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QUADERNI

DI DIRITTO
ECCLESIALE

ANNO 1996

EDITRICE ÀNCORA MILANO


QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
3 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
6 La dimensione universale N. 1 - GENNAIO 1996
della Chiesa particolare
di Gianfranco Ghirlanda DIREZIONE ONORARIA

23 Alcune riflessioni sull’omnis potestas Jean Beyer, S.I.


del vescovo diocesano DIREZIONE E REDAZIONE
di G. Paolo Montini Francesco Coccopalmerio
35 I presbiteri “fidei donum” Paolo Bianchi - Massimo Calvi
speciale manifestazione della comunione Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
delle Chiese particolari tra loro Silvia Recchi - Carlo Redaelli
e con la Chiesa universale Mauro Rivella
di Pierantonio Pavanello Giangiacomo Sarzi Sartori
Gianni Trevisan
58 Gli istituti di vita consacrata: Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
segno dell’universalità nella Chiesa particolare
di Silvia Recchi SEGRETERIA DI REDAZIONE
66 Commento a un canone G. Paolo Montini
Battezzare i bambini in pericolo di morte Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) Tel. (030) 37.121
di Mauro Rivella PROPRIETÀ
76 Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° Istituto Pavoniano Artigianelli
ovvero Via G.B. Niccolini, 8
«Genitori “pagani”, perché chiedete i sacramenti 20154 Milano
per i vostri figli?... volete farne dei “lapsi”?»
di Adriano Celeghin AMMINISTRAZIONE
Editrice Àncora
103 Gli istituti secolari: Via G.B. Niccolini, 8
una vocazione per i nostri giorni 20154 Milano
di Emilio Tresalti Tel. (02) 3360.8941
109 I regolamenti
del Collegio dei Consultori e del Consiglio STAMPA

per gli affari economici della diocesi Grafiche Pavoniane


di Carlo Redaelli Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

ABBONAMENTI PER IL 1996


Italia: L. 20.000
Estero: L. 27.000
Via Aerea L. 37.000
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intestato a: Editrice Àncora
Autorizzazione del Tribunale di
Milano n. 752 del 13.11.1987
Nulla osta alla stampa:
Milano, 26-2-1996, don Franco Pizzagalli Spedizione in abbonamento
Imprimatur: Milano 26-2-1996, Angelo Mascheroni Vic. ep. postale/50% - Milano
3

Editoriale

«Ciò che costituisce la novità fondamentale del Concilio Vatica-


no II [...] costituisce altresì la novità del nuovo Codice»: così si espri-
meva il Sommo Pontefice nella Costituzione apostolica Sacrae disci-
plinae leges, con cui promulgava il Codice di diritto canonico.
E specificava subito questi elementi principali di novità in ambi-
to ecclesiologico. A noi interessano i seguenti: «La dottrina per cui
la Chiesa è vista come “comunione”, e che, quindi, determina le rela-
zioni che devono intercorrere fra la Chiesa particolare e la Chiesa
universale, e fra la collegialità e il primato».
La Chiesa particolare non è solo né tanto parte della Chiesa u-
niversale. Fra Chiesa particolare e Chiesa universale v’è anche un
rapporto più complesso, di immagine, di inerenza. È come se la Chie-
sa universale non potesse non portare i segni della località e la Chie-
sa particolare non potesse non portare in sé i segni della universalità.
È su quest’ultimo aspetto che il fascicolo intende soffermarsi,
per individuare nel Codice di diritto canonico vigente e negli istituti
giuridici che connotano la vita della Chiesa particolare alcuni richia-
mi alla universalità della Chiesa.
Il primo articolo considera l’impostazione dottrinale del rappor-
to fra Chiesa universale e Chiesa particolare, da cui emerge la di-
mensione universale della Chiesa particolare (Ghirlanda). Peculiare
attenzione è data alla recente Lettera della Congregazione della Dot-
trina della fede su Alcuni aspetti della Chiesa come comunione.
Viene poi svolta qualche riflessione sulla attribuzione al vesco-
vo diocesano di “tutta la potestà” necessaria per la cura pastorale del-
la Chiesa particolare (Montini). Il riconoscimento della “pienezza”
della potestà del vescovo diocesano dev’essere strettamente con-
4 Editoriale

giunto con le limitazioni della medesima potestà, che provengono


dalla medesima fonte: la comunione gerarchica.
Un luogo dove la dimensione universale della Chiesa particola-
re è evidente è la missione. Vengono così considerati i sacerdoti Fi-
dei donum (Pavanello).
Questi sono senz’altro un segno della resistenza alla «tentazio-
ne particolaristica, che induce le singole Chiese a limitarsi ai proble-
mi presenti entro i propri confini. Ciò avrebbe come conseguenza lo
svilimento dell’apostolato missionario e l’impoverimento dello “scam-
bio di doni” tra Chiese sorelle» (GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla
Commissione Interdicasteriale permanente per una più equa distribu-
zione dei sacerdoti, 11 gennaio 1996, in L’Osservatore Romano 12 gen-
naio 1996, p. 5).
La dimensione universale è propria della vita consacrata (Rec-
chi). La stessa diventa scuola di universalità nella e per la Chiesa
particolare. «I religiosi, ovunque si trovino, sono con la loro vocazione
“per la Chiesa universale” e attraverso la loro vocazione “in una deter-
minata Chiesa locale”. Per questo, la vocazione per la Chiesa univer-
sale si realizza nell’ambito delle strutture della Chiesa locale [...]
L’unità con la Chiesa universale attraverso la Chiesa locale: ecco la
vostra via» (GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Presuli della Regione
Nord-Est 2 del Brasile, 11 luglio 1995, in L’Osservatore Romano 14 lu-
glio 1995, p. 5).

Nella seconda parte del fascicolo viene anzitutto commentato il


canone 868 § 2 (Rivella), in merito al battesimo dei bambini in peri-
colo di morte, nel caso specifico in cui i genitori siano contrari. È sta-
to uno dei canoni più travagliati nell’iter di revisione del Codice e vi
confluiscono problematiche di carattere teologico, pastorale e giuri-
dico, sia naturale sia canonico sia civile.
Il battesimo dei bambini è ancora al centro dell’attenzione per
un articolo sui criteri di ammissione (Celeghin). L’Autore, canonista
e parroco, insiste con afflato pastorale sulla responsabilità dei geni-
tori nella presentazione dei bambini al battesimo, cercando di enu-
cleare in concreto, in riferimento ai genitori, le situazioni comprese
nella «fondata speranza di una educazione cattolica», che il canone
868 § 1, 2° pone come condizione per l’ammissione dei bambini al
battesimo.
Segue un articolo sugli istituti secolari (Tresalti). Vi si avverte
l’immediatezza di un testo preparato per un intervento nell’Aula Si-
Editoriale 5

nodale, in occasione della recente Assise sulla vita consacrata. Non


ne scapita la ragionata forza di appello a una chiarificazione sistema-
tica in quest’ambito nuovo della vita consacrata.
Vengono infine presentati e commentati i regolamenti del Con-
siglio Diocesano per gli Affari Economici e del Collegio dei Consul-
tori (Redaelli): benché il Codice non preveda un apposito regola-
mento, l’esperienza spesso ne consiglia l’adozione.
6
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 6 -22
La dimensione universale
della Chiesa particolare
di Gianfranco Ghirlanda

Quello della dimensione universale della Chiesa particolare è


un aspetto che in modo specifico è stato poco trattato, mentre è sen-
za dubbio di fondamentale importanza per una retta e approfondita
visione della realtà misterica della Chiesa. Tale dimensione universa-
le, infatti, emerge dagli stessi elementi costitutivi della Chiesa parti-
colare, se si approfondiscono alla luce della dottrina conciliare e dei
documenti postconciliari della S. Sede.
Per questa ragione prendiamo le mosse proprio dalla defini-
zione di diocesi, Chiesa particolare per antonomasia, che troviamo
nel can. 369:
«La diocesi è la porzione di popolo di Dio che viene affidata alla cura pasto-
rale di un Vescovo con la cooperazione del presbiterio, in modo che, aderen-
do al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e
l’Eucaristia, costituisca una Chiesa particolare in cui è veramente presente e
operante la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica».

Questa definizione, assunta alla lettera dal decreto CD 11a, va


completata con l’affermazione iniziale del can. 368:
«Le Chiese particolari, nelle quali e dalle quali sussiste la sola e unica Chie-
sa cattolica, sono innanzitutto le diocesi, alle quali, se non consta altro, viene
assimilata la prelatura territoriale e l’abbazia territoriale, il vicariato apostoli-
co e la prefettura apostolica e altresì l’amministrazione apostolica eretta sta-
bilmente» 1.

1
È da aggiungere a quest’elenco l’ordinariato militare (cf Costitutzione Apostolica Spirituali militum
curae, 7 gennaio 1986, I § 1, in AAS 78 (1986) 482; can. 372 § 2; cf anche J. BEYER, Vicariati castrensi e
Codice nuovo, in Vita Consacrata 23 (1987) 410-423; G. GHIRLANDA, voce «Ordinariato militare», in Nuo-
vo Dizionario di Diritto Canonico, a cura di C. Corral Salvador, V. De Paolis, G. Ghirlanda, Cinisello
Balsamo 1993, 733-736).
La dimensione universale della Chiesa particolare 7

Tutti gli elementi costitutivi della Chiesa particolare, offerti-


ci da questi due canoni, ci permettono un approfondimento del no-
stro tema.

La Chiesa particolare “porzione” del popolo di Dio


Sinteticamente la Chiesa nella sua essenza può essere definita
nel modo seguente:
«Il nuovo popolo di Dio, costituito dalla comunione tra tutti i
battezzati, gerarchicamente uniti tra di loro in diverse categorie, per
opera dello Spirito Santo, nella stessa fede, speranza e carità, nei sa-
cramenti e nel regime ecclesiastico».

Allora, elementi essenziali, perché si abbia in pienezza il realiz-


zarsi della Chiesa di Cristo, sono:
a) il battesimo che costituisce fedeli e popolo di Dio (LG 10a;
11a; AG 6c; can. 204 § 1);
b) un’organica differenziazione dei fedeli per i diversi doni ge-
rarchici e carismatici elargiti tutti dallo stesso Spirito (LG 4a; 12b;
13c; AG 4; GS 32d; cann. 204 § 1 e 208);
c) l’accettazione di tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, tra i
quali eccellono la proclamazione del Vangelo e la celebrazione del-
l’Eucaristia;
d) l’unione con Cristo nella Chiesa visibile, operata dallo Spirito
Santo, nei vincoli della professione della fede, dei sacramenti, del go-
verno ecclesiastico e della comunione, quindi del governo del Roma-
no Pontefice e dei vescovi (LG 9a; 14b; OE 2; AG 6c; can. 204 § 2).
La Chiesa è una e unica. L’universalità e la particolarità sono da
considerarsi degli attributi del soggetto Chiesa. Da ciò deriva il fatto
che questi elementi essenziali non mutano se consideriamo la Chie-
sa a livello universale o particolare. La Chiesa sarebbe un’astrazione
logica se non fosse considerata in una specificazione, o universale o
particolare. La Chiesa universale non è meno reale della Chiesa parti-
colare e viceversa. Il soggetto Chiesa, infatti, è unico, quindi sempre
lo stesso nei suoi elementi essenziali, ma vario in quelli accidentali,
che si esprimono attraverso attributi riferiti al soggetto. Gli attributi
di “universale” o “particolare” sono rettamente riferiti alla Chiesa, se
si trovano tutti gli elementi essenziali sopra elencati.
La Chiesa particolare è una «porzione del popolo di Dio». È da
intendere rettamente questa espressione. In CD 11 si è voluto usare
8 Gianfranco Ghirlanda

il termine “portio” e non “pars”, come era nel textus prior 2, inoltre si è
voluto anche evitare la locuzione «portio Ecclesiae universalis», affin-
ché non si intendesse nel senso che si possano dare divisioni e parti
nella Chiesa di Cristo 3. D’altronde in CD 6c troviamo che le Chiese
particolari sono «unius Ecclesiae Christi partes» e in LG 23b la Chiesa
particolare è detta «portio Ecclesiae universalis». Comunque ciò che è
da ritenere è innanzitutto che il popolo di Dio è congregato nello Spi-
rito Santo, mediante il Vangelo e l’Eucaristia, quindi è un tutto
indivisibile. Per questo la Chiesa particolare, sia che la si consideri
come una “porzione” sia come una “parte” del popolo di Dio, è da ri-
tenersi una particolarizzazione dell’unica Chiesa universale.
Sinonimo dell’universalità è la cattolicità, che è una delle pro-
prietà della Chiesa di Cristo. Quindi la Chiesa è per natura sua catto-
lica, universale, in quanto è destinata a tutti gli uomini 4. Essa è il
sacramento universale di salvezza e rimarrebbe tale anche se, per
assurdo, fosse ridotta a uno sparuto numero di fedeli, localmente
molto circoscritti ( SC 26a; LG 1; 8b; 9b; 48b; AG 1a; 5a).
L’universalità intrinseca del popolo di Dio è data dal fatto che
esso è costituito dai fedeli che mediante il battesimo sono incorpora-
ti a Cristo (can. 204 § 1; cf can. 849) 5: il Cristo risorto è costituito Ca-
po di tutto l’universo e mediatore unico ed eterno tra Dio e tutta l’u-
manità (Col 1, 18-20). Per questo la Chiesa di Cristo è e non può es-
sere che una, santa, cattolica e apostolica.
Non si appartiene alla Chiesa universale mediante l’incorpo-
razione a una Chiesa particolare, ma in modo immediato, proprio
perché nella Chiesa particolare è veramente presente e operante la
Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica, e la Chiesa univer-
sale non è la somma delle Chiese particolari 6.

2
Cf Acta Synodalia (= AS) III/II, 26.
3
Cf ibid., III/VI, 163.
4
Cf G. COLOMBO, Risposta alla relazione di H.Müller, in Chiese locali e cattolicità (Atti Coll. Int. Sala-
manca 2-7 aprile 1991), Bologna 1994, p. 379.
5
Nella definizione di diocesi che si trova in CD 11a e nel can. 369 non si fa nessun riferimento al batte-
simo, probabilmente perché esso viene presupposto nella nozione di popolo di Dio; infatti non ha senso
parlare di convocazione del popolo di Dio mediante il Vangelo e l’Eucaristia senza presupporre il batte-
simo, a cui conduce l’annuncio del Vangelo e di cui è perfezione l’Eucaristia. Il discorso si può allargare
alla confermazione.
6
Cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio, 28 maggio 1992, nn. 9 e
10, in AAS 85 (1993) 838-850; Enchiridion Vaticanum (= EV), 13/1774-1807. Quando un fedele cambia
domicilio, da una Chiesa particolare a un’altra, non è straniero o ospite nella Chiesa in cui si stabilisce
e, sembrerebbe superfluo dirlo, non deve essere sottoposto a nessun rito di iniziazione, perché già vi
appartiene in virtù del battesimo ricevuto in qualsiasi altra Chiesa.
La dimensione universale della Chiesa particolare 9

Il presupposto perché ci sia una communio Ecclesiarum, che co-


stituisce la Chiesa universale, è che l’universale comunione dei fede-
li è data dal fatto che tutti i battezzati in ogni luogo e in ogni Chiesa
particolare professano la stessa fede, celebrano gli stessi sacramenti
e sono uniti a coloro che per il ministero che hanno ricevuto, rappre-
sentano Cristo, Capo del popolo di Dio (can. 205). Questo fa sì che
costitutivamente una porzione del popolo di Dio sia costantemente
aperta alle altre Chiese e alla Chiesa universale, affinché si realizzi
proprio come Chiesa particolare.
La Chiesa particolare, poi, come porzione di popolo di Dio, a
immagine della Chiesa universale (LG 23a), si compone di vari ordi-
ni di persone, che comprendono tutti coloro che hanno ricevuto lo
stesso dono dello Spirito, svolgono la stessa funzione o lo stesso mi-
nistero nella Chiesa, sono tenuti agli stessi obblighi e godono degli
stessi diritti (LG 13c). La vita della Chiesa particolare, allora, non si
esaurisce nella polarizzazione tra l’ordine dei ministri sacri e l’ordine
laicale (can. 207 § 1), ma si rivela più ricca e articolata. La struttura
fondamentale della Chiesa, infatti, è una struttura carismatico-istitu-
zionale: tanti sono gli ordini, quante nella Chiesa sono le diverse fun-
zioni e ministeri stabili, suscitati dai doni dello Spirito e istituzionaliz-
zati canonicamente. Si possono innanzitutto individuare tre catego-
rie o ordini generali di persone nella Chiesa particolare come nella
Chiesa universale, voluti da Cristo e costituiti per vocazione dei sin-
goli: quello dei laici, dei ministri sacri, di coloro che professano i
consigli evangelici in una forma stabile di vita canonicamente rico-
nosciuta (LG 12c; 31b; 43a; PC 1a; cann. 207 § 2; 573; 574; 1008).
Poiché la vita laicale, ministeriale e consacrata non esistono in
astratto, ma sempre in concreto, a seconda della vocazione specifica
di ciascuno per un compito peculiare da svolgere nella Chiesa, tali
categorie o ordini generali di persone si determinano in vari ordini
particolari a seconda dei diversi doni dello Spirito, personali o collet-
tivi, dando origine, in questo secondo caso, al fenomeno associativo
in varie forme, così congeniale alla natura stessa della Chiesa. È da
tener ben presente, allora, che anche l’ordine dei ministri sacri in
quanto tale è di origine carismatica e in tale struttura carismatico-
istituzionale si pone, specialmente nel grado del pontificato supremo
e dell’episcopato, con un ruolo preminente e specifico, nella Chiesa
universale e in quella particolare: come garanzia dell’autenticità del-
la parola di Dio che continua a essere annunciata, della verità dei sa-
cramenti che vengono celebrati e della sicurezza della via verso la
10 Gianfranco Ghirlanda

santità che viene indicata. Per questo l’autorità ecclesiastica discer-


ne e regola l’uso dei carismi per il bene comune di tutto il corpo: il
vescovo fa tale discernimento non solo per il bene della Chiesa che
gli è affidata, ma per il bene di tutta la Chiesa.
Tali ordini di persone, infine, portano in se stessi una dimensione
di universalità, in quanto sono costitutivi della Chiesa in quanto tale.

Porzione del popolo di Dio riunita nello Spirito Santo


mediante il Vangelo e l’Eucaristia
Questo aspetto è strettamente legato a quello precedente. Sono
l’annuncio del Vangelo e la celebrazione dell’Eucaristia che fanno del
popolo di Dio una congregatio fidelium: una ekklesìa, un’assemblea
che partecipa alle cose sante – la duplice mensa della parola di Dio e
del Corpo e Sangue del Signore – ed è santificata da esse. È il Vange-
lo che, per opera dello Spirito Santo, suscita la fede, come adesione a
Cristo, la quale si attua nel battesimo, inserzione nel mistero di mor-
te e risurrezione del Signore e nella celebrazione dell’Eucaristia, me-
moriale di quello stesso mistero, nonché nella celebrazione di tutti
gli altri sacramenti.
Di per sé l’annuncio del Vangelo è universale: esso è volto a tut-
ti gli uomini, perché tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza e
perché il contenuto del Vangelo vale per tutti gli uomini in modo im-
mutabile attraverso i tempi e i luoghi (LG 3; 5a; 13a.d; 17; AG 1; 4; 5).
Tale annuncio, anche se dev’essere accolto in maniera personale,
tuttavia, è sempre accolto insieme ad altri, per cui la “vocazione” alla
salvezza è sempre una “convocazione” operata dallo Spirito, che si
traduce in una “congregazione” (assemblea; ekklesìa). Congregazio-
ne di tutti coloro che, aderendo all’impulso dello Spirito, rispondono
all’invito di Dio e che così formano il suo popolo, che si riunisce in-
torno alla mensa eucaristica, celebrazione del mistero della salvezza,
contenuto dell’annuncio del Vangelo (cf LG 9c; 13a; AG 15b; PO 4a;
can. 899 § 2).
D’altra parte l’evento salvifico di Cristo, come convocazione at-
traverso l’annuncio del Vangelo e l’assemblea eucaristica, si concreta
storicamente e si incarna in distinti gruppi socio-culturali. La Chiesa,
come realtà nello stesso tempo divina e umana (LG 8a) non è una
realtà solo spirituale e invisibile, ma è Corpo mistico di Cristo, quin-
di visibilmente percepibile nei vari gruppi umani che, secondo la lo-
La dimensione universale della Chiesa particolare 11

ro ricchezza culturale, rispondono nella fede all’annuncio del Vange-


lo e celebrano i sacramenti. Tali gruppi umani, proprio in quanto
hanno in sé tutti gli elementi essenziali della Chiesa, universale po-
polo di Dio, si costituiscono come Chiese particolari, che nella loro
specificità sono una ricchezza per tutta la Chiesa e ne manifestano
proprio la cattolicità, quindi l’universalità (LG 13c; 23d) 7.
Per questa opera dello Spirito – che si rende presente nell’an-
nuncio del Vangelo e nella fede di tutti coloro che vi aderiscono con
il battesimo e che suggellano nella celebrazione eucaristica – il popo-
lo di Dio, come universalità dei fedeli, unito ai suoi pastori, ovunque
si trovi e comunque si caratterizzi come gruppo socio-culturale, per-
severa indefettibilmente nell’insegnamento degli Apostoli e quindi
non può sbagliarsi nel credere (LG 12a; DV 10a).
La Chiesa particolare partecipa di questa indefettibilità di tutto
il popolo di Dio, proprio in quanto porzione di esso, nel senso sopra
spiegato. Il gruppo di fedeli che sociologicamente forma la Chiesa
particolare non ha di per se stesso una indefettibilità nella fede. In-
fatti non sono le particolarità socio-culturali a fare la Chiesa partico-
lare; propriamente è il Vangelo recepito a far sì che la Chiesa parti-
colare sia Chiesa: le particolarità socio-culturali concorrono solo in
funzione di causa materiale 8.
Per la stessa natura universale del Vangelo, di cui la Chiesa
particolare si nutre, e per il fatto che la Chiesa particolare è a imma-
gine della Chiesa universale, essa deve partecipare alla missione e-
vangelizzatrice della Chiesa universale, portando così a perfezione la
comunione con la Chiesa universale (AG 20h; can. 782 § 2) 9.
L’altra realtà attraverso la quale è riunito il popolo di Dio è l’Eu-
caristia. La celebrazione dell’Eucaristia (come di ogni altro sacra-
mento), pur facendo necessariamente riferimento a un luogo ben
preciso in cui essa avviene (SC 41; 42), tuttavia, per la sua stessa na-
tura, è un atto che riguarda l’intero corpo della Chiesa come suo pro-
prio (SC 26b). In ciò si manifesta pienamente la cattolicità della Chie-
sa: ovunque si celebri l’Eucaristia, secondo anche diverse tradizioni
liturgiche, si rende presente la totalità del dono della salvezza, Cri-

7
Per un approfondimento su questo punto, cf H. MÜLLER, Realizzazione della cattolicità nella Chiesa lo-
cale, in Chiese locali e cattolicità, pp. 356-366.
8
Cf C. COLOMBO, Risposta..., p. 380.
9
Cf A. LEITE SOARES, A comunhâo na constituçâo hierárquica da Igreja - Investigaçâo teologico-canóni-
ca, Porto 1992, p. 312.
12 Gianfranco Ghirlanda

sto, e quindi c’è una speciale manifestazione della Chiesa una, santa,
cattolica e apostolica (SC 41b) 10.
La Chiesa si edifica nella celebrazione eucaristica (UR 15a) e in
questa stessa viene significata e attuata l’unità di essa (UR 2a). Infatti
nella celebrazione dell’Eucaristia viene manifestata ed efficacemente
rinsaldata la comunione universale dei fedeli, perché in essa questi
sono intimamente congiunti a Cristo, confessano una sola fede, sotto
la guida del Romano Pontefice, successore di Pietro, e del Collegio
dei vescovi, in cui persevera il Collegio apostolico (UR 2b.c.d). Que-
sto carattere dell’Eucaristia, nonostante la sua celebrazione sia sem-
pre visibilmente localizzata e culturalmente contestualizzata, fa sì
che la Chiesa particolare si mantenga sempre e costantemente aper-
ta all’universalità, come qualcosa di intrinseco al suo stesso esistere
e operare 11. È l’Eucaristia stessa che apre la Chiesa particolare alla
missione universale di evangelizzazione propria di tutta la Chiesa
(AG 39a; can. 782 § 2).
Annuncio del Vangelo e celebrazione della morte e risurrezione
del Signore sono sempre inscindibilmente legati.

Porzione di popolo di Dio affidata alla cura pastorale


di un vescovo con la cooperazione del presbiterio
La porzione di popolo di Dio che, come elemento personale pri-
mario e fondamentale, costituisce la Chiesa particolare, è affidata al-
la cura pastorale di un vescovo.
Dalla stessa definizione che abbiamo nel Codice (cann. 368;
369), la Chiesa particolare è:
a) una comunità di fede riunita mediante l’annuncio del Vangelo,
per cui il vescovo esercita in essa la sua funzione di insegnare, pro-
prio come primo e principale annunciatore della parola di Dio e co-
me garante dell’indefettibilità nella fede della porzione di popolo di
Dio che gli è affidata (LG 25; CD 12a; cann. 386; 753; 756 § 2);

10
Cf Lettera Communionis notio, n. 11 (anche n. 17).
11
Cf ibid., n. 11. La Lettera della Congregazione per la Dottrina della fede – nel contesto di una valoriz-
zazione della teologia eucaristica, come valida per una comprensione della Chiesa particolare in tutta la
sua realtà di “localizzazione” e nello stesso tempo di apertura all’universalità – mette anche in guardia
di fronte a quelle affermazioni unilaterali di tale teologia, che portano ad affermare come non essenzia-
le ogni altro principio di unità e universalità della Chiesa locale, oppure che ogni congregazione di fe-
deli avrebbe ogni potestà ecclesiale, anche riguardo all’Eucaristia, per cui essa nascerebbe “ab intra” e
sarebbe autosufficiente (cf ibid.).
La dimensione universale della Chiesa particolare 13

b) una comunità di grazia e di carità, riunita nella celebrazione


dell’Eucaristia – presieduta dal vescovo (SC 41) e dai presbiteri che ne
fanno le veci (SC 42a) – e di tutti gli altri sacramenti, per cui il vescovo
esercita la sua funzione di santificare il gregge affidatogli e garantisce
la verità dei sacramenti celebrati (LG 26; CD 15; cann. 387; 835 §1);
c) una comunità di apostolato gerarchicamente organizzata, nel-
la quale il vescovo esercita la sua funzione di governare la porzione
di popolo di Dio che gli è stata affidata, in modo tale che tutti i fedeli,
di qualsiasi condizione, che la compongono, in comunione con lui,
cooperino alla diffusione del Vangelo e alla santificazione degli uomi-
ni (LG 27; CD 16; can. 394).
Il ministero del vescovo è quello, da una parte, di essere come
singolo il visibile principio e fondamento di unità della Chiesa parti-
colare affidatagli – nell’unità della fede, dei sacramenti e del regime
ecclesiastico – quindi di rappresentarla e governarla con la potestà
ricevuta (LG 23a; can. 381 § 1) e, dall’altra, insieme con gli altri ve-
scovi, in comunione gerarchica con il Romano Pontefice, formando
un unico Collegio, di esprimere la varietà, l’universalità e l’unità del
popolo di Dio, nella rappresentanza e nel governo di tutta la Chiesa
(LG 22b; 23; can. 336). Per questo il ministero del vescovo non può
mai essere considerato isolatamente, ma sempre correlato a tutto il
Collegio episcopale, che succede al Collegio apostolico.
Gli Apostoli sono allo stesso tempo il seme della Chiesa e l’ori-
gine della sacra gerarchia (AG 5a). Ciò significa che nel Collegio
apostolico è racchiusa la struttura essenziale della Chiesa e del Col-
legio dei vescovi, che succedono agli Apostoli. La Chiesa, afferma
LG 19, è fondata sugli Apostoli ed è edificata sul beato Pietro, loro
Capo, mentre Gesù Cristo stesso ne è la pietra angolare. Per il fatto
che il Romano Pontefice succede a Pietro e i vescovi succedono agli
Apostoli, il Romano Pontefice e i vescovi formano un Collegio che, in
quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del po-
polo di Dio; in quanto, poi, è raccolto sotto un solo Capo, significa
l’unità del gregge di Cristo (LG 22a.b). In questo modo il Collegio
episcopale, insieme al suo Capo e mai senza di lui, è l’espressione
eminente e il vero strumento della comunione tra le Chiese, la quale
comunione forma la Chiesa universale e ha come centro la Chiesa di
Roma, il cui vescovo è il Capo del Collegio 12.

12
Cf Lettera Communionis notio, n.12.
14 Gianfranco Ghirlanda

Tra i vescovi vige una costante unione collegiale (“unio colle-


gialis”), che appare nelle mutue relazioni dei singoli vescovi con le
Chiese particolari e con la Chiesa universale (LG 23a). Tale unione
collegiale, infatti, è una comunione di fraterna carità (“communio
fraternae caritatis”) o affetto collegiale (“affectus collegialis”), che
spinge i vescovi a unire i loro sforzi e i loro intenti per incrementare
il bene comune e quello delle singole Chiese (CD 36a; LG 23d), non-
ché a realizzare un’attività missionaria congiunta (AG 6f).
Questa unione collegiale, o comunione fraterna o affetto colle-
giale, è la fonte della sollecitudine che ogni vescovo, per istituzione e
precetto di Cristo, deve avere per tutta la Chiesa e per le altre Chie-
se particolari (LG 23b.c; CD 3; 5; 6a) 13.
Il fondamento sacramentale-ontologico ed ecclesiologico-strut-
turale di questa unione collegiale o “collegialità affettiva”, vigente tra
i vescovi e tra essi e il Romano Pontefice, è dato dalla comune consa-
crazione episcopale, che costituisce la comunione sacramentale, e
dalla comunione gerarchica. Si diventa membri del Collegio in forza
della consacrazione sacramentale e per la comunione gerarchica con
il Capo del Collegio e i suoi membri (LG 22a; can. 336). Ambedue gli
elementi sono parimenti necessari 14, in quanto la consacrazione, co-
me causa efficiente, immette nella pienezza della successione apo-
stolica, la quale, però, ecclesiologicamente ha completa manifesta-
zione con la comunione gerarchica come condizione senza la quale
non si può essere membri del Collegio 15. Il vescovo legittimo, in

13
Tale sollecitudine si attua e si esprime secondo gradi diversi in vari modi, anche istituzionalizzati – il
Sinodo dei vescovi, i Concili particolari, le Conferenze dei vescovi, la Curia Romana, le visite ad limina,
la collaborazione missionaria ecc. (LG 22a; 23; AG 6f; Sinodo straordinario dei vescovi 1985, Relazione
Finale Exeunte coetu, II.C.4, in EV 9/1804) –, ma in modo pieno solo nell’azione collegiale in senso
stretto, cioè, nell’azione di tutti i vescovi insieme al loro Capo, con cui esercitano la potestà piena e su-
prema su tutta la Chiesa (ibid., 1803; LG 22b). La natura collegiale del ministero apostolico è di diritto
divino, quindi l’affetto collegiale o collegialità affettiva, come comunione episcopale, sempre vige tra i
vescovi e solo in alcuni atti si esprime come collegialità effettiva (“collegialitas effectiva”). Tutti i modi
di attuazione della collegialità affettiva in collegialità effettiva sono di diritto umano, ma in gradi diversi
concretizzano l’esigenza di diritto divino che l’episcopato si esprima in modo collegiale (LG 22a). Il gra-
do massimo di attuazione è nel Concilio ecumenico e nell’azione congiunta dei vescovi sparsi nel mon-
do (LG 22b; can. 337 §§ 1,2); tutti gli altri sopra menzionati, sia a livello universale che locale, sono di
un grado intermedio e subordinato.
Come l’affetto collegiale, cioè la comunione dei vescovi, si esprime e si attua secondo gradi diversi, co-
sì anche la comunione tra le Chiese si esprime in modi diversi. Essa sempre esiste, in quanto è realtà
essenziale della Chiesa; come totalità essa è attuata solo a livello universale, ma si manifesta sensibil-
mente anche a livello locale, nei raggruppamenti di Chiese particolari, nei patriarcati, nelle province e
nelle regioni ecclesiastiche (LG 23d; CD 39-41; cann. 431-434).
14
Cf AS III/I, 242-243.
15
In virtù della consacrazione episcopale si stabilisce il fondamento ontologico-sacramentale di parità
tra tutti i membri del Collegio; per la comunione gerarchica, invece, si ha il fondamento ecclesiologico-
La dimensione universale della Chiesa particolare 15

quanto nella comunione gerarchica e membro del Collegio, per dirit-


to divino (“missione divina”), immediatamente da Cristo è fatto par-
tecipe della potestà piena e suprema di governare e di insegnare su
tutta la Chiesa, di cui è depositario il Collegio dei vescovi, in quanto
in esso persevera il Collegio degli Apostoli 16.
Potremmo dire che l’appartenenza al Collegio da parte del ve-
scovo, quindi la sua relazione alla Chiesa universale, precede, almeno
logicamente, il suo essere pastore di una Chiesa particolare, perciò
anche la sua relazione a questa. È almeno la prospettiva in cui si pon-
gono sia la Costituzione dogmatica Lumen gentium che il Decreto
Christus Dominus, che prima trattano del vescovo come membro del
Collegio, in relazione alla Chiesa universale (rispettivamente nn. 22 e
23; cap. I), e poi del vescovo in relazione alla Chiesa particolare (ri-
spettivamente nn. 24-27; cap. II).
I vescovi, infatti, non succedono singolarmente a un singolo
Apostolo, ma come Corpo episcopale al Collegio degli Apostoli 17. Per
questo solo il vescovo legittimo, membro del Collegio episcopale, per
mezzo della missione canonica, riceve dal Romano Pontefice la cura
pastorale di una Chiesa particolare. Con il conferimento dell’ufficio
viene investito anche della potestà di insegnare e della potestà di go-
vernare legislativa, amministrativa e giudiziale, nella Chiesa partico-
lare che gli è stata affidata (LG 24b; NEP 2°; cann. 375 § 2; 381 § 1;
391; 753). Perché il vescovo riceva da Cristo, come annessa all’ufficio
conferitogli, questa potestà particolare di insegnare e di governare
nella Chiesa a lui affidata, per diritto divino si richiede come condizio-
ne necessaria la comunione gerarchica, e questo è sempre stato; la
missione canonica del Romano Pontefice, che può avvenire in vari
modi (LG 24b), si richiede per diritto ecclesiastico perché così me-
glio venga protetto il diritto divino della comunione gerarchica 18.

strutturale, della subordinazione del singolo vescovo sia al Romano Pontefice che al Collegio. Questo
perché sia il Romano Pontefice personalmente che il Collegio, sempre insieme al suo Capo, rappresen-
tano la Chiesa universale e su di essa hanno piena e suprema potestà (LG 22b; NEP 3°; 4°; cann. 331;
333 § 1; 336). In questo modo la costituzione gerarchica della Chiesa, voluta dal Signore, è nello stesso
tempo collegiale e primaziale (LG 19; Cf GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastor bonus, n. 2,
in AAS 80 [1988] 842-843).
16
Il vescovo può esercitare tale potestà solo quando il Collegio è convocato dal suo Capo ad agire co-
me tale nei due modi tassativamente stabiliti dal diritto (LG 22b; can. 337).
17
Solo il Romano Pontefice succede personalmente all’apostolo Pietro, proprio per la funzione che lui
solo deve e può svolgere in seno al Collegio (LG 20c; 22b; NEP 1°).
18
Così si comprende sia la prassi del primo millennio sia quella del secondo, e appare chiaro che la
missione canonica del Romano Pontefice è un atto strumentale riguardo alla trasmissione della potestà
di Cristo ai vescovi, e non di delega della potestà pontificia (LG 27a.b).
16 Gianfranco Ghirlanda

In questo modo il vescovo è simultaneamente in relazione alla


Chiesa universale e alla Chiesa particolare di cui è Pastore immedia-
to, e quindi è il legame della comunione ecclesiastica tra la sua Chie-
sa e la Chiesa universale. I vescovi sparsi per il mondo rendono ef-
fettiva e manifesta la nota della cattolicità della Chiesa se si trovano
nella comunione gerarchica con il Capo del Collegio e i membri di
esso; per questa ragione, nello stesso tempo, conferiscono tale nota
anche alla Chiesa particolare a cui sono preposti 19. Infatti, se il ve-
scovo non fosse nella comunione gerarchica con il Capo del Collegio
e i membri di esso, la porzione di popolo di Dio che aderirebbe a lui
non potrebbe considerarsi nella comunione cattolica 20.
Da questa duplice relazione di ogni vescovo preposto a una
Chiesa particolare ne viene che l’una e unica Chiesa cattolica esiste
nelle e dalle Chiese particolari, per cui l’intero Corpo mistico di Cri-
sto è anche il corpo delle Chiese (LG 23; can. 368) 21. Nell’Eucaristia,
presieduta dal vescovo, si rende presente non solo il Corpo reale di
Cristo, ma anche tutto il Corpo mistico dello stesso Cristo 22.
Per poter svolgere la sua funzione pastorale nella Chiesa affida-
tagli, il vescovo diocesano gode di una potestà ordinaria, propria e
immediata (can. 381), ma essa va esercitata all’interno della relazio-

19
Paolo VI, nella sua allocuzione all’apertura del terzo periodo del Concilio (14 settembre1964), trat-
tando dei rapporti tra la funzione primaziale del Romano Pontefice e la potestà dei vescovi, esigiti dalla
struttura gerarchica per diritto divino della Chiesa, così si esprimeva: «[...] Haec potestatis ecclesiasti-
cae in unum veluti centrum ordinatio [...] indoli Ecclesiae respondet, quae suapte natura una et hierar-
chica est [...]. Haec ergo coniunctio et congruens rei communicatio cum Sancta Sede [...] oritur [...] ex
iure divino et ex proprio ipsius constitutionis Ecclesiae elemento. Attamen haec norma episcopalem aucto-
ritatem nullo modo extenuat, immo robore auget, sive ea in singulis Antistitibus, sive in toto Episcoporum
collegio consideratur. [...]» (AAS 56 [1964] 812).
Rivolgendosi direttamente ai vescovi, così Paolo VI proseguiva: «Alio quoque argumento has catholici
Episcopatus laudes confirmare placet, ut manifesto pateat quantum eius dignitati, quantum eius caritati
prosint hae hierarchicae communionis vincula, quae Episcopos cum Apostolica Sede coniungunt. [...]
Etenim, quemadmodum vobis, varias terrarum orbis partes incolentibus, ut veram Ecclesiae notam ca-
tholicam efficiatis atque ostendatis, necessarium omnino est centrum et principium unitatis fidei et com-
munionis quod in hac Petri Cathedra habetis...» (ibid., 813).
20
Cf CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio pastorale Ecclesiae imago (= EI), 22 febbraio 1973, n. 13,
in Enchiridion Vaticanum 4/1945-2328
21
Cf ibid., n. 42.
22
La Lettera Communionis notio, al n.14, così si esprime a questo proposito: «Unità dell’Eucaristia e
unità dell’episcopato con Pietro e sotto Pietro non sono radici indipendenti dell’unità della Chiesa, per-
ché Cristo ha istituito l’Eucaristia e l’episcopato come realtà essenzialmente vincolante. L’episcopato è
uno così come una è l’Eucaristia: l’unico sacrificio dell’unico Cristo morto e risorto. La liturgia esprime
in vari modi questa realtà, manifestando per esempio, che ogni celebrazione dell’Eucaristia è fatta in
unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con il Papa, con l’ordine episcopale, con tutto il clero
e con l’intero popolo. Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione
con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come nel caso delle Chiese cristia-
ne separate da Roma».
La dimensione universale della Chiesa particolare 17

ne che egli ha con la Chiesa universale, in modo da garantire la co-


munione della sua Chiesa con la Chiesa universale. Infatti il bene co-
mune della sua Chiesa è subordinato a quello della Chiesa universa-
le e l’animo e l’azione del vescovo diocesano debbono essere sempre
rivolti all’unità, al bene e alle necessità di tutta la Chiesa cattolica 23.
Per questo, dice il Concilio, i vescovi
«reggendo bene la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale,
contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il Corpo mistico,
che è pure il corpo delle Chiese» (LG 23b).

Da qui scaturisce un dovere fondamentale per l’azione pastora-


le del vescovo, quello di tutelare l’unità della Chiesa universale,
promuovendo la disciplina comune a tutta la Chiesa e quindi urgen-
do l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche (can. 392 § 1).
Indispensabile, poi, è la funzione dei presbiteri nella Chiesa
particolare, come troviamo nella definizione del can. 369. Con l’ordi-
nazione, essi partecipano allo stesso e unico sacerdozio di Cristo,
quindi al ministero di Cristo e alla missione apostolica (PO 1; 2b.d;
10a; CD 15a), anche se non con la stessa pienezza che i vescovi. La
stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione ge-
rarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi e il Romano Pontefice
(PO 7a) 24, nella quale sono posti solo se sono legittimamente ordina-
ti. Allora, i presbiteri, in virtù dell’ordine e del ministero e con la
missione canonica, non sono associati solo al vescovo della diocesi
in cui sono incardinati, ma a tutto il Corpo episcopale, di cui sono i
collaboratori (LG 28b; PO 7a.b).
Anche i presbiteri, quindi, analogamente ai vescovi, stabilisco-
no una duplice relazione: in rapporto alla Chiesa universale, alla qua-
le appartengono «in modo immediato» in virtù dell’ordinazione 25,
e in rapporto alla Chiesa particolare, in virtù dell’incardinazione
(cann. 265; 266 § 1).
Infatti, come afferma PO 10a,
«il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li pre-
para a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale

23
Cf EI, nn. 93; 94.
24
Cf CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Tota Ecclesia, 31 gennaio 1994, n. 22, Libreria Edizioni
Vaticane, 1994.
25
Cf ibid., n. 14.
18 Gianfranco Ghirlanda

missione di salvezza “fino agli ultimi confini della terra” (Atti 1, 8), dato che
qualunque ministero sacerdotale partecipa alla stessa ampiezza universale
della missione affidata agli Apostoli. Infatti il sacerdozio di Cristo, di cui i
presbiteri sono resi realmente partecipi, si dirige necessariamente a tutti i
popoli e a tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, di nazione o età
[...]. Ricordino quindi i presbiteri che a essi incombe la sollecitudine di tutte
le Chiese» 26.

Il legame istituzionale con la Chiesa particolare attraverso l’in-


cardinazione, quindi, lo si deve vedere come la necessaria concretiz-
zazione e particolarizzazione spazio-temporale di questa universalità
del ministero apostolico. Non si può parlare di collegio dei presbiteri
a livello universale, ma certamente, come fa il Concilio, di comunio-
ne sacerdotale (LG 41c), oppure di intima fraternità che, in virtù del-
la sacra ordinazione e della missione, lega tutti i sacerdoti tra loro
(LG 28c) 27. Questa comunione e fraternità sacerdotale si rende visi-
bile nel presbiterio diocesano, che coopera alla cura pastorale del ve-
scovo (LG 28b; PO7a; can. 369). In tale presbiterio sono da includere
anche i presbiteri religiosi (can. 498 § 1, 2°; CD 34a), che per il ca-
rattere sovradiocesano, radicato nel ministero petrino, proprio degli
istituti a cui appartengono e in cui sono incardinati arricchiscono an-
cora di più della nota dell’universalità il presbiterio diocesano e coo-
perano efficacemente alla comunione tra le Chiese particolari e alla
comunione della Chiesa universale 28.
Il presbitero, infine, in comunione gerarchica col suo vescovo è
colui che nella celebrazione dell’Eucaristia e in tutta la sua attività
pastorale rende presente il vescovo nella Chiesa locale e costituisce
il legame tra questa e la Chiesa particolare, e quindi con la Chiesa
universale (SC 42; LG 28b).

Mutua interiorità tra la Chiesa universale


e la Chiesa particolare
La porzione di popolo di Dio, nella varietà dei carismi e dei mi-
nisteri, quindi degli ordini di persone; l’annuncio del Vangelo; il bat-
tesimo; l’eucaristia e la celebrazione di tutti gli altri sacramenti; la

26
Evidentemente l’apertura universalistica di questo testo a maggior ragione va applicata ai vescovi,
che ricevono la pienezza del sacerdozio (LG 21b; 24a; AG 19c).
27
Cf Tota Ecclesia, al n. 25, dove si parla di inserimento nell’ordo presbyterorum.
28
Cf Communionis notio, n. 16; Tota ecclesia, n. 26; GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastores
dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 31, in AAS 84 (1992) 708-709.
La dimensione universale della Chiesa particolare 19

professione di fede; l’episcopato e il presbiterato, abbiamo visto, so-


no gli elementi costitutivi della Chiesa particolare. Tutti, per la loro
stessa natura, sono comprensibili solo nella duplice relazione alla
Chiesa universale e alla Chiesa particolare. Anzi, per il fatto che tali
elementi sono propri della Chiesa universale, necessariamente si ri-
trovano nella Chiesa particolare, che, allora, è costituita a immagine
della Chiesa universale (LG 23a) 29.
Questo fa sì che nella Chiesa particolare sia veramente presen-
te e operante la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica,
per cui nelle Chiese particolari e dalle Chiese particolari sussiste la
sola e unica Chiesa cattolica (LG 23a; CD 11a; cann. 368; 369).
Queste formule ci dicono che c’è una “mutua interiorità”, o mu-
tua immanenza, tra Chiesa universale e Chiesa particolare 30.
Spiegazione concisa e chiara di questo aspetto del mistero della
Chiesa è data da Giovanni Paolo II nella sua Allocuzione alla Curia
Romana del 20 dicembre 1990, quando, dopo aver parlato di tale
«mutua interiorità» sul fondamento della comunione, che sostiene la
Chiesa nelle sue più varie espressioni concrete e storiche, dice:
«Tale reciprocità, mentre esprime e preserva le rispettive dignità, illustra
adeguatamente la figura della Chiesa, una e universale, che nelle Chiese parti-
colari trova insieme e la propria immagine e un suo luogo di espressione essen-
do le Chiese particolari formate “ad immagine della Chiesa universale, e in
esse e da esse è costituita l’una e l’unica Chiesa cattolica”. Le Chiese partico-
lari a loro volta sono “ex et in Ecclesia universali”: da questa e in questa, infat-
ti, hanno la loro ecclesialità. La Chiesa particolare è “Chiesa” proprio perché
è presenza particolare della Chiesa universale. Così da una parte la Chiesa
universale trova la sua esistenza concreta in ogni Chiesa particolare in cui es-
sa è presente e operante e, dall’altra, la Chiesa particolare non esaurisce la to-
talità del mistero della Chiesa, dato che alcuni suoi elementi costitutivi non so-
no deducibili dalla pura analisi della Chiesa particolare stessa. Tali elementi
sono l’ufficio del successore di Pietro e lo stesso Collegio Episcopale» 31.

Possiamo così ben comprendere quanto è affermato nella Lette-


ra Communionis notio al n. 9, che rimandando proprio a questo te-
sto, dice:
«Perciò “la Chiesa universale non può essere concepita come la somma del-
le Chiese particolari né come una federazione di Chiese particolari”. Essa
non è il risultato della loro comunione, ma, nel suo essenziale mistero, è una

29
Cf Communionis notio, nn. 7; 13.
30
Cf ibid., n. 9.
31
AAS 83 (1991) 745.
20 Gianfranco Ghirlanda

realtà ontologicamente e temporalmente previa a ogni singola Chiesa partico-


lare.
Infatti, ontologicamente, la Chiesa-mistero, la Chiesa una e unica, secondo i
Padri precede la creazione, e partorisce le Chiese particolari come figlie, si
esprime in esse, è madre e non prodotto delle Chiese particolari. Inoltre,
temporalmente, la Chiesa si manifesta nel giorno di Pentecoste nella comu-
nità dei centoventi riuniti attorno a Maria e ai dodici Apostoli, rappresentanti
dell’unica Chiesa e futuri fondatori delle Chiese locali, che hanno una mis-
sione orientata al mondo: già allora la Chiesa parla tutte le lingue.
Da essa, originata e manifestatasi universale, hanno preso origine le diverse
Chiese locali, come realizzazioni particolari dell’una e unica Chiesa di Gesù
Cristo. Nascendo nella e dalla Chiesa universale, in essa e da essa hanno la
loro ecclesialità. Perciò, la formula del Concilio Vaticano II: la Chiesa nelle e
a partire dalle Chiese, è inseparabile da quest’altra: le Chiese nella e a parti-
re dalla Chiesa. È evidente la natura misterica di questo rapporto tra Chiesa
universale e Chiese particolari, che non è paragonabile a quello tra il tutto e
le parti in qualsiasi gruppo o società puramente umana».

Mi si perdonino queste due lunghe citazioni, ma mi sembra che


esse mi evitino tanti e contorti discorsi riguardo a questo punto. Que-
sti due testi confrontati e messi insieme, mi sembra che ci dicano che
la mutua interiorità tra la Chiesa universale e la Chiesa particolare si-
gnifica che quest’ultima è particolarizzazione della Chiesa universale.
Questo significa che la Chiesa particolare è
«la “rappresentazione” dell’evento salvifico di Cristo realizzato, nello Spirito
Santo, per mezzo del Vangelo e dei sacramenti, in un gruppo umano il quale,
costituito organicamente in popolo di Dio, visibilizza la Chiesa di Cristo, che
è questo stesso popolo di Dio, particolarizzando l’universalità ecclesiale» 32.

Universalità e particolarità sono dimensioni inscindibili e simul-


tanee in qualsiasi manifestazione ecclesiale attuale, per cui la pre-
cedenza ontologica e temporale della Chiesa universale rispetto alla
Chiesa particolare, che si pone in riferimento al momento fondazio-
nale della Chiesa stessa, condiziona costitutivamente l’essere storico
della Chiesa sia nella sua universalità che nella sua particolarità.

