
come di una fraternità organica, ministeriale e carismatica insieme, laddove «ministero vuol dire servi-
zio, servizio per amore, per altrui utilità, con sacrificio di sé» (Udienza generale, 17 giugno 1970).
72
Paolo VI postula precisamente «il servizio come ragion d’essere dell’autorità nella Chiesa» (Udienza
generale, 17 giugno 1970) ed esprime ancor più chiaramente il principio secondo cui «l’idea del servi-
zio rimane il parametro di confronto e di perfezionamento canonico del potere conferito da Cristo ai
suoi apostoli e ai loro successori per la guida del popolo di Dio» (ibid.). Per cui possiamo dire che, nel-
la Chiesa, non è l’autorità a decidere cos’è servizio, ma è il servizio a decidere cos’è autorità. Un’auto-
rità, inoltre, che solo «per certe operazioni riveste il carattere funzionale di superiorità sociale» [!]
(Udienza generale, 18 maggio 1966; cf anche: Udienza generale, 25 agosto 1971).
Non bisogna, però, ingenuamente ignorare che l’esercizio dell’autorità è di fatto sempre in certa misura
condizionato, anche nella Chiesa, dai cosiddetti “modelli storici”, sui quali il pastoralista P.-A. Liége ebbe
modo di fare a suo tempo la seguente serena ma efficace riflessione: «La struttura costituita nella comu-
nità dal ministero pastorale prospetta inevitabilmente il problema dell’autorità e del funzionamento del
potere. Risulta che la Chiesa, lungo tutta la sua storia, ebbe difficoltà a mantenere inalterato, nella sua
originalità, il modello evangelico dell’autorità. Ha permesso che vi si sovrimponessero dei modelli cultu-
rali e politici dei quali alcuni si opponevano, più o meno profondamente, al modello evangelico: – Il dirit-
to romano per il quale l’autorità è dominium e non servitium causò diversi irrigidimenti nella concezione
dell’ordine da mantenere e delle leggi da fare osservare. – La società feudale ha dato il suo contributo
nel consolidare il senso della gerarchia, il carattere privilegiato dei capi ecclesiastici. – L’esercito ha cer-
tamente segnato della sua impronta l’autorità cristiana, diffondendo l’idea che l’origine assoluta di tale
autorità doveva escludere ogni dialogo e che essa non sarebbe mai stata arbitraria. – Le monarchie asso-
lute, a loro volta, hanno proposto un modello di potenza e di trionfo al di fuori degli imperativi evangeli-
ci. – Furono queste come ondate successive che, senza che vi si ponesse riparo, allinearono l’istituzione
ecclesiale e i suoi responsabili su situazioni sociologiche di fatto non sottoposte a critica» (Lo stare insie-
me dei cristiani tra comunità e istituzioni, Brescia 1979, p. 59). Interessanti anche le considerazioni di
A. LONGHITANO, Uffici ecclesiastici e condizionamenti politico culturali, in AA.VV., Ministeri e ruoli sociali,
Torino 1978, pp. 43-55 e di R.P. MC BRIEN, Chiesa cattolica romana, in Dizionario del movimento ecume-
nico, EDB, Bologna 1994, pp. 151-152. Lo stesso Montini ebbe una sofferta percezione della decisività
del “modo” dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Ciò emerge in misura del tutto particolare a livello
ecumenico nell’interpretazione del primato del vescovo di Roma: «Noi sappiamo che il nostro apostolico
ministero, posto al centro della Chiesa, è per quasi tutti questi fratelli, uno degli ostacoli principali alla lo-
ro ricomposizione nell’unità della Chiesa» (Udienza generale, 18 gennaio 1967).
73
In mancanza di un linguaggio più adeguato usiamo questa diade (costituzionale/disciplinare) per ri-
conoscere nei canoni “costituzionali” il risvolto giuridico (laddove ci sia) del dogma. E quindi conside-
rare la loro intrinseca maggiore importanza nella struttura canonica fondamentale della Chiesa, ma allo
stesso tempo anche la necessità di una loro costante purificazione ermeneutica. Il che, a livello tecnico,
implica uno sforzo mai compiuto di riformulazione della stessa norma costituzionale positiva, la quale
in quanto legge scritta rimane un modesto strumento umano chiamato a farsi carico non tanto della
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 235
funzione ideologica di legittimare un’ordine comunque dato nella Chiesa, quanto piuttosto di quella più
teologica di riconoscere-identificare formalmente il quid essenziale e costitutivo, contenuto nel myste-
rium ecclesiae di tutti i tempi, per la Chiesa dei nostri tempi. Mentre i canoni “disciplinari” sono piutto-
sto costruiti sulle consuetudini ecclesiastiche, tutte venerabili e perfino forse mai abbastanza valorizza-
te, ma certo anche non tutte nella stessa misura obbliganti. Infatti sono disciplina ecclesiale sia i diversi
riti che danno corpo alla più importante espressione culturale delle Chiese, cioè l’attività liturgica, sia,
per esempio per la Chiesa latina, la legge del celibato per i sacerdoti o l’obbligo per gli stessi di indos-
sare l’abito talare, come pure il voto solo consultivo degli organismi di corresponsabilità pastorale in
questioni che non toccano direttamente la fede e la morale ecc. Non tutte queste leggi hanno un lega-
me diretto con l’essenziale della fede, né partecipano allo stesso modo alla sua obbligatorietà, come
ben si sa. Essi, perciò, sono l’aspetto esistenziale, il rivestimento storico e antropologico culturale del
mysterium ecclesiae. La loro importanza, talora notevole, è però soprattutto di ordine pratico, un’impor-
tanza di fatto più che di principio. In teoria, quindi, questi canoni disciplinari sono per loro natura al-
quanto più mutevoli e in ogni caso non si impongono per se stessi alla coscienza del cristiano poiché
non poggiano direttamente (taluni neanche indirettamente) sui contenuti urgenti-cogenti della fede cri-
stologica, ma sulla tradizione disciplinare della comunità cristiana, formatasi a partire da un preciso
contesto, e che può ben essere anch’essa considerata autorevole, ma a partire da diverse motivazioni.
In definitiva, quale disciplina della vita comune nei suoi aspetti storici circostanziati, tali canoni discipli-
nari necessitano oggi di essere maggiormente pensati con il contributo di tutta la comunità, cioè dei
christifideles cuncti. Secondo l’antico motto: quod omnes tangit ab ommnibus approbari debet!
74
Secondo Paolo VI «l’opera della gerarchia visibile è ordinata all’effusione dello Spirito santo nelle
membra della Chiesa; il suo ministero non è indispensabile per la misericordia di Dio, la quale può
effondersi come a Dio piace; ma è normalmente indispensabile per noi...» (Alla Rota, 28 gennaio 1971).
Si può ritenere a ragione che il modello cui si ispira anche Paolo VI sia ispirato dall’adagio agostiniano:
«Noi siamo i vostri pastori ma siamo anche, assieme a voi, le pecore di questo Pastore. Dal nostro po-
sto siamo per voi come dei dottori, ma sotto il Maestro siamo, assieme a voi, dei discepoli in questa
scuola» (Enarrationes in psalmos, 126, 2-3).
236 Giuseppe M. Siviero
75
Le questioni che rientrano nel campo del diritto pubblico tradizionalmente erano, da una parte quelle
del governo ecclesiastico, la sua organizzazione e i suoi diritti/doveri; e dall’altra la relazione Chiesa/Sta-
to e la difesa del buon diritto della Chiesa erga omnes. Le stesse questioni oggi non solo si presentano in
nuova forma ma a esse si aggiungono nuovi contenuti: la configurazione dei diritti-doveri dei christifideles;
la struttura della communio ecclesiale e l’integrazione dei vari carismi-ministeri; la configurazione dei rap-
porti Chiesa locale/Chiesa universale; Chiesa cattolica/altre confessioni cristiane; Chiesa cattolica/altri
ordinamenti religiosi; Chiesa locale/comunità politica; Chiesa universale/ordinamento internazionale. Al-
lo scopo di difendere giuridicamente la libertas ecclesiae, illustrando in maniera efficace il diritto-dovere
della Chiesa di essere comunità con un proprio ordinamento e soggetto attivo dentro il mondo contempo-
raneo, in nome di una missione spirituale universale il cui destino è non quello di dominare, ma quello di
illuminare tanto le coscienze individuali quanto le strutture della convivenza umana.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 237
76
Sulla LEF cf: AA.VV., Legge e Vangelo: discussione su una legge fondamentale per la Chiesa, Brescia
1972, con il testo in appendice.
77
Le obiezioni nascono su un doppio versante: quello della materia di cui la disciplina speciale del
DPE dovrebbe occuparsi e che è ormai entrata in gran parte nel tessuto della normativa codiciale e da
essa non può essere del tutto estrapolata senza un certo grado di arbitrarietà. D’altra parte, anche sul
versante del metodo il DPE non può sottrarsi alla necessità di adottare la stessa prospettiva metodologi-
ca che appartiene in generale alla scienza canonistica postconciliare e, in ogni caso, dev’essere capace
di poter dialogare seriamente con la scienza madre e con la stessa ecclesiologia. Si aggiunga altresì
che il DPE non può esimersi, per sua natura, dal confronto con il diritto pubblico proprio delle comu-
nità civili e con il diritto della comunità internazionale.
238 Giuseppe M. Siviero
GIUSEPPE M. SIVIERO
Via Vescovi, 7
35038 Torreglia (Padova)
78
L’ordinamento della Chiesa e le sue istituzioni non possono avere obiettivi diversi o più importanti di
quelli della Chiesa stessa: la comunicazione della fede cristologica che diventa amore salvifico per il mon-
do. In vista cioè di una relazione estroversa: la missione dei credenti in vista della fraternità realizzata nel-
la società; le istituzioni ecclesiali in vista del servizio all’uomo; la propria vita in vista di un dono. Alla con-
servazione della Chiesa non è, di per sé, deputato il sistema giuridico, se non secondariamente, ma pri-
mariamente la libera elezione di Dio nei confronti di un popolo che egli fa suo. Laddove la comunicazione
di questo mysterium ha luogo, il diritto canonico si pone come sua espressione sussidiaria affinché la kà-
ris-caritas sia compiutamente incarnata nell’umano. Altre impostazioni del problema, quantunque diffuse,
laddove sembrino suggerire l’idea che il diritto o le istituzioni ecclesiali debbano a ragione anzitutto (e a
tutti i costi) conservare se stesse, ci paiono stravolgere di fatto il senso profondo delle cose e palesare
gravi carenze di ordine teologico e non meno gravi superficialità sul piano della stessa riflessione giuridi-
ca. Ben si sa, infatti, che – in generale – quando avviene (e avviene certamente troppo spesso) che le isti-
tuzioni diventano fine a se stesse è perché subiscono processi degenerativi di varia natura, non certo per-
ché realizzano correttamente la propria funzione. E per quanto riguarda le istituzioni specificamente ec-
clesiali bisogna riconoscere che solo nel porsi totalmente a servizio del sovrano evento dell’incontro
dell’uomo con Dio (e quindi non monopolizzandolo) esse possono affermarsi legittimamente. Viceversa,
altro non farebbero che negarsi in radice, distruggendo ogni proprio genuino significato ecclesiologico.
In verità taluni che, sia prima sia dopo il Concilio, si sono fatti fautori a oltranza di un dogmatico immobili-
smo istituzionale mal celavano il timore che il dinamismo riformatore potesse condurre all’azzeramento
di ogni istituzione ecclesiale e, quindi, alla presunta “morte” della Chiesa stessa. Ciò è del tutto irraziona-
le: l’esperienza insegna che al dissolversi di una forma istituzionale storicizzata non succede il nulla (isti-
tuzionale) ma una nuova e, si spera, più adeguata espressione istituzionale dell’esperienza comunitaria di
fede che, in quanto fede rivelata, delle stesse istituzioni più che figlia è da considerarsi madre.
239
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 239-256
I. La forma straordinaria
del matrimonio
di Jan Hendriks
(traduzione di Paolo Bianchi)
1
PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsa 11 iulii 1984, in
AAS 76 (1984) 747: «Utrum ad comprobandum statum liberum eorum qui, etsi ad canonicam formam
adstricti, matrimonium attentarunt coram civili officiali aut ministro acatholico, necessario requiratur
processus documentalis de quo in can. 1686, an sufficiat investigatio praematrimonialis ad normam
cann. 1066-1067. Resp. Negative ad primum; affirmative ad secundum».
2
Si veda K. BOCCAFOLA, Gli impedimenti relativi ai vincoli etico-giuridici tra le persone: affinitas, con-
sanguinitas, publica honestas, cognatio legalis, in AA.VV., Gli impedimenti al matrimonio canonico, Città
del Vaticano 1989, pp. 203-217, particolarmente pp. 213-215.
3
Un quadro delle opinioni in materia si può vedere nella c. Funghini 30 giugno 1988, in Monitor Eccle-
siasticus 114 (1989) 309-319 (un riassunto di questa sentenza in F. DELLA ROCCA, Diritto matrimoniale
canonico. Terzo volume di aggiornamento, Padova 1992, n. 132).
I. La forma straordinaria del matrimonio 241
«Il loro stato non si può senz’altro equiparare alla condizione dei conviventi
che non sono legati da alcun vincolo, in quanto nel loro caso si ritrova alme-
no un certo impegno a mantenere un definito e verosimilmente stabile stato
di vita, anche se non è estranea a questo stato la possibilità di un eventuale
divorzio. Ricercando il pubblico riconoscimento del vincolo da parte dello
Stato, tali coniugi mostrano di essere disposti ad assumersene, assieme ai
vantaggi, anche gli obblighi» 4.
4
In AAS 74 (1982) 183, n.82.
5
Cf c. Funghini 30 giugno 1988, in F. DELLA ROCCA, Diritto matrimoniale..., cit., 303.
242 Jan Hendriks
Il can. 1116 non muta il senso del can. 1098 del Codice previ-
gente, che regolamenta la medesima materia 7.
6
Cf anche CCEO 832.
7
«...praeplacuit canonem 1098, quoad substantiam attinet, immutatum relinquere», in Communicatio-
nes 3 (1971) 80.
I. La forma straordinaria del matrimonio 243
Grave incomodo
Nel can. 1116 si prevede uno stato di cose per cui non si possa
o avere presente o raggiungere alcun assistente in senso tecnico –
né il parroco, né un chierico o un laico debitamente delegati – senza
un grave incomodo, che incomba da un lato sia sull’Ordinario, sia
sul parroco, sia sul loro delegato e, dall’altro, anche solo su uno dei
due contraenti 8. Tale incomodo è di natura obiettiva. La gravità di ta-
le incomodo può essere assoluta, ossia concernente qualsiasi perso-
na, ovvero relativa, ossia concernente almeno uno dei due coniugi o
l’assistente, per esempio in ragione di una malattia, della distanza,
della povertà, della persecuzione ecc. 9. Gli autori aggiungono che ta-
le grave incomodo potrebbe riguardare anche una terza persona ri-
spetto a quelle già richiamate o anche il bene comune, riferendosi al-
la vita, alla salute, alla libertà, alla fama, al possesso dei beni tempo-
rali 10. È ritenuto grave l’incomodo derivante dal divieto dell’autorità
civile, anche sanzionato da una pena, di celebrare il matrimonio reli-
gioso senza la precedente celebrazione di quello civile nel caso che
da parte della autorità civile si rifiuti la celebrazione medesima, per
esempio per difetto della documentazione richiesta dalla legge civi-
le 11. L’incomodo relativo è sufficiente per l’utilizzo della forma straor-
dinaria.
Qualora di fatto un grave incomodo non sussista, il matrimonio
celebrato secondo la forma straordinaria è nullo, né giova l’opinione
soggettiva, l’ignoranza o l’errore di valutazione, neanche se l’errore
sia invincibile e scusabile 12. La forma straordinaria tuttavia vale se
l’assistente non possa essere presente o essere raggiunto senza gra-
ve incomodo, anche se materialmente sia presente nel luogo 13, non
invece se – in assenza del parroco proprio – i contraenti abbiano avu-
8
PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum 3 maii 1945, in
AAS 37 (1945) 149. I responsi dati prima della promulgazione del Codice vigente conservano valore in-
terpretativo ai sensi del can. 6 § 2. Cf Communicationes 10 (1978) 94 e 15 (1983) 237.
9
C. Masala 14 dicembre 1982, in APOSTOLICUM ROTAE ROMANAE TRIBUNAL, Decisiones seu sententiae,
LXXIV, 628.
10
P. FELICI, De forma matrimonii extraordinaria, in P. PALAZZINI (Ed.), Casus conscientiae. I. De matri-
monio, Roma 1961, p. 134; V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, Mechlina 1945, p. 270; P. GASPARRI,
Tractatus canonicus de matrimonio, II, Città del Vaticano 1932, pp. 137-138, n. 1008; A. SZENTIRMAI, De
applicatione can. 1098 in peculiaribus quibusdam adiunctis, in Periodica 52 (1963) 166-169.
11
S. CONGREGATIO DE SACRAMENTIS, Responsum 24 aprilis 1935.
12
C. Masala 14 dicembre 1982, cit., 628-629.
13
PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum 25 iulii 1931, in
AAS 23 (1931) 388.
244 Jan Hendriks
14
C. SARTORI - B. BELLUCCO, Enchiridion canonicum, Roma 1963, 290; J. BANK, Connubia canonica, Ro-
ma 1959, p. 483 dove si legge in una nota: «Debent tamen parochum vicinum adire, usquedum hic aditus
non constituat “grave incommodum” (10-15 km)»; R. BIDAGOR, De forma extraordinaria celebrationis
matrimonii casus singulares, in Monitor Ecclesiasticus 80 (1955) 471: «...pauca quaedam kilometra (10
aut 15 km) non videntur constituere distantiam talem, quae grave incommodum gignat eam percurrere».
15
V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., p. 270.
16
Cf la serie di risposte della Pontificia commissione per la interpretazione autentica del Codice in me-
rito al can. 1098, CIC 1917 dei giorni 10 novembre 1925; 10 marzo 1928; 25 luglio 1931; 12 aprile 1933;
24 aprile 1935; 3 maggio 1945, in C. SARTORI - B. BELLUCCO, Enchiridion..., cit., 289-292.
17
«Le bénéfice de ces diverses interprétationes (Pont. Comm. Interpretationis CIC) peut etre invoqué en
France où la loi du 8 avr. 1802, art. 54 dispose que le mariage civil doit etre célébré le premier, et où les
art. 199 et 200 du Code pénal punissent le ministre du cult qui n’aura pas respecté l’obligation de cette
anteriorité. Lors donc que des époux se heurtent à l’impossibilité de célébrer leur mariage devant l’officier
de l’état civil, alors que la loi ecclésiastique les admet à contracter, ils peuvent se marier simplement de-
vant deux témoins, en la forme prévue par le can.1098, pour éviter toute poursuite contre le ministre du
cult» (R. NAZ, Mariage en droit occidental, in ID. [ED.], Dictionnaire de droit canonique, VI, col. 772).
18
P. CIPROTTI, Il matrimonio religioso nelle legislazioni civili, in Monitor Ecclesiasticus 105 (1980) 88-90.
19
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., cit., pp. 135-136.
I. La forma straordinaria del matrimonio 245
20
Cf E. GARCIA, Cases and inquiries: extraordinary form of marriage, in Boletin Ecclesiastico de Filipinas
63 (1987) 226-227 (cit. in Canon Law Abstracts 59 [1988/1] 56).
21
R. CREWSE, The wait to get married, in Homiletic and Pastoral Review 6 (1985) 61-64; J. FARRAHER,
Does canon law allow delaying weddings for some months?, in ibid. 10 (1985) 71 (un riassunto di questi
articoli si trova in Canon Law Abstracts 55 [1986/1] 69 e 56 [1986/2] 59).
22
Cf S.C.S. OFFICII, Responsum diei 22 dec. 1949, in F.X. OCHOA, Leges Ecclesiae, II, n. 2093: «firma sem-
per et integra manente gravi legis naturalis e positivae obligatione catholice baptizandi et educandi uni-
versam utriusque sexus prolem».
246 Jan Hendriks
soltanto circoscrive questo diritto per i fedeli cattolici allo scopo che
sia salvaguardata la legge divina. La parte cattolica solo viene richie-
sta di fare il possibile per corrispondere alle esigenze della sua fede.
Per questa ragione, si deve ritenere che la forma straordinaria non
sia applicabile laddove l’Ordinario nega la licenza per un matrimonio
misto, a meno che siano adempiute le condizioni poste dalla legge
canonica (cf can. 1125).
Venne risposto:
«Non si deve recedere dalla prassi della S. Congregazione, e pertanto la per-
dita della pensione non è causa sufficiente per permettere la celebrazione
del matrimonio senza rito civile. Se si abbiano poi altre particolari circostan-
ze, si ricorra nei singoli casi» 23.
23
Risoluzione del 2 luglio 1917, in R. BIDAGOR, De forma extraordinaria celebrationis matrimonii casus
singulares, in Monitor Ecclesiasticus 80 (1955) 471.
24
Cf, su questa questione, K. LUEDICKE, Münsterischer Kommentar zum Codex Iuris Canonici, Essen
1985 e successivi aggiornamenti, commento al can. 1116, 6°.
25
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., cit., p. 141.
I. La forma straordinaria del matrimonio 247
rassero in quali luoghi fosse valido e lecito l’uso della forma straordi-
naria di celebrazione delle nozze,
«sia in considerazione della sempre più grave penuria di sacerdoti e di diaco-
ni, sia per il crescente numero di persone che abitano lontano dalla sede par-
rocchiale e dal domicilio del parroco, sia infine per la mancanza o la diffi-
coltà dei trasporti» 26.
26
Istruzione Ad Sanctam Sedem sulla celebrazione dei matrimoni di fronte ai soli testi in casi particola-
ri del 7 dicembre 1971, in EV 4, n. 1341.
27
Cf la sentenza della Rota Romana c. Sebastianelli 17 febbraio 1917, in AAS 9 (1917) 504; cf anche
V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., pp. 244-245.
28
Cf le risposte del 1908 della S. Congregazione del Concilio e del 1933 della S. Congregazione de pro-
paganda Fide in Enchiridion canonicum, 291.
248 Jan Hendriks
E la risposta fu:
«Si faccia ricorso nei singoli casi, eccetto che in pericolo di morte, nel qual
caso ogni sacerdote ha la facoltà di dispensare anche dall’impedimento di
clandestinità, permettendo che nelle dette circostanze il matrimonio sia cele-
brato lecitamente e validamente di fronte ai soli testi» 29.
29
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., cit., p. 140, n. 1015.
30
«Ordinarius recurrere non dedignetur in singulis casibus iuxta decretum editum ab hac S. Congregatio-
ne die 31 ian. 1916» in AAS 8 (1916) 37.
31
Sentenza c. Palestro 19 febbraio 1986, in ARRT Dec. LXXVIII, 106 (cf anche 105).
32
P. GASPARRI, Tractatus..., cit., p. 134, n. 998.
33
Cf V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., p. 269, il quale cita P. CHRETIEN, Praelectiones de matri-
monio, Metis 1937, p. 137.
I. La forma straordinaria del matrimonio 249
Il consenso
Se non è presente alcun ministro sacro, i contraenti possono
utilizzare la forma straordinaria di celebrazione descritta dal can.
1116 § 1, che comporta la presenza di due testi. Coloro che si trova-
no nelle condizioni previste dal canone conoscono però assai rara-
mente questa possibilità della forma straordinaria.
34
S.C.S. OFFICII, Responsum del giorno 27 gennaio 1949 e del giorno 22 dicembre 1949, in X. OCHOA,
Leges Ecclesiae, II, 2563, nn. 2021, 2659, 2093.
35
La questione della ammissione ai sacramenti dei divorziati civilmente risposati, in ID., Studi di diritto
matrimoniale canonico, Milano 1993, p. 506; cf J. HENDRIKS, Huwelijksrecht, Brugge, Oestgeest 1995,
p. 222.
36
Cf Communicationes 10 (1978) 94.
250 Jan Hendriks
In pericolo di morte
Se incombe il pericolo di morte, l’Ordinario del luogo, ma an-
che un sacerdote e un diacono – qualora non sia possibile raggiun-
gere l’Ordinario del luogo – hanno sicura facoltà di dispensare dalla
forma canonica (can. 1079 § 1-2); né, in tale circostanza, è più nem-
meno richiesta la presenza dei testi. Sempre se incombe il pericolo
di morte, il sacerdote o il diacono che non possano ricorrere all’Or-
dinario del luogo possono pure dispensare dagli impedimenti che
non siano di diritto divino, eccettuato però l’impedimento derivante
dalla ricezione dell’ordine del presbiterato (can. 1079 § 2).
Il pericolo di morte si realizza quando vi sia una vera e grave
probabilità del verificarsi della morte 38. La causa del pericolo di mor-
te può provenire sia da una malattia sia da una causa esterna al sog-
getto, come per esempio una guerra, un parto difficile, una condan-
na capitale, una operazione chirurgica. La facoltà di dispensare può
essere esercitata anche se la parte interessata dall’impedimento sia
in buona salute e sia invece l’altra parte a versare in pericolo di mor-
te 39. Il pericolo di morte deve essere valutato moralmente 40. La di-
spensa vale se il ministro prudentemente giudichi vi sia pericolo di
37
Queste parole del can. 1116 mancavano nel can. 1098 del Codice previgente; furono introdotte per
evitare una casistica eccessivamente tortuosa. Si veda Communicationes 10 (1978) 95-96 e anche
J. MARTINEZ-TORRON, La valoración del consentimiento en la forma estraordinaria del matrimonio canó-
nico, in Revista Española de Derecho Canónico 40 (1984) 431-458.
38
P. GASPARRI, Tractatus canonicus de matrimonio, I, Città del Vaticano 1932, p. 231.
39
Come risulta evidente da un responso del S. Ufficio del 1° luglio 1891: cf V. HEYLEN, Tractatus de
matrimonio, cit., p. 658.
40
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., I, cit., p. 231.
I. La forma straordinaria del matrimonio 251
41
Cf T. VLAMING - L. BENDER, Praelectiones iuris matrimonii, Bussum in Hollandia 1950, p. 298.
42
C. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629.
43
S. CONGREGATIO CONCILII, Decreto Ne temere, 2 agosto 1907.
252 Jan Hendriks
44
C. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629; V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., p. 274; PONTIFICIA
COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Resp. 10 novembris 1925, in AAS 17
(1925) 583.
45
Cf R. BIDAGOR, Circa interpretationem canonis 1098 CIC, in Monitor Ecclesiasticus 78 (1953) 480-485.
46
C. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629.
47
Circa questa questione della interpretazione soggettiva piuttosto che oggettiva, cf J. BANK, Connubia
canonica, cit., pp. 485-488.
I. La forma straordinaria del matrimonio 253
48
P. FELICI, De forma matrimonii..., cit., p. 136.
49
C. Jullien, sentenza 7 dicembre 1931, citata nella c. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629-630, n. 7. Sul
punto si veda anche J. BANK, Connubia canonica, cit., pp. 488-490; L. BENDER, Valor actus, ut aiunt, civi-
lis in casibus qui a can. 1098 reguntur, in Monitor Ecclesiasticus 80 (1955) 106-119; Communicationes 10
(1978) 95.
254 Jan Hendriks
50
Istruzione Ad sanctam Sedem, in EV 4, nn. 1338-1344: il testo citato si trova al n.1339. Circa il laico
preparato allo svolgimento dei detti compiti, cf i nn. 1342-1344.
51
Cf tuttavia P. GASPARRI, Tractatus..., II, cit., p. 139, circa una lettera della S. Congregazione de propa-
ganda Fide del 1830, che indicava anche delle modalità celebrative.
I. La forma straordinaria del matrimonio 255
52
Communicationes 3 (1971) 80-81; 8 (1976) 50-53; 10 (1978) 94-95.
53
AAS 76 (1984) 746-747.
256 Jan Hendriks
54
Cf SEGNATURA APOSTOLICA, Letter to the Bishop of Mainz, 10 maggio 1976, in Canon Law Society of
Great Britain and Ireland - Newsletter 75 (1988) 48-50.
55
GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, in AAS 73 (1981)
183, n. 82. Cf anche J. HENDRIKS, «Ad sacram communionem ne admittantur...». Adnotationes in can.
915, in Periodica 79 (1990) 172; ID., «Non siano ammessi alla sacra comunione...» in Quaderni di diritto
ecclesiale 5 (1992) 199.
56
F.M. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de sacramentis, III, De matrimonio, Torino 1939, n. 692;
P. CHRETIEN, Praelectiones de matrimonio, Metis 1937, p. 173.
257
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 257-267
II. Note in materia
di “forma straordinaria”
della celebrazione del matrimonio
di Paolo Bianchi
1
J. HENDRIKS, Matrimonii forma extraordinaria (can. 1116), in Periodica de re canonica 84 (1995)
687-709.
258 Paolo Bianchi
2
Ci si permette il rinvio all’articolo di P. BIANCHI, Nullità di matrimonio non dimostrabili. Equivoco o
problema pastorale?, in Quaderni di Diritto ecclesiale 6 (1993) 280-297.
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 261
la forma cosiddetta canonica, l’art. 50, terzo comma della detta nor-
mativa prevede che:
«di norma – salvo che sia disposto diversamente da eventuali intese con al-
tre confessioni cristiane – si richieda che le nozze siano celebrate davanti a
un legittimo ministro di culto, e non con il solo rito civile, stante la necessità
di dare risalto al carattere religioso del matrimonio».
3
Cf AAS 77 (1985) 771, ove venne promulgata il 1° agosto 1985.
264 Paolo Bianchi
4
Cf G. DALLA TORRE, Il matrimonio canonico in Italia, oggi, in AA.VV., Il matrimonio canonico in Italia
(a cura di E. Cappellini), Cremona 1984, p. 180.
5
Cf L. MUSSELLI, Manuale di diritto canonico e matrimoniale, Bologna 1995, p. 224.
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 265
6
Cf Legge 27 maggio 1929, n. 847, art. 13.
7
Cf G. MARAGNOLI, Osservazioni intorno alla lettura degli artt. 143-144.147 cod. civ. durante la celebra-
zione del matrimonio concordatario, in Quaderni di Diritto ecclesiale 7 (1994) 322-333.
266 Paolo Bianchi
8
AAS 76 (1984) 746-747.
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 267
PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE
SOMMARIO PERIODICO
269 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
272 Il sacramento dell’Unzione degli infermi: N. 3 - LUGLIO 1996
celebrazione e ministro
di Massimo Calvi DIREZIONE ONORARIA
STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini
Editoriale
Nel tempo della malattia l’uomo vive innanzitutto una certa alie-
nazione dal proprio corpo: esso gli si rivolta contro, non gli obbedi-
sce più e, diventando causa della sua sofferenza, nelle situazioni più
gravi gli fa presagire, in modo più o meno consapevole, la possibilità
della morte. La malattia,
«colpendo l’uomo nel corpo, lo aggredisce nel vivo della sua unità esistenzia-
le [...] Il corpo è per l’uomo la concretezza attiva e passiva del suo essere
con gli altri e per gli altri nel mondo. La malattia intacca il corpo, e ne capo-
volge il senso: da strumento fondamentale che era, lo muta in potenza ostile
che si oppone alla voglia di vivere dell’uomo» 1.
1
G. GOZZELLINO, Unzione degli infermi, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, III, Torino 1977, p. 507.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 273
2
G. COLOMBO, Unzione degli infermi, in Nuovo Dizionario Liturgico, Roma 1984, p. 1540.
3
Salvifici doloris, n. 9.
274 Massimo Calvi
Anche nella prova del dolore e della malattia il cristiano può es-
sere vittorioso solo alla luce di una rinnovata consapevolezza dell’a-
more di Dio.
4
Salvifici doloris, n. 16.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 275
sacramento degli infermi che ha trovato una delle espressioni più ma-
ture nelle affermazioni dogmatiche del concilio di Trento:
«Questa sacra unzione è stata istituita come vero e proprio sacramento nel
Nuovo Testamento da Cristo Signore, ed è accennato da Marco ed è racco-
mandato ai fedeli e promulgato poi da Giacomo, Apostolo e fratello del Si-
gnore» 5.
5
Concilio di Trento, XIV sessione, cap. I, in DENZINGER - SCHÖNMETZER, Enchiridion Symbolorum, Defi-
nitionum et Declarationum de rebus fidei et morum [= DS], Herder 1976, ed. XXXVI, 1965.
6
La presente traduzione è ripresa da G. COLOMBO, Unzione degli infermi, cit., p. 1542.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 277
sma. Però non si può fare l’unzione sui penitenti, poiché essa appartiene ai
sacramenti. Infatti, come pensare che si possa concederne uno a colui al
quale si negano gli altri sacramenti?» 7.
7
DS 216.
8
M. RIGHETTI, Storia liturgica, IV, Milano 1953, p. 232.
9
G. COLOMBO, Unzione degli infermi, cit., p. 1543.
278 Massimo Calvi
ricordia il Signore ti perdoni i peccati che hai commesso con gli oc-
chi, con le orecchie [...]» e gli effetti (cf DS 1324-1325).
10
Per la trattazione di questo tema rinviamo all’articolo in questo stesso numero della rivista di E. ZA-
NETTI, A chi conferire il sacramento dell’unzione?
11
M. RIGHETTI, Storia liturgica, cit., pp. 235-236.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 279
12
Cf A.G. MARTIMORT, La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, IV, Brescia 1987, p. 151.
13
M. RIGHETTI, Storia liturgica, cit., p. 239.
280 Massimo Calvi
Nel capitolo II, l’Unzione viene definita come grazia dello Spiri-
to Santo che si traduce in una molteplicità di effetti spirituali e corpo-
rali per il bene del malato:
«L’essenza è questa grazia dello Spirito Santo, la cui unzione toglie i delitti,
se ve ne sono ancora da espiare, e i postumi del peccato, e allevia e fortifica
l’anima del malato (can. 2), eccitando in lui una grande fiducia nella divina
misericordia, e l’infermo ne è sollevato, sopporta meglio gli incomodi e le
pene della malattia, resiste più facilmente alle tentazioni del demonio “che
insidia il calcagno” (Gn 3, 15), e consegue talvolta la sanità del corpo, quan-
do fosse conveniente alla salvezza dell’anima» (DS 1696).
14
Rituale Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, edizione tipica per la lingua italiana,
1974, Praenotanda, n. 6.
15
Tale definizione, elaborata nel contesto del I convegno nazionale della Consulta per la pastorale del-
la sanità della CEI, è riportata nella nota 1 del documento CEI La pastorale della salute nella Chiesa ita-
liana, del 1989.
16
G. GOZZELLINO, Unzione degli infermi, cit., p. 509.
282 Massimo Calvi
viene conferita ungendoli con olio e pronunciando le parole stabilite nei libri
liturgici» (can. 998).
17
Cf SACRA CONGREGATIO PRO SACRAMENTIS ET CULTU DIVINO, Variationes in novas editiones librorum li-
turgicorum introducendae, in Notitiae 19 (1983) 540-555.
284 Massimo Calvi
Materia e forma
Sono indicate dal can. 998 «L’Unzione degli infermi [...] viene
conferita ungendoli con olio e pronunciando le parole stabilite nei li-
bri liturgici», e più esplicitamente definite nella Costituzione aposto-
lica Sacram unctionem infirmorum del papa Paolo VI (30 novembre
1972):
«[...] poiché questa revisione tocca in alcune parti lo stesso rito sacramenta-
le, con la nostra autorità apostolica decretiamo che, per l’avvenire, sia osser-
vato nel rito latino quanto segue: Il sacramento dell’Unzione degli infermi si
conferisce a quelli che sono ammalati con serio pericolo, ungendoli sulla
fronte e sulle mani con olio d’oliva o, secondo l’opportunità, con altro olio ve-
getale, debitamente benedetto, e pronunciando, per una volta soltanto, que-
ste parole: “Per istam sanctam Unctionem et suam piissimam misericordiam
adiuvet te Dominus gratia Spiritus Sancti, ut a peccatis liberatum te salvet at-
que propitius allevet”».
L’unzione
Circa il segno sacramentale è opportuno ricordare la ricchissi-
ma significazione biblica dell’unzione: l’olio, uno dei prodotti base
della terra degli Ebrei, era simbolo naturale di ricchezza e prospe-
rità. Come presso altre popolazioni, era usato quale mezzo terapeuti-
co per guarire le ferite, lenire i dolori, per rinvigorire le membra e
per profumare il corpo. L’unzione poi simboleggiava l’elezione da
parte di Dio ed era utilizzato come strumento di consacrazione.
Nel sacramento essa diventa segno del sollievo e del conforto
offerto da Dio Padre, per opera dello Spirito, nel nome di Cristo Si-
gnore al cristiano infermo e sofferente.
L’olio da usarsi
È utile rilevare che, diversamente dalla normativa precedente
(CIC 1917, can. 937), non è più tassativo l’uso dell’olio d’oliva purché
si utilizzi un olio di origine vegetale
«Dato [...] che l’olio di oliva, quale era fino ad ora prescritto per la validità
del sacramento, in alcune regioni manca del tutto o può essere difficile pro-
curarlo, abbiamo stabilito, su richiesta di numerosi vescovi, che possa esse-
re usato in futuro, secondo le circostanze, anche un olio di altro tipo, che tut-
tavia sia ricavato da piante, in quanto più somigliante all’olio d’oliva» (Costi-
tuzione Apostolica Sacram unctionem infirmorum).
La benedizione dell’olio
Il can. 999, indica il ministro ordinario della benedizione dell’o-
lio. Oltre al vescovo, che di solito lo benedice nella solenne celebra-
zione della Messa crismale, l’olio può essere innanzitutto benedet-
to da tutti coloro che nel diritto sono equiparati al vescovo diocesano
(1°), vale a dire coloro che presiedono la prelatura territoriale e
l’abbazia territoriale, il vicariato apostolico e la prefettura apostolica
e l’amministrazione apostolica eretta stabilmente (cf can. 381 § 2).
Si noti che, in ossequio alla prassi liturgica più antica, il rituale
per la Messa crismale prevede la possibilità di benedire l’olio degli
infermi sia insieme a quello dei catecumeni e del Crisma, dopo l’o-
melia, sia da solo, prima della conclusione della Prece eucaristica.
Conservazione dell’olio
Mentre il Codice del 1917 prescriveva al parroco di conservare
l’olio benedetto in un luogo adeguato e dentro a una ampolla di me-
tallo (cf can. 946), il CIC vigente tace sull’argomento.
Ne tratta invece il Rituale che offre al riguardo indicazioni suffi-
cientemente precise: se l’olio è stato solennemente benedetto dal ve-
scovo, dovrà essere conservato, con il dovuto rispetto, in un luogo
adatto (solitamente in chiesa parrocchiale) e recato presso il malato
in una ampolla di materia adatta a conservarlo, ben pulita e in quan-
tità sufficiente per le unzioni da farsi. È inoltre necessario fare atten-
zione a che l’olio non si alteri con il tempo, ma resti adatto all’unzio-
ne. Almeno una volta l’anno, dopo la benedizione fatta dal vescovo,
dovrà essere rinnovato.
Se invece è stato benedetto durante il rito sacramentale dell’Un-
zione, l’olio eventualmente avanzato deve essere bruciato aggiun-
gendovi cotone idrofilo (cf Rituale, n. 22).
18
Cf Communicationes 9 (1977) 342.
19
Cf l. cit.
290 Massimo Calvi
«Non vi è dubbio che per ora l’unico ministro valido del sacramento sia il sa-
cerdote o il vescovo. Resta tuttavia da chiedersi se la Chiesa è talmente
legata a questa prassi da non poter accordare tale potere ad altri, ad esempio
a dei diaconi. Sulla base della prima tradizione del sacramento, sembra non
si possa escludere tale possibilità» 20.
Il ministro ordinario
Quanto alla individuazione del ministro al quale compete il dirit-
to-dovere di amministrare il sacramento, il Codice semplifica la nor-
mativa precedente, favorendo la più ampia possibilità di offrire ai fe-
deli il salutare sollievo dell’Unzione.
Il paragrafo 2 del can. 1003, infatti, stabilisce che
«hanno il dovere e il diritto di amministrare l’Unzione degli infermi tutti i sa-
cerdoti ai quali è demandata la cura delle anime, ai fedeli affidati al loro uffi-
cio pastorale; per una ragionevole causa, qualunque sacerdote può ammini-
strare questo sacramento con il consenso almeno presunto del sacerdote di
cui sopra».
Altri ministri
L’attuale normativa indica la possibilità che l’amministrazione
del sacramento venga fatta da un sacerdote diverso da quello più so-
20
G. GOZZELLINO, Unzione degli infermi, cit., p. 509.
21
Praenotanda, n. 16.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 291
pra indicato. Perché ciò avvenga in modo lecito sono sufficienti una
ragionevole causa e il consenso almeno presunto di colui che ne ha
normalmente l’incombenza (cf can. 1003 § 2). La normativa prece-
dente, invece, appariva al riguardo un poco più severa limitando tali
interventi ai casi di necessità (cf CIC 1917, can. 938 § 2).
Effettuata la celebrazione il ministro non ordinario ha il dovere
di informarne il responsabile (cf Rituale, n. 18).
22
Cf J. DESHUSSES, Extrême-onction en droit occidental, in Dictionnaire de droit canonique, V, Paris
1953, col. 723.
23
Cf M. CONTE A CORONATA, Compendium iuris canonici, III, Torino 1949, p. 225.
292 Massimo Calvi
24
Praenotanda, n. 13.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 293
taria; così la fede professata nel rito ravviva la preghiera della fede che ac-
compagna la celebrazione del sacramento» 25.
La comunità cristiana
Il ruolo del ministro esprime e richiama la relazione con la co-
munità ecclesiale che, per mezzo di lui e con lui, cioè attraverso la
sua ministerialità, è chiamata a offrire un servizio all’ammalato 27.
Nei sacramenti nulla avviene senza la Chiesa. Istituiti da Cristo,
sono affidati alla Chiesa; sono nel contempo azione di Cristo e della
Chiesa. Segni e mezzi mediante i quali viene espressa e irrobustita
la fede e si rende culto a Dio per la santificazione degli uomini, essi
concorrono sommamente a generare, confermare, manifestare e in-
tensificare la comunione ecclesiale (cf can. 840).
Nel caso dell’Unzione tale legame con la comunità credente ac-
quista un carattere particolare.
25
Ibid., n. 36; cf anche n. 17.
26
Si vedano in particolare i nn. 151-160.
27
Cf Communicationes 9 (1977) 342.
294 Massimo Calvi
MASSIMO CALVI
Via Milano, 5
26100 Cremona
28
CONSULTA NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLA SANITÀ, Nota La pastorale della salute nella Chiesa ita-
liana. Linee di pastorale sanitaria, Roma 1989, n. 23.
29
Christifideles laici, n. 54.
30
CCC 1522.
295
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 295-313
A chi conferire il sacramento
dell’Unzione degli infermi?
di Eugenio Zanetti
1
Cf l’articolo di M. CALVI, Il sacramento dell’Unzione degli infermi, pubblicato in questo fascicolo.
296 Eugenio Zanetti
2
«Sacra infirmorum unctione atque oratione presbyterorum Ecclesia tota aegrotantes Domino patienti
et glorificato commendat, ut eos alleviet et salvet (cf Iac 5, 14-16) [...]» (LG 11, in EV 1, n. 314).
3
«Sacramentum Unctionis infirmorum confertur infirmis periculose aegrotantibus [...]» (PAULUS PP. VI,
Const. ap. Sacram unctionem infirmorum [30 novembre 1972], in EV 4, n. 1845); «Homo enim, periculo-
se aegrotans, peculiari Dei gratia indiget [...]» (SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Ordo unctionis
infirmorum “Hominum dolores” [7 dicembre 1972], n. 5, in EV 4, n. 1863); «Omni ergo studio ac diligen-
tia haec sacra Unctio conferenda est fidelibus qui propter infirmitatem vel senium periculose aegrotant»
(ibid., n. 8, in EV 4, n. 1867). Per comodità indicheremo, d’ora in poi, solo i numeri dell’Ordo, tenendo
presente la sua edizione italiana.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 297
4
Cf ACTA COMMISSIONIS, Relatio complectens synthesim animadversionum ab Em.mis atque Exc.mis Pa-
tribus Commissionis ad Novissimum Schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a
Secretaria et Consultoribus datis, in Communicationes 15 (1983) 213-214.
5
A coloro che vedevano nel termine “graviter” un’indicazione più ristretta e precisa la Segreteria rispo-
se: «Est idem: “periculose” idem sonat ac “graviter”» [come a dire che con il termine “periculose” si vole-
va proprio esprimere la particolare gravità della malattia]; a coloro che, invece, vi vedevano una restri-
zione rispose: «Nulla adest contradictio neque restrictio», citando il n. 8 dell’Ordo e SC 73 e aggiungendo
che il riferimento al prudente e probabile giudizio presente nell’Ordo indicava solo il “modo” per giun-
gere al giudizio sulla gravità della malattia (cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 [1983] 216 e
214).
6
Nell’edizione UECI ai cann. 998 e 1005 il termine “periculose” è tradotto in italiano con “gravemente”.
Anche nella traduzione italiana dell’Ordo contenuta nell’Enchiridion Vaticanum (EDB) il termine “peri-
culose” al n. 5 è reso con “gravemente” e al n. 8 l’espressione «fidelibus qui... periculose aegrotant» è reso
con «a quei fedeli, il cui stato di salute risulta seriamente compromesso...». Queste espressioni sono sta-
te poi riprese anche nel documento della CEI, Evangelizzazione e sacramenti della Penitenza e del-
l’Unzione degli infermi (12 luglio 1974): «Il sacramento dell’Unzione degli infermi è perciò destinato a
tutti i malati gravi il cui stato di salute risulti seriamente compromesso [...]» (n. 141, in ECEI 2, n. 1515).
7
ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
298 Eugenio Zanetti
8
La prima tendenza, sulla linea di Abelardo e in parte anche di san Tommaso, è più legata alla teologia
tedesca (cf per esempio: K. RAHNER, Il libro dei sacramenti, Brescia 1977, pp. 79-94); la seconda, invece,
alla scuola francese, più attenta alla prassi e alla teologia della Chiesa primitiva (cf il capostipite di tale
tendenza: A. CHAVASSE, Étude sur l’onction des infirmes dans l’Église latine du III au XI siècle, Lyon
1942).
9
«Extrema unctio praeberi non potest nisi fideli, qui adeptum usum rationis ob infirmitatem vel senium
in periculo mortis versetur» (can. 940 § 1, CIC 1917). Occorre, però, menzionare anche il can. 944 che
sottolinea l’importanza di curare che «infirmi, dum sui plene compotes sunt, illud recipiant».
10
Cf D. BOROBIO, Unzione degli infermi, in La celebrazione della Chiesa, 2. I sacramenti, a cura di
D. Borobio, Torino 1994, pp.731-832; G. GOZZELLINO, L’unzione degli infermi, Torino 1976; A. DONGHI,
L’olio della speranza, Roma 1984; E. LUINI, Unzione degli infermi, Milano 1986. Tra le riviste liturgiche
che ultimamente si sono dedicate a questo tema si veda: Competenza per celebrare l’Unzione degli in-
fermi in Rivista liturgica 1 (1993) e Salvezza e salute in Rivista liturgica 5 (1994); Liturgie et pastorale de
la santé in La maison Dieu 205 (1996).
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 299
11
Durante la revisione del Codice fu proposto di stigmatizzare esplicitamente le due situazioni limite,
dicendo che in caso di malattia o vecchiaia si “può” amministrare l’Unzione degli infermi, mentre in
presenza di imminente pericolo di morte si “deve” amministrare l’Unzione; ma la proposta non fu rite-
nuta opportuna (cf ACTA COMMISSIONIS, Coetus studiorum de Sacramentis: 18-22 aprile 1977, in Com-
municationes 9 [1977] 341).
12
Ci sembra insufficiente e difficoltoso limitarsi ad affermare che «la malattia grave si definisce so-
prattutto in base ai profondi cambiamenti che produce nella vita psicofisica e spirituale del malato, con
300 Eugenio Zanetti
seri turbamenti della sua attività normale e delle sue abituali relazioni con gli altri e con Dio» (D. BORO-
BIO, La celebrazione nella Chiesa, cit., p. 821). Ci sembra più equilibrato riconoscere che «poiché sog-
getto dell’unzione è l’uomo, la valutazione della gravità della malattia non dipende semplicemente dai
criteri medici, ma interessa anche la psicologia dell’uomo infermo» (A. DONGHI, L’olio della speranza,
cit., p. 87).
13
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 9 (1977) 343 e 15 (1983) n. 2, 215.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 301
l’imminenza della morte, una pericolosità insita nel corpo, cioè la ma-
lattia o la vecchiaia, e non semplicemente proveniente dall’esterno 14.
Malati gravi: sulla gravità della malattia già abbiamo riflettuto a
lungo; qui basta ricordare alcuni casi concreti, come quello dei fedeli
affetti da un tumore o da altre malattie in cui la diagnosi medica sia
particolarmente infausta o comunque non escluda un improvviso e
pericoloso aggravamento, oppure il caso di grave paralisi, amputa-
zione, asportazione di un organo importante in un contesto di pro-
gressiva degenerazione della malattia.
Anziani molto debilitati: non si tratta di tutti gli anziani, ma solo
di coloro la cui salute sta pericolosamente declinando a causa di un
sensibile indebolimento delle forze, anche se non vi è la presenza di
una grave malattia (cf Ordo, n. 11).
Coloro che sono operati per un male pericoloso: prima di un’ope-
razione chirurgica si può amministrare l’Unzione degli infermi qua-
lora causa dell’operazione stessa sia una malattia comportante peri-
colo per la vita (cf Ordo, n. 10).
I moribondi: «Soggetti dell’Unzione degli infermi sono anche i
moribondi, qualora non sia stato possibile conferire loro il sacramen-
to in tempo più opportuno» 15.
Nei casi ora ricordati possono venire a trovarsi anche i bambini,
gli incidentati, gli handicappati, i malati incoscienti. Ma in questi ca-
si, per conferire l’Unzione degli infermi, occorre valutare anche altre
condizioni, oltre alla pericolosità della situazione di salute: e cioè la
presenza di un sufficiente uso di ragione e l’intenzione precedente di
ricevere il sacramento.
Infatti, nel can. 1004 § 1 per l’amministrazione dell’Unzione de-
gli infermi si richiede in generale l’aver «raggiunto l’uso di ragione».
Il riferimento anzitutto ai bambini è implicito, visto che stando al
can. 97 § 2 si presume che abbia raggiunto l’uso di ragione il “bambi-
no” che ha compiuto i 7 anni di età.
L’Ordo, trattando esplicitamente dei bambini, non si accontenta
però di prendere in considerazione i semplici dati cronologici, ma
aggiunge valutazioni più psicologiche: «anche ai bambini si può dare
la sacra unzione, purché abbiano raggiunto un uso di ragione tale
che possano essere confortati da questo sacramento» (n. 12).
14
Perciò non sembrano motivi sufficienti per conferire l’Unzione degli infermi i pericoli esterni come
la guerra, il terrorismo o le calamità (cf V. DE PAOLIS, Il sacramento dell’unzione degli infermi, in AA.VV.,
I sacramenti della Chiesa, Bologna 1989, p. 248).
15
CEI, Evangelizzazione e... Unzione degli Infermi, n. 141, in ECEI 2, n. 1515.
302 Eugenio Zanetti
16
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
17
L’Ordo stesso ha dovuto conformarsi alle indicazioni codiciali (Cf SACRA CONGREGAZIONE PER I SACRA-
MENTI E IL CULTO DIVINO, Variazioni da introdurre nelle nuove edizioni dei libri liturgici [12 settembre
1983], n. 12, in EV 9, n. 403).
18
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
Riconosciamo che non è facile valutare la situazione delle persone handicappate psichiche; per un
approfondimento si veda: L. GHIZZONI, Dare i sacramenti agli handicappati psichici gravi?, in Quaderni
di diritto ecclesiale 4 (1991) 180-183.
19
In tal senso è stato modificato l’Ordo (cf Variationes, n. 14, in EV 9, n. 403).
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 303
20
«Riguardo alle persone vittime di incidenti oppure agli infermi in stato incosciente sconosciuti al mi-
nistro è difficile dare una norma generale. Crediamo che, se c’è probabilità seria e positiva che siano
cristiani, si possa amministrare loro l’unzione degli infermi sotto condizione (la condizione, d’altra par-
te, è già implicita nella volontà del ministro di agire nella e con la Chiesa). Diversamente, farlo in modo
generale e indiscriminato sembra voler ignorare il legame che necessariamente c’è tra il sacramento e
la fede di chi lo riceve» (V. RAMALLO, Unzione degli infermi, in Dizionario di Diritto Canonico, Milano
1993, p. 1084).
21
Il termine “ministretur” fu esplicitamente mantenuto nella redazione del canone rispetto ai termini
usati nell’Ordo, con le seguenti osservazioni della Segreteria: «[...] melius est textum servare, ne in casu
dubii infirmi sacramento priventur» (ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 [1983] 216).
22
«Se il sacerdote viene chiamato... sia veramente morto, [...] gli amministri il sacramento secondo il
rito più oltre descritto» (Variationes, n. 15, in EV 9, n. 403). (Le parti in corsivo sono quelle modificate o
aggiunte).
304 Eugenio Zanetti
23
Cf l’articolo di G.P. MONTINI, L’Unzione degli infermi e la “communicatio in sacris” (can. 844), pub-
blicato in questo fascicolo.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 305
(n. 31), dà, poi, delle disposizioni circa le modalità del suo conferi-
mento (nn. 167, 177, 205-206). Stanti queste indicazioni, penso che si
possa concludere che di per sé il malato, bambino o adulto, avente o
no l’uso di ragione, deve ricevere la Confermazione prima dell’Un-
zione degli infermi. Possibilmente ciò deve essere fatto con la debita
preparazione e amministrando i due sacramenti in modo autonomo.
Per quanto riguarda la Riconciliazione, al can. 989 si ricorda
che «ogni fedele, raggiunta l’età della discrezione, è tenuto all’obligo
di confessare fedelmente i propri peccati gravi, almeno una volta al-
l’anno».
Nell’Ordo dell’Unzione degli infermi, benché si riconosca che
tale «sacramento dona inoltre, se necessario, il perdono dei peccati e
porta a termine il cammino penitenziale del cristiano» (n. 6), tutta-
via, si sottolinea l’importanza della Riconciliazione prima dell’Unzio-
ne e del Viatico, nel caso in cui il malato debba o desideri confessare
i suoi peccati (cf sia il rito ordinario, n. 67, sia il rito continuo, n. 30).
Per quanto riguarda, infine, la Comunione eucaristica, il Codi-
ce, dopo aver ricordato che ogni battezzato, che non ne abbia la proi-
bizione e abbia raggiunto una sufficiente conoscenza e una accurata
preparazione per ricevere il Corpo di Cristo (can. 913 § 1), può e de-
ve essere ammesso alla sacra comunione (can. 912), afferma in par-
ticolare per i «fanciulli in pericolo di morte» che «la santissima Euca-
ristia può essere amministrata se possono distinguere il Corpo di
Cristo dal cibo comune e ricevere con riverenza la comunione» (can.
913 § 2). Nell’Ordo dell’Unzione degli infermi si sottolinea, poi, con
forza che «tutti i fedeli, che per qualsiasi causa si trovano in pericolo
di morte, sono tenuti per precetto a ricevere la santa comunione» co-
me “Viatico” che li sostenga e li conforti nella loro sofferenza fisica e
spirituale (n. 27). Si può, pertanto, concludere che il fedele pericolo-
samente ammalato, che non ha ancora fatto la Comunione, la deve ri-
cevere, alle condizioni sopra ricordate, se non altro nella forma so-
lenne del Viatico secondo le indicazioni dell’Ordo 24.
Possiamo aggiungere, infine, che coloro che hanno già ricevuto
il sacramento dell’Unzione degli infermi lo possono ricevere di nuo-
24
L’Ordo pone le norme sul “Viatico” (cap. IV) dopo quelle sull’Unzione degli infermi (capp. II-III),
quasi a indicarne la successione; inoltre, nel Rito continuo (cap. V), cioè in caso di pericolo prossimo e
improvviso di morte, si suggerisce ordinariamente di amministrare il Viatico dopo la Penitenza e l’Un-
zione degli infermi o, se ciò non è possibile, di amministrare Penitenza e Viatico e, se c’è ancora tempo,
la sacra Unzione (n. 30). Cf anche SC 74.
306 Eugenio Zanetti
25
A volte si può presentare il dubbio se a un malato l’Unzione degli infermi sia stata conferita oppure
no. Nel Codice non si contempla questo caso (al can. 845 § 2 ci si occupa solo del Battesimo, della Con-
fermazione e dell’Ordine); tuttavia, poiché in generale l’Unzione degli infermi può essere ripetuta, se
tale dubbio rimane anche dopo una diligente ricerca, penso che il sacramento possa essere tranquilla-
mente conferito.
26
CEI, Evangelizzazione e... Unzione degli infermi, n. 148, in ECEI 2, n. 1522.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 307
27
«Hoc sacramentum non est conferendum illis qui impoenitentes in manifesto peccato mortali contuma-
citer perseverant; quod si hoc dubium fuerit, conferatur sub conditione» (can. 942, CIC 1917).
308 Eugenio Zanetti
28
«La valutazione oggettiva della gravità morale della situazione spetta al ministro» (V. RAMALLO, Un-
zione degli infermi, cit., p. 1090).
29
A. MONTAN, Liturgia, iniziazione cristiana, Eucaristia, penitenza, unzione degli infermi, ordine (cann.
834-1054), in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, III, Roma 1992, p. 104.
Di per sé i sacramenti sono vietati, per pena, anche agli scomunicati (can. 1331 § 1, 2°), tra i quali vi so-
no pure gli eretici, gli apostati e gli scismatici (can. 1364 § 1), e agli interdetti (can. 1332); e ciò è ricor-
dato espressamente nei cann. 915 e 1184. Ma, tale divieto «è sospeso finché il reo versa in pericolo di
morte» (can. 1352 § 1), quindi sempre per quanto riguarda l’Unzione degli infermi; infatti, nel can. 1007
non si fa menzione di questi casi.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 309
30
Nella redazione del can. 915, a proposito del divieto della Comunione eucaristica, la Segreteria vi in-
cluse esplicitamente i divorziati risposati (cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 [1983] 194).