Conclusioni
Cerchiamo brevemente di delineare alcune conseguenze di que-
sta mutua interiorità o immanenza tra Chiesa universale e Chiesa par-

32
Cf A. LEITE SOARES, A comunhâo..., p. 310 (traduzione nostra).
La dimensione universale della Chiesa particolare 21

ticolare, che conferisce a quest’ultima una costitutiva dimensione di


universalità.

1. La suprema autorità, il Romano Pontefice e il Collegio dei ve-


scovi, che ha potestà ordinaria piena e immediata su tutta la Chiesa
universale, è immanente alla Chiesa particolare e quindi ha su di es-
sa immediata potestà (cann. 331; 333 § 1; 336). Proprio per la natura
misterica della Chiesa, questa immanenza dell’autorità suprema nel-
la Chiesa particolare, non annulla la potestà ordinaria, propria e im-
mediata che il vescovo ha nella Chiesa particolare di cui è pastore,
anzi l’afferma, corrobora e rivendica (LG 27b; can. 333 § 1).

2. Per il fatto che il Collegio è il Corpo di tutti i vescovi, questi


rendono la loro particolarità nota dell’universalità, per cui la stessa
particolarità è costitutivamente presente nel governo pastorale della
Chiesa universale. Inoltre, i vescovi, esprimendo la loro sollecitudine
per la Chiesa universale nell’aiuto che danno al Romano Pontefice
nell’esercizio del suo ministero universale, con vari mezzi, tra cui
preminente il Sinodo dei Vescovi (cann. 334; 342), arricchiscono del-
la particolarità delle loro Chiese il governo universale dello stesso
Romano Pontefice.

3. In virtù del realizzarsi pieno della Chiesa e della sua cattoli-


cità nella Chiesa particolare, e per il fatto che la Chiesa universale è
la comunione tra tutte le Chiese particolari, ne viene che ogni Chie-
sa particolare gode per diritto divino di una sua giusta autonomia,
cioè ha in sé tutti i mezzi naturali e soprannaturali per adempiere la
missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo.
Per il fatto che il vescovo, o altro pastore a lui equiparato nel diritto
(can. 381 § 2), ha nella Chiesa particolare potestà di magistero ordi-
nario (can. 753) e potestà ordinaria propria e immediata di governo
(legislativa, amministrativa e giudiziale), tale Chiesa costituisce un
vero ordinamento giuridico, ma non primario e originario, in quanto
non è indipendente e pienamente sovrano, perché destinatario an-
che delle norme emanate dall’autorità suprema e sottoposto alle ri-
serve a quest’ultima, stabilite dal diritto o dal Romano Pontefice (LG
27a; cann. 381 § 1; 392 § 1). Quindi l’autonomia, cioè la capacità di
governarsi, è “giusta” se relativa all’immanenza nella Chiesa partico-
lare della Chiesa universale, che rende presente in essa la suprema
autorità.
22 Gianfranco Ghirlanda

4. Tutta l’attività evangelizzatrice, pastorale e caritativa della


Chiesa particolare, garantita e guidata dal vescovo, aiutato dal pre-
sbiterio, deve non solo provvedere alle necessità della stessa Chiesa
particolare, ma essere aperta alle necessità della Chiesa universale e
dev’essere ricettiva di tutte quelle iniziative e forme di vita che espri-
mono l’universalità della Chiesa e rafforzano tale nota nella Chiesa
particolare.

GIANFRANCO GHIRLANDA S.J.


Piazza della Pilotta, 4
00187 Roma

NOTA BIBLIOGRAFICA
AA.VV., Chiesa particolare (Coll. “Il Codice del Vaticano II” – a cura di A. Longhita-
no), Bologna 1985.
AA.VV., Chiese locali e cattolicità (Atti Coll. Int. Salamanca 2-7 aprile 1991), Bolo-
gna 1994.
BEYER J., Chiesa universale e chiese particolari, in Vita Consacrata 18 (1982) 73-87.
G.GHIRLANDA, voci «Chiesa particolare», «Chiesa universale», «Ordinariato milita-
re», in Nuovo Dizionario di Diritto Canonico. (a cura di C. Corral Salvador, V. De
Paolis, G. Ghirlanda), Cinisello Balsamo 1993.
ID., La Chiesa particolare: natura e tipologia, in Monitor Ecclesiasticus 105 (1990)
551-568.
LANNE E., Chiesa locale, in Dizionario del Concilio Vaticano II, Roma 1969, pp. 796-
826.
VANHOYE A., La Chiesa locale nel Nuovo Testamento, in La Chiesa locale. Prospetti-
ve teologiche e pastorali, a cura di A. Amato, Roma 1976.
23

Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 23-34
Alcune riflessioni sull’omnis potestas
del vescovo diocesano
di G. Paolo Montini

È a tutti nota l’inversione di impostazione che il Codice di dirit-


to canonico vigente, sulla scia del concilio Vaticano II, ha introdotto
rispetto al Codice piano-benedettino in merito alla potestà di cui go-
de il vescovo diocesano nella sua Chiesa particolare 1.
Nel Codice precedente il vescovo diocesano era sì considerato
come posto a capo ex divina institutione a una Chiesa particolare e
perciò con potestà ordinaria (cf can. 329 § 1); era sì considerato co-
me ordinario e immediato pastore nella diocesi affidatagli (cf can.
334 § 1); gli era sì riconosciuto l’ufficio di governare la diocesi con
potestà legislativa, giudiziaria e coattiva (cf can. 335 § 1). Nello stes-
so tempo però si rifuggiva dal determinare criteri in base ai quali in-
dividuare il contenuto specifico di tale potestà, fino a poter affermare
che tale governo era costituito dai poteri affidatigli o riconosciutigli
dal diritto.
Prendiamo per esempio la facoltà di dispensare dalle leggi uni-
versali della Chiesa.
Il Codice precedente prevedeva che gli Ordinari non potessero
dispensare da leggi universali della Chiesa, «a meno che tale potestà
non fosse loro concessa esplicitamente o implicitamente» (can. 81).
Nel Codice di diritto canonico vigente la potestà del vescovo
diocesano è invece non solo definita, ma pure circoscritta, presen-
tando un criterio di determinazione più specifico: «Al vescovo dioce-
sano compete nella diocesi che gli è affidata tutta la potestà ordina-

1
Cf, recentemente, TH. J. GREEN, The Pastoral Governance Role of the Diocesan Bishop: Foundations,
Scope and Limitations, in The Jurist 49 (1989) 480; A. INGOGLIA, Considerazioni preliminari sull’autono-
mia giuridica delle Chiese “particulares seu dioecesanae”, in Il Diritto ecclesiastico 106 (1995) I, 799-816.
24 G. Paolo Montini

ria, propria e immediata, che è richiesta per l’esercizio del suo compito
pastorale, eccetto...» (can. 381 § 1; il corsivo è nostro). È pertanto la
comunità ecclesiale cui si presiede, o meglio, le esigenze pastorali
che dalla vita di questa comunità implicitamente o esplicitamente
provengono, a determinare l’entità, il numero e la consistenza della
potestà di cui è titolare il vescovo diocesano.
Anche in questo caso la potestà di dispensa dalle leggi universa-
li della Chiesa dà un esempio significativo.
Secondo la nuova normativa il vescovo diocesano può dispensa-
re da tutte le leggi sia universali sia particolari date per il suo territo-
rio o i suoi fedeli dalla suprema autorità della Chiesa, eccetto da
quelle la cui dispensa è riservata (cf can. 87 § 1).
Tale capovolgimento di impostazione ha un riscontro verbale in
quell’espressione che il canone 381 § 1 adotta: «Al vescovo diocesa-
no compete tutta la potestà...[Episcopo dioecesano in dioecesi ipsi
commissa omnis competit potestas]» 2.

Omnis potestas - plena potestas


L’attributo della plena potestas nel Codice piano-benedettino com-
pete al Romano Pontefice: «Il Romano Pontefice, Successore del Bea-
to Pietro nel primato, possiede non solo il primato di onore, ma la su-
prema e piena potestà [supremam et plenam potestatem] di giurisdizio-
ne su tutta la Chiesa, sia in ciò che riguarda la fede e i costumi, sia in
ciò che attiene alla disciplina e al governo della Chiesa diffusa su tutta
la terra» (can. 218 § 1; cf pure can. 219).
Anche il Codice vigente conferma tale attributo per la potestà
del Romano Pontefice: «In forza del suo compito gode nella Chiesa
di una potestà ordinaria [che è] suprema, piena [plena], immediata
e universale» (can. 331; cf pure 332 § 1).
E non poteva essere diversamente, visto che la stessa definizio-
ne dogmatica del Primato del Romano Pontefice comprende tale at-
tributo (cf DS 3064) 3.

2
«Il concilio si è dichiarato così, con una decisione di principio di rango costituzionale, che è stata
contenutisticamente adottata dal codice, a favore della restaurazione dei diritti originali del vescovo»
(H. MÜLLER, Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale, in Chiese locali e cattolicità. Atti del Col-
loquio internazionale di Salamanca [2-7 aprile 1991], Bologna 1994, p. 366).
3
Circa il concetto di plenitudo potestatis cf recentemente A. MARCHETTO, “In partem sollicitudinis...
non in plenitudinem potestatis”. Evoluzione di una formula di rapporto Primato-Episcopato, in Studia in
honorem Eminentissimi Cardinalis Alphonsi M. Stickler, Roma 1992, pp. 269-298.
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 25

Il Codice vigente solo innova attribuendo il medesimo attributo


della pienezza anche alla potestà del Collegio dei vescovi (cf can. 336)
e indirettamente al concilio ecumenico (cf can. 337 § 1).
I commentatori sia del Codice piano-benedettino sia del Codi-
ce vigente non discordano nella interpretazione di tale pienezza della
potestà: «Ad essa non manca alcuna parte della giurisdizione» 4; «Per-
ché non ha soltanto le parti più importanti [potiores partes] di questa
suprema potestà, ma tutta la sua pienezza» 5.
Un po’ più discordanti sono nel trarre le conseguenze di tale at-
tributo: «Non esclude però la potestà dei vescovi [...] che, pur essen-
do pienamente subordinata alla potestà del Romano Pontefice, non
trae la sua origine esclusivamente da quella» 6; «Così che possa por-
re gli atti supremi di regime da solo, senza i vescovi» 7.
Da quanto esposto si avvertiva molto bene la difficoltà o forse,
più correttamente, l’impossibilità di attribuire al vescovo diocesano
una potestà piena. Sarebbe stato in contrasto con la potestà piena del
Romano Pontefice.
Si potrebbe ritenere che tale contrasto non esistesse, precisan-
do l’ordine diverso entro cui si esplicherebbe la potestà del Romano
Pontefice e quella del vescovo diocesano. La prima potestà sarebbe
piena in relazione alla Chiesa universale; la seconda in relazione alla
Chiesa particolare 8.
Ma in realtà non può trattarsi della medesima pienezza, neppure
in senso strettamente analogico (di proporzionalità). Infatti la pienez-
za è veramente tale in congiunzione con l’attributo della superiorità
(suprema); non può più esserlo invece in congiunzione con l’attributo
dell’inferiorità. In quest’ultimo caso infatti è sottratto alla pienezza tut-
to quanto la potestà piena e suprema ritiene di poter esercitare (sia in
senso esclusivo sia in senso cumulativo sia in senso alternativo).
Per questa serie di ragioni il Codice vigente, ma ancor prima il
concilio Vaticano II, pur nella rivalutazione della Chiesa particolare e
locale come pure del ministero dell’episcopato, non hanno voluto

4 4
A. VERMEERSCH - J. CREUSEN, Epitome iuris canonici I, Mechliniae - Romae, 1929 , n. 295, p. 219.
5 6
S. SIPOS, Enchiridion iuris canonici, Romae 1954 , p. 147.
6
A. VERMEERSCH - J. CREUSEN, Epitome, n. 295, p. 219.
7
S. SIPOS, Enchiridion, p. 147.
8
È quanto si premura di specificare PAOLO VI nel motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno
1966): il decreto conciliare Christus Dominus afferma che per sé compete ai vescovi diocesani nelle lo-
ro diocesi tutta la potestà, «naturalmente sotto la clausola [ea scilicet ratione] “per quanto richiesto per
l’esercizio dei loro compiti pastorali”» (cf introductio).
26 G. Paolo Montini

(né potuto) attribuire alla potestà del vescovo diocesano l’attributo


della pienezza 9.
Si è pertanto puntigliosamente evitato di usare “plena potestas”,
preferendo “omnis potestas” o altre locuzioni.
Il decreto conciliare Christus Dominus su l’ufficio pastorale dei
vescovi nella Chiesa, nel n. 8a è fonte diretta del canone 381 § 1, ma
con alcune peculiarità che non vanno trascurate.
Anzitutto si deve rilevare che, in un contesto analogo (CD 11b),
lo stesso decreto conciliare preferirà omettere ogni accenno alla pro-
blematica della pienezza della potestà del vescovo diocesano. E questo
si riflette pure nella normativa postconciliare, come pure nel magiste-
ro postconciliare, in cui la citazione di CD 8a è pressoché assente 10.
In secondo luogo non si può non rilevare l’omissione di una lo-
cuzione di CD 8a da parte del can. 381 § 1. Il che rende il prescritto
codiciale più efficace e impegnativo dello stesso testo conciliare.
Mentre il decreto conciliare afferma che «ai Vescovi, come succes-
sori degli Apostoli, nelle diocesi loro affidate, per sé (per se) compete
tutta la potestà ordinaria, propria e immediata, che è richiesta per
l’esercizio del loro compito pastorale», nel testo codiciale scompare
il per sé 11, diventando l’affermazione diretta e di immediata realtà.
La Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium da un lato
preferisce una affermazione generica in cui non rientra il termine
omnis quale attributo della potestà del vescovo diocesano (cf LG
27a); dall’altro utilizza l’avverbio “plene” (pienamente) in un contesto
certo non impegnativo (si parla di compito pastorale e di quotidiana
e abituale cura del gregge, non già di potestà) 12, ma pure analogo al-

9
Monsignor Carli nella relazione al III Schema del decreto CD nota chiaramente come «la potestà di
giurisdizione, che i vescovi per diritto divino ottengono, per sua natura non può essere piena» (AS
II/IV, 442).
10
Il motu proprio di PAOLO VI De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966) riferisce ad sensum e cita in
nota CD 8a, in quanto ne costituisce l’applicazione diretta, ma si preoccupa anche di specificarne la va-
lenza (cf introductio). Il motu proprio di PAOLO VI, Episcopalis potestatis (2 maggio 1967), parallelo al De
Episcoporum muneribus per le Chiese Orientali, potrà così citare sbrigativamente alla lettera e per este-
so CD 8. Il Direttorio pastorale dei Vescovi Ecclesiae Imago (22 febbraio 1973) preferirà citare LG 27a
(cf n. 42).
11
Cf Communicationes 12 (1980) 294: dell’omissione, approvata da cinque Consultori e osteggiata da
tre Consultori, non è data alcuna motivazione. Secondo alcuni questa locuzione (per se) rafforzerebbe e
chiarificherebbe la attribuzione di propria della potestà del vescovo, dichiarando che la potestà del ve-
scovo diocesano non deriva dal potere del Papa (cf H. MÜLLER, Realizzazione della cattolicità..., cit.,
p. 368).
12
PAOLO VI, nel motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966) specificherà quale sia l’uffi-
cio pastorale pienamente commesso ai vescovi diocesani: «la cura costante e quotidiana delle pecorel-
le»(cf introductio). È interessante notare la locuzione «piena cura delle anime» del can. 150, per indica-
re quella cura pastorale che comprende senz’altro l’esercizio dell’ordine sacerdotale.
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 27

la problematica della determinazione della competenza del vescovo


diocesano: «A loro [= vescovi] è pienamente affidato l’incarico pasto-
rale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge» (LG 27b).

La riser va 13
La relatività della pienezza della potestà del vescovo diocesano
viene messa in luce dall’istituto della riserva. Si tratta della limitazio-
ne della potestà di cui gode il vescovo diocesano nell’esercizio del
suo ministero episcopale nei confronti della sua Chiesa particolare.

L’autore della riserva


Solo l’autorità suprema della Chiesa può operare una limitazio-
ne alla potestà episcopale tramite la riserva. Così si esprime LG 27a.
Più impreciso appare CD 8a, che si riferisce al «Romano Ponte-
fice, in forza del suo compito», dimenticando l’intero Collegio dei ve-
scovi, che pure esercita la suprema autorità della Chiesa 14.
Il canone 381 § 1 si riferisce alla riserva operata «dal diritto o da
un decreto del Sommo Pontefice».
Il riferimento del Codice vigente al diritto [= iure] è di grande
apertura, poiché, nella indeterminatezza del termine, può compren-
dere il diritto naturale, il diritto divino-positivo e il diritto positivo, sia
esso consuetudinario sia esso codiciale o extracodiciale, purché rife-
rito alla Chiesa universale.
Nulla impedirebbe, per fare un esempio, la vigenza di una con-
suetudine che riservi al Patriarca una facoltà, che per sé spetti al ve-
scovo diocesano.
Allo stesso modo la riserva di alcune facoltà alle Conferenze
episcopali è prevista dal diritto stesso (cf can. 455 § 1).
Il riferimento del medesimo canone al decreto del Sommo Pon-
tefice tralascia ingiustificatamente un possibile intervento in questa
materia del Collegio dei vescovi, sia in un concilio ecumenico sia in
un’altra forma (cf can. 341 § 2).

13
Sull’intera problematica della riserva cf J. MANZANARES, Sulla “reservatio papalis” e la “recognitio”.
Considerazioni e proposte, in Chiese locali e cattolicità, pp. 253-277.
14
A una osservazione di questo genere da parte di un gruppo di Padri conciliari, si modificò solo la di-
zione di CD 8b, in relazione alla riserva per le dispense (cf AS IV/II, 519).
28 G. Paolo Montini

È però vero che nella potestà del Romano Pontefice, immediata


sulle singole Chiese, è più facile arguire la facoltà, propria per diritto
nativo del successore di Pietro, di riservare cause per il bene di tutto
il gregge del Signore 15.

I criteri di riserva
È sempre un punto molto delicato enunciare criteri in una ma-
teria di cui contemporaneamente si stabilisca il soggetto nella supre-
ma autorità della Chiesa.
Due teoriche rendono complesso il problema:
– la prima attiene al principio secondo cui il legislatore non è te-
nuto alla sua stessa legge;
– l’altra attiene al principio secondo cui l’autorità il cui esercizio
sia normato non può chiamarsi suprema.
Per questo il can. 333 § 1 preferisce asserire che l’autorità im-
mediata del Romano Pontefice sulle Chiese particolari rafforza e ga-
rantisce la potestà propria, ordinaria e immediata, di cui godono i ve-
scovi sulle Chiese particolari a loro affidate.
E la Costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana ri-
corda che il supremo ministero dell’unità della Chiesa universale
rispetta «la potestà, che per diritto divino appartiene ai Pastori delle
Chiese particolari» (prooemium, XI; il corsivo è nostro).
Di fatto il canone 381 § 1 (come d’altronde CD 8a) non pone al-
cun criterio positivo che normi o orienti la riserva della suprema au-
torità della Chiesa 16.
Non si deve però dimenticare che lo stesso accenno all’omnis
potestas, di cui nella prima parte del canone, svolge una tale funzione
criteriologica. Asserire infatti che al vescovo diocesano compete tut-
ta la potestà necessaria per il suo ministero, implica un orientamento
a ridurre la riserva ai casi giustificati da una necessità: per sé il
vescovo dovrebbe infatti godere di tutta la potestà necessaria al suo
ministero diocesano 17. La stessa scelta di sostituire il termine, in un

15
Cf PAOLO VI, motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966), introductio.
16
La Relatio al IV Schema del Decreto CD nota la scelta di eliminare dal testo ogni accenno a causa o
fine della riserva («propter bonum commune»; «ad fidei et disciplinae unitatem servandam”): cf AS
III/II, 48.
17
Da tale principio discende poi anche il criterio interpretativo, necessariamente largo ed espansivo,
nei confronti delle potestà riconosciute ai vescovi diocesani (cf H. MÜLLER, Realizzazione della cattoli-
cità..., cit., p. 367).
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 29

primo momento scelto, di facultates con quello di potestas, dice chia-


ramente la volontà di esprimere un principio costituzionale della
Chiesa 18.
Più esplicito è LG 27a:
«Questa potestà [= dei vescovi], che personalmente esercitano in nome di
Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in
definitiva regolato [exercitium eiusdem ultimatim regatur] dalla suprema au-
torità della Chiesa e possa essere circoscritto entro certi limiti, in vista del-
l’utilità della Chiesa o dei fedeli [certis limitibus, intuitu utilitatis Ecclesiae
vel fidelium, circumscribi possit]».

Il testo è interessante per più aspetti.


Anzitutto emerge che non è tanto la potestà a essere limitata,
quanto piuttosto il suo esercizio. Ciò risponde ulteriormente al ri-
spetto programmatico dell’ufficio episcopale.
Si distingue inoltre fra una limitazione che proviene dalla neces-
sità di un regolamento dell’esercizio della potestà episcopale (cf No-
ta Explicativa Praevia 2b) e una limitazione del medesimo esercizio
che ha i caratteri della contingenza e nasce da considerazioni di op-
portunità in vista comunque del bene della Chiesa e dei fedeli.
Non raramente è comunque la stessa suprema autorità che, nei
documenti che per genere lo permettono, spontaneamente enuncia i
motivi che hanno giustificato la riserva. Così, a esempio, nei motu
proprio che nell’immediato postconcilio diedero attuazione a CD 8b
Paolo VI può affermare che le leggi la cui dispensa la Santa Sede si
riservava erano «o leggi dalla cui dispensa la [stessa] Sede Apostoli-
ca si era sempre astenuta, o dalle quali fu solita dispensare solo assai
raramente, per questioni che nella società umana incidono con parti-
colare influsso» 19.

18
Il testo primitivo del Decreto CD suonava così: «Restando ferma sempre e in tutto la potestà del Ro-
mano Pontefice di riservarsi delle cause, che sia per la loro natura sia per l’unità della Chiesa ritenga di
avocare a sé in considerazione di circostanze di tempo e di luogo, i vescovi residenziali per diritto co-
mune abbiano tutte le facoltà [Episcopi residentiales iure communi omnes habeant facultates] che sono
richieste dall’esercizio più pronto e più adatto della loro potestà ordinaria e immediata, da esercitare
sotto il primato giurisdizionale del Romano Pontefice. Pertanto le facoltà finora loro riconosciute siano
aumentate...» (AS II/IV, 365-366). Il termine facultates fu aspramente criticato: «Non piace la locuzione
facultates (= favori? non ineriscono intrinsecamente al compito episcopale?)» (Vescovi della Francia me-
ridionale, in AS II/IV, 396); «...abbiano le facoltà? ma se già le hanno per diritto divino!» (Monsignor
Ménager, vescovo di Meaux, in AS II/IV, 397). Ciò portò la Commissione a lasciare il termine faculta-
tes, come attesta monsignor Gargitter nella relazione al V Schema del Decreto (cf AS III/VI, 128).
19
PAOLO VI, motu proprio Episcopalis potestatis (2 maggio 1967), introductio. Le stesse parole in ID.,
motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966), introductio.
30 G. Paolo Montini

Certo qui si entra in un ambito in cui le scelte sono spesso di-


screzionali e legate a contingenze. La ragione di unità della Chiesa
implica che nel dibattito sia riservata la parola ultima e decisiva alla
suprema autorità stessa della Chiesa.

I destinatari della riserva


Non necessariamente l’autore della riserva è pure l’autorità cui
si attribuisce la potestà sottratta al vescovo diocesano.
Tale diversità discende anzitutto dalla pluralità di soggetti deten-
tori della suprema autorità: Romano Pontefice e Collegio dei vescovi.
Ma soprattutto dipende dal fatto che in non pochi casi l’autorità
cui viene riservata dalla suprema autorità della Chiesa la potestà epi-
scopale è un’altra, ossia un’autorità intermedia. Ciò accade per i Pa-
triarchi (nelle Chiese Orientali), per i concili particolari; ciò sembra
accadere pure per le Conferenze episcopali.
Possiamo qui solo accennare a un grave problema che si apre e
che attiene all’omnis potestas del vescovo diocesano vista in confron-
to non tanto al Primato del Romano Pontefice, quanto piuttosto alle
strutture intermedie (sia personali sia collegiali) della Chiesa, cioè
alla complessiva articolazione della (costituzione della) Chiesa 20. In
altre parole, sembrano attentare di più oggi alla pienezza della pote-
stà del vescovo diocesano le competenze (legislative) delle Confe-
renze episcopali delle competenze normative della Curia Romana. E
molti vescovi appaiono ben coscienti di questo. La dinamica e l’impo-
stazione del problema è comunque del tutto analoga sia nel caso del
Primato del Romano Pontefice sia nel caso della articolazione degli
uffici nella Chiesa.

Le difficoltà della riserva


Nella sua impostazione globale la riserva è principio molto diffi-
cile da gestire da parte della suprema autorità della Chiesa.

20
A questa problematica sembra ispirarsi la citazione fra le fonti del can. 381 § 1 della Epistula indiriz-
zata il 19 luglio 1972 dalle Congregazioni per i Vescovi e per il Clero al Capitolo della Cattedrale di
Roermond (Olanda). Con essa veniva respinto il ricorso del medesimo Capitolo contro il vescovo dio-
cesano e veniva «dichiarata la natura personale della responsabilità del vescovo diocesano nel governo
della diocesi, senza che possa venir sostituito da altre strutture sopradiocesane» (in X. OCHOA, Leges Ec-
clesiae post Codicem iuris canonici editae IV, Madrid 1974, n. 4073, col. 6297; il testo, in francese, ibid.,
6297-6299). Naturalmente questo principio vale finché e fintantoché le strutture sopradiocesane non
siano fornite giuridicamente e legittimamente di competenze normative.
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 31

Se infatti si afferma che ai vescovi compete tutta la potestà, ec-


cetto alcune cause definite, è veramente arduo per il legislatore uni-
versale prevedere, una volta per tutte, ogni caso che dev’essere sot-
tratto all’autorità dei vescovi diocesani e riservato 21. L’attività dei ve-
scovi diocesani è molto varia, vasta e mutevole; come pure lo è la
realtà pastorale. Può facilmente accadere che si presenti una neces-
sità pastorale, un’ipotesi di azione mai prima sperimentata. La riser-
va, proprio per la novità della prospettazione, non è stata fatta. La
contingenza la esigerebbe. Che fare?
Casi analoghi mi pare si possano rinvenire in alcune interpreta-
zioni autentiche che la Santa Sede ha emesso, tramite l’apposito Di-
castero della Curia Romana.
Mi limiterò a due esempi.
La forma canonica del matrimonio per i cattolici è obbligatoria
per la validità (cf cann. 1108 § 1; 1117). È norma universale. Il Codice
vigente prevede la facoltà di dispensa dell’Ordinario del luogo solo
nei matrimoni misti (cf can. 1127 § 2) e interreligiosi (cf can. 1129).
Non la prevede nel caso del matrimonio di due cattolici. D’al-
tronde nessuna norma codiciale riserva la dispensa in tal caso. Per-
tanto si dovrebbe ritenere di competenza del vescovo diocesano.
Considerazioni di opportunità fanno ritenere rischioso “lascia-
re” tale facoltà di dispensa ai vescovi diocesani, tanto più che potreb-
be essere pure delegata. C’è il rischio che l’obbligo della forma cano-
nica venga in realtà, ossia di fatto, “abrogato” in alcune Chiese parti-
colari attraverso una prassi diffusa e incontrollata della dispensa.
Interviene così l’interpretazione autentica che nega che il ve-
scovo diocesano possa dispensare dalla forma canonica nel matrimo-
nio di due cattolici 22.
Un’analoga lettura sembra possibile per l’interpretazione auten-
tica in merito alla omelia. In nessun luogo del Codice appare una ri-
serva che sottragga al vescovo diocesano la facoltà di dispensare dal
prescritto del can. 767 § 1, che attribuisce l’omelia al sacerdote o al

21
Ne era ben cosciente il principio V per la codificazione: «Le cause riservate devono essere chiara-
mente elencate nel nuovo Codice. Infatti conviene che la suprema potestà [...] nello stabilire queste
cause riservate proceda per enucleazioni. Sembra che questo non sia possibile, almeno conveniente-
mente nelle attuali circostanze, a modo di indice. Nel Codice stesso esse vengano opportunamente pro-
poste» (Communicationes 1 [1969] 81). Per le leggi la cui dispensa è riservata alla Santa Sede cf il prin-
cipio IV (ibid., 80).
22
Cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum, in AAS 77
(1985) 771. La risposta fu data nella Plenaria del 14 maggio 1985, confermata dal Pontefice il 5 luglio
1985 e promulgata il 1° agosto 1985.
32 G. Paolo Montini

diacono. Il Dicastero preposto all’interpretazione autentica afferma


che tale riserva sussiste 23.
Al di là di possibili letture più strettamente formali 24, appare evi-
dente l’estrema difficoltà di prevedere a priori o almeno con certez-
za ed esplicitamente tutti i casi che l’autorità suprema ritiene bene ri-
servare. Ogni competenza definita in senso negativo («la potestà dei
vescovi diocesani è estesa a tutto, fuorché... ») comporta necessaria-
mente margini e contenuti insospettabili.

Conclusione
La Chiesa particolare mostra la sua dimensione universale cer-
to nella chiara affermazione e concretizzazione della “pienezza” della
potestà del vescovo diocesano entro la medesima. In questo si mani-
festa l’inerenza della Chiesa universale nella Chiesa particolare, se-
condo il celeberrimo testo di LG 23a:
«I Vescovi [...] sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro
Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali
[...] esiste la sola e unica Chiesa cattolica».

È proprio l’appartenenza del vescovo diocesano al Collegio epi-


scopale come suo membro; è proprio l’appartenenza alla Chiesa par-
ticolare in un luogo degli elementi costitutivi della Chiesa (annuncio
della Parola, celebrazione dei sacramenti e presidenza ministeriale)
che esigono nel vescovo diocesano la “pienezza” della potestà, senza
la quale non risalterebbe la Chiesa in quel luogo.
Ma, allo stesso tempo, la Chiesa particolare mostra la sua dimen-
sione universale nella chiara affermazione e concretizzazione dei “li-
miti” della potestà del vescovo diocesano entro la medesima. In que-
sto si manifesta la composizione delle Chiese particolari nel formare
la Chiesa universale, secondo il medesimo celeberrimo passo citato
sopra:
«I Vescovi [...] sono il principio visibile e il fondamento dell’unità delle loro
Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, [...] a partire
dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica» (LG 23a).

23
Cf AAS 79 (1987) 1249. La risposta fu data dalla Plenaria del 26 maggio 1987, confermata dal Pontefi-
ce il 20 giugno 1987 e promulgata il 3 settembre 1987.
24
Nel commento alla interpretazione in merito alla forma canonica del matrimonio, Fr. J. URRUTIA nota
che la riserva di cui al can. 87 § 1 possa essere sia esplicita sia implicita, ancorché sempre espressa (cf
Alcune riflessioni sull’omnis potestas del vescovo diocesano 33

Sarebbe ben lontano dalla dottrina e dallo spirito del concilio Va-
ticano II porre un’alternativa o un conflitto fra “pienezza” della potestà
(dei vescovi) e riserva (pontificia). Quest’ultima non si aggiunge dal-
l’esterno come una limitazione che subentra a una pienezza nativa 25.
La compresenza di “pienezza” e di limiti risponde piuttosto alla
dinamica stessa della comunione ecclesiale, che è comunione gerar-
chica 26.
È significativa, a questo riguardo, una qualche contraddizione
emersa nello stesso svolgimento del concilio Vaticano II.
Da un lato i Padri conciliari, nell’affermazione della collegialità
episcopale, si accorsero di potervi desumere una rivalutazione del-
l’ufficio episcopale e della sua potestà.
Dall’altro dovettero ben presto accorgersi che la collegialità epi-
scopale, nella sua strutturazione, richiedeva limitazioni alla potestà
dello stesso ufficio episcopale.
È stato il caso delle Conferenze episcopali.
Un vescovo delle Canarie affermò tutta la sua meraviglia che
«nel Concilio Vaticano II, considerato il concilio dell’esaltazione e della glori-
ficazione dei vescovi [sic!], si istituisca un certo organo giuridico, finora mai
visto [scil. le Conferenze episcopali], il cui scopo sia quello di limitare la po-
testà e restringere la libertà dei vescovi» (AS II/V, 79).

E lo stesso relatore monsignor Carli dovette riconoscere che


nessun Padre conciliare
«era pronto ad ammettere in casa propria le limitazioni all’autorità episcopa-
le richieste dalla collegialità: neppure quei Padri che con tanto grande facon-
dia si sono sentiti in aula parlare di collegialità e delle sue conseguenze in
casa di altri» (AS II/V, 73).

Periodica 74 [1985] 628). Si potrebbe pure appellare a una riserva ex natura rei, cioè richiesta dalla na-
tura stessa della potestà. Quest’ultima, benché non prevista esplicitamente dal testo codiciale, potrebbe
essere letta nel “diritto” di cui al can. 381 § 1. Certo, in qualsiasi soluzione vien meno la certezza della
delimitazione della competenza, che si può considerare tra i fini principali intesi dalla normativa in og-
getto.
25
Cf L.M. CARLI, Ufficio pastorale dei Vescovi, Leumann (Torino) 1967, pp. 225-227.
26
PAOLO VI, nel motu proprio De Episcoporum muneribus (15 giugno 1966), richiama a proposito della
riserva il concetto di comunione gerarchica così come spiegato dalla Nota Explicativa Praevia: «Questa
potestà [...] comporta certi compiti da esercitarsi da molti Vescovi che operano unanimemente per vo-
lontà di Cristo nel suo corpo mistico, secondo l’ordine della gerarchia. Pertanto questa potestà si attua
quando accede “la determinazione canonica, ossia giuridica, per opera dell’autorità gerarchica”, che
viene concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità della Chiesa» (cf introductio).
34 G. Paolo Montini

Ciò dimostra con forza e inequivocabilmente come l’ufficio epi-


scopale richieda intrinsecamente e contemporaneamente “pienez-
za” di potestà e limitazione della stessa, in quanto ufficio da eser-
citare nella comunione gerarchica, che è corrispondente alla co-
stituzione della Chiesa, universale e particolare a un tempo.

G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia
35

Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 35-57
I presbiteri “fidei donum”
speciale manifestazione della comunione
delle Chiese particolari tra loro
e con la Chiesa universale
di Pierantonio Pavanello

Introduzione
Nel 1957 Papa Pio XII nell’Enciclica Fidei donum dedicata alle
«condizioni presenti delle missioni cattoliche» esortava i vescovi a
mettere a disposizione delle giovani Chiese d’Africa alcuni dei loro
sacerdoti per un certo periodo di tempo 1. Da questo appello del Pon-
tefice è derivato l’uso di definire fidei donum quei presbiteri che, per
mandato del loro vescovo, prestano, per un tempo determinato, il lo-
ro ministero in una Chiesa particolare diversa da quella in cui sono
incardinati. Questa esperienza, iniziata sul finire degli anni ’40 (quin-
di già prima dell’Enciclica Fidei donum) e sviluppatasi grandemente
negli ultimi decenni, manifesta in un modo tutto speciale il vincolo di
comunione che lega le Chiese particolari tra loro e con la Chiesa
universale. Il ministero dei presbiteri fidei donum infatti si è rivelato
di grande utilità per far crescere la coscienza dell’universalità della
Chiesa e dei legami che intercorrono tra le Chiese particolari. Infatti
come ha affermato Giovanni Paolo II
«la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa universale raggiunge la
sua perfezione solo quando anch’esse prendono parte all’impegno missiona-
rio in favore dei non cristiani, dentro e fuori dei propri confini. In questo stu-

1
«Un’altra forma di aiuto scambievole, certo di più grave incomodo, è adottata da alcuni Vescovi, che
autorizzano l’uno o l’altro dei loro sacerdoti, sia pure a prezzo di sacrifici, a partire per mettersi, per un
certo limite di tempo, a disposizione degli Ordinari di Africa. Così facendo, rendono loro un impareg-
giabile servizio, sia per assicurare l’introduzione, saggia e discreta, di forme nuove e più specializzate
nel ministero sacerdotale, sia per sostituire il clero di dette diocesi nelle mansioni dell’insegnamento,
ecclesiastico e profano, cui quello non può più far fronte. Volentieri incoraggiamo siffatte iniziative ge-
nerose e opportune; preparate e messe in atto con prudenza esse possono portare una soluzione pre-
ziosa in un periodo difficile, ma pieno di speranza per il cattolicesimo africano» (PIO XII, Lettera Enci-
clica Fidei donum, in AAS 49 [1957] 236-237).
36 Pierantonio Pavanello

pendo dinamismo missionario, i presbiteri hanno necessariamente un posto


di rilievo. Ciò tanto più vale per quelli operanti nei territori di missione, dove
è in atto l’evangelizzazione dei non cristiani» 2.

Nell’ambito della normativa canonica il diffondersi di questa e-


sperienza ha portato da un lato a ripensare in termini nuovi il signifi-
cato dell’incardinazione dei ministri sacri a una determinata Chiesa
particolare, dall’altro ha dato origine al nuovo istituto giuridico della
licentia transmigrandi per fornire una cornice giuridica alla situazio-
ne del presbitero, che viene inviato a prestare il suo ministero in una
diocesi diversa da quella di incardinazione. Una corretta interpreta-
zione del can. 271, che codifica la possibilità per i presbiteri diocesa-
ni di un servizio temporaneo presso un’altra Chiesa particolare, do-
vrà tener presente non soltanto il concreto sviluppo storico dell’espe-
rienza dei fidei donum, ma anche la nuova coscienza ecclesiologica
che attraverso di essa è maturata.

Cenni storici

a) I precedenti remoti
La partecipazione di presbiteri diocesani all’attività missionaria
non è una novità dei nostri tempi ma ha precedenti importanti nella
storia della Chiesa, basti solo pensare ai preti diocesani che nel ’500
parteciparono all’evangelizzazione delle Americhe 3 o alla fondazione
nel 1664 a Parigi del collegio Missions étrangères de Paris (Mep) che
aveva lo scopo di formare dei preti diocesani che si dedicassero alle
missioni senza farsi religiosi.
Nel corso del 1800 particolarmente vivo fu il desiderio delle
Chiese particolari di partecipare all’opera missionaria. Ne sono se-
gni evidenti gli istituti missionari (talvolta nella forma di istituti reli-
giosi, talora invece di società di vita comune) fondati proprio con

2
GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Plenaria della Congregazione dell’Evangelizzazione dei Popoli 14
aprile 1989, in AAS 81 (1989) 1139.
3
«La partecipazione delle diocesi all’attività missionaria “diretta” comincia a realizzarsi già nei primi
decenni del ’500 con l’evangelizzazione delle Americhe, verso cui partivano, ogni due anni, dei preti
diocesani inseriti, già agli inizi del Seicento, nella vita pastorale, con la conseguenza che i religiosi era-
no spinti a ritirarsi nelle periferie delle città o a spostarsi verso i pagani dell’entroterra. Restano emble-
matiche le vicende legate al vescovo di Puebla J. De Palafox y Mendoza (1600-1659) e alla sua lettera
pastorale Venerable congregación de san Pedro, dove i sacerdoti diocesani erano presentati come appar-
tenenti all’ordine di Pietro e superiori ai missionari religiosi» (G. BUTTURINI, La cooperazione tra le chie-
se: tappe evolutive di un processo in corso, in Credere oggi 14/79 [1994] 12).
I presbiteri “fidei donum” 37

questo scopo: in Italia basti pensare al PIME, nella cui carta di fon-
dazione si afferma che è compito della Chiesa particolare collabora-
re con il Papa per l’evangelizzazione dei popoli, o all’Istituto Missioni
Estere (Saveriani) fondato da monsignor Conforti, vescovo di Par-
ma, che ne fu superiore generale fino alla morte. In vari paesi del
mondo, poi, sorsero a iniziativa di singoli vescovi o dell’intero episco-
pato di una nazione, seminari per preparare sacerdoti per le Chiese
di missione o povere di clero, come il Collegio per l’America del
Nord di Lovanio fondato nel 1857, sul cui esempio nel 1952 verrà
istituito sempre a Lovanio il Collegio per l’America Latina, e l’All
Hallows’ College di Dublino nato per la formazione di preti irlandesi
da inviare nelle Chiese anglofone dell’America settentrionale e del-
l’Australia. Comune a tutte queste iniziative era però la convinzione
che i presbiteri diocesani in quanto tali non potevano partecipare al-
la missione ad gentes: pertanto non restava loro altra possibilità che
entrare in un istituto missionario o chiedere l’incardinazione in una
diocesi di missione 4.

b) Dal 1948 al Concilio 5


Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale da parte di
singoli vescovi o di interi episcopati fu promossa una nuova espe-
rienza in ambito missionario: l’invio di presbiteri diocesani ad altre
Chiese particolari per un servizio temporaneo. Si trattava di iniziati-
ve del tutto nuove rispetto alle vie tradizionali dell’impegno missio-
nario, quali la promozione delle vocazioni missionarie, l’esortazione
alla preghiera e la raccolta di aiuti materiali:
«Non è più il gesto isolato di un vescovo disposto ad accogliere le sollecita-
zioni di un suo sacerdote, che sente più imperiosa la vocazione missionaria

4
Per dare un’idea della mentalità prevalente nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale può
essere utile ricordare un episodio riferito all’autore da un anziano missionario. All’inizio degli anni ’30
in una diocesi del Nord Italia fu sufficiente che un gruppo di seminaristi, giunti alla fine del liceo, mani-
festasse l’intenzione di abbracciare la vita missionaria, perché fossero dimessi dal Seminario diocesano
prima ancora della fine dell’anno scolastico. Il vescovo riteneva infatti di aver adempiuto al suo impe-
gno verso le missioni favorendo l’apertura in diocesi di un seminario di un istituto missionario e consi-
derava la vocazione missionaria dei suoi seminaristi in contraddizione con l’appartenenza al seminario
diocesano.
5
Per un bilancio dell’esperienza dei preti fidei donum nel secondo dopoguerra fino al tempo del Conci-
lio cf F. CAVALLI, Solidarietà cattolica per la ripresa religiosa nell’America Latina, in La Civiltà Cattolica
111/IV (1960) 379-383, ID., Clero diocesano dell’Europa e dell’America Settentrionale al servizio della
Chiesa nell’America Latina, ibid., 115/IV (1964) 124-137; ID., Caratteristiche e valori del servizio tem-
poraneo del clero diocesano estero nell’America Latina, ibid., 446-459.
38 Pierantonio Pavanello

comune anche al clero secolare. Ora sono vescovi e gerarchie di intere na-
zioni a impegnarsi per il bene della Chiesa oltre i confini delle comunità a es-
si affidate, non già col non opporsi all’aspirazione sporadica di qualcuno dei
loro sacerdoti, ma in più con lo stimolare la generosità di altri e con l’adope-
rarsi perché essa sia soddisfatta in un piano organico nel quale il contributo
dei singoli sia meglio valorizzato. È in fondo porre su un piano missionario
tutta una diocesi o tutta la Chiesa di un paese, non più con l’attività indiretta
finora svolta, bensì con la partecipazione personale di un gruppo di sacerdo-
ti, là dove i bisogni della Chiesa universale sono più urgenti» 6.

Le prime esperienze riguardano l’invio di preti diocesani spagno-


li in America Latina: non vi è dubbio che fu proprio l’impegno delle
Chiese europee e nordamericane a sostegno delle immense necessità
spirituali del Sudamerica ad aprire la strada per un servizio tempora-
neo dei preti diocesani in missione. Fu proprio a partire da questa
esperienza che dopo il Concilio il servizio dei fidei donum si è esteso a
una dimensione universale. Già nel 1928 trentacinque sacerdoti della
diocesi di Vitoria si erano dichiarati disponibili a partire per un terri-
torio di missione ma continuando ad appartenere al clero della dioce-
si. La guerra civile spagnola impedì che la proposta diventasse realtà.
Nel 1946 la S. Sede invitò il vescovo di quella diocesi a indirizzare i
preti, che desideravano andare in missione, verso l’America Latina, in-
dicando anche il vicariato apostolico di Los Rios in Ecuador quale am-
bito del loro ministero. Nell’ottobre del 1948 i primi sacerdoti diocesa-
ni di Vitoria raggiunsero il campo del loro nuovo apostolato. Successi-
vamente per garantire il carattere diocesano di questa iniziativa,
venne costituita l’Obra de las diócesis vascongadas (Opera delle diocesi
basche: con Vitoria anche S. Sebastiano e Bilbao, le nuove diocesi che
si erano staccate nel frattempo da Vitoria). Da notare lo stile di vita
dei preti diocesani inviati in missione, caratterizzato dalla vita comune
intesa in senso più ampio che non la semplice coabitazione o la condi-
visione dell’impegno di apostolato e sottoposta alla vigilanza di un su-
periore dell’Opera. L’apostolato dei preti baschi in missione era soste-
nuto da una specifica spiritualità allo stesso tempo missionaria e dio-
cesana. Importante il collegamento con le diocesi di origine che si
impegnavano ad accompagnare la missione dei loro preti in molteplici
forme. Collaboratori e collaboratrici laici prestavano il loro servizio
accanto ai presbiteri e un gran numero di fedeli si impegnò a una for-
ma di autotassazione per sostenere economicamente l’opera.

6
ID., Solidarietà cattolica..., cit., p. 381.
I presbiteri “fidei donum” 39

Quasi contemporaneamente in Spagna prendeva forma un più


vasto progetto di collaborazione con le chiese latinoamericane: nel
novembre del 1948 la Conferenza dei metropoliti decise di costituire
l’Obra de cooperación sacerdotal hispanoamericana (O.C.S.H.A.) con
lo scopo di preparare e inviare preti diocesani spagnoli in America
Latina. Scopo dell’O.C.S.H.A. fu quello di unire in un’unica opera na-
zionale i sacerdoti spagnoli disponibili a offrire il loro ministero in
America Latina per un periodo limitato di tempo (almeno un quin-
quennio). Successivamente si affiancò all’Opera sacerdotale anche
un’organizzazione che coordinava i cooperatori laici, denominata
Obra de cooperación seglar hispanoamericana (O.C.A.S.H.A.).
Nel 1952 i vescovi del Belgio, su sollecitazione del cardinal Piz-
zardo, Prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari, istituirono a
Lovanio il Collegium pro America Latina, con la finalità di formare
dei preti diocesani, che, pur rimanendo incardinati nelle loro diocesi
di origine, si impegnavano a svolgere per un periodo determinato di
tempo il loro ministero in America Latina. Il Collegio provvedeva a
seguire gli alunni nel loro inserimento missionario in collaborazione
con i vescovi delle diocesi di origine e di destinazione.
Altri episcopati europei nel corso degli anni ’50 si fecero promo-
tori di iniziative di sostegno alle chiese latinoamericane mettendo a
disposizione dei preti diocesani. Così nel 1953 a un gruppo di sacer-
doti secolari, appartenenti a tutte le diocesi svizzere, fu affidato un
intero vicariato foraneo nella diocesi di Popayan in Colombia. La
conferenza episcopale tedesca nel 1957 decise di mandare sacerdoti
diocesani tedeschi in Bolivia.
La promettente esperienza maturata in rapporto all’America La-
tina spiega pertanto anche l’appello di Pio XII per l’invio di preti dio-
cesani in Africa, contenuto nell’Enciclica Fidei donum. Va sottolineato
come questo invito si collochi all’interno della riflessione sulla re-
sponsabilità dei singoli vescovi per la missione apostolica della Chie-
sa universale:
«Senza alcun dubbio al solo apostolo Pietro e ai suoi successori, i romani
pontefici, Gesù ha affidato la totalità del suo gregge: Pasce agnos meos, pasce
oves meas (Gv 21, 16-18); ma, se ogni vescovo è pastore proprio soltanto del-
la porzione del gregge affidata alle sue cure, la sua qualità di legittimo suc-
cessore degli apostoli per istituzione divina lo rende solidalmente responsa-
bile della missione apostolica della Chiesa» 7.

7
PIO XII, Lettera Enciclica Fidei donum, in AAS 49 (1957) 245-246.
40 Pierantonio Pavanello

Non meraviglia pertanto che durante il pontificato di Giovan-


ni XXIII la S. Sede abbia ripetutamente sollecitato l’invio di preti dio-
cesani in America Latina. Su questo tema nell’ultimo anno di vita del
Pontefice si registrarono ben sei lettere pontificie (agli episcopati del-
la Spagna, dell’Italia, dell’Olanda, del Belgio, del Canada e degli Stati
Uniti). Ciò che caratterizza questa fase è la tendenza a coordinare il
trasferimento di preti diocesani alle Chiese che ne hanno bisogno at-
traverso organismi nazionali, che collaborano con la Commissione
per l’America Latina costituita presso la Congregazione dei vescovi e
con il CELAM (Consiglio Episcopale Latino Americano). Sorsero così
vari organismi episcopali: in Canada nel 1959 la Commission Épisco-
pale Canada-Amérique Latine (CECAL); negli Stati Uniti nello stesso
anno il Bishop’s Committee for Latin America; in Francia nel 1962 la
Section d’entraide pour l’Amérique Latine del Comité Épiscopal Fran-
çais pour les missions à l’extérieur; in Italia nel 1963 la Commissione
Episcopale Italiana per l’America Latina (CEIAL). È evidente l’impe-
gno delle varie Chiese nazionali di sottrarre questa nuova forma di
cooperazione missionaria alle preferenze individuali inserendola inve-
ce in un disegno organico e stabilendo linee comuni per quanto ri-
guarda la scelta dei presbiteri da destinare alla missione, la loro speci-
fica preparazione, la durata e le modalità del loro servizio missionario.

c) Il Concilio
L’invio di preti diocesani in America Latina e in Africa aveva
creato una nuova coscienza dell’universalità della Chiesa e del rap-
porto che intercorre tra le Chiese particolari. Questa nuova consape-
volezza, maturata non solo attraverso la ricerca teologica, ma da con-
crete esperienze di cooperazione tra le chiese, non poteva non trova-
re espressione al Concilio. Tralasciando le tematiche più generali, ci
fermiamo a sottolineare alcune affermazioni conciliari relative al no-
stro tema.
Nel Decreto Christus Dominus nel contesto della partecipazione
dei vescovi alla sollecitudine per tutte le chiese si parla dei loro dove-
ri in relazione alla missione ad gentes e si raccomanda loro di mette-
re a disposizione della missione alcuni dei loro preti:
«Si studino inoltre di preparare degni sacerdoti e ausiliari sia religiosi, sia
laici, non solo per le missioni, ma anche per le regioni che hanno scarsezza
di clero. Facciano anche ogni possibile sforzo perché alcuni dei loro sacer-
doti si rechino o in terra di missione o nelle diocesi predette a esercitarvi il
I presbiteri “fidei donum” 41

ministero per tutta la loro vita o almeno per un determinato periodo di tem-
po» (n. 6).