31
Cf CEI, Nota pastotale La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimo-
niali irregolari o difficili (26 aprile 1979), nn. 25-28, 31, 36, in ECEI 2, nn. 3431-3434, 3437, 3442; GIO-
VANNI PAOLO II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), nn. 82-84, in EV 7, nn. 1792-1800.
32
Ci sembra che si possa aggiungere anche che, analogamente a quanto indicato per la Comunione
eucaristica, in questi casi sarebbe opportuno evitare il conferimento dell’Unzione degli infermi in una
celebrazione comunitaria in cui sia conosciuta la situazione matrimoniale del malato.
33
GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, n. 84, in EV 7, n. 1802.
Penso, inoltre, che mantenga la sua validità quanto asseriva il can. 944 del CIC 1917, il quale pur affer-
mando che la cura per l’Unzione degli infermi non deve essere trascurata da nessuno, tuttavia ricorda-
va che «hoc sacramentum per se non sit de necessitate medii ad salutem».
310 Eugenio Zanetti
34
Al n. 36 dell’Ordo si raccomanda, inoltre, l’importanza di una catechesi e di una preparazione ben
fatte «soprattutto se l’Unzione degli infermi avviene in forma comune». Infine al n. 69 si ricorda che il
rito dell’Unzione a più infermi insieme deve essere lo stesso di quello previsto per un singolo infermo
(cap. II del rituale), anche se poi viene previsto un capitolo apposito per la «celebrazione dell’unzione in
una grande assemblea di fedeli» (cap. III), da usarsi in caso di «pellegrinaggi, convegni diocesani, citta-
dini o parrocchiali o di pie associazioni di infermi» o «qualche volta, secondo le opportunità, anche ne-
gli ospedali» (n. 97).
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 311
35
Notiamo che nel Codex canonum Ecclesiarum orientalium (18 ottobre 1990) non vi è alcun riferimen-
to al conferimento dell’Unzione degli infermi a più malati; vi è, invece, l’invito a mantenere l’abitudine a
far amministrare il sacramento a più sacerdoti (cf can. 737 § 2).
36
«Can 185 (novus). “Ad loci Ordinarium pertinet particulares normas edere in celebratione Sacramen-
ti Unctionis infirmorum servandas quando plures infirmi ad hoc congregantur”. Omnibus placet ut delea-
tur» (ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 9 [1977] 341).
37
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
312 Eugenio Zanetti
Conclusione
Alla fine di questo articolo penso che il lettore abbia percepito
la laboriosità e le difficoltà avute nel delineare, anche solo dal punto
di vista canonico, i criteri per il conferimento dell’Unzione degli in-
fermi. In effetti, in assenza di documenti magisteriali recenti e riag-
giornati, come pure di studi approfonditi e particolareggiati, abbia-
mo dovuto raccogliere con pazienza i dati inerenti alla nostra temati-
ca e a volte anche azzardare alcune interpretazioni personali, oppure
lasciare aperti certi problemi.
Tutto ciò fa emergere la necessità che nella Chiesa, dopo la
promulgazione dell’Ordo dell’Unzione degli infermi del 1972 e la
scarna, anche se precisa, rielaborazione del CIC vigente, si offra a li-
vello universale e anche particolare una nuova riflessione su questo
sacramento, un po’ trascurato rispetto agli altri. Non si chiede, certo,
di dare delle determinazioni esaustive o di scadere in una farragino-
sa casistica; ma di fornire ulteriori indicazioni a livello dogmatico,
morale, antropologico, liturgico, spirituale e canonico, tali da poter
aiutare il discernimento e la prassi pastorale divenuta sempre più
complessa.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 313
EUGENIO ZANETTI
Via Arena, 11
24129 Bergamo
314
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 314-320
Amministrazione
e ricezione dei sacramenti
in pericolo di morte. Il viatico
di Mauro Rivella
1
Sull’argomento rimando al mio articolo, dal titolo Battezzare i bambini in pericolo di morte anche con-
tro la volontà dei genitori (can. 868 § 2), in Quaderni di diritto ecclesiale 9 (1996) 66-75.
2
La traduzione proposta nelle edizioni correnti del CIC (UECI, EDB, Chiappetta): «se vi è un altro sa-
cerdote o diacono che possa essere presente, deve essere chiamato e assistere», ci sembra infelice, per-
ché confonde il concetto di “assistenza”, per la quale è necessaria la facoltà concessa dalla legge o dele-
gata dal titolare, con quello di “presenza”.
Amministrazione e ricezione dei sacramenti in pericolo di morte. Il viatico 317
3
Rivista di pastorale liturgica dedica la parte monografica del fascicolo 190 (1995/3) al tema del Viati-
co. Segnalo i contributi di R. DALLA MUTTA, Il Viatico ai morenti: panoramica storica, pp. 23-30;
C. ROCCHETTA, Teologia del Viatico, pp. 31-39; G. DAVANZO, Il Viatico: suggerimenti pastorali, pp. 40-45.
Amministrazione e ricezione dei sacramenti in pericolo di morte. Il viatico 319
MAURO RIVELLA
Via Lanfranchi, 10
10131 Torino
321
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 321-336
L’Unzione degli infermi
e la communicatio in sacris
di G. Paolo Montini
1
Basti pensare agli interventi della Santa Sede (Segretariato per l’unità dei cristiani) a chiarificazione
del Direttorio ecumenico: Nota circa l’applicazione del Direttorio ecumenico, 6 ottobre 1968 (in L’Osser-
vatore Romano, 6 ottobre 1968); Dichiarazione Dans ces derniers temps, 7 gennaio 1970 (in AAS 62
[1970] 184-188); Istruzione In quibus rerum circumstantiis, 1° giugno 1972 (AAS 64 [1972] 518-525);
Nota Dopo la pubblicazione, 17 ottobre 1973 (AAS 65[1973]616-619), tutti riguardanti la partecipazione
all’Eucaristia.
Lo stesso si può dire degli interventi delle Conferenze episcopali: cf J.T. MARTIN DE AGAR, Legislazione
delle Conferenze episcopali complementare al CIC, Milano 1990, ad canonem.
2
Normativa del tutto analoga riporta il Codice dei canoni delle Chiese orientali al can. 671 §§ 2-5. Per
un primo commento cf D. SALACHAS, La comunione nel culto liturgico e nella vita sacramentale tra la
Chiesa cattolica e le altre Chiese e Comunità ecclesiali, in Angelicum 66 (1989) 403-421; ID., L’iniziazione
cristiana nei Codici orientale e latino. Battesimo, Cresima, Eucaristia nel CCEO e nel CIC, Bologna-Ro-
ma 1991, pp. 24-42.
322 G. Paolo Montini
Benché la normativa sia del tutto analoga, certamente appare più consono allo spirito dell’ecumenismo
favorire un’eventuale communicatio in sacris tra Chiese cattoliche orientali e Chiese orientali ortodos-
se, piuttosto che urgere indiscriminatamente la parità normativa in materia ecumenica fra Chiesa latina
e Chiese cattoliche orientali nei confronti degli Ortodossi.
3
Tralasciamo qui il problema molto complesso della communicatio in sacris tra fedeli di Chiese o co-
munità ecclesiali, in cui non sia coinvolto un fedele o un ministro cattolico.
4
È senz’altro quello ospedaliero il contesto più comune della problematica. A questo riguardo la legge
civile normalmente facilita l’accesso alle strutture ospedaliere dei ministri di culto.
In Italia il D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) all’art. 35 prevede
che, oltre all’assistenza religiosa cattolica assicurata istituzionalmente, «tutto il personale è tenuto a tra-
smettere alla direzione sanitaria le richieste di assistenza religiosa a lui rivolta da infermi di qualunque
religione. La direzione sanitaria provvede a reperire i ministri di religione diversa dalla cattolica secon-
do la richiesta dell’infermo». Anzi la L. 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del Servizio Sanitario Na-
zionale) all’art. 38 prevede che l’unità sanitaria locale, per assicurare l’assistenza religiosa nel rispetto
della volontà e della libertà di coscienza del cittadino, provveda «per gli altri culti d’intesa con le rispet-
tive autorità religiose competenti per territorio». Data però la esiguità di presenza sul territorio di altre
confessioni cristiane o religioni, difficilmente si potranno prevedere intese regionali tra l’autorità civi-
le e l’autorità religiosa (cf schema-regionale d’intesa della Regione Emilia Romagna, L. 10 aprile 1989,
n. 12, allegato B).
Di fatto, oltre al Concordato (art. 11), tutte le intese finora siglate con le confessioni religiose prevedo-
no garanzie per gli infermi circa l’accesso dei propri ministri alle strutture ospedaliere: cf artt. 6-7, L. 11
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 323
agosto 1984, n. 449 (Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese); artt. 8.10, L. 22 novembre 1988, n. 516
(Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno); artt. 4-5.7, L. 22 novembre 1988, n. 517
(Assemblee di Dio in Italia); artt. 7.9, L. 8 marzo 1989, n. 101 (Unione delle Comunità Ebraiche Italia-
ne); art. 6, L. 12 aprile 1995, n. 116 (Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia); art. 6, L. 29 novem-
bre 1995, n. 520 (Chiesa Evangelica Luterana in Italia).
L’onere economico corrispettivo è a carico dell’ente ospedaliero (art. 35 D.P.R. 27 marzo 1969, 128), a
meno che la singola Confessione religiosa non se lo assuma spontaneamente.
5
Cf T. BROGLIO, Alcune considerazioni sulla “Communicatio in Sacris” nel Codice di Diritto Canonico, in
Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 83-91.
6
Ciò vale anche se la discussione circa la obbligarietà di ricevere l’Unzione degli infermi rimane aperta
(cf F.M. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de Sacramentis. II/2 De Extrema Unctione, Taurinorum
Augustae-Romae 1932, pp. 216-226, nn. 239-246). Qui si suppone la richiesta del singolo fedele, giustifi-
cata anche solo dalla presenza istituzionale nella Chiesa del sacramento dell’Unzione degli infermi.
324 G. Paolo Montini
7
Cf la documentata esposizione di Th. SPAČIL, Doctrina Theologiae Orientis separati de sacra infirmo-
rum Unctione, in Orientalia Christiana 24 (1931) 42-259, che giunge alla conclusione secondo cui non si
può dubitare «Orientales separatos re vera sacramentum extremae unctionis habere et vere ministrare [...]
eos saltem quoad substantiam attinet, de hoc sacramento recte sentire et docere» (ibid., pp. 256.257). Cf pu-
re R. KACZYNSKI, Feier der Krankensalbung, in Gottesdienst der Kirche. Handbuch der Liturgiewissenschaft.
VII/2 Sakramentliche Feiern, I/2, Regensburg 1992, pp. 315-323; E.Ch. SUTTNER, Die Krankensalbung
(das “Öl des Gebets”) in den altorientalischen Kirchen, in Ephemerides Liturgicae 89 (1975) 371-396;
G. FERRARI, Chi può ricevere il Sacramento dell’Olio Santo, in Oriente cristiano 11/1 (1971) 72-82; ID., Il
Sacramento dell’Olio Santo nella Tradizione orientale, in ibid., 11/4 (1971) 21-33.
8
La sostanziale convergenza di fede nel sacramento dell’Unzione degli infermi si può constatare, per
esempio, nella Chiese ortodosse calcedonesi e nei Vecchiocattolici (Chiesa non cattolica occidentale):
cf Dichiarazione sulla dottrina sacramentale (v. 6) della Commissione teologica mista ortodossa-vec-
chiocattolica (Kavala 1987), in Enchiridion Oecumenicum III. Dialoghi internazionali 1985-1994, Bolo-
gna 1995, pp. 1162-1163, nn. 2766-2770.
326 G. Paolo Montini
9
Il can. 1003 § 1 è perentorio circa il ministro dell’Unzione degli infermi, anche se la discussione teolo-
gica al riguardo non sembra del tutto conclusa (cf, per esempio, Ph. ROUILLARD, Le ministre du sacre-
ment de l’onction des malades, in Nouvelle Revue Théologique 101 [1979] 395-402).
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 327
10
Supposta la coerenza terminologica del Codice, si aprirebbe qui uno spiraglio per una verifica della
esistenza della Unzione degli infermi nelle stesse Chiese. Anche perché la dizione scelta dal Codice
(exsistunt) sembra suggerire che la verifica vada condotta non solo sulla fede e sui dati tradizionali di
essa in una Chiesa, ma precisamente pure sul fatto che in una Chiesa si sia conservata e sia tuttora os-
servata la prassi attinente al sacramento dell’Unzione degli infermi. Il problema è molto vasto e concer-
ne, in gradi diversi, tutte le Chiese e comunità ecclesiali dove non vi sia una rigida struttura gerarchica
e magisteriale. Cf, per esempio, per le Chiese non cattoliche orientali, B.J. GROEN, Ter Genezing van
ziel en lichaam. De viering van het oliesel in de Griek-Orthodoxe Kerk. Een wetenschlappelijke proeve op
het gebied van de godgeleerdheid, Kampen-Weinheim 1991, che rileva discrepanze fra la dottrina e la
prassi; R. KACZYNSKI, Feier der Krankensalbung, cit., pp. 316-317, che rileva l’assenza del sacramento
dell’Unzione in alcune Chiese non cattoliche orientali.
328 G. Paolo Montini
11
Questa interpretazione normativa del Codice, più rigida, si discosta da quella più larga dei Direttori
ecumenici. Il primo Direttorio ecumenico affermava simpliciter: «Catholicus [...] haec sacramenta pete-
re nequit, nisi a ministro qui Ordinis Sacramentum valide suscepit» (SECRETARIATUS AD CHRISTANORUM
UNITATEM FOVENDAM, Directorium ad ea quae a Concilio Vaticano II de re oecumenica promulgata sunt
exsequenda, Pars I Ad totam Ecclesiam, 14 maggio 1967, n. 55b). Il Direttorio ecumenico vigente preve-
de che «un catholique [...] ne peut demander ces sacrements qu’à un ministre d’une Église dont les sacre-
ments sont valides ou à un ministre qui, selon la doctrine catholique de l’ordination, est reconnu comme
validement ordonné» (PONTIFICIUM CONSILIUM AD UNITATEM CHRISTIANORUM FOVENDAM, Directoire pour
l’application des Principes et des Normes sur l’Oecumenisme, 25 marzo 1993, n. 132).
Nel contrasto fra Codice di diritto canonico e Direttorio ecumenico (sia precedente sia seguente il Co-
dice) prevale il Codice rispettivamente per il can. 6 § 1, 2° e 4° e per il can. 33 § 1.
Per l’introduzione nel Codice dell’espressione restrittiva cf Communicationes 9 (1977) 335-337.
12
A Pastoral Statement on the Catholic Charismatic Renewal, in R. KACZYNSKI, Feier der Krankensal-
bung, cit., p. 341. Un caso analogo (unzioni di leaders parrocchiali e catechisti) si può trovare commen-
tato da J.H. PROVOST, in Roman Replies and CLSA Advisory Opinions 1993, edd. K.W. Vann - J.I. Donlon,
Washington 1993, p. 64.
13
Il parallelo canone del Codice dei canoni delle Chiese orientali (cf can. 740) presume la richiesta del
sacramento per quei fedeli ammalati che non siano coscienti o abbiano perso l’uso di ragione.
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 329
14
Cf, nello stesso senso, G. D[AVANZO], L’unzione ai fratelli separati, in Anime e Corpi 9 (1971) 401.
15
Cf, SECRETARIATUS AD CHRISTANORUM UNITATEM FOVENDAM, Declaratio In quibus rerum circumstantiis,
1° giugno 1972.
330 G. Paolo Montini
16
«It is not rare, in fact, for our faithful to find access to a priest of their own Church materially or moral-
ly impossible. Anxious to meet theirs needs and with their spiritual benefit in mind, we authorize them in
such cases to ask for the Sacraments of Penance, Eucharist and Anointing of the Sick from lawful priests
of either of our two sister Churches, when they need them» (AAS 85 [1993] 240-241).
17
Cf Direttorio ecumenico (vigente), n. 125. Questo potrebbe anche significare l’impegno del ministro
cattolico, soprattutto in strutture protette, quali ospedali, cliniche, case per persone anziane, «di avver-
tire i sacerdoti e i ministri sacri delle altre comunità cristiane della presenza di loro fedeli, e agevolarli
perché possano far visita a dette persone e portar loro un aiuto spirituale e sacramentale in condizioni
degne e decorose, anche con l’uso della cappella»(cf ibid., 142). Tale sensibilità sembrerebbe desumer-
si anche dal principio generale del can. 844 § 1.
18
È stato espunto l’inciso «nisi post favorabilem exitum consultationis», che rendeva discriminante e vin-
colante la posizione della Chiesa o comunità ecclesiale non cattolica interessata, con possibilità di pre-
giudizio per le necessità pastorali dei fedeli (cf Communicationes 15 [1983] 176; Nuntia 8/15 [1982] 10).
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 331
19
L. cit..
20
Escludo dall’esempio il caso della richiesta di Unzione degli infermi da parte di un fedele sano, in
quanto più difficile (o almeno dubbio) mi pare in questo caso escludere che si tratti di una richiesta
che vada contro il diritto divino o l’identità dello stesso sacramento.
La prassi dell’Unzione degli infermi a fedeli sani è perfettamente attestata e riconosciuta nelle Chiese
Ortodosse: «I frutti di questo sacramento sono la guarigione dei malati e la remissione dei peccati. Da-
ta la sua duplice azione terapeutica, nella Chiesa ortodossa questo sacramento viene amministrato an-
che a persone che non soffrono di alcuna malattia e che si preparano a ricevere la santa eucaristia [...]
L’unzione dei malati può essere ricevuta da tutti i battezzati e non solo dalle persone malate o in perico-
lo di morte» (COMMISSIONE TEOLOGICA MISTA ORTODOSSA-VECCHIOCATTOLICA, Dichiarazione sulla dottrina
sacramentale, V.6.4/5 [Kavala 1987], in Enchiridion Oecumenicum III, p. 1163, nn. 2769-2770).
21
Può costituire riprova di questo la disparità normativa al riguardo del Codice di diritto canonico
(can. 1004 § 1: «in periculo incipit versari») e del Codice dei canoni delle Chiese orientali (cf can. 738:
«quandocumque graviter aegrotant»).
332 G. Paolo Montini
22
Nota Dopo la pubblicazione, 17 ottobre 1973.
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 333
Anglicani
La cancellazione del rito dell’Unzione avviene solo nel 1552, a
partire dal Second Prayer Book, dove il rito viene semplicemente o-
messo.
Ben presto si manifestano tentativi di reintroduzione del rito
nel secolo XVIII (1718 Nonjuror’s Liturgy; 1734 A Compleat Collec-
tion of Devotions; 1747 A Full, True and Comprehensive View of Chri-
stianity) e nel secolo XIX (cf il movimento di Oxford).
La restaurazione del rito avvenne però nel nostro secolo attra-
verso l’incorporazione dell’Unzione degli infermi in alcuni rituali
(Prayer Book) pubblicati per singole province della Comunione An-
glicana (1928 American; 1929 Scottish; 1935 Canterbury; 1936 York;
1954 South African; 1962 Canadian).
Attualmente molte province possiedono un rito apposito per
l’Unzione degli infermi in cui normalmente con la imposizione delle
mani è prevista (a volte facoltativamente) l’Unzione con una formula
di unzione 23.
Protestanti
In ambito protestante l’Unzione degli infermi è scomparsa sotto
le critiche rivolte da Lutero e Calvino alla prassi sacramentale della
Chiesa cattolica e in specie alla trasformazione dell’Unzione degli in-
fermi in Unzione dei moribondi, come pure sotto la peculiare concen-
trazione sulla Parola, che ha privilegiato di fronte al malato un esame
della propria fede o la domanda sul rapporto fra malattia e peccato 24.
Il ricupero dell’Unzione degli infermi avviene nel mondo prote-
stante più tardi che nell’ambito anglicano e con maggiori incertezze
e lacune 25.
23
Cf più analiticamente in R. KACZINSKI, Feier der Krankensalbung, cit., pp. 323-330. Cf pure W.CH. GU-
SMER, Anointing of the Sick in the Church of England, in Worship 45 (1971) 262-272.
24
Cf H. VORGRIMLER, Krankensalbung, in Theologische Realenzyklopädie XIX, Berlin-New York 1990,
667; CH. GRETHLEIN, Andere Handlungen (Benediktionen und Krankensalbung), in Handbuch der Litur-
gie. Liturgiewissenschaft in Theologie und Praxis der Kirche, edd. H.-CH. Schmidt-Lauber - K.-H. Bieritz,
Leipzig-Göttingen 1995, p. 450; H.-CH. PIPER, Krankenseelsorge, in Evangelisches Kirchenlexikon. Inter-
nationale theologische Enzyklopädie, II, Göttingen 1989, 1547.
25
È significativa, al riguardo, l’assenza nell’Evangelisches Kirchenlexikon della voce Krankensalbung
(Unzione degli infermi). Della medesima Unzione v’è solo un rimando nella voce Krankenseelsorge (Pa-
storale degli Infermi) a Salbung (Unzione), dove, fra le varie unzioni, quella degli infermi ottiene solo
un paio di righe. Una notevole distanza si può constatare anche nella Dichiarazione concordata Vivere
e morire santamente (1989), II. 3, del Gruppo di dialogo fra cattolici e metodisti uniti negli USA, in En-
chiridion Oecumenicum IV. Dialoghi locali 1988-1994, Bologna 1996, p. 1273, nn. 3382-3383.
334 G. Paolo Montini
26
Sullo stato del dialogo cattolico luterano circa l’Unzione degli infermi cf COMMISSIONE CONGIUNTA
CATTOLICA ROMANA - EVANGELICA LUTERANA, Documento L’unità davanti a noi, a conclusione dei lavori
1984, in Enchiridion Oecumenicum I. Dialoghi internazionali 1931-1984, Bologna 1986, pp. 794-795,
n. 1631; GRUPPO DI LAVORO BILATERALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TEDESCA E DELLA CHIESA UNITA EVAN-
GELICA LUTERANA DI GERMANIA, Comunione ecclesiale nella Parola e nel sacramento (1984), in ibid., II.
Dialoghi locali 1965-1987, Bologna 1988, pp. 625-626, n. 1387.
27
Cf, in termini più analitici, R. KACZYNSKI, Feier der Krankensalbung, cit., pp. 331-338.
28
«We recognize that this does not represent widespread or universal practice, and that it leaves unanswe-
red and indeed untouched the theological question of the value of this rite in non-Roman communions of
the West» (F.R. MCMANUS, The Sacrament of Anointing: ecumenical Considerations, in Miscellanea litur-
gica in onore di Sua Eminenza il Cardinale Giacomo Lercaro, II, Roma 1967, p. 834).
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 335
29
La problematica allora verteva sulla verifica della previa reiectio degli errori e sulla conseguente ri-
conciliazione con la Chiesa (cf can. 731 § 2 del Codice del 1917). Per un primo esame degli interventi
del Santo Ufficio cf L.L. MCREAVY, Ministering to dying non-catholics, in Clergy Review 40 (1955) 80-81,
note 1-4.
30
Cf ibid., pp. 81-87. L’Autore nella parte finale del suo lavoro delinea a mo’ di conclusioni pratiche le
seguenti proposizioni probabili: «All three sacraments, Baptism, Penance and Extreme Unction, may be
given conditionally to the unconscious, whatever their previous dispositions may have been, provided
always that scandal can be avoided [...] With the same stipulation as to scandal, all three sacrements may
be conditionally given even to the conscious, provided that they can be induced to embrace the true faith at
least implicitly, or, if this cannot be attempted without danger of fruitlessly disturbing their good faith to the
peril of their souls, provided they appear to be in good faith, sorry for their sins, and anxious to do whate-
ver God requires of them» (ibid., pp. 87-88). Una posizione simile assume lo stesso F.M. CAPPELLO nell’ul-
7
tima edizione del suo Tractatus canonico-moralis de Sacramentis II. De Poenitentia, Torino 1967 , pp.
156-157, n. 195.
31
Supposta la richiesta anche solo implicita del sacramento, chi si trovi in stato di incoscienza e in peri-
colo di morte non può emettere una professione di fede cattolica circa il sacramento dell’Unzione degli
infermi. L’impossibilità nel caso esime dall’obbligo.
32
Supposta nel caso la richiesta anche solo implicita del sacramento dell’Unzione, non si dà tempo e
modo di richiedere e ottenere una professione di fede cattolica circa il sacramento dell’Unzione.
33
Supposta la richiesta del sacramento dell’Unzione, può essere moralmente impossibile, per le circo-
stanze in cui il soggetto si trova, chiedere e ottenere una professione esplicita di fede circa il sacramen-
to dell’Unzione: sarebbe sufficiente qui un qualche segno, anche precedentemente posto, di vicinanza
o adesione alla Chiesa cattolica.
La celebrazione sub condicione del sacramento della Unzione degli infermi nei casi qui elencati potreb-
be essere giustificata solo nel caso in cui si voglia evitare lo scandalo.
336 G. Paolo Montini
Conclusione
L’Unzione degli infermi in ambito ecumenico è un caso emble-
matico di quanto possa la progressiva convergenza dottrinale, nor-
mativa, liturgica e pratica delle Chiese o comunità ecclesiali per una
celebrazione comune dei sacramenti.
Certo oggi la celebrazione comune è riservata ai casi di neces-
sità o vera utilità spirituale del singolo fedele. Non sarà certo questa
la strada per cui passerà un vero cammino ecumenico.
Certo può costituire un ulteriore stimolo a quella convergenza
dottrinale, normativa, liturgica e pratica reciproca, da cui potrà sca-
turire una nuova strada ecumenica.
G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
Brescia
34
Non si può certo affermare che, siccome nel caso è richiesto due volte il pericolo di morte (per il
soggetto del sacramento e per la communicatio in sacris), questa condizione, contro il suo stesso teno-
re verbale, limiti l’accesso all’Unzione degli infermi solo nei casi più urgenti o per coloro che si trovano
in articulo mortis.
337
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 337-356
Commento a un canone
La cremazione
del corpo dei defunti (can. 1176 § 3)
di Egidio Miragoli
1
Per una visione completa della storia, del diritto canonico e della legislazione civile, si veda la recente
opera di Z. SUCHECKI, La cremazione nel diritto canonico e civile, Città del Vaticano 1995.
2
F. ABBÀ, La Cremazione, Torino 1898, in L’Ara (1995/2) 15.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 339
3
L. cit.
4
La rivista della Federazione si intitola L’Ara.
5
Fino al 1995 la denominazione era Federgasacqua, realtà entro la quale operava un settore riguardan-
te i servizi funebri e cimiteriali, con una apposita rivista, Antigone, che prossimamente dovrebbe ri-
prendere le pubblicazioni con un nuovo titolo. Molti dei dati qui usati ci sono stati gentilmente offerti
dalla SEFIT tramite l’ing. D. Fogli, che ringraziamo.
6
E. MARINI, La cremazione in Italia, in Antigone (1993/4) 33-34. I dati aggiornati circa l’Italia forniti
dalla SEFIT indicano una stima di 14.398 cremazioni eseguite nel 1995. L’incidenza sul totale dei deces-
si è attorno al 2,7%.
340 Egidio Miragoli
7
Si vedano in Appendice i dati degli ultimi anni pubblicati dalle Società di Cremazione.
8
E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 33.
9
Cf Dati statistici (a cura di D. Fogli), in Antigone (1995/3) 29. Le cifre ivi pubblicate sono riprese dal-
la rivista di settore Pharos International.
10
Cf Nel 1941 un referendum della nostra federazione, in L’Ara (1994/2) 7.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 341
11
Alcuni sostengono la necessità della cremazione là dove il defunto è stato portatore di certi tipi di
malattie infettive, in quanto solo il fuoco potrebbe neutralizzare determinati germi. Significativo il caso
riportato da Suchecki e riguardante l’apertura (dopo cinquecento anni) della tomba reale di Casimiro
Jagielonczyk nel 1972-73 a Cracovia. I quattro studiosi che presenziano morirono tutti in breve periodo
di tempo, pare, secondo i medici, per germi di malattie sprigionatisi dalla tomba (cf F. ABBÀ, La crema-
zione, cit., p. 173).
12
Così i vescovi tedeschi: «L’opinione pubblica si rende poco conto del fatto che le cremazioni richiedo-
no un notevole consumo di energia primaria e che i gas che ne risultano inquinano in modo non trascu-
rabile l’aria (oggi sono certamente obbligatori i filtri per l’aria, ma è praticamente impossibile disfarsi dei
residui altamente tossici raccolti dal filtro» (La cura per i morti, in Il Regno-documenti 5 [1995] 141).
342 Egidio Miragoli
b) Il motivo economico
Sono molti coloro che oggi optano per la cremazione per conve-
nienza economica. Benché le cifre possano variare da luogo a luogo,
qualche dato può meglio illustrare questo punto. L’acquisto di un lo-
culo (per trentacinque anni) in una città di provincia costa 7,5 milioni
(più IVA), cui si deve aggiungere il prezzo per la lapide; un monu-
mento funerario costa anche molto di più, e a esso vanno assommate
le spese per lo spazio dato in concessione.
A queste cifre si devono aggiungere quelle relative alle onoran-
ze funebri: 3,6 milioni per funerale di media, con cifre minime di lire
1,5 milioni e massime di 15 milioni 15. Considerato che la cremazione
in Italia è gratuita e che un loculo per la conservazione delle ceneri
(in perpetuo) di due persone costa sulle cinquecento mila lire (in
una città di provincia), si comprende perché molti, ultimamente, op-
tino per la cremazione. Essa permette una spesa complessiva inferio-
re anche del 50%.