La dimensione universale del ministero presbiterale è afferma-


ta con particolare forza dal Decreto Presbyterorum ordinis:
«Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li pre-
para a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale
missione di salvezza “fino agli ultimi confini della terra” (At 1, 8), dato che
qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale
della missione affidata da Cristo agli apostoli. Infatti il sacerdozio di Cristo,
di cui i presbiteri sono resi realmente partecipi, si dirige necessariamente a
tutti i popoli e a tutti i tempi, né può subire limite alcuno di stirpe, nazione o
età, come già veniva prefigurato in modo arcano con Melchisedech. Ricordi-
no quindi i presbiteri che a loro incombe la sollecitudine di tutte le chiese»
(n. 10).

La conseguenza pratica di questa affermazione è immediata:


«Pertanto, i presbiteri di quelle diocesi che hanno maggior abbondanza di
vocazioni, si mostrino disposti a esercitare volentieri il proprio ministero,
previo il consenso o l’invito del proprio ordinario, in quelle regioni, missioni
o opere che soffrano di scarsezza di clero».

Si raccomanda inoltre una revisione dell’istituto dell’incardina-


zione, in modo che possa venire incontro alle esigenze di ridistribu-
zione del clero.
Il contesto del n. 10 del Decreto è la «distribuzione dei presbite-
ri e vocazioni sacerdotali»: ciò spiega come l’accento cada più sulla
risposta da dare alla scarsità di clero che sulla cooperazione tra le
chiese. È un’accentuazione, che come avremo modo di notare anche
più avanti, rischia di far perdere di vista il significato ecclesiologico
più ampio del servizio temporaneo dei preti diocesani fuori della dio-
cesi di incardinazione.
Nel Decreto Ad gentes si tratta del ministero fidei donum all’in-
terno del capitolo IV dedicato alla cooperazione e più precisamente
nell’ambito del dovere missionario dei vescovi:
«E poiché si fa ogni giorno più urgente la necessità di operai nella vigna del
Signore, e i sacerdoti diocesani desiderano avere anch’essi un ruolo sempre
più importante nell’evangelizzazione del mondo, il santo concilio auspica
che i vescovi, considerando la gravissima scarsezza di sacerdoti, che impedi-
sce l’evangelizzazione di molte regioni, mandino debitamente preparati, al-
cuni dei loro migliori sacerdoti, perché si consacrino all’opera missionaria,
alle diocesi mancanti di clero, dove almeno per un certo periodo eserciteran-
no con spirito di servizio il ministero missionario» (n. 38).
42 Pierantonio Pavanello

Viene affidato alle Conferenze episcopali il compito di regolare


tutte le questioni relative alla cooperazione missionaria, con partico-
lare riguardo ai «sacerdoti diocesani da consacrare all’evangelizza-
zione delle genti».
Infine nel Decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius
si raccomanda che nei seminari gli alunni
«siano penetrati di quello spirito veramente cattolico, che li abitui a guardare
oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, e andare incontro alle ne-
cessità della Chiesa intera, pronti nel loro animo a predicare dovunque il
vangelo» (n. 20).

d) Dal Motu proprio Ecclesiae sanctae


alle Note direttive Postquam apostoli
Il 6 agosto 1966 Paolo VI con il Motu proprio Ecclesiae Sanctae 8
promulgò una serie di norme per l’applicazione dei Decreti conciliari
Christus Dominus, Presbyterorum ordinis, Perfectae caritatis, Ad gen-
tes. Le norme contenute nel M.P. erano proposte ad experimentum,
in attesa della conclusione dell’opera di revisione del Codice. Le
Conferenze episcopali erano invitate a comunicare osservazioni e
proposte derivate dalla loro attuazione pratica, in vista della loro re-
dazione definitiva all’interno del nuovo Codice. Può essere interes-
sante notare come le norme riguardanti il servizio dei preti diocesa-
ni fuori della loro diocesi di incardinazione si trovano nella prima
parte, dedicata all’applicazione dei Decreti Christus Dominus e Pre-
sbyterorum ordinis e non nella parte terza dedicata all’applicazione
del Decreto Ad gentes.
I nn. 1-3 del M.P. sotto il titolo «Ripartizione del clero e aiuti da
fornirsi alle diocesi» presentano una serie dettagliata di norme per
rendere esecutivo quanto stabilito da Presbyterorum ordinis 10 e Chri-
stus Dominus 6. Si prevede innanzitutto l’istituzione presso la S. Sede
di «uno speciale consiglio con il compito di stabilire i principi con cui
la distribuzione del clero sia resa più adatta alle necessità delle varie
chiese» 9. Analogo organismo viene proposto all’interno di ogni Con-

8
Cf EV 2, nn. 752-913. Per una valutazione di questo documento dal punto vista dell’attività missiona-
ria cf J. GRECO, La dinamica missionaria del motu proprio “Ecclesiae sanctae”, in La Civiltà Cattolica
118/II (1967) 552-562. Per l’applicazione delle norme relative al passaggio di sacerdoti da una diocesi
all’altra cf CONGREGAZIONE DEI VESCOVI, Norme Litterae apostolicae 29 giugno 1974, in EV 5, nn. 553-562.
9
M.P. Ecclesiae sanctae n. 1 (EV 2, n. 757). Il Consiglio fu poi istituito dalla Costituzione apostolica Re-
gimini Ecclesiae Universae con sede presso la Congregazione del Clero (n. 68 § 2; cf EV 2, n. 1608).
I presbiteri “fidei donum” 43

ferenza episcopale per realizzare una migliore distribuzione del cle-


ro sia all’interno del proprio territorio sia in relazione ad altre regio-
ni. Di particolare importanza per il nostro tema è il n. 3 dove per la
prima volta si parla di licentia emigrandi 10 e di una nuova forma di
incardinazione ipso iure per il chierico che si sia trasferito legittima-
mente dalla propria diocesi a un’altra da almeno cinque anni, quando
abbia manifestato per iscritto tale volontà ai due ordinari e entro
quattro mesi non abbia ricevuto da nessuno dei due un parere con-
trario. Completa questa normativa la raccomandazione che nella for-
mazione seminaristica gli alunni siano preparati non solo al servizio
della loro Chiesa particolare, ma anche di quelle Chiese che abbia-
mo particolare scarsità di clero.
Un momento di particolare importanza per l’approfondimento
del nostro tema nel periodo postconciliare è dato dal Congresso in-
ternazionale sulla distribuzione del clero promosso dalla Sacra Con-
gregazione per il Clero, che si svolse a Malta dal 24 al 28 maggio
1970 11. Tra gli argomenti trattati vi fu la creazione di strutture eccle-
siastiche a carattere misto territoriale-personale per venire incontro
alla scarsità di clero in determinate regioni e per specifici ambiti mi-
nisteriali. Nella prospettiva della revisione del Codice si prospettò
l’opportunità di mutare il titolo di ordinazione: i presbiteri dovevano
essere ordinati non più con il titolo del servitium dioecesis, ma con
quello del servitium ecclesiae, per sottolineare la dimensione univer-
sale del ministero presbiterale e la disponibilità a esercitarlo anche
al di là dei confini della propria Chiesa particolare. Per quanto ri-

Nella Costituzione apostolica Pastor bonus non si parla più di questo consiglio, ma tra i compiti della
Congregazione per il clero viene indicato anche quello di «provvedere a una più adeguata distribuzione
dei presbiteri» (art. 95 § 2; cf EV 11, n. 927). Per adempiere a questo compito la Congregazione per il
Clero si serve di un’apposita commissione interdicasteriale che si propone di promuovere lo scambio
di preti tra diocesi, e in particolare di preti preparati per lavorare alla formazione nei seminari.
10
«§ 2. Fuori del caso di vera necessità della propria diocesi, gli ordinari non neghino il permesso di
emigrazione ai chierici che conoscano preparati e che stimano adatti a esercitare il sacro ministero nel-
le regioni che soffrono per la penuria di clero; curino però, attraverso una convenzione scritta con l’or-
dinario del luogo di arrivo, che siano definiti i diritti e i doveri dei loro chierici.
§ 3. Parimenti gli stessi ordinari s’interessino affinché i chierici, che dalla propria diocesi intendono re-
carsi in quella di un’altra nazione, siano adeguatamente preparati per esercitare in quel luogo il sacro
ministero, cioè che acquistino conoscenza degli istituti, delle condizioni sociali, della lingua di quella
regione, nonché degli usi e delle abitudini di quegli abitanti.
§ 4. Gli ordinari possono concedere ai loro chierici il permesso di passare a un’altra diocesi per un tem-
po determinato, magari rinnovabile più volte, ma a condizione che gli stessi chierici restino incardinati
alla propria diocesi e che ritornandovi godano di tutti i diritti e doveri che avrebbero se vi fossero stati
impegnati nel sacro ministero» (EV 2, nn. 760-762).
11
Un’ampia relazione dei lavori di questo congresso si può leggere in F. ROMITA, La distribuzione del
clero. Il mondo è la mia parrocchia, in Monitor Ecclesiasticus 95 (1970) 361-401.
44 Pierantonio Pavanello

guarda il tema dei fidei donum di grande interesse si presenta la re-


lazione dell’allora monsignor Etchegaray, a quel tempo Segretario
della Conferenza Episcopale Francese: a suo avviso i discutibili risul-
tati dei missionari isolati partiti per l’Africa dopo l’appello della Fidei
donum di Pio XII avevano fatto toccare con mano che la missione non
è mai opera isolata di una persona (il missionario) o di una categoria
di persone (il clero), ma di tutto il Popolo di Dio, sia quello da cui pro-
viene che quello a cui è inviato. Pertanto il presbitero che lascia ad
tempus o anche per sempre la diocesi di origine per andare a svolge-
re in una diocesi carente di clero il proprio ministero, deve essere ac-
compagnato dalla Chiesa da cui proviene sia da un punto di vista spi-
rituale che materiale. Una particolare attenzione veniva posta da
monsignor Etchegaray sul rientro dei presbiteri al termine del perio-
do stabilito per la missione ad gentes e ai problemi a esso connessi.
I risultati del Congresso internazionale di Malta e un’ampia con-
sultazione delle Conferenze episcopali portarono alla pubblicazione
da parte della Congregazione del Clero del documento «Note diretti-
ve Postquam apostoli per promuovere una reciproca cooperazione tra
le chiese particolari e una più adeguata distribuzione del clero nel
mondo» del 25 marzo 1980 12. Come si evince dal titolo stesso del do-
cumento, la preoccupazione per una più adeguata distribuzione del
clero viene collocata nel più vasto contesto della cooperazione tra le
Chiese particolari. Ogni Chiesa particolare, infatti, «non può chiuder-
si in se stessa, ma, come parte viva della Chiesa universale, deve
aprirsi alle necessità delle altre chiese» 13. Di particolare interesse è il
significato di reciprocità che viene attribuito a questa cooperazione:
«Parlando di questo argomento, si usano sovente espressioni, come quelle
di “diocesi ricche” o “diocesi povere”; espressioni che potrebbero indurre in
errore, come se una Chiesa dia soltanto aiuto, e l’altra soltanto lo riceva. In-
vece la questione sta in altri termini: si tratta, infatti, di una scambievole col-
laborazione, perché esiste una vera reciprocità tra le due chiese, in quanto la
povertà di una Chiesa che riceve aiuto, rende più ricca la Chiesa che si priva
nel donare, e lo fa sia rendendo più vigoroso lo zelo apostolico della comu-
nità più ricca, sia soprattutto comunicando le sue esperienze pastorali, che
spesso sono utilissime e possono riguardare un metodo più semplice ma più
efficace di lavoro pastorale o gli ausiliari laici nell’apostolato, o le piccole co-
munità, ecc.» 14.

12
Cf EV 7, nn. 234-287.
13
Note direttive Postquam apostoli n. 14 (cf EV/VII 260).
14
Ibid., n. 15 (cf EV 7, n. 261).
I presbiteri “fidei donum” 45

La parte sesta di Postquam apostoli (cf nn. 23-24) riguarda i «mi-


nistri sacri inviati in altre diocesi». Dopo aver premesso che per svol-
gere il ministero in una diocesi diversa da quella di incardinazione è
necessaria una speciale vocazione, vengono indicate le doti umane e
spirituali richieste in chi si rende disponibile per tale ministero. Inol-
tre è necessaria una preparazione adeguata sia in ordine alla forma-
zione umana e spirituale che dal punto di vista della conoscenza del-
la situazione religiosa e socioculturale. Indicazioni dettagliate vengo-
no date poi per la convenzione tra il vescovo a quo e il vescovo ad
quem, in cui devono essere definiti i diritti e i doveri dei presbiteri
che passano a esercitare il ministero dall’una all’altra diocesi. Tale
convenzione dovrà trattare della durata del servizio, delle mansioni
che verranno affidate al presbitero, del luogo in cui verranno eserci-
tate, delle assicurazioni sociali per malattia, invalidità e vecchiaia, dei
periodici rientri in patria. Per quanto riguarda l’inserimento dei pre-
sbiteri nel clero della nuova diocesi, essi
«devono inserirsi nella comunità locale come se fossero membri nativi di
quella Chiesa particolare; il che richiede una disponibilità di animo non co-
mune e un profondo spirito di servizio, astenendosi dall’esprimere giudizi e
critiche sulla Chiesa locale» 15.

Il ritorno in patria dei fidei donum esige di essere preparato,


prevedendo, prima dell’assunzione di nuovi incarichi, un periodo di
tempo adeguato alla nuova situazione. Va valorizzato il contributo
che la loro esperienza apporta nella diocesi di origine. Viene infine
presa in considerazione la possibilità che, scaduto il tempo previsto
per il servizio fidei donum, un presbitero desideri dedicarsi a esso
per il resto della vita. In questo caso potrà chiedere l’incardinazione
nella nuova diocesi, usufruendo della nuova forma di incardinazione
introdotta dal M.P. Ecclesiae sanctae I, 3 § 5.

e) Interventi recenti del Magistero


Dopo le Note direttive Postquam apostoli, che rimangono il do-
cumento più organico sul nostro tema, vanno registrati alcuni inter-
venti magisteriali che hanno precisato specifici aspetti del ministero
dei fidei donum. Tralasciando per il momento il Codice di diritto ca-

15
Ibid., n. 29 (cf. EV 7, n. 283).
46 Pierantonio Pavanello

nonico, va ricordato il Messaggio per la Giornata Missionaria del


1982 16. Prendendo spunto dal XXV dell’Enciclica Fidei donum, Gio-
vanni Paolo II, dopo aver richiamato la responsabilità dei vescovi per
l’opera di evangelizzazione in quanto ogni Chiesa particolare «deve
promuovere tutta l’attività che è comune alla Chiesa universale» 17,
indica l’invio di sacerdoti diocesani in missione come una delle for-
me attraverso le quali i vescovi potranno realizzare la loro corre-
sponsabilità nell’opera dell’evangelizzazione. Nel tracciare il bilancio
dei venticinque anni dell’esperienza fidei donum il Papa, riprendendo
le Note direttive Postquam apostoli, insiste sul superamento del dua-
lismo «chiese ricche - chiese povere» e sulla reciprocità che deve ca-
ratterizzare questa forma di cooperazione «in quanto la povertà di
una Chiesa, che riceve aiuto, rende più ricca la Chiesa, che si priva
nel donare» 18.
Affermazioni significative si trovano anche nella Guida pastora-
le Le giovani Chiese per i sacerdoti dipendenti dalla Congregazione
dell’evangelizzazione dei popoli, pubblicata dalla medesima Congre-
gazione il 1° ottobre 1989 19. In particolare viene sottolineata l’impor-
tanza che anche nelle giovani Chiese vi siano presbiteri diocesani
che si mettono a disposizione per la missione 20.
L’Enciclica Redemptoris missio del 7 dicembre 1990 dedica i nn.
67-68 al compito dei «sacerdoti diocesani per la missione universa-
le». La validità dell’esperienza dei presbiteri fidei donum viene così
sintetizzata: essi
«evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le chiese, danno
un prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre
attingono da esse freschezza e vitalità di fede» 21.

Il ministero fidei donum viene presentato alla luce di una visio-


ne rinnovata dell’istituto dell’incardinazione sia nell’Esortazione apo-
stolica postsinodale Pastores dabo vobis del 25 marzo1992 22 che nel

16
Cf Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 (1982) 1876-1883.
17
Ibid., 1878.
18
Ibid., 1881.
19
Cf EV 11, nn. 2459-2650 (sullo stesso tema cf GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione alla Plenaria nella Con-
gregazione dell’Evangelizzazione dei Popoli 14 aprile 1989, in AAS 81 [1989] 1136-1141).
20
Ibid., n. 4 (in EV 11, n. 2513).
21
GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Redemptoris missio circa la validità del mandato missionario,
n. 68 (in EV 12, n. 680).
22
«In questo senso l’incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta
anche una serie di atteggiamenti e di scelte spirituali e pastorali, che contribuiscono a conferire una fi-
I presbiteri “fidei donum” 47

Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri 23. La dedicazione


del presbitero a una Chiesa particolare, che attraverso l’incardinazio-
ne assume una dimensione giuridica, non solo non si oppone, ma co-
stituisce il fondamento e la motivazione del ministero ad gentes del
presbitero diocesano:
«L’appartenenza, quindi, a una Chiesa particolare mediante l’incardinazione
non deve rinchiudere il sacerdote in una mentalità ristretta e particolaristica,
ma aprirlo al servizio anche di altre chiese, perché ogni Chiesa è la realizza-
zione particolare dell’unica Chiesa di Gesù Cristo, tanto che la Chiesa uni-
versale vive e compie la sua missione nelle e dalle chiese particolari in co-
munione effettiva con essa» 24.

Concludendo questo sguardo retrospettivo, sembra di poter af-


fermare che sempre più è andata crescendo all’interno della Chiesa
la consapevolezza del significato autentico del ministero fidei do-
num: esso non soltanto costituisce una risposta alla scarsità di clero
di cui soffrono vaste aree del mondo, ma rappresenta una modalità
di eccezionale valore per realizzare la comunione delle Chiese parti-
colari nella missione universale di evangelizzazione.

La «licentia transmigrandi» (can. 271)


La possibilità per i presbiteri diocesani (o meglio, in conformità
con la terminologia del Codice, per i ministri sacri o chierici) di eser-
citare il proprio ministero in una diocesi diversa da quella di incardi-
nazione è prevista dal can. 271 del Codice di diritto canonico 25, cano-

sionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero» (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica
Pastores dabo vobis n. 31 [EV 13, n. 1306]). «L’appartenenza e la dedicazione di un presbitero a una
Chiesa particolare non rinchiudono in essa l’attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto
esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare sia del ministero sacerdotale. [...] Se
questo spirito missionario animerà generosamente la vita dei sacerdoti, sarà facilitata la risposta a quel-
l’esigenza sempre più grave oggi nella Chiesa che nasce da una diseguale distribuzione del clero»
(ibid., n. 32 [EV 13, nn. 1311.1313]). «Il sacerdote deve maturare nella coscienza della comunione che
sussiste tra le diverse Chiese particolari, una comunione radicata nel loro stesso essere di Chiese che
vivono in loco la Chiesa unica e universale di Cristo. Una simile coscienza di comunione interecclesiale
favorirà la “scambio dei doni”, a cominciare dai doni vivi e personali, quali sono gli stessi sacerdoti. Di
qui la disponibilità, anzi l’impegno generoso per il realizzarsi di un’equa distribuzione del clero» (Ibid.,
n. 74 [EV 13, n. 1517]).
23
Cf n. 14.
24
L. cit.
25
Can 271: «§ 1. Al di fuori di una situazione di vera necessità per la propria Chiesa particolare, il Ve-
scovo diocesano non neghi la licenza di trasferirsi ai chierici che sappia preparati e ritenga idonei ad
andare in regioni afflitte da grave scarsità di clero, per esercitarvi il ministero sacro; provveda però che
mediante una convenzione scritta con il Vescovo diocesano del luogo a cui sono diretti, vengano defini-
ti i diritti e i doveri dei chierici in questione.
48 Pierantonio Pavanello

ne del tutto nuovo 26, in quanto la norma non ha precedenti nel Codi-
ce del 1917 e riprende, senza variazioni di rilievo, le disposizioni del
M.P. Ecclesiae sanctae.
La storia della redazione documenta come la norma del can.
271 sia stata fin dall’inizio strettamente legata all’istituto dell’incardi-
nazione. Tra i criteri per la revisione di tale istituto il coetus incarica-
to di questa materia indicava infatti già nel 1966 27 la necessità di dare
norme che permettano una migliore distribuzione del clero nel mon-
do e che provvedano alla situazione di quei presbiteri diocesani che
vengono inviati a esercitare il loro ministero in un’altra Chiesa che
soffre per la scarsità di clero. A tal fine si proponeva di inserire nel
testo codiciale i §§ 1 e 4 del M.P. Ecclesiae sanctae, riservandosi di
spostare al capitolo sulla formazione dei chierici i §§ 2 e 3, che di fat-
to poi diedero origine all’attuale can. 257.
Nelle fasi successive furono apportate solo modifiche marginali:
il termine emigrandi nel § 1 divenne transmigrandi; fu mutata la collo-
cazione (dopo i canoni sull’incardinazione e l’escardinazione, mentre
nel primo schema la norma sulla licentia transmigrandi si trovava do-
po l’attuale can. 268) 28. Il soggetto che concede la licenza non è più
l’ordinario come in Ecclesiae sanctae ma il vescovo diocesano, a sotto-
lineare che si tratta di un affare di grande importanza. La relazione,
che riassume le osservazioni pervenute dalla consultazione che pre-
cedette la Plenaria del 1981, segnala la richiesta di fare esplicita men-
zione dei compiti regionali o nazionali e degli incarichi di insegna-
mento negli istituti cattolici. La risposta fa osservare che il canone già
comprende tali casi 29.

§2. Il Vescovo diocesano può concedere ai suoi chierici la licenza di trasferirsi in un’altra Chiesa parti-
colare per un tempo determinato, rinnovabile anche più volte, in modo però che i chierici rimangano
incardinati nella propria Chiesa particolare e, se vi ritornano, godano di tutti i diritti che avrebbero se
avessero esercitato in essa il ministero sacro.
§ 3. Il chierico che è passato legittimamente a un’altra Chiesa particolare, rimanendo incardinato nella
propria Chiesa, per giusta causa può essere richiamato dal proprio Vescovo diocesano, purché siano ri-
spettate le convenzioni stipulate con l’altro Vescovo e l’equità naturale; ugualmente, alle stesse condi-
zioni, il Vescovo diocesano dell’altra Chiesa particolare, potrà, per giusta causa, negare al chierico la li-
cenza di un’ulteriore permanenza nel suo territorio».
26
La novità può essere compresa comparando l’attuale can. 271 con il can. 144 del Codice del 1917, in
cui nell’ambito dei diritti e doveri dei chierici si trattava della licenza di trasferirsi temporaneamente in
un’altra diocesi senza menzionare la finalità apostolica e missionaria.
27
Cf sessione del 24-28 ottobre (cf Communicationes 15 [1983] 158-159; 165-166).
28
Cf sessione del 9-14 aprile 1973 (cf Communicationes 24 [1992] 301.322) e sessione del 14 gennaio
1980 (cf Communicationes 14 [1982] 69).
29
Cf Communicationes 14 (1982) 168.
I presbiteri “fidei donum” 49

Da quanto è possibile conoscere dei lavori di revisione del Co-


dice la norma in questione non sembra essere stata oggetto di parti-
colari discussioni, in quanto la Commissione per la revisione del Co-
dice si limitò a recepire la legislazione postconciliare in materia. So-
prattutto non risulta sia stato discusso se la licenza di cui si parla in
questo canone costituisca un diritto soggettivo del chierico 30 o piut-
tosto si parli qui del dovere del vescovo di promuovere l’invio ad al-
tre chiese particolari di qualcuno dei suoi chierici, previo discerni-
mento della sua idoneità. Il tenore del § 1 («il Vescovo diocesano
non neghi la licenza di trasferirsi...») potrebbe far pensare che, qua-
lora non sussista il caso di necessità, non possa venir negata al chie-
rico, che risulti idoneo, la licenza richiesta. Di conseguenza quest’ul-
timo, in caso di rifiuto, potrebbe ricorrere in via amministrativa per
ottenere ugualmente la licenza.
Per rispondere a tale interrogativo dobbiamo innanzitutto con-
siderare la natura specifica della licentia transmigrandi, cogliendo
ciò che la distingue dall’escardinazione. Con quest’ultima il chierico
decide di dedicarsi a una Chiesa particolare diversa da quella in cui
è attualmente incardinato. Tale decisione muta profondamente il rap-
porto tra il chierico e la diocesi a quo. Nel caso della licentia trans-
migrandi, invece, tale legame rimane immutato. Il chierico, infatti,
conserva la sua incardinazione nella diocesi a quo con i relativi diritti
e doveri. Anzi, la disponibilità a esercitare il ministero in un’altra dio-
cesi non solo non contrasta, ma realizza in una modalità singolare la
sua dedicazione a quella determinata Chiesa particolare in cui è in-
cardinato. In questa direzione orientano le preziose indicazioni della
Pastores dabo vobis e del Direttorio per il ministero e la vita dei pre-
sbiteri che, come già rilevato, mettono in luce il significato autentico
dell’incardinazione che, lungi dal rinchiudere il ministero nell’oriz-
zonte ristretto di una Chiesa particolare, lo apre alla dimensione del-
la Chiesa universale. La dimensione universale del ministero, infatti,
non si attua contro la dedicazione a una Chiesa particolare o fuori di
essa, ma ne è una conseguenza. In questa prospettiva la licentia
transmigrandi non va vista come un’eccezione alla norma sull’incar-

30
Parla di un diritto del chierico che il vescovo non può negare J. RIBAS, Incardinación y distribución
del clero, Pamplona 1971, pp. 266 ss. (citato in J. LISTL - H. MÜLLER - H. SCHMITZ, Handbuch des Katholi-
schen Kirchenrechts, Regensburg 1983, p. 203, nota 23). Analogamente D. COMPOSTA nel commentario
della Pontificia Università Urbaniana afferma: «Per una equa ripartizione delle forze apostoliche il can.
271 accetta un certo diritto di migrazione da parte di coloro tra il clero che si sentano mossi da carità
apostolica» (Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma 1985, p. 159).
50 Pierantonio Pavanello

dinazione. Essa appare piuttosto come lo strumento giuridico che in


concreto rende possibile l’apertura a quella dimensione universale
già insita nella dedicazione a una Chiesa particolare, di cui l’incardi-
nazione è l’espressione giuridica. Per un presbitero o un diacono de-
dicarsi a una Chiesa particolare, infatti, significherà assumere quella
«sollecitudine di tutte le chiese» che è elemento costitutivo della
Chiesa particolare: la comunione delle chiese particolari è infatti
«radicata nel loro stesso essere di Chiese che vivono in loco la Chie-
sa unica e universale di Cristo» 31.
Interpretare la licenza di cui parla il can. 271 nei termini di un
diritto soggettivo del chierico porterebbe a svuotare di significato lo
stesso istituto dell’incardinazione. Non si vede infatti come compor-
re la dedicazione a una Chiesa particolare espressa dall’incardinazio-
ne e il diritto che, secondo tale interpretazione, il ministro sacro
avrebbe di scegliere a propria discrezione in quale diocesi svolgere
il proprio ministero. Il Codice prevede la possibilità per un chierico
di dedicarsi a titolo definitivo a una Chiesa particolare diversa da
quella nella quale è incardinato: in tale eventualità però dovrà ricor-
rere alla escardinazione. In questo caso, anche se non si può parlare
di un vero e proprio diritto soggettivo, la volontà del chierico è tute-
lata dal Codice: il vescovo potrà negare l’escardinazione solo «in pre-
senza di gravi cause» 32. Se il chierico, infatti, ritiene gravosa la man-
cata concessione e avrà trovato un vescovo disposto ad accoglierlo,
potrà opporre ricorso. Si deve osservare, però, che anche per l’e-
scardinazione sono richiesti «giusti motivi quali l’utilità della Chiesa
o il bene del chierico stesso». Non sembra che tali disposizioni pos-
sano essere estese per analogia al can. 271: esso, pur raccomandan-
do ai vescovi un atteggiamento favorevole nell’accogliere le richieste
dei loro chierici, non fa cenno alla possibilità di ricorrere contro
un’eventuale decisione negativa 33.

31
GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis n. 74 [EV 13, n. 1517].
32
Cf can. 270.
33
Non sembra condivisibile quanto scrive a questo proposito J.E. LYNCH: «If grave reasons are required
for a bishop to withhold an excardination that is sought for the good of the Church or of the individual cle-
ric (can. 270), no less can justify opposing a temporary transfer» (The Code of Canon Law. A Text and
Commentary, New York - Mahwah 1985, p. 198). L’analogia tra l’escardinazione e la licentia transmi-
grandi non regge proprio per la diversa finalità dei due istituti giuridici. Se, come abbiamo cercato di
dimostrare, il can. 271 riguarda la modalità in cui il ministero dei presbiteri (o dei diaconi) di una Chie-
sa particolare si apre alla dimensione universale della cooperazione tra le chiese, perché il vescovo pos-
sa negare la licenza saranno sufficienti anche delle giuste cause (quali per esempio le esigenze di una
programmazione diocesana nell’aiuto ad altre chiese).
I presbiteri “fidei donum” 51

Contro l’interpretazione della licentia transmigrandi nei termini


di un diritto soggettivo va segnalata la stessa collocazione sistemati-
ca del can. 271, che si trova nel capitolo sull’«ascrizione dei chierici o
incardinazione» immediatamente dopo le norme riguardanti l’escar-
dinazione e non nel capitolo III «obblighi e diritti dei chierici».
La formulazione del § 1 del can. 271 va interpretata nel suo si-
gnificato proprio e immediato quale invito al vescovo di accogliere la
disponibilità dei propri chierici a prestare il ministero per un periodo
di tempo determinato presso quelle chiese che ne abbiano bisogno.
Viene dato innanzitutto un criterio per così dire negativo: il vescovo
non deve negare la licenza «al di fuori di una situazione di vera ne-
cessità per la propria Chiesa particolare»; la necessità può essere as-
soluta in relazione alla scarsità numerica del clero, ma anche relativa
a determinate competenze acquisite, che risultano difficilmente so-
stituibili. Il secondo criterio è invece di carattere positivo e si riferi-
sce alla specifica preparazione e idoneità che il vescovo deve ricono-
scere nel chierico che chiede la licenza 34. La norma codiciale fa poi
obbligo al vescovo di definire attraverso una convenzione i diritti e i
doveri dei chierici che si recano a prestare il loro ministero in altre
diocesi. Il § 2 precisa il carattere temporaneo del trasferimento e la
permanenza dell’incardinazione e dei relativi diritti nella diocesi di
origine. Il § 3 prende in considerazione l’eventualità di un rientro pri-
ma della scadenza determinata, sia per iniziativa del vescovo a quo,
che di quello ad quem 35.
Il soggetto che concede la licenza è il vescovo diocesano: sono
esclusi pertanto il vicario generale e l’amministratore diocesano (per
quest’ultimo si vedano le disposizioni del can. 272) 36. Il fatto che la
concessione di questa licenza sia stata riservata al vescovo attesta
che si tratta di una materia di notevole importanza: sembra pertanto

34
La Postquam apostoli parla di una speciale vocazione per chi presta il ministero in un’altra diocesi in-
dicando anche le doti naturali che tale vocazione presuppone (cf CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Note di-
rettive Postquam apostoli nn. 23 e 24 [EV 7, n. 277]). Dovere del vescovo sarà pertanto quello di discer-
nere questa vocazione speciale. Ciò da una parte significa che non potrà concedere la licenza se non ne
ravviserà la presenza in chi la chiede e d’altra parte non potrà chiedere a coloro che sono privi di que-
sta speciale vocazione la disponibilità a prestare il ministero fuori della diocesi.
35
Sull’oggetto della convenzione indicazioni più dettagliate si trovano nelle Note direttive Postquam
apostoli nn. 26-30.
36
«L’Amministratore diocesano non può concedere l’escardinazione e l’incardinazione, come pure la
licenza di trasferirsi in un’altra Chiesa particolare, se non dopo un anno di sede episcopale vacante e
col consenso del collegio dei consultori».
52 Pierantonio Pavanello

opportuno che, almeno per quanto riguarda gli indirizzi generali, sia
consultato il Consiglio presbiterale come raccomanda il can. 500 § 2.
Una valutazione complessiva del can. 271 non può non rilevare
come la sua formulazione non esprima tutta la ricchezza ecclesiolo-
gica contenuta nell’esperienza dei presbiteri fidei donum: la norma
codiciale sembra muoversi nella prospettiva di un impegno indivi-
duale, permesso dal vescovo, più che in quella della comunione tra
le Chiese particolari, attuata attraverso lo scambio di quel dono vi-
vente e prezioso costituito dai ministri sacri. Ciò trova una spiegazio-
ne nell’iter stesso della redazione del canone: all’inizio dei lavori fu-
rono recepite, quasi alla lettera, le norme contenute nel M.P. Eccle-
siae sanctae, norme che come già abbiamo rilevato, si ponevano più
nell’ottica della distribuzione del clero che in quella della cooperazio-
ne tra le Chiese particolari. Di conseguenza era sottolineata la dispo-
nibilità dei singoli, che i vescovi erano invitati ad accogliere, più che
lo sforzo organico di collaborazione coinvolgente il presbiterio e l’in-
tera Chiesa particolare. Le modalità concrete dei lavori di revisione,
poi, non consentirono che nel testo del canone fosse recepita la pro-
spettiva ecclesiologicamente più completa presente nelle Note diret-
tive Postquam apostoli, in cui il problema della distribuzione del cle-
ro viene presentato all’interno della più vasta cooperazione tra le
chiese 37.
Le osservazioni che precedono ci portano ad affermare che il
can. 271 contiene solo alcune condizioni minime a cui il vescovo de-
ve attenersi nel concedere la licenza a un presbitero o a un diacono
di esercitare il ministero presso un’altra Chiesa particolare. Se si
vorrà però valorizzare pienamente il significato di questa esperienza
occorrerà fare in modo che il trasferimento in altra diocesi non sia
solo frutto di una scelta individuale, permessa o anche solamente
tollerata dal vescovo, ma decisione maturata in un clima di corre-
sponsabilità, che coinvolge il presbiterio nel suo insieme e l’intera
Chiesa particolare. Occorrerà inoltre che dalla logica di aiuto si pas-
si a quella dello scambio, valorizzando il rientro per arricchirsi dei
doni e della testimonianza delle Chiese presso le quali i presbiteri
hanno prestato il loro ministero.

37
Va osservato che le Note direttive Postquam apostoli vengono indicate nella edizione del Codice del
1989 tra le fonti del can. 271, riconoscendo implicitamente che nell’interpretazione e nell’applicazione
del canone non si può prescindere da tale documento.
I presbiteri “fidei donum” 53

L’esperienza della Chiesa italiana


Qualche breve cenno sul modo in cui la Chiesa italiana ha vis-
suto l’esperienza dei presbiteri fidei donum può essere opportuno
per dare maggiore concretezza al nostro discorso 38. L’impegno orga-
nico della Chiesa italiana in questo campo risale agli anni precedenti
al Concilio e sembra percorrere all’inizio due strade parallele per l’A-
merica Latina e per l’Africa. Nel 1962 viene fondato il CEIAL (Comi-
tato Episcopale per l’America Latina, in seguito divenuto Centro Ec-
clesiale Italiano per l’America Latina). Questo organismo aveva lo
scopo di promuovere e coordinare le iniziative di cooperazione delle
diocesi italiane con le Chiese dell’America Latina, in collaborazione
con il Seminario “Nostra Signora di Guadalupe” aperto nel 1961 a
Verona per la formazione di presbiteri disponibili a prestare il loro
ministero nel continente sudamericano, pur rimanendo incardinati
nella propria diocesi 39. Per l’Africa, invece, dopo un primo tentativo a
opera del CEMP (Convitto Ecclesiastico Missionario Presbyterium)
di Padova negli anni 1958-1960, bisogna attendere il 1975 per la co-
stituzione del CEIAS (Centro Ecclesiale Italiano per l’Africa e l’Asia-
Oceania). Nel 1988 la CEI decise di riunire CEIAL e CEIAS in un
unico organismo il CUM (Centro Unitario Missionario) con sede a
Verona. Si deve precisare che tali organismi dedicarono la loro atti-
vità non solo ai presbiteri fidei donum, ma anche ai religiosi/e e laici
impegnati nella cooperazione missionaria.
Da un punto di vista quantitativo i presbiteri fidei donum delle
diocesi italiane sono attualmente 1.122 40 (su un totale di 15.756 mis-

38
Per un’ampia esposizione dell’impegno della Chiesa italiana in questo ambito cf Dall’aiuto allo scam-
bio. Venticinque anni di esperienza dei sacerdoti “fidei donum”, Bologna 1984; R. ZECCHIN, I sacerdoti fi-
dei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Roma-Padova 1990;
G. TAMIOZZO, L’esperienza dei sacerdoti “fidei donum”, in Credere oggi 14/79 (1994) 37-53.
39
Questo seminario fu chiuso nel 1975 in quanto l’aumentata sensibilità missionaria delle diocesi con-
sigliava di formare i chierici nei seminari delle rispettive diocesi. Le strutture del seminario vennero
impegnate per i corsi di preparazione per presbiteri, religiosi/e, laici in partenza per la missione. Può
essere interessante conoscere anche quante persone furono interessate a tali corsi di preparazione.
Per l’America Latina dal 1963 al 1992 3242 persone: 1269 religiose, 495 religiosi; 818 laici/laiche; 660
presbiteri diocesani. Per l’Africa dal 1972 al 1992 1034 persone: 627 religiose; 119 religiosi; 159 laici/lai-
che; 129 presbiteri diocesani (cf G. TAMIOZZO, L’esperienza dei sacerdoti..., cit., pp. 38-39). Per quanto ri-
guarda l’attività del CEIAL cf G. SALVINI, Una collaborazione ecclesiale tra Italia e America Latina: il
CEIAL - CUM, in La Civiltà Cattolica 144/II (1993) 369-376.
40
Il dato e quelli che seguono provengono dall’Ufficio elaborazione dati del CUM di Verona (cf R. BE-
RETTA, Italia, la “carica” dei quindicimila, in Avvenire 12 novembre 1995, p. 19). Attualmente sul servi-
zio dei fidei donum pesa la diminuzione delle vocazioni, che ha colpito anche diocesi tradizionalmente
ricche di clero, che nei decenni precedenti hanno inviato un numero significativo di presbiteri in mis-
sione.
54 Pierantonio Pavanello

sionari italiani ad gentes). La loro presenza è così ripartita nei vari


continenti: Europa 67; Centro America 57; America Latina 718; Afri-
ca 231; Asia 22; Oceania 2. Si calcola poi siano circa 800 i presbiteri
fidei donum rientrati nelle loro diocesi. Se da un punto di vista mera-
mente numerico il loro contributo potrebbe sembrare minoritario ri-
spetto all’impegno missionario complessivo della Chiesa italiana, oc-
corre riconoscere il grande significato che questa esperienza ha avu-
to per far maturare la consapevolezza che soggetto primario della
missione è la Chiesa particolare 41.
Per comprendere come la Chiesa italiana abbia cercato di vive-
re l’esperienza fidei donum occorre fare riferimento a tre importanti
documenti, i primi due di carattere generale: L’impegno missionario
della Chiesa italiana del 21 aprile 1982 42 e Comunione e comunità
missionaria del 29 giugno 1986 43, il terzo più specifico: Sacerdoti dio-
cesani in missione nelle chiese sorelle. Nota pastorale della Commis-
sione episcopale per la cooperazione tra le Chiese del 2 giugno 1984 44.
Ci soffermiamo su quest’ultimo documento, che intende deli-
neare alcuni criteri e orientamenti per la cooperazione missionaria
delle diocesi italiane alla luce della valutazione sull’esperienza dei sa-
cerdoti diocesani italiani in America Latina e in Africa, compiuta in
occasione del XXV anniversario dell’Enciclica Fidei donum. Questa
nota pastorale, pertanto, esprime le acquisizioni maturate nella Chie-
sa italiana a proposito dell’esperienza fidei donum e costituisce un
punto di riferimento per il suo sviluppo futuro.

41
Può essere utile riportare anche alcuni dati relativi all’esperienza di una diocesi italiana. La diocesi
di Vicenza attualmente conta 32 presbiteri fidei donum (28 in America Latina e 4 in Africa). Ad essi va
aggiunto un diacono permanente fidei donum in America Latina. Sono 17 i presbiteri rientrati in diocesi
al termine del loro servizio missionario. I primi due preti vicentini partirono per il Brasile nel 1968: dal-
la diocesi di Ipamerì la presenza vicentina si estese a quelle di Afogados, di Ponta de Pedra, di Goiania
e di Luisiana. Dal 1969 preti di Vicenza lavorano anche in Colombia nella diocesi di Monteria. Nel 1995
è stata aperta una nuova missione in Ecuador nella diocesi di Portoviejo. In Africa Vicenza è impegnata
dal 1976 in Camerun dapprima nella diocesi di Sangmnelima, spostandosi poi in una zona di prima
evangelizzazione nelle diocesi di Maroua e Yagoua.
Anche verso l’Asia vi fu un tentativo di apertura con la presenza, durata qualche anno, di due preti in
India nella diocesi di Benares, che tentarono di inserirsi nel dialogo interreligioso promosso da quella
Chiesa particolare. L’esperienza dovette essere interrotta per la difficoltà di rinnovare il permesso di
soggiorno.
42
Cf ECEI 3, nn. 936-1040. Di particolare interesse per il nostro tema specifico il n. 22 sul rapporto tra
Chiesa universale e Chiese particolari, il n. 25 sul ruolo dei presbiteri quali protagonisti della missione;
il n. 49 sui servizi missionari diocesani, quale mezzo concreto perché le iniziative missionarie non sia-
no lasciate all’iniziativa privata, ma diventino realmente un fatto ecclesiale.
43
Cf ECEI 3, nn. 237-297: in particolare riguardano il nostro tema i nn. 17 e 23 in cui si riconosce lo
specifico ministero missionario dei presbiteri diocesani fidei donum.
44
Cf ECEI 3, nn. 1719-1737.
I presbiteri “fidei donum” 55

Dopo aver illustrato i fondamenti teologici e magisteriali del-


l’impegno missionario, si afferma che
«la missionarietà del sacerdote diocesano è radicata in primo luogo nella risco-
perta conciliare della Chiesa particolare come soggetto di missione: egli al ser-
vizio di tale Chiesa realizza il suo sacerdozio in una prospettiva universale» 45.

Vengono quindi esposti i principi che devono guidare l’invio di


sacerdoti diocesani presso altre Chiese. Innanzitutto il sacerdote dio-
cesano dovrà assumere alcuni atteggiamenti che permettano al suo
servizio di contribuire alla nascita e alla crescita di una Chiesa vera-
mente locale. Vengono date poi alcune norme perché il ministero fi-
dei donum possa rispondere alla duplice esigenza della temporaneità
e della continuità:
«Di norma la permanenza del singolo sacerdote abbia la durata di dieci-dodi-
ci anni: questo periodo è ritenuto sufficiente per rendere un valido servizio e
nello stesso tempo mette il sacerdote in condizione di conservare i rapporti
con la sua Chiesa di origine, permettendogli così di reinserirsi senza troppe
difficoltà. La continuità va garantita dalla diocesi di invio attraverso il ricam-
bio delle persone» 46.

Si raccomanda poi che non solo il servizio del singolo sacerdo-


te, ma anche l’impegno di cooperazione della diocesi sia limitato nel
tempo, in modo da rendere possibile la cooperazione con altre Chie-
se. Si auspica che ogni diocesi assuma impegni diversi sia per aree
geografiche che per settori pastorali, così da realizzare uno scambio
più ricco e da soddisfare le diverse attitudini delle persone.
Circa le condizioni da crearsi nella Chiesa di invio va segnalata
la raccomandazione al vescovo di promuovere la sensibilità missiona-
ria del suo presbiterio. L’assunzione di impegni dovrà essere prece-
duta dal coinvolgimento del Consiglio presbiterale e di quello pasto-
rale in spirito di corresponsabilità e partecipazione. Andrà valutata
seriamente la possibilità di dare continuità all’impegno della diocesi.
La cooperazione non dovrà limitarsi all’invio di preti, ma dovrà preve-
dere anche la presenza di religiose e laici.
Una seconda serie di criteri riguarda la scelta e l’invio dei missio-
nari. L’accento cade sulla necessità di un accorto discernimento, che

45
CEI, I sacerdoti diocesani in missione nelle Chiese sorelle, Nota pastorale della Commissione per la
cooperazione tra le Chiese, I (ECEI 3, n. 1721).
46
Ibid., III ( ECEI 3, n. 1724).
56 Pierantonio Pavanello

riguarderà l’autenticità della motivazione (la partenza non deve esse-


re una fuga!), la maturità umana e spirituale, l’esperienza pastorale in
diocesi (di norma almeno cinque anni), l’attitudine alla vita comunita-
ria e l’inserimento nel presbiterio. Si raccomanda che i presbiteri sia-
no inviati non da soli, ma in piccoli gruppi. Si consiglia ai vescovi di
prendere in considerazione positivamente anche la disponibilità dei
sacerdoti in età matura. Per la preparazione al ministero missionario
si richiede la partecipazione agli appositi corsi promossi dal CEIAL e
dal CEIAS (poi unificati nel CUM). I rapporti tra la Chiesa che invia e
quella che accoglie saranno definiti da un’apposita convenzione 47.
Una particolare menzione merita quanto vien detto a proposito
dell’accompagnamento e del rientro dei fidei donum. Tutta la diocesi,
in particolare il presbiterio, dovrà tenere continui rapporti con i preti
che prestano il loro ministero in missione, tenendoli continuamente
informati della vita della diocesi di origine così che si sentano piena-
mente partecipi di essa. Il rientro 48 andrà adeguatamente preparato
sia da parte della diocesi che degli interessati attraverso un’opportu-
na programmazione delle sostituzioni. Si dovrà prevedere un periodo
di riambientamento prima del conferimento di nuovi incarichi. L’espe-
rienza dei fidei donum andrà valorizzata come un arricchimento della
Chiesa particolare: essa deve diventare un efficace strumento di
scambio con le Chiese presso le quali questi presbiteri hanno presta-
to il loro ministero. Secondo la Nota CEI è proprio lo scambio tra le
Chiese particolari la meta più difficile da raggiungere: permane infat-

47
Uno schema di convenzione è stato predisposto dalla Commissione CEI per la cooperazione tra le
Chiese (ECEI 3, nn. 2960-2971). Tale schema va aggiornato tenendo conto della successiva normativa
CEI di applicazione dell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense, normativa che ha preso in
considerazione anche il problema del sostentamento dei presbiteri fidei donum. Pur non essendo stati
inseriti nel nuovo sistema di sostentamento del clero, è stata garantita anche a loro una somma mini-
ma, pari a quella riconosciuta ai sacerdoti inseriti nel sistema. A partire dal 1990 tale somma viene cor-
risposta in parte dalla diocesi ad quem, in parte da quella a quo e, nella misura di 4.800.000 lire annue,
dalla CEI. L’intervento della CEI ha pertanto carattere integrativo e le somme necessarie vengono pre-
levate dalla quota dell’8 per mille dell’IRPEF assegnata alla Chiesa cattolica e destinata dalla CEI a «in-
terventi caritativi a favore del Terzo Mondo». La CEI, attingendo allo stesso fondo, assegna alla diocesi
di provenienza la somma necessaria per assicurare l’iscrizione volontaria dei sacerdoti fidei donum al
fondo clero dell’INPS (cf Delibera CEI n. 45 del 30 dicembre 1988 [ECEI 4, n. 1335]; Determinazioni
relative agli interventi in favore dei sacerdoti fidei donum previsti dalla Delibera CEI n. 45 § 2 [ECEI 4,
nn. 1643-1650]).
48
È l’aspetto forse più problematico di tutta l’esperienza fidei donum: motivazioni di carattere psicolo-
gico ed esistenziale, ma anche condizioni ecclesiali non favorevoli, fanno sì che si registri una certa
tendenza a rimanere in missione ben oltre il tempo massimo previsto dalla CEI, o che chi è rientrato
chieda di ripartire. Tale tendenza rischia di mettere in discussione la possibilità di uno scambio e di un
arricchimento, che avviene proprio attraverso il reinserimento nel presbiterio di origine dei fidei do-
num. Per il contributo che può venire a una diocesi dall’esperienza fidei donum rispettivamente in Ame-
rica Latina, in Africa e in Asia cf G. TAMIOZZO, L’esperienza dei sacerdoti..., cit., pp. 49-50.
I presbiteri “fidei donum” 57

ti ancora una mentalità che intende la cooperazione in senso unidire-


zionale, accompagnata da atteggiamenti di superiorità e di sufficienza
nei confronti delle giovani Chiese.