13
Riflessioni attorno alla cremazione, in Antigone (1994/1) 28.
14
Cf E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 34. Occorre aggiungere che in tali situazioni i resti mor-
tali vanno riseppelliti.
15
Dati SEFIT. In questa cifra sono comprese quattro voci: prestazioni generali (vestizione salma, trat-
tamenti conservativi, incassamento, pratiche amministrative); fornitura di feretro e accessori conforme
alla destinazione (cremazione, inumazione, tumulazione); avvisi e album firme (stampa, tasse comuna-
li, affissione); composizioni floreali (un copribara, una corona). A queste spese solitamente la famiglia
non può rinunciare, per tanti motivi.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 343
c) Il guadagno di spazi
Su questo punto è necessario operare qualche distinguo. Se è
vero infatti che il problema ha assunto una certa urgenza nelle gran-
di città 17, altrettanto innegabile appare la sua irrilevanza altrove. Per
rendersene conto, basta pensare al sereno decoro di tanti piccoli ci-
miteri di paesi, quali – per esempio – quelli che si incontrano presso
le chiese in Alto Adige. Lì il rischio di “sovraffollamenti” pare davve-
ro remoto.
16
Il fabbisogno annuo di posti salma, in Italia, è di circa 175.000, e il costo medio di costruzione, a po-
sto, è di 2 milioni di lire. Le tumulazioni necessitano pertanto annualmente di 350 miliardi, con 10.000
addetti. Quanto alla cremazione: ogni impianto completo di edificio per cerimonia, forno e sistemi di
abbattimento fumi, costa da 1,2 a 2 miliardi di media, se realizzato con semplicità. Impianti di grandi di-
mensioni per città metropolitane possono richiedere investimenti anche nell’ordine di 5 miliardi. Il co-
sto di una cremazione per comuni sprovvisti di impianto di cremazione è stabilito con D.M. Interno
(8/2/88). Oggi si può dire che la maggior parte delle cremazioni (circa 80%) avviene in impianti di clas-
se “terza” (cioè con tariffa per non residenti di lire 680.000) (Dati SEFIT).
17
Fra l’altro gli esperti del settore prevedono per l’Italia che «la mortalità potrebbe calcolarsi nel 2025
in circa +20% rispetto a quella odierna (655.000 decessi, contro gli attuali 540.000 annui)» (cf Antigone
[1994/3] 28). Gli esperti del settore affermano che «in uno spazio di 10 mq ci stanno al massimo 4 tom-
be, ma di urne ce ne potranno stare 200» (L.-V. THOMAS, Riflessioni attorno alla cremazione (Parte pri-
ma), in Antigone [1994/1] 27). In un loculo, al posto di un feretro, possono stare, in teoria (con un pia-
no di separazione interno) oltre 30 urne cinerarie (Dati SEFIT).
18
Cf L’Ara (1995/2) 18.
344 Egidio Miragoli
19
Questa circolare ministeriale «contribuirà indubbiamente a un consistente recupero del patrimo-
nio cimiteriale esistente e alla soluzione del problema delle salme inconsunte con l’avvio a cremazione,
non dissenzienti i familiari, degli esiti dei fenomeni cadaverici trasformativi provenienti da inumazione»
(E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 34).
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 345
La legislazione canonica
La Chiesa ha sempre sostenuto la scelta della inumazione dei
cadaveri, sia circondando tale atto con riti destinati a metterne in ri-
salto il significato simbolico e religioso, sia comminando pene con-
tro chi si scostasse da tale prassi, e ciò specialmente quando l’oppo-
20
Cf Sono quattro i progetti-legge in Parlamento, in L’Ara (1995/2) 7.
21
Cf XII Legislatura. Disegno di legge “Modifica dell’articolo 411 del Codice penale: Per la dispersione
delle ceneri”, in L’Ara (1995/1) 9.
346 Egidio Miragoli
§ 2: Se qualcuno, in qualsiasi modo avrà ordinato che il suo corpo sia crema-
to, è illecito eseguire questa volontà; che se questa volontà sarà apposta a un
contratto, al testamento o a qualunque altro atto, la si consideri come non
posta.
can. 1240 § 1: Sono privati della sepoltura ecclesiastica, a meno che prima
della morte non abbiano dato segni di pentimento: [...]
5° Chi avesse stabilito che il suo corpo venisse cremato».
22
Can. 1203 § 1: Fidelium defunctorum corpora sepelienda sunt, reprobata eorundem crematione.
§ 2: Si quis quovis modo mandaverit ut corpus suum cremetur, illicitum est hanc exsequi voluntatem;
quae si adiecta fuerit contractui, testamento aut alii cuilibet actui, tanquam non adiecta habeatur.
Can. 1240 § 1: Ecclesiastica sepoltura privantur, nisi ante mortem aliqua dederint poenitentiae signa:
[...] 5°: qui mandaverint suum corpus cremationi tradi.
23
SUPREMA SACRA CONGREGATIO SANCTI OFFICII, Instructio Piam et constantem: de cadaverum crematio-
ne, in EV 2, pp. 106-109.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 347
Alcuni anni dopo, nel 1977, questo testo era oggetto di una pre-
cisazione da parte della S. Congregazione per i Sacramenti e il Culto
24
Rito delle esequie, n. 15.
348 Egidio Miragoli
Divino. A questa, infatti, era stato chiesto se oltre ai riti che si svol-
gono nello stesso edificio crematorio, anzi, in assenza di altro luogo
adatto nella stessa stanza del forno, sia possibile effettuare in chiesa
la celebrazione delle esequie, portandovi l’urna con le ceneri. Così
rispondeva la Congregazione:
«In certo modo, la risposta al problema si trova nel suddetto n. 15 dei Prae-
notanda, dove il discorso concerne soltanto i riti che si svolgono presso la
cappella o il sepolcro. Dal contesto di quello stesso numero si deduce che la
messa delle esequie è già stata celebrata, con presente il corpo del defunto
in chiesa, prima che venisse portato all’edificio della cremazione, mentre al
contrario nel cimitero, nella cappella o nell’edificio o nella stanza del forno si
compiono i riti che accompagnano la sepoltura.
Infatti non sembra opportuno celebrare sulle ceneri i riti il cui scopo è di vene-
rare il corpo del defunto. Non si tratta di condannare la cremazione, ma piutto-
sto di conservare la verità del segno dell’azione liturgica. Infatti le ceneri, che
stanno ad esprimere la corruzione del corpo umano, male adombrano il ca-
rattere del “sonno” in attesa della risurrezione. Inoltre il corpo (e non le cene-
ri) riceve gli onori liturgici, poiché dal battesimo è reso tempio consacrato
dallo Spirito di Dio. È importantissimo conservare l’autenticità del segno, af-
finché catechesi liturgica e celebrazione stessa si svolgano in verità e con effi-
cacia. Se invece il corpo del defunto non può essere portato in chiesa per la
celebrazione della messa d’esequie, se non s’oppongono altre ragioni, anche
in assenza del corpo del defunto, la medesima messa si può celebrare secon-
do le norme che vanno osservate per il rito con presente il cadavere» 25.
d) Il Codice 1983
Il nuovo Codice non contiene novità di rilievo rispetto alle nor-
me postconciliari fin qui illustrate; se però operiamo un confronto
con i canoni del Codice 1917, allora è possibile cogliere il grande
25
Notitiae 13 (1977) 45; oppure EV 3, pp. 854-855. Nostra traduzione dal testo latino.
26
Cf M.J. HENCAL, Cremation: canonical issues, in The Jurist 55 (1995) 281-298.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 349
Alcune considerazioni
27
Tra l’altro è forse utile sapere che «le So.Crem. per effetto dell’art. 79, 3° comma, del DPR 285/90
devono essere “associazioni riconosciute”, ma quante lo sono? Negli ultimi tempi si è avvertita una
sempre maggiore infiltrazione di imprese di onoranze funebri in attività di So. Crem., e viceversa si re-
gistrano veri e propri sconfinamenti delle stesse So.Crem. in attività commerciali, svolte senza le pre-
scritte autorizzazioni» (E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 35).
350 Egidio Miragoli
28
Notitiae 30 (1994) 23.
29
La cremazione oggi per domani (relazione dell’avv. Segre al Convegno «Etica e tecnica in campo fu-
nerario»), in L’Ara (1995/2) 18. Benché interessante, verrebbe troppo lungo descrivere in che consista
il rituale. Vi facciamo solo un cenno utile per capire lo spirito che anima le Società di Cremazione. Il ri-
to si svolge in tre fasi: la prima (riti di accoglienza?) alla porta del cimitero, dove il «direttore del tem-
pio crematorio, che è anche il cerimoniere [...] si presenta ai dolenti e prende simbolicamente in conse-
gna il feretro». Fatto un breve corteo si giunge alla «sala del commiato», nella quale si diffonde musica,
«un primo brano di accoglienza rappresentato da melodie di Vivaldi o Mozart o Beethoven o Liszt,
azionata dal telecomando dell’assistente». Firmato il verbale di consegna della salma, da parte dei fami-
liari, «la musica si interrompe e il cerimoniere dà inizio al rituale vero e proprio dicendo: Siete qui per
affidare il sig... alla Società per la Cremazione... Noi ci siamo assunti il compito di rispettarne le vo-
lontà... La cremazione garantisce l’individualità e la purezza delle ceneri... Raccogliamoci per qualche
istante. Se qualcuno tra voi vuole prendere la parola, può farlo... Appena terminato il breve saluto si
diffonde il 2° brano musicale (eventualmente a richiesta, quello di un determinato Autore)». Mentre la
musica si dissolve il cerimoniere ricorda a tutti la frase di Ariodante Fabretti, uno dei fondatori e primo
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 351
presidente della So.Crem., scritta all’interno del tempio: «Trasformati in cenere dalla forza del fuoco
che tutto rinnova, noi veniamo restituiti quale materia a Te, benigna genitrice». E parte il 3° brano mu-
sicale. «L’assistente al cerimoniere con un gesto manuale apre la porta che un tempo adduceva al forno
a legna e ora invece adduce a un vano addobbato con velluto rosso e illuminato con getti di luce a sim-
boleggiare le fiamme della cremazione. L’assistente spinge il carrello con il feretro verso l’interno e
quindi chiude la porta. A questo punto il cerimoniere informa che il funerale è terminato». O meglio,
bisognerebbe dire che il giorno dopo il funerale continua: infatti è previsto un seguito per la consegna
delle ceneri. Ma quanto riassunto penso basti a dare l’idea.
30
Cf F. GIUNCHEDI, Note sulla Cremazione, in Rassegna di teologia 33 (1994) 216-219.
31
Ibid., p. 218.
352 Egidio Miragoli
32
Là dove la cremazione è diffusa, è in aumento anche il numero delle persone che richiedono la se-
poltura anonima. Ne parla anche uno specifico paragrafo (n. 5) del documento già citato dei vescovi te-
deschi. Dopo la cremazione, l’urna viene deposta a opera dell’amministrazione cimiteriale nel campo ri-
servato per questo; in genere, le tombe sono provviste solo di tappeto erboso. Non vi è comunicazione
alcuna riguardo all’ora e al luogo della sepoltura; non vi è trascrizione del nome del defunto che per-
metta di poter identificare il luogo dove è stata deposta l’urna. Questa forma è intesa e scelta dagli inte-
ressati o dai loro parenti come definitiva cancellazione della vita vissuta. Le amministrazioni mettono a
disposizione per queste sepolture campi comunitari. Questo tipo di sepoltura è originario dei paesi
scandinavi. A Copenaghen, per esempio il 90% delle sepolture è anonimo.
Qui tralasciamo volutamente il tema delle “tumulazione in mare” o deposizione delle urne cinerarie in
mare.
33
L.-V. THOMAS, Riflessioni, cit., p. 26.
34
La cura per i morti, p. 147.
35
L. cit.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 353
Conclusioni
36
Ibid., p. 138.
354 Egidio Miragoli
EGIDIO MIRAGOLI
Via Madre Cabrini, 2
20075 Lodi
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 355
Appendice
Tabella 1 - Elenco dei Comuni italiani sede di impianto di crema-
zione - Dati sulla cremazione di salme nell’anno 1995 (dati SEFIT)
Dati trasmessi Numero Stime Numero
Bologna 998 Bergamo 145
Cagliari 30 Brà 0
Cin. Balsamo 117 Livorno 497
Como 470 Milano 3.231
Cremona 107 Padova 250
Firenze 558 Torino 1.655
Genova 1.458 Trieste 400
La Spezia 0 Vicenza 61
Lodi 150
Mantova 174
Novara 167
Palermo 0
Pavia 170
Perugia 230
Pisa 172
Reggio E. 749
Roma 384
Savona 406
S. B. Tronto 137
Siena 65
Udine 229
Venezia 675
Varese 242
Verbania 439
Verona 236
8.359 6.239
Casistica
Premessa
Quanto alla casistica mi pare utile riportare dati concreti relativi
al Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo (TERL) dal 1988 in
avanti.
I dati precedenti sono meno accessibili per scomodità di archi-
vio e anche meno significativi, in quanto l’applicazione giurispruden-
Anno 1988
In tale anno furono trattate dal Tribunale due cause per dolo,
una conclusasi con sentenza affermativa e una con sentenza negati-
va. Precisamente:
Anno 1989
In tale anno furono trattate nove cause per dolo, con gli esiti
che vengono qui di seguito registrati:
Anno 1990
In tale anno furono trattate sette cause per errore doloso, con i
seguenti esiti processuali:
Anno 1991
Nell’anno 1991 ben dieci cause ebbero a oggetto l’errore dolo-
so. Le decisioni in merito del Tribunale furono le seguenti:
1) causa 13/1991, in primo grado di giudizio, rinunciata dalla at-
trice. La qualità dolosamente celatale dal convenuto sarebbero stati
disturbi mentali di lui, solo malcertamente illustrati in giudizio;
2) causa 22/1991, in primo grado di giudizio, decisa negativa-
mente per il dolo ma affermativamente per l’incapacità psichica del
convenuto. Infatti, i disturbi di natura psicotica certi e prenuziali di
lui (che sarebbero stati poi l’oggetto del dolo) lo resero senza dub-
bio incapace al matrimonio, con una pronuncia assorbente rispetto a
quella circa l’induzione della comparte in errore;
3) causa 50/1991, di primo grado e conclusa con rinuncia della
attrice. Non risultò infatti provata la sterilità del convenuto, qualità
personale oggetto dell’asserito inganno da lei patito;
362 Paolo Bianchi
Anno 1992
In tale anno furono trattate otto cause sotto la prospettiva del
dolo e tutte in primo grado di giudizio, cosa che si eviterà quindi di
ripetere nella elencazione dei loro esiti concreti:
Anno 1993
In tale anno giudiziario vennero trattate ben dodici cause di do-
lo, quattro di primo grado e ben otto in appello. Analiticamente:
1) causa 9/1993, in secondo grado e risolta con conferma della
precedente decisione affermativa. La qualità oggetto di dolo sarebbe
stata la simulazione da parte del convenuto di una complessiva per-
sonalità non corrispondente al reale per mire economiche circa il
matrimonio con l’attrice. Una causa comunque incerta, dal momento
che forse più correttamente la fattispecie avrebbe potuto essere qua-
lificata come una simulazione cosiddetta totale;
2) causa 50/1993, in primo grado di giudizio e con sentenza af-
fermativa in ragione della celata tossicodipendenza del convenuto;
3) causa 164/1993 in secondo grado di giudizio e confermata
dopo un rinvio a esame ordinario, in ragione delle difficoltà di diritto
e di fatto che presentava. La qualità che fu prospettata come oggetto
di dolo fu una maternità della convenuta, avvenuta però anni prima
che ella conoscesse l’attore ed essendo stato dato il figlio in adozio-
ne, senza che la convenuta medesima intrattenesse più alcun rappor-
to con quello. In questo senso, i giudici fra l’altro si interrogarono se
il fatto costituisse una vera e propria qualità personale, ovvero piutto-
sto una circostanza ormai pregressa della vita della convenuta;
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 365
Anno 1994
In tale anno di attività del TERL vennero proposte nove cause
di nullità matrimoniale nelle quali venne prospettata l’ipotesi del do-
lo: otto in primo grado e una in appello:
Anno 1995
In tale anno vennero trattate dieci cause per dolo: sei in primo
grado e quattro in appello:
1) causa 48/1995, in primo grado di giudizio. Essa fu negativa
per il dolo circa la tossicodipendenza del convenuto, ma affermativa
per l’incapacità di lui, data la gravità dello stato di intossicazione cro-
nica;
2) causa 61/1995, in primo grado e ancora da definire. L’oggetto
dell’inganno consisterebbe nella (probabile) sterilità del convenuto;
3) causa 77/1995, in secondo grado di giudizio e ancora da de-
cidere. La qualità oggetto di inganno sarebbe la mancanza di fedeltà
da parte del convenuto;
4-5-6) cause 87.103.145/1995, in primo grado e ancora da deci-
dere. Tutte e tre caratterizzate dalla millantata e non sussistente pro-
fessione medica del convenuto, oggetto di errore doloso e determi-
nante subito dalla attrice;
7) causa 160/1995, in secondo grado e ancora da decidere. La
qualità oggetto di inganno sarebbe consistita in una grave affezione
dermatologica ai genitali del convenuto, non rivelata prima delle noz-
ze alla fidanzata;
8) causa 168/1995, in secondo grado e decisa per la conferma
della sentenza affermativa di primo grado. La qualità oggetto di in-
ganno fu la tossicodipendenza del convenuto;
9) causa 178/1995, in primo grado di giudizio e ancora da deci-
dere. Oggetto di inganno sarebbero stati l’uso di droga e la gravità
del disturbo diabetico del convenuto;
10) causa 253/1995, in secondo grado e decisa negativamente,
in riforma della decisione di primo grado. Infatti i provati gravissimi
disturbi mentali della convenuta – che dettero adito alla conferma
della decisione pure di primo grado in materia di incapacità psichi-
ca – resero per i Giudici di appello improponibile il capo di dolo sul
medesimo oggetto, dovendosi considerare incapace di atto umano la
convenuta: quindi incapace anche di dolo.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 369
Anno 1996
Al momento del seminario (17 aprile 1996) sono state introdot-
te, su 72 cause messe a ruolo, due cause per dolo: una in primo e
una in secondo grado ed entrambe ancora da definire:
Osser vazioni
Dall’analisi della casistica presentata si possono svolgere – cer-
to in primissima approssimazione – alcune considerazioni.
Così sono state intese come rilevanti ai sensi del can. 1098 situa-
zioni per così dire “croniche” del soggetto e strettamente aderenti al-
la sua persona, quali la tossicodipendenza, la sieropositività HIV, il di-
sordine della personalità clinicamente diagnosticato seppure non di
rilievo in se stesso incapacitante ai sensi del can. 1095 (costituendo
quindi autonomo motivo di nullità), la malattia venerea contagiosa.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 371
Problemi probatori
I problemi probatori sottesi alla applicazione del can. 1098 sono
davvero ardui ed è ormai divenuta tralatizia la considerazione che la
prova del dolo come vizio del consenso matrimoniale sarebbe di ec-
cezionale impegno. Talora si ritrova l’espressione – certo in sé ec-
cessiva – che quella del dolo ai sensi del nostro canone sarebbe una
probatio diabolica.
È ovvio che in una comunicazione come la presente non posso-
no essere affrontati tutti questi problemi. Mi limito a fare una consi-
derazione di carattere generale e a sviluppare alcune osservazioni
specifiche in ordine ad alcuni particolari problemi di prova.
Considerazione generale
Alcuni Autori presentano la norma di cui al can. 1098 come co-
stituita da tre ovvero da quattro elementi costitutivi.
Sperando di non eccedere in acribia analitica, a me pare che gli
elementi costitutivi della fattispecie normativa siano in realtà cinque.
Ciò non è irrilevante e per due ragioni.
In primo luogo, in quanto è davvero centrale per l’interprete del-
la norma poter identificare con precisione cosa egli debba verificare
per la sua applicazione ai casi concreti.
In secondo luogo, in quanto ogni elemento da verificarsi può
avere – quanto alla sua prova – difficoltà specifiche o anche “stru-
mentari” (per esempio logici, come usuali criteriologie di analisi dei
fatti) peculiari che possono essere utili nella lettura del caso.
1
Cf M.F. POMPEDDA, Annotazioni sul diritto matrimoniale nel nuovo Codice canonico, in GROCHOLEWSKI -
POMPEDDA - ZAGGIA, Il matrimonio nel nuovo Codice di diritto canonico, Padova 1984, pp. 62 e 66.
2
ARRT Dec. LXXXII, 722 ss.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 375
sussistano senza alcun limite. È lecito riferire tale diritto e tale obbli-
go solo a ciò che è essenziale alla autodonazione coniugale, non in-
vece agli elementi accidentali o soltanto perfezionativi di questa do-
nazione»).
In altre parole, secondo il punto di vista qui recensito, sembra
potersi dire che all’interno della categoria delle qualità personali la
cui presenza (o assenza) è suscettibile di perturbare gravemente la
vita coniugale, ne esistano per lo meno alcune così importanti e si-
gnificative che riguardo a esse, e a esse sole, si configurerebbe il do-
vere non solo morale ma anche giuridico di renderle note alla perso-
na con cui ci si vuole sposare; principio questo che sarebbe quindi
atto a giustificare la conclusione che l’errore su di esse renda nullo il
consenso anche se indotto da mera reticenza.
Naturalmente, così dicendo, non si vuole dimenticare che, in
concreto, molto facilmente le qualità in discorso non saranno soltan-
to sottaciute, bensì positivamente occultate con espedienti, menzo-
gne, astuzie.
PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
379
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 379-390
La pubblicazione di scritti
che espongono nuove apparizioni,
rivelazioni, visioni, profezie, miracoli
o introducono nuove devozioni
di Marino Mosconi
1
Così in una nota all’opuscolo Messaggi (vi parla padre Pio).
2
Ibid., richiamando Documentazione Cattolica 1488, 327.
380 Marino Mosconi
3
Cf E. BARAGLI, Una costante preoccupazione pastorale della Chiesa: l’imprimatur, in La Civiltà Cattoli-
ca 126 (1975) 437.
4
La questione viene rimessa al giudizio del Pontefice (Concilio di Trento, sessione XXV, decreto Su-
per indice librorum, catechismo, breviario et missali ); sulla base di questo mandato Pio IV pubblica la
costituzione apostolica Dominici gregis del 24 marzo 1564.
5
La prima versione risale, con Paolo IV, al 1557 e l’ultimo aggiornamento è del 1946.
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 381
6
Cf concilio Lateranense V, sessione X, decreto Super impressione librorum. Ripreso dalla costituzione
apostolica Inter sollecitudines (di Leone X, del 4 maggio 1515).
7
Su questa riserva, attribuita ad Alessandro III (1159-1181), ma attuata in realtà da Gregorio IX (1227-
1241), cf E. PIACENTINI, L’infallibilità papale nella canonizzazione dei santi, in Monitor Ecclesiasticus 117
(1992) 91-132.
8
Cf URBANO VIII, costituzione apostolica Coelestis Hierusalem (5 luglio 1634), in Codicis Iuris Canonici
fontes (a cura di P. Gasparri - I. Seredi), vol. I, Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1947, p. 403: «ne dein-
de fraus, aut aliquid novum, et inordinatum in re tam gravi committeretur». Stesso testo in S.C.S. OFFI-
CII, Decretum (13 aprile 1625), in Codicis Iuris Canonici fontes (a cura di P. Gasparri - I. Seredi), vol. IV,
Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1951, p. 3.
9
Cf S.C.R., Sancti Iacobi de Chile (12 maggio 1877) e S.C.R., Capuana, Portus Aloisii et Sanctissimae
Conceptionis de Chile (12 maggio 1877). Testi in Codicis Iuris Canonici fontes (a cura di P. Gasparri-
I. Seredi), vol.VIII, Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1948, pp. 190-191 e 209-210.
382 Marino Mosconi
ti, pur raccomandando una certa tolleranza nei confronti di chi per-
sonalmente decide di credere alla verità di eventi straordinari su cui
l’autorità si è semplicemente astenuta dal pronunciarsi.
Con la fine del XIX secolo, nel 1897, abbiamo per la prima volta
una proibizione generale relativa agli scritti narranti fatti straordinari
e pubblicati senza la legittima licenza; si tratta dell’art. 13 della costi-
tuzione apostolica di Leone XIII Officiorum ac munerum 10. Il testo
viene ripreso quasi alla lettera dal can. 1399, 5° del Codice del 1917,
nell’elenco dei libri proibiti dal diritto stesso:
«sono proibiti dal diritto stesso: [...] i libri e opuscoli che espongono nuove
apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli, o che introducono nuove
devozioni, anche sotto il pretesto che siano private, se sono stati pubblicati
non osservando le prescrizioni dei canoni» 11.
10
Cf LEONE XIII, Officiorum ac munerum (25 gennaio 1897), art. 13, in Codicis Iuris Canonici fontes (a
cura di P. Gasparri - I. Seredi), vol. III, Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1933, p. 507: «Libri aut scrip-
ta, quae narrant novas apparitiones, revelationes, visiones, prophetias, miracula vel quae novas inducunt
devotiones, etiam sub praetextu quod sint privatae, si publicentur absque legitima Superiororum Ecclesiae
licentia, proscribuntur».
11
Cf can. 1399: «Ipso iure prohibentur:... libri ac libelli qui novas apparitiones, revelationes, visiones,
prophetias, miracula enarrant, vel qui novas inducunt devotiones, etiam sub praetextu quod sint privatae,
si editi fuerint non servatis canonum praescriptionibus».
12
Cf testo in EV 2, nn. 705-706.
13
Cf testo in EV Supplementum 1, n. 106.
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 383
14
Testo in EV 1, n. 382: «Suam sententiam de iis quae bonum Ecclesiae respiciunt declarandi».
15
Cf SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, notificazione Post litteras apostolicas, in EV 2,
n. 705: «Ecclesia fidelium maturae conscientiae confidit».
16
Per una esposizione di queste motivazioni cf J.A. CORIDEN, The End of the Imprimatur, in The Jurist
44 (1984) 349-350.
17
La cui validità viene espressamente ribadita dalla costituzione apostolica di Giovanni Paolo II, Divi-
nus perfectionis magister (25 gennaio 1983), n. 2. Cf EV 8, n. 553.
384 Marino Mosconi
no due i punti su cui i pastori della Chiesa non possono non essere
vigilanti: evitare di indurre confusione su quale sia la posizione auto-
revole della Chiesa sulla veridicità di un evento soprannaturale (con
tutte le conseguenze relative al “culto pubblico”); impedire che siano
attribuiti a Dio, alla Madonna o ai santi messaggi la cui coerenza con
la rivelazione sia perlomeno dubbia. In questa linea si ricordi che il
Vaticano II rivaluta e sottolinea l’importanza della centralità della ve-
rità rivelata, che non può essere messa in discussione da rivelazioni
private (DV 4) 18 ed evidenzia inoltre l’urgenza di riscoprire un auten-
tico culto dei santi, evitando abusi, eccessi o difetti (LG 51) 19.
Per quanto riguarda specificamente l’utilizzo degli scritti si noti
che la notificazione Post litteras apostolicas, pur abolendo l’Indice dei
libri proibiti, ne ribadisce la forza morale: «in quanto ammonisce la
coscienza dei cristiani a guardarsi, per una esigenza che scaturisce
dallo stesso diritto naturale, da quegli scritti che possono mettere in
pericolo la fede e i costumi» 20. Questa ammonizione impegna a mag-
gior ragione i responsabili dei mezzi di comunicazione di massa (IM
11), che più di altri sono impegnati «a formare e diffondere opinioni
pubbliche rette» (IM 8) 21.
In conclusione si può affermare che la dottrina del Vaticano II
invita a superare strumenti che non sono più proponibili nella so-
cietà di oggi, quale la proibizione degli scritti, e punta il suo interes-
se sull’opera pastorale della formazione delle coscienze dei fedeli,
per una duplice finalità: imparare a rapportarsi con il mondo delle
comunicazione di massa (dal punto di vista del “produttore” come da
quello dell’utente); costituire una minima cultura religiosa di base
che consenta di distinguere quanto coerisce con la verità rivelata da
quanto si allontana da essa (discernimento affidato al «senso di fede
dei fedeli», LG 12). Il Concilio non rinnega poi l’importanza di man-
tenere una debita vigilanza dell’autorità ecclesiastica sulla diffusione
di notizie relative a fatti straordinari di presunta origine soprannatu-
rale e questo perché, intervenendo opportunamente nei casi in cui
sia necessario, si eviti che un ricorso troppo affrettato al miracolisti-
18
Testo in EV 1, n. 876: «nulla iam nova revelatio publica expectanda est ante gloriosam manifestatio-
nem Domini nostri Iesu Christi».
19
Testo in EV 1, n. 424: «omnes ad quos spectat hortatur, ut si qui abusus, excessus vel defectus hic illicve
irrepserint, eos arcere aut corrigere satagant ac omnia ad pleniorem Christi et Dei laudem instaurent».
20
Testo in EV 2, n. 705: «quatenus Christifidelium conscientiam docet, ut ab illis scriptis, ipso iure natu-
rali exigente, caveant, quae fidem ac bonos mores in discrimen adducere possint».