Conclusioni
Dopo aver ripercorso l’itinerario storico attraverso il quale si è
sviluppata l’esperienza dei presbiteri fidei donum e averne visto la re-
cezione nel Codice di diritto canonico (can. 271), nonché l’applicazio-
ne nella Chiesa italiana, pensiamo risulti evidente l’assunto da cui sia-
mo partiti: la possibilità per i presbiteri diocesani di prestare il mi-
nistero in Chiese diverse da quella in cui sono incardinati è uno
strumento di grande valore per realizzare la comunione tra le Chiese
particolari e sperimentare l’universalità della Chiesa. Il trasferimento
di un presbitero da una diocesi all’altra non deve pertanto essere vi-
sto solamente come una risposta a situazioni di particolare necessità
o come espressione di una scelta individuale, ma realizzarsi come au-
tentico fatto ecclesiale. Per questo va riconosciuto con un certo ram-
marico che la formulazione del can. 271 non riesce a esprimere in
pienezza il significato ecclesiale racchiuso nell’esperienza fidei do-
num. Ciononostante la storia della redazione e gli interventi del Ma-
gistero ordinario, precedenti e successivi alla pubblicazione del Codi-
ce, ci sembra indirizzino a interpretare la licentia transmigrandi di cui
parla il can. 271 come lo strumento giuridico che permette di aprire a
una dimensione universale la dedicazione dei presbiteri diocesani a
una Chiesa particolare. Sarà cura dei presbiteri e dei vescovi fare in
modo che la disponibilità a trasferirsi presso altre Chiese sia valoriz-
zata in tutte le sue dimensioni, superando la logica dell’aiuto, per ap-
prodare a quello scambio di doni tra le Chiese, che ne realizza la co-
munione. Il dono infatti non si ferma alla persona del missionario:
«esso si diffonde a tutta la Chiesa e a tutte le chiese. È il profumo della carità
che riempie ancora una volta la Chiesa come a Betania. Lo scambio in que-
sto senso è forse il capitolo più ricco della missione, anche per il suo futuro,
perché tocca ed esprime l’essenza stessa della Chiesa che è comunione» 49.

PIERANTONIO PAVANELLO
Via S. Francesco Vecchio, 18
36100 Vicenza
49
Ibid., 49.
58
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 58-65
Gli istituti di vita consacrata:
segno dell’universalità
nella Chiesa particolare
di Silvia Recchi

Le Chiese particolari sono a immagine della Chiesa universale,


in esse se ne ritrovano tutti gli elementi essenziali. La Chiesa univer-
sale infatti, come significativamente espresso dall’Evangelii nuntian-
di, non è una somma, né una federazione di Chiese particolari 1, ben-
sì la presenza totale e cresciuta dell’unico Sacramento universale di
salvezza 2.
Nelle Chiese particolari è riprodotta anche la ripartizione dei fe-
deli secondo la varietà e la pluralità dei carismi, dei ministeri e delle
funzioni. La vita consacrata, nelle sue differenti forme, nasce e vive
nella Chiesa particolare come elemento che la costituisce; in essa
apporta la propria ricchezza carismatica e la nota di universalità; la
vocazione per la Chiesa universale dei membri degli istituti si realiz-
za attraverso le strutture delle Chiese particolari, contribuendo così
alla loro edificazione e all’unità con la Chiesa universale 3.
Questa visione rappresenta l’approdo di un processo di appro-
fondimento in merito alla natura della vita consacrata e alla sua ec-
clesialità. Processo innescato dal concilio Vaticano II che il Codice di
diritto canonico ha saputo con efficacia tradurre.

Nel cuore della Chiesa


L’ecclesiologia della vita consacrata espressa dal concilio Vatica-
no II, vede quest’ultima situata nel cuore della Chiesa. La presenza
1
Cf PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (8 dicembre 1975), in AAS 68 (1976) 5-76
(=EN), 62.
2
Cf EN 54.
3
Cf IX ASSEMBLEA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa
e nel mondo. Instrumentum laboris (=IL), 73.
Gli istituti di vita consacrata: segno dell’universalità nella Chiesa particolare 59

di un capitolo riservato ai Religiosi nella Costituzione dogmatica Lu-


men gentium è sotto questo aspetto più eloquente di ogni discorso
successivo su essi. La vita consacrata è una vita che ha in Cristo, nel-
le sue parole, nei suoi esempi, il proprio fondamento (LG 44). La pra-
tica dei consigli evangelici è seguire Cristo più da vicino; la vita di
coloro che professano i consigli evangelici costituisce una consacra-
zione speciale che, radicata nel battesimo, la esprime con una pie-
nezza maggiore (PC 5). La vita consacrata fa parte costitutivamente
della Chiesa; questa sarebbe inconcepibile senza la presenza di una
forma di vita che abbraccia lo stile di vita del suo stesso fondatore 4.
Il Codice di diritto canonico ha espresso con fedeltà questa dot-
trina del Concilio. Il can. 207 § 2 e il can. 574 §1 vi fanno riferimento,
presentando la vita consacrata come una realtà di cui la Chiesa non
può fare a meno, non potendo privarsi di esprimersi in forme di vita
dove i membri vivono la professione dei consigli evangelici, congiun-
ti in modo speciale alla Chiesa e al suo mistero (can. 573 § 2).
Con queste affermazioni il legislatore canonico ha fatto propria
la rinnovata visione ecclesiologica, più esplicitamente carismatica,
trinitaria e pneumatologica. È in questa visione di Chiesa che occor-
re comprendere la vita consacrata e la sua nota di universalità; nello
stesso tempo una corretta visione della vita consacrata potrà aiutare
a scoprire meglio il mistero della Chiesa di Cristo.

Vocazione all’universalità di tutti gli istituti


L’origine divino-carismatica della pratica dei consigli evangelici
mostra come essi costituiscano un dono del Signore alla sua Chiesa.
Tale pratica pur essendo accolta e riconosciuta in una Chiesa parti-
colare, appartiene alla pienezza della vita e santità della Chiesa tutta,
che contribuisce a edificare nella fedeltà al carisma ricevuto. Il can.
573 § 1 presenta a questo proposito una sintesi dottrinale particolar-
mente significativa. Gli istituti di vita consacrata esistono nella Chie-
sa per la edificazione di questa e la salvezza del mondo. Nella Chiesa
rappresentano un segno luminoso al servizio del regno di Dio di cui
i consacrati preannunciano la gloria celeste.

4
Cf G. GHIRLANDA, Ecclesialità della vita consacrata, in AA.VV. La vita Consacrata (coll. «Il Codice del
Vaticano II» sotto la direzione di A. Longhitano), Bologna 1983, pp.13-52.
60 Silvia Recchi

Il Codice insiste su questo aspetto di universalità nella vocazio-


ne dei consacrati, affermando che essi contribuiscono secondo il fi-
ne specifico e lo spirito del proprio istituto, alla missione di salvezza
propria della Chiesa stessa (can. 574 § 2). I consigli evangelici, che
caratterizzano la vita dei consacrati sono un dono di Dio che la Chie-
sa ha ricevuto dal suo Signore e che conserva con la sua grazia (can.
575). La vita dei religiosi è una testimonianza pubblica, a Cristo e al-
la Chiesa (can. 607 § 3). Tale testimonianza è resa prima di tutto con
la propria consacrazione di vita (can. 673). Gli eremiti sono consa-
crati per la gloria di Dio e la salvezza del mondo (can. 603). Le vergi-
ni consacrate sono spose mistiche del Cristo, votate al servizio della
Chiesa (can. 604). Nell’approvazione di nuove forme, i vescovi sono
chiamati a discernere i nuovi doni di vita consacrata dati dallo Spirito
Santo alla Chiesa (can. 605). La vita religiosa manifesta nella Chiesa
la mirabile unione sponsale stabilita da Dio, segno del secolo futuro
(can. 607 § 1). I membri degli istituti secolari sono votati alla santifi-
cazione del mondo dall’interno (can. 710). Tali affermazioni si riferi-
scono ugualmente agli istituti di diritto pontificio che di diritto dioce-
sano in quanto esse sono inerenti alla natura stessa della vita consa-
crata.
Questa vocazione degli istituti all’universalità li porta a essere
sottomessi alla suprema autorità della Chiesa proprio in quanto de-
stinati in maniera speciale al servizio di Dio e della Chiesa tutta inte-
ra (utpote ad Dei totiusque Ecclesiae servitium speciali modo dicata,
can. 590 § 1); ogni consacrato ha un particolare legame di obbedien-
za nei confronti del Romano Pontefice (can. 590 § 2). Tale dipenden-
za degli istituti di vita consacrata è motivata dal servizio di Dio e da
quello di tutta la Chiesa a cui gli istituti sono votati sulla base del lo-
ro carisma e della vocazione divina.
Il fondamento di questa dipendenza ecclesiale è lo stesso che
giustifica la loro giusta autonomia di vita e specialmente di governo,
che il legislatore riconosce a tutti gli istituti di vita consacrata. Grazie
a questa autonomia essi godono nella Chiesa di una propria discipli-
na e possono mantenere integro il proprio patrimonio carismatico
(can. 586). Tutti hanno il dovere di conservare e difendere tale auto-
nomia, sia i vescovi (cann. 586 § 2, 674, 678 § 2, 680), sia i superiori,
sia i membri degli istituti (cann. 578, 587 § 1, 631 § 1, 677 § 1). Se gli
istituti di diritto pontificio dipendono direttamente dalla Sede Apo-
stolica, quelli di diritto diocesano sono sotto la sollecitudine speciale
(speciali cura) dell’ordinario del luogo (can. 594). Sollecitudine non
Gli istituti di vita consacrata: segno dell’universalità nella Chiesa particolare 61

è dipendenza, ma vuol significare la preoccupazione della Chiesa af-


finché l’istituto diocesano cresca nella fedeltà al proprio carisma,
perché questa fedeltà è al servizio della Chiesa universale 5.

Edificare la Chiesa universale nella Chiesa particolare


Quanto detto finora mostra esplicitamente la vocazione all’uni-
versalità insita in ogni forma di vita consacrata, in ogni istituto anche
diocesano. Fa parte della vocazione degli istituti essere portatori di
questa apertura all’universalità nelle chiese particolari.
Gli istituti di vita consacrata, abbiamo visto, sono nati per tutta
la Chiesa, anche laddove essi sono sorti per rispondere a una esi-
genza particolare. La natura carismatica di essi li fa trascendere ogni
dimensione particolare. Gli istituti diocesani conservano queste ca-
ratteristiche di universalità, così come ogni istituto, anche di diritto
pontificio, è chiamato a servire la Chiesa universale nella concretez-
za della Chiesa particolare dove vive e opera. Il luogo per eccellenza
dove la Chiesa si manifesta come sacramento visibile di unità salvifi-
ca per tutti gli uomini è la Chiesa particolare; essa
«costituisce lo spazio storico, nel quale una vocazione si esprime nella realtà
ed effettua il suo impegno apostolico: lì infatti dentro i confini di una deter-
minata cultura, si annuncia e viene accolto il Vangelo» 6.

Da parte sua la Chiesa particolare non si esprime in tutta la sua


dimensione di cattolicità finché non ha nel suo seno la molteplicità
degli istituti di vita consacrata che edificano la Chiesa (AG 18).
I consacrati, così come i vescovi, sono chiamati a un rapporto al
particolare come inveramento dell’universale e a un rapporto con l’u-
niversale che si realizza nel particolare. Il vescovo diocesano, che è
contemporaneamente pastore di una Chiesa particolare e membro
del collegio episcopale, cioè responsabile della sua Chiesa e della
Chiesa universale, è chiamato a una tutela tutta particolare nei con-
fronti degli istituti, i quali riflettono la stessa duplice dimensione che
caratterizza la Chiesa particolare.
Si tratta in definitiva di esercitare un reciproco influsso tra la
prospettiva di universalità e la sua attuazione nella particolarità; tale

5
Cf J. BEYER, Il diritto della vita consacrata, Milano 1989, pp. 118ss.
6
S. CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI, Note direttive Mutuae relationes (= MR), in
AAS 70 (1978) 473-506, 23d.
62 Silvia Recchi

influsso deve essere garantito «in un’inalterabile stima e perseveran-


te custodia di quei valori di unità ai quali in nessun modo è dato di ri-
nunziare» 7.
Come fu bene espresso da Giovanni Paolo II:
«Ovunque vi troviate nel mondo, voi siete, con la vostra vocazione, per la
Chiesa universale, attraverso la vostra missione in una determinata chiesa lo-
cale. Quindi la vostra vocazione per la Chiesa universale si realizza entro le
strutture della chiesa locale (....) L’unità con la Chiesa universale, attraverso
la chiesa locale: ecco la vostra via» 8.

La stessa figura giuridica dell’esenzione, affermata nel can. 591


del Codice, si giustifica sulla base della visione espressa. Sottolinea il
significato ecclesiale degli istituti, la loro utilità per il bene comune
della Chiesa. Giovanni Paolo II ha ricordato che questo servizio del-
la Chiesa universale si realizza nelle Chiese particolari, ma aggiun-
geva più tardi che l’esenzione non può provocare delle chiusure in
rapporto a queste Chiese. Certamente per il concilio Vaticano II l’e-
senzione non è più ciò che era prima: sottrazione alla giurisdizione
diocesana in ciò che concerne l’attività apostolica. Rimane vero che
ogni istituto esente deve considerare la propria esenzione come for-
za vitale al servizio della Chiesa universale, anche laddove si mette
al servizio delle Chiese particolari 9.
Rivolgendosi ai vescovi il documento Mutuae relationes chiede
loro di riconoscere e di apprezzare questa presenza degli esenti nel-
le loro Chiese particolari, e di vedere in essa un segno e un richiamo
della loro sollecitudine pastorale universale, sollecitudine che li uni-
sce al Romano Pontefice, nella responsabilità universale verso tutti i
popoli della terra 10.

Gli istituti diocesani: un richiamo all’universalità


Abbiamo considerato come gli istituti di vita consacrata siano
chiamati in maniera particolare a vivere la missione della Chiesa, se-
condo il proprio carisma. La nota di universalità di cui sono portatori
non è semplicemente una realtà di ordine geografico, etnico o cultura-
7
MR 23e.
8
GIOVANNI PAOLO II, La vita religiosa come via alla santità, discorso all’udienza dei Superiori Generali
a Roma (24 novembre 1978), in Informationes SCRIS 4 (1978) 255.
9
Cf J. BEYER, Il diritto della vita ..., cit., pp. 109ss.
10
Cf MR 22d.
Gli istituti di vita consacrata: segno dell’universalità nella Chiesa particolare 63

le, bensì una realtà teologica, manifestazione del mistero della Chiesa.
In questo senso universalità non è pluralismo etnico-culturale o inter-
nazionalità geografica. Essa si basa sulla relazione con la nota di catto-
licità della Chiesa 11. Tutto ciò ha certamente anche un risvolto opera-
tivo: il campo dell’impegno dei membri degli istituti di vita consacrata
è vasto quanto quello della stessa Chiesa in cui mostrano pubblica-
mente che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza
lo spirito delle beatitudini. Essi partecipano attraverso le loro opere di
misericordia alla funzione pastorale della Chiesa (can. 676). L’azione
apostolica appartiene alla loro stessa natura (can. 675 § 1). Sono chia-
mati all’impegno della predicazione in forza della loro peculiare con-
sacrazione (can. 758), a collaborare alla formazione catechetica del
popolo di Dio (cann. 776, 778), all’impegno nel campo dell’educa-
zione e della scuola (can. 801) e non ultimo a impegnarsi nell’evange-
lizzazione e nell’attività missionaria (can. 783) 12.
Fa sempre parte della loro vocazione l’essere nelle Chiese par-
ticolari promotori di comunione. Essi possono esserlo a titoli diversi:
innanzitutto grazie al significato stesso della loro consacrazione nella
Chiesa; quindi grazie alla loro testimonianza di universalità del mes-
saggio evangelico che supera ogni differenza razziale, tribale, cultu-
rale; grazie ancora alla loro disponibilità e solidarietà verso tutti, so-
prattutto i più poveri; infine grazie al legame che spesso stabiliscono
tra la Chiesa e i gruppi marginalizzati spesso non raggiunti dalla pa-
storale ordinaria 13.
Per la loro vita in comunione fraterna i consacrati sono un esem-
pio della riconciliazione universale in Cristo (can. 602). Gli istituti dio-
cesani sono un richiamo radicale e profetico a questa comunione uni-
versale, a cui la Chiesa particolare deve tendere nella concretezza
delle sue strutture e della sua pastorale. L’istituto diocesano resta pur
sempre un dono fatto alla Chiesa, ma che appare in un luogo determi-
nato per aiutarla a testimoniare i valori del Vangelo. Per questo il ve-
scovo deve accoglierlo, discernerlo, verificarlo, inserirlo nella vita
della propria chiesa, tutelarlo perché cresca in fedeltà a se stesso.
Suscitando un carisma di vita consacrata, lo Spirito suscita nella
Chiesa non soltanto una spiritualità, ma una comunione di vita orga-

11
Cf IL 72.
12
Cf V. DE PAOLIS, Gli istituti di vita consacrata nella Chiesa, in AA.VV. La vita Consacrata ..., p. 101. Cf
anche pp. 99-115.
13
IL 73.
64 Silvia Recchi

nizzata. La vita consacrata infatti è contemporaneamente spirito e


strutture, comunione fraterna e organizzazione gerarchica, assem-
blea visibile e comunione spirituale, a immagine della stessa Chiesa.
Questi aspetti non sono separabili, ma fanno apparire una realtà che
non è senza analogia con il mistero del verbo incarnato. Anche que-
sto aspetto, lontano dall’essere un ostacolo per il pieno inserimento
degli istituti nella vita diocesana, è invece garanzia di apertura all’u-
niversale per la Chiesa particolare che li accoglie.
Gli istituti diocesani contribuiscono con tutto ciò a rendere an-
cora più presente e operante la Chiesa universale nella Chiesa parti-
colare. A quest’ultima permette di vivere in maniera più piena la sua
cattolicità e ciò in quanto tale presenza universale nella Chiesa parti-
colare si fonda su un dato carismatico e di missione, prima di mani-
festarsi nella pluralità di aspetti apostolici concreti.
L’istituto da parte sua è chiamato a vivere la pienezza delle due
dimensioni: particolare e universale, inserendosi pienamente nella
diocesi, obbedendo al vescovo, ma contemporaneamente conservan-
do la propria identità nella dimensione della cattolicità. Per tutelare
quest’ultimo aspetto il legislatore ha escluso dal potere del vescovo
diocesano tutto ciò che costituisce la vita dell’istituto e che appartie-
ne alla sua giusta autonomia: governo, disciplina, formazione e mis-
sione dei membri, vita comune ed esigenze che nascono dal proprio
carisma, pur restando l’istituto soggetto all’autorità del vescovo in
ciò che ha riferimento all’apostolato nella diocesi, all’esercizio pub-
blico del culto e delle attività pastorali.
Sul piano pratico occorre ammettere che spesso si è creata nel-
le Chiese particolari una tensione nel vivere concretamente le due
dimensioni, universale e particolare, nel vivere la fedeltà a se stessi e
il servizio alla Chiesa particolare. Lo stesso documento Mutuae rela-
tiones fa riferimento a questa tensione, ricordando tuttavia i grandi
principi che permettono di ricomporre ogni conflittualità.
La presenza di istituti di vita consacrata nella Chiesa particolare
costituisce una verifica della cattolicità di quest’ultima, cattolicità che
comporta il pieno riconoscimento della vita consacrata, dei suoi cari-
smi, della sua natura, dell’ambito proprio della sua autonomia. Tale
cattolicità della Chiesa particolare infatti non può non essere legata
all’apertura a tutte le forme di vita cristiana.
La cattolicità della Chiesa è sempre una proprietà insieme attua-
le e virtuale, una proprietà dinamica, data ma nello stesso tempo da
effettuare. Ciò suppone una tensione benefica tra la presenza dell’u-
Gli istituti di vita consacrata: segno dell’universalità nella Chiesa particolare 65

niversale e del tutto in ciascuna realizzazione particolare. Qualsiasi


rapporto che non si apre alla cattolicità della Chiesa rischia il parti-
colarismo, il settarismo e tende a isterilirsi 14.

Conclusione
Ogni istituto di vita consacrata, anche diocesano, per il caratte-
re proprio della sua vocazione e missione, contiene gli elementi del-
l’universalità e della particolarità, dell’unità e del pluralismo. Se il
principio di particolarità permette di non sfuggire alla concretezza
dei problemi e dei rapporti e quindi di edificare la Chiesa di Cristo
partendo da un luogo concreto, il principio di universalità permet-
terà di superare ogni tentazione di chiusura egoistica. Infatti se la vi-
ta e l’azione degli istituti prendono corpo in una dimensione partico-
lare, il carisma e la sua natura trascendono questa dimensione parti-
colare e portano il respiro di tutta la Chiesa.
Tutto ciò non rimane su un piano di sentimento, ma ha conse-
guenze concrete nella vita di una chiesa particolare che con ciò vie-
ne aiutata a superare il rischio di limitarsi a un territorio determinato
e di rinchiudersi su se stessa.
Ecco perché la vocazione dell’universalità, propria della Chiesa
e dei suoi capi, risplende ancor di più nella presenza degli istituti di
vita consacrata, dono del Signore alla sua Chiesa.

SILVIA RECCHI
Institut Catholique
B.P. 11628 Yaoundé
Cameroun

14
E. GRASSO, Unità e pluralismo: è possibile? Fondamenti teologici ed ecclesiologici, in Consacrazione e
Servizio 43 (1994) 11ss.
66
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 66 -75
Commento a un canone
Battezzare i bambini in pericolo di morte
anche contro la volontà dei genitori
(can. 868 § 2)
di Mauro Rivella

All’interno della trattazione sul sacramento del battesimo


(cann. 849-878) 1 incontriamo, nel capitolo dedicato ai battezzandi, un
paragrafo che riconosce la liceità del battesimo conferito ai bambini
che versino in pericolo di morte, anche contro la volontà dei genito-
ri, siano essi cattolici, siano essi acattolici:
«Il bambino di genitori cattolici e persino di non cattolici, in pericolo di morte
è battezzato lecitamente anche contro la volontà dei genitori» (can. 868 § 2).

Non è avventato affermare che questa norma costituisce uno


dei punti più controversi della rinnovata legislazione canonica, dal
momento che è parsa a molti commentatori in contrasto con i princi-
pi della libertà religiosa affermati dal concilio Vaticano II e con il di-
ritto naturale dei genitori a curare l’educazione dei figli.
Proviamo a ricostruire la genesi del testo codiciale, a presenta-
re i problemi aperti e a proporne una possibile soluzione.

Un po’ di storia
Il can. 868 § 2 trova come corrispettivo nel CIC 1917 il can. 750
§ 1:
«Il bambino degli infedeli è battezzato lecitamente, anche contro la volontà
dei genitori, quando versi in pericolo di vita, così da prevedere prudente-
mente che morirà prima di giungere all’uso di ragione».

1
Per una presentazione generale dell’argomento, cf G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, in Quaderni
di diritto ecclesiale 4 (1991) 131-140.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 67

Tale norma appare del tutto congruente con il principio fonda-


mentale che in questa materia governa la legislazione piano-benedet-
tina e la visione teologica che in essa è rispecchiata, ovvero la neces-
sità assoluta del battesimo in ordine alla salvezza. Esso esige che un
bambino in pericolo di morte, indipendentemente dalla fede dei ge-
nitori, non sia privato dell’unico mezzo che può garantirgli l’accesso
in paradiso.
Questa dottrina è radicata nel magistero dei concili ecumenici
medievali e moderni: basti ricordare qui il concilio di Firenze del
1442 e l’insegnamento tridentino. Nella Bolla di unione con i Copti il
primo afferma:
«Quanto ai bambini, dato il pericolo di morte spesso incombente, poiché
non possono essere aiutati se non col sacramento del battesimo, che li libera
dal dominio del demonio e li rende figli adottivi di Dio, la Chiesa ammonisce
che il battesimo non sia differito per quaranta o ottanta giorni, secondo cer-
te usanze, ma sia amministrato il più presto possibile, avendo cura che, in
imminente pericolo di morte, siano battezzati subito senza alcun ritardo» 2.

Il principio è ribadito dai canoni sul battesimo del concilio di


Trento:
Can. 13: «Se qualcuno afferma che i bambini, dopo aver ricevuto il battesi-
mo, non devono essere annoverati tra i fedeli perché non hanno la capacità
di credere; e che per questo motivo devono essere battezzati di nuovo una
volta raggiunta l’età del discernimento; o che è meglio non battezzarli affat-
to, piuttosto che battezzarli nella sola fede della Chiesa, senza un loro atto di
fede personale: sia anatema» 3.

Trattandosi di un principio dogmatico, esso vale in linea gene-


rale e a prescindere dalle circostanze, che possono ammettere restri-
zioni ed eccezioni: così argomenta il Cappello nel suo classico com-
mentario sui sacramenti 4. Il pericolo di morte andrebbe quindi inte-
so in senso ampio, se non addirittura latissimo, praticamente in ogni
caso in cui si possa prudentemente dubitare che il bambino soprav-
viva sino all’età di ragione. Per contro, il Cappello riconosce che, an-
che in pericolo di morte, è preferibile differire od omettere il battesi-

2
Bolla Cantate Domino, sess. IX del 4 febbraio 1442 (COD 576).
3
Sessione VII del 3 marzo 1547 (COD 686).
4
F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de Sacramentis, vol. I De sacramentis in genere, de Baptismo,
7
Confirmatione et Eucharistia, Torino 1962 , nn. 142-146.
68 Mauro Rivella

mo di un figlio di “infedeli”, quando tale atto possa accrescere l’odio


verso la religione cristiana e la persecuzione dei fedeli:
«Se il battesimo di un bambino o di un adulto, in pericolo di morte o al di
fuori di esso, non può essere conferito senza eccitare l’odio verso la religio-
ne cristiana e le persecuzioni da parte degli infedeli, è bene e talora anche
necessario differirlo od ometterlo, perché il bene comune della religione cri-
stiana va preferito anche al più grande bene privato. In pratica bisogna tener
conto anche delle leggi civili, che vietano che i figli, quand’anche battezzati,
siano sottratti alla potestà dei genitori e si provveda alla loro educazione cat-
tolica» (n. 143).

Con grande onestà intellettuale, il Cappello ammette che la dot-


trina fatta propria dal legislatore e ritenuta comune dai commentato-
ri del tempo non aveva incontrato nei secoli precedenti la medesima
unanimità. Da una parte infatti parecchi Dottori, seguiti anche dal
papa Benedetto XIV nella Costituzione apostolica Postremo mense
del 28 febbraio 1747, ritenevano che ai bambini degli acattolici il bat-
tesimo dovesse essere amministrato solo in casi estremi e in punto
di morte. Studi storici recenti hanno dimostrato che in effetti preval-
se nel legislatore piano-benedettino la tendenza ad ampliare il nume-
ro dei casi in cui era da ritenersi lecito il conferimento del battesimo
contro la volontà dei genitori 5.
È ancora più interessante notare come lo stesso san Tomma-
so fosse contrario a siffatti battesimi anche in pericolo di morte: ta-
le posizione è particolarmente significativa, se si considera che per
l’Aquinate il battesimo è necessario per la salvezza simpliciter et
absolute 6.
San Tommaso tratta la questione in due articoli della Summa
Theologiae (II-II, q. 10, art. 12; III, q. 68, art. 10), chiedendosi in en-
trambi i casi se i bambini dei Giudei e degli altri “infedeli” debbano
essere battezzati anche contro la volontà dei genitori: la risposta è
negativa. Egli si richiama alla prassi della Chiesa, che sempre si ri-
fiutò di battezzare i fanciulli ebrei contro la volontà dei genitori, e la
motiva da una parte con il fatto che verrebbe a mancare la garanzia
dell’educazione nella fede cattolica, dall’altra con la ragione che tale
imposizione lederebbe la legittima potestà dei genitori naturali. Al-

5
Cf J.M. MARTÌ, La regulación canónica del bautismo de niños en peligro de muerte, in Ius canonicum
31 (1991) 712-718.
6
TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III, q. 65, art. 4, ad 1.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 69

l’obiezione di chi osserva che bisogna preservare questi bambini dal


pericolo della morte eterna, l’Aquinate risponde:
«Nessuno deve essere strappato alla morte fisica infrangendo l’ordine del di-
ritto civile. Nel caso in cui qualcuno sia condannato a morte dal giudice che
gli compete, nessuno può sottrarlo al supplizio con la violenza. Allo stesso
modo non si può infrangere l’ordine del diritto naturale, in forza del quale il
figlio è assoggettato al padre, per liberarlo dal pericolo della morte eterna» 7.

L’elaborazione della norma vigente


Il fatto che il Codice vigente riprenda nella sostanza la normati-
va del 1917, pur limitandosi significativamente ai soli bambini di ge-
nitori cristiani, sia cattolici che acattolici, appare ancora più singola-
re se si esamina l’iter della revisione di questo canone. Il punto di vi-
sta della prima Commissione preparatoria, che trattò la questione
nel 1971, era infatti diametralmente opposto:
«Anche i bambini che si trovano in pericolo di vita e si prevede che moriran-
no, non sono battezzati lecitamente, se entrambi i genitori o chi ne fa le veci
siano espressamente contrari» 8.

Sulla base di questo principio venne formulato il can. 16 § 2 del-


lo Schema de Sacramentis del 1975, inviato per la consultazione ai ve-
scovi, ai dicasteri romani e ai centri accademici:
«Il bambino, sia di genitori cattolici sia anche non cattolici, che versi in peri-
colo di vita, così da ritenere prudentemente che morirà prima di giungere
all’uso di ragione, è battezzato lecitamente, purché non siano espressamente
contrari entrambi i genitori o chi ne fa le veci».

La Commissione giustificò così il cambiamento di prospettiva


rispetto al CIC 1917:
«La ragione del mutamento proposto sta nel fatto che l’atto di fede per sua
stessa natura è volontario e richiede che l’uomo presti a Dio una ragionevole
e libera adesione di fede (cf DH 10), e nel fatto che tale atto volontario lo
può porre o il battezzando stesso, se è adulto, o al suo posto i genitori, che lo
rappresentano in forza della legge naturale, esercitandone i doveri e i diritti,
se questi non è in ancora in grado di agire».

7
Ibid., II-II, q. 10, art. 12, ad 2.
8
Per le varie fasi del lavoro di revisione, cf Communicationes 3 (1971) 200; 7 (1975) 30; 13 (1981) 224.
70 Mauro Rivella

Un nuovo Gruppo di lavoro, incaricato di raccogliere le osserva-


zioni formulate dagli organismi consultati sullo Schema 1975 e di for-
mulare un nuovo testo, si riunì a più riprese a partire dal 1977. Pur-
troppo non disponiamo del sunto delle osservazioni emerse dalla con-
sultazione. Ciò che sappiamo è che, nella sessione tenutasi il 13-18
marzo 1978, il relatore monsignor Onclin propose questo nuovo testo:
«Il bambino di genitori cattolici, e anche non cattolici, che versi in pericolo
di vita, così da ritenere prudentemente che morirà prima di giungere all’uso
di ragione, è battezzato lecitamente, purché non siano espressamente con-
trari entrambi i genitori e non ci sia pericolo di odio alla religione».

Dopo una vivace discussione, la nuova formulazione fu appro-


vata, con una significativa modifica nella conclusione: «È battezzato
lecitamente, anche contro la volontà dei genitori, a meno che da ciò
derivi il pericolo di odio alla religione».
Tale testo passò nello Schema complessivo del 1980, diventan-
do il can. 822 § 2. Nella consultazione su questo schema, uno dei Pa-
dri, il cardinale Florit, osservò che la clausola finale era superflua,
dal momento che la prevedibile reazione contraria alla religione a-
vrebbe costituito il male minore rispetto alla salvezza assicurata al
bambino. La Segreteria accolse l’obiezione e dispose la cancellazio-
ne della clausola finale 9. Il testo modificato divenne il can. 862 § 2 del
cosiddetto Schema novissimum del 1982, presentato al Papa per l’ul-
tima revisione: da esso passò, senza aver subito ulteriori ritocchi, nel
Codice vigente.
Il risultato finale di questo travagliato iter è un testo assai lonta-
no dalla formulazione contenuta nel primo Schema del 1975 e sor-
prendentemente vicino al CIC 1917, da cui recupera la preoccupazio-
ne assoluta per il battesimo del bambino in pericolo di morte anche
contro la volontà dei genitori, seppure non cattolici.
Si noti tuttavia che c’è una differenza sostanziale fra il CIC 1917
e la norma attuale: là si parlava in generale di figlio di infedeli (quindi
anche di ebrei, musulmani ecc.); qui la previsione del battesimo si li-
mita ai figli dei cattolici e degli acattolici, cioè dei cristiani non in pie-
na comunione con la Chiesa cattolica. Si noti ancora che il canone
non sancisce l’obbligo di battezzare il bambino che si trovi in perico-

9
P. COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Relatio complectens synthesim animadversio-
num..., Città del Vaticano 1981, p. 201.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 71

lo di morte, ma afferma la liceità di tale atto, a partire dalla preoccu-


pazione di garantirgli l’ingresso nella salvezza. Ciò non toglie che la
norma sia parsa alla maggior parte dei commentatori come irrispet-
tosa del principio della libertà religiosa, solennemente proclamato
dal concilio Vaticano II, e non in sintonia con l’impostazione globale
dei canoni sui sacramenti in genere e sul battesimo.

La tutela della libertà religiosa


e il diritto all’educazione dei figli
In effetti, pur con le precisazioni fatte sopra, il dettato del can.
868 § 2 sembra scontrarsi con due principi: la salvaguardia della li-
bertà di coscienza e il diritto prevalente dei genitori all’educazione
dei figli. Si tenga anche conto che nel caso in esame verrebbe meno
ciò che il § 1 del medesimo canone esige in generale per la lecita am-
ministrazione del battesimo dei bambini: la fondata speranza che es-
si vengano educati nella fede della Chiesa.
A partire dal concilio Vaticano II, non si contano i pronuncia-
menti autorevoli a favore del riconoscimento della libertà di coscien-
za come dimensione irrinunciabile della libertà religiosa: non è ec-
cessivo affermare che si tratta di uno dei punti più innovativi del re-
cente magistero ecclesiastico. Tale libertà configura uno specifico
diritto dei genitori in ordine all’educazione religiosa dei figli.
Così si esprime al n. 5 la Dichiarazione conciliare Dignitatis hu-
manae:
«Ai genitori compete il diritto di determinare la forma di educazione religio-
sa da impartirsi ai propri figli secondo la propria persuasione religiosa» 10.

Il tema dei contenuti della libertà religiosa è stato ampiamente


ripreso dal papa Giovanni Paolo II nel messaggio indirizzato il 1° set-
tembre 1980 ai Capi di Stato dei Paesi firmatari dell’Accordo di Hel-
sinki del 1975. In tale messaggio, al n. 4 si afferma che l’analisi dei
contenuti di tale libertà deve tener conto:
«della libertà, per i genitori, di educare i loro figli nelle convinzioni religiose
che ispirano la loro vita, e la possibilità di fare frequentare l’insegnamento
religioso e catechistico dato dalla comunità» 11.

10
EV 1, n. 1057.
11
EV 7, n. 565.
72 Mauro Rivella

Un’ulteriore conferma di questo insegnamento è contenuta nel-


la Carta dei diritti della famiglia, pubblicata dalla S. Sede il 24 no-
vembre 1983 (a tre giorni dall’entrata in vigore del nuovo Codice):
«Art. 5. a) I genitori hanno il diritto di educare i loro figli in conformità con
le loro convinzioni morali e religiose, tenendo conto delle tradizioni culturali
della famiglia che favoriscano il bene e la dignità del bambino.
Art. 7. Ogni famiglia ha il diritto di vivere liberamente la propria vita religio-
sa domestica sotto la guida dei genitori» 12.

Anche se i testi citati sono dettati in primo luogo dalla preoccu-


pazione di evitare intromissioni o discriminazioni da parte delle au-
torità civili in ordine all’educazione religiosa dei figli, è evidente,
nonché in piena sintonia con l’intenzione conciliare, che debbano ap-
plicarsi anche alla prassi dei cattolici nei confronti degli altri cristiani
e di ogni uomo.
Si noti ancora che è lo stesso Codice di diritto canonico a rico-
noscere il ruolo primario e insostituibile dei genitori nell’educazione
dei figli: basti qui ricordare i cann. 226 § 2, 774 § 2, 1136. Parimenti
non si può dimenticare il can. 748 § 2 («Non è mai lecito ad alcuno
indurre gli uomini con la costrizione ad abbracciare la fede cattolica
contro la loro coscienza»), che riprende e sviluppa gli insegnamenti
della Dignitatis humanae.

Come interpretare la norma codiciale?


In primo luogo è bene ricordare che non è in questione la vali-
dità del sacramento: come insegna infatti la dottrina cattolica, chiun-
que, anche un non cristiano, amministra validamente il battesimo se
usa la formula trinitaria e ha l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa
quando battezza 13. Inoltre il canone afferma che il battesimo conferi-
to in tali circostanze e a quelle condizioni è lecito, cioè non è proibito
né riprovato: ciò non implica tuttavia un dovere, né sottintende un in-
vito a praticarlo.
Il confronto con il CIC 1917 e l’uso del termine “acattolico” nel-
le altre parti del Codice permette anche di affermare che il canone
in questione non ritiene più lecito il battesimo in pericolo di morte di

12
EV 9, nn. 545; 547.
13
Cf CCC 1256.
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 73

figli di genitori non cristiani: si prendono ora in considerazione sol-


tanto i figli di cattolici e di cristiani acattolici.
Ciò non toglie che, pur con questa importante limitazione, la
norma rimanga problematica, dal momento che – come abbiamo vi-
sto – si scontra con l’insegnamento della Chiesa cattolica in materia
di libertà religiosa e con il diritto prevalente dei genitori in ordine
all’educazione dei figli. Tali diritti infatti, essendo connaturati con la
persona, valgono per ogni uomo. Si potrebbe qui distinguere fra cat-
tolici e acattolici: nel primo caso, potremmo ipotizzare che siano altri
parenti stretti, per esempio i nonni, a desiderare e magari impartire
il battesimo ai piccoli in pericolo di vita, nonostante l’opposizione dei
genitori 14. Nel secondo, il battesimo di un figlio di acattolici potrebbe
essere interpretato come un tentativo di proselitismo.
Non può in ogni modo lasciarci indifferenti il fatto che il Codice
orientale, nel canone corrispondente, ometta la previsione di un bat-
tesimo contro la volontà dei genitori:
Can. 681 § 4: «Il bambino, di genitori sia cattolici sia anche acattolici, che si
trova in un pericolo di morte tale da far ritenere prudentemente che morirà
prima di raggiungere l’uso di ragione, è battezzato lecitamente».

È anche assai significativo il silenzio del Catechismo della Chie-


sa cattolica su questo punto.
La S. Sede ha comunque ribadito la piena validità della norma qui
criticata. Di fronte a una direttiva della Commissione interrituale della
Conferenza episcopale canadese, che invitava a desistere dal battesi-
mo di bambini acattolici in pericolo di morte contro la volontà dei ge-
nitori, se non in circostanze del tutto straordinarie, la Congregazione
dei Sacramenti ha osservato che il battesimo non dovrebbe essere
omesso quando le circostanze non siano così difficili, mentre la Con-
gregazione della Dottrina della Fede ha ribadito che in ogni caso il di-
ritto alla salvezza eterna del bambino prevale sulle ragioni prudenziali
che inviterebbero ad astenersi dal conferimento del battesimo 15.

14
Il can. 1366 stabilisce che vengano puniti con una censura o con altra giusta pena i genitori che fan-
no battezzare o educare i figli in una religione acattolica. Dal momento che il diritto penale è soggetto a
interpretazione stretta e non ammette applicazione analogica, non si può invocare questo canone per
giustificare una sanzione penale nei confronti di quei genitori cattolici che si opponessero al battesimo
dei figli.
15
L’intervento della Conferenza episcopale canadese è del 12 marzo 1986; la lettera della Congregazio-
ne dei Sacramenti è del 27 maggio 1986; quella della Congregazione della Dottrina della Fede del 27
agosto 1986. Per i testi, cf B. DALY, Canonical Requirements of Parents in Cases of Infant Baptism Accor-
ding to the 1983 Code, in Studia Canonica 20 (1986) 427.
74 Mauro Rivella

Quanto alla proposta di alcuni commentatori, che suggeriscono


di attenersi a un’interpretazione stretta del “pericolo di morte”, limi-
tandolo ai casi estremi in cui il bambino versi in fin di vita, ci sembra
da una parte che si tratti di una forzatura del testo, dall’altra di una
scappatoia che lascia irrisolta la questione. Preferiamo rifarci al cri-
terio indicato a suo tempo dal Cappello, il quale, pur essendo un con-
vinto assertore della necessità assoluta del battesimo in ordine alla
salvezza, riteneva che neppure di fronte al pericolo di morte il batte-
simo dovesse essere amministrato in odio al cattolicesimo, «perché
il bene comune della religione cristiana va preferito anche al più
grande bene privato». Ci sembra che questa linea di applicazione as-
sai prudente del can. 868 § 2 sia del tutto coerente con l’insegnamen-
to del Catechismo della Chiesa cattolica:
«La Chiesa non conosce altro mezzo all’infuori del Battesimo per assicurare
l’ingresso nella beatitudine eterna; perciò si guarda dal trascurare la missio-
ne ricevuta dal Signore di far rinascere “dall’acqua e dallo Spirito” tutti colo-
ro che possono essere battezzati. Dio ha legato la salvezza al sacramento del
Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti» (n. 1257).

Il raffronto con le normative civili


Un ultimo aspetto che non può essere trascurato sta nelle impli-
cazioni penali di fronte alle autorità civili di un battesimo compiuto
contro la volontà dei genitori. Questi potrebbero infatti intendere ta-
le atto come una lesione dei loro diritti nei confronti dei figli, ricono-
sciuti anche dalle legislazioni statali.
Come il magistero della Chiesa, così anche le dichiarazioni in-
ternazionali hanno a più riprese affermato il diritto alla libertà religio-
sa e la responsabilità primaria dei genitori nell’educazione dei figli:
basti qui ricordare l’art. 18 e l’art. 26, 3° della Dichiarazione universa-
le dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, nonché l’art. 9 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto-
scritta a Roma il 4 novembre 1950 dai Paesi membri del Consiglio
d’Europa. Proprio la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo costituireb-
be la sede adeguata a cui un cittadino europeo potrebbe ricorrere
qualora ritenesse non sufficientemente tutelati dalla magistratura or-
dinaria i propri diritti in ordine alla libertà religiosa 16.

16
Nel 1993 la Corte si è pronunciata rispettivamente su un caso di repressione del proselitismo, che si
configura come reato all’interno dell’ordinamento greco, e sulla potestà dei genitori di diverso credo in
Battezzare i bambini in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori (can. 868 § 2) 75

Il Codice civile italiano stabilisce all’art. 147 i doveri dei genitori


verso i figli: tra essi rientra la cura per l’istruzione e l’educazione del-
la prole. Trattandosi di poteri inclusi nella potestà dei genitori, posso-
no essere effettuati solo dai medesimi. Il Codice penale contempla al-
l’art. 574 il reato di sottrazione di persona incapace, comminando da
uno a tre anni di reclusione a chi sottragga un minore di quattordici
anni al genitore che esercita la potestà. La fattispecie è applicata cor-
rentemente a chi ponga atti di libidine o al genitore non affidatario
che pretenda di trattenere con sé il minore, ma non è da escludere –
almeno in linea teorica – che possa essere invocata anche nel nostro
caso. È questa una ragione in più per raccomandare la massima cau-
tela nell’amministrare il battesimo contro la volontà dei genitori.

MAURO RIVELLA
via Lanfranchi, 10
10131 Torino

ordine all’educazione religiosa della prole, in riferimento a un caso austriaco. Per il dispositivo delle sen-
tenze e un commento di T. SCOVAZZI, cf Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n.s. 2 (1994) 719-750.
76
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 76 -102
Considerazioni
a partire dal can. 868 § 1, 2°1
ovvero
«Genitori “pagani”,
perché chiedete i sacramenti per i vostri figli?...
volete farne dei “lapsi”2?»
di Adriano Celeghin

La scelta di diventare cristiani è sempre stata considerata dalla


Chiesa come una decisione di fede e di grande responsabilità.
Il magistero della Chiesa raccomanda che i sacramenti dell’i-
niziazione cristiana non vengano mai conferiti senza una corretta va-
lutazione delle intenzioni dei richiedenti, dalla quale deve emergere
speranza di continuità, e senza una adeguata preparazione 3.
Fin dalle origini, stando a quanto ci racconta il libro degli Atti
degli Apostoli, anche quando era presente l’entusiasmo determinato
dall’inizio dell’evangelizzazione, la Chiesa ha mostrato una certa pru-
denza nell’accogliere nuovi membri nel suo seno. Sebbene non ven-
gano offerte particolari considerazioni in merito, da quanto ci viene
raccontato in quel libro si possono avere alcuni riscontri.
Da una parte l’episodio dell’effusione dello Spirito Santo su Cor-
nelio e su altri pagani prima del loro battesimo da parte di Pietro (cf
At 10, 44-48) sta proprio a testimoniare la prudenza della Chiesa nel
dare il battesimo. Attenzione analoga viene applicata da Filippo nei
confronti del ministro etiope (cf At 8, 36-39).
Il libro degli Atti degli Apostoli ci fa rilevare che il battesimo ve-
niva conferito solo dopo una adeguata accoglienza della Parola (cf At
2, 41).

1
La presente riflessione è maturata tenendo conto sia dell’intero paragrafo del can. 868, sia dei cann.
890 e 914.
2
Venivano chiamati “lapsi” quei cristiani che, nel periodo delle persecuzioni, davanti alla prova concre-
ta della fede, non avevano il coraggio di dichiararsi cristiani e rinnegavano la propria fede.
3
Si vedano come esempio i cann. 868; 889 § 2; 890. Cf pure: CEI, Direttorio di pastorale familiare per
la Chiesa in Italia, nn. 105-106, 25 luglio 1993, Roma 1993, p. 104.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 77

Dall’altra parte viene chiesto ai cristiani un comportamento di


vita conseguente alla scelta di fede operata e al dono di fede ricevu-
to. Emblematici sono gli episodi di Anania e Saffira (cf At 5, 1-11) e
di Simone il mago (cf At 8, 9-25).
Questi dati ci consentono di rilevare
«con quale serietà, fin dalle origini, i ministri del battesimo si preoccupasse-
ro di discernere la sincerità della conversione dei candidati [...] La stessa
preoccupazione di autenticità guidò la Chiesa missionaria del II e del III se-
colo nella sua funzione materna. È fondamentale, infatti, non dimenticare
che la potenza salvifica di Cristo non si può perfettamente sviluppare là do-
ve, mancando la fede, venga meno un ambiente adeguato (cf Mt 13, 58). In
altri termini, il sacramento non può essere accordato a un soggetto mal di-
sposto, o a uno a cui la fede non abbia realmente trasformato la vita» 4.

Questo impegno della Chiesa di valutare le intenzioni di chi vo-


leva diventare cristiano ha condotto all’istituzione del catecumenato,
la cui organizzazione «è frutto di un impegno pastorale, che si è an-
dato precisando durante tutto il corso del II secolo» 5. L’ esposizione
più completa di questa istituzione, giunta fino a noi, è contenuta nel-
la Tradizione Apostolica di Ippolito.
Viene dato per scontato che, in questo tempo, l’ammissione ai
sacramenti dell’iniziazione cristiana quasi sempre e quasi dovunque
fosse il punto di arrivo di una preparazione abbastanza lunga. All’ini-
zio del III secolo a Roma il periodo di formazione durava normal-
mente tre anni ed era segnato da due tappe principali: l’ammissione
al catecumenato e l’ammissione al battesimo 6.
Per avere l’ammissione all’una e all’altra fase era necessario su-
perare un “esame”.
Per essere compresi nel numero dei catecumeni quanti doman-
davano di diventare cristiani dovevano documentare con chiarezza le
ragioni della loro scelta e dovevano descrivere con precisione il tipo
di vita che conducevano, in modo che fosse valutato dai responsabili
se esso fosse conforme ai principi del Vangelo.