21
Testo in EV 1, n. 256: «ad rectas publicas opiniones efformandas atque pandendas».
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 385
22
Testo in EV 5, nn. 1203-1220.
23
Ancora applicata per gli scritti relativi alle presunte apparizioni della Madonna ad Amsterdam; cf SA-
CRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, In merito (25 maggio 1974), in EV Supplementum 1,
n. 493.
24
Sulla base del dovere di cui al can. 386 § 2 e secondo le facoltà previste dal can. 391 § 1; così argo-
menta: C.J. ERRAZURIZ, Il Munus Docendi Ecclesiae: diritti e doveri dei fedeli, Giuffrè, Milano 1991,
p. 101.
25
Cf can. 823 § 1: «reprobandi scripta quae rectae fidei aut bonis moribus noceant».
26
Per queste osservazioni cf F.J. URRUTIA, De limitibus scribendi fidelium iuxta legem canonicam, in Pe-
riodica de re morali, canonica et liturgica 65 (1976) 532-533.
386 Marino Mosconi
senta come poco opportuna per una efficace limitazione della diffu-
sione di scritti relativi a fatti straordinari su cui l’autorità ecclesiasti-
ca abbia espresso parere negativo. Nonostante questi limiti l’autorità
ecclesiastica potrà comunque fare ricorso alla riprovazione, conside-
randola un mezzo estremo nel caso di testi veramente pericolosi per
il bene delle anime o che comunque inducono grande confusione nei
fedeli e nel caso in cui si rivelino inefficaci altri mezzi di correzione.
Un giudizio di tale gravità potrà essere utilmente lasciato alla compe-
tenza della Congregazione per la Dottrina della Fede (stabilita su
questo argomento dalla costituzione apostolica Pastor Bonus del 28
giugno 1988 all’art. 51), sia per la portata universale che assume il
tema delle “apparizioni e rivelazioni” nella attuale società dell’infor-
mazione, sia per la particolare competenza richiesta per procedere a
tale tipo di giudizi.
In questa linea non si può escludere neanche la possibilità che si
renda necessario, nei confronti di un atteggiamento di persistente di-
sobbedienza alle indicazioni dell’autorità sulla non divulgazione di
scritti relativi a presunte apparizioni o rivelazioni con contenuti nocivi
per la fede e la morale, il ricorso a vere e proprie sanzioni disciplinari
o penali 27: nella forma del precetto penale (can. 1319: imponendo di
cessare nel divulgare una certa opera sotto la minaccia di una con-
grua pena) o applicando alcuni canoni penali già previsti (can. 1389
§ 1 sull’abuso del proprio ufficio; can. 1371, 2° per l’atteggiamento di
disobbedienza; can. 1371, 1° per questioni di fede non ereticali 28...);
eventualmente ricorrendo anche alla competenza penale della Con-
gregazione per la Dottrina della Fede (Pastor Bonus, art. 52). Il ricor-
so a questi mezzi deve considerarsi veramente estremo, anche per le
aspre polemiche a cui potrebbe dare luogo, ma può essere opportuno
per ottenere due effetti: rendere a tutti chiaro e inequivoco quale sia
l’opinione dell’autorità ecclesiastica su un presunto evento sopranna-
turale; fare percepire ai fedeli “in errore” quanto sia grave il loro at-
teggiamento di disobbedienza in questa materia.
Strumento più consueto per un controllo della corretta diffusio-
ne degli scritti nella Chiesa è la richiesta di un giudizio autorevole
previamente alla stampa. Questa prassi è prevista dalla normativa vi-
27
Sul ricorso a questi mezzi disciplinari e penali cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, In-
structio quoad aliquos adspectus usus instrumentorum communicationis socialis in doctrina fidei traden-
da, 2 a, in Communicationes 24 (1992) 20.
28
Nel caso di eresia formale va da sé l’applicazione delle pene di cui al can. 1364.
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 387
29
La riserva all’autorità ecclesiastica del riconoscimento al culto pubblico per santi e beati è affermata
nel can. 1187; per uno studio sulla questione cf F. D’OSTILIO, Il culto dei santi beati venerabili servi di
Dio, in Monitor Ecclesiasticus 117 (1992) 63-90.
30
Sull’ipotesi che la “licenza” implichi un minore coinvolgimento dell’autorità ecclesiastica rispetto alla
“approvazione”, cf C.J. ERRAZURIZ, Gli strumenti di comunicazione sociale e in specie i libri, in AA.VV., La
funzione di insegnare della Chiesa, Glossa, Milano 1994, p. 115.
388 Marino Mosconi
31
Su questa eventualità cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Instructio quoad aliquos ad-
spectus usus instrumentorum communicationis socialis in doctrina fidei tradenda, 8 § 2, in Communica-
tiones 24 (1992) 23.
32
Testo in EV 1, n. 262: «personis dignis ac peritis».
33
Testo in EV 1, n. 258: «sese tempestive certiores faciendi de sententiis quae his in rebus a competenti
auctoritate ferantur, atque eisdem secundum rectae conscientiae normas obsequendi».
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 389
Conclusioni
In sostanza il concilio Vaticano II invita i pastori della Chiesa a
un atteggiamento di libertà e fiducia verso i fedeli, tollerando nel
campo delle rivelazioni private quel sereno dibattito che può accom-
pagnare eventi non ancora riconosciuti, ma non ancora condannati
ed evitando di ripetere alcuni errori commessi nel passato con meto-
di di intolleranza nel servizio alla verità 34. In questo contesto alcuni
strumenti giuridici, come quello della proibizione degli scritti, non
sembrano più attuali e praticabili.
La riscoperta della centralità della rivelazione pubblica, suscitata
dal dibattito conciliare, invita però la Chiesa a mantenere alta la vigi-
lanza sulle presunte rivelazioni private, per garantire una retta com-
prensione del loro rapporto con la storia della salvezza e per evitare
che la diffusione di messaggi di dubbia autenticità e di dubbia coe-
renza con il piano salvifico sia di ostacolo nella comprensione della
centralità del mistero divino. Questa vigilanza si esprime in diverse
attenzioni che possono essere sinteticamente ricondotte allo schema
seguente:
– la Chiesa si prende a cura la formazione delle coscienze dei
credenti, educando a una retta comprensione dei contenuti centrali
della rivelazione pubblica e a un rapporto maturo con i mezzi di dif-
fusione delle informazioni (in particolare i mezzi di comunicazione
di massa), perché ogni credente sia messo in condizione di discer-
nere al meglio ciò che viene da Dio e ciò che viene dall’uomo;
– la diffusione di testi particolarmente importanti per la vita spi-
rituale del credente, quali i testi di preghiera (can. 826) e tutto ciò che
viene offerto ai fedeli nell’ambito di un luogo sacro (can. 827 § 4), de-
ve essere sottoposta al previo giudizio dell’autorità competente;
– l’autorità ecclesiastica ha il compito di far conoscere con chia-
rezza la propria posizione davanti ai diversi fenomeni soprannaturali
(can. 386 § 2), evitando che si intenda come “ufficiale” ciò che appar-
tiene alla sfera delle opinioni private, e ha il dovere di intervenire,
34
Cf GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), n. 35.
390 Marino Mosconi
Marino Mosconi
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
35
Cf sugli scritti di Vassula Ryden: CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Notificazione (6 otto-
bre 1995).
36
Testo in EV 1, n. 1639: «sit in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas».
Hanno collaborato a questo numero:
SOMMARIO PERIODICO
397 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
400 Le Conferenze episcopali N. 4 - OTTOBRE 1996
di Giorgio Feliciani
421 Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali DIREZIONE ONORARIA
AMMINISTRAZIONE
Editrice Àncora
Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Tel. (02) 345608.1
STAMPA
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Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini
Editoriale
Nel primo articolo viene offerta una puntuale sintesi dello sta-
tus quaestionis, indicando quali aspetti possano oggi ritenersi acqui-
siti nella riflessione teologica e canonistica e quali invece necessitino
di ulteriore definizione (Feliciani).
Sono poi illustrati, alla luce della vigente normativa, quali deci-
sioni e pronunciamenti competano a tali organismi, indicando inoltre
in che misura vincolino i vescovi che ne fanno parte e i fedeli a loro
soggetti (Rivella).
Nel tentativo di aprire ulteriori vie per l’approfondimento della
natura e funzione delle Conferenze episcopali, si instaura un’analisi
parallela fra le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese cattoli-
che orientali (Montini): lo scopo è di indicare non già un concreto
ius condendum per le Conferenze episcopali, quanto piuttosto di pre-
sentare linee ispiratrici a partire da un ordinamento giuridico, quale
quello orientale, in cui più forte è stata la sperimentazione di struttu-
re collegiali e di istanze intermedie nella costituzione della Chiesa.
Anche in questo modo si risponde all’invito che il Papa più volte ha
rivolto alla Chiesa tutta, di respirare cioè con i due polmoni, la tradi-
zione occidentale e orientale.
Viene infine ripercorsa la produzione normativa della Conferen-
za episcopale italiana, focalizzando l’attenzione sulla legislazione com-
plementare successiva al CIC e sulla normativa di attuazione della
revisione concordataria (Calvi). Lo scopo non è di presentare un bi-
lancio critico del diritto particolare italiano, quanto piuttosto di infor-
mare degli interventi normativi e orientativi della Conferenza episco-
Editoriale 399
pale italiana negli ultimi anni, fornendo le indicazioni per un facile re-
perimento dei testi. Si tratta, in verità, di testi normativi che i Quader-
ni di diritto ecclesiale hanno già affrontato, nella maggior parte, nella
rubrica di commento alle delibere CEI. All’occorrenza nell’articolo si
farà riferimento a tali approfondimenti.
1
Cf A. ANTÓN, Lo statuto teologico delle conferenze episcopali, in AA.VV., Natura e futuro delle Conferenze
episcopali, Bologna 1988, p. 202.
2
Cf SINODO DEI VESCOVI, Relatio finalis, 7 dicembre 1985, II, C, n. 8, lett. b (EV 9, n. 1809).
3
Vedi l’allocuzione ai Cardinali e alla Curia romana, 28 giugno 1986, n. 7, lett. c, in Insegnamenti di
Giovanni Paolo II, IX.1, Città del Vaticano, 1987, pp. 1963-1964.
4
Cf CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Instrumentum laboris sullo «status» teologico e giuridico delle confe-
renze episcopali, 1° luglio 1987 (EV 10, nn. 1844-1913).
Le Conferenze episcopali 401
5
Per più ampie notizie circa le origini delle Conferenze episcopali, il dibattito conciliare e le relative
deliberazioni, vedi G. FELICIANI, Le conferenze episcopali, Bologna 1974.
402 Giorgio Feliciani
La fisionomia dell’istituto
Gli autori della codificazione canonica del 1983 si sono trovati di
fronte a un compito tutt’altro che agevole. Infatti sia il Concilio sia la
legislazione successiva non avevano sancito una normativa completa
6
Cf J. MANZANARES, Las conferencias episcopales en el nuevo código de derecho canónico, in AA.VV., Rac-
colta di scritti in onore di Pio Fedele, I, Perugia 1984, pp. 513-514.
7
Vedi infra.
Le Conferenze episcopali 403
8
Per una rassegna delle diverse tesi sostenute al riguardo vedi J. MANZANARES, De conferentiis episco-
palibus post decem annos a Concilio Vaticano II, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 64 (1975)
611-613.
404 Giorgio Feliciani
Il titolo di partecipazione
Una ben più significativa innovazione riguarda la complessa
questione della “ritualità” delle conferenze. Dall’insieme dei testi
conciliari risulta chiaramente che questo istituto riguarda essenzial-
mente la Chiesa latina poiché nelle Chiese cattoliche orientali le sue
funzioni sono di regola svolte dai Sinodi patriarcali. Tuttavia il decre-
to Christus Dominus (n. 38, 2), allo scopo di promuovere l’organica
collaborazione dei vescovi di rito latino, predominante in un dato ter-
ritorio, con le gerarchie delle minoranze rituali ivi esistenti, non ha
voluto affermare coerentemente e rigorosamente il carattere rituale
delle conferenze e ha, quindi, disposto che vi partecipino a parità di
diritti i vescovi di qualunque rito.
L’attribuzione del voto deliberativo agli ordinari delle minoran-
ze rituali ha suscitato notevoli perplessità. In questo modo, infatti, es-
si venivano assoggettati alle decisioni giuridicamente vincolanti di
assemblee prevalentemente composte da vescovi di un rito diverso
con l’evidente pericolo di una lesione delle legittime autonomie delle
loro Chiese. Inoltre, si osservava, molte delle decisioni di competen-
za delle conferenze, riguardavano esclusivamente la Chiesa latina (si
pensi, per esempio, alla materia liturgica) e non si vedeva come i ve-
scovi orientali potessero contribuire con il loro voto all’assunzione di
deliberazioni che non li concernevano 9.
È quindi da condividere pienamente la disposizione del can. 450
§ 1 CIC che, da un lato, limita la partecipazione di diritto ai prelati di
rito latino e, dall’altro, consente espressamente che gli orientali sia-
no invitati ma con il solo voto consultivo.
9
Vedi W. AYMANS, Ritusgebundenheit und territoriale Abgrenzung der Bischofskonferenzen, in «Archiv für
katholisches Kirchenrecht» 135 (1966) 548-549.
Le Conferenze episcopali 405
10
Vedi il responso della Commissione per l’interpretazione dei decreti del Vaticano II del 31 ottobre
1970 (EV S1, n. 398).
406 Giorgio Feliciani
L’assemblea plenaria
Il decreto conciliare Christus Dominus, mettendo in luce l’utilità
che «in tutto il mondo i vescovi della stessa nazione o regione si co-
stituiscano in un unico organismo e si adunino periodicamente tra di
loro», menziona l’assemblea plenaria nella stessa descrizione della
conferenza. In effetti, la sua funzione è talmente essenziale per la vi-
ta di questo istituto che gli statuti delle diverse conferenze, con di-
versa terminologia ma con assoluta unanimità di pensiero, ricono-
scono nell’assemblea plenaria l’organo supremo, principale, ordina-
rio, che ha tutti i poteri e tutte le facoltà e che, in ultima analisi, si
identifica con la conferenza stessa.
Si comprende quindi agevolmente come non solo il Codice ma
anche gli statuti rinuncino a fissarne in modo dettagliato ed esaurien-
te le competenze, limitandosi a menzionare le funzioni più rilevanti.
In particolare il potere legislativo è assolutamente riservato all’as-
semblea plenaria che non può in alcun caso delegarlo (can. 455 § 2).
Il significato di questa “riserva” eccede di gran lunga il proble-
ma specifico della modalità di esercizio del potere legislativo. Esso,
infatti, è da riconoscersi in una netta affermazione del ruolo centrale
e insostituibile dell’assemblea plenaria con cui si intende scongiura-
re il pericolo che, per l’urgenza di disciplinare determinate materie e
per la difficoltà di convocare l’intero episcopato, i poteri legislativi
vengano di fatto ad accentrarsi nelle mani di pochi vescovi che non
incontrerebbero poi ostacoli a condizionare tutta l’attività della con-
ferenza.
Questo ruolo essenziale dell’assemblea plenaria esige, perché
la conferenza possa realizzare i suoi fini istituzionali, che essa venga
convocata non solo periodicamente, come è espressamente previsto
dal Concilio, ma anche molto frequentemente. Di conseguenza il Co-
dice stabilisce che i vescovi si riuniscano almeno una volta all’anno
e, inoltre, tutte le volte che speciali circostanze lo richiedano secon-
do le modalità previste dagli statuti per la convocazione delle assem-
blee straordinarie (can. 453).
Le Conferenze episcopali 407
11
Una regola che subisce alcune eccezioni: in Italia il presidente è nominato dal Pontefice e in Belgio –
dove la conferenza riunisce i vescovi di una sola provincia ecclesiastica – tale funzione spetta di diritto
al metropolita.
Le Conferenze episcopali 409
Il presidente
Circa le funzioni del presidente – che qualora sia legittimamen-
te impedito è sostituito dal pro-presidente – il Codice si limita a pre-
vedere che egli presieda sia le riunioni del consiglio permanente sia
le assemblee plenarie (can. 452 § 2) e provveda a trasmettere tempe-
stivamente alla Santa Sede gli atti approvati nel corso di queste ulti-
me (cf can. 456). Peraltro – come ha rilevato il presidente della Com-
missione per l’interpretazione autentica del Codice 12 – questo ufficio
assume notevole rilevanza nella vita della conferenza, comportando,
tra l’altro, la rappresentanza della stessa, la delicata responsabilità di
dirimere le questioni nelle impasses dovute alla parità dei voti ottenu-
ti da due tesi contrapposte (cf can. 119, 2°) e la partecipazione di di-
ritto alle assemblee generali straordinarie del Sinodo dei vescovi 13.
Tali considerazioni hanno indotto la stessa Commissione a ri-
tenere nel responso del 23 maggio 1988 14 che la funzione di presi-
dente non possa essere affidata a un vescovo ausiliare. Essa, dun-
que, rimane riservata ai membri della conferenza pleno iure, vale a
dire a quanti siano dotati di suffragio deliberativo per diritto univer-
sale (cf can. 454).
Il consiglio permanente
Di notevole importanza anche la funzione del consiglio perma-
nente che assicura, negli intervalli tra un’assemblea e l’altra, quella
stretta collaborazione tra i vescovi che costituisce il fine istituzionale
della conferenza. Più specificamente quest’organo – a norma degli
statuti – deve garantire la continuazione delle attività intraprese, pre-
parare l’assemblea plenaria, preoccuparsi della esecuzione delle sue
decisioni, dirigere la segreteria generale, coordinare l’attività delle
commissioni, sovrintendere alla amministrazione dei beni della con-
ferenza. Il problema di dotare quest’organo di una adeguata compo-
sizione non appare di facile soluzione poiché – oltre a tenere conto
dei fattori che variano da Paese a Paese – occorre contemperare di-
verse esigenze. Infatti, un’ampia rappresentatività del consiglio se
12
Vedi card. R. CASTILLO LARA, De episcoporum conferentiarum praesidentia, in «Communicationes» 21
(1989) 94-98.
13
Vedi Regolamento del Sinodo dei Vescovi riveduto e ampliato, 24 giugno 1969, art. 5 § 2 (EV 3,
n. 1352).
14
EV 11, n. 697.
410 Giorgio Feliciani
La segreteria generale
A un livello decisamente inferiore a quello spettante al presi-
dente e al consiglio permanente si colloca la segreteria generale. La
responsabilità di questo organo permanente è affidata a una singola
persona che non è necessariamente un membro della conferenza e
ha compiti di carattere tecnico, dovendo apprestare e garantire tutti
quei servizi che sono indispensabili a un proficuo e ordinato svolgi-
mento dell’attività della conferenza. In particolare, a norma degli sta-
tuti, assicura le comunicazioni di ogni genere, procura le informazio-
Le Conferenze episcopali 411
Le commissioni
Mentre il consiglio permanente e la segreteria generale presen-
tano nei singoli Paesi una struttura relativamente omogenea e svol-
gono funzioni che investono, sia pure a livelli diversi, l’intera vita del-
la conferenza, le commissioni hanno competenze di tipo specifico e
si rivelano organizzate in modi molto vari, dettati sia dalla natura dei
compiti loro affidati sia dalle caratteristiche dei diversi episcopati. In
ogni caso, l’assemblea si riserva su di esse i più vasti poteri, attri-
buendosi direttamente la funzione di istituirle, sopprimerle, appro-
varne i programmi e controllarne l’attività. La sua supremazia sem-
brerebbe, quindi, adeguatamente assicurata ma, a una attenta anali-
si, in non poche conferenze la realtà si presenta ben diversa sì da far
ritenere che, tra i vari organi permanenti, proprio le commissioni
pongono i più gravi problemi. Infatti la loro attività investe, spesso
direttamente, il concreto svolgimento dell’azione pastorale, sì da po-
ter condizionare lo stesso esercizio ordinario del ministero episcopa-
le. È, dunque, opportuno che ovunque i compiti di questi organi sia-
no rigorosamente delimitati in modo da accentuarne più la funzione
412 Giorgio Feliciani
La competenza
Le Conferenze episcopali possono emanare decreti generali a
condizione che questi ricevano l’approvazione dei due terzi dei mem-
bri con voto deliberativo e ottengano il nullaosta della Santa Sede.
Godono, dunque, di vero e proprio potere legislativo, sia pure in mi-
sura limitata. Esso, infatti, non è di carattere generale come quello
dei concili provinciali e plenari (cf can. 445), ma riguarda esclusiva-
mente le materie specificamente stabilite dal diritto universale o da
una speciale disposizione della Santa Sede, emanata di sua iniziativa
o su richiesta della stessa conferenza (can. 455 §§ 1-2).
Questa limitazione si spiega con l’osservazione che una più am-
pia competenza legislativa avrebbe finito con il comprimere eccessi-
vamente lo spazio di autodeterminazione dei singoli vescovi diocesa-
ni. E timori di questo genere sono stati ripetutamente e decisamente
espressi sia nell’aula conciliare, sia nelle consultazioni per l’elabora-
zione del nuovo Codice.
Infatti, come si è già avuto modo di ricordare, le conferenze non
sono solo assemblee occasionali di vescovi come altri istituti di sino-
dalità particolare, ma costituiscono veri e propri “istituti permanen-
ti”. Di conseguenza, qualora fossero dotate di un potere legislativo di
carattere generale, potrebbero condizionare sistematicamente e con-
tinuamente diversi aspetti del ministero del singolo vescovo diocesa-
no con l’evidente pericolo di una lesione dell’autorità che gli compe-
te per diritto divino nella guida della porzione del popolo di Dio affi-
data alle sue cure pastorali.
Non sorprende, quindi, che tutta la normativa sancita dal Codice
circa i poteri delle conferenze riveli una marcata preoccupazione di ti-
po garantistico nei confronti dell’autonomia diocesana. Particolarmen-
te significativa sotto questo profilo risulta la disposizione del can. 455
§ 4, secondo la quale, nei campi in cui la conferenza non gode di pote-
re legislativo, rimane intatta la competenza del vescovo diocesano sì
che né la conferenza né il suo presidente possono parlare a nome di
tutti i vescovi se non hanno la loro approvazione unanime.
Se la limitazione dei poteri legislativi delle Conferenze episco-
pali è pienamente da condividere, è però evidente che il bene della
Le Conferenze episcopali 413
15
Per più ampie notizie al riguardo vedi G. FELICIANI, La dimensione «spazio» nel nuovo codice di diritto
canonico, in AA.VV., Raccolta di scritti in onore di Pio Fedele, cit., pp. 447-450.
414 Giorgio Feliciani
16
Ora agevolmente consultabili in J.T. MARTIN DE AGAR, Legislazione delle conferenze episcopali comple-
mentare al C.I.C., Milano 1990.
Le Conferenze episcopali 415
I collegamenti
Il Codice raccomanda lo sviluppo delle relazioni tra le diverse
conferenze (can. 459 § 1) e individua nella segreteria generale lo
strumento per la trasmissione di atti e documenti (can. 458, 2°). Al
contempo impone alle conferenze di consultare la Santa Sede prima
di intraprendere iniziative di carattere internazionale (can. 459 § 2).
Queste scarne norme si occupano in termini quanto mai generi-
ci di un problema di notevole rilevanza.
La collaborazione tra le conferenze, costituendo una ulteriore e
più ampia manifestazione della comunione tra le Chiese, favorisce il
superamento da parte dei singoli episcopati di eventuali tentazioni
particolaristiche. Essa si rivela spesso indispensabile anche da un
punto di vista pratico e immediato per rispondere a esigenze pastora-
li che interessano territori più vasti di quelli dei singoli Stati. Si com-
prende, quindi, agevolmente come tale collaborazione sia venuta
strutturandosi in forme non solo occasionali ma anche organiche
mediante la creazione di appositi organismi a livello internazionale e
persino continentale.
Attualmente esistono sei riunioni internazionali di conferenze
africane, una federazione di quelle asiatiche, un Consiglio episcopale
latinoamericano, un segretariato episcopale per l’America centrale e
il Panama, due organismi per il continente europeo. Il primo (Consi-
glio delle Conferenze Episcopali Europee CCEE) riunisce gli episco-
pati dell’Est e dell’Ovest, mentre il secondo (Commissione degli Epi-
scopati della Comunità Europea COMECE), di più recente istituzio-
ne, assicura il collegamento tra i vescovi di quei Paesi che fanno
parte dell’Unione europea.
Questi organismi non devono essere confusi con le Conferenze
episcopali internazionali che, come si è visto 18, vengono istituite là
dove non vi siano condizioni idonee alla creazione di conferenze na-
zionali (vedi, per esempio, la conferenza scandinava).
17
Cf GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastor bonus, 28 giugno 1988, art. 26 § 1 (EV 11, n. 858).
18
Vedi supra.
416 Giorgio Feliciani
I problemi aperti
L’Instrumentum laboris sullo status teologico e giuridico delle
conferenze, sottoposto all’attenzione dei diversi episcopati nel 1987 19,
ha suscitato reazioni piuttosto critiche. Tutta l’impostazione del docu-
mento, attualmente in fase di rielaborazione, è stata da più parti con-
siderata come eccessivamente riduttiva del significato ecclesiologico
e delle funzioni delle conferenze.
Molto sinteticamente si può qui ricordare come l’instrumentum
giustifichi l’esistenza delle conferenze in una prospettiva eminente-
mente operativa come mezzo di carattere contingente, necessario
per far fronte ai “segni dei tempi”. In pratica, si nega che, a rigor di
termini, si possa parlare a questo proposito di collegialità episcopale
poiché, secondo gli insegnamenti conciliari, quest’ultima è di natura
19
Vedi supra.
Le Conferenze episcopali 417
20
A. ANTÓN, Lo statuto teologico..., cit., p. 229.
21
Se ne vedano gli atti in AA.VV., Natura e futuro delle conferenze episcopali, cit.
418 Giorgio Feliciani
22
Vedi A. ASTORRI, Gli statuti delle conferenze episcopali, I, Europa, e I.C. IBAN, Gli statuti delle conferen-
ze episcopali, II, America, Padova, 1987 e 1989.
Le Conferenze episcopali 419
23
Vedi in tal senso Conferenze episcopali e corresponsabilità dei vescovi, in «La Civiltà Cattolica» 136
(1985) II, 222-425; cf Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Cinisello Bal-
samo 1985, pp. 60-63.
24
Per una dettagliata esposizione vedi G. FELICIANI, Le conferenze episcopali nel magistero di Giovanni
Paolo II, in «Aggiornamenti sociali» 38 (1987) 141-154.
420 Giorgio Feliciani
GIORGIO FELICIANI
Via Molino dell Armi, 3
20123 Milano
25
Vedi supra.
421
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 421-432
Decisioni e dichiarazioni
delle Conferenze episcopali
di Mauro Rivella
Decreti generali
La forma tipica di esercizio della potestà legislativa che compe-
te alle Conferenze episcopali è costituita dai decreti generali, che pos-
sono emanare validamente alle condizioni elencate nei primi tre pa-
ragrafi del can. 455.
Trascriviamo per comodità il testo del § 1:
«La Conferenza episcopale può emanare decreti generali solamente nelle
materie in cui lo abbia disposto il diritto universale, oppure lo stabilisce un
mandato speciale della Sede Apostolica, sia motu proprio, sia su richiesta
della Conferenza stessa».
1
Cf G. GHIRLANDA, Concili particolari e Conferenze dei vescovi: «munus regendi» e «munus docendi», in
«La Civiltà Cattolica» 142 (1991/II) 127.
2
Una lista indicativa dei canoni che richiedono la promulgazione di norme particolari da parte delle
Conferenze episcopali fu pubblicata dalla Segreteria di Stato l’8 novembre 1983 (cf EV 9, nn. 536-537).
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 423
creti generali vigenti nel territorio in cui si trovano, a meno che essi
provvedano all’ordine pubblico o determinino le formalità degli atti o
riguardino beni immobili situati nel territorio (can. 13 § 2, 2°).
Per la validità dei predetti decreti generali, il § 2 del can. 455 fis-
sa tre condizioni: che siano approvati dall’assemblea plenaria della
Conferenza episcopale, che ottengano voto favorevole da parte di al-
meno i due terzi dei presuli che appartengano alla conferenza con vo-
to deliberativo, e che siano legittimamente promulgati dopo la reco-
gnitio da parte della Sede Apostolica. In merito è opportuno osserva-
re che, in base al già citato can. 135 § 2 3, l’assemblea plenaria non
può delegare la potestà legislativa di cui dispone ad altri organi della
Conferenza episcopale, come la presidenza, il consiglio permanente,
la segreteria o particolari commissioni. Si noti inoltre come il CIC ri-
chieda un quorum particolarmente elevato per avallare le decisioni
normative della Conferenza episcopale: non solo la maggioranza qua-
lificata dei presenti, ma addirittura quella degli aventi diritto al voto
deliberativo, mentre per le deliberazioni assunte dai concili generali e
da quelli particolari, secondo la norma generale del can. 119, 2°, è
sufficiente la maggioranza assoluta dei presenti, se questi costituisco-
no la maggioranza degli aventi diritto al voto. È evidente che il le-
gislatore intende ovviare al rischio che gruppi ristretti condizionino
interi episcopati, dettando norme che diverranno obbligatorie per tut-
ti. In secondo luogo si tratta di garantire che le decisioni normati-
ve godano di un amplissimo consenso di base, che ne renderà senza
dubbio più facile l’applicazione. La conseguenza pratica sarà tuttavia
che su questioni controverse sarà difficile conseguire la maggioranza
richiesta, e ne risulterà una lacuna di legge, se si tratta di quei punti
sui quali la legislazione universale rinvia in maniera complementare
alle deliberazioni delle conferenze.