4
A. LAURENTIN - M. DUJARIER, Il Catecumenato - Fonti neotestamentarie e patristiche. La Riforma del Va-
ticano II, Roma 1995, p. 72; cf anche p. 87. Gli studi recenti sull’iniziazione cristiana sono numerosi e
forniscono comuni elementi generali. In questo articolo seguiamo il testo sopra citato. Per altri riferi-
menti bibliografici rimandiamo al nostro studio: A. CELEGHIN, L’iniziazione cristiana nel CIC del 1983,
in Periodica de re canonica 84 (1995) 31-75, 267-314.
5
A. LAURENTIN - M. DUJARIER, Il Catecumenato..., cit., p. 76.
6
Cf ibid., pp. 83 e 86.
78 Adriano Celeghin

Per poter essere ammesso tra i candidati al battesimo ciascun


catecumeno aveva bisogno della testimonianza del padrino che dove-
va attestarne una condotta di vita conforme al Vangelo e l’impegno
tenuto nell’assolvere i doveri di catechesi e di preghiera 7.
Non si può tralasciare di aggiungere che non sempre dall’impe-
gno di evangelizzazione e di accompagnamento da parte dei padrini
e dei pastori della Chiesa sono stati conseguiti risultati adeguati. Il
fenomeno dei “lapsi” è stata una realtà presente nel periodo delle
persecuzioni ed era un segno sia della debolezza dei singoli cristiani,
sia della fallibilità dei metodi di pastorale allora assunti.
Ma anche più tardi, terminato il periodo delle persecuzioni, si
presentano situazioni difficili per l’inserimento dei cristiani nella co-
munità ecclesiale.
Il cambiamento delle condizioni storiche avvenuto con la pace
di Costantino (anno 313) influisce purtroppo sulla qualità della scelta
cristiana che «va scadendo a vantaggio della quantità» 8.
I motivi della richiesta di far parte della Chiesa non sempre so-
no legati a conversione e a fede; talvolta sono dettati da ragioni di-
pendenti da vantaggi personali o da posizioni di prestigio. Per questa
ragione i Padri dei secoli IV e V richiamano l’impegno di accordare
tali sacramenti solo a chi mostra di avere fede vera e s’impegna a vi-
vere cristianamente 9.
Più tardi, con la prevedibile e scontata diffusione della prassi
del battesimo dei bambini, il catecumenato, già in crisi per le ragioni
appena ricordate, trova la sua fine. La richiesta del battesimo dei fi-
gli, infatti, dato per scontato che essa proveniva da famiglie cristiane,
non ha posto i pastori della Chiesa nella condizione di discernere
per ciascun caso le profonde ragioni della scelta e il corrispondente
impegno di vita dei genitori, e neppure li ha aiutati a individuare e
accogliere forme di accompagnamento pastorale specifico per i geni-
tori in questa precisa occasione.
Alla base di tutto questo poteva essere posta la convinzione del-
l’esistenza di una società profondamente permeata dai principi detta-
ti dal Vangelo e da una prassi che non metteva in discussione quello
che da sempre si era fatto: la richiesta di sacramenti (battesimo, pri-

7
Cf ibid., pp. 83, 86, 93, 97.
8
Ibid., p. 100.
9
Cf ibid., pp. 100-110.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 79

ma comunione, cresima, matrimonio ecc.) e il ritmo della vita civile


segnato da scadenze religiose.
La presunzione di fede e di convinzione cristiana dei genitori,
protrattasi per lunghissimo tempo in una società che veniva conside-
rata cristiana, in quest’ultimo periodo ha mostrato tutta la sua scon-
certante realtà.
Recentemente, proprio in merito alla situazione italiana, c’è sta-
ta una precisa riflessione di Giovanni Paolo II.
Egli, al Convegno di Palermo (23 novembre 1995), sintetizzava
il suo pensiero in questo modo:
«Questa nostra Italia [...] sta vivendo un momento di crisi, che non tocca so-
lo gli aspetti più appariscenti ed immediati della civile convivenza, ma rag-
giunge i livelli più profondi della cultura e dell’ethos collettivo [...]. Proprio
sul versante dell’ethos, infatti, sta venendo meno molto di quel patrimonio di
convinzioni condivise e di valori profondamente umani e insieme cristiani
che hanno costituito la spina dorsale della civiltà di questo Paese. Ciò è do-
vuto in gran parte all’incalzare di una cultura secolaristica, che trova un ter-
reno singolarmente favorevole nell’odierna complessità sociale e nell’ampli-
ficazione che ne operano i mass media. Non dev’essere tuttavia sottaciuta la
responsabilità che nel fenomeno hanno anche i credenti. Non sempre è stata
sufficientemente chiara e coerente la testimonianza di vita da essi offerta, e
forse talvolta è pure mancata in essi la piena consapevolezza delle trasforma-
zioni che si andavano compiendo.
Ora però non è più possibile farsi illusioni, troppo evidenti essendo divenuti i
segni della scristianizzazione nonché dello smarrimento dei valori umani e
morali fondamentali» 10.

E ritenere che non sempre alla richiesta dei sacramenti dell’ini-


ziazione cristiana fatta dai genitori per i loro figli corrispondesse e
corrisponda sia la consapevolezza di quanto si chiede sia la volontà
di vivere i valori della vita cristiana e l’impegno di proporli poi ai figli
non dovrebbe essere una forzatura del pensiero del Papa.
Nel caso dei sacramenti dell’iniziazione cristiana dei non adulti,
i responsabili sono i genitori. Sarà perciò indispensabile, da una par-
te, formare i membri delle comunità parrocchiali, in primo luogo i
sacerdoti, a entrare in dialogo con i genitori per suscitare questa
problematica cercandoli, andando nelle loro famiglie, invitandoli a vi-
vere alcune esperienze nella comunità e a iniziare uno scambio di
idee. Dall’altra parte sarà necessario chiedere loro di offrire garan-

10
Avvenire, 24 novembre 1995, 20.
80 Adriano Celeghin

zie e segni che esprimano sia la consapevolezza della loro domanda,


sia la loro volontà di vivere per primi secondo i principi del Vangelo.
In questo modo si renderanno pronti ad aiutare i figli ad accogliere e
a sviluppare il dono della fede fatto mediante il sacramento del batte-
simo che «non è soltanto un segno della fede, ma anche causa» 11, e
anche i doni specifici di ciascun sacramento successivo.

Genitori: polo fondamentale del dialogo ecclesiale


La Chiesa desidera far capire, tanto mediante le disposizioni ca-
noniche quanto mediante il rito del conferimento dei sacramenti, la
sua intenzione di rispettare la volontà dei richiedenti, ma nello stes-
so tempo mostra di non voler perdere nessuna occasione che le con-
senta di aiutare tutti coloro che sono ammessi ai sacramenti. Si
preoccupa di far loro capire e accogliere anche i contenuti più pro-
fondi e di sostenerli nell’impegno a vivere in maniera coerente la vo-
cazione cristiana, che da quei sacramenti deriva.
Qualora i candidati ai sacramenti siano minori, interlocutori con
i pastori della Chiesa e con tutta la comunità diventano i genitori. Il
dialogo che viene costruito con i genitori ha come scopo di ravvivare
la memoria dei loro impegni battesimali e di stimolare una maggiore
responsabilità proprio in occasione di una loro scelta libera nei con-
fronti dei propri figli. Esso diventa assoluto ed esclusivo nel caso del
battesimo dei bambini e si instaura in maniera relativa nel caso del
battesimo dei fanciulli, e in occasione della prima comunione e della
prima confessione dei fanciulli e della cresima dei ragazzi 12, dal mo-
mento che i genitori intervengono, e non poco, nella scelta dei sacra-
menti.
La riflessione che andiamo svolgendo non intende assolutamen-
te affrontare il problema del battesimo dei bambini e del conferi-
mento ai fanciulli e ai ragazzi degli altri sacramenti in sé, «ma l’ap-
profondimento del ruolo educativo dei genitori» 13. Siamo cioè inte-
ressati a riflettere sul dato di fatto che, quando un bambino riceve i
sacramenti dell’iniziazione cristiana, «nonostante le apparenze i ger-
mi della fede deposti nella sua anima potranno un giorno riprendere

11
SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Pastoralis actio, 20 ottobre 1980, n. 18 (EV 7,
n. 583).
12
Cf C.M. MARTINI, Vivere il Vangelo del matrimonio, Milano 1990, pp. 52-59.
13
G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, in Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991) 134.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 81

vita, e i genitori vi contribuiranno con la loro preghiera e la testimo-


nianza autentica della loro fede» 14, anche se si dovesse verificare
«che il bambino, giunto all’età adulta, rifiuti gli obblighi derivanti dal
suo battesimo» 15. Sembra cioè scontato che, in questo caso, quanto
viene sottolineato è la scelta di fede dei genitori, che va documentata
e sostenuta nel rapporto tra genitori e comunità.
Il dialogo tra genitori e comunità ecclesiale ha uno spettro che
va dal semplice consenso al pieno coinvolgimento. Mediante esso si
può mettere in giusta luce, nel contesto della richiesta dei sacramen-
ti, il valore irrinunciabile della fede cristiana che, per sua natura, si
traduce in testimonianza ogniqualvolta una persona compie qualsiasi
gesto di fede, fosse anche soltanto quello di chiedere il battesimo
per il proprio figlio. Il dialogo viene stabilito a diversi livelli, a secon-
da della situazione di inserimento ecclesiale dei genitori.
Un primo livello consiste nel consenso che i genitori non posso-
no non accordare perché si proceda al battesimo del loro figlio (can.
868 § 1, 1°), o perché possano venire a lui conferiti altri sacramenti
(cann. 890 e 914). È una condizione minimale che va collocata e capi-
ta ben oltre il limite della domanda del sacramento che, in questo ca-
so, non sono i genitori ad avanzare, ma qualcuno che si trova in una
particolare relazione con loro e con il bambino.
Questo non è ancora dialogo vero e proprio. È un mezzo che
viene utilizzato solo per valutare se da parte dei genitori, diretti re-
sponsabili di un minore, ci sia opposizione al conferimento di un sa-
cramento.
In questo caso non ci si trova ancora davanti a una domanda e-
splicita che consenta un dialogo profondo con i genitori; ma il dialo-
go, dato per scontato che il sacramento non può essere celebrato
senza il consenso dei naturali responsabili dei figli, tranne in caso di
pericolo di morte 16, va instaurato con chi si è presentato per chiede-
re il sacramento.
Questo caso limite deve però rivestire il carattere dell’eccezio-
ne, che ci si augura di dover incontrare molto raramente.
Un’altra possibilità di dialogo tra genitori e comunità sta nella
scelta del nome da dare al figlio per il quale si chiede il battesimo. Il

14
Pastoralis actio, n. 22.
15
L. cit.
16
Cf cann. 867 § 2 e 889 § 2.
82 Adriano Celeghin

Codice, con una indicazione molto vaga 17, chiede che non sia «estra-
neo al senso cristiano» (can. 855). Pur nella fluidità concettuale della
formulazione del canone, pare importante cogliere uno spunto di ri-
flessione sul senso della identità cristiana da dare al battezzando. In
tal caso i genitori non sceglieranno il nome a partire da criteri sociali
(che non sia, per esempio, un nome troppo diffuso), né da criteri
emotivi (il fatto che suoni bene o non venga storpiato), ma prende-
ranno in considerazione anche la scelta del nome a partire dal senso
del nome stesso (esempio: Matteo = dono di Dio, che sarebbe da ap-
plicarsi a ogni figlio!) o dal richiamo a una vita cristiana vissuta da un
cristiano concreto e ben identificato, al quale guardare per imparare
a vivere seguendo le indicazioni del Vangelo.
Un terzo elemento, sul quale instaurare un dialogo tra genitori
e comunità, è la comunità stessa. È sufficiente guardare al Rito del-
l’Iniziazione cristiana degli adulti per avere un’idea adeguata dell’im-
portanza della comunità nella celebrazione dei sacramenti. La do-
manda dei sacramenti è fatta alla Chiesa ed è essa che li dona 18. Il
fatto che anche il Codice (can. 857 § 2) parli della chiesa parrocchia-
le propria dei genitori come luogo del battesimo sta a richiedere che
il sacramento venga celebrato lì dove si riunisce la comunità di ap-
partenenza. La disposizione del canone non è giuridica nel senso più
restrittivo e vuoto; essa ha un’apertura pastorale di grande rilievo, in
linea con il principio che ogni dono del Signore passa attraverso una
comunità ben determinata e cresce se trova riferimento in una co-
munità precisa.
Un quarto argomento, sul quale articolare il dialogo tra genitori
e comunità, è quello riguardante la preparazione adeguata dei geni-
tori e dei padrini sui contenuti e sugli obblighi dei sacramenti. Tra i
diversi strumenti che si possono utilizzare, vengono suggeriti lezio-
ni, esortazioni pastorali, preghiera, incontri tra più famiglie e anche
incontri personali con il parroco (cf cann. 851, 2°; 867 § 1).
Il far leva sulla preparazione adeguata, sostenuta dalle relative
esemplificazioni, fa intuire quanto la Chiesa ci tenga a conferire i sa-
cramenti a persone che ne siano consapevoli, in modo che si viva
una celebrazione ampiamente partecipata, spiritualmente consape-

17
Cf A. CELEGHIN, I sacramenti dell’iniziazione cristiana, in AA.VV., La funzione di santificare della Chie-
sa (ed. Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico - XX Incontro di studio), Milano 1995, pp. 68-69.
18
Cf ibid., pp. 89-91; cf anche: ID., L’iniziazione cristiana nel CIC 1983, pp. 278 - 286.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 83

vole di quello che si chiede e si parta da essa decisi a vivere in ma-


niera coerente con le scelte compiute.
La Chiesa infatti nelle sue disposizioni parla di obblighi che de-
rivano dai sacramenti (cann. 851; 879; 898). Ne tratta in maniera mol-
to chiara. E la ragione è quella di voler responsabilizzare quanti chie-
dono i sacramenti per sé e per i propri cari a sviluppare la grazia del
sacramento.
Se i genitori sono consapevoli quando chiedono il battesimo, al-
lora non potranno non mostrarsi particolarmente pronti a collabora-
re perché i figli siano preparati anche a ricevere la cresima (can.
890) e ad accostarsi responsabilmente alla prima confessione e an-
che alla prima comunione (can. 914).
Se si dovesse invece cadere nella ipotesi opposta, c’è da aspet-
tarsi che, anche se i figli riceveranno cresima e prima comunione, ci
saranno poche possibilità che la loro vita sia condotta in sintonia con
la scelta della fede battesimale.
Un altro tema di dialogo tra genitori e comunità è relativo alla
globalità del compito educativo dei genitori. Nel caso della scelta dei
sacramenti, ai genitori viene chiesto di aiutare i figli a condurre una
vita cristiana conforme ai sacramenti che ricevono. Questo impegno
non dovrebbe risolversi in una adesione verbale legata al momento;
dovrebbe essere invece l’espressione onesta di una volontà aliena da
qualsiasi prospettiva di scadenza temporale e pienamente consape-
vole che per raggiungere questa meta non esiste altra strada che
quella di conseguire sia personalmente sia in famiglia i valori che la
fede – la quale fa domandare i sacramenti e viene da essi donata –,
interpella ad assumere e a vivere. Il rito del battesimo dei bambini e
il rito dell’iniziazione cristiana dei fanciulli nell’età del catechismo 19
sono particolarmente espliciti a questo proposito. Chiedono infatti ai
genitori di acconsentire ai sacramenti e di vivere come i primi te-
stimoni di fede per i propri figli e fa pregare perché essi così si com-
portino. Questo vuol dire che la Chiesa è particolarmente preoccu-
pata del fatto che alla celebrazione del sacramento segua una vita in
profonda sintonia con i principi del Vangelo, che sviluppi e faccia
crescere i doni ricevuti dai sacramenti.
L’obbligo dell’educazione alla fede, fatta di testimonianza, pro-
posta, insegnamento, scelte di vita ecc., è così importante che, se

19
Cf Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, 320, pp. 190-191.
84 Adriano Celeghin

non ci fosse fondata speranza di tale impegno, il ministro del battesi-


mo è sollecitato a pensare prima di conferire il sacramento ed è invi-
tato a comunicare ai genitori i suoi dubbi perché, a loro volta, consi-
derino ancora la loro richiesta e, aiutati dalla comunità cristiana,
prendano tempo per valutarla meglio e per chiarire meglio le impli-
cazioni della loro domanda 20.
La questione è stata naturalmente affrontata anche nei lavori di
revisione del Codice. I consultori hanno sottolineato l’importanza
della «fondata speranza» per la successiva educazione nella fede dei
bambini che vengono battezzati 21.
Non ci pare che tra i membri della Commissione ci fosse la
preoccupazione che venisse messa in crisi l’istituzione del battesimo
dei bambini, come risulta invece evidente nell’istruzione Pastoralis
actio. Dagli atti finora pubblicati siamo venuti a conoscere che un so-
lo consultore propone di «trattare prima il battesimo dei bambini e
dopo quello degli adulti contro quelli che intendono dilazionare il bat-
tesimo» 22. E dal momento che nel Codice si parla prima del battesimo
degli adulti e poi di quello dei bambini, dobbiamo concludere che il
problema non fosse così grave.
Il canone, che è il risultato dei lavori di revisione, è comunque
molto preciso a proposito:
«Can. 868 § 1. Per battezzare lecitamente un bambino si esige:
1° che i genitori, o almeno uno di essi o chi tiene legittimamente il loro po-
sto, vi consentano;
2° che vi sia la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica; se
tale speranza manca del tutto, il battesimo venga differito, secondo le dispo-
sizioni del diritto particolare, dandone ragione ai genitori».

Il Legislatore, che non mette assolutamente in dubbio il valore


del battesimo per la salvezza eterna, e non intende mettere in di-
scussione per nessuna ragione la prassi del battesimo dei bambini,
sembra particolarmente interessato a far capire che nessun pastore
deve essere preso dalla fretta di battezzare, quando c’è il rischio che

20
Si veda a questo proposito l’ultima parte del documento sopra citato: Pastoralis actio, nn. 30-31, pub-
blicato prima della promulgazione del CIC vigente, e la proposta di un vescovo del Togo, citata in nota,
a cui il documento sembra voler rispondere.
21
Cf Communicationes 3 (1972) 200; 6 (1974) 36; 13 (1981) 223-224.
22
In Communicationes 13 (1981) 215 si legge: «Ipse mallet ut prius sermo instituatur de infantium et
postea adultorum baptismo, contra eos qui baptismum procrastinare intendunt». A partire dalla constata-
zione dell’esistenza di quest’unico intervento ci pare un po’ forzata l’interpretazione proposta da
G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, cit., p. 138.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 85

questo dono non sia consapevolmente accolto e non porti i frutti che
da esso ci si deve aspettare 23. Nei due numeri del paragrafo di que-
sto canone il Legislatore sembra volersi muovere tra due estremi
identificabili nelle due espressioni riferite ai genitori: «consentano» e
«dandone ragione». Da una parte afferma l’illiceità del conferimento
del sacramento qualora non ci fosse il consenso dei genitori. All’altro
estremo espone invece la necessità di comunicare ai genitori i motivi
in base ai quali chi ha fatto un discernimento circa la fondata speran-
za della successiva educazione cattolica non ha trovato elementi a fa-
vore del conferimento del sacramento.
Pare evidente che il parroco, o chi per lui, sia tenuto a fare tale
valutazione e che per attuare tale servizio sia chiamato a considera-
re, con rispetto e comprensione, gli elementi che vengono offerti so-
prattutto dai genitori in occasione non solo del battesimo, ma anche
della confermazione (can. 890) e della prima confessione e comunio-
ne (can. 914).
La problematica suscitata ruota attorno all’espressione «dando-
ne ragione», la quale implica un serio discernimento che non può
non riguardare il contesto in cui il dono della fede e la grazia dei sa-
cramenti potrà crescere, che è quello della famiglia.

Quali devono essere le disposizioni concrete dei genitori?


Una simile domanda viene formulata dai parroci, dai sacerdoti
e dai catechisti ogniqualvolta viene conferito un sacramento ai bam-
bini o ai ragazzi. Questo interrogativo, quando intuiscono che alla ri-
chiesta di un sacramento non corrispondono le dovute disposizioni,
li mette in crisi.
E davanti a tali casi è necessario individuare una linea di com-
portamento precisa, corretta e documentata. Nella nostra esperienza
pastorale, ma osiamo presumere sia capitato così a tutti i preti impe-
gnati in pastorale, ci siamo incontrati raramente con genitori che,
chiedendo i sacramenti per i loro figli, manifestassero difficoltà da-
vanti ad alcune affermazioni di fede o a determinati principi della
morale cattolica. Non abbiamo mai trovato nessuno che ritenesse
sbagliato il principio educativo che ricorda agli educatori di vivere

23
Cf ibid., pp. 27-32; rimandiamo anche ai nostri studi ricordati sopra in nota e ricordiamo pure un’al-
tra nostra pubblicazione: ID., Disposizioni per l’ammissione alla Cresima e itinerario mistagogico, in
Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991) 164-167.
86 Adriano Celeghin

per primi quanto propongono agli altri. Nessuno ha mai contestato la


sottolineatura più o meno marcata della necessità dell’impegno a vi-
vere in famiglia i valori richiesti da ciascun sacramento.
Ma poi? Quali sono stati i risultati che noi abbiamo riscontrato?
Spesso l’adesione verbale alle cose dette non veniva seguita dal-
l’impegno concreto a viverle. È però necessario precisare che questo
dato non è determinato solo dalla debolezza che accompagna ciascun
cristiano. Esistono infatti segni che proiettano oltre questa compo-
nente.
Molto spesso ci si trova davanti a decisioni di chiedere i sacra-
menti che sono dettate da una pura formalità, o da un costume, o da
un compromesso sociale; meno di frequente ci si incontra con perso-
ne che testimoniano di avere un fondamento religioso chiaro e coin-
volgente. Talvolta manca un vero riferimento a Cristo, al Vangelo e
alla comunità. Nella maggioranza dei casi l’inizio del dialogo mette
in luce l’esistenza di un criterio di valutazione della richiesta dei sa-
cramenti limitato alla prospettiva soggettiva, che risponde all’idea di
una religiosità estremamente comoda per il soggetto, fondata su una
base emozionale, anti intellettualistica e lontana dalla Chiesa intesa
sia come istituzione sia come comunità 24.
«L’attuale situazione, pur consentendo la possibilità di avvicinare i genitori e
di offrire loro qualche elemento di catechesi, si rivela assolutamente fru-
strante per i risultati e per gli stessi operatori di pastorale. I dati statistici so-
no sotto gli occhi di tutti; l’attuale forma d’iniziazione produce di fatto più
non praticanti che praticanti. [...] Nonostante l’ingente impiego di forze mes-
se a disposizione per la catechesi di prima comunione e confermazione, i ri-
sultati sono semplicemente fallimentari, almeno per quanto possiamo uma-
namente constatare» 25.

La prospettiva di fallimento diventa ancora più evidente quando


si prende in considerazione l’aspetto ecclesiale.
«Ecclesialmente l’attuale prassi dell’iniziazione non realizza – nella stragran-
de maggioranza dei casi – alcun senso di appartenenza alla comunità locale.
Gli “iniziati” hanno vissuto un dovere loro imposto e legato a una tradizione
culturale, ma difficilmente matura in loro un vero senso di corresponsabilità
ecclesiale e di partecipazione alla vita di comunità.

24
Cf R. PAGANELLI, Educare alla fede nel postmoderno, in Settimana 9/14-15 (1995) 11.
25
C. ROCCHETTA, Iniziazione cristiana: chi ha il coraggio di cambiare?, in Settimana 9/26 (1995) 12. Si
veda anche: CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli anni ’90,
8 dicembre 1990, n. 6.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 87

Risiede in questo dato di fatto uno dei paradossi più incongruenti della no-
stra pastorale: un cammino di “iniziazione” della Chiesa che non “inizia” alla
Chiesa! Sarà già molto se una parte di questi “iniziati”, forse un 15%, andrà
alla messa la domenica!» 26.

Poiché l’angolatura dalla quale stiamo considerando il proble-


ma è quella del rapporto con i genitori, si devono formulare le consi-
derazioni proprio a partire da loro.
Essi sono profondamente immersi nella cultura attuale, la espri-
mono e la costruiscono insieme. E la cultura attuale, per dirla con il
Papa, tocca tutti. Egli nel pensare alla vicinanza del nuovo millennio
scrive:
«Un serio esame di coscienza è stato auspicato da numerosi Cardinali e Ve-
scovi soprattutto per la Chiesa del presente. Alle soglie del nuovo Millennio i
cristiani devono porsi umilmente davanti al Signore per interrogarsi sulle re-
sponsabilità che anch’essi hanno nei confronti dei mali del nostro tempo. L’e-
poca attuale, infatti, accanto a molte luci, presenta anche non poche ombre.
Come tacere, ad esempio, dell’indifferenza religiosa, che porta molti uomini
di oggi a vivere come se Dio non ci fosse o ad accontentarsi di una religio-
sità vaga, incapace di misurarsi con il problema della verità e con il dovere
della coerenza? A ciò sono da collegare anche la diffusa perdita del senso
trascendente dell’esistenza umana e lo smarrimento in campo etico, persino
nei valori fondamentali del rispetto della vita e della famiglia. Una verifica si
impone pure ai figli della Chiesa: quanto sono anch’essi toccati dall’atmosfe-
ra di secolarismo e relativismo etico? E quanta parte di responsabilità devo-
no anch’essi riconoscere, di fronte alla dilagante irreligiosità, per non aver
manifestato il genuino volto di Dio, a causa dei “difetti della propria vita reli-
giosa, morale e sociale”?
Non si può infatti negare che la vita spirituale attraversi, in molti cristiani, un
momento di incertezza che coinvolge non solo la vita morale, ma anche la
preghiera e la stessa rettitudine teologale della fede. Questa, già messa alla
prova dal confronto col nostro tempo, è talvolta disorientata da indirizzi teo-
logici erronei, che si diffondono anche a causa della crisi di obbedienza nei
confronti del Magistero della Chiesa» 27.

L’evoluzione della mentalità è stata oggetto di numerosi studi


che hanno evidenziato vari passaggi da riferimenti culturali forti e
assodati alla loro messa in crisi, al sopravvento del cosiddetto “pen-
siero debole”, alla cultura rinunciataria e frammentata, fino all’attua-
le situazione di relativismo 28.

26
L. cit.
27
GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, n. 36.
28
Cf Evangelizzazione e testimonianza della carità, nn. 8, 31; CEI, Il Vangelo della carità per una nuova
società in Italia, 19 dicembre 1994, n. 9.
88 Adriano Celeghin

Non si può, infatti, ignorare che


«è venuta meno un’adesione alla fede cristiana basata principalmente sulla
tradizione e sul consenso sociale» 29.
«Era indubbiamente diverso affrontare il tema famiglia in una società so-
stanzialmente “statica” come quella pre-industriale, in cui l’aumento del livel-
lo medio di benessere economico e fenomeni come l’urbanizzazione, la mo-
bilità, la diffusione dell’informazione, la partecipazione, l’emancipazione del-
la donna non erano ancora sviluppati e in cui la struttura familiare era
ancora legata ai modelli prevalenti nel mondo rurale, soprattutto in un paese
come l’Italia che è arrivata più tardi all’industrializzazione rispetto ad altri
paesi europei» 30.
«La situazione italiana ha subito in questi ultimi tempi un deciso e profondo
cambiamento, anche se i segni di questo cambiamento erano avvertibili e
operanti già da tempo» 31.

La situazione è notevolmente cambiata anche verso la proposta


religiosa.
«Mentre si sono ridotti molti fenomeni di critica pregiudiziale al fatto religio-
so, l’area dell’indifferenza continua purtroppo ad aumentare» 32.

Anche il modo di rapportarsi dei genitori davanti alla motiva-


zione della scelta dei sacramenti per i figli ha subito una grande evo-
luzione.
Senza pretesa di assolutezza e di infallibilità ci permettiamo di
evidenziare alcuni passaggi che possono essere articolati con il cam-
bio di mentalità verificato in questi ultimi decenni.
A grandi linee, e senza voler ignorare il dato che in ogni tempo
nel campo del mondo il grano cresce con la zizzania (cf Mt 13, 24-
30.36-43), ci sembra di individuare quattro modi diversi di rapportar-
si ai sacramenti dei figli da parte dei genitori; possiamo osservare
quattro livelli di trasformazione in una società che dopo la guerra è
molto cambiata.
La generazione dei genitori vissuta fino alla conclusione della
guerra era quella saldamente appoggiata alla cultura della tradizione
e del consenso sociale. Essa era generalmente caratterizzata dal fat-
to che la fede e la vita ecclesiale venivano considerate da tutti un va-

29
Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 31.
30
S.M. CAMPANINI, Una Chiesa che si fa famiglia, in Presenza Pastorale 65 (1995) 736.
31
Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, n. 9.
32
Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 31.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 89

lore e la quasi totalità dei genitori vivevano i valori cristiani che, a lo-
ro volta, proponevano ai figli. Riferimenti precisi sono i segni della
partecipazione alla messa domenicale e dell’inserimento della fami-
glia nella vita della comunità.
Nel periodo postbellico si inizia a mettere in crisi la cultura pre-
cedente, il cui apice può essere individuato alla fine degli anni ’60 e
ci si avvia verso l’affermazione del pensiero debole. I genitori di que-
sto periodo sono quelli che continuano a proporre ai figli (e preten-
dere per loro) i sacramenti, il catechismo e anche, in un certo modo,
la vita ecclesiale. Questi dati però non coincidono più con un profon-
dissimo radicamento ai valori cristiani; derivano piuttosto da una de-
cisione di opportunità nel continuare gesti ed esperienze (considera-
ti non dannosi) che quegli stessi genitori avevano vissuto. La ragio-
ne non sta nel dire: «Scelgo per i miei figli cose che sono importanti
anche per me», ma: «Faccio fare ai miei figli quanto i miei genitori
hanno fatto fare a me». Mentre viene a vacillare il riferimento ai valo-
ri, sembra tenere ancora il riferimento alle esperienze: ricevere i sa-
cramenti e, per un certo tempo, partecipare alla messa e alla vita del-
la comunità (con caratteristiche che talora sono dettate dalla menta-
lità consumistica: accolgo le opportunità che la comunità cristiana
mi offre, senza volermi pienamente responsabilizzare e soltanto fino
a quando non trovi alternative). Questi genitori non riescono comun-
que a far continuare l’esperienza di vita cristiana (per esempio mes-
sa e vita di comunità) oltre un certo tempo che, normalmente, coin-
cide con il conferimento della cresima.
I genitori di oggi si presentano come un risultato del passaggio
precedente. Sono i figli del “pensiero debole”, ancora legati però a
determinati adempimenti. Hanno ancora un riferimento alla prassi di
“dare” i sacramenti ai propri figli, senza fare grandi pressioni sull’im-
pegno religioso e senza proporre questo aspetto con convinzione e
come importante per i propri figli.
I vescovi italiani rilevano questa situazione già nel 1969 quando,
tra le altre cose, scrivono:
«Mai come oggi i genitori devono procedere nella loro opera educativa con
pazienza e fiducia. Mai come oggi devono essere preoccupati dell’esempio
che offrono ai figli, in particolare nella vita morale e religiosa. Vanno racco-
mandate quelle iniziative che possono aiutare i genitori a compiere il loro
dovere di educatori» 33.

33
CEI, Matrimonio e famiglia oggi in Italia, 15 novembre 1969, n. 13.
90 Adriano Celeghin

Questa considerazione diventa ancora più esplicita in un altro


loro recente documento nel quale affermano:
«Nello stesso tempo permangono o addirittura si aggravano fenomeni pro-
blematici o negativi che possono sconvolgere l’ordinata convivenza coniuga-
le e familiare. Tra gli altri: [...] un’ ambigua o addirittura errata concezione
teorica e pratica dei rapporti tra coniugi e tra genitori e figli; [...] una preco-
ce abdicazione da parte dei genitori alle proprie responsabilità educative o,
all’opposto, un rapporto educativo caratterizzato da possessività esasperata
che soffoca la libertà dei figli anche condizionando e ostacolando la loro
scelta vocazionale» 34.

È vero che i vescovi dicono pure che «non mancano aspetti po-
sitivi quali: [...] una accresciuta consapevolezza delle responsabilità
proprie dei genitori nel procreare e nell’educare i figli» 35, ma nella vi-
sione globale sembrano sottolineare l’aggravamento degli aspetti ne-
gativi.
I genitori di questo tempo fanno “fare i sacramenti” (battesimo,
prima confessione e prima comunione), ma non hanno alcuna deter-
minazione per una scelta religiosa e, appena i figli mostrano di non
avere più alcun interesse in questo campo, lasciano correre ogni im-
pegno. La verifica sta nel fatto che un certo numero di ragazzi, pur
avendo ricevuto il battesimo, ed essendosi accostati anche alla prima
comunione, non ricevono più la cresima, perché “si stancano” prima.
Quanto guida questo rapporto con la fede e la comunità è segnato
spesso dall’indifferenza: l’assenza di un giudizio di valore sull’espe-
rienza cristiana non può comunicare forti contenuti e ingenera un’as-
senza di capacità di scegliere.
Questi figli, quando diventeranno a loro volta genitori, davanti
all’assenza di una proposta precisa e chiaramente testimoniata in cui
si sono trovati a vivere, con fatica potranno avere nei sacramenti del-
l’iniziazione cristiana un preciso riferimento per la vita dei propri fi-
gli. Se continueranno a chiederli per i loro figli saranno tentati di li-
mitarsi al battesimo (le altre “tappe” corrono il rischio di essere trop-
po impegnative per i genitori), a meno che i bambini non facciano
forza per partecipare con gli amici ad alcune esperienze della comu-
nità cristiana, e quando insistono, forse, non è per documentate ra-
gioni di fede, ma spesso per avere una possibilità in più per rompere

34
Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, n. 6.
35
Ibid., n. 5.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 91

la loro solitudine e non perdere l’occasione di prolungare il tempo da


passare con i coetanei.
Con questa prospettiva si può incorrere nel rischio di dare i sa-
cramenti dell’iniziazione cristiana con l’illusione che ci sia continuità
nella scelta di fede e di vita cristiana, mentre invece si mettono in-
consapevolmente le premesse perché sempre più le nostre comunità
cristiane siano formate da “pagani di ritorno”.
Ed è proprio su quest’ultima considerazione che vorremmo
spendere una parola per essere capiti in modo preciso.
Affermare che tra i battezzati ci sono anche i “pagani” potrebbe
apparire come un’assurdità teologica. Ogni credente con il battesi-
mo diventa cristiano ed entra ontologicamente in una realtà irrever-
sibile: resterà cristiano per sempre. Dio riconoscerà sempre un bat-
tezzato come suo figlio, anche se questi non avrà mai potuto o voluto
dimostrare di essere tale.
Ma anche se “sostanzialmente” un battezzato non può essere ri-
tenuto pagano, può però venire considerato tale sotto il profilo “esi-
stenziale”: non lo è, ma si comporta come se lo fosse.
Per questa ragione abbiamo pensato di dare un titolo provoca-
torio a questa riflessione. Abbiamo osato parlare di alcuni genitori
“pagani”; di coloro, cioè, che non fanno per i propri figli una scelta di
fede consapevole, responsabile e matura, e tuttavia chiedono un ge-
sto religioso che dovrebbe coinvolgere la loro vita, aprendoli a pro-
spettive di cammino di fede e di vita ecclesiale.
Se i genitori che chiedono i sacramenti hanno presenti i valori
che domandano, essi per primi devono assumere come riferimento
di vita la parola di Dio, l’eucaristia domenicale, la preghiera, la testi-
monianza di fede, la vita di comunità e devono avere la preoccupazio-
ne di conoscere e vivere i valori del Vangelo. Genitori così si pongo-
no nella prospettiva di dare ai figli esattamente quanto guida la loro
stessa vita ed è naturale che, vivendo essi stessi questi valori, diano
prima di tutto consapevolezza esistenziale della loro importanza e
nello stesso tempo mettano chiare premesse perché anche i loro fi-
gli entrino in una consapevolezza dell’importanza della fede a livello
teorico e della sua importanza nella vita concreta del cristiano.
Ma se i genitori che chiedono i sacramenti per i loro figli, pur
avendo essi stessi ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana, non
vivono assolutamente quanto il Vangelo propone e i sacramenti ri-
chiedono, sono ancora nella condizione in cui si trovano i “pagani”
(senza offesa!), che non hanno compiuto una precisa scelta di fede,
92 Adriano Celeghin

non saranno poi neppure in grado di documentarla con chiarezza ai


propri figli e non saranno capaci di renderli consapevoli dell’impor-
tanza del loro essere cristiani e di aiutarli a vivere come tali.
Infatti, uno che non conosce determinate cose non può farle di-
ventare riferimento per la propria vita e non può neppure insegnarle
agli altri. Qui però è necessario aggiungere pure un’altra riflessione:
se si è convinti che per compiere una seria azione educativa non è
sufficiente comunicare i valori con la parola e non ci si può limitare a
far vivere alcune esperienze slegate dal contesto di vita, ci si illude
che i valori vengano assunti come parte della vita, qualora mancasse-
ro queste condizioni. Anche nel caso in cui venissero materialmente
vissute alcune esperienze emotivamente coinvolgenti, resta l’illusio-
ne di un tale sviluppo.
Chiunque abbia un po’ di esperienza pastorale può concordare
sul fatto che, nel nostro ambiente, sono molte le realtà familiari che,
pur provenendo dalla celebrazione di tutti e tre i sacramenti dell’ini-
ziazione cristiana e pur senza dare segni di vita cristiana, continuano
a chiedere i sacramenti per i figli. Talvolta questi genitori danno an-
che garanzie verbali di impegno a educare cristianamente i propri fi-
gli, senza che, nella maggioranza dei casi, ci sia poi la risposta con-
creta e l’impegno relativo.

Una responsabilità ecclesiale: discernere


Dalla Chiesa, consapevole della situazione in tutto il mondo per
diverse ragioni, vengono dati indirizzi precisi perché alla domanda
dei sacramenti non corrisponda una risposta immediata, data senza
la dovuta ponderazione.
La richiesta di un sacramento è sempre una cosa buona. Il con-
ferimento di un sacramento è sempre grazia di Dio. Ma oggi queste
due cose buone devono essere armoniosamente articolate con un al-
tro principio: la consapevolezza di quanto viene chiesto e ricevuto, in
modo che tale dono possa essere successivamente coltivato, si svi-
luppi e porti frutto.
A questo proposito l’Istruzione Pastoralis actio sul battesimo
dei bambini, già citata, si esprime così:
«Concretamente, la pastorale del battesimo dei bambini dovrà ispirarsi a due
grandi principi, di cui il secondo è subordinato al primo:
1) Il battesimo, necessario per la salvezza, è il segno e lo strumento del-
l’amore preveniente di Dio che libera dal peccato e comunica la partecipa-
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 93

zione alla vita divina: per sé, il dono di questi beni non deve essere differito
ai bambini.

2) Devono essere prese delle garanzie perché tale dono possa svilupparsi
mediante una vera educazione nella fede e nella vita cristiana, sicché il sa-
cramento possa raggiungere pienamente la sua “realtà”. Di solito esse sono
date dai genitori o dai parenti stretti, benché possano essere supplite in di-
verso modo nella comunità cristiana. Ma se tali garanzie non sono veramen-
te serie, si potrà essere indotti a differire il sacramento, o addirittura a rifiu-
tarlo, qualora siano certamente inesistenti» (n. 28).

Ci fa riflettere l’affermazione «il secondo [principio] è subordi-


nato al primo». Mentre viene detto che il sacramento è dono in sé,
l’istruzione sembra suggerire la preoccupazione pastorale di non
sprecare i doni di Dio, richiedendo che vengano conferiti nelle con-
dizioni di migliore accoglienza possibile.
Nel Codice attuale, l’abbiamo già ricordato anche sopra, si trova
in merito una disposizione precisa, che non esisteva in quello prece-
dente, data la diversa situazione socioculturale. Essa ripropone in
sintesi il testo dell’Istruzione appena trascritto. Riportiamo ancora
quel paragrafo:
«Can. 868 § 1. Per battezzare lecitamente un bambino si esige: [...]
2° che vi sia la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica; se
tale speranza manca del tutto, il battesimo venga differito, secondo le dispo-
sizioni del diritto particolare, dandone ragione ai genitori».

È un canone di particolare interesse e attualità. Da una parte


esso stimola un’azione pastorale il cui
«vero compito sarebbe di dedicarsi all’attività missionaria, di far maturare la
fede dei cristiani, di promuovere il loro impegno libero e cosciente, ammet-
tendo, di conseguenza, delle tappe nella sua pastorale sacramentale» 36

e punta a sgretolare la «concezione magica dei sacramenti» 37 nelle


situazioni in cui esistesse tale mentalità. Dall’altra esso ci costringe a
constatare che tanti dei nostri battesimi, prime confessioni, prime
comunioni e cresime sono forse amministrati con troppa disinvoltu-
ra. Non intendiamo assolutamente riflettere sulla validità dei sacra-

36
Pastoralis actio, n. 25.
37
L. cit.
94 Adriano Celeghin

menti, ma sulla liceità del loro conferimento. Noi ci troviamo a cele-


brare illecitamente questi sacramenti ogniqualvolta li conferiamo
senza aver prima verificato la «fondata speranza» della quale parla il
numero secondo del paragrafo primo del can. 868.
Ed è pure onesto confessare che, nonostante in qualche caso
non solo mancasse la «fondata speranza della educazione nella reli-
gione cattolica», ma ci fosse anche la certezza morale che tale educa-
zione sarebbe del tutto mancata, talvolta non è stato differito il con-
ferimento del sacramento. Forse non è inutile ricordare che si ha
certezza morale quando nell’analisi di un problema viene esclusa la
probabilità della situazione opposta, anche se non viene scartata la
possibilità della situazione opposta 38. Il giungere alla conclusione che
è proprio improbabile che venga conseguita l’educazione cattolica
una volta conferiti i sacramenti in determinate situazioni dovrebbe es-
sere sufficiente per rinviare (attenzione si parla di rinvio e non di ri-
fiuto) la celebrazione del sacramento anche quando in teoria non si
può dire che ciò sia impossibile.
Non è certamente facile operare un discernimento preciso in
ogni caso concreto. Ma, una volta fatto ciò, la cosa più difficile è co-
municarlo, facendolo accettare, a quanti pensano di aver già compiu-
to una cosa lodevole quando hanno presentato la domanda dei sacra-
menti per i propri figli. Nonostante una tale fatica, la Chiesa invita i
pastori a fare opera di discernimento e a seguire con fedeltà le sue
disposizioni 39.
Consideriamo ora il canone mediante il quale esse ci vengono
comunicate estendendo la sua applicazione anche agli altri sacra-
menti dell’iniziazione cristiana.
Si parla di «fondata speranza». Il sostantivo è qualificato e il di-
scernimento deve essere operato su una speranza che deve avere al-
cuni “fondamenti”. La speranza che il bambino verrà educato nella
fede cattolica non deve perciò essere imprecisa e vaga, deve essere
sostenuta da elementi documentati.
Quando si può dunque dire di essere davanti alla presenza di
«fondata speranza» che i sacramenti porteranno i loro frutti?
La risposta a questo quesito può essere offerta dalle situazioni
concrete e particolari.

38
Cf I. GORDON, De iudiciis in genere, II. Pars dynamica, Roma 1972, pp. 99-101.
39
Si vedano a questo proposito i canoni relativi all’istruzione catechetica (cann. 773-780) e il canone
843 introduttivo alle diposizioni relative ai singoli sacramenti.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 95

Anche l’Istruzione Pastoralis actio, quando deve applicare il prin-


cipio, scende a esemplificazioni. Dopo aver parlato dell’impegno dei
genitori, che a noi sembra essere qualcosa di più che non l’astensio-
ne dall’ostacolare positivamente la fede e la pratica cristiana del fi-
glio 40, porta due esempi:
«la scelta dei padrini e madrine che si prenderanno seria cura del bambino,
o l’aiuto della comunità dei fedeli» (n. 30).

Questo ci consente di esprimere alcune considerazioni per o-


gnuno degli esempi, che vengono qui presentati non come comple-
mentari, ma come alternativi.
Circa i genitori: c’è senz’altro «fondata speranza» quando essi
vivono la loro fede e ne sono testimoni nella comunità ecclesiale nel-
la quale sono inseriti. Al parroco non sarà difficile riscontrare il loro
inserimento nella vita della comunità, che si esprime soprattutto me-
diante la partecipazione assidua all’eucaristia.
Una situazione che fornisce particolari garanzie è determinata
dall’inserimento dei genitori nei gruppi e nelle diverse realtà eccle-
siali. In questo caso sono i genitori che per primi sentono il bisogno
di essere in una maturazione sempre più piena della loro vocazione
cristiana.
Esiste «fondata speranza» anche quando i genitori, arrivati da
poco in una comunità, hanno comunque mostrato alcuni segni di par-
tecipazione: preghiera comune e testimonianza nell’eucaristia della
comunità. C’è (almeno verbalmente) quando i genitori, non ancora
pienamente integrati in una comunità parrocchiale e non ancora suffi-
cientemente conosciuti dal parroco, durante gli incontri di prepara-
zione ai sacramenti dei figli attestano la loro disponibilità a conosce-
re, a interessarsi e a partecipare agli appuntamenti comunitari con i
loro figli.
Ma ci domandiamo pure: si può parlare di una presenza di «fon-
data speranza» quando i genitori, già da tempo residenti in par-
rocchia, si presentano solo per la celebrazione dei sacramenti, mal
sopportando quei pochi incontri che dovrebbero prepararli alla com-
prensione dei sacramenti che chiedono?
Si può riscontrare una «fondata speranza» se i genitori, dopo il
battesimo del primo figlio, si presentano di nuovo per avere un altro

40
Opinione diversa sembra essere espressa da G. TREVISAN, Il battesimo dei bambini, cit., p. 138
96 Adriano Celeghin

contatto con la comunità solo quando, arrivato il secondo figlio, desi-


derano battezzarlo?
Si può parlare di «fondata speranza», quando in occasione della
precedente celebrazione dei sacramenti del figlio i genitori hanno
fatto mille promesse, senza aver nel frattempo mostrato di prestare
fedeltà nemmeno a una?
Si può affermare l’esistenza di una «fondata speranza», quando
i genitori, e mettiamo in mezzo anche i nonni, pur di avere il battesi-
mo dei figli, si trovano a raccontare al parroco proprio o a quello del-
la parrocchia vicina una serie di “menzogne”, il cui riscontro può es-
sere facilmente compiuto?
Si può insistere nell’attestare la presenza di «fondata speranza»,
quando nella famiglia è del tutto assente qualsiasi segno di fede: non
si prega insieme, non ci si rifà mai a un principio del Vangelo, nella
vita concreta non ci si riferisce mai al Signore?
Si può asserire la consistenza di una «fondata speranza» a parti-
re dai genitori che domandano i sacramenti, quando i figli, un po’
cresciuti, affermano che parteciperebbero alla messa, che verrebbe-
ro a catechismo, che pregherebbero anche, ma i genitori non li ac-
compagnano, non glielo ricordano e non si sentono responsabili di
questo aspetto della vita?
Si può insistere sulla parvenza di «fondata speranza» quando
dopo la prima (battesimo), la seconda (prima confessione), talvolta
anche dopo la terza (prima comunione) esperienza sacramentale dei
figli non c’è stata la maturazione di alcun segno di disponibilità da
parte dei genitori?
Se la scelta dei sacramenti per il primo figlio ha dato come esito
un atteggiamento “pagano” di vita dei genitori, che pure hanno libe-
ramente chiesto quei sacramenti, si può pensare che per quest’ulti-
mo figlio esista la «fondata speranza» che abbiano l’intenzione di e-
ducarlo secondo i principi della Chiesa cattolica?
Nel documento della Congregazione per la fede che parla solo
del battesimo, più volte citato, viene esplicitamente ricordato il ruolo
dei padrini e delle madrine.
Se costoro dimostrano di essere consapevoli della propria fede
e della responsabilità educativa che si assumono, diventa facile per il
parroco e per chi lo aiuta decidere per la presenza di «fondata spe-
ranza».
Tuttavia anche qui non possiamo tralasciare di chiederci se i
padrini che vengono scelti dai genitori che si trovano in queste con-
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 97

dizioni abbiano normalmente le caratteristiche richieste. Noi, richia-


mandoci all’esperienza diretta, saremmo portati a rispondere negati-
vamente.
Qualcuno potrebbe pure suggerire che in questi casi padrini e
madrine potrebbero essere proposti dal parroco (cf can. 874 § 1, 1°).
L’idea è buona e la scelta dovrebbe essere la più adeguata in merito
alle garanzie. Però ci si chiede: per l’efficacia del sacramento è suffi-
ciente che i padrini siano all’altezza del loro compito o è pure neces-
sario che essi abbiano un profondo rapporto con la famiglia del bat-
tezzando? Tuttavia si deve ancora osservare che, per i sacramenti
che non prevedono la figura del padrino, questa componente verreb-
be a mancare.
L’Istruzione chiama in causa la comunità cristiana. Qualcuno
potrebbe affermare che la garanzia dovrebbe essere individuata nei
familiari dei genitori. In teoria ci si potrebbe anche trovare d’accor-
do, ma nella pratica è necessario prendere atto che il contesto in cui
si muovono anche le rispettive famiglie d’origine dei genitori di oggi
è spesso “pagano”. Ci sono certamente le eccezioni, ma a nostro av-
viso sono, purtroppo, eccezioni.
Il terzo esempio di garanzia portato nel documento sopra citato
riguarda la comunità cristiana. È necessario sottolineare con forza la
sua valenza educativa. La si riscontra in maniera molto decisa sia
nelle diverse celebrazioni, in particolare in quelle dei sacramenti, sia
nelle diverse articolazioni della vita ecclesiale (gruppi, movimenti
ecc.), sia nelle diverse attività.
Però la funzione di aiuto delle comunità cristiane, in particolare
di quelle parrocchiali, che sentono la responsabilità del rapporto con
questi genitori, è molto più imprecisa e fluida. Anche se bene strut-
turate e molto dinamiche, in questi casi concreti difficilmente riesco-
no a supplire il compito primario e indispensabile dei genitori, com-
pito che in particolare il rito del battesimo, pur valorizzando molto la
comunità cristiana, non trascura di mettere in marcata evidenza.
Il Legislatore sembra però preoccupato di non lasciar intendere
che il battesimo dei bambini debba venire conferito sempre e co-
munque.
L’inciso della «fondata speranza» richiama a un discernimento
necessario, anche se difficile, compiuto il quale il parroco è chiama-
to a prendere le sue decisioni.
Infatti, nel caso in cui la «fondata speranza» venisse a mancare,
il canone dispone che il battesimo (ci permettiamo di allargare l’ap-
98 Adriano Celeghin

plicazione anche agli altri sacramenti) venga differito seguendo le in-


dicazioni del diritto particolare e comunicando le ragioni di tale deci-
sione ai genitori. La norma sembra piuttosto precisa: se quella non ci
fosse, deve essere prospettato il differimento. Non vengono precisati
termini di tempo né suggerite altre modalità, in quanto di questa
problematica dovrebbe occuparsi il diritto particolare.
Non è forse inutile far osservare che tanto il canone quanto i
documenti a esso precedenti parlano di “differimento” e non di “ri-
fiuto”. Viene cioè suggerito l’atteggiamento che favorisce una conti-
nuità di dialogo e di rapporti con la famiglia e non soluzioni indirizza-
te a una difesa a oltranza della comprensione esatta dei sacramenti
né a una chiusura irreversibile davanti a chi, sebbene con l’assenza
di «fondata speranza», viene comunque a chiedere un sacramento.