Il § 3 del can. 455 lascia a ciascuna Conferenza episcopale la de-
terminazione del modo di promulgazione e del tempo in cui i decreti
acquistano forza obbligante. In mancanza di disposizioni specifiche,
vale il principio generale enunciato dal can. 8 § 2, in base al quale le
leggi particolari incominciano a obbligare dopo un mese dal giorno
della promulgazione. Sarebbe auspicabile che ogni Conferenza epi-
3
In questo senso si pronunciò già la Pontificia Commissione per l’interpretazione dei decreti conciliari
il 10 giugno 1966.
424 Mauro Rivella
4
Così la Segreteria della Pontificia Commissione per la revisione del CIC spiegò nel 1981 il senso del
termine recognoscere: «La recognitio (o approvazione, conferma) denota nel caso l’atto della competente
autorità superiore con cui si autorizza la promulgazione della legge fatta da un’autorità inferiore. Tale
recognitio non è soltanto una qualche formalità, ma un atto di potestà di governo, assolutamente neces-
sario (se manca, l’atto dell’autorità inferiore è nullo), con il quale si possono imporre modifiche anche
sostanziali alla legge o al decreto presentato per la conferma. Tuttavia l’atto (legge o decreto) non di-
venta dell’autorità superiore, ma rimane sempre un atto dell’autorità che lo stabilisce e promulga» (Re-
latio complectens synthesim, Città del Vaticano 1981, ad can. 792 § 2, p. 192).
5
M. MARCHESI, Diritto canonico complementare italiano, Bologna 1992, pp. 21-22, ritiene che il princi-
pio sia applicabile quando non torni a danno di terzi.
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 425
6
«Le decisioni della Conferenza episcopale, quando siano state prese legittimamente e con almeno
due terzi dei suffragi dei presuli appartenenti alla Conferenza con voto deliberativo, e abbiano ottenuto
la recognitio dalla Sede Apostolica, hanno forza di obbligare giuridicamente soltanto nei casi in cui ciò
sia prescritto dal diritto comune, oppure sia stabilito da un mandato speciale della Sede Apostolica, im-
partito motu proprio o su richiesta della Conferenza stessa». La differenza testuale di maggior rilievo
sta nel fatto che nel can. 455 § 1 si è sostituito decisiones con decreta generalia, utilizzando un’espressio-
ne giuridicamente più definita.
7
Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II, II/IV, pp. 371-374.
426 Mauro Rivella
8
Per due autorevoli ma divergenti interpretazioni dei lavori conciliari e del loro esito, cf R. SOBANSKI,
La teologia e lo statuto giuridico delle Conferenze episcopali nel concilio Vaticano II, e J. MANZANARES,
Autorità dottrinale delle Conferenze episcopali, in AA.VV., Natura e futuro delle Conferenze episcopali, Bo-
logna 1988, pp. 92-102; 258-262.
9
È questa la risposta data dalla Segreteria della Pontificia Commissione per la revisione del CIC alle
osservazioni in merito allo Schema 1980 (Relatio complectens synthesim, ad can. 330, p. 97): «La Confe-
renza episcopale non è intesa in primo luogo come un’assemblea legislativa che debba centralizzare
quasi ogni aspetto, ma è soprattutto un organismo di unione e di comunione dei Vescovi fra loro, in mo-
do che ciascuno possa procedere nel governo della sua diocesi “dopo lo scambio delle esperienze prati-
che e il confronto dei pareri” (CD, n. 37), e pertanto nel medesimo Decreto conciliare è stabilito che le
decisioni della Conferenza vincolano giuridicamente soltanto nei casi espressamente definiti (n. 38, 4)».
10
Cf F.J. URRUTIA, Responsa Pontificiae Commissionis Codicis Iuris Canonici Authentice Interpretando,
in «Periodica de re morali canonica liturgica» 74 (1985) 613, n. 9.
11
Cf R. PERIS, Conferencia Episcopal y decisiones vinculantes, in «Ius Canonicum» 30/60 (1990) 579-
605; D. CITO, Le delibere normative delle Conferenze episcopali, in «Ius Ecclesiae» 3 (1991) 561-572;
L. MARTÍNEZ SISTACH, La actividad jurídica de la Conferencia Episcopal, in «Ius Canonicum» 32/63
(1992) 83-96.
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 427
12
Cf G. MUCCI, Concili particolari e Conferenze episcopali, in «La Civiltà Cattolica» 138 (1987/II) 340-
348; G. GHIRLANDA, Concili particolari..., cit., pp. 117-132.
13
La bibliografia sull’argomento è assai ricca: mi limito a ricordare la positio questionis fatta da G.
GHIRLANDA - F.J. URRUTIA in «Periodica de re morali canonica liturgica» 76 (1987) 573-667; J. MANZANA-
RES, Autorità dottrinale..., cit., pp. 253-282; A. ANTÓN, Le conferenze episcopali. Istanze intermedie?, Cini-
sello Balsamo 1992, pp. 325-465.
428 Mauro Rivella
14
«Del munus magisterii non godono, propriamente parlando, le Conferenze episcopali in quanto tali.
Esse si prefiggono, per la loro stessa natura, mete operative, pastorali e sociali e non direttamente dot-
trinali. Spetta alla Conferenza episcopale occuparsi delle modalità, strumenti e agenti della catechesi e,
in questo contesto, per l’intima connessione tra la pastorale e l’ufficio, officium et ius est [...] invigilan-
di, ne scriptis aut usu instrumentorum communicationis socialis christifidelium fidei aut moribus detri-
mentum afferatur (CIC can. 823; cf anche cann. 772 § 2; 775 § 2; 810 § 2; 825; 830 § 1; 831 § 2). Le Con-
ferenze episcopali non costituiscono pertanto un’istanza dottrinale, non hanno competenza per stabilire
contenuti dogmatici e morali»(EV 10, n. 1888).
15
Cf F.J. URRUTIA, De exercitio muneris docendi a Conferentiis episcoporum, in «Periodica de re morali
canonica liturgica» 76 (1987) 622-626.
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 429
quindi si possono proporre come maestri della fede per i fedeli affidati alla
loro cura, i quali sono tenuti ad aderire con religioso ossequio al magistero
autentico proposto» 16.
Il nostro Autore ritiene che il fatto che il CIC si limiti nel can.
753 ad affermare che i vescovi, sia singolarmente sia riuniti nelle
Conferenze episcopali, sono autentici dottori e maestri della fede, e
non dia norme specifiche circa l’esercizio della potestà di magistero
da parte delle Conferenze episcopali configuri una lacuna iuris e au-
spica che anche le dichiarazioni dottrinali delle conferenze siano as-
soggettate a una disciplina simile a quella prevista dal can. 455 § 2,
ovvero che si richieda la maggioranza qualificata dei due terzi dei
membri della conferenza con voto deliberativo e la recognitio della
Santa Sede 17. Credo che si possa accogliere questa posizione pruden-
te e che il silenzio del CIC in merito sia stato dovuto da una parte al
non perfetto coordinamento fra i diversi gruppi di lavoro che hanno
preparato le sue diverse parti, e dall’altra alla fluidità della materia e
all’opportunità di concedere un tempo di sperimentazione pastorale
per una più matura verifica. È comunque bene che lo strumento delle
dichiarazioni dottrinali sia utilizzato con cautela, soprattutto nei casi
in cui il suo uso potrebbe ingenerare l’impressione di una discrepan-
za di posizioni con gli interventi magisteriali dell’Autorità suprema.
Alla luce della vigente normativa i pronunciamenti dottrinali
delle Conferenze episcopali, purché assunti nell’assemblea generale,
sono regolati dagli statuti di ciascuna, che necessitano della recogni-
tio della Sede Apostolica (can. 451) o, in mancanza di norme specifi-
che, dalla norma generale del can. 119, 2°, che richiede per gli atti
collegiali la maggioranza assoluta dei consensi dei presenti. In que-
sta linea si può intendere da applicare ad essi quanto espresso dal-
l’art. 18 dello Statuto della Conferenza episcopale italiana:
«Le altre deliberazioni sono prese dall’Assemblea con la maggioranza asso-
luta dei presenti votanti e, di regola, con suffragio scritto. A tali deliberazio-
ni, quantunque giuridicamente non vincolanti, ogni Vescovo si atterrà in vi-
sta dell’unità e del bene comune, a meno che ragioni a suo giudizio gravi ne
dissuadano l’adozione nella propria diocesi» 18.
16
G. GHIRLANDA, Concili particolari..., cit., p. 129.
17
Ibid., p. 130.
18
ECEI 3, n. 2322; la revisione dello Statuto, attualmente in corso, non dovrebbe apportare modifiche
significative a questo articolo.
430 Mauro Rivella
19
Il documento della Congregazione per i Vescovi fu pubblicato il 22 febbraio 1973 (EV 4, n. 2317).
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 431
promulgati, dal momento che obbligano coloro che sono tenuti alle
leggi a cui fanno riferimento (can. 32).
Se da una parte è vero che nell’emettere decreti generali ese-
cutivi la Conferenza episcopale agisce in forza della propria compe-
tenza pastorale, bisogna notare che la norma del can. 455 § 1 non di-
stingue fra decreti generali e decreti generali esecutivi. Applicando
l’adagio «ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus», ne con-
segue che la conferenza stessa può promulgare decreti generali ese-
cutivi solo nelle materie determinate dal diritto o per concessione
della Sede Apostolica. Anche la ratio di questa norma può essere in-
dividuata nell’intenzione di non coartare la potestà nativa dei vescovi
diocesani. Quando lo speciale mandato provenga da una Congrega-
zione romana, si dovrà presumere che permetta la promulgazione di
un decreto esecutivo, dal momento che le Congregazioni di per sé
non dispongono della potestà legislativa né possono delegarla. Se in-
vece il decreto è previsto dal diritto universale, bisogna verificare se
alla conferenza sia chiesto di stabilire una norma originale, o piutto-
sto di dettagliare l’applicazione di una norma preesistente o di indi-
care il modo di osservarla 20.
Si noti che, dal punto di vista pratico, almeno in ordine alla possi-
bilità e al modo di promulgazione, è secondario stabilire se il decreto
generale della conferenza sia legislativo o esecutivo, dal momento
che la legge canonica richiede per entrambi le medesime condizioni.
20
Cf F.J. URRUTIA, Responsa Pontificiae Commissionis..., cit., pp. 609-616. L’Autore indica anche (pp.
615-616) quali canoni del CIC richiedano da parte delle Conferenze episcopali la promulgazione di de-
creti generali esecutivi: cann. 230 § 1; 276 § 2, 3°; 284; 964 § 2; 1126; 1262; 1272; 1292 § 1.
432 Mauro Rivella
toria del can. 119, 2°: quando dunque il provvedimento sia assunto
dall’assemblea generale, sarà sufficiente la maggioranza assoluta dei
presenti. Nulla vieta poi che la facoltà di dare atti amministrativi sin-
golari sia delegata in maniera stabile o occasionale agli organi della
conferenza stessa, quali la presidenza, il consiglio permanente, la se-
greteria o singole commissioni: un’indicazione in tal senso, riferita al
consiglio permanente, è contenuta nel can. 457.
Si danno tuttavia alcuni casi in cui il provvedimento della Confe-
renza episcopale, pur essendo formalmente classificabile fra gli atti
amministrativi singolari, ha conseguenze che esorbitano dalla sua
struttura interna. Il CIC richiede allora che esso sia approvato dalla
Sede Apostolica: così è per l’erezione di un seminario nazionale (can.
237 § 2); la convocazione del concilio plenario (can. 439 § 1); la pub-
blicazione di catechismi nazionali (can. 775 § 2); la costituzione di
tribunali di seconda istanza (can. 1439 §§ 1-2) 21.
MAURO RIVELLA
Via Lanfranchi, 10
10131 Torino
21
Cf R. PERIS, Conferencia episcopal..., cit., p. 602, nota 50; L. MARTÍNEZ SISTACH, La actividad jurídi-
ca..., cit., pp. 94-95.
22
Per il caso italiano e le soluzioni adottate, cf M. MARCHESI, Diritto canonico..., cit., pp. 28-31. Si veda
inoltre lo studio di Calvi contenuto in questo fascicolo.
433
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 433-448
Le Conferenze episcopali
e i Sinodi delle Chiese orientali
di G. Paolo Montini
Premessa
Non mi nascondo che più di una perplessità possa nascere nella
considerazione del paragone che qui si intende affrontare 1.
E le ragioni di tale perplessità risiedono sia nella scarsa co-
noscenza che di solito circonda le istituzioni delle Chiese orienta-
li cattoliche; sia nella convinzione dell’esigua rilevanza dell’influs-
so tra le istituzioni delle diverse Chiese orientali e la Chiesa latina;
sia nella pretesa chiarezza della configurazione delle Conferenze epi-
scopali.
In realtà il paragone fra le Conferenze episcopali e i Sinodi delle
Chiese orientali è non solo fruttuoso, ma per più versi giustificato e
fondato positivamente 2.
Il percorso che il presente contributo intende affrontare è il
seguente: dopo aver constatato l’incertezza che ancor oggi circon-
da le Conferenze episcopali considerate nella loro natura, si giustifi-
ca il paragone fra le medesime e i Sinodi delle Chiese orientali catto-
1
Si può trovare una simile comparazione condotta per esteso in P. PALLATH, The Synod of Bishops of
Catholic Oriental Church, Rome 1994, pp. 208-228: Chapter Seven. The Synod of Bishops and the Confe-
rence of Bishops of the Latin Church.
2
Cf A. ANTÓN, Le conferenze episcopali. Istanze intermedie? Lo stato teologico della questione, Cinisello
Balsamo 1992, pp. 106-107: «Il rapporto di analogia [...] tra le conferenze e i patriarcati d’Oriente indica
una strada molto promettente per progredire nello studio dello status teologico delle conferenze epi-
scopali e per determinare de iure condito et condendo la loro figura giuridica». Cf pure R. POTZ, Der Co-
dex Canonum Ecclesiarum Orientalium 1990 - Gedanken zur Kodifikation des katholischen Ostkirchen-
rechts, in AA.VV., Scientia canonum. Festschrift für Franz Pototschnig zum 65. Geburtstag, herausgege-
ben von H. Paarhammer - A. Rinnerthaler, München 1991, p. 408: secondo questo autore la struttura
sinodale orientale delineata dal Codice dei Canoni delle Chiese Orientali rappresenta il primo dei prin-
cipali ambiti di «eine katholische Alternative zum lateinischen Kirchenrecht», e in specie della normativa
sulle Conferenze episcopali.
434 G. Paolo Montini
3
Il nostro discorso vorrà limitarsi alle Chiese orientali cattoliche, anche se il confronto con il diritto si-
nodale ortodosso non sarebbe particolarmente laborioso: cf J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopali:
reazioni ecumeniche. Causa nostra agitur? Punto di vista ortodosso, in AA.VV., Natura e futuro delle Con-
ferenze episcopali. Atti del Colloquio internazionale di Salamanca (3-8 gennaio 1988), a cura di H. Le-
grand - J. Manzanares - A. García y García, Bologna 1988, pp. 401-408. Tanto più che, se è vero che «le
chiese ortodosse non hanno l’esperienza di questa istituzione», cioè delle Conferenze episcopali (cf
ibid., p. 401), un fenomeno analogo si sta instaurando nella diaspora (cf INTERORTHODOXE VORBEREI-
TUNGSKOMMISSION FÜR DIE HEILIGE UND GROSSE SYNODE, Genehmigter Text über die Einrichtung von Bi-
schofskonferenzen in der Diaspora, in «Österreichisches Archiv für Kirchenrecht» 42 [1993] 709-710).
4
Relazione finale (7 dicembre 1985), II, C, 8b.
5
«Con lettera del 19 maggio scorso, ho affidato al Cardinale Prefetto della Congregazione per i vesco-
vi la responsabilità per lo studio della presente questione» (GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione ai Cardinali
e ai Collaboratori della Curia Romana, 28 giugno 1986, n. 7, in «L’Osservatore Romano» 29 giugno
1986, p. 5).
6
Il testo è stato pubblicato in «Il Regno/Documenti» 33 (1988) 390-396 e si può leggere pure in EV 10,
nn. 1844-1913.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 435
L’importanza del testo nasce dal fatto che in esso il Concilio, nel
contesto della collegialità episcopale e in specie delle relazioni dei
vescovi in seno al Collegio episcopale, instaura una stretta compara-
zione e similitudine fra le Conferenze episcopali e l’istituzione pa-
triarcale.
7
Dedicano peculiare attenzione a questo testo A. ANTÓN Le conferenze episcopali..., cit., pp. 103-119;
O. ROUSSEAU, Divina autem Providentia... Histoire d’une phrase de Vatican II, in AA.VV., Ecclesia a Spi-
ritu Sancto edocta. Mélanges théologiques. Hommage à Mgr. G. Philips, Gembloux 1970, pp. 283-289.
8
LG 23d è definito il «testo che costituisce l’ispirazione originaria delle conferenze episcopali» (Natu-
ra teologica delle conferenze episcopali [gruppo di lingua spagnola], in AA.VV., Natura e futuro..., cit.,
pp. 247). Fa una certa impressione non trovarne la citazione né diretta né indiretta nell’Instrumentum
laboris sullo status teologico e giuridico delle Conferenze episcopali elaborato dalla Congregazione per
i Vescovi. Sul rapporto fra i due documenti conciliari, in particolare in merito alla dottrina della colle-
gialità, cf, per esempio, A. ANTÓN, Le conferenze episcopali..., cit., pp. 101-103.
9
Per l’evoluzione del testo si può vedere Constitutionis Dogmaticae Lumen Gentium Synopsis historica,
a cura di Giuseppe Alberigo - Franca Magistretti, Bologna 1975, ad locum; Constitutio dogmatica de Ec-
clesia Lumen Gentium, a cura di Francisco Gil Hellín, Città del Vaticano 1995, ad locum.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 437
10
Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II [=AS], Città del Vaticano 1970-1978, III/I, p. 249. L’i-
spirazione immediata del testo introdotto è dovuta a un testo proposto da mons. Zoghby per un’inser-
zione da porre loco propitiori (cf AS II/II, p. 615). Il testo in realtà era già una rielaborazione di un altro
438 G. Paolo Montini
Il significato
Come la stessa evoluzione ha indicato, il testo di LG 23d ha len-
tamente lasciato la prospettiva delle Conferenze episcopali come
gruppi di vescovi che manifestano la propria sollecitudine per la
Chiesa universale e i rapporti interni al Collegio episcopale nell’aiuto
reciproco fra le diocesi da loro rette, per introdurre una prospettiva
in cui le Conferenze episcopali sono l’espressione a livello di vescovi
della comunione (o meglio, del legame) esistente fra le Chiese stes-
se particolari.
A una prospettiva “personalistica” e perciò collegiale, si è sosti-
tuita una prospettiva istituzionale e perciò più vasta dello stesso pun-
to di vista collegiale 13.
testo preparato da p. Johannes Hoeck, abate di Scheyern e abate preside della Congregazione benedet-
tina bavarese, per la Commissione delle Chiese Orientali. Esso però concerneva i soli Patriarcati. Sul-
l’analogia con le Conferenze episcopali erano già intervenuti in Aula il card. Bea (AS II/IV, pp. 481-485)
e mons. D. Bellido (ibid., II/V, p. 84). Rahner aveva esposto poco prima le sue riflessioni sul paralleli-
smo fra gli antichi raggruppamenti di Chiese e i moderni, costituiti dalle Chiese di una nazione o di
una regione, rappresentati dalla rispettiva Conferenza episcopale, in un articolo (cf Sulle conferenze epi-
scopali, in ID., Nuovi Saggi I, Roma 1968, pp. 591-622).
11
AS III/I, p. 249. Il brano sui Patriarcati, previsto in un primo momento alla fine del secondo para-
grafo del numero 23 (dopo la citazione di san Basilio), fu trasposto, su proposta di mons. Philips, alla fi-
ne del numero, rendendo perciò necessario il raccordo con l’accenno alle Conferenze episcopali «par
deux mots presque magiques - simili modo» (O. ROUSSEAU, Divina autem Providentia..., cit., p. 288; cf pu-
re ibid., nota 11).
12
FR. GUILLEMETTE, Théologie des conférences épiscopales. Une herméneutique de Vatican II, Montréal-
Paris 1994, p. 191.
13
«Le Conferenze episcopali realizzano la collegialità per il fatto che questa non è altro che la traduzio-
ne, sul piano dei ministeri ordinati, della comunione fra le Chiese (particolari), che si realizza secondo
le esigenze della cattolicità» (Fr. GUILLEMETTE, Théologie des conférences..., cit., p. 232). Cf l’insistenza
sul punto di partenza dato dalla concezione della Chiesa come communio Ecclesiarum in A. ANTÓN, Lo
statuto teologico delle conferenze episcopali, in AA.VV., Natura e futuro..., cit., pp. 201-229; ID., Chiesa lo-
cale/regionale: Riflessione sistematica, in AA.VV., Chiese locali e cattolicità. Atti del Colloquio internazio-
nale di Salamanca (2-7 aprile 1991), a cura di H. Legrand - J. Manzanares - A. García y García, Bolo-
gna 1994, pp. 581-603; J. FAMERÉE, Au fondement des conférences épiscopales: la “communio ecclesiarum”,
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 439
«Il Vaticano II ha introdotto qui il principio di analogia, non solo tra i raggrup-
pamenti delle Chiese antiche e quelli delle Chiese moderne, ma anche tra l’i-
stituzione dei sinodi e dei concili particolari, che furono l’organo tramite il
quale essi funzionavano, e quella delle conferenze episcopali come strumento
di azione valido per le Chiese moderne. Possiamo, quindi, affermare che la
conferenza episcopale è contemporaneamente un coetus episcoporum e un
coetus Ecclesiarum» 14.
Riprova
L’analogia tra Sinodi patriarcali e Conferenze episcopali non sta
solo nel testo dottrinale della Costituzione dogmatica Lumen gen-
tium appena considerato, ma si può trovare a un tempo suffragata e
giustificata nei documenti postconciliari che in ambito disciplinare
hanno confermato la similitudine.
Ciò accade soprattutto là dove i documenti, volendo indirizzarsi
alla Chiesa universale, individuano nei Sinodi patriarcali gli omolo-
ghi cui attribuire le competenze che vengono riconosciute o affidate
alle Conferenze episcopali 16, fino a distinguere i territori a secondo
in «Revue théologique de Louvain» 23 (1992) 343-354. Tutto questo, tra l’altro, rende comprensibili in
ambito ortodosso le Conferenze episcopali, in quanto la collegialità di cui sarebbero espressione non
sarebbe intesa in senso universalistico (cf J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopali..., cit., pp. 404-405).
14
A. ANTÓN, Le conferenze episcopali..., cit., p. 114.
15
Cf U. BETTI, La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dom-
matica Lumen gentium, Roma 1984, p. 299.
16
Cf CD 35, 5:«Il promuovere tale coordinamento [tra i vari istituti religiosi e il clero diocesano] spetta
alla Sede Apostolica per tutta la Chiesa, ai sacri pastori nelle loro singole diocesi, e infine ai sinodi
patriarcali e alle conferenze episcopali nel loro territorio». Cf poi PAOLO VI, motu proprio Ecclesiae
Sanctae, 6 agosto 1966, I, 2: «Spetterà ai Sinodi patriarcali e alle Conferenze episcopali [...] stabilire or-
dinanze ed emettere norme per i vescovi, per ottenere un’opportuna distribuzione del clero...». Nella
seconda parte il testo imporrà la costituzione presso le Conferenze episcopali di una commissione, di-
menticando che anche i Sinodi patriarcali erano destinatari della norma ed evidenziando in tal modo
440 G. Paolo Montini
che le Conferenze episcopali ne erano i destinatari originari, cui si è aggiunta la menzione del loro
omologo, cioè il Sinodo patriarcale. Cf pure ibid., I, 5 (norme sui beni patrimoniali); I, 8 (norme sulla
remunerazione dei chierici); I, 43 (suggerimenti per i direttori pastorali emanandi dalla Sede Apostoli-
ca). Cf SACRA CONGREGAZIONE DELLA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, istruzione Dispensationis matrimonii, 7
marzo 1972, II.c: «I Sinodi patriarcali e le Conferenze episcopali godono della facoltà di stabilire norme
esecutorie più ampie...». Cf SACRA CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, decreto Orientalium Reli-
giosorum, 27 giugno 1972, 9: «...fino alla somma proposta dal Sinodo patriarcale o dalla Conferenza epi-
scopale nazionale o regionale e approvata dalla Sede Apostolica». Cf SACRA CONGREGAZIONE PER I RELI-
GIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI-SACRA CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, note direttive Mutuae Relationes, 14
maggio 1978, 60: dopo aver richiamato il ministero congiunto dei vescovi nelle Conferenze episcopali,
si aggiunge:«Nello stesso modo [similiter] esercitano il loro ministero, per il proprio rito, i Sinodi pa-
triarcali». Coerentemente nei nn. 62 e 63 Sinodi patriarcali e Conferenze episcopali saranno considerati
omologhi (cf n. 62 pariterque). Cf per la medesima equiparazione PONTIFICIO CONSIGLIO PER LE COMUNI-
CAZIONI SOCIALI, istruzione pastorale Communio et progressio, 23 maggio 1971, 4; ID., istruzione pasto-
rale Aetatis novae, 22 febbraio 1992, 24; CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, istruzione Con la so-
lennità, 7 giugno 1987, 29. Opera nella medesima direzione la collocazione delle istituzioni interessate
nell’Annuario Pontificio (cf, per esempio, Annuario Pontificio 1996, pp. 1088-1107).
17
Cf, per esempio, SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI-SACRA CONGREGAZIONE
PER I VESCOVI, note direttive Mutuae Relationes, 14 maggio 1978, 53b: dopo aver citato letteralmente un
passaggio del motu proprio Ecclesiae Sanctae, in cui ci si riferiva all’ordinario del luogo e alle Conferen-
ze episcopali, il testo aggiunge tra lineette: «o, secondo i luoghi [iuxta loca], dal sinodo patriarcale» (il
corsivo è nostro).
18
Cf, a solo titolo d’esempio, le competenze in materia di communicatio in sacris nel canone 844 §§ 4-5
e nel canone 671 §§ 4-5 CCEO, come pure le competenze in materia economica nel canone 1292 e nel
canone 1036 CCEO.
19
Cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., p. 208. Non si dovrebbe comunque tralasciare di notare
che pure in Oriente la permanenza dell’istituzione sinodale (patriarcale) non è stata lineare in tutta la
tradizione (cf, per esempio, E. CORECCO, Sinodalità, in Nuovo Dizionario di Teologia, Alba 1977,
pp. 1479-1483).
20
Cf O. ROUSSEAU, Divina autem Providentia..., cit., p. 288. Un paragone analogo potrebbe essere in-
staurato, in campo ecumenico, con le Chiese autocefale dell’Ortodossia: «Ces conférences épiscopales
ont l’avantage de conférer à une Église d’un même territoire une personnalité propre, proche mutatis mu-
tandis de celle d’une Église autocéphale» (C.J. DUMONT, Conférences épiscopales et autocéphalie des Égli-
ses. Obstacles à la convergence de deux formes de structure, in «Istina» 30 [1985] 132). In questo contesto
il paragone più pertinente potrebbe essere allora fra struttura ecclesiale soggiacente a una Conferenza
episcopale e Chiesa sui iuris.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 441
21
Per un primo orientamento cf D. SALACHAS, Istituzioni di diritto canonico delle Chiese cattoliche orien-
tali. Strutture ecclesiali nel CCEO, Roma-Bologna 1993; G. NEDUNGATT, Sinodalità nelle chiese cattoliche
orientali secondo il nuovo codice, in «Concilium» 28 (1992) 796-817; É. EID, La sinodalità nella tradizio-
ne orientale. Relazione presentata al VII Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto
canonico (Parigi, Facoltà di diritto canonico, 21-28 settembre 1980), in AA.VV., La Sinodalità nell’ordi-
namento canonico. Materiali a uso degli studenti raccolti da M. Ghisalberti e G. Mori, Padova 1991,
pp. 59-84; M. BROGI, Strutture delle Chiese Orientali sui iuris secondo il CEEO, in «Apollinaris» 65
(1992) 299-311.
22
A esso è equiparato il Sinodo delle Chiese arcivescovili maggiori (cf can. 152 CCEO).
23
Il parallelismo è perfetto a livello istituzionale, non già reale. Infatti l’Assemblea dei Gerarchi non
possiede propriamente le potestà legislative delle Conferenze episcopali (cf can. 322 § 2 CCEO), bensì
tutta la funzione animatrice e coordinatrice delle Conferenze episcopali, come descritte soprattutto in
CD 37-38.
442 G. Paolo Montini
I membri
Sono membri del Sinodo patriarcale «tutti e solo i Vescovi ordi-
nati della medesima Chiesa patriarcale, dovunque siano costituiti»
(can. 102 § 1 CCEO).
Essi sono anzitutto tutti i vescovi eparchiali, eletti e ordinati, che
si trovano entro i confini del Patriarcato. Sono pure membri i vescovi
eparchiali, che si trovano fuori dei confini del Patriarcato, come pure
i vescovi titolari (emeriti, che non reggono una Chiesa eparchiale
ecc.): costoro però potrebbero vedersi coartato il diritto di voto
deliberativo dal diritto particolare, eccetto per quanto riguarda l’e-
lezione del Patriarca e dei vescovi nel Sinodo (cf can. 102 § 2 CCEO).
Il presidente
Il Sinodo patriarcale ha come presidente il Patriarca, «che pre-
siede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo» (can. 55 CCEO).
Pur senza aver voluto chiarificare definitivamente se sia superiore il
Patriarca o il Sinodo patriarcale 26, appare chiaramente dal Codice dei
Canoni delle Chiese Orientali la potestà del Patriarca:
24
A differenza del Codice di diritto canonico, il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali prevede che
tutti i membri del Sinodo patriarcale partecipino con il voto alla decisione di escludere dal voto delibe-
rativo alcuni vescovi (emeriti, ausiliari, titolari): cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., p. 219.
25
Ciò è d’altronde coerente con «l’attuale diritto canonico ortodosso [che] stabilisce che solo i vescovi
diocesani prendano parte ai sinodi sia permanenti sia straordinari. Se le conferenze episcopali corri-
spondono ai sinodi ortodossi, come ritengo che sia [...] non devono essere considerate come riunioni
di vescovi, ma come riunioni di chiese attraverso i loro vescovi» (J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopa-
li..., cit., pp. 402-403).
26
Anche se il vigente Codice dei Canoni delle Chiese Orientali sembra giunto ad affermare la superio-
rità del Sinodo sul Patriarca, molti sostengono che ci si troverebbe di fronte a un’innovazione non coe-
rente né con la tradizione né con la concezione ortodossa (cf J. HAJJAR, I sinodi patriarcali nel nuovo
Codice canonico orientale, in «Concilium» 26 [1990] 559-568). La scelta fatta nel nuovo Codice comun-
que avvicinerebbe di più i Sinodi patriarcali alle Conferenze episcopali, togliendo o smussando uno dei
444 G. Paolo Montini
«Vescovo cui compete, a norma del diritto approvato dalla suprema autorità
della Chiesa, la potestà su tutti i vescovi, non esclusi i metropoliti, e sugli al-
tri fedeli della Chiesa, cui presiede» (can. 56 CCEO).
due principali motivi di dissimilitudine (l’altro consisterebbe nell’ambito ultranazionale dei Sinodi) (cf
G. GRESHAKE, “Zwischeninstanzen” zwischen Papst und Ortsbischöfen. Notwendige Voraussetzung für die
Verwirklichung der Kirche als “communio ecclesiarum”, in AA.VV., Die Bischofskonferenz. Theologischer
und juristischer Status, herausgegeben von H. Müller - H. J. Pottmeyer, Düsseldorf 1989, p. 100).
27
Sui poteri del Presidente delle Conferenze episcopali cf R.J. CASTILLO LARA, De Episcoporum Confe-
rentiarum Praesidentia, in «Communicationes» 21 (1989) 96-97 (in lingua italiana in «L’Osservatore Ro-
mano», 10 marzo 1989, p. 5).
28
Il legame fra chi presiede e una sede stabile è di grande importanza istituzionale, in quanto appare
maggiormente la comunione fra Chiese soggiacente all’assemblea episcopale. Per il Patriarca la sede è
stabile (cf can. 57 § 3 CCEO). Cf J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopali..., cit., p. 406.
29
Fa eccezione l’interpretazione autentica che ritiene escluso dal voto passivo per l’elezione del presi-
dente della Conferenza episcopale il vescovo ausiliare (cf AAS 81 [1989] 388).
30
Cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., pp. 220-221.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 445
La competenza
Il Sinodo patriarcale ha la competenza esclusiva di fare leggi per
l’intera Chiesa patriarcale (cf can. 110 § 1 CCEO). L’unico limite a
questa competenza generale è quello implicito della congruità o com-
patibilità (o forse sarebbe più corretto dire, della non-contrarietà) con
il diritto comune, cioè con «le leggi e le legittime consuetudini della
Chiesa universale, come pure con le leggi e le legittime consuetudini
comuni a tutte le Chiese Orientali» (can. 1493 § 1 CCEO).
Il Sinodo possiede pure la superiore competenza giudiziaria ed
«è il tribunale superiore entro i confini del territorio della Chiesa pa-
triarcale» (can. 1062 § 1 CCEO; cf pure can. 110 § 2 CCEO). Pur do-
vendo costituire al suo interno un tribunale stabile, è comunque es-
so stesso tribunale di appello in alcune cause (cf can. 1062 §§ 2-4
CCEO).
Il Sinodo patriarcale possiede infine la potestà esecutiva o am-
ministrativa, limitata però ad alcuni casi specifici:
– elezione del Patriarca;
– elezione dei vescovi;
– elezione dei candidati a vescovi eparchiali, vescovi coadiutori
e vescovi ausiliari al di fuori dei confini del Patriarcato;
– atti amministrativi affidati dal Patriarca;
– atti amministrativi riservati dal diritto al Sinodo stesso;
– consenso, previsto dal diritto, per atti determinati.
31
Cf alcuni accenni in G.P. MONTINI, Valore e contenuti della Istruzione della CEI in materia ammini-
strativa. La trasparenza nella amministrazione dei beni temporali della Chiesa, in «Quaderni di diritto
ecclesiale» 7 (1994) 236-250, soprattutto pp. 239-243.
446 G. Paolo Montini
Le assemblee
Il Sinodo patriarcale è assemblea che si convoca all’occorrenza,
ossia principalmente quando «si devono trattare degli affari che ap-
partengono alla esclusiva competenza del Sinodo, oppure per esegui-
re i quali è richiesto il consenso dello stesso Sinodo» (can. 106 § 1, 1°
CCEO). La sua attività assembleare è pertanto occasionale, né muta
tale situazione la discrezionalità, pur limitata (col consenso del Sino-
do permanente), del Patriarca di convocare il Sinodo quando «lo ritie-
ne necessario» (can. 106 § 1, 2° CCEO), e il medesimo diritto di e-
sigerne la convocazione da almeno un terzo dei membri (cf can. 106
§ 1, 3° CCEO).
Solo il diritto particolare può rendere più stabile l’assemblea si-
nodale prevedendo la sua celebrazione periodica, perfino annuale (cf
can. 106 § 2 CCEO).
Le assemblee plenarie delle Conferenze episcopali, al contrario,
devono essere celebrate almeno una volta all’anno (cf can. 453), anzi
anche più volte se lo richiedano speciali circostanze (cf ibidem). Tut-
ta la materia sarà regolata dagli statuti, che prevederanno la periodi-
cità delle assemblee.
Il confronto fra le due normative fa emergere la permanenza
delle Conferenze episcopali (cf esplicitamente can. 447), in contrasto
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 447
Conclusione
Pur essendo giusto osservare che, alla fine, le differenze fra Si-
nodo patriarcale e Conferenza episcopale sono maggiori delle analo-
gie 35, non per questo il confronto è sterile.
Il Sinodo patriarcale appare come la meta di una possibile evo-
luzione storica dell’istituzione Conferenza episcopale, una meta già
32
Questo aspetto distanzia comunque le Conferenze episcopali dai sinodi ortodossi, «presieduti da pri-
mati che sono indipendenti l’uno dall’altro: è il sistema dell’autocefalia» (J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze
episcopali..., cit., p. 406).
33
Per la approvazione o la modificazione degli statuti non è neppure richiesta la trasmissione alla Sede
Apostolica (cf can. 113 CCEO): cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., p. 220.
34
Nel caso del Consiglio dei Gerarchi «la promulgazione di leggi e norme non può validamente avve-
nire, prima che il metropolita abbia ricevuto il riscontro scritto della Sede Apostolica circa il ricevimen-
to degli atti» (can. 167 § 2). Così lo stesso Consiglio dovrà trasmettere alla Sede Apostolica i propri sta-
tuti (cf can. 171).
35
Cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., pp. 208. 228.
448 G. Paolo Montini
36
L’istituzione oggi di patriarcati «sarebbe artificiale e anacronistica» (G. PHILIPS, La Chiesa e il suo
mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium, Milano
1975, p. 277). Si dovrebbe poi considerare il fatto che le Conferenze episcopali si sono evolute all’inter-
no precisamente di un unico e medesimo patriarcato, quello appunto latino o romano, sotto la giurisdi-
zione del Romano Pontefice, quale Patriarca dell’Occidente.
37
Cf modus 143, in AS III/VIII, p. 85.
449
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 449-475
La produzione normativa
della Conferenza episcopale italiana
di Massimo Calvi
in nome di tutti i vescovi, a meno che tutti e singoli i vescovi non ab-
biano dato il loro consenso (cf can. 455 § 4).
1
CEI, documento pastorale Comunione, comunità e disciplina ecclesiale, 1° gennaio 1989, n. 58 (ECEI
4, n. 1400).
2
Una presentazione chiara, completa e sistematica dei contenuti della normativa CEI emanata fino al
1991 si trova in M. MARCHESI, Diritto canonico complementare italiano, Bologna 1992.
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 451
3
SEGRETERIA DI STATO, lettera Certaines conferences ai presidenti delle Conferenze episcopali circa la
pubblicazione delle norme complementari, 8 novembre 1983 (EV 9, n. 532).
4
Il Codice di diritto canonico è stato promulgato il 25 gennaio 1983 ed è entrato in vigore il 27 novem-
bre 1983, prima domenica di Avvento.
5
Cf ECEI 3, nn. 2299-2300.
452 Massimo Calvi
Libro II
6
Cf delibera n. 21 (ECEI 3, n. 2276).
7
Cf delibera n. 1 (ECEI 3, n. 1589).
8
Cf delibera n. 32 (ECEI 3, n. 2287).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 453
9
Cf ECEI 5, nn. 1835 ss. Il documento, approvato dalla XXXVI Assemblea generale, è entrato in vigore
il 1° luglio 1993.
10
Per l’approfondimento dei contenuti normativi del documento si veda M. CALVI, Il diaconato perma-
nente in Italia. Commenti alle delibere CEI, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 7 (1994) 201-211.
11
Cf delibera n. 33 (ECEI 3, n. 2288).
12
Per i due documenti si veda rispettivamente ECEI 3, nn. 189 ss e nn. 1738 ss.
454 Massimo Calvi
13
Cf ECEI 4, nn. 1804 ss.
14
Cf delibera n. 2 (ECEI 3, n. 1590).
15
Delibera n. 23 (ECEI 3, n. 2278).
16
Cf CEI, Istruzione in materia amministrativa, 1° aprile 1992 (ECEI 5, nn. 865-882).
17
Delibera n. 3 (ECEI 3, n. 1591).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 455
18
M. MARCHESI, Diritto canonico complementare..., cit., p. 48.
19
Delibera n. 19 (ECEI 3, n. 1979).
20
CEI, Sintesi della legislazione canonica del CIC 1983 relativa ai consigli presbiterali (ECEI 3, nn.
1636 ss).
21
Delibera n. 4 (ECEI 3, n. 1592).
456 Massimo Calvi
Libro III
22
Cf delibera n. 5 (ECEI 3, n. 1593) e delibera n. 17 (ECEI 3, n. 1977).
23
Cf delibere nn. 6 e 7 (ECEI 3, nn. 1594-1595).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 457
24
Cf delibera I, di carattere non normativo (ECEI 3, n. 2299).
25
SEGRETARIATO PER L’ECUMENISMO E IL DIALOGO, nota pastorale La formazione ecumenica nella Chiesa
particolare, 2 febbraio 1990 (ECEI 4, nn. 2187-2231).
458 Massimo Calvi
26
Delibera n. 22 (ECEI 3, n. 2277).
27
Delibera n. 36 (ECEI 3, n. 2291).
28
COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, documento pastorale La scuola cattolica, oggi,
in Italia, 25 agosto 1983 (ECEI 3, nn. 1418-1512).
29
Delibera n. 24 (ECEI 3, n. 2279).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 459
Libro IV
30
Cf delibera n. 25 (ECEI 3, n. 2280).
31
Cf delibera n. 26 (ECEI 3, n. 2281).
32
Cf Allegato alla delibera n. 28 (ECEI 3, n. 2295).
33
Delibera n. 28 (ECEI 3, n. 2283).
460 Massimo Calvi
34
Delibera n. 29 (ECEI 3, n. 2284).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 461
35
Delibera n. 18 (ECEI 3, n. 1978).
36
Cf CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico, 5 novembre 1990 (ECEI 4, n. 2621).
37
Delibera n. 8 (ECEI 3, n. 1596).
462 Massimo Calvi
confessionali con grata fissa, è consentita in altre sedi, purché siano assicu-
rate le seguenti condizioni:
– le sedi siano situate in luogo proprio (chiesa, oratorio o loro pertinenze);
– siano decorose e consentano la retta celebrazione del sacramento» 38.
38
Delibera n. 30 (ECEI 3, n. 2285).
39
Cf delibere nn. 9 e 10 (ECEI 3, nn. 1597 e 1598); delibera n. 31 (ECEI 3, n. 2286).
40
Cf CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico (ECEI 4, n. 2610-2684).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 463
41
Cf delibera n. 34 (ECEI 3, n. 2289).
42
Cf delibera n. 35 (ECEI 3, n. 2290).
43
COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, nota pastorale La progettazione di nuove chiese, 18 febbraio
1993 (ECEI 5, n. 1343).
464 Massimo Calvi
44
Cf delibera II, di carattere non normativo, adottata il 18 aprile 1985 (ECEI 3, n. 2300).
45
Delibera n. 27 (ECEI 3, n. 2282).
46
CEI, norme L’applicazione della costituzione apostolica “Paenitemini”, 23 giugno 1966 (ECEI 1, nn.
744-752).
47
CEI, nota pastorale Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, 4 ottobre 1994 (ECEI 5, nn. 2337-
2377).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 465
Libro V
48
CEI, documento Sovvenire alle necessità della Chiesa. Corresponsabilità e partecipazione dei fedeli, 14
novembre 1988 (ECEI 4, nn. 1231-1305).
466 Massimo Calvi
Libro VII
49
Cf delibera n. 59 Norme circa la raccolta di offerte per le necessità particolari (ECEI 5, nn. 1941-
1942). La delibera è stata oggetto di commento in M. CALVI, Norme circa la raccolta di offerte per neces-
sità particolari, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 8 (1995) 118-127.
50
Le nuove delibere 20, 37 e 38 sono entrate in vigore il 1° ottobre 1990 (ECEI 4, nn. 2471-2477).
51
Istruzione in materia amministrativa, 1° aprile 1992 (ECEI 5, nn. 710-889).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 467
52
Cf delibera n. 12 (ECEI 3, n. 1600).
53
Cf delibera n. 13 (ECEI 3, n. 1601).
54
Cf delibera n. 14 (ECEI 3, n. 1602).
55
Delibera n. 15 (ECEI 3, n. 1603).
468 Massimo Calvi
56
MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Intesa fra autorità scolastica e Confe-
renza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, 14 dicembre
1985 (ECEI 3, nn. 2924-2945).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 469
57
La numerazione originaria delle presenti delibere era dall’1 al 4 (ECEI 4, nn. 312-315).
58
Cf ECEI 4, nn. 958-960.
59
MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Testo coordinato delle Intese 14.12.
1985 e 13.6.1990 tra autorità scolastica e Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religio-
ne cattolica nelle scuole pubbliche (ECEI 4, nn. 2391-2412).
60
MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Specifiche e autonome attività educati-
ve in ordine all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche materne, 10 giugno 1986
(ECEI 4, nn. 225-231); MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Programma delle
specifiche e autonome attività educative in ordine all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole
pubbliche elementari, 4 maggio 1987 (ECEI 4, nn. 718-743); MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESI-
DENTE DELLA CEI, Programma di insegnamento della religione cattolica nella scuola media, 15 luglio
1987 (ECEI 4, nn. 796-824); MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Programma
di insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria superiore, 15 luglio 1987 (ECEI 4, nn.
825-853).
61
Cf ECEI 4, nn. 141-223.
470 Massimo Calvi
62
Cf ECEI 3, n. 2705.
63
Cf ECEI 3, n. 2706.
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 471
64
Cf ECEI 3, nn. 2750-2751.
65
Cf delibere nn. 43-52 delle assemblee generali XXVI e XXVII (ECEI 4, nn. 414-475).
472 Massimo Calvi
66
Cf ECEI 4, nn. 943-954.
67
Cf ECEI 4, nn. 1334-1342.
68
Cf ECEI 4, nn. 2480-2497.
69
Cf ECEI 5, nn. 396-433.
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 473
Altre materie
Insieme all’insegnamento della religione e al sostentamento del
clero, vi sono altre materie che hanno attinenza o legami alla norma-
tiva concordataria. Il campo delle cosiddette “materie miste” è infatti
molto ampio: matrimonio concordatario, assistenza religiosa negli
ospedali e alle forze armate, beni culturali ecclesiastici.
Qui ci limitiamo a segnalare due interventi della CEI in campi
diversi da quelli finora presentati :
70
Cf ECEI 5, n. 1943.
71
Cf ECEI 5, nn. 2846-2852.
72
Cf ECEI 4, nn. 1643-1661. Il 25 maggio 1995 fu approvata anche una Modifica delle Determinazioni
relative agli interventi in favore dei sacerdoti “Fidei donum” previste dalla delibera CEI n. 58, art. 1, § 4,
approvate dalla XXXI assemblea generale della CEI (ECEI 5, nn. 2846-2852).
73
Cf ECEI 4, nn. 2503-2517. Alla materia relativa all’edilizia di culto furono apportate modifiche nel
maggio 1993 (ECEI 5, n. 1728); nel maggio 1995 furono adottate delle Determinazioni a modifica del
numero 2, lettera a, delle “Determinazioni” approvate dalla XXXII assemblea generale della CEI, in ese-
cuzione della delibera CEI n. 57 (ECEI 5, n. 2822) e la Modifica dell’Allegato alle determinazioni sulla
gestione dei flussi finanziari agevolati (ECEI 5, nn. 2823-2831), cui è annesso il Regolamento applicativo
delle Norme per i finanziamenti della CEI per la nuova edilizia di culto (ECEI 5, nn. 2832-2845).
474 Massimo Calvi
74
MINISTRO DELL’INTERNO E PRESIDENTE DELLA CEI, Intesa fra l’autorità statale e la Conferenza episcopa-
le italiana per l’assistenza spirituale al personale della Polizia di Stato, 21 dicembre 1990 (ECEI 5, nn.
72-87). Il testo della presente Intesa è stato promulgato all’interno dell’ordinamento canonico il 4 aprile
1991 con Decreto del presidente della Conferenza (ECEI 5, n. 71).
75
CEI, Documento I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti, 9 dicembre 1992 (ECEI 5, nn.
1214-1283). Come è specificato dal decreto di pubblicazione si tratta di orientamenti cui «ogni vescovo
si atterrà in vista dell’unità e del bene comune a meno che ragioni a suo giudizio gravi ne dissuadano
l’adozione nella propria diocesi» (Statuto, art. 18). Il presente documento si propone di integrare le
Norme per la tutela e la conservazione del patrimonio storico-artistico della Chiesa in Italia, approvate il
14 giugno 1974 (cf ECEI 2, nn. 1319 ss), in prospettiva di disposizioni normative che le sostituiscano.
76
MINISTRO DEI BENI CULTURALI E PRESIDENTE CEI, Intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interes-
se religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche, in «Il Regno/Documenti» 41 (1996) 606-607.
77
Cf ECEI 4, nn. 1845 e 1846-1869.
78
Cf ECEI 4, nn. 2471-2476.
79
CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico, 5 novembre 1990 (ECEI 4, nn. 2613-2684).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 475
Per concludere
Dopo questa sintetica e, per certi versi, frammentaria e superfi-
ciale presentazione dell’attività normativa della CEI negli anni 1983-
1995, mi sembra si possa concludere osservando che il Codice di di-
ritto canonico, insieme all’Accordo di revisione del concordato han-
no offerto all’episcopato italiano una importante opportunità: quella
di esercitare con una certa intensità la potestà normativa che gli è ri-
conosciuta dall’ordinamento canonico.
Sappiamo quanto sia delicato il rapporto e soprattutto l’equili-
brio tra la potestà propria di ogni singolo vescovo e la competenza di
una Conferenza episcopale.
Tuttavia l’esperienza italiana di questi anni, pur mettendo in
guardia dal pericolo di limitare indebitamente lo spazio di libertà e
di autodeterminazione dei singoli vescovi, mostra con tutta evidenza
l’importanza e la necessità che in alcune materie può e deve assume-
re una legislazione unitaria e organica per il bene delle Chiese parti-
colari che vivono in un determinato Paese.
MASSIMO CALVI
Via Milano, 5
26100 Cremona
80
Cf ECEI 4, nn. 2610-2684.
476
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 476-482
Commento a un canone
«La celebrazione eucaristica
venga compiuta nel luogo sacro»
(can. 932 § 1)
di Giuliano Brugnotto
1
Non esiste un canone parallelo nel CCEO. Soltanto si dice: «Il sacerdote cattolico può celebrare la Di-
vina Liturgia sull’altare di qualsiasi chiesa cattolica» (can. 705 § 1).
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1) 477
2
D. 1.12 de consecratione.
3
D. 1.14 de consecratione.
4
Si veda il Decretum De observandis et vitandis in celebratione missarum del concilio di Trento, sessio-
ne XXII (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1991, pp. 736-737).
5
Cf can. 822 §§ 1-2 CIC 1917.
478 Giuliano Brugnotto
6
Cf «Communicationes» 15 (1983) 197. Secondo alcuni dal tenore del canone e dalle considerazioni
dei revisori si coglierebbe la necessità di ottenere il permesso dell’Ordinario per celebrare abitualmen-
te l’Eucaristia fuori del luogo sacro: cf E. DE LEÓN, Comentario, in: Comentario exégetico al Código de
Derecho Canónico, III, Navarra 1996, p. 667.
7
«Per la celebrazione dell’Eucaristia il popolo di Dio si riunisce di solito nella chiesa oppure, in man-
canza di questa, in un altro luogo che sia degno di così grande mistero. Quindi le chiese, o gli altri luo-
ghi, si prestino alla celebrazione delle azioni sacre e all’attiva partecipazione dei fedeli. Inoltre i luoghi
sacri e le cose che servono al culto siano davvero degne, belle, segni e simboli delle realtà celesti» (SA-
CRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Institutio generalis missalis romani, 26 marzo 1970, n. 253 [EV 3,
n. 2317]).
8
Cf cann. 1223 e 1229.
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1) 479
9
COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Premesse alla versione italiana del rito della «Benedizione de-
gli oli» e della «Dedicazione della chiesa e dell’altare», 3 luglio 1980 (ECEI 3, n. 437).
10
SACRA CONGREGATIO PRO SACRAMENTIS ET CULTU DIVINO, Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, 29 mag-
gio 1977 (EV 6, n. 218; in nota si rinvia a una lettera di papa Vigilio [537-555]).
480 Giuliano Brugnotto
brare fuori del luogo sacro o per il radunarsi di tanta gente in deter-
minate occasioni o per la necessità pastorale di promuovere la forma-
zione e la spiritualità di un gruppo e di una parte della comunità cri-
stiana. Il canone, allargando le possibilità ed evitando di ricorrere al
superiore per la licenza, ha lo scopo di garantire ciò che l’Introduzio-
ne al Messale Romano sottolinea come motivo per l’oculatezza nella
scelta del luogo celebrativo. Esso si deve prestare a due qualità: in-
nanzitutto a ciò che la celebrazione stessa richiede nello svolgimento
dei riti come il raccoglimento, il silenzio, lo spazio; inoltre alla possibi-
lità da parte dei fedeli di partecipare attivamente all’Eucaristia.
Quando si può presentare un “caso particolare” che richieda
l’eccezione alla norma generale?
Una prima situazione si può desumere dalla concessione rila-
sciata, nel dopo Concilio, a gruppi particolari di celebrare l’Eucari-
stia per intensificare la vita cristiana. La facoltà venne concessa per
celebrare in un luogo sacro e con il permesso dell’ordinario anche
fuori da esso a certe condizioni 11. Questa situazione verrà allargata
in seguito a «particolari categorie di persone» e a «famiglie private»
sottolineando che si dovrà evitare il costituirsi di inutili privilegi o
chiesuole 12.
Una seconda esemplificazione si potrà reperire nel Direttorio
per le Messe con i fanciulli che, dopo aver indicato la chiesa come
«luogo primario», segnala la possibilità di ricorrere ad altri spazi ce-
lebrativi dove i fanciulli possano trovarsi maggiormente a loro agio
con una liturgia più adatta alla loro età 13.
Alcuni commentari includono tra i casi di necessità anche la
malattia, l’anzianità, la distanza da una chiesa oppure un vantaggio
pastorale.
Gli esempi sono soltanto indicativi e rendono ancor più chiaro
l’obiettivo della norma che è di natura pastorale nel senso di una du-
plice attenzione: alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia celebra-
ta e alle condizioni per una autentica partecipazione da parte dei fe-
deli. Il luogo ordinario sarà o la chiesa o l’oratorio perché costruiti
proprio a questo scopo; la norma generale sollecita pastore e fedeli a
11
SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Instructio Actio pastoralis, 15 maggio 1969, nn. 3-4 (EV 3, nn.
1163-1164).
12
SACRA CONGREGATIO PRO EPISCOPIS, Directorium Ecclesiae imago, 22 febbraio 1973, n. 85 (EV 4,
n. 2068).
13
SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Directorium Pueros baptizatos, 1° novembre 1973, n. 25 (EV
4, n. 2642).
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1) 481
officiare innanzitutto nel «luogo sacro» che, per sé, rende possibile
una celebrazione decorosa.
Secondo quanto affermato non sembra sufficiente che sia un
luogo formalmente sacro nel senso tecnico del termine a norma dei
cann. 1205-1213. Si potrebbe pure presentare la situazione, seppur
rara, di un oratorio (o chiesa) in tale stato di abbandono da rendere
necessario il ricorso a un luogo non sacro.
Il luogo «honesto»
L’unica indicazione offerta dal canone per scegliere un altro
luogo, diverso da quello sacro, è il decoro. Il termine latino honestus
indica pure onore, rispetto, dignità, nobiltà e bellezza. A questa indi-
cazione prettamente esteriore bisognerà subito aggiungere anche la
possibile partecipazione attiva dei fedeli all’Eucaristia, come affer-
mano i libri liturgici già ricordati.
Secondo il commentario di Navarra «espressamente si esclude il
dormitorio... e anche la sala da pranzo o il tavolo al quale si prendono
i cibi» perché luoghi «espressamente proibiti» 14 motivando la sua po-
sizione con documenti emanati precedentemente al Codice. Non si
tratta propriamente di norme liturgiche che cadrebbero sotto il se-
condo canone del Codice, bensì di una restrizione che le leggi prece-
denti richiederebbero sulla normativa attuale. Il legislatore con il can.
932 § 1 ha voluto riformare tutta la materia e ha pure tolto il divieto
assoluto previsto dal vecchio can. 822 § 4 di celebrare in camera, an-
che nei casi eccezionali, ma ciò non significa che quella norma abbia
perso il suo valore. Quindi si fa divieto di celebrare l’Eucaristia in dor-
mitorio, nella sala da pranzo e sul tavolo dove abitualmente si man-
gia. Non cade nel divieto l’abitazione di una persona inferma sia che
si tratti di un centro sanitario (ospedale o casa di riposo) come pure
di una casa privata, purché si celebri in un luogo adatto 15.
14
AA.VV., Codice di diritto canonico, II, Commentario edito dall’Università di Navarra - Istituto Martín
De Azpilcueta, Roma 1986, p. 674.
15
Cf CEI, Rituale dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Roma 1974, nn. 83 e 129. Si invita ad am-
ministrare l’Unzione e il Viatico durante la Messa anche in un luogo adatto fuori del luogo sacro; per
quest’ultima situazione il rituale prescrive che si ottenga il consenso dell’Ordinario, ma si tenga presen-
te che pur avendo ottenuto l’approvazione della Santa Sede insieme agli altri libri liturgici il 15/11/1984
la norma contrasta con il canone che stiamo commentando secondo il quale non è necessario il parere
dell’Ordinario; a nostro avviso si deve stare al canone. Si veda pure il commento di E. DE LEÓN, Comen-
tario, cit., p. 667.
482 Giuliano Brugnotto
GIULIANO BRUGNOTTO
Piazzetta Benedetto XI, 2
31100 Treviso
16
F. J. URRUTIA, L’obbligo delle leggi della Chiesa, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 1 (1988) 163.
483
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 483-494
Vita consecrata: le questioni aperte
“Istituti misti”
e nuove aggregazioni
di Gianfranco Ghirlanda
Problematica generale
Nel Sinodo sulla vita consacrata del 1994 è stata sollevata la
questione dei cosiddetti “Istituti misti”, in relazione a istituti religiosi
già esistenti, che alle origini non erano né clericali né laicali, ma che
in seguito, per varie ragioni, sono stati compresi sotto la categoria di
istituti clericali.
In considerazione delle risposte date alla Segreteria Generale
del Sinodo sulla base dei Lineamenta, due accenni agli “Istituti mi-
sti” si facevano già nell’Instrumentum laboris, al n. 32: per riafferma-
re «il valore, la completezza, l’importanza della vita religiosa laicale,
sia negli istituti laicali che in quelli clericali e misti»; per chiedere
che fosse «risolta la questione della partecipazione dei fratelli al go-
verno degli istituti clericali e misti, in modo che, nel rispetto della
propria natura e tradizione, sia regolata dalla legislazione dei singoli
istituti» 1.