Quale esito da sacramenti conferiti in tale situazione?


Nella prassi pastorale il differimento dei sacramenti dell’inizia-
zione cristiana si presenta sempre difficile e problematico. I genitori
e i parenti in genere non lo capiscono. Sono così abituati ad avere
tutto e subito, da non essere in grado di ammettere che qualcuno
possa dir loro che, per poter ricevere un sacramento, accanto alla do-
manda è necessario anche l’adempimento di alcune condizioni. E
quando, seguendo le disposizioni del Codice di diritto canonico, si
entra in merito alla problematica specifica, la loro conclusione è di
meraviglia. Essi infatti valutano se stessi bravi cristiani per il fatto
che, a suo tempo, hanno ricevuto i sacramenti e per il fatto che ora li
chiedono per i propri figli. Tutto il resto viene considerato come in-
tervento arbitrario a loro incomprensibile.
Anche tra i pastori d’anime, tuttavia, la notevole differenza di
prassi pastorale indica la mancanza di una mentalità comune. E, fino
a quando verrà a mancare un confronto schietto, non potranno esse-
re compiute quelle scelte pastorali comuni, in assenza delle quali
continua e si aggrava la confusione sia nei cristiani praticanti, sia in
quelli che hanno rari incontri con la comunità, al punto che vanno a
cercare preti consenzienti invece che cercare di chiarire le perples-
sità dei propri pastori su una scelta che non garantisce continuità
educativa nella fede. Spesso anche chi dovrebbe discernere con
maggiore profondità e competenza (vescovo, vicario generale e fun-
zionari di curia) invece di suscitare ricerca di indirizzi pastorali ade-
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 99

guati all’attuale situazione, si limita alla scelta meno problematica,


che talvolta sembra prospettare un esito in contrasto con la disposi-
zione del Codice.
In questo modo, non prendendo atto della odierna situazione
socioculturale, si corre il rischio di “svendere” i sacramenti e si of-
frono spunti ulteriori al fatto che essi siano richiesti sempre più co-
me espressione di un costume a carattere socioreligioso e siano con-
siderati sempre meno come quella scelta di fede che deve coinvolge-
re la vita nel suo comportamento concreto.
In ogni caso, anche quando ci si trovasse davanti a una presen-
za di fede piuttosto vaga, si deve prendere atto a partire dalla espe-
rienza pastorale già vissuta che, per questi genitori, la consapevolez-
za del ruolo della comunità ha un significato molto fumoso e che
molto difficilmente essi sarebbero in grado di mostrare disponibilità
per una successiva esperienza di vita di comunità da intendersi come
famiglia nella quale far crescere la fede ricevuta in dono dai sacra-
menti, da essi sostenuta e con essi testimoniata.
I figli di questi genitori, che chiedono i sacramenti senza aver
chiarito per primi a se stessi il senso di una precisa scelta di fede che
implica anche la testimoninaza di vita, sono destinati (a meno che
non intervenga la grazia di Dio) a diventare dei “lapsi”. Saranno,
cioè, cristiani che vivono con una certa fedeltà e anche con un certo
entusiasmo gli impegni di vita e di comunità fino a quando questi
non costano alcuna fatica, o fino al momento in cui non entrano in
crisi. Ma appena le richieste collegate ai sacramenti ricevuti o da ri-
cevere cominciano a farsi più impegnative, oppure appena si affaccia
una crisi di qualsiasi natura (non necessariamente quella dell’adole-
scenza), non avranno più alcun punto su cui far leva per continuare a
vivere gli impegni assunti.
Davanti alle prove (non pensiamo a quelle estreme del martirio,
ma limitiamoci a considerare qualsiasi piccola scelta che dia testimo-
nianza di responsabilità e di coerenza) essi non avranno la forza di
operare scelte di vita in sintonia con i principi del Vangelo e con il
senso dei sacramenti ricevuti. Saranno cristiani che “cadranno” (da
qui l’uso della parola “lapsi”), che non saranno, cioè, concretamente
capaci di comportarsi da cristiani e di dichiararsi tali. Con ogni pro-
babilità diventeranno anche loro, come i loro genitori, battezzati “pa-
gani” che, pur dicendosi cristiani, concretamente avranno una con-
dotta di vita, se non contraria, almeno aliena dalle indicazioni del
Vangelo e distaccata dalla vita della comunità ecclesiale.
100 Adriano Celeghin

Ci pare di poter notare numerosi segni che indicano e accompa-


gnano questa situazione di “paganesimo di ritorno”. Vorremmo ri-
cordarne alcuni:
– considerare i sacramenti come atti religiosi (talvolta anche
magici) e non più (teoricamente e in pratica) come gli strumenti del-
l’azione di Gesù Cristo nella vita del credente;
– non accogliere più la comunità cristiana come luogo naturale
di crescita della fede e situazione di importanza imprescindibile per
vivere la comunione ecclesiale;
– essere incapaci di operare scelte coraggiose in nome del Van-
gelo; da questo deriva pure l’impossibilità di intendere ogni scelta di
vita come risposta a un progetto di Dio;
– considerare quanto viene proclamato nel Vangelo e nella Bib-
bia come un’opinione fra le tante, vanificando e svuotando l’autorevo-
lezza della parola di Dio;
– non preoccuparsi di distinguere tra bene e male, tra vero e fal-
so, tra giusto e ingiusto: tutto viene valutato da una prospettiva per-
sonale e riceve contenuto dal singolo soggetto; il Vangelo non viene
più accolto come libro della vita e il magistero della Chiesa non vie-
ne più considerato importante per l’esistenza del cristiano;
– impostare il rapporto con le persone, con le strutture e con le
istituzioni in maniera utilitaristica;
– essere incapaci di giudicare rettamente le proprie scelte e le
proprie azioni;
– essere incapaci di trasmettere ai figli ciò di cui si è convinti.
Quest’ultimo segno (potrebbero però essercene anche altri) a
nostro avviso si presenta come il più grave per il ruolo dei genitori.
Infatti, se essi non si sforzano di dare l’esempio e di comunicare ai fi-
gli le ragioni delle scelte fatte per loro, non potrà essere costruito un
rapporto educativo. Ci sarà vicinanza fisica, presenza reciproca, soli-
darietà materiale tra i componenti la famiglia, ma l’azione educativa
correrà il rischio di restare superficiale e sterile.
E gli esiti non solo saranno negativi sotto il profilo pastorale
(potremmo anche sopportarlo), ma saranno instabili anche all’inter-
no della famiglia e problematici a livello di dimensione sociale.
Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2° 101

Quali conclusioni?
È necessario che chiunque conferisce un sacramento senta la re-
sponsabilità di valutare le condizioni che favoriscono lo sviluppo della
vocazione cristiana e della grazia conferita dal sacramento stesso.
Allo stesso modo è indispensabile che chi chiede un sacramen-
to, per sé o per altri, se non immediatamente almeno dopo i primi
contatti si mostri disponibile a lasciarsi aiutare a capire sempre di
più il senso del sacramento e a diventare maggiormente consapevole
degli impegni che ne derivano per viverli.
Nel rapporto tra queste due indicazioni deve articolarsi tutta l’a-
zione pastorale.
Da una parte è necessario ricordare ai presbiteri che ogni richie-
sta va valutata; che il presbitero non deve sentirsi costretto ad ammi-
nistrare comunque i sacramenti, ma è invitato a farlo responsabilmen-
te. Questo richiede che i preti, dopo aver trattato la questione nelle ri-
spettive comunità, affrontino il problema tra di loro, ne mettano in
luce i diversi aspetti e individuino anche alcune linee per una azione
pastorale comune, verificando pure i risultati dell’impostazione finora
tenuta. Questo può essere attuato attraverso varie modalità che coin-
volgono tutte le componenti ecclesiali, per esempio incontri del pre-
sbiterio, Consigli pastorali parrocchiali, decanali e diocesani ecc., fino
all’espressione più qualificata che è quella del Sinodo diocesano.
Il Codice, a questo proposito, chiama in causa il diritto partico-
lare, che, se non andiamo errati, fino a oggi è stato applicato solo in
poche diocesi. Abbiamo preso in considerazione le disposizioni date
nella Diocesi di Milano, che ci sembrano essere le ultime emanate.
Dalla lettura ci è però parso di constatare che si sia fatta la scelta di
ripetere sotanzialmente quanto disposto in modo generale dal cano-
ne del CIC 41.

41
Cf DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, 1° febbraio 1995, n. 104. Riportiamo il testo:
«104. L’ eventuale differimento del battesimo
§ 1. Se ogni prospettiva di educazione cristiana appare esclusa, il battesimo non può essere celebrato e
va quindi differito. Tuttavia, prima di rimandare il sacramento, si aiutino i genitori a comprendere l’in-
coerenza della loro richiesta; inoltre, nelle forme più opportune si avviino contatti pastorali capaci di
portare in futuro alla domanda del battesimo.
§ 2. Si prevedano forme di aiuto e accompagnamento anche per quei genitori che, in contrasto con la
disciplina ecclesiastica attuale, intendessero differire il battesimo dei loro figli. Si ascoltino le loro moti-
vazioni per poterli seguire ulteriormente nell’azione pastorale».
Questa disposizione sostanzialmente non aggiunge nulla a quanto afferma il can. 868 § 1, 2°, e non en-
tra ancora in merito alle forme di aiuto e di accompagnamento. A nostro avviso, per fornire indicazioni
che aiutino gli operatori di pastorale in maniera precisa e uniforme su tutta questa grave questione, sa-
rebbe necessario provvedere alla stesura di un Direttorio. A nostro parere non sarebbe fuori luogo che
questo lavoro venisse enunciato già nell’articolo del Sinodo Diocesano che tratta di questo argomento.
102 Adriano Celeghin

Dall’altra parte è indispensabile che i pastori, insieme con gli


operatori di pastorale delle singole comunità, si assumano la non pia-
cevole responsabilità di far prendere atto ai genitori interessati, po-
chi o tanti che siano, che la domanda dei sacramenti non è compren-
sibile nel caso in cui si constati che essi stanno conducendo una vita
“pagana”, cioè non costruita sulla Parola di Dio né guidata da essa.
La comunicazione di questa constatazione deve avere come suo sco-
po quello di orientare i genitori a riflettere sul senso della richiesta e
di aiutarli ad assumere uno stile di vita cristiana, in modo da far risal-
tare il valore della coerenza (rapporto lineare tra scelte teoriche e vi-
ta concreta) della richiesta che presentano. I preti e i catechisti han-
no pure il dovere di ricordare ai genitori, con molta semplicità, che
l’impegno attestato a parole non è sufficiente nel caso in cui il resto
della vita offra segni contrari a tale verbale adesione. Va loro detto
che, prima di portare a conclusione una scelta così importante, è ne-
cessario accostarvisi un po’ alla volta, assumerne i valori, impegnarsi
a viverli, sperimentare l’importanza del riferimento che viene offerto
dalla comunità, confrontarsi con il Vangelo per operare scelte di vita
concreta in sintonia con quella fede che si dice di avere e che si vuol
donare ai propri figli.
E a quei genitori che, davanti a questi indirizzi, pensassero a
questo come a una strategia per “costringerli” a fare quello che vuo-
le il parroco, è necessario ribadire che, accanto alla primaria respon-
sabilità di conferire i sacramenti in modo che siano accolti per quel
che sono, il prete e il catechista vogliono esprimere pure la grande
preoccupazione di favorire un rapporto corretto tra genitori e figli, di
aiutare i genitori a mettere le premesse perché i figli possano stima-
re i loro genitori e possano guardare a loro come a dei modelli di vi-
ta, soprattutto perché essi hanno fatto scelte con onestà. Ed è indi-
spensabile ricordare ai genitori che tutto questo non potrà accadere,
se essi non hanno fatto scelte di correttezza e di onestà verso i pro-
pri figli, fosse anche solo in occasione della proposta di fede e della
richiesta dei sacramenti per loro.

ADRIANO CELEGHIN
Viale S. Marco, 80D
30173 Mestre (Venezia)
103
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 103 -108
Gli istituti secolari:
una vocazione per i nostri giorni
di Emilio Tresalti

I) Gli istituti secolari (IS) sono una forma di vita consacrata che
si rapporta in modo tutto peculiare con il mondo 1.
Gli IS (laicali) possono dare un contributo importante e specifi-
co alla evangelizzazione 2.
Essi offrono alla Chiesa tutta e ai suoi Pastori dei cristiani laici,
che assumono la radicalità evangelica mediante i consigli evangelici
vissuti attraverso l’impegno per tutta la vita dei voti.
Gli IS non agiscono come tali attraverso proprie opere ma piut-
tosto mettono i loro membri a disposizione del Vangelo 3.
La caratteristica dei membri degli IS è di realizzare una sintesi
vitale di secolarità e consacrazione.
Per la natura stessa della nostra vocazione siamo ben consapevo-
li del sorgere di nuovi valori e culture nei quali la vita consacrata deve
essere messa a frutto, collocandosi essa nel contesto della nuova e-
vangelizzazione del mondo contemporaneo. Riteniamo che la nostra
forma di vita possa dare un contributo specifico all’evangelizzazione
delle culture e, nello stesso tempo, all’inculturazione del Vangelo.
Vorrei qui mettere in evidenza alcuni aspetti che riguardano in
modo particolare gli IS.

1
Cf cann. 710-714.
2
In tutto l’articolo avrò presenti soltanto gli IS laicali; ritengo infatti che il discorso relativo a quelli cle-
ricali e misti vada diversamente articolato.
3
«Essi devono ascoltare, come rivolto soprattutto a loro, l’appello dell’Esortazione apostolica Evangelii
nunziandi: “Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politi-
ca, della realtà sociale, dell’economia, così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita interna-
zionale, degli strumenti della comunicazione sociale” (n. 70). Ciò non significa evidentemente che gli isti-
tuti secolari in quanto tali debbano assumere questi compiti. Ciò spetta normalmente a ciascuno dei loro
membri. Dovere degli istituti stessi è quindi formare la coscienza dei loro membri ad una maturità». PAO-
LO VI, Ai Responsabili Generali degli IS, 25 agosto 1976, in Gli Istituti Secolari - Documenti, CMIS, Ro-
6
ma 1990 , p. 38.
104 Emilio Tresalti

1. I membri degli IS si situano sul piano dell’essere piuttosto


che su quello del fare. Se qualcuno mi chiede: «Voi che cosa fate?»,
mi viene spontaneo rispondere «Niente». Non abbiamo opere pro-
prie. Ciascuno di noi ha la sua professione, il suo lavoro. Ciascuno di
noi è anche impegnato, sempre in rapporto alla propria personale vo-
cazione in attività sociale, politica, sindacale, di volontariato e/o in at-
tività ecclesiali a livello parrocchiale o diocesano come un qualun-
que laico “impegnato”.
Ma allora, a che serve essere consacrati in un modo speciale, fa-
re i voti di povertà, castità, obbedienza? Questa è spesso l’obiezione
che viene fatta in ambito ecclesiale. Una tale obiezione deriva dal fat-
to che la consacrazione non è apprezzata per quello che è, bensì solo
per quello che fa. Non è ancora chiaro che «la vita consacrata ha un
valore in sé per la Chiesa e incide sulla sua vita e sulla sua missione,
al di là della efficacia del contributo dato alle opere» 4.
2. I membri degli IS si situano nella linea della vocazione dei lai-
ci – intesi secondo la definizione/descrizione della Lumen gentium –
e così espressa da questa Costituzione dogmatica:
«Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le co-
se temporali e orientandole secondo Dio... A loro quindi particolarmente
spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono stretta-
mente legati, in modo che siano fatte e che crescano costantemente secondo
il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore» 5.

Per comprendere e permettere che si sviluppino gli IS è neces-


saria una esatta comprensione della vita consacrata e, congiunta-
mente, della vocazione laicale.
In questo mi sembra che gli IS rispondano alle esigenze profon-
de del mondo di oggi. Mi riferisco in particolare alla evangelizzazione.
Non è proprio degli IS intervenire nella pastorale e nell’evange-
lizzazione diretta. I loro membri porteranno piuttosto la ricchezza
dei valori evangelici, potenziata dalla speciale consacrazione e dal lo-
ro conseguente impegno di vita secondo i consigli evangelici, in tutti
gli ambienti e situazioni nel mondo di oggi, sia nei paesi di antica
evangelizzazione sia in quelli ancora da evangelizzare, attraverso il

4
Cf CARD. B. HUME, Relatio ante disceptationem, 4a, Sinodo dei Vescovi, IX Assemblea Generale, 2-29
ottobre 1994.
5
LG 31.
Gli istituti secolari: una vocazione per i nostri giorni 105

loro impegno competente nelle realtà temporali e attraverso la loro


testimonianza di vita vissuta secondo il Vangelo.
I membri degli IS realizzano quindi una presenza evangelizzan-
te che passa primariamente attraverso l’ordinarietà della vita. Di con-
seguenza la loro presenza evangelizzante non si realizza principal-
mente attraverso istituzioni ecclesiastiche e nenche ecclesiali.
Questa presenza evangelizzante è naturale nel senso che il lai-
co appartiene naturalmente agli ambienti lavorativi, sociali, politici
nei quali è inserito. Non va, né viene inviato ad essi da qualcun altro.
Ciò vale in pieno anche per il laico membro di un istituto secolare.
Per poter dar frutto gli IS e i loro membri devono essere fedeli
alla loro vocazione propria. Non è accettabile che siano dei religiosi
(un po’) secolarizzati e neanche che siano sopraffatti dallo spirito del
mondo, che è in antitesi anche con la secolarità, così come questa è
definita nei documenti conciliari, in particolare da Lumen gentium
(LG) e Gaudium et spes (GS). Essi rappresentano una vera novità
nella storia della spiritualità cristiana organizzata. Non possono esse-
re considerati come una forma di evoluzione della vita religiosa. O,
per lo meno, non nella comune accezione del termine evoluzione.
Se da una parte si situano nella continuità della consacrazione
vissuta nell’impegno dei consigli evangelici, dall’altra rappresentano
una discontinuità densa di significato rispetto alla vita religiosa.
Tenterò di esprimere nel modo più chiaro possibile questi due
concetti di discontinuità e di continuità.
Punto di partenza per bene intendere questa forma di vita sono
la natura e la missione proprie dei christifideles laici, sia per quanto
concerne l’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa, sia per
quanto concerne la costruzione della città dell’uomo, alla quale i laici
sono chiamati per titolo proprio.
Il capitolo 4 della LG e la sua applicazione in altri documenti con-
ciliari (per esempio Apostolicam actuositatem) e postconciliari (per
esempio Esortazioni Apostoliche Evangelii nuntiandi e Christifideles
laici), vanno presi con serietà e anche approfonditi teologicamente. Il
senso e il valore della consacrazione secolare o secolarità consacrata
saranno chiari nella msura in cui il concetto di laicità espresso nei so-
pracitati documenti sarà chiaro 6. La nostra consacrazione (speciale) è

6
«Il concilio esorta i cristiani, che sono cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fe-
delmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sa-
pendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di
106 Emilio Tresalti

radicata nella consacrazione battesimale e quindi mira all’unione inti-


ma con Dio e all’unità di tutto il genere umano. Essa però ha una sua
specificità. Essa diventa cioè un ambiente nel quale la nostra laicità,
cioè il nostro impegno nel mondo e per il mondo, acquista per così di-
re la massima efficacia, certo mantenedo la sua giusta autonomia ed
evitando ogni tentazione di laicismo o secolarismo.
Paolo VI così esprimeva questa discontinuità:
«Una forma nuova di vita consacrata... una forma diversa da quella della vita
religiosa non solo per una diversità di attuazione della “sequela Christi”, ma
anche per un diverso modo di assumere il rapporto Chiesa-mondo, che pure
è essenziale per ogni vocazione cristiana (cf Gaudium et spes, 1)» 7.

II) L’efficacia evangelica degli IS è strettamente legata alla loro


fedeltà al proprio carisma.
Mi riferisco non tanto e non soltanto alla personale fedeltà di
tutti e di ciascuno dei membri alla propria vocazione, quanto alla fe-
deltà al carisma dell’IS.
Non posso fare a meno di citare a questo proposito una incisiva
frase di Paolo VI:
«Se rimangono fedeli alla loro vocazione propria gli Istituti secolari diverran-
no quasi il “laboratorio sperimentale” nel quale la Chiesa verifica le modalità
concrete dei suoi rapporti con il mondo».

poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga
ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno. Al contrario, però, non sono meno in erro-
re coloro che pensano di potersi immergere talmente negli affari della terra, come se questi fossero
estranei del tutto alla vita religiosa, la quale, consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di cul-
to e in alcuni doveri morali. Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita
quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo. Contro questo scandalo già nell’Anti-
co Testamento elevavano con veemenza i loro rimproveri i profeti, e ancora di più Gesù Cristo stesso,
nel Nuovo Testamento, minacciava gravi pene. Non si venga a opporre, perciò, artificiosamente, le atti-
vità professionali e sociali da una parte e la vita religiosa dall’altra. Il cristiano che trascura i suoi doveri
verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna. Siano contenti
piuttosto i cristiani, seguendo l’esempio di Cristo, che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro at-
tività unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale
insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio. Ai lai-
ci spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando es-
si, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno
le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi.
Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze
della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e le realizzino.
Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della
città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettano luce e forza spirituale» (GS 43).
7
PAOLO VI, Nel XXX Anniversario della Provvida Mater, in Gli Istituti Secolari - Documenti, CMIS, Ro-
6
ma 1990 , p. 40.
Gli istituti secolari: una vocazione per i nostri giorni 107

La fedeltà alla vocazione propria consiste in questo: accettare la


consacrazione come valore primario ed essenziale, in quanto rispo-
sta irrevocabile di amore totale all’amore che Dio ha per noi in Cri-
sto. Questa risposta tende ad esprimersi concretamente nelle azioni
che sono proprie della nostra condizione laicale e secolare. In qual-
che modo la nostra consacrazione ci rende ancor più laici e secolari,
se così si può dire. L’obbligarsi ai consigli evangelici di povertà, ca-
stità e obbedienza è un mezzo eccellente attraverso il quale la nostra
consacrazione nella secolarità diventa più libera e quindi rende la se-
colarità stessa più efficace. Ne consegue che deve essere la secola-
rità a definire il modo di vivere i consigli evangelici e non viceversa 8.
A questa fedeltà siamo chiamati tutti. In primis certamente gli
IS; ma poi, e non meno, tutti coloro che nella Chiesa hanno il compi-
to di verificare i carismi e di vigilare sulla fedeltà di tutti.
Le tentazioni di infedeltà derivano di fatto non solo dall’interno
degli istituti ma, direi, anche dall’ambiente ecclesiale.
È veramente difficile rispondere a coloro che, per dimostrare
come la laicità degli IS risulti modificata dall’impegno di vita secon-
do i consigli evangelici, portano esempi concreti di IS nei quali è più
che evidente tale modificazione. Nei quali la secolarità non è nean-
che “esteriore”. Nei quali il rapporto con il mondo e con le cose di
questo mondo viene filtrato a tal punto da risultare meno coinvolti di
molti “religiosi” e “religiose”. Ma forse non si possono accusare que-
sti istituti di infedeltà a un carsima che non è il loro.
Dall’altro versante, se così si può dire, qualche istituto ha detto:
se il sottolineare la consacrazione deve andare a scapito della secola-
rità, cioè del mio impegno nel mondo, ebbene allora lascio questa vi-
ta consacrata che limita la mia laicità. A un ripiegamento intraeccle-
siale preferisco l’apertura al mondo per portarlo a Dio. E questo è
anche concretamente avvenuto.
Già in quanto sopra detto si possono trovare elementi di pro-
spettiva. Un dato di fatto che deriva dalla mia personale esperienza,
diretta e indiretta, è che esistono nei più diversi paesi del mondo vo-
cazioni per la nostra forma di vita. Non poche volte queste vocazioni
abortiscono per mancanza di adeguata assistenza. Cioè perché non
trovano in coloro che si occupano di vocazioni, nei direttori spiritua-

8
G. LAZZATI, De natura vinculi sacri in Institutis non-religiosis, in Periodica de Re Morali, Canonica, Li-
turgica 67 (1978) 489-497.
108 Emilio Tresalti

li, nei pastori in genere, comprensione, aiuto e sostegno. Altre volte


incontrano esplicito ostacolo negli ambienti ecclesiali.
Ciononostante, alcuni riescono a incontrare l’IS giusto e a intra-
prendere con successo il loro cammino spirituale.
Motivo di preoccupazione è anche dato da quei tentativi di fon-
dazioni a tavolino, da parte di qualche vescovo, di IS quasi come una
forma di vita religiosa più flessibile, meno impegnativa sul piano ca-
nonico, più facilmente gestibile e utilizzabile come supporto pastora-
le o segretariale per le attività della propria diocesi. Ovvero da parte
di Ordini e congregazioni che, vista la scarsezza di vocazioni, cerca-
no di associarsi dei laici eventualmente con impegni propri o simili a
quelli della vita consacrata, per portare avanti delle opere per le qua-
li scarseggia il personale. In questo caso autentiche vocazioni alla
consacrazione secolare vengono ridotte a forme di vita che non sono
cammini di santità né contribuiscono realmente all’evangelizzazione.
Non ritengo sia un buon servizio alla Chiesa e alla causa del
Vangelo. Certo, se si pensa ancora che l’evangelizzazione si realizza
principalmente attraverso le istituzioni cattoliche nel campo educati-
vo, sanitario, assistenziale mal si comprende quale apporto possano
dare all’evangelizzazione gli IS 9.
Ritengo che si debba migliorare la conoscenza di tutte le forme
di vita consacrata nella pastorale vocazionale, in particolare per la
parte maschile, per la quale spesso non si vede altra strada che quel-
la del ministero sacerdotale e diaconale.
Se gli IS saranno fedeli allora potranno dare un contributo spe-
cifico alla crescita della santità della Chiesa e all’evangelizzazione, in-
sostituibile e adeguato alle esigenze del mondo del terzo millennio.
Credo di dover aggiungere, nonostante alcuni cenni su una cor-
responsabilità di altri nella Chiesa, che il peso di questa fedeltà ap-
partiene primariamente agli istituti stessi. Essi devono avere il co-
raggio di esser se stessi anche se questo significa andare controcor-
rente. Ciò comporta dono totale di sé, quale la consacrazione lo
esige; lealtà verso il mondo creato e amato dal Padre al punto di dare
per esso il suo Figlio unigenito 10.
EMILIO TRESALTI
Via Capodistria, 15
00198 Roma
9
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai RG degli IS, 28 agosto 1980, in Gli Istituti Secolari - Documenti, CMIS,
6
Roma 1990 , pp. 42-43.
10
Gv 3, 16.
109
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 109-130
I regolamenti
del Collegio dei Consultori e del Consiglio
per gli affari economici della diocesi
di Carlo Redaelli

Può forse meravigliare che il Codice di diritto canonico, stabi-


lendo l’obbligatorietà per ogni diocesi sia del Consiglio per gli affari
economici, sia del Collegio dei Consultori, non preveda anche la ne-
cessità o, per lo meno, l’opportunità di un loro statuto o regolamen-
to. Ben diversamente viene disposto per altri organismi sempre a ca-
rattere diocesano: il can. 496, infatti, richiede che «il Consiglio pre-
sbiterale abbia i propri statuti» e i canoni seguenti ne determinano i
contenuti; a sua volta il can. 513 § 1 fa riferimento agli statuti del
Consiglio pastorale diocesano, che devono essere «dati dal Vesco-
vo». Perché un’analoga previsione non è stata inserita nel testo codi-
ciale a proposito del Consiglio per gli affari economici e del Collegio
dei Consultori? Dalla redazione dei canoni attuali non si hanno, salvo
errore, elementi sufficienti per giustificare tale scelta. Intuitivamente
si può ipotizzare che essendo questi organismi realtà più piccole e
più determinate, da parte della normativa codiciale, nella loro com-
posizione e nei loro compiti rispetto ai due consigli presbiterale e pa-
storale, si sia ritenuto non necessario stabilire la presenza di un loro
proprio statuto. Fatta questa considerazione occorre subito aggiun-
gere che anche in questo caso ciò che non è prescritto non è proibi-
to, anzi, come si cercherà di dimostrare, è molto opportuno.

Perché un regolamento per il Consiglio


per gli affari economici e per il Collegio dei Consultori?
I motivi che spingono ad adottare anche per il Consiglio per gli
affari economici e per il Collegio dei Consultori uno statuto o regola-
mento sono riconducibili a tre.
110 Carlo Redaelli

Anzitutto, per entrambi gli organismi, è naturale che le norme


codiciali vengano completate, in sede locale, da indicazioni procedu-
rali, per esempio circa la funzione del segretario, la verbalizzazione,
le procedure decisionali ecc. Si tratta di modalità che possono conso-
lidarsi attraverso la prassi, senza arrivare ad avere una formulazione
scritta; ma per evitare dubbi ed eventuali contrasti interpretativi e, in
genere, per garantire una migliore funzionalità ai due organismi è
evidentemente più efficace raccogliere il tutto in un testo scritto a di-
sposizione degli interessati.
Un secondo motivo risiede nel fatto che non è molto agevole
avere una visione globale e completa dei compiti sia del Consiglio per
gli affari economici, sia del Collegio dei Consultori. Essi, infatti, ven-
gono descritti in più parti del Codice e in maniera poco organica. È si-
gnificativo, a riprova di ciò, che i commentatori del Codice si sentano
in dovere, a proposito dei due organismi, di offrire «un rapido pro-
spetto organico» 1 delle attribuzioni che sono loro proprie. Per como-
dità, quindi, dei membri, che il più delle volte non sono degli speciali-
sti in diritto canonico, è molto opportuno che un regolamento offra
un prospetto completo e sistematico dei compiti dei due organismi.
Infine, sembra molto utile che venga regolamentato il loro lavo-
ro parallelo. Come è noto, infatti, nell’ambito amministrativo molti atti
possono essere posti dal vescovo o autorizzati dallo stesso solo con il
consenso o il parere di entrambi gli organismi: chi deve pronunciarsi
per primo?, con criteri simili o con punti di vista differenti?, e che co-
sa fare se il parere è discorde? Sono tutte questioni che possono tro-
vare un’adeguata risposta in due specifici e organici regolamenti.

Un esempio concreto in attuazione di un Sinodo diocesano


Per non ragionare in astratto, sembra utile presentare e com-
mentare, a titolo esemplificativo, due regolamenti già in uso presso

1
P. URSO, La struttura interna delle Chiese particolari, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa. II. Il
popolo di Dio. Stati e funzioni del popolo di Dio. Chiesa particolare e Chiesa universale. La funzione di in-
2
segnare, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Roma 1990 , p. 426. I compiti del Consi-
glio per gli affari economici della diocesi vengono descritti alle pp. 426-428; quelli del Collegio dei Con-
sultori alle pp. 438-439. Un’analoga descrizione viene fornita da M. MARCHESI, I consigli diocesani, in
AA.VV., Chiesa particolare, Bologna 1985, alle pp. 135-137 per il Collegio dei Consultori, e alle pp. 147-148,
per il Consiglio per gli affari economici. Si noti per inciso che quest’ultimo autore auspica, almeno per il
Collegio dei Consultori, l’esistenza di un regolamento («Sia la modalità di designazione, sia il modo con
cui il Collegio esprime l’aiuto vengono lasciati al Vescovo, in quanto la legge non offre disposizioni tassa-
tive. Anche per le modalità di aiuto è bene che siano determinate in un regolamento, per evitare che sia-
no lasciate alla diplomazia o al capriccio di una persona o alla situazione del momento»: p. 135).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 111

una diocesi: in concreto la diocesi di Milano. Va subito aggiunto che


si tratta di una diocesi particolare viste le sue dimensioni: è probabi-
le, quindi, che alcune prescrizioni regolamentari corrispondano a
esigenze meno sentite o non sentite del tutto in diocesi di media o
piccola grandezza. Come si vedrà commentando i testi, si tratta più
che altro di disposizioni che rispecchiano la particolare organizzazio-
ne diocesana di Milano, ma che non toccano la sostanza delle cose.
Non dovrebbe essere difficile, se lo si ritiene utile, riprendere i testi
e adattarli a situazioni organizzative diverse.
Prima di entrare nella presentazione dei due documenti, sem-
bra importante notare che essi sono frutto diretto del Sinodo dio-
cesano conclusosi a Milano il 7 dicembre 1994 e promulgato il 1°
febbraio 1995 2. È vero che già in precedenza esistevano dei regola-
menti 3, ma il Sinodo ha spinto a rivederli, aggiornandoli alla luce del-
l’esperienza e delle specifiche indicazioni sinodali. Sembra significa-
tivo sottolineare la necessità che ciascun Sinodo diocesano si tra-
duca, oltre che in uno o più documenti sinodali, in una serie di inter-
venti normativi e regolamentari, sia pure meno solenni del testo
sinodale, per raggiungere un vero rinnovamento anche strutturale di
una Chiesa uscita da un Sinodo. Senza questa attenzione, si corre il
rischio di aver lavorato molto nel momento sinodale (che dura, tal-
volta, alcuni anni) senza poi disporre degli strumenti necessari per
attuarne le disposizioni.

Un commento ai testi
La lettura dei due regolamenti, riportati al temine di questo arti-
colo, non dovrebbe suscitare particolari difficoltà. Come si può nota-
re a un primo approccio, volutamente si è tenuta una struttura paral-
lela tra i due diversi documenti, struttura a cui ci si riferisce in que-
sto commento.

2
Cf DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, Centro Ambrosiano, Milano 1995, pp. 750.
3
I testi dei regolamenti, statuti, direttori dei diversi organismi di partecipazione della diocesi di Mila-
no (a partire dal livello parrocchiale) erano stati raccolti, con una significativa introduzione del cardina-
le Martini, in un volumetto dal titolo molto esplicito: Consigliare nella Chiesa. Norme per gli organismi
di partecipazione della diocesi di Milano, Centro Ambrosiano di documentazione e studi religiosi, Mila-
no 1991, pp. 134.
112 Carlo Redaelli

* Il titolo
Perché regolamento e non statuto? Facendo riferimento al Co-
dice di diritto canonico si scopre che il Titolo V del Libro I distingue,
nella traduzione italiana, tra statuti e regolamenti. I primi, come spe-
cifica il can. 94 § 1, se intesi
«in senso proprio, sono regolamenti [ordinationes] che vengono composti a
norma del diritto negli insiemi sia di persone sia di cose, e per mezzo dei
quali sono definiti il fine dei medesimi, la loro costituzione, il governo e i
modi di agire».

I secondi, come prevede a sua volta il can. 95 § 1, che in latino


usa il termine “ordines”, sono
«regole o norme che devono essere osservate nei convegni di persone [...]
come pure in altre celebrazioni, e per mezzo dei quali viene definito ciò che
si riferisce alla costituzione, alla conduzione e ai modi di agire».

Alla luce di queste indicazioni codiciali si dovrebbe concludere


che per i due organismi diocesani occorrerebbe parlare di “statuto”
più che di “regolamento”. In realtà la terminologia non è così rigida
come si potrebbe a prima vista pensare: non per nulla lo stesso can.
94, sopra citato, si sente in dovere di precisare che sta parlando di
statuti in senso proprio. Inoltre, proprio per il riferimento agli insie-
mi di persone e a quelli di cose, appare che il legislatore ha qui in
mente le persone giuridiche, definite appunto come insiemi di perso-
ne o insiemi di cose. Si vedano i cann. 114-115 e seguenti dove conti-
nuamente si fa riferimento agli statuti delle persone giuridiche, pre-
vedendo persino, in alcuni casi, la loro equiparazione alle leggi 4.
Ora, per tornare al Consiglio per gli affari economici e al Collegio
dei Consultori, occorre osservare che non si tratta di persone giuri-
diche – sono piuttosto organi all’interno della persona giuridica dio-
cesi –, e che essi sono già sostanzialmente delineati, quanto a compi-
ti, composizione e durata, dallo stesso Codice di diritto canonico e
non da una loro specifica e autonoma normativa. Di conseguenza il
termine regolamento, nella sua genericità, sembra più corrisponden-

4
Per il riferimento del termine statuto in senso proprio alle persone giuridiche o, al più, anche alle as-
sociazioni prive di personalità giuridica, cf Communicationes 14 (1982) 138-139.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 113

te al vero. D’altra parte, essendo tali regolamenti promulgati dal ve-


scovo, essi, se e in quanto contengono disposizioni che precisano
l’attuazione a livello locale di norme universali, si avvicinano, per cer-
ti aspetti, ai decreti generali esecutivi (cf can. 31) e, per altri, alle
istruzioni (cf can. 34) e ne hanno la medesima forza giuridica.

1. Natura e finalità
I due regolamenti riprendono per i rispettivi organismi la cita-
zione letterale del Sinodo diocesano 47°. Due sono gli elementi che
meritano attenzione nei testi sinodali qui ripresi. Anzitutto il tentati-
vo di differenziare la natura dei due organismi, quando intervengo-
no in parallelo con riferimento all’amministrazione dei beni della dio-
cesi: il Collegio dei Consultori deve operare «con particolare atten-
zione alle finalità pastorali dei beni ecclesiastici»; il Consiglio per gli
affari economici «con particolare riguardo ai profili tecnici, soprat-
tutto giuridici ed economici». Si noti che le espressioni «con partico-
lare attenzione» e «con particolare riguardo» intendono affermare la
non esclusività dei due profili specifici: il Collegio non deve trascura-
re gli aspetti economici, né il Consiglio quelli pastorali. Il Codice non
precisa questa duplicità di punti di vista, ma i lavori di riforma che
hanno portato all’attuale testo legislativo la fanno intendere, soprat-
tutto quando affermano con chiarezza che il Collegio dei Consultori
è un organismo inventato solo perché non è agevole convocare con
frequenza il Consiglio presbiterale e anche perché un gruppo ristret-
to permette una più facile espressione di pareri 5.

In riferimento a queste ragioni – ed è il secondo elemento da


notare – sia il Sinodo che il testo del regolamento, come pure quello
parallelo dello statuto del Consiglio presbiterale, prevedono che, vi-
sta la ricorrenza, nella diocesi di Milano, di questioni su cui il Consi-
glio presbiterale deve esprimere un parere, sia possibile delegare
parte della competenza del Consiglio presbiterale al Collegio dei
Consultori. Quali siano tali questioni è indicato all’art. 5 del regola-
mento.

5
Cf Communicationes 5 (1973) 230; 14 (1982) 218.
114 Carlo Redaelli

2. Compiti
Questa parte dei due regolamenti descrive i compiti del Colle-
gio e del Consiglio, cercando di delinearli in modo organico e com-
pleto. Per il Collegio dei Consultori si danno tre grandi ambiti: com-
piti in sede impedita o vacante (art. 3); compiti in materia ammini-
strativa, distinguendo per i casi in cui è richiesto il consenso e quelli
in cui è sufficiente il parere (art. 4); compiti in rappresentanza del
Consiglio presbiterale (art. 5). Per il Consiglio per gli affari econo-
mici si distinguono quattro ambiti: compiti generali di indirizzo, so-
prattutto di carattere normativo (art. 3); espressione del consenso
(art. 4); espressione del parere (art. 5); compiti di indirizzo e di
coordinamento in riferimento ai cosiddetti enti centrali della diocesi
(art. 6). Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo punto. Come è no-
to, in tutte o quasi le diocesi italiane, accanto all’ente diocesi, nato
dalla riforma concordataria, esistono altri enti – denominati “opera
diocesana”..., “fondazione”..., “opera pia”... ecc. – che, per usare un’e-
spressione del Sinodo di Milano ripresa nel regolamento del Consi-
glio per gli affari economici, «perseguono finalità generali di carattere
diocesano, qualunque sia la loro configurazione giuridica» (art. 6).
Essi, quindi, si distinguono solo formalmente dall’ente diocesi, ma
possono essere considerati come costituenti il grande soggetto dioce-
si e, con i loro beni, l’unico patrimonio della diocesi 6. Pare corretto e
opportuno che questi diversi enti, pur conservando la loro autono-
mia e i compiti e le responsabilità proprie dei loro amministratori,
siano coordinati dal vescovo sulla base delle indicazioni del Consi-
glio per gli affari economici. È opportuno che ciò avvenga sia quan-
do tali enti sono inseriti nell’ordinamento canonico, come persone
giuridiche pubbliche soggette al vescovo e, quindi, per quanto di
competenza, al Consiglio (e al Collegio); sia quando formalmente
possiedono un’altra configurazione giuridica (per esempio fondazio-
ne civile). Anche in questo caso, infatti, gli amministratori dell’ente
devono essere consapevoli che il loro ente è, per così dire, solo fidu-
ciariamente intestatario di beni e di attività della diocesi: devono per-
tanto attenersi alle indicazioni del vescovo e del suo Consiglio 7.

6
Cf CEI, Istruzione in materia amministrativa, nn. 76-77.
7
Cf su questo tema: C. REDAELLI, Patrimonio degli enti che fanno parte della diocesi e loro attività, in
L’Amico del Clero 75 (1993) 113-127.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 115

3. Composizione, durata in carica


e obblighi dei Consultori e dei consiglieri
Il Codice non dà indicazioni al vescovo sui criteri con cui sce-
gliere, all’interno dei membri del Consiglio presbiterale, i Consulto-
ri. Il Sinodo di Milano, ripreso nel regolamento (art. 6), tenendo con-
to della vastità della diocesi, stabilisce che i Consultori siano scelti in
modo che siano rappresentativi delle zone pastorali e dei principali
settori pastorali della diocesi. Tale indicazione dovrebbe favorire l’e-
spressione di pareri in materia amministrativa: nel Collegio, infatti,
dovrebbe esserci almeno un consultore che per vicinanza territoriale
o per comunanza di ambito di attività può avere una conoscenza più
diretta – o può acquisirla più facilmente – circa le diverse pratiche in
questione.
Tenendo presente le precisazioni fornite a proposito degli enti
centrali, si comprende l’opportunità di evidenziare l’incompatibilità
tra l’essere amministratori di tali enti e l’essere membro del Consi-
glio per gli affari economici (art. 7).
È interessante l’art. 10 del regolamento del Consiglio. Prevede
la presenza, non come membri ma come partecipanti (senza quindi
diritto di voto, ma con possibilità di intervento), di tre figure istituzio-
nali nell’ambito amministrativo: il responsabile dell’ufficio ammini-
strativo, l’economo diocesano e l’avvocato generale. I primi due sono
coloro che sovrintendono alla formazione della pratica – il responsa-
bile dell’ufficio amministrativo per quelle relative a persone giuridi-
che soggette al vescovo, l’economo per quelle dell’ente diocesi e de-
gli enti centrali –; la terza figura – l’avvocato generale – ha funzioni di
controllo giuridico sulle pratiche amministrative, sottoscrivendo tra
l’altro in via preventiva i decreti autorizzativi poi sottoposti alla firma
del vescovo, emanati a conclusione positiva dell’iter della pratica.

4. Presidente e segretario
La situazione specifica di Milano ha suggerito di prevedere co-
me situazione normale la non presenza del vescovo nei due organi-
smi. Essi sono, pertanto, presieduti, rispettivamente, il Collegio dei
Consultori da un vicario episcopale per mandato speciale, e il Consi-
glio per gli affari economici, dal moderator Curiae (che nella diocesi
di Milano è il secondo vicario generale detto pro vicario generale),
116 Carlo Redaelli

come delegato del vescovo (n.b.: essendo prevista dal can. 492 § 1 la
possibilità di presidenza di un delegato, non è richiesto un mandato
speciale, a norma del can. 134 § 3).

Di interesse anche di altre diocesi può essere, invece, la scelta


della stessa persona come segretario dei due organismi. Ciò permet-
te, nella prassi, un più facile e ordinato collegamento tra di essi e di
seguire con puntualità lo stato di ciascuna pratica.

5. Sessioni
Gli articoli dei due regolamenti dedicati allo svolgimento delle
sessioni sono particolarmente interessanti in due punti. Anzitutto
dove prevedono la successione nell’esame delle pratiche comuni: dal
momento che il Collegio deve dare un parere pastorale, viene stabili-
to che si parta da questo organismo. Qualora, infatti, una pratica non
fosse pastoralmente opportuna, non è necessario approfondirla da
un punto di vista tecnico o economico. Se, al contrario, un’operazio-
ne è pastoralmente utile o persino necessaria, i criteri economici, nei
limiti del possibile, non devono diventare determinanti in vista del-
l’autorizzazione.

Un secondo aspetto che merita di essere sottolineato è quello


relativo alle modalità di votazione, in particolare dove i due regola-
menti intervengono a precisare che cosa succede in caso di parità.
Dal momento che i due organismi devono dare un consenso o un pa-
rere al vescovo, rappresentato dai rispettivi presidenti, risulta evi-
dente l’impossibilità di applicare quanto previsto, per altri casi di
espressione di voto collegiale, dal can. 119, 2°: il voto del presidente
dirime la parità. Ciò è stato confermato, in termini generali, da una
risposta dell’allora Pontificia Commissione per l’interpretazione au-
tentica del CIC 8. I due regolamenti distinguono, però, tra il caso del
consenso e quello del parere. Nella prima circostanza – cioè parità di
voti quando viene richiesto un consenso – si considera che il consen-
so non viene dato; nella seconda – cioè parità di voti circa un pare-
re – si ritiene che il Consiglio o il Collegio si sono espressi e si rimet-
tono all’autorità i diversi orientamenti emersi circa la pratica in que-

8
Cf risposta del 5 luglio 1985 (riportata in EV 9, n. 1661).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 117

stione, con un’eventuale illustrazione delle motivazioni soggiacenti.


La cosa ha una sua logica: il consenso c’è o non c’è; il parere, invece,
può anche essere articolato e non concorde. La stessa normativa ca-
nonica prevede tale distinzione. Infatti, il can. 127 § 1 stabilisce, quan-
do si tratta di acquisire il consenso o il parere di un collegio o gruppo
di persone da parte del superiore, che «perché l’atto valga si richiede
che sia ottenuto il consenso della maggioranza assoluta di quelli che
sono presenti o richiesto il consiglio di tutti»: per il consenso occorre
un voto a maggioranza, per il consiglio, anche se non si esclude un
parere univoco votato a maggioranza, è sufficiente richiedere il pare-
re di tutti i componenti dell’organismo.

6. Verbale e sua presentazione all’arcivescovo


Le disposizioni sul verbale prevedono una sua redazione in due
parti: la prima è quella specifica di ciascun organismo, la seconda è
invece costituita dalle schede contenenti la descrizione delle singole
pratiche, con la segnalazione del parere o del consenso del Collegio
e del Consiglio. Le schede, predisposte dall’Ufficio amministrativo,
servono anche a presentare le pratiche nelle sessioni dei due organi-
smi. Esse di solito contengono i seguenti elementi:
– la denominazione della parrocchia, con i dati relativi al parro-
co, al numero degli abitanti, ai rendiconti degli ultimi due anni;
– l’oggetto della pratica;
– la descrizione dell’operazione da autorizzare, con i dati di va-
lutazione;
– la descrizione degli immobili e della loro destinazione urba-
nistica;
– i dati catastali;
– l’opportunità dell’operazione e la destinazione delle somme o
degli immobili;
– la provenienza, con la segnalazione di eventuali vincoli od
oneri;
– eventuali note.

7. Procedura d’urgenza
Si tratta di un problema che può ricorrere in medie e grandi
diocesi, quando, nonostante una regolare e intensa frequenza delle
sessioni del Consiglio e del Collegio, possono capitare delle pratiche
118 Carlo Redaelli

caratterizzate da particolare urgenza (per esempio: scadenze per do-


mande di finanziamento, per procedure d’esproprio, per contratti
con enti pubblici). Opportunamente, quindi, i due regolamenti pre-
vedono una procedura d’urgenza, tale da permettere al vescovo di
procedere all’autorizzazione con i prescritti pareri o il consenso. La
modalità indicata può essere discutibile: si prevede, infatti, che sia
sufficiente il benestare del presidente o, in sua assenza, di due consi-
glieri. Per il primo caso – che è quello meno convincente – si presup-
pone che il presidente sia diverso dal vescovo e, implicitamente, che
la pratica abbia superato il vaglio degli uffici di curia; non va inoltre
dimenticato che, come già si ricordava, anche le pratiche d’urgenza,
prima di tradursi in decreto autorizzativo devono ottenere il nulla
osta dell’avvocato generale. In ogni caso, le pratiche sottoposte a
procedura d’urgenza vengono poi presentate alla prima sessione uti-
le dei due organismi, con l’illustrazione dei motivi che hanno giustifi-
cato una procedura del tutto eccezionale.

CARLO REDAELLI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano

REGOLAMENTO DEL COLLEGIO DEI CONSULTORI


DELLA DIOCESI DI MILANO

I. Natura e finalità

Articolo 1
«Il Collegio dei Consultori [CoCo], formato da presbiteri scelti dal-
l’Arcivescovo tra i membri del Consiglio presbiterale, ha il compito di coa-
diuvare l’Arcivescovo nell’amministrazione dei beni della diocesi e delle
persone giuridiche a lui soggette, con particolare attenzione alle finalità pa-
storali dei beni ecclesiastici. Altre funzioni, oltre a quelle specificamente
previste dal Codice di diritto canonico in caso di sede vacante o impedita,
possono essere delegate al Collegio dei Consultori dal Consiglio presbite-
rale, secondo le modalità stabilite nel proprio statuto, o attribuite dall’Arci-
vescovo allo stesso Collegio» (Sinodo 47°, cost. 177 § 1).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 119

Articolo 2
Le norme relative alla sua natura, ai suoi compiti e al suo funziona-
mento sono stabilite dal Codice di diritto canonico, dalle delibere applicati-
ve della CEI in materia amministrativa, dal Sinodo diocesano 47° e dal pre-
sente Regolamento.