La questione fondamentale è l’ammissione o meno dei fratelli al
governo di un istituto con esercizio di giurisdizione sui membri sa-
cerdoti.
Sorta la questione in relazione a questa problematica, appare
chiaro che “Istituto misto” nel Sinodo si intendeva nel senso di istitu-
to in cui sono presenti religiosi ordinati e religiosi non ordinati, non
nel senso di istituti che comprendano in sé uomini e donne. Comun-
que si tratta di una terminologia totalmente nuova, in quanto non
contemplata né dal CIC 1917 né dal CIC 1983.
1
Cf SEGRETERIA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e
nel mondo. Instrumentum laboris, Città del Vaticano 1994.
484 Gianfranco Ghirlanda
2
Quest’ambiguità si riflette in alcuni interventi in Aula Sinodale, come quello di F. Pablo Basterrechea
F.S.C., Segretario generale dell’Unione dei Superiori Generali, il quale, parlando della presenza dei fra-
telli negli Istituti clericali, affermava: «Con la formazione teologica adeguata, deve sollecitarsi il giorno
in cui (i fratelli) parteciperanno più direttamente ai consigli e agli organi di decisione della loro comu-
nità e in cui potranno anche accedere alle funzioni di governo del loro Istituto a tutti i livelli» («L’Osser-
vatore Romano», La vita Consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, pp. 38-39). La questione
non è da porsi sul piano della formazione teologica o meno, ma, come farà Giovanni Paolo II nell’E-
sortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, su quello della natura sacerdotale o meno dell’I-
stituto.
3
AAS 88 (1996) 377-486.
4
La questione nel Sinodo è stata sollevata specialmente riguardo all’Ordine Francescano Frati Minori
e all’Ordine Francescano Frati Minori Cappuccini, facendo un riferimento generico ad altri istituti che
potrebbero anche rientrare nella categoria di “misti” (cf mons. A. Trinidade, Arcivescovo di Lahore;
H. Schalück, O.F.M., Ministro Generale O.F.M.; F.R. Carraro, O.F.M. Cap.; I. Feaver, O.F.M. Cap., Sup.
Prov. Canada Centr.; F.J. Friant, S.G., Sup. Gen. Fratelli Istr. crist. S. Gabriele, ibid., pp. 64.72.104-
105.106.150-151). In alcuni di questi interventi, tuttavia, era chiara la distinzione tra istituti clericali per
i quali il presbiterato è parte essenziale del carisma dell’istituto e quelli che sono aperti indistintamente
al clero e ai laici (cf H. Schalück, O.F.M., Ministro Generale O.F.M., ibid., p. 72).
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 485
5
Cf propositio 8. Tutte le propositiones sono state pubblicate in «Il Regno/Documenti» 39 (1994) 662-
673.
6
Viene qui fatto riferimento a LG 31. La questione non si pone per gli istituti di donne che ovviamente
sempre sono stati appellati “Istituti femminili” e non “Istituti laicali”.
7
Corsivo nel testo.
8
Corsivo nostro.
9
Giovanni Paolo II riprende qui la sua riflessione svolta sui religiosi fratelli nella catechesi del merco-
ledì 22 febbraio 1995, dove menziona san Francesco «come esempio della santità di una vita religiosa
“laicale”», in quanto in lui era ancora vivo l’ideale di una vita consacrata senza sacerdozio, anche se ac-
cettò di essere in seguito ordinato diacono (cf «L’Osservatore Romano», 25 febbraio 1995).
486 Gianfranco Ghirlanda
«Diversa è la vocazione dei fratelli in quegli Istituti che sono detti “clericali”
perché, secondo il progetto del fondatore oppure in forza di una legittima
tradizione, prevedono l’esercizio dell’Ordine sacro, sono governati da chieri-
ci e come tali sono riconosciuti dall’autorità della Chiesa. In questi istituti il
ministero sacro è costitutivo del carisma stesso e ne determina l’indole, il fine,
lo spirito. La presenza dei fratelli costituisce una partecipazione differenziata
alla missione dell’Istituto, con servizi svolti sia all’interno delle comunità che
10
Quest’affermazione trova chiaro fondamento in PC 8a e 10a. Nel primo testo si afferma che negli
istituti votati all’apostolato, senza distinguere tra clericali e laicali, «l’azione apostolica e caritativa rien-
tra nella natura stessa della vita religiosa in quanto costituisce un ministero santo e un’opera di carità
che sono stati loro affidati dalla Chiesa e devono essere esercitati in suo nome». Nel secondo testo, do-
ve si parla degli istituti laicali, tra le loro varie attività pastorali si menzionano in modo specifico l’educa-
zione della gioventù e l’assistenza degli infermi e in modo generale ci si riferisce ad “altri ministeri”.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 487
Questi istituti, pur avendo come membri anche dei fratelli, non
si possono in alcun modo dire “Istituti misti” nel senso sopra inteso,
in quanto in essi il sacerdozio è costitutivo del carisma e solo esso lo
esprime in pienezza, quindi determina l’indole, il fine e la spiritualità
dell’istituto. Il sacerdozio in questi istituti non è qualcosa che si ag-
giunge alla vocazione religiosa, ma la esprime in modo pieno.
L’istituto clericale, allora, è sacerdotale nella sua natura e nella
sua missione. È evidente che in pienezza tale natura viene realizzata
e tale missione viene svolta solo dai membri sacerdoti dell’istituto.
Tuttavia uno stesso carisma può essere partecipato in modalità di-
verse, quindi anche secondo gradi diversi, per cui, Giovanni Paolo II
nella sua Esortazione afferma che la presenza di fratelli
«costituisce una partecipazione differenziata alla missione dell’Istituto, con
servizi sia all’interno che nelle opere apostoliche, in collaborazione (“auxi-
lium praestando”) con coloro che esercitano il ministero sacerdotale».
11
Corsivo nostro.
488 Gianfranco Ghirlanda
12
Dei “conversi” o “cooperatori” il Concilio tratta in PC 15b, sulla vita comune, dove si dice: «Allo sco-
po poi di rendere più intimo il vincolo di fraternità fra i religiosi, coloro che sono chiamati conversi,
cooperatori o con altro nome, siano strettamente congiunti alla vita e alle opere della comunità». Che
qui si tratti degli istituti clericali, rimane chiaro dal contesto; infatti subito dopo si parla degli istituti
femminili, quindi dei monasteri e degli istituti maschili «non meramente laicali», quelli che vengono
ora detti «Istituti misti», per i quali soltanto si parla di uguali diritti e doveri tra membri ordinati e non
ordinati, eccetto quelli che scaturiscono dall’ordine sacro. Questo testo, quindi, non può essere invoca-
to per sostenere che i “conversi” o “cooperatori”, negli istituti per loro natura fondazionale clericali,
possono accedere alla carica di superiore e partecipare al Capitolo generale. Infatti fu respinta, con la
motivazione che era sufficiente quanto previsto nel testo, la richiesta di un Padre conciliare, che chie-
deva che i “conversi” non fossero esclusi dal voto attivo nelle votazioni né da ogni partecipazione nei
Capitoli e nei Consigli dei superiori (cf modus 227, in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II,
IV/III, pp. 566-567). Inoltre il motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6 agosto 1966 (II, 27), in applicazione
di PC 15b, disponeva: «I capitoli generali e le sinassi cercheranno il modo in forza del quale i membri
chiamati conversi, cooperatori, o con altro nome, possano ottenere per gradi il diritto di voto attivo in
determinati atti della comunità e nelle elezioni e anche di voto passivo per certi incarichi; in questo mo-
do avverrà veramente che siano più strettamente uniti alla vita e alle attività della comunità e che i sa-
cerdoti possano dedicarsi più liberamente ai propri ministeri» (AAS 58 [1966] 780). Come si vede qui la
questione riguarda la vita della comunità locale, non si menziona espressamente la funzione di superio-
re, e la definizione del ruolo dei fratelli è in relazione ai ministeri svolti dai sacerdoti.
13
Corsivo nel testo.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 489
14
Corsivo nostro.
490 Gianfranco Ghirlanda
15
Da quanto veniva detto alla fine della propositio 10 sembrava che la decisione si dovesse lasciare uni-
camente ai Capitoli, senza tener conto che anche in riferimento ai singoli istituti la questione ha una
portata di carattere ecclesiale più ampia.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 491
crata, anche in quelli che non sono religiosi clericali di diritto pontifi-
cio, la potestà di cui, a norma dei cann. 596 § 1; 617 e 618, godono
sia i Capitoli che i Superiori è una potestà ecclesiastica pubblica 16.
Poiché, secondo il can. 596 § 3, in buona parte si applicano a tale po-
testà i canoni riguardanti la potestà di governo ecclesiastico o di giu-
risdizione (cann. 131; 133; 137-144), si deve dire che essa è radical-
mente della stessa natura della potestà di governo o di giurisdizione,
anche se dal can. 596 § 2 questa venga tecnicamente riconosciuta so-
lo agli istituti religiosi clericali di diritto pontificio, sia per il foro e-
sterno che per quello interno.
Essendo una potestà pubblica, che i superiori anche non sacer-
doti ricevono da Dio mediante il ministero della Chiesa (can. 618) 17,
esercitata in un istituto pubblico per fini pubblici, non può essere
considerata una potestà di natura radicalmente differente da quella
di governo o giurisdizione. Allora si deve seriamente considerare il
fatto che, se i laici possono esercitare, in base al can. 129 § 2, la pote-
stà di giurisdizione, ricoprendo vari uffici ecclesiastici 18, non si vede
perché non lo possano i superiori laici negli istituti o laicali o misti,
anche se non nella stessa misura che i superiori degli istituti clericali
di diritto pontificio 19.
Questa problematica è connessa con un’altra: se i superiori
maggiori, chierici o laici, degli “Istituti misti” possano essere consi-
derati Ordinari con tutte le facoltà connesse, in quanto, a norma del
can. 134 § 1, sono Ordinari solo i superiori maggiori degli istituti reli-
giosi di diritto pontificio clericali 20.
Questi ultimi sono Ordinari perché fanno parte della struttura
della gerarchia ecclesiastica, quindi in una certa misura equiparati ai
vescovi entro il loro ambito, a due titoli: 1) in virtù sacerdozio che
16
Cf quanto veniva dichiarato nella Relatio della Plenaria del 1981 («Communicationes» 15 [1983] 64).
Quanto andiamo dicendo vale anche per le Società di vita apostolica: il can. 734 richiama i cann. 617-633.
17
Nelle Note direttive Mutuae relationes, date congiuntamente il 14 maggio 1978 dalla Congregazione
per i religiosi e gli istituti secolari e dalla Congregazione per i vescovi, al n. 13 si diceva che l’autorità dei
superiori «procede dallo Spirito del Signore in connessione con la sacra Gerarchia, che ha canonicamen-
te eretto l’istituto e autenticamente approvato la sua specifica missione» (AAS 70 [1978] 481). L’E-
sortazione apostolica Vita consecrata, al n. 92, ribadisce che l’autorità dei superiori è ricevuta da Dio.
18
Secondo il CIC 1983 i laici possono ricevere uffici che comportano o possono comportare in vario
grado l’esercizio della potestà di governo o ordinaria o delegata (cann. 1421 § 2; 1428 § 2; 1437 § 1; 482
§ 1; 483; 494; 517 § 2).
19
Per un approfondimento della questione cf G. GHIRLANDA, De natura, origine et exercitio potestatis re-
giminis iuxta novum Codicem, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 74 (1985) 109-134; 143-149.
20
Sono considerati Ordinari anche i Moderatori delle Società di vita apostolica di diritto pontificio cle-
ricali (can. 134 § 1), alle quali viene applicato il can. 596 § 2 (can. 732).
492 Gianfranco Ghirlanda
21
In nota si fa riferimento ai cann. 573 CIC e 410 CCEO.
22
Nel n. 62 dell’Esortazione viene fatta, dice il Papa, una «precisazione doverosa»: anche se altamente
apprezzabili nel loro intento, non possono essere compresi nella specifica categoria della vita consacra-
ta quei coniugi che in associazioni o movimenti ecclesiali confermassero anche con voto il dovere della
castità propria della vita coniugale e, senza trascurare i loro doveri verso i figli, professassero la po-
vertà e l’obbedienza.
494 Gianfranco Ghirlanda
GIANFRANCO GHIRLANDA
Piazza della Pilotta, 4
00187 Roma
495
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 495-523
Il Pastore d’anime
e la nullità del matrimonio
XII. Il consenso condizionato
di Paolo Bianchi
quello italiano, come da art. 108 del Codice civile) non danno rilievo
alle condizioni eventualmente apposte al consenso matrimoniale, si
può facilmente comprendere come questa particolarità della discipli-
na matrimoniale canonica possa contribuire a porre in luce qualche
aspetto specifico di questa medesima disciplina.
Facendo riferimento in modo particolare all’ordinamento cano-
nico latino (ma più avanti si prenderà in esplicita considerazione an-
che la disciplina canonica orientale), si possono sviluppare in merito
le seguenti considerazioni.
L’attribuzione di rilievo invalidante il consenso matrimoniale al
fenomeno della condizione deve essere considerata una esigenza lo-
gica della natura “contrattuale” del patto matrimoniale. Tale afferma-
zione va bene intesa, onde evitare le sterili riduzioni della pubblicisti-
ca deteriore: essa non intende certo svalorizzare gli aspetti personali
del patto nuziale, assimilandolo per esempio a un negozio giuridico
di natura patrimoniale; bensì, alla luce della tradizione canonica, vuo-
le esprimere il ruolo di unica “causa efficiente” in senso proprio che
deve riconoscersi al consenso in funzione della produzione del vin-
colo matrimoniale. È proprio in vista di garantire la effettiva volontà
del soggetto che l’ordinamento canonico non ritiene di poter trascu-
rare una condizione eventualmente da esso apposta al proprio con-
senso. In altre e più semplici parole: l’ordinamento canonico, che ri-
tiene il matrimonio sorga dal consenso delle parti, ha coerentemente
interesse ad accertare cosa le parti abbiano effettivamente voluto.
Se una delle parti del patto coniugale ha inteso privare di sostanziale
efficacia il proprio esteriore consenso condizionandolo alla sussi-
stenza o meno di un determinato fatto, l’ordinamento non può che
prendere atto di ciò, né può presumere (pena una sua intrinseca con-
traddizione) di tenere in non cale o addirittura di supplire quella
mancanza sostanziale di volontà matrimoniale.
Così spiegate le cose, ci si può facilmente accorgere che l’attri-
buzione di rilievo (persino invalidante) alla condizione apposta al
consenso, non obbedisce a mere esigenze di natura logica, ovvero di
tecnica giuridica. Essa attinge a superiori principi di natura morale
che informano lo stesso ordinamento canonico, anche nella discipli-
na sostantiva dedicata al matrimonio. E ciò, in particolare, sotto un
duplice profilo.
In primo luogo quello del rispetto della libertà del contraente
nella propria autodeterminazione, soprattutto in ordine alla scelta
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 503
dello stato di vita. Tale principio è sancito fra i diritti comuni dei fe-
deli (cf can. 219) e trova riscontro nel riconoscimento, sul piano del-
la volontà matrimoniale, di quanto ciascuno dei contraenti ha effetti-
vamente voluto, persino attraverso la sottoposizione di tale volontà
manifestata a una condizione di efficacia.
In secondo luogo quello della sottolineatura (e, in parte, della
sanzione) di una certa dissonanza che non può non rilevarsi fra l’ap-
posizione di una condizione al proprio consenso e la “purezza” che
dovrebbe invece riscontrarsi nella donazione di sé all’altro nel matri-
monio. L’apporre infatti una condizione (sia che sospenda il costituir-
si effettivo del matrimonio; sia che si risolva nella possibilità di una
revoca del consenso; sia che ne subordini l’efficacia all’accertamen-
to della realtà di un fatto passato o presente) rende infatti meno pu-
ra, meno completa la donazione di sé che si realizza nel patto matri-
moniale.
Si noti, infine, che a ben vedere i due profili da ultimo segnalati
non possono essere considerati in reciproca contraddizione: all’eser-
cizio infatti della libertà individuale e al suo riconoscimento non può
infatti non corrispondere un equivalente riconoscimento della re-
sponsabilità dell’individuo in rapporto alle sue azioni e volizioni, so-
prattutto laddove esse coinvolgano – e in materie di altissimo rilie-
vo – terze persone e addirittura tutta la comunità ecclesiale.
4. Cercato di chiarire il “concetto” di condizione in relazione al
consenso matrimoniale; illustratane la possibile “tipologia”; adom-
brata la “ragionevolezza” della considerazione che vi dedica l’ordina-
mento matrimoniale canonico, occorre passare alla esposizione della
disciplina positiva che questo ordinamento detta per il consenso ma-
trimoniale condizionato. Seppure brevemente e con molta semplicità
si dovranno considerare: la disciplina del Codice del 1917; quella del
Codice latino vigente; quella delle Chiese orientali cattoliche.
a) La considerazione della disciplina stabilita nel CIC 1917 circa
il consenso matrimoniale condizionato è indispensabile sia per co-
gliere il contenuto della disciplina attuale del Codice latino vigente,
sia per evidenziare i mutamenti che in tale materia sono intervenuti
fra l’una e l’altra Codificazione.
La disciplina previgente è contenuta nel can. 1092 di quel Codi-
ce, disposizione piuttosto complessa che si apre con una premessa e
si dedica poi a regolamentare l’effetto giuridico di diversi tipi di con-
dizione.
504 Paolo Bianchi
Esempi
Con l’usuale finalità illustrativa e “didattica” si offrono di segui-
to alcuni esempi, mettendo in luce l’insegnamento specifico che cia-
scuno di essi può fornire.
Primo esempio
Filippo è un giovane sottufficiale dell’esercito, pieno di zelo e
buona volontà, ma molto rigido nel suo modo di vedere e nel suo ca-
rattere. In occasione di una solennità cui partecipano anche familiari
dei militari conosce Maria, figlia di un suo superiore e alcuni anni
maggiore di lui: una ragazza molto attraente e più esperta di lui dal
punto di vista sentimentale. Subito si sentono reciprocamente attratti
e inizia fra di loro una relazione assai intensa, sotto tutti i profili, mol-
to coinvolgente per Filippo, che è in merito in pratica alla prima e-
sperienza.
In breve tempo i due pensano alle nozze. Filippo però, frequen-
tando la casa dei genitori di Maria – coi quali la ragazza coabita – si
rende conto del forte legame sussistente fra lei e i genitori; ne parla
alla ragazza e rimane preoccupato dal fatto che questa gli proponga
di andare a vivere appunto con i genitori di lei. Filippo ha stima di
quelle persone, ma teme una coabitazione che potrebbe rappresenta-
re una difficoltà in più per una nascente esperienza coniugale e vuo-
le evitare la imbarazzante situazione di andare a sistemarsi proprio
in casa di un suo superiore.
La discussione fra Filippo e Maria su questa questione raggiun-
ge punti di tensione piuttosto forti. Filippo prospetta la possibilità di
soprassedere al progetto matrimoniale e a questo punto Maria si di-
chiara disposta a rinunciare al progetto di continuare ad abitare coi
suoi e pronta a seguire Filippo in un loro domicilio coniugale indi-
pendente.
Qualcosa però ormai si è incrinato in Filippo, che si trova pieno
di sospetti e di incertezze nei confronti di Maria. Giunge a portarla
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 517
Secondo esempio
Lucia è una buona ragazza di paese. Si innamora di Riccardo,
con il quale programma il matrimonio. Pochi giorni prima delle noz-
ze, giunge al parroco di Lucia una telefonata di Bruna, la quale affer-
ma di avere avuto un figlio da Riccardo. Il parroco convoca i giovani
per chiarire con loro la questione: Lucia e Riccardo dichiarano per
iscritto di aver rimosso ogni incertezza o possibile ombra tra loro e
di essere fermamente intenzionati a sposarsi.
I fatti di quei concitati giorni non sono invero chiarissimi: sia
per la mancata comparizione nel processo da parte di Riccardo; sia
per non poche contraddizioni fra la narrazione di Lucia e quelle dei
testi da lei stessa indotti. Pare comunque che Riccardo abbia assicu-
rato alla fidanzata di essere già da tempo “perseguitato” da Bruna,
frequentata in precedenza in una compagnia di giovani, e di avere
persino perciò sporto una denuncia a suo carico. Di fatto, appare, an-
che dalla narrazione dei testi di Lucia, che la ragazza ha creduto fer-
mamente al fidanzato, senza lasciarsi influenzare dagli inviti alla pre-
cauzione provenienti dai suoi stessi familiari.
Le nozze vengono celebrate e i due cominciano la vita comune.
Lucia lascia il lavoro e comincia a collaborare nell’esercizio commer-
ciale condotto da Riccardo e dai genitori di lui. Non sviluppandosi la
vita comune e l’attività lavorativa secondo le aspettative di Lucia –
nutrite invero anche dai piuttosto sproporzionati progetti di Riccar-
do – la ragazza finisce per lasciare il marito.
Lucia impugna quindi il matrimonio adducendo – fra l’altro –
che il suo accesso alle nozze sarebbe avvenuto sulla base della con-
dizione che fosse vera la smentita di Riccardo all’affermazione di
Bruna, ossia che egli non fosse il padre del bambino di Bruna.
Sotto questo profilo il matrimonio è quindi impugnato per una
condizione impropria: non è del tutto facile dire se debba essere consi-
derata una condizione de praeterito (che Riccardo non abbia in passato
avuto quel figlio da Bruna) ovvero de praesenti (che Riccardo non sia
il padre del figlio di Bruna), ma dal punto di vista pratico la questione
non rappresenta una soverchia difficoltà: sia perché identica è comun-
que la norma da applicare (il vigente can. 1102 § 2, dal momento che il
matrimonio venne celebrato già in vigenza della disciplina attuale); sia
perché i termini di fatto della questione sono chiari: Lucia sostiene di
aver voluto dare un consenso davvero efficace correlativamente alla
paternità o meno di Riccardo in rapporto al figlio di Bruna.
520 Paolo Bianchi
Nel caso presente gli oggetti propri della prova, i fatti principali
da dimostrare, sono dunque due: che Lucia abbia davvero apposto la
detta condizione; che Riccardo sia davvero il padre del figlio di Bruna.
La prova portata in merito da Lucia non è stata però tale da per-
suadere il Tribunale: essa è infatti molto debole sul primo punto e
del tutto inesistente sul secondo.
Che Lucia – riscontrata fra l’altro nemmeno del tutto limpida su
particolari importanti – abbia posto davvero una condizione non è di-
mostrato, né dalle incerte deposizioni dei suoi testi, né soprattutto
dai fatti. Ella si fidò ciecamente del fidanzato e si mostrò insensibile
ai dubbi che cercavano di instillarle i familiari; nessun pratico segui-
to diede all’incontro col parroco, al quale anzi ribadì per iscritto la
sua decisa volontà matrimoniale; nessuna seria garanzia chiese a
Riccardo (per esempio vedere copia della denuncia fatta; approfondi-
re con esami clinici l’affermazione di Bruna) prima delle nozze, né –
dopo di esse – si premurò di approfondire la questione. Solo quando
il matrimonio andò male per altre ragioni, Lucia riprese il discorso
della paternità da Bruna attribuita a Riccardo e introdusse quello di
una sua condizione apposta in merito. Per quanto però appena rias-
sunto, al Tribunale non apparve provata l’apposizione di una condi-
zione da parte di Lucia, ma al contrario quella di una assoluta adesio-
ne a Riccardo nonostante quanto era venuta a conoscere.
Che poi Riccardo sia il padre del bambino di Bruna è del tutto
indimostrato. Lucia dice di aver visto il piccolo all’epoca della separa-
zione e di averlo trovato molto somigliante al marito. Bruna viene a
deporre, dicendosi sicura che il bambino sia di Riccardo, ma senza
poter addurre elementi obiettivi a comprova e anzi dovendo ammet-
tere che, all’epoca del concepimento, ella intratteneva relazione inti-
ma anche con altri giovani (le informazioni raccolte dal Tribunale
confermarono che Bruna è una ragazza piuttosto “libera”). In man-
canza di altri seri elementi – anche indiziari – di prova, ritenere la pa-
ternità di Riccardo sarebbe del tutto irragionevole e arbitrario.
L’esempio vuol rendere avvertiti i consulenti a essere molto
guardinghi a ipotizzare nullità matrimoniali per l’apposizione di una
condizione, azzardandosi a fare tale ipotesi solo dopo una ricognizio-
ne – seppure certo ancora sommaria – della possibilità di dimostrare
i fatti basilari a fondamento della eventuale domanda giudiziale. Di-
versamente, orientare delle persone a una causa di nullità matrimo-
niale potrebbe costituire non già un aiuto loro dato, ma solo la pre-
messa per una nuova e dolorosa delusione.
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 521
Terzo esempio
Valeria è una ragazza molto giovane ma dalle idee molto chiare.
Studia e coadiuva i genitori in un’azienda familiare in un paese di
provincia. Andando appunto a scuola conosce Mirko, un giovane di
un paese vicino. È un ragazzo timido, sensibile, che risente di una
triste situazione familiare: i genitori si sono separati fra grandi con-
trasti e la madre si è dedicata con zelo ai Testimoni di Geova, attuan-
do un accesissimo proselitismo anche nei confronti del figlio.
Valeria e Mirko si frequentano, frequentandosi si innamorano
e, innamoratisi, passano a intrattenere intimità fisiche. Entrambi so-
no assai giovani e alle prime esperienze e ne sorge una gravidanza di
Valeria. La ragazza non si perde d’animo. Pensa subito al matrimonio
e ne parla ai genitori. Questi, pur dispiaciuti, non ne fanno un dram-
ma e si dispongono ad aiutare i due ragazzi, potendo provvedere per
loro sia una casa sia un lavoro sicuro nell’azienda familiare. Anche
Mirko sembra contento della prospettiva. Tutto viene predisposto
per le nozze e Valeria – minorenne ma assai matura – ottiene dal Tri-
bunale dei Minori l’autorizzazione a sposarsi.
Nel corso dei preparativi nuziali insorge però un problema: al-
cuni amici riferiscono a Valeria di aver visto Mirko praticare la cosid-
detta “sala del regno”, luogo delle riunioni dei Testimoni di Geova e
alla stessa Valeria non tornano i conti dei tempi riferitile da Mirko
per alcuni suoi spostamenti. Valeria che – nonostante l’età e il già
detto cedimento morale – è una ragazza dalle idee chiare e dai senti-
menti religiosi piuttosto solidi fa a Mirko, e non una sola volta, un di-
scorso molto esplicito: che gli vuole bene e che è contenta di sposar-
lo; che però non accetterebbe di sposare un appartenente a una fede
religiosa diversa, sia per meglio condividere gli aspetti importanti
della vita, sia in vista della educazione della attesa prole, che ella de-
sidera sia cattolica. Valeria dice chiaramente a Mirko di dire subito
se è o se intende diventare testimone di Geova: in tal caso, ella ter-
rebbe certo il bambino ma rinuncerebbe al matrimonio.
Mirko si affretta tutte le volte che Valeria va sul discorso a cerca-
re di rassicurare la ragazza: dice di essere sottoposto al proselitismo
della madre ma di non avere alcuna intenzione di aderire alla setta
dei Testimoni di Geova; alla domenica accompagna Valeria alla Mes-
sa; nessuna difficoltà solleva circa la preparazione religiosa alle noz-
ze, effettuata presso il parroco della ragazza. Valeria però non è sicu-
ra (anche perché le voci derivanti dagli amici si ripetono). Per questo
522 Paolo Bianchi
del legame nel caso della scoperta che egli fosse testimone di Geova
ovvero che lo volesse divenire. Si ricordino, del resto, le stesse paro-
le di Valeria: «Guarda poi che se, anche dopo sposati, scoprirò che tu
sei testimone di Geova o che lo vuoi diventare ti lascerò e manderò a
monte il matrimonio». Si tratta in pratica di una condizione “risoluti-
va”, che sarebbe per sé una forma di condizione de futuro, ma che si
risolve in pratica in una volontà escludente (seppure in via eventua-
le, appunto “condizionata”) della indissolubilità dell’impegno matri-
moniale. E di fatto, il Tribunale, ha deciso la causa per la esclusione
della indissolubilità da parte di Valeria (pure fra i capi all’esame), ri-
tenendo con questa pronuncia di aver già provveduto al punto della
condizione, quanto al merito riassorbito in quella.
L’esempio vuole rammentare sia la difficoltà di qualificare i fatti
riconducibili al fenomeno del consenso condizionato alla luce degli
schemi – necessariamente astratti e generalizzanti – della normativa;
sia la necessità di distinguere con cura il fenomeno condizione da al-
tre fattispecie solo simili ma in realtà a esso non riconducibili, sia
che esse non abbiano rilievo sulla validità del matrimonio, sia che lo
abbiano dovendo però più opportunamente essere qualificate alla
stregua di altre fattispecie di nullità matrimoniale previste dalla nor-
mativa canonica.
PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
Hanno collaborato a questo numero:
GIORGIO FELICIANI
Professore di Diritto Canonico e di Diritto Ecclesiastico presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università Cattolica di Milano