II. Compiti

Articolo 3
Il CoCo esercita funzioni di reggenza della diocesi in caso di sede im-
pedita o di sede vacante:
a) in sede impedita:
elegge il sacerdote che deve governare la diocesi, qualora non ci sia il Ve-
scovo coadiutore o sia a sua volta impedito e non sia stato indicato un reg-
gente dal Vescovo stesso, a norma del can. 413 § 1 (can. 413 § 2);
b) in sede vacante:
1. in mancanza del Vescovo ausiliare, informa la Santa Sede della morte del
Vescovo (can. 422);
2. in mancanza del Vescovo ausiliare o di uno specifico intervento della
Santa Sede, regge la diocesi fino alla costituzione dell’Amministratore
diocesano (can. 419);
3. entro otto giorni da quando si è ricevuta notizia che la sede vescovile è
vacante, elegge l’Amministratore diocesano (can. 421 § 1);
4. assiste alla professione di fede dell’Amministratore diocesano (can. 833,
4°);
5. svolge i compiti propri del Consiglio presbiterale, che decade in sede va-
cante, fino alla costituzione del nuovo Consiglio entro un anno dalla pre-
sa di possesso del nuovo Vescovo (can. 501 § 2);
6. esprime il proprio consenso all’Amministratore diocesano in relazione a
tre circostanze:
– la concessione dell’escardinazione, dell’incardinazione e della licenza
di trasferirsi in altra Chiesa particolare, dopo un anno di sede vacante
(can. 272);
– la rimozione dall’ufficio del Cancelliere o di altri notai di Curia (can.
485);
– la concessione delle lettere dimissorie (can. 1018 § 1, 2°);
7. viene sentito in alcuni suoi membri dal Legato pontificio in occasione
della nomina del nuovo Vescovo diocesano o del Vescovo coadiutore
(can. 377 § 3);
8. assiste alla presa di possesso del nuovo Vescovo (can. 382 § 3; cf can.
404 per la presa di possesso del Vescovo coadiutore e ausiliare).
120 Carlo Redaelli

Articolo 4
Il CoCo coadiuva l’Arcivescovo nell’amministrazione dei beni della
diocesi e delle persone giuridiche a lui soggette:
a) esprimendo il proprio consenso circa:
1. gli atti di amministrazione straordinaria posti dall’Arcivescovo in qualità
di amministratore della diocesi o di altri enti diocesani, così come indivi-
duati dalla CEI (can. 1277; delibera CEI n. 37);
2. gli atti di alienazione di beni ecclesiastici di valore superiore alla somma
minima fissata dalla CEI (delibera n. 20: lire 300 milioni) oppure di “ex
voto” e di oggetti di valore artistico e storico (can. 1292);
3. la stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti all’Arci-
diocesi o ad altra persona giuridica amministrata dal Vescovo diocesano,
di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20, eccet-
to il caso che il locatario sia un ente ecclesiastico (can. 1297; delibera
CEI n. 38);
b) esprimendo il proprio parere circa:
1. le scelte di maggior rilievo, nell’ambito dell’amministrazione dei beni del-
la Chiesa diocesana, sia di carattere generale (per esempio sulle modalità
di investimento delle somme appartenenti agli enti ecclesiastici), sia per
casi singoli (per esempio la destinazione di un immobile di particolare va-
lore di proprietà di un ente centrale della diocesi) (can. 1277);
2. la nomina e la rimozione dell’Economo della diocesi (can. 494 §§ 1 e 2);
3. l’utilizzo del “fondo comune diocesano” a favore prevalentemente delle
parrocchie in particolari difficoltà (cost. 328);
4. ogni altra questione su cui l’Arcivescovo ritiene opportuno sentire il Col-
legio.

Articolo 5
Il CoCo, in rappresentanza del Consiglio presbiterale e su mandato
dello stesso, è chiamato a esprimere all’Arcivescovo il proprio parere circa:
a) l’erezione, la soppressione e la modifica delle parrocchie (can. 515 § 2);
b)la costruzione di una nuova chiesa (can. 1215 § 2);
c) la riduzione a uso profano di una chiesa (can. 1222 § 2);
d)le determinazioni per la diocesi di Milano della normativa relativa al so-
stentamento del clero (ammontare della quota a carico degli enti, con-
cessione di riduzioni, modalità di attribuzione dei punti aggiuntivi ecc.);
e) ogni altra questione di competenza del Consiglio presbiterale e dallo
stesso delegata, a norma del proprio statuto, al Collegio.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 121

Con cadenza annuale il CoCo darà relazione al Consiglio presbiterale


circa la propria attività, i criteri pastorali ispiratori di essa e gli orientamen-
ti assunti sulle materie demandategli dallo stesso Consiglio.

III. Composizione, durata in carica e obblighi dei Consultori

Articolo 6
«Il Collegio dei Consultori della nostra diocesi è composto da dodici
presbiteri, scelti dall’Arcivescovo tra i membri del Consiglio presbiterale in
carica, cosicché tutte le zone pastorali e i principali settori pastorali della
diocesi vi siano rappresentati» (cost. 177 § 2).

Articolo 7
Il Collegio dura in carica cinque anni, tuttavia al termine del quin-
quennio continua a esercitare le sue funzioni fino alla costituzione del nuo-
vo CoCo (can. 502 § 1).
Durante il mandato i componenti del Collegio restano in carica anche
se cessano di essere membri del Consiglio presbiterale. Qualora nel corso
del quinquennio si rendesse necessario sostituire uno o più Consultori, i
nuovi membri dureranno in carica fino al termine del mandato dell’intero
Collegio.

Articolo 8
I Consultori hanno l’obbligo di presenziare alle sessioni. In caso di
tre assenze ingiustificate consecutive, il Consultore decade dal mandato.
La partecipazione al Collegio è a titolo gratuito, salvo il rimborso per
le spese di viaggio.

IV. Presidente e Segretario

Articolo 9
Il CoCo «è presieduto dall’Arcivescovo o, per mandato speciale, da un
Vicario» (cost. 177 § 2; cf can. 502 § 2). Il Vicario partecipa alle riunioni in
rappresentanza dell’Arcivescovo e si astiene dalle votazioni.
Qualora l’Arcivescovo partecipi alle sedute del CoCo, ne assume an-
che la presidenza.
In caso di sede vacante o impedita, la presidenza spetta a chi sostitui-
sce interinalmente l’Arcivescovo o, in sua mancanza, al sacerdote del Col-
legio più anziano di ordinazione (can. 502 § 2).
122 Carlo Redaelli

Articolo 10
Spetta al Presidente, in particolare: convocare il Collegio, moderare
le sedute, sottoporre all’Arcivescovo i pareri e le delibere, mantenere i rap-
porti con altri organismi diocesani, in particolare con il Consiglio episcopa-
le, il Consiglio presbiterale, il Consiglio per gli affari economici diocesano
(CAED) e gli Uffici di Curia.

Articolo 11
Il Segretario è nominato dall’Arcivescovo, anche al di fuori dei mem-
bri del CoCo, e svolge la stessa funzione presso il CAED, «al fine di garan-
tire un efficace coordinamento tra il Collegio dei Consultori e il Consiglio
per gli affari economici della diocesi» (cost. 179 § 1). Egli dura in carica
per cinque anni e il suo mandato può essere rinnovato anche più volte.
Spetta in particolare al Segretario, o a un collaboratore da lui incari-
cato: redigere il verbale delle sedute, curare l’archivio del Collegio, prepa-
rare il materiale relativo alle diverse pratiche in accordo con i competenti
Uffici di Curia e trasmettere agli stessi le delibere dopo l’approvazione del-
l’Arcivescovo.

V. Sessioni

Articolo 12
Il CoCo si raduna normalmente ogni due settimane per esaminare le
pratiche di sua competenza. Alcune sessioni possono essere dedicate allo
studio di tematiche particolari.
Convocazioni straordinarie, o in seduta congiunta con il CAED, pos-
sono essere richieste dall’Arcivescovo, dal Presidente o da almeno sette
Consultori.

Articolo 13
Il Presidente può invitare a partecipare al CoCo, senza diritto di voto,
le persone la cui presenza riterrà utile ai fini della sessione, in particolare i
Responsabili degli Uffici di Curia interessati dalle materie in discussione.

Articolo 14
Entro i tre giorni precedenti la sessione, il Segretario trasmette ai
Consultori l’ordine del giorno, firmato dal Presidente, e mette a disposizio-
ne presso la propria sede la documentazione relativa alle pratiche da esa-
minare.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 123

Articolo 15
Le singole questioni vengono illustrate dal Presidente, o, su suo inca-
rico, dal Segretario o dal Responsabile dell’Ufficio competente.

Articolo 16
Nel caso di pratiche di competenza anche del CAED, esse verranno
«di norma esaminate previamente dal Collegio dei Consultori, al fine di e-
sperire anzitutto una valutazione più direttamente pastorale» (cost. 179 § 2).
A tale scopo il CoCo dovrà mantenersi «in costante rapporto con i Vi-
cari episcopali di zona ed eventualmente con i Responsabili degli enti, an-
che tramite il componente del Collegio scelto dall’Arcivescovo come colle-
gamento con la zona o il settore interessati» (cost. 177 § 3).

Articolo 17
Quando il Collegio è chiamato a offrire un parere o a dare il consenso
circa una determinata questione, i Consultori devono pronunciarsi formal-
mente tramite voto, su invito del Presidente.
Il voto viene normalmente espresso a voce o per alzata di mano. Su ri-
chiesta dell’Arcivescovo o del Presidente o su istanza di almeno cinque
Consultori, il voto deve essere dato in forma segreta.
La deliberazione è approvata se, presenti la maggioranza assoluta dei
Consultori, ha ricevuto il voto favorevole della maggioranza assoluta dei
presenti. In caso di parità di voti, il consenso (cf art. 4) del CoCo si ritiene
non dato, il parere (cf artt. 4 e 5), invece, viene trasmesso all’Arcivescovo
con le motivazioni dei diversi orientamenti.
È diritto di ogni Consultore richiedere che venga messa a verbale, e
possa così essere conosciuta dall’Arcivescovo, la propria opposizione moti-
vata o qualunque altra osservazione.
Ciascun Consultore «non può intervenire alla discussione e parteci-
pare al voto quando si tratti di questioni relative a enti presso i quali svolge
funzioni di responsabilità amministrativa» (cost. 354).

Articolo 18
I Consultori e i partecipanti al CoCo sono tenuti al riserbo sulle que-
stioni discusse. Sono vincolati anche al segreto sull’espressione del voto e
sulle questioni trattate, quando è richiesto dal presidente (can. 127 § 3).
124 Carlo Redaelli

VI. Verbale e sua presentazione all’Arcivescovo

Articolo 19
Il verbale delle sessioni, redatto dal Segretario, viene presentato al-
l’Arcivescovo dal Presidente.
Tuttavia le pratiche di competenza anche del CAED, che hanno otte-
nuto l’approvazione del CoCo, non vengono sottoposte direttamente all’Ar-
civescovo, ma vengono trasmesse dal Presidente del Collegio al Presiden-
te del CAED. Spetta a quest’ultimo la presentazione all’Arcivescovo in un
unico verbale delle pratiche approvate dai due organismi.

VII. Procedura d’urgenza

Articolo 20
Qualora esistano ragioni d’urgenza per deliberare su una pratica di
competenza del CoCo e non sia possibile attendere la riunione program-
mata del Collegio, si può ricorrere a una procedura speciale.
Sarà sufficiente, in questo caso, per l’approvazione della pratica il be-
nestare del Presidente o, in sua assenza, quello di due Consultori.
Nella seduta successiva, il Presidente o uno dei Consultori firmatari
della delibera d’urgenza, illustrerà al CoCo la pratica in questione, motivan-
do la decisione presa con carattere d’urgenza.

REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO PER GLI AFFARI ECONOMICI


DELLA DIOCESI DI MILANO

I. Natura e finalità

Articolo 1
«Il Consiglio per gli affari economici della diocesi [CAED] è l’organi-
smo che coadiuva l’Arcivescovo nell’amministrazione dei beni della diocesi
e delle persone giuridiche a lui soggette, con particolare riguardo ai profili
tecnici, soprattutto giuridici ed economici» (Sinodo diocesano 47°, cost.
178 § 1).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 125

Articolo 2
Le norme relative alla sua natura, ai suoi compiti e al suo funziona-
mento sono stabilite dal Codice di diritto canonico, dalle delibere applicati-
ve della CEI in materia amministrativa, dal Sinodo diocesano 47° e dal pre-
sente Regolamento.

II. Compiti

Articolo 3
Il CAED esercita funzioni di indirizzo per l’amministrazione dei beni
della Chiesa diocesana, offrendo all’Arcivescovo pareri circa:
a) l’elaborazione della normativa diocesana sui beni (cann. 1276 § 2; 1277),
in particolare nell’individuare gli atti di amministrazione straordinaria
posti dagli enti soggetti all’Arcivescovo (can. 1281 § 2) e nello stabilire
la misura e le modalità del tributo ordinario (can. 1263);
b) le scelte di maggior rilievo, sia di carattere generale (per esempio sulle
modalità di investimento delle somme appartenenti agli enti ecclesiastici),
sia per casi singoli (per esempio la destinazione di un immobile di partico-
lare valore di proprietà di un ente centrale della diocesi) (can. 1277).

Articolo 4
Il CAED esprime all’Arcivescovo il proprio consenso circa:
a) gli atti di amministrazione straordinaria posti dall’Arcivescovo, così co-
me individuati dalla CEI (can. 1277; delibera CEI n. 37);
b) gli atti di alienazione di beni ecclesiastici di valore superiore alla somma
minima fissata dalla CEI (delibera n. 20: lire 300 milioni) oppure di “ex
voto” e di oggetti di valore artistico e storico (can. 1292);
c) la stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti alla Ar-
cidiocesi o ad altra persona giuridica amministrata dal Vescovo diocesa-
no, di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20,
eccetto il caso che il locatario sia un ente ecclesiastico (can. 1297; deli-
bera CEI n. 38).

Articolo 5
Il CAED esprime all’Arcivescovo il proprio parere circa:
a) gli atti di amministrazione straordinaria, posti dagli enti diocesani, per i
quali è richiesto il nulla osta dell’Ordinario (can. 1281 § 1; cost. 338 § 1;
decr. arc. 30 novembre 1990, prot. gen. 2283/90) nei termini previsti dal-
la normativa diocesana;
126 Carlo Redaelli

b) i rendiconti annuali presentati dagli enti soggetti all’Arcivescovo (can.


1287 § 1);
c) la custodia e l’investimento, tramite la Cassa diocesana legati, di beni as-
segnati a titolo di dote alle pie fondazioni (can. 1305);
d) la riduzione degli oneri relativi a pie fondazioni, esclusi quelli per la cele-
brazione di Messe (can. 1310 § 2);
e) la nomina e la rimozione dell’Economo della diocesi (can. 494 §§ 1 e 2);
f) l’utilizzo del “fondo comune diocesano” a favore prevalentemente delle
parrocchie in particolari difficoltà (cost. 328);
g) ogni altra questione su cui l’Arcivescovo ritiene opportuno sentire il
Consiglio.

Articolo 6
«Nell’esercitare le sue funzioni di controllo e vigilanza sull’ente Arci-
diocesi di Milano e sugli altri enti centrali, il Consiglio avrà cura di verifica-
re gli indirizzi delle loro attività anche al fine di assicurarne il necessario
coordinamento» (cost. 179 § 5).
In particolare:
a) definisce le modalità a cui l’Economo della diocesi e gli Amministratori
degli enti centrali della diocesi («ovvero degli enti che perseguono fina-
lità generali di carattere diocesano, qualunque sia la loro configurazione
giuridica»: cost. 178 § 3) devono attenersi nell’adempimento del loro
compito e ne verifica l’esecuzione (can. 494 § 3);
b) ogni anno, entro il mese di aprile, cura che venga predisposto il bilancio
preventivo dell’Arcidiocesi e dei singoli enti centrali e ne approva il bi-
lancio consuntivo (cann. 493 e 494 § 4);
c) su proposta del Moderator Curiae, delibera l’assunzione e il trattamento
economico del personale laico della Curia, secondo il Regolamento della
stessa.

III. Composizione, durata in carica e obblighi dei consiglieri

Articolo 7
«Il Consiglio per gli affari economici è composto da membri scelti dal-
l’Arcivescovo in ragione delle loro specifiche competenze» (cost. 178 § 2),
nel numero minimo di cinque e massimo di nove consiglieri. «Essi siano
preferibilmente laici a norma della costituzione 355» (ibidem).
I membri del CAED devono avere i requisiti di cui al can. 492. «La ca-
rica di consigliere del Consiglio per gli affari economici è di norma incom-
patibile con quella di membro dei consigli di amministrazione degli enti
centrali della diocesi» (cost. 178 § 3).
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 127

Articolo 8
«Il Consiglio dura in carica cinque anni» (cost. 178 § 4; can. 492 § 2),
tuttavia al termine del quinquennio continua a esercitare le sue funzioni fi-
no alla costituzione del nuovo CAED. Il mandato dei consiglieri può essere
rinnovato più volte (can. 492 § 2).
Qualora nel corso del quinquennio si rendesse necessario integrare il
numero o sostituire uno o più consiglieri, i nuovi membri dureranno in ca-
rica fino al termine del mandato dell’intero Consiglio.

Articolo 9
Al momento dell’accettazione della nomina, i Consiglieri garantisco-
no con giuramento davanti all’Ordinario di svolgere onestamente e fedel-
mente il proprio incarico (can. 1283, 1°).
I Consiglieri hanno l’obbligo di presenziare alle sessioni. In caso di
tre assenze ingiustificate consecutive, il Consigliere decade dal mandato.
I Consiglieri hanno diritto al rimborso delle spese di viaggio e i Con-
siglieri laici anche a un gettone di presenza nella misura stabilita periodica-
mente dal Presidente.

Articolo 10
Oltre ai membri effettivi, sono sempre tenuti a partecipare alle riunio-
ni del Consiglio: l’Economo diocesano, il Responsabile dell’Ufficio ammini-
strativo e l’Avvocato generale. Essi non hanno diritto di voto, ma contribui-
scono con la loro specifica competenza ed esperienza alla formazione delle
deliberazioni del Consiglio (cost. 178 § 2).
I Responsabili degli altri Uffici di Curia sono invitati dal Presidente di
volta in volta, in occasione della presentazione di pratiche di loro compe-
tenza.

IV. Presidente e Segretario

Articolo 11
Il CAED è presieduto dal Pro-vicario generale, Moderator Curiae, co-
me delegato dell’Arcivescovo (can. 492 § 1). Egli, partecipando alle riunio-
ni in rappresentanza dell’Arcivescovo, si astiene dalle votazioni.
Qualora l’Arcivescovo partecipi alle sedute del CAED, ne assume an-
che la presidenza.
128 Carlo Redaelli

Articolo 12
Spetta al Presidente, in particolare: convocare il Consiglio, moderare
le sedute, sottoporre all’Arcivescovo i pareri e le delibere, mantenere i rap-
porti con altri organismi diocesani, in particolare con il Consiglio episcopa-
le, il Collegio dei Consultori (CoCo) e gli Uffici di Curia.

Articolo 13
Il Segretario è nominato dall’Arcivescovo, anche al di fuori dei mem-
bri del CAED, e svolge la stessa funzione presso il CoCo, «al fine di garan-
tire un efficace coordinamento tra il Collegio dei Consultori e il Consiglio
per gli affari economici della diocesi» (cost. 179 § 1). Egli dura in carica
per cinque anni e il suo mandato può essere rinnovato anche più volte.
Spetta in particolare al Segretario, o a un collaboratore da lui incari-
cato: redigere il verbale delle sedute, curare l’archivio del Consiglio, prepa-
rare il materiale relativo alle diverse pratiche in accordo con i competenti
Uffici di Curia e trasmettere agli stessi le delibere dopo l’approvazione del-
l’Arcivescovo.

V. Sessioni

Articolo 14
Il CAED si raduna normalmente ogni due settimane per esaminare le
pratiche di sua competenza. Alcune sessioni possono essere dedicate allo
studio di tematiche particolari. Convocazioni straordinarie, o in seduta con-
giunta con il CoCo, possono essere richieste dall’Arcivescovo, dal Presi-
dente o da almeno tre Consiglieri.

Articolo 15
Il Presidente può invitare a partecipare al CAED, senza diritto di vo-
to, le persone la cui presenza riterrà utile ai fini della sessione, oltre ai Re-
sponsabili degli Uffici di Curia interessati dalle materie in discussione (cf
art. 10).

Articolo 16
Entro i tre giorni precedenti la sessione, il Segretario trasmette ai
Consiglieri l’ordine del giorno, firmato dal Presidente, e mette a disposizio-
ne presso la propria sede la documentazione relativa alle pratiche da esa-
minare.
I regolamenti del Collegio dei Consultori e del Consiglio per gli affari economici della diocesi 129

Articolo 17
Le singole questioni vengono illustrate dal Presidente o, su suo inca-
rico, dal Segretario o dal Responsabile dell’Ufficio competente.

Articolo 18
Quando il Consiglio è chiamato a offrire un parere o a dare il consen-
so circa una determinata questione, i Consiglieri devono pronunciarsi for-
malmente tramite voto, su invito del Presidente.
Il voto viene normalmente espresso a voce o per alzata di mano. Su ri-
chiesta dell’Arcivescovo o del Presidente o su istanza di almeno tre Consi-
glieri, il voto va espresso in forma segreta.
Quanto sottoposto a votazione è approvato se, presenti la maggioran-
za assoluta dei Consiglieri, ha ottenuto il voto favorevole della maggioran-
za assoluta dei presenti. In caso di parità di voti, il consenso (cf art. 4) del
CAED si ritiene non dato; il parere (cf artt. 3 e 5), invece, viene trasmesso
all’Arcivescovo con le motivazioni dei diversi orientamenti.
È diritto di ogni Consigliere richiedere che venga messa a verbale, e
possa così essere conosciuta dall’Arcivescovo, la propria opposizione moti-
vata o qualunque altra osservazione.
Ciascun Consigliere «non può intervenire alla discussione e parteci-
pare al voto quando si tratti di questioni relative a enti presso i quali svolge
funzioni di responsabilità amministrativa» (costt. 178 § 3 e 354).

Articolo 19
I Consiglieri e i partecipanti al CAED sono tenuti al riserbo sulle que-
stioni discusse. Sono vincolati anche al segreto sull’espressione del voto e
sulle questioni trattate, quando è richiesto dal Presidente (can. 127 § 3).

VI. Verbale e sua presentazione all’Arcivescovo

Articolo 20
Il verbale delle sessioni, redatto dal Segretario, viene presentato al-
l’Arcivescovo dal Presidente.
Il verbale contiene, oltre alle pratiche di competenza solo del CAED,
anche quelle di competenza comune con il CoCo e approvate dai due orga-
nismi.
130 Carlo Redaelli

VII. Procedura d’urgenza

Articolo 21
Qualora esistano ragioni d’urgenza per deliberare su una pratica di
competenza del CAED e non sia possibile attendere la riunione program-
mata del Consiglio, si può ricorrere a una procedura speciale.
Sarà sufficiente, in questo caso, per l’approvazione della pratica il be-
nestare del Presidente o, in sua assenza, quello di due Consiglieri.
Nella seduta successiva, il Presidente, o uno dei Consiglieri firmatari
della delibera d’urgenza, illustrerà al CAED la pratica in questione, moti-
vando la decisione presa con carattere d’urgenza.
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

Pagina senza testo


QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
133 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
135 Le unità pastorali: N. 2 - APRILE 1996
motivi, valori e limiti
di Francesco Coccopalmerio DIREZIONE ONORARIA

139 Unità pastorali: Jean Beyer, S.I.


contributo per una definizione DIREZIONE E REDAZIONE
di Agostino Montan Francesco Coccopalmerio
164 Forme di collaborazione interparrocchiali Paolo Bianchi - Massimo Calvi
secondo il Codice Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
di Gianni Trevisan Silvia Recchi - Carlo Redaelli
Mauro Rivella
174 La cura pastorale della parrocchia
Giangiacomo Sarzi Sartori
non affidata al sacerdote Gianni Trevisan
di Giangiacomo Sarzi Sartori Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
195 Commento a un canone
Il momento della vacanza di un ufficio SEGRETERIA DI REDAZIONE
conferito per un tempo determinato G. Paolo Montini
o fino a una determinata età (can. 186) Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
di G. Paolo Montini Tel. (030) 37.121

209 Il Diritto pubblico ecclesiastico: PROPRIETÀ


una disciplina canonistica tra passato e futuro. II Istituto Pavoniano Artigianelli
di Giuseppe M. Siviero Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
239 I. La forma straordinaria del matrimonio
di Jan Hendriks AMMINISTRAZIONE
257 II. Note in materia di “forma straordinaria” Editrice Àncora
della celebrazione del matrimonio Via G.B. Niccolini, 8
di Paolo Bianchi 20154 Milano
Tel. (02) 345608.1

STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

ABBONAMENTI PER IL 1996


Italia: L. 20.000
Estero: L. 27.000
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Un fascicolo: L. 7.000
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intestato a: Editrice Àncora
Autorizzazione del Tribunale di
Milano n. 752 del 13.11.1987
Nulla osta alla stampa:
Milano, 24-5-1996, don Franco Pizzagalli Spedizione in abb. postale comma 27
Imprimatur: Milano 24-5-1996, Angelo Mascheroni Vic. ep. art. 2 legge 549/95 - Milano
133

Editoriale

La necessità – strutturale per la Chiesa – della evangelizzazio-


ne; il diritto-dovere di tutti i fedeli di cooperarvi nei modi congrui al
loro stato di vita; la situazione contingente della nostra realtà eccle-
siale, soprattutto sotto il profilo delle vocazioni al ministero ordinato:
sono le considerazioni principali che stanno alla base dell’argomento
scelto per la parte monografica di questo fascicolo.
Esso è infatti dedicato alle “Unità pastorali”, locuzione che in
questi ultimi anni si sente risuonare sempre più spesso sia in pubbli-
cazioni specialistiche che divulgative, sia nel comune modo di espri-
mersi degli operatori pastorali.
La nostra Rivista vuole dare il suo contributo in merito, affron-
tando la tematica da un punto di vista canonistico e in una duplice
convinzione.
In primo luogo, che il punto di vista prescelto non sia “altro” ri-
spetto alla pastorale e alle sue necessità, ma sia anzi un aspetto della
pastorale della comunità cristiana direttamente funzionale alla chia-
rezza e all’ordine del suo svolgimento e, indirettamente (ceteris pari-
bus) di una sua maggiore efficacia.
In secondo luogo, che occorrano spazi di riflessione e una at-
tenta ricognizione di quanto già previsto come attuale o sviluppabile
dall’ordinamento della Chiesa in merito, in modo da evitare che la
stessa programmazione pastorale si svolga nell’incertezza concettua-
le, nella riproposizione vuota di slogans e in una sperimentazione
non ben calibrata, spesso destinata alla sterilità, nonostante la buona
fede e la buona volontà di chi la promuove.
In quest’ottica la Rivista intende presentare – sul fronte più pro-
priamente della riflessione di principio e concettuale – un contributo
134 Editoriale

iniziale che prospetti sinteticamente motivi, valori e limiti delle Unità


pastorali (Coccopalmerio), nonché uno studio approfondito che, do-
po una rassegna delle varie tipologie proposte e attuate di Unità pa-
storali, affronti il non facile compito di una definizione, per così dire
di una reductio ad unum, del concetto di Unità pastorale (Montan).
Sul fronte invece della ricognizione di quanto già esistente nel-
l’ordinamento canonico ovvero di quanto in esso previsto come ulte-
riormente sviluppabile anche in rapporto alle necessità contingenti,
la Rivista presenta una rassegna delle forme di collaborazione inter-
parrocchiale già reperibili nel Codice di diritto canonico (Trevisan),
nonché una analisi delle possibilità pastorali connesse con la facoltà
fatta al can. 517 § 2 di affidamento della partecipazione alla cura pa-
storale di una parrocchia a persone non insignite dell’Ordine sacro
(Sarzi Sartori).
La Rivista ritiene di mantenersi in tal modo fedele al suo com-
pito di favorire una conoscenza del diritto canonico orientata a una
prassi pastorale corretta ed efficace.

La seconda parte del fascicolo si apre, come di consuetudine,


con il commento a un canone (Montini). Il prescritto analizzato attie-
ne alla normativa peculiare di modalità di cessazione dell’ufficio ec-
clesiastico oggi particolarmente diffuse: per la scadenza del termine
di un tempo stabilito o per raggiunto limite di età (can. 186). La no-
vità della materia e della normativa, nonché un loro uso sempre più
diffuso, rendono urgente l’attenzione a una corretta applicazione.
Viene poi completato il discorso, già incominciato nel fascico-
lo III del 1993, sul Diritto Pubblico Ecclesiastico (Siviero). Nono-
stante la tecnicità dell’argomento e dell’impostazione, il tema riveste
senz’altro un interesse speciale sia per tutti coloro che si sono for-
mati sulla dottrina preconciliare della Chiesa societas perfecta e ora
intendono conoscerne criticamente l’origine, il significato, il valore e
il destino; sia per coloro che, formati dopo il Concilio alla nuova dot-
trina conciliare della libertas Ecclesiae, intendono scoprirne i prodro-
mi e le prospettive canonistiche.
Si affronta poi la tematica della forma straordinaria del matri-
monio, in cui cioè è richiesta la presenza dei soli testimoni: a un arti-
colo generale (Hendriks) segue una nota tesa soprattutto a conside-
rare la delicata problematica (concernente pure il cosiddetto matri-
monio civile) nello specifico contesto sociale, ecclesiale e normativo
italiano (Bianchi).
135
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 135-138
Le unità pastorali:
motivi, valori e limiti
di Francesco Coccopalmerio

Nel presente numero della nostra rivista la parte monografica è


dedicata al tema «Strutture infradiocesane e unità pastorali». Alcuni
articoli sviluppano analiticamente singole questioni, cioè svolgono
l’esegesi delle strutture previste dai cann. 517 § 1; 517 § 2; 526 § 1;
545 § 2.
Ci pare utile per i nostri lettori premettere un quadro generale,
tale cioè che consideri congiuntamente, quasi a modo di indice, le
varie strutture in argomento.
Vediamo pertanto le seguenti tipologie: gruppi di sacerdoti che
reggono in solido una o più parrocchie (cf can. 517 § 1); fedeli non
sacerdoti a cui è attribuita la partecipazione alla cura pastorale di
una parrocchia (cf can. 517 § 2); più parrocchie vicine affidate a un
solo parroco (cf can. 526 § 1); un vicario parrocchiale per uno speci-
fico ministero in più parrocchie determinate (cf can. 545 § 2).
Vogliamo considerare in modo congiunto le predette statuizioni
per metterne in evidenza dapprima i motivi che ne determinano il
sorgere e poi il valore che ne connota la struttura.

I motivi
1) Gruppi di sacerdoti che reggono in solido una o più parroc-
chie (cf can. 517 § 1). Il motivo di tale previsione, come introdotto dal
Codice, non dice nulla di preciso: «Quando le circostanze lo richiedo-
no» (ibid.). Il motivo della previsione codiciale, almeno nel caso in
cui al gruppo di sacerdoti vengono affidate più parrocchie, sembra
essere duplice: la scarsità di sacerdoti e/o l’intenzione di promuovere
maggiore unità tra parrocchie e sacerdoti.
136 Francesco Coccopalmerio

2) Fedeli non sacerdoti a cui è attribuita la partecipazione alla


cura pastorale di una parrocchia (cf can. 517 § 2). Il motivo di tale
previsione è, questa volta, indicato in modo preciso: «a motivo della
scarsità di sacerdoti» a giudizio del vescovo diocesano (ibid.).
3) Più parrocchie vicine affidate a un solo parroco (cf can. 526
§ 1). Anche qui il motivo è indicato con precisione: «per la scarsità di
sacerdoti».
4) Un vicario parrocchiale per uno specifico ministero in più par-
rocchie determinate (cf can. 545 § 2: «Per assolvere uno specifico mi-
nistero contemporaneamente in più parrocchie determinate», per
esempio per i giovani). Il motivo di tale previsione non è espresso né,
comunque, può limitarsi a quello della scarsità di sacerdoti, potendo
essere anche quello della specializzazione del sacerdote o quello del-
la maggior unità e omogeneità nello specifico ministero.
L’interesse a considerare le suddette figure in modo unitario è
originato dal fatto che negli ultimi anni si riflette e si discute delle co-
siddette “unità pastorali”. E le predette figure codiciali sono, appun-
to, esempi di tali “unità pastorali”.
Per “unità pastorali” si intendono sostanzialmente i modi in cui il
vescovo diocesano unifica più comunità parrocchiali quanto al sog-
getto della pastorale. Così avviene nella figura più semplice e cioè in
quella di più parrocchie affidate alla cura di un solo sacerdote (cf can.
526 § 1) e così avviene chiaramente nel caso di più parrocchie affida-
te a un gruppo di sacerdoti che le reggono in solido (cf can. 517 § 1)
e nel caso di un vicario parrocchiale che svolge un ministero in più
parrocchie (cf can. 545 § 2). E così anche nel caso delle parrocchie
affidate a fedeli non sacerdoti (cf can. 517 § 2), per il fatto che un sa-
cerdote moderatore unifica l’attività pastorale di più parrocchie affi-
date ai fedeli non sacerdoti (è, in definitiva, un caso simile a quello
del can. 526 § 1).
Ma le “unità pastorali” si possono configurare anche in altri mo-
di, oltre alle figure sopra previste dal Codice, eventualmente metten-
do insieme elementi dell’una e dell’altra.
Il motivo più forte per cui si è pensato alle “unità pastorali” è in-
dubbiamente quello dell’attuale scarsità di sacerdoti. Tuttavia si de-
ve riconoscere che è presente anche quello dell’unificazione e del
coordinamento dell’azione pastorale. In definitiva, il primo esempio
di “unità pastorali” è lo stesso vicariato foraneo (cf can. 374 § 2: «Per
favorire la cura pastorale mediante un’azione comune, più parroc-
chie vicine possono essere riunite in peculiari raggruppamenti, quali
Le unità pastorali: motivi, valori e limiti 137

sono i vicariati foranei»). E, come il testo suggerisce («quali sono i


vicariati foranei», quindi si tratta di un esempio), altri raggruppa-
menti sono ipotizzabili, per esempio raggruppamenti di più vicariati
foranei in quelle che possiamo chiamare zone pastorali e che posso-
no essere affidate a un vicario episcopale di zona.
Si può pertanto ritenere che, relativamente ai motivi che ne de-
terminano la costituzione e quindi le finalità che si vogliono perse-
guire, esistono in definitiva due tipologie di “unità pastorali”:
a) quelle determinate dalla scarsità di sacerdoti e quindi finaliz-
zate al risparmio di persone;
b) quelle determinate dalla necessità di promuovere una pasto-
rale coordinata, una “pastorale d’insieme”.

I valori e i limiti
La duplice tipologia determina al contempo il duplice valore
delle “unità pastorali”: mentre le seconde sono sempre valide e au-
spicabili, le prime sono solo una necessità della congiuntura storica.
Ciò significa che la pastorale diocesana deve atteggiarsi in mo-
do differenziato nei confronti dell’una o dell’altra tipologia.
1) È importante coltivare la pastorale d’insieme e quindi preve-
dere utili strutture che consentano di:
a) evitare inopportune divergenze tra le comunità viciniori o
coordinare le stesse attività al fine di fornire ai fedeli servizi pastorali
più efficaci (si pensi all’esempio elementare dell’orario delle messe
coordinato tra più parrocchie vicine);
b) rendere di fatto attuabili attività pastorali specializzate che
non potrebbero essere intraprese da ogni singola comunità;
c) favorire la comunione, non solo fattuale, ma anche spirituale,
fra operatori pastorali, specialmente tra i presbiteri;
d) valorizzare per più comunità alcune specifiche competenze
(si veda, per esempio, il sacerdote addetto alla cura dei giovani).
Sono in definitiva alcuni principi che presiedono alla struttura
del vicariato foraneo (cf cann. 374 § 2; 555).
Lo stesso potrebbe dirsi per le parrocchie di piccole città, an-
che se queste fossero parte di un vicariato più ampio.
2) È necessario a volte, specie oggi, adottare misure di riduzio-
ne del personale, attivando così “unità pastorali”: soprattutto quelle
di più parrocchie affidate a un solo parroco (can. 526 § 1) o di più
138 Francesco Coccopalmerio

parrocchie nelle quali una partecipazione all’esercizio della cura


pastorale è attribuita a laici/che o a religiosi/e, singoli o in gruppo
(cf can. 517 § 2).
Ma queste strutture non sono certo la soluzione ottimale e a es-
se ci si deve piuttosto adattare.
Ciò si dice per il semplice motivo che ci sembra di scorgere,
in taluni pastori, una specie di illusoria soddisfazione per aver trova-
to finalmente il rimedio all’assillante problema dell’attuale scarsità
del clero.
Le strutture sopra indicate non possono essere quelle definiti-
ve, né quelle che ovviano all’indicato problema, se non temporanea-
mente.
E non dispensano i pastori dal preoccuparsi seriamente del gra-
vissimo problema che costituisce la ragione contingente del sorgere
delle cosiddette “unità pastorali”: quello del calo delle vocazioni al
ministero pastorale, che può essere utilmente affrontato solo con un
impegno straordinario per la suscitazione e la cura delle vocazioni.
3) Il che però non significa che anche le suddette strutture non
siano un evento importante: sono infatti una provvidenziale occasio-
ne per promuovere i laici ad assumere nella Chiesa alcuni ruoli attivi
che non sono esclusivi degli ordinati e quindi per far maturare nella
mentalità e nella prassi della Chiesa il riconoscimento della giusta
posizione di tutti i fedeli.
Diciamo “provvidenziale” per il semplice motivo che la scarsità
del clero obbliga a promuovere l’attività dei laici.
Ma ci si intenda bene: anche se il clero fosse abbondante, si do-
vrebbe promuovere al massimo il ruolo proprio dei laici. Si tratta in-
fatti di una ragione teologica e non di una contingenza pratica.
Sta di fatto, però, che tale promozione, se non si è ancora suffi-
cientemente attuata a motivo di una certa inerzia o di una scarsa
convinzione teologica, può esserlo ora, almeno sotto la spinta della
contingente scarsità del clero.

FRANCESCO COCCOPALMERIO
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
139
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 139-163
Unità pastorali:
contributo per una definizione
di Agostino Montan

Di fronte a un fenomeno di cui non siano chiari i contorni, viene


spontaneo chiedere: «Che cos’è questo?».
È la domanda che molti si pongono sentendo parlare di “unità
pastorali” (= UP), espressione entrata, da non molti anni, nel vocabo-
lario non solo pastorale, ma anche istituzionale di numerose Chiese
particolari 1.
In base alla documentazione raccolta da Stefania Gandola nel
volume curato da Valentino Grolla sulle UP 2, sono almeno trentano-
ve le diocesi italiane che hanno avviato e maturato orientamenti sulle
UP. Nella documentazione vengono citati articoli, relazioni, comuni-
cazioni, note, verbali, lettere pastorali, delibere riguardanti le UP. Il
libro sinodale della diocesi di Milano, di recente promulgato (1° feb-
braio 1995), dedica un intero capitolo alle UP, tema richiamato anche
in altre costituzioni 3. Delle UP parlano i Sinodi delle diocesi di Nova-
ra, Modena, Vicenza 4. Il tema delle UP è ormai diventato un argo-
mento esplicito nella legislazione delle Chiese particolari.

1
Sull’origine del nome e sulla sua diffusione in Italia cf G. CAPRARO, “Unità pastorali” tra sociologia e
teologia, in Il Regno - Attualità 38 (1993) 629-630. Sul dibattito in Germania cf S. LANZA, La nube e il fuo-
co, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, pp. 114-118.
2
Cf S. GANDOLA, Cammino di avvio nelle diocesi, in V. GROLLA, Unità pastorali nel rinnovamento della
pastorale parrocchiale, Edizioni Dehoniane, Roma 1996, pp. 123-148. Sulle UP cf anche ID., L’agire della
Chiesa. Lineamenti di teologia dell’azione pastorale, Edizioni Messaggero, Padova 1995, pp. 173-178. Un
vivo ringraziamento va al Centro di Orientamento Pastorale (Roma), in particolare alla segretaria Stefa-
nia Gandola, per la premurosa sollecitudine con la quale è stato messo a disposizione il materiale per la
presente ricerca.
3
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, Centro Ambrosiano, Milano 1995, parte II, cap. 7°, costt. 155-160
(pp. 207-211); cf anche costt. 15, 2; 61, 2; 63, 5; 133, 2; 208, 3; 402, 2; 479, 2; 482,1-8.
4
Cf DIOCESI DI VICENZA, 25° Sinodo Diocesano - 1984/1987. Documento conclusivo, Vicenza 1987, n. 50;
DIOCESI DI NOVARA, XX Sinodo diocesano della Chiesa novarese (1988-1990), l. III, c. III, n. 67 e l. V, c. X.
140 Agostino Montan

La nuova parola “unità pastorali” ha un suo fascino. Se usata


con una certa enfasi, designa, secondo qualche autore, una nuova
maniera di guardare la realtà 5. Ma – e qui riprendo l’interrogativo
iniziale – che cos’è una UP? Che cosa si vuole indicare con questa
espressione?
A queste domande cercherò di dare risposta a due livelli: uno
descrittivo (come vengono presentate le UP), l’altro strutturale (che
cosa sono le UP). Per raggiungere il duplice obiettivo passerò in ras-
segna le diverse descrizioni o definizioni di UP proposte dalla lettera-
tura teologico-pastorale più diffusa. Saranno privilegiate fonti dotate
di autorevolezza magisteriale o normativa, senza trascurare ovvia-
mente quei testi che si riveleranno utili per confronti e chiarificazioni.
Limiterò la mia ricerca al solo contesto italiano.
Concludo questa premessa con un’ultima rapidissima annotazio-
ne. L’interesse per le UP è strettamente connesso con alcuni fatti che
suscitano preoccupazioni e interrogativi: la diminuzione delle voca-
zioni sacerdotali e delle ordinazioni, l’invecchiamento del clero, l’au-
mento delle parrocchie senza parroco, la ridistribuzione dei presbite-
ri nelle diocesi e tra le diocesi. A questi fatti, si accompagnano altri
gravi fenomeni che coinvolgono tutta l’azione pastorale. Mi limito a ri-
cordare la mutata relazione dell’uomo d’oggi col fatto religioso e la
necessità di ripensare il modo di realizzarsi della Chiesa quale sacra-
mento di salvezza per gli uomini del nostro tempo. Si tratta di questio-
ni complesse che non sopportano soluzioni superficiali e approssima-
tive. Questi problemi, pur non rientrando direttamente ed esplicita-
mente in questo breve contributo, non sono a esso estranei. L’averli
ricordati ci fa più prudenti, ma anche più solleciti nel ricercare quella
pianificazione pastorale delle comunità cristiane che consenta di pro-
cedere speditamente nelle vie di una rinnovata evangelizzazione.

Come vengono presentate le UP?

Le UP: forma di collaborazione pastorale tra parrocchie vicine


In molti testi le UP vengono presentate come una forma di col-
laborazione pastorale organica tra parrocchie vicine. Viene continua-
mente ribadito che le UP non intendono essere una nuova e ulterio-

5
Cf A. CAPRIOLI, Le “unità pastorali”, in Rivista del Clero Italiano 76 (1995) 726-727.
Unità pastorali: contributo per una definizione 141

re struttura, che viene a giustapporsi a quelle già esistenti, ma un


modo diverso di fare pastorale nella direzione della comunione e del
servizio. Questa intuizione, che non è nuova in senso assoluto, non
può non porre in questione, in qualche modo, l’assetto organizzativo
della Chiesa diocesana. Per questo in alcune definizioni si aggiunge
che le UP sono promosse, configurate e riconosciute anche istituzio-
nalmente, vale a dire dando a esse forma giuridica mediante l’inter-
vento della competente autorità.
Esaminiamo alcuni testi.

– Segnalo, innanzitutto, la Lettera pastorale di monsignor Seve-


rino Poletto, vescovo di Asti: Chiamati per stare insieme. Le unità
pastorali un volto nuovo della nostra Chiesa (4 marzo 1992) 6. A que-
sta Lettera, tra le prime a porre in termini non vaghi ed emotivi, ma
precisi e realistici, il nuovo indirizzo pastorale, si richiameranno vo-
lentieri altre Chiese, facendo proprie le motivazioni e le indicazioni
in essa contenute.
Nella Lettera, monsignor Poletto descrive le UP dicendo dappri-
ma ciò che le UP non sono e poi ciò che invece debbono essere. È bene
riportare il testo.
Ciò che le UP non sono:
«1. Le UP non sono semplicemente l’unione di molte parrocchie sotto la gui-
da di un solo sacerdote [...] (che) diventerebbe un pluriparroco [...]».

«2. Le UP non nascono neppure dalla soppressione delle piccole parrocchie


che vengono rimpiazzate da una super-parrocchia nella quale siano centra-
lizzate tutte le attività».

Ciò che le UP sono:


«3. Possiamo così definire le UP: una pluralità di comunità parrocchiali che
camminano pastoralmente insieme in modo unitario sotto la guida – al limi-
te – di un solo sacerdote» 7.

Come si può notare le due negazioni (ciò che le UP non sono)


sottendono una duplice preoccupazione pastorale: da una parte non
si vuole obbedire alla sola logica della conservazione a oltranza del-

6
Cf S. POLETTO, Chiamati per stare insieme. Lettera pastorale ai Sacerdoti, Diaconi, Religiose, Religiosi
e Fedeli laici per la presentazione delle Unità Pastorali e l’indizione della visita pastorale, Asti 1992.
7
Ibid., pp. 13-14.
142 Agostino Montan

l’esistente, chiedendo all’eventuale pluriparroco una attività tanto as-


sillante quanto sterile (dovrebbe correre da una parrocchia all’altra),
dall’altra non si intende nemmeno scardinare le comunità esistenti fi-
no a disperderle in una realtà più grande, anonima e non autentica.
La definizione (ciò che le UP sono) lascia intendere che le UP debbo-
no nascere dalla responsabilizzazione delle comunità parrocchiali
esistenti e dalla loro collaborazione. Analizzando i singoli elementi
della definizione, monsignor Poletto precisa che le comunità parroc-
chiali che vengono costituite in UP «rimangono tali nella loro perso-
nalità giuridica», ma – aggiunge – la pastorale del gruppo di parroc-
chie «deve essere gestita insieme, cioè con ritmi coordinati di vita, di
iniziative e di strutture pastorali». Tutto ciò esige la responsabilizza-
zione dei laici e la pastorale d’insieme 8.
Monsignor Poletto indica gli organismi che debbono essere
presenti sia nelle singole parrocchie che compongono le UP, sia nel-
le UP in quanto tali. In ciascuna parrocchia – scrive – debbono esse-
re attivati i consigli pastorale e per gli affari economici, il gruppo ani-
matori e collaboratori, e un responsabile di comunità; invece, nelle
UP in quanto tali «saranno progressivamente attivati gli stessi consi-
gli di Unità e, possibilmente, il servizio di uno o più diaconi perma-
nenti e un centro pastorale unitario sufficientemente attrezzato». Se-
condo il vescovo di Asti, l’UP è, dunque, una realtà che deve pro-
gressivamente raggiungere una sua forma e una sua organizzazione.

– Un secondo testo che presenta le UP come collaborazione pa-


storale tra parrocchie vicine è l’omelia del cardinal Carlo Maria Mar-
tini, arcivescovo di Milano, tenuta nella messa crismale del giovedì
santo, 31 marzo 1994. È un testo noto e molto citato. Ecco il passag-
gio che interessa:
«Chiamiamo unità pastorale una collaborazione pastorale organica tra par-
rocchie vicine, collaborazione promossa, configurata e riconosciuta istituzio-
nalmente» 9.

La definizione pone l’accento su tre elementi: 1) la collaborazio-


ne pastorale tra parrocchie vicine; 2) l’aspetto organico della collabo-

8
Ibid., pp. 14-15.
9
Cf C.M. MARTINI, Le unità pastorali. Omelia del Cardinale Arcivescovo nella Messa crismale del gio-
vedì santo, Centro Ambrosiano, Milano 1994, p. 22.
Unità pastorali: contributo per una definizione 143

razione pastorale; 3) il riconoscimento istituzionale. Mancano riferi-


menti espliciti al territorio e alla guida dell’UP.
Anche per il cardinal Martini, come già per monsignor Poletto,
la ragione più profonda dell’attualità del tema delle UP
«è la riscoperta di una responsabilità collettiva per la cura pastorale, che
spinge a una pastorale di insieme o pastorale organica, da attuarsi mediante
una ordinata collaborazione di presbiteri e di laici per un determinato terri-
torio» 10.

Vengono individuate ulteriori ragioni. La prima a essere segna-


lata è la mutata proporzione del rapporto numerico tra i presbiteri e
il popolo cristiano affidato alla loro cura pastorale. Poi il Cardinale di
Milano così prosegue:
«La presenza, un tempo, di numerosi sacerdoti nelle zone di antica cristianità
e il fatto che in molti luoghi essi erano le persone culturalmente più prepara-
te, quasi le sole in grado di assumersi responsabilità pastorali, e insieme la
stretta connessione ufficio-beneficio che legava il presbitero a una determina-
ta comunità, hanno fatto sì che sul parroco si concentrasse praticamente la
maggior parte dei compiti di animazione e servizio di una parrocchia. La gen-
te si era facilmente, e forse un po’ pigramente, adattata a tale situazione.
Certamente il Concilio Vaticano II, con la sua rinnovata insistenza sulla re-
sponsabilità collegiale e sul presbiterio come sui carismi battesimali di ogni
cristiano, avrebbe dovuto essere sufficiente a modificare la situazione. Di
fatto, nella storia sono spesso le necessità concrete che spingono a ripensare
determinate realtà istituzionali; in molti paesi dell’Europa contemporanea è
proprio la carenza del clero che spinge a rinnovare la riflessione sull’utilizzo
dei sacerdoti nelle parrocchie e sulla collaborazione tra presbiteri e laici nel-
l’ambito di una o più parrocchie» 11.

L’analisi è puntuale. Per il cardinal Martini stanno giungendo a


maturazione, sotto la spinta di necessità concrete, quei nuovi aspetti
nella concezione della Chiesa che erano stati delineati dal concilio
Vaticano II. Si sta passando da una concezione di parrocchia intesa
come realtà a sé stante, incentrata prevalentemente sull’elemento
gerarchico (il parroco), a una visione di parrocchia intesa come co-
munione organica di cristiani tutti attivi e responsabili, aperti alla
collaborazione. Il mutamento richiede la ridefinizione sia dei servizi
pastorali nella comunità, sia delle articolazioni territoriali della dio-

10
Ibid., p. 23; S. POLETTO, Chiamati per stare insieme, cit., pp. 11-12.
11
C.M. MARTINI, Le unità pastorali, cit., pp. 23-24.
144 Agostino Montan

cesi. Questa pianificazione pastorale è uno dei compiti più importan-


ti dell’ufficio episcopale.

– La cost. 156 § 1 del Sinodo 47° della diocesi di Milano dà una


definizione di UP, riprendendola dall’omelia del cardinal Martini rife-
rita sopra. È una definizione che non presenta novità di rilievo rispet-
to al testo dell’omelia. Riporto il passaggio che interessa:
«Si può definire unità pastorale una forma di collaborazione pastorale orga-
nica tra parrocchie vicine promossa, configurata e riconosciuta istituzional-
mente» 12.

La definizione è piuttosto generica e aperta. Il testo continua se-


gnalando come la collaborazione organica tra parrocchie sia espres-
sione della pastorale d’insieme e soddisfi le nuove esigenze della vita
ecclesiale. La collaborazione, precisa la costituzione, deve essere
«stabilmente determinata», quindi non occasionale, né limitata nel
tempo, ma a tempo indefinito, anche se può cessare. Vengono poi in-
dicate le principali tipologie di UP proposte per la diocesi di Milano.

– Delle UP si è occupato anche il Sinodo della Diocesi di Vicen-


za. Nel documento conclusivo l’UP è definita in questi termini:
«Una piccola zona della diocesi nella quale si iscrivono più parrocchie aggre-
gate tra loro pastoralmente e servite da alcuni presbiteri, che facciano possi-
bilmente vita comune e siano gradualmente corresponsabili delle parroc-
chie costituenti l’UP» 13.

Gli elementi che, secondo questa definizione, dovrebbero costi-


tuire l’UP sono:
a) una pluralità di parrocchie tra loro aggregate (nel contesto
dell’UP, le parrocchie non vengono soppresse e non perdono, quindi,
la loro identità giuridica);
b) la collaborazione pastorale;
c) la conduzione corresponsabile dell’UP da parte di un gruppo
di preti, che possibilmente pratichino la vita comune.
Va rilevato che l’UP è qui pensata con immediato riferimento ai
problemi delle piccole parrocchie e sembra impostata più dal punto

12
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., p. 207.
13
DIOCESI DI VICENZA, 25° Sinodo Diocesano, cit., n. 50.
Unità pastorali: contributo per una definizione 145

di vista dei presbiteri, che della vitalità pastorale delle diverse comu-
nità e delle esigenze del territorio.
Nella diocesi di Vicenza il concetto di UP, dopo il Sinodo, è stato
ripensato in termini più ampi, in rapporto ad altre realtà suscettibili di
articolarsi in UP, anzi in riferimento a tutte le parrocchie della dioce-
si. Del nuovo indirizzo parla il vescovo della diocesi, monsignor Pie-
tro Nonis, nel documento La costituzione delle UP (21 novembre
1992), opuscolo nel quale vengono dati orientamenti e fornite propo-
ste operative sulle UP. Il progetto di costituire in tutta la diocesi le UP,
scrive monsignor Nonis,
«non potrà essere imposto dall’alto, con una normativa di carattere generale,
ma dovrà essere il frutto di un cammino di conversione alla comunione e al-
la corresponsabilità, e troverà concreta applicazione là dove si creeranno
progressivamente le condizioni necessarie. Questo significa che tutte le par-
rocchie sono fermamente impegnate fin da ora ad avviare il cammino necessa-
rio, cercando momenti e forme di condivisione di vita e di missione con le al-
tre comunità con le quali potranno un giorno stabilire un legame più artico-
lato e continuativo» 14.

Nella diocesi di Vicenza è ritenuto prioritario «il cammino di


conversione alla comunione e alla corresponsabilità». Da questo hu-
mus sorgeranno le UP. Scrive ancora monsignor Nonis:
«L’UP non va considerata puramente come una struttura di supporto o di
supplenza ai limiti delle parrocchie, che resterebbero comunque gli unici
soggetti dell’azione pastorale. L’UP va invece pensata come esperienza e luo-
go di comunione e di corresponsabilità fra soggetti comunitari diversi (le
parrocchie), i quali, con l’originalità propria, concorrono a vivere e a costrui-
re insieme il servizio al Regno di Dio» 15.

Per la diocesi di Vicenza, le UP sono, in questo momento stori-


co, un modo diverso di fare pastorale fra soggetti comunitari diver-
si (le parrocchie), nella direzione della comunione e del servizio.
La diocesi è anche impegnata a ridefinire le vocazioni pastorali laica-
li, il ministero pastorale e la collaborazione di tutti i membri nella co-
munità.

14
ID., La costituzione delle Unità Pastorali. Orientamenti e proposte operative, Vicenza 1992, pp. 3-4.
15
Ibid., p. 27, n. 22. Il processo di ripensamento della pastorale nella città di Vicenza è già approdato al-
la costituzione di un “Gruppo di coordinamento per la pastorale della città” incaricato di programmare
una concreta pastorale unitaria per le comunità cristiane del Comune di Vicenza, con l’obiettivo di co-
stituire le UP: cf P. NONIS, Lettera del Vescovo - Gruppo di coordinamento per la pastorale della città in
Vicenza (18 ottobre 1993), in Rivista della diocesi di Vicenza (1993) 1298-1303 (indicazioni per la costi-
tuzione del gruppo).
146 Agostino Montan

– Merita di essere segnalata la descrizione di UP contenuta nel


Documento sulle unità pastorali approvato dal Consiglio presbiterale
della diocesi di Novara in data 18 gennaio 1993. Il testo vuole rispon-
dere a una precisa domanda: Che cosa sono le UP? Ecco la risposta:
«Si tratta di un territorio omogeneo all’interno di un Vicariato territoriale, in
cui le diverse parrocchie vengono collegate tra loro sul piano pastorale per
essere messe in grado di assolvere al compito dell’evangelizzazione in quel
territorio, attraverso un coordinamento formalizzato di persone, risorse, ini-
ziative e programmi» 16.

Sono elementi caratterizzanti l’UP:


a) un’area territoriale omogenea;
b) una pluralità di parrocchie tra loro pastoralmente collegate;
c) un gruppo pastorale con responsabilità di coordinamento e
di guida.
L’UP è pensata all’interno del vicariato foraneo ed è delimitata
territorialmente. È intesa come un tramite tra la singola parrocchia e
lo stesso vicariato. È nell’UP che va promossa la collaborazione tra
tutti i fedeli (laici, presbiteri, diaconi, consacrati). Il documento ci tie-
ne a precisare che «il retroterra teologico-pastorale delle UP è e deve
essere l’orizzonte della pastorale di comunione e di missione» 17.
– Per monsignor Sergio Goretti, vescovo di Assisi - Nocera Um-
bra - Gualdo Tadino, l’UP assume la fisionomia di una comunità di
parrocchie omogenee tra loro, nella quale operano insieme i laici, i
presbiteri, i religiosi e le religiose 18. Anche in questa descrizione di
UP, acquista fondamentale importanza l’area territoriale.
Scrive monsignor Goretti:
«L’unità pastorale è l’insieme di più parrocchie gravitanti intorno a una par-
rocchia più grande o che fa da punto di riferimento.

16
DIOCESI DI NOVARA - CONSIGLIO PRESBITERALE, Documento sulle unità pastorali, in Rivista della Diocesi
di Novara 2 (1993) 92.
17
Sull’esperienza novarese cf N. ALLEGRA, Parrocchie unite in Novara centro, in Unità pastorali. Verso
un nuovo modello di parrocchia?, Edizioni Dehoniane, Roma 1994, pp. 117-127. Anche nella Diocesi di
Concordia-Pordenone, l’UP è pensata entro i confini della forania: cf la lettera pastorale del vescovo dio-
cesano Sennen Corrà, in Le unità pastorali: un rinnovato impegno di responsabilità comune, in Quader-
no pastorale n. 1, estratto da Rassegna diocesana di Concordia-Pordenone 3 (1992) 4-5. Il Sinodo della
Diocesi di Trento considera il decanato come «la parrocchia del futuro» (o «del domani») con lo scopo
di suscitare la collaborazione tra le parrocchie per una cura pastorale più efficace: cf DIOCESI DI
TRENTO, La famiglia di Dio sulle strade dell’uomo. Costituzioni sinodali, Edizioni diocesane - Sezione pa-
storale n. 14, Trento 1986, costt. nn. 57-58, pp. 51-52 .
18
Cf S. GORETTI (Vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino), Per una pastorale d’insieme. Le
unità pastorali (11 agosto 1992), Assisi 1992.
Unità pastorali: contributo per una definizione 147

Le parrocchie restano immutate nell’attuale strutturazione canonica e civile:


non sono abolite, ma vengono pastoralmente aggregate, in modo che tra lo-
ro si avvii un graduale cammino comune, si attui una pastorale d’insieme e si
promuova in modo unitario e organico la corresponsabilità dei laici. I sacer-
doti che operano nell’ambito della stessa unità pastorale – oggi più di uno,
ma domani potrebbero anche ridursi a uno solo – dovranno agire collegial-
mente e sentirsi corresponsabili della cura dell’intera unità. Nel caso che in
una unità ci siano più sacerdoti, uno di loro, designato dal Vescovo assume il
ruolo di moderatore. I sacerdoti vengono affiancati da religiosi e da laici, ai
quali verranno affidati tutti quei compiti che possono essere loro dati» 19.

Ogni UP così intesa (la diocesi è stata suddivisa in diciotto UP),


dopo aver considerato attentamente il proprio territorio, è tenuta a
studiare un adeguato piano pastorale in armonia con quello diocesa-
no. Tra gli obiettivi principali vi deve essere quello di formare laici
corresponsabili nella vita della Chiesa, per poterli inserire in numero
maggiore nei consigli, negli uffici e nelle commissioni diocesane.

– I parametri che definiscono una UP sono evidenziati da Giu-


seppe Capraro in uno studio che traccia l’itinerario culturale del no-
stro tema e i nodi problematici che lo caratterizzano 20.
Scrive il noto ricercatore:
«Per UP si intendono aree territoriali omogenee, in cui sono inserite due o
più comunità cristiane impegnate in modo organico nella loro missione e-
vangelizzatrice».

Più avanti, nella parte conclusiva dell’articolo, aggiunge:


«È indispensabile affidare le UP a delle équipe pastorali, in cui convergono
competenze plurime» 21.

Secondo questa definizione sono elementi costitutivi dell’UP:


a) un’area territoriale omogenea;
b) più comunità cristiane in collaborazione pastorale organica
tra loro;
c) la presenza di una équipe con competenze e ministerialità
plurime.

19
Ibid, pp. 13-14.
20
G. CAPRARO, “Unità pastorali” tra sociologia e teologia, cit., pp. 629.636.
21
L. cit.
148 Agostino Montan

Questo concetto di UP non riguarda solo le piccole parrocchie,


ma tutte le parrocchie che si iscrivono in spazi territoriali omogenei,
quindi anche quelle urbane.
Secondo Giuseppe Capraro il riferimento al territorio acquista
oggi un’importante funzione pastorale, perché diventa l’ambito dell’a-
scolto e della ricerca, dell’incontro e del dialogo aperto, della perce-
zione e della risposta alle vecchie e nuove povertà. Oltre che spazio
geografico, il territorio è un habitat umano, carico di storia e di sim-
bolismo. L’UP, guidata da una équipe, dovrebbe dare organicità e di-
namicità alle varie comunità cristiane presenti in una zona omogenea.
– Prima di concludere questo punto ritengo opportuno segnala-
re che la collaborazione pastorale tra parrocchie di un territorio
omogeneo è sottolineata anche in quei testi nei quali non si ricorre
alla formula e al concetto di UP, ma si continua a fare riferimento alle
articolazioni territoriali tradizionali della diocesi, quali il vicariato o
decanato e la zona pastorale, o a forme organizzative simili.
Così, per esempio, negli Orientamenti pastorali dell’arcidiocesi
di Pisa (anno pastorale 1992-93) 22, una volta affermato che «la scelta
pastorale prioritaria è quella di fare comunità», subito si aggiunge
che il luogo privilegiato per realizzare tale scelta è la «struttura vica-
riale», vista come anello di congiunzione tra la dimensione diocesana
e la comunità parrocchiale. La parrocchia è sollecitata a creare rap-
porti di collaborazione e di integrazione con le parrocchie vicine, tali
da consentire a ogni parrocchia di rispondere alle urgenze missiona-
rie che incalzano. È detto anche che appare ineludibile promuovere
e organizzare iniziative specifiche del vicariato in quanto tale, nei
settori pastorali che superano l’ambito parrocchiale e che possono
trovare in quello vicariale una più efficace attenzione pastorale (per
esempio preparazione dei fidanzati, pastorale familiare, formazione
degli operatori pastorali, pastorale giovanile, dialogo e interazione
con le istituzioni civili e pubbliche ecc.). Nel Consiglio pastorale di
vicariato viene individuato l’organo permanente per realizzare una
Chiesa viva radicata nel territorio.
Nell’arcidiocesi di Palermo il decentramento della diocesi è at-
tuato in rapporto al decentramento civile 23. Unità di base territoriale

22
Cf ARCIDIOCESI DI PISA, Anno pastorale 1992-1993. Orientamenti pastorali, nn. 7, 8, 12, 13, 14 (docu-
mentazione: S. GANDOLA, Cammino di avvio nelle diocesi, cit.).
23
Cf ARCIDIOCESI DI PALERMO, Decreto. Revisione delle norme circa le zone pastorali e i vicari episcopa-
li territoriali, 8 settembre 1987, in Rivista della Chiesa Palermitana, “Speciale” Il Vicariato (1987) 1-20.
Unità pastorali: contributo per una definizione 149

è la parrocchia, considerata la struttura portante di ogni azione pa-


storale. Come espressione interparrocchiale viene assunto, nella
città, il quartiere, luogo privilegiato di attuazione delle singole par-
rocchie. A questo livello si ha il Consiglio interparrocchiale di quar-
tiere, con il compito di affrontare i problemi comuni di evangelizza-
zione e di inserimento dei cristiani nella vita del quartiere e delle isti-
tuzioni civili locali. Per i comuni fuori la città di Palermo il lavoro
interparrocchiale investe le parrocchie dei centri più grossi e le par-
rocchie dei centri limitrofi. La diocesi, poi, è divisa in sei vicariati ter-
ritoriali cui è preposto un vicario episcopale a tempo pieno che rap-
presenta l’Arcivescovo. Lo stile pastorale del vicariato deve essere
«improntato a costante verifica, saggio coordinamento, sempre più
stretta comunione». Compiti e finalità del vicario episcopale sono at-
tentamente definiti e regolati con apposito decreto. Tra i suoi compi-
ti principali figura la promozione di una programmazione pastorale
comune, con iniziative permanenti, condivise da tutti. Per l’arcidioce-
si di Palermo, probabilmente non si può parlare di UP nel senso inte-
so dai documenti citati sopra, ma mi sembra che la pianificazione
adottata non sia nemmeno riducibile al semplice raggruppamento di
parrocchie, imposto e frutto di un processo di centralizzazione. Al
primo posto vi sta la cooperazione, in opposizione alla chiusura e alla
dispersione. E ciò è caratteristico dell’UP.

Tipologie di UP
Le definizioni o descrizioni di UP sino a qui esaminate sono al-
quanto generiche e aperte. Si rende necessario individuare figure o
modelli possibili di UP, così da mostrare nel concreto che cosa può
comportare la collaborazione organica tra parrocchie vicine. La do-
cumentazione studiata presenta delle tipologie piuttosto diversifica-
te, con qualche contradditorietà. Ciò dice che si è ancora in una fase
di sperimentazione e di ricerca, e che il coordinamento di più par-
rocchie in unità meglio funzionali non è privo di problematicità.

– Nella lettera pastorale Chiamati per stare insieme (diocesi di


Asti: cf sopra), il progetto delle UP si concretizza in una ri-organizza-
zione delle parrocchie della diocesi in base ad alcuni criteri così for-

Cf anche Lettera dell’Em.mo Arcivescovo al Presbiterio Diocesano (28 settembre 1991), in Rivista della
Chiesa Palermitana 4 (1991) 198-201.
150 Agostino Montan

mulati: criterio dell’«omogeneità», criterio della «maggiore ricchezza


di stimoli o di potenzialità», criterio della «tendenza prevalente» per
le comunità in più rapido cambiamento (pp. 22-23). Sulla base di
questi criteri nella diocesi di Asti sono state istituite ventitré UP, per
ognuna delle quali è stato nominato un “Moderatore”, responsabile
di tutto il cammino di formazione della nuova struttura pastorale.
I criteri pastorali elencati fanno sì che le UP della diocesi di Asti
presentino delle caratteristiche comuni: su di un’area territoriale o-
mogenea è istituita un’UP comprendente più comunità parrocchiali
che insieme collaborano nella stessa missione evangelizzatrice. I
parroci, a volte responsabili di due o più parrocchie, elaborano sotto
la guida del Moderatore, un progetto pastorale comune, favorendo
lo scambio di servizi pastorali. Tutto ciò avviene coinvolgendo le co-
munità cristiane con i loro diversi doni, servizi e uffici. Per ciascuno
dei settori portanti della vita della Chiesa – annuncio della Parola, li-
turgia, carità, famiglie e giovani – vengono preparati degli animatori
ai quali sono affidati incarichi specifici.
L’UP così intesa richiede una collaborazione nell’azione pastora-
le tra presbiteri, diaconi, laici e consacrati, che esige una nuova men-
talità.
– Una tipologia alquanto diversificata, ancora provvisoria e a-
perta di UP, viene suggerita dal Sinodo 47° della diocesi di Milano
nella cost. 156 § 2. Ecco il testo:
«Le tipologie delle UP sono molto diversificate. Tra queste, le principali sem-
brano essere:
a) la cura pastorale di più parrocchie affidate in solido a più sacerdoti, ai sen-
si del can. 517 § 1;
b) la cura pastorale di due, o più, parrocchie con scarso numero di fedeli, af-
fidata a un solo parroco anche con la collaborazione diretta, ad esempio, di
un diacono, di una singola persona consacrata o di una comunità di consa-
crati, di un singolo laico o di un gruppo di laici con una presenza articolata
sul territorio;
c) la collaborazione tra più parrocchie dello stesso comune o della stessa
città, diversa da Milano, nella forma della ‘unità cittadina’;
d) l’esercizio di un’attività pastorale (ad esempio pastorale giovanile e orato-
riana, pastorale familiare) in più parrocchie vicine da parte di un unico pre-
sbitero;
e) il coordinamento di una o più attività pastorali in più parrocchie vicine da
parte di un presbitero, preferibilmente uno dei parroci»24.

24
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., p. 208.
Unità pastorali: contributo per una definizione 151

Non solo la tipologia di cui alla lettera a), ma anche le tipologie


di UP di cui alle lettere b), d), e) mi sembrano riconducibili alle solu-
zioni prospettate dal CIC vigente, ai cann. 526 § 1, 545 § 2.
L’unità cittadina (lettera c) è così descritta:
«È una forma di UP che riguarda la collaborazione tra più parrocchie di uno
stesso comune di una certa consistenza, o di una stessa città diversa da Mi-
lano. La necessità o, almeno, l’opportunità di costituire una unità cittadina, si
giustifica sul presupposto che il comune o la città si configuri effettivamente
come una realtà omogenea e interconnessa a livello sociale, culturale, eco-
nomico, oltre che civile, e che, pertanto, esige una cura pastorale altrettanto
omogenea e coordinata» (cost. 159 § 1).

Si tratta di modelli non ancora compiutamente definiti, applicati


con flessibilità a seconda delle situazioni locali.

– Nel documento La costituzione delle UP della diocesi di Vicen-


za (cf sopra) vengono individuati due tipi di articolazione comunita-
ria che fanno riferimento al concetto di UP.
Il primo prende in considerazione le piccole parrocchie, che
vengono aggregate pastoralmente e servite da alcuni presbiteri che
conducono vita comune.
Il secondo viene così descritto:
«Il secondo (tipo di articolazione comunitaria) si riferisce al coordinamento
pastorale, stabile e organico, che si può attuare fra un centro popoloso e le
parrocchie circostanti, o tra parrocchie urbane confinanti. In questo caso si
dovrà giungere progressivamente a una programmazione pastorale comune,
con momenti e iniziative stabilmente condivisi, anche se potrà restare il par-
roco residente in ogni parrocchia e non si procederà di norma alla scelta
della vita comune fra preti, che rimane comunque un obiettivo auspicabile»
(n. 4).

Le due tipologie descritte, si configurano come modelli più spe-


rimentali che compiuti, non ancora sufficientemente strutturati. La
questione della vita comune fra preti, risolta in modo diverso per le
due articolazioni, lascia intendere che vi è soggiacente un comples-
so e delicato problema riguardante il clero. Assumere una visione
d’insieme della pastorale e operare con differenti soggetti, richiede,
per i preti, una formazione nuova e un modo diverso di intendere il
ministero presbiterale.
È da segnalare che la soluzione di affidare due parrocchie a un
unico presbitero, nel documento in esame non è vista con favore.
152 Agostino Montan

Qualora questa soluzione si rendesse necessaria, allora, stabilisce il


testo,
«è importante che ognuna delle due parrocchie superi la tendenza a vivere
autonomamente ogni esperienza pastorale e si giunga progressivamente a
una programmazione pastorale comune, mettendo insieme forze e iniziative,
in spirito di vera comunione» (n. 4).

– Il Documento sulle UP della diocesi di Novara (cf sopra), at-


tento a non imporre modelli prestabiliti di UP ma a lasciare che que-
sti abbiano a emergere dalle diverse situazioni ed esperienze, propo-
ne una descrizione articolata di tipologie di UP.
In primo luogo viene detto, in negativo, che non possono essere
configurate come UP né l’accorpamento di una o più parrocchie con
un’altra parrocchia attuato in base a un ragionevole progetto di ri-
strutturazione, né l’affidamento di più parrocchie a un solo parroco.
Il solo accorpamento o il solo affidamento, sottolinea il testo, non
fanno nascere necessariamente l’UP.
In secondo luogo vengono ipotizzate tre tipologie fondamentali
di UP:
a) l’UP di una città o di un grosso borgo in cui siano presenti più
parrocchie:
«Si tratta di individuare quanto la parrocchia centrale (solitamente la più
grande) possa fare da catalizzatore anche per quelle periferiche con proble-
mi abbastanza diversi ma convergenti sul centro»;

b) l’UP di una area raccolta attorno a un centro più grande e co-


stituita da parrocchie vicine più o meno convergenti;
c) l’UP di un territorio costituito di parrocchie simili (senza un
vero e proprio perno centralizzante) 25.
Per le sei parrocchie della città di Novara l’UP è stata realizzata
ricorrendo al can. 517 § 1 del CIC vigente: affidamento in solido del-
le parrocchie a più sacerdoti. Il presbiterio agisce in solido, i consigli
pastorale e per gli affari economici sono unici per le sei parrocchie
(salvaguardando, per taluni aspetti, la cassa parrocchiale di ogni par-
rocchia), vi è un’unica segreteria centrale. Risultano unificate anche
l’Azione Cattolica e i Gruppi di volontariato vincenziano 26. È questo

25
DIOCESI DI NOVARA - CONSIGLIO PRESBITERALE, Documento sulle unità pastorali, cit., p. 93.
26
Cf N. ALLEGRA, Parrocchie unite in Novara centro, cit., pp. 117-127.
Unità pastorali: contributo per una definizione 153

un caso in cui parrocchie vive e salde al loro interno sono riuscite a


progettare ambiti di pastorale d’insieme. È il cammino auspicato per
le parrocchie chiamate a configurarsi in UP: aprirsi a un modo diver-
so di vivere nella Chiesa.

– Nella diocesi di Concordia-Pordenone le varie UP sono così


classificate:
«a) Alcune piccole parrocchie: qualcuna senza parroco residente.
b) Alcune parrocchie: tutte dotate di parroco residente.
c) Una grande parrocchia con alcune parrocchie “satelliti” con o senza par-
roco residente.
d) Centri urbani con più parrocchie più o meno popolose.
Il numero di parrocchie riunite in una UP potrebbe variare da un minimo di
tre a un massimo di otto» 27.

Nella diocesi di Concordia-Pordenone la ristrutturazione delle


parrocchie sulla base delle UP è estesa a tutta la diocesi. Ogni UP è
affidata a un sacerdote moderatore, il cui compito è promuovere la
comunione e la collaborazione non solo dei ministeri sacerdotali, ma
anche di quelli laicali.

– Anche monsignor Valentino Grolla nel suo volume sulle UP 28


configura tipologie diverse di UP. Il noto pastoralista dà grande im-
portanza al territorio, alla collaborazione tra parrocchie vicine, alla
partecipazione di tutti i fedeli presenti nell’area, sotto la guida di una
équipe pastorale. A partire dall’omogeneità territoriale, monsignor
Grolla configura diversi tipi di UP.
Afferma che il tipo di UP più frequente e quasi normale è quel-
lo che interessa un gruppo di piccole parrocchie contigue, in un’area
territoriale omogenea, affidato alla cura pastorale di uno o più pre-
sbiteri coadiuvati da una comunità religiosa, se presente, e da laici
responsabili, con il compito di provvedere a tutto il territorio.
Altro tipo di UP, afferma ancora monsignor Grolla, è quello che
si può formare attorno a una parrocchia più consistente per la con-
vergenza che hanno su di essa altre parrocchie, medie e piccole.
Tutte le parrocchie dovrebbero lasciarsi coinvolgere in una pastora-
le unitaria, programmata insieme e con apporti diversi.

27
Le unità pastorali, cit. (cf n. 17), p. 5.
28
V. GROLLA, Unità pastorali nel rinnovamento della pastorale parrocchiale, cit., pp. 55-59.
154 Agostino Montan

Secondo monsignor Grolla dovrebbero essere interessate a una


ipotesi di UP le parrocchie di centri urbani e di città, dove i confini
geografici della parrocchia hanno una incidenza relativa, l’area so-
cio-culturale è sostanzialmente omogenea, la frammentazione pasto-
rale piuttosto accentuata. Ma proprio nei centri urbani, constata
monsignor Grolla, per cause molteplici il cammino dell’UP risulta
più difficile e domanda scelte coraggiose.
Un altro tipo di UP potrebbe realizzarsi in quelle aree omoge-
nee da un punto di vista geografico e socio-culturale nelle quali sono
presenti parrocchie appartenenti a diocesi diverse. Anche in questi
contesti, osserva sempre monsignor Grolla, l’azione pastorale è chia-
mata ad adeguarsi maggiormente ai destinatari e al territorio in cui
le parrocchie si iscrivono.

Concludendo questa parte della ricerca, volta a studiare le di-


verse tipologie di UP prospettate dai testi presi in esame, è possibile
trarre qualche utile indicazione.
Il concetto iniziale che definiva le UP come forma di collabora-
zione pastorale tra parrocchie vicine, appare ora più concreto e in ta-
luni casi nella sua operatività.
L’obiettivo dell’UP è che abbia a realizzarsi, in un ambito terri-
toriale omogeneo, tra tutte le comunità cristiane in esso presenti, in
particolare tra le parrocchie, una pastorale organica progettata e at-
tuata in modo che corrisponda alla natura della Chiesa, che è quella
di essere e manifestarsi come comunione.
Questo obiettivo deve informare le scelte organizzative, in par-
ticolare:
– la delimitazione delle aree territoriali, che debbono essere
omogenee e tenere in alta considerazione l’habitat umano;
– la collaborazione tra le comunità cristiane, in primo luogo tra
le parrocchie comprese in tali aree, così da realizzare la pastorale
d’insieme;
– l’organizzazione dei servizi pastorali propri delle comunità
presenti in quel determinato luogo.
L’UP dovrebbe realizzarsi come un soggetto unitario di azione
pastorale, nell’unità e molteplicità dei carismi, dei servizi e degli uffici.
Unità pastorali: contributo per una definizione 155

Che cosa sono le UP?


In questo secondo momento della ricerca è mia intenzione ten-
tare una reductio ad unum delle molteplici descrizioni di UP raccolte
nei testi esaminati. Essendo la riflessione e le stesse tipologie ancora
piuttosto iniziali, più che offrire una definizione nel senso filosofico
del termine 29, metterò in luce le determinazioni che concorrono a
precisare la nuova forma di riorganizzazione sul territorio delle
strutture parrocchiali e sovraparrocchiali della Chiesa particolare.
Va però prima richiamata, anche se molto sommariamente, l’eccle-
siologia alla quale si fa riferimento quando si parla di UP.

L’originaria ecclesialità delle UP


Alcuni dei documenti pastorali sopracitati (Lettera pastorale di
monsignor Poletto; Omelia del cardinal Martini) e la riflessione teo-
logica più attenta, sottolineano che il progetto delle UP non è riduci-
bile al problema della diminuzione numerica dei presbiteri e alla loro
ridistribuzione sul territorio, così da consentire al popolo cristiano
un minimo di servizio sacramentale. La motivazione profonda va ri-
cercata nella visione di Chiesa offerta dal concilio Vaticano II, il qua-
le ha insegnato che un’autentica vita di Chiesa è garantita dalla par-
tecipazione e corresponsabilità di tutti i cristiani, secondo il criterio
che vi è un’unità di missione nella diversità dei ministeri, degli uffici
e delle funzioni 30.
Ciò comporta riscoprire e vivere la “sinodalità”, la vocazione mis-
sionaria della Chiesa, la pastorale d’insieme. Significa unire le energie,
risvegliare le forze vive, imparare a lavorare insieme rispettando e pro-
muovendo la corresponsabilità di tutti e singoli i fedeli. Significa rico-
noscere e riordinare, con coraggio, i carismi e i ministeri delle comu-
nità cristiane, organizzando in modo diverso il servizio pastorale 31.

29
Non è fuori luogo ricordare l’ammonimento del giurista romano Iavoleno (I sec. d.C.): «Omnis defi-
nitio in iure civili periculosa» (Digesta, l. 17, De diversis regulis iuris antiqui, 202). Anche alla scienza
positiva canonica interessa principalmente stabilire ciò che è di diritto (quid sit iuris), più che ciò che il
diritto è in sé (quid ius?).
30
Scrive monsignor Poletto: «Tocca a ogni cristiano costruire la Chiesa perché sia, in ogni tempo e in
ogni luogo, il segno e lo strumento dell’azione salvifica di Gesù. Ognuno nella sua comunità deve sen-
tirsi membro vivo e operante, disponibile alla chiamata dello Spirito che concede a ciascuno il suo dono
in favore della Chiesa; ognuno deve essere disponibile a svolgere un determinato ruolo attivo (ministe-
ro) accogliendo l’invito dei pastori» (Chiamati per stare insieme, cit., p. 16).
31
Scrive ancora monsignor Poletto: «Ogni comunità, anche piccola, ha diritto a un autentico ed effica-
ce servizio pastorale. Tale servizio è certamente qualificato dallo specifico ministero che solo il sacer-
156 Agostino Montan

È questo un nuovo modo di sentire, che obbliga a ripensare l’or-


ganizzazione parrocchiale, in particolare la sua direzione 32. Richiede
anche che si precisi in modo nitido il ministero proprio del prete, non
riducibile al solo profilo di “prete di una parrocchia”, e che venga ri-
conosciuta la specificità dei ministeri laicali.

L’UP: proposta di definizione


Sulla base delle precedenti definizioni e tipologie, propongo la
seguente definizione:
«L’Unità Pastorale è un insieme di parrocchie o di comunità cristiane di una
area territoriale omogenea, stabilmente costituito per una collaborazione pa-
storale organica, affidato alla cura pastorale di uno o più presbiteri affiancati
da diaconi, fedeli consacrati e laici, sotto l’autorità del Vescovo diocesano».

Tra gli elementi raccolti dalle precedenti definizioni, due sono


fondamentali, in quanto indispensabili per formare qualsiasi comu-
nità ecclesiale: la comunità dei fedeli (o principio comunitario) e il
presbitero (o principio gerarchico). I presbiteri, nell’adempimento
del loro ufficio, debbono essere sempre congiunti, nella comunione,
con il vescovo, con le comunità di fedeli a loro affidate e, ultimamen-
te, con tutta la Chiesa.
Esaminiamo i singoli elementi che compongono la definizione.
a) “L’Unità Pastorale”: l’espressione assume almeno due signifi-
cati. Indica l’aggregazione di parrocchie vicine, ma indica anche, e
soprattutto, la collaborazione pastorale che dette parrocchie intendo-
no realizzare tra loro in quanto comunità di fedeli. Come dice lo stes-
so termine, si tratta di realizzare l’unità nella pastorale, quindi tra i
soggetti dell’azione pastorale, le strutture e le istituzioni delle diver-
se comunità, allo scopo di perseguire cooperativamente i medesimi

dote può svolgere, come la celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti. Ma è pure costituito in
parte notevole da attività che possono essere svolte da laici [...]. Ogni comunità, per essere tale, ha bi-
sogno certamente di un animatore locale, come punto di riferimento e di unità. Ma questo ruolo può
essere assunto anche da un diacono, un religioso, una religiosa, un laico, un catechista, senza che ne-
cessariamente si richieda la presenza di un parroco fisso che risieda sul posto. Occorre dunque la con-
versione a una mentalità ispirata a questa visione di Chiesa la quale, mentre promuove e responsabiliz-
za i laici, esenta il sacerdote da attività che non gli sono proprie» (ibid.).
32
Il problema della direzione della comunità cristiana, non ancora esplicitamente presente nei testi stu-
diati in questo contributo, è posto in modo chiaro in un documento del Segretariato della Conferenza
Episcopale Tedesca: VESCOVI TEDESCHI, Il servizio pastorale nella parrocchia, in Regno - Documenti 41
(1996) 160-167.
Unità pastorali: contributo per una definizione 157

fini. Partendo dalla vocazione comune di tutti i fedeli, si vuole svilup-


pare una concezione di Chiesa che si realizzi come comunione di ca-
rismi, ministeri e uffici, attraverso una pastorale partecipata e corre-
sponsabile.
Unità pastorale, oltre che esprimere l’esigenza di un coordina-
mento e di organizzazione degli interventi, indica anche l’esigenza di
tenere presente il contesto, l’insieme sociale e civile in cui si colloca
l’agire della Chiesa e dei cristiani.

b) «...è un insieme di parrocchie o di comunità cristiane»: i docu-


menti esaminati ribadiscono che le parrocchie coinvolte nell’espe-
rienza di UP, anche se piccole, non vanno soppresse, ma ravvivate e
responsabilizzate. Debbono perciò presentare i tratti propri dell’i-
dentità parrocchiale: vi deve essere una comunità di fedeli che pro-
clama la Parola, che è idonea a celebrare l’Eucaristia, che vive la ca-
rità; vanno costituiti, se ancora non esistessero, e resi operativi i con-
sigli parrocchiali; va garantito un minimo di servizio pastorale.
In assenza del presbitero, viene costituito un responsabile della
comunità (“animatore locale”, “cooperatore”, “responsabile”). Può es-
sere un diacono, una persona consacrata, un membro di una comu-
nità religiosa, oppure un laico. Dev’essere una persona di riconosciu-
ta testimonianza di vita ecclesiale, disponibile al servizio, capace di
animare e organizzare la comunità, di promuovere la cooperazione (i
testi parlano di persona «esperta di comunione»). Perseguíta la for-
mazione richiesta, l’animatore viene introdotto dal vescovo diocesano
o da un suo delegato mediante “mandato” nei suoi compiti di respon-
sabilità.
È importante segnalare che l’insieme di parrocchie (= UP) deve
avere un organismo consultivo comune, che tenga presente e coordi-
ni tutta la pastorale. I testi esaminati non sempre ne parlano. Tale or-
ganismo può essere variamente composto: oltre che i presbiteri e i
diaconi, deve comprendere o i membri dei consigli pastorali delle va-
rie parrocchie, oppure le loro presidenze. Al consiglio di UP parteci-
pa di diritto l’animatore della parrocchia senza presbitero residente.
È doveroso che i consigli locali siano informati sulle questioni comu-
ni e ne discutano. Va attentamente regolato anche il consiglio per gli
affari economici 33.

33
Per quanto concerne la legale rappresentanza della parrocchia va fatto riferimento al documento
CEI Istruzione in materia amministrativa, EDB, Bologna 1992, p. 70, n. 84.
158 Agostino Montan

Se non vado errato, solo il libro sinodale della diocesi di Milano


esplicitamente prevede che a un certo punto l’esperienza della co-
munione e del coordinamento pastorale realizzato nell’ambito di una
UP, possa portare alla decisione di «accorpare in un’unica parrocchia
più comunità parrocchiali, superando così la stessa configurazione
dell’UP» 34. L’ipotesi non è inverosimile. Si può prevedere che l’UP, il
decanato o vicariato, e altri organismi sovraparrocchiali possano es-
sere le parrocchie di domani, ma con gli elementi essenziali delle
UP: una rinnovata visione di Chiesa, una riscoperta della dignità e
responsabilità di ciascun fedele nell’edificazione della comunità cri-
stiana, una rivalutazione di tutti i ministeri ecclesiali.

c) «...di un’area territoriale omogenea»: la rinnovata attenzione


al territorio (alquanto marcata nei testi esaminati) è dovuta sia all’im-
portanza a esso attribuita sul piano socioculturale, sia ai mutamenti
che in esso si sono avuti negli ultimi decenni. La teologia, dal canto
suo, sottolinea, tra l’altro, il valore di “cattolicità” del territorio 35.
È sempre più avvertita l’opportunità e talvolta la necessità di ri-
definire le configurazioni territoriali parrocchiali e sovraparrocchiali.
L’organizzazione territoriale della Chiesa, deve essere il più possibi-
le vicina alla gente. A ciò mira l’UP, che vuole mostrare, anche con la
sua configurazione geografica, la relazione della Chiesa di Dio con la
terra degli uomini e come questa sia inserita nel piano di salvezza 36.
I criteri di definizione degli spazi geografici di una UP sono mol-
teplici. Vanno tenuti presenti: la vastità del territorio, la quantità di po-
polazione, la storia delle comunità, l’organizzazione territoriale civile
divenuta policentrica, l’omogeneità della popolazione a livello cultura-
le, socioeconomico e civile, l’esistenza di strutture parrocchiali, la
presenza di figure ministeriali. Sono elementi che, opportunamente
armonizzati, possono consentire di sviluppare un servizio pastorale o-
mogeneo e coordinato.

34
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., cost. 160 § 1, p. 211.
35
Cf S. LANZA, La Chiesa si realizza in un luogo: riflessione teologico-pastorale, in N. CIOLA (a cura di),
La parrocchia in un’ecclesiologia di comunione, EDB, Bologna 1996, pp. 109-158. Sul non elitarismo del-
la parrocchia e su altri elementi relativi alla comunità dei fedeli cf due allocuzioni di GIOVANNI PAOLO II:
1) Ai Vescovi della Lombardia, in occasione della visita “Ad limina Apostolorum”, 18 dicembre 1986, in
L’Osservatore Romano, 19 dicembre 1986; 2) Ai Vescovi Francesi, nella medesima occasione, 30 gennaio
1987, in L’Osservatore Romano, 31 gennaio 1987.
36
Sulla relazione tra l’antico Israele e la terra, tra la Chiesa di Dio e la terra e sulla realizzazione della
chiesa in un luogo, si veda: J.M. TILLARD, L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Les
Éditions du Cerf, Paris 1995, pp. 15-17, 42-56.
Unità pastorali: contributo per una definizione 159

d) «...stabilmente costituito»: alle UP si perviene attraverso fasi


successive. Superato positivamente il periodo di sperimentazione,
l’UP, con ciò che comporta (cf successiva lettera e), viene costituita
“stabilmente”, vale a dire non a tempo determinato, ma indefinito.
Evidentemente potrà essere soppressa. È bene prevedere delle pe-
riodiche verifiche dei provvedimenti adottati. Ciò che va perseguito
è il bene dei fedeli, in un contesto di comunione e di coordinamento
dell’azione pastorale.
L’UP viene costituita mediante decreto del vescovo diocesano. I
testi esaminati mostrano che tale atto è preceduto da una intensa fa-
se di consultazione, sensibilizzazione e approfondimento. Vengono
interpellate le comunità parrocchiali interessate, i consigli parroc-
chiali, le comunità di consacrati presenti nel territorio, le aggrega-
zioni laicali, i presbiteri, ivi compresi il vicario foraneo o decano e i
presbiteri del vicariato o decanato. Una particolare attenzione è ri-
servata alle autorità civili. È chiaro che più larga è la convergenza
sul cammino intrapreso e più la meta sarà facilmente raggiunta. Co-
me avviene per la parrocchia (cf can. 515 § 2), anche per la costitu-
zione dell’UP si procede dopo aver «sentito il Consiglio presbitera-
le». Potrebbe (o dovrebbe?) essere sentito anche il Consiglio pasto-
rale diocesano.
e) «...per una collaborazione pastorale organica»: l’unità nella pa-
storale non è un espediente organizzativo, ma una esigenza della
Chiesa, quale realtà di comunione. La parrocchia non realizza in sé
tutta la Chiesa (cf SC 42), e per diversi aspetti è largamente insuffi-
ciente. Di qui deriva la necessità della collaborazione, definita «orga-
nica». Significa che operano congiuntamente, secondo la condizione
propria di ciascuno, i ministri ordinati e gli altri cristiani.
I punti di convergenza e di azione comune tra le diverse parroc-
chie dell’UP possono essere indicativamente i seguenti:
«I criteri e le iniziative per un’efficace evangelizzazione, i tempi e i modi della
pastorale dei sacramenti, gli orari delle celebrazioni, il progetto di pastorale
giovanile, la formazione degli operatori, gli itinerari per i fidanzati, le iniziati-
ve di volontariato, il rapporto con la società civile» 37.

Si possono aggiungere: lo scambio di conoscenze e di aiuto fra


varie parrocchie, la collaborazione tra chierici, laici e consacrati, la

37
DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°, cit., cost. 159 § 2 , p. 210.
160 Agostino Montan

promozione di attività pastorali a favore di più parrocchie (pastorale


giovanile, pastorale familiare, aggregazioni laicali), il coordinamento
o l’unificazione di servizi (caritas, volontariato) che non riescono ef-
ficaci se troppo frammentati.

f) «...affidato alla cura pastorale di uno o più presbiteri»: come la


diocesi e la parrocchia, anche l’UP è una comunità organica, ossia
costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani (Christifideles lai-
ci, n. 26, 2).
Il presbiterio dell’UP può essere organizzato in vari modi. Il
CIC prevede alcune soluzioni:
1) un gruppo di presbiteri può guidare in solido più parrocchie
(cf can. 517 § 1), affiancato da cooperatori e cooperatrici;
2) a uno stesso parroco può essere affidata la guida di più par-
rocchie vicine (can. 526 § 1); anche in questo caso il parroco è af-
fiancato da cooperatori e cooperatrici;
3) in conformità al can. 517 § 2, un presbitero, con la potestà e
le facoltà di parroco, modera una (o più) comunità parrocchiali, es-
sendo a lui associati un diacono o una persona non insignita del ca-
rattere sacerdotale o una comunità di persone;
4) un vicario parrocchiale è costituito per più parrocchie (cf can.
545 § 2) o per specifici ministeri interparrocchiali 38.
Nei testi esaminati è prevista anche l’ipotesi che al parroco del-
la parrocchia centrale (o ad altro parroco appositamente incaricato)
venga affidato il compito di promuovere l’azione pastorale comune
tra le parrocchie dell’UP, affidate ai singoli parroci.
Nell’affrontare la questione della collaborazione tra i presbiteri
dell’UP, i testi studiati si mostrano molto prudenti. Le soluzioni elen-
cate sopra, vengono applicate con flessibilità, a seconda delle situazio-
ni locali. È costante la preoccupazione che per ogni comunità parroc-
chiale ci sia un responsabile. Si tiene conto delle persone dei presbi-
teri e della loro formazione. C’è la consapevolezza che il presbitero
non può divenire estraneo ai fedeli che è chiamato a servire con «ca-
rità pastorale» (Pastores dabo vobis, n. 23). Nella formazione perma-
nente si insiste sul pensare e sull’operare in termini collegiali, sull’ap-
partenenza al presbiterio e sulla fraternità sacerdotale. Non manca la

38
Per l’approfondimento delle diverse tipologie cf. A. MONTAN, Forme istituzionali di cooperazione tra
parrocchie di un medesimo territorio e “unità pastorali”, in Unità pastorali. Verso un nuovo modello di
parrocchia?, Edizioni Dehoniane, Roma 1994, pp. 57-76.
Unità pastorali: contributo per una definizione 161

proposta della vita comune anche in forme diverse e graduali (pre-


ghiera, programmazione, fraternità, comunità di mensa, casa comune
ecc.). È prevista la nomina, da parte del vescovo, fra i presbiteri di un
moderatore, con il compito di coordinare la vita dell’UP, in fraterna
corresponsabilità con gli altri presbiteri e con quanti svolgono mini-
steri e servizi nell’UP.
g) «...affiancati da diaconi, fedeli consacrati e laici»: la valorizza-
zione convergente dei diversi carismi e ministeri presenti nelle
comunità parrocchiali, è uno dei punti forza delle UP. Il laico non è
considerato come un semplice collaboratore del parroco o dei pre-
sbiteri, ma come un christifidelis che in forza della sua «vocazione-
missione» radicata nei sacramenti dell’iniziazione, è chiamato ad as-
sumere precisi servizi nella comunità cristiana, in comunione con il
ministero ordinato del presbitero e del diacono.
Nei testi esaminati molto sottolineato è l’impegno delle Chiese
a promuovere i ministeri laicali, sia all’interno delle comunità parroc-
chiali senza presbitero residente, sia all’interno delle parrocchie più
consistenti accanto ad altri ministeri. Le forme ministeriali ricorrenti
sono: il servizio dell’animazione comunitaria, il servizio della Parola
e della preghiera, il servizio della carità e dell’animazione missiona-
ria. Non sono previsti servizi a tempo pieno o remunerati. I diaconi
sono menzionati, ma con limitata attenzione al loro ambito di compe-
tenza. Privilegiata è la presenza e l’attività del diacono in parrocchie
senza parroco.
h) «...sotto l’autorità del Vescovo diocesano»: è un requisito ov-
vio. Nella Chiesa particolare il vescovo è il principio visibile e il fon-
damento dell’unità (cf LG 23, 2). La porzione di popolo di Dio che
forma la diocesi è affidata alla sua cura pastorale con la cooperazione
del presbiterio (cf can. 368). I testi esaminati mostrano con tutta
chiarezza che l’attivo coinvolgimento dei vescovi nell’avvio delle UP
è una garanzia per il loro sviluppo.

Conclusione
Il progetto pastorale contenuto nell’espressione UP è esigente e
serio. L’obiettivo non è fare meno pastorale, ma farne di più e in mo-
do più adeguato rispetto a quanto fatto finora, e tutto ciò in un conte-
sto attraversato dai gravi problemi ai quali ho fatto rapido cenno al-
l’inizio.
162 Agostino Montan

Il punto di partenza della nuova impostazione sono le comunità


locali, chiamate a realizzarsi come Chiese di battezzati, edificate con
l’apporto di tutti i membri con i loro carismi e ministeri, in comunio-
ne con le altre comunità. Offrire a livello locale «una più meditata de-
finizione di Chiesa» 39, così come poco più di trent’anni fa ebbe il co-
raggio di fare il concilio Vaticano II per la Chiesa universale, è avver-
tito non come un desiderio, ma come una necessità, anzi un dovere.
Non può restare senza risposta l’appello di Giovanni Paolo II: «che si
rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali» (Christifi-
deles laici, n. 34, 3).
Questo progetto è serio. Ma è anche un progetto esigente. Ri-
chiede un profondo cambiamento di mentalità e di comportamenti
personali e comunitari. I testi studiati mostrano che se il cambiamen-
to di mentalità non si può imporre con un decreto o con una lettera
pastorale, esso non si ottiene nemmeno con i soli interventi sulle
strutture. I due tipi di intervento debbono procedere simultanea-
mente. Il principio di incarnazione li richiede entrambi. Inoltre, non
si ha recezione senza il consenso.
Le UP con la loro nota di ecclesialità originaria, ripropongono
questioni che coinvolgono altri ambiti ecclesiali.
La teologia, che ha saputo ridare alle Chiese particolari tutta la
loro dignità e importanza, è chiamata a fornire il suo appoggio a te-
mi sempre più avvertiti a livello locale, quali: l’ecclesiologia del “po-
polo di Dio”, il primato dell’evangelizzazione, la “sinodalità”, l’iden-
tità del prete e del diacono, la “ministerialità” laicale, la direzione del-
le comunità, il rapporto delle comunità locali con il territorio, la
missionarietà e la “cattolicità” delle Chiese locali.
Anche la riflessione canonistica ha un suo compito da svolgere.
La legislazione universale, per quanto riguarda la pianificazione pa-
storale interna alle diocesi, una volta stabilita la divisione della dioce-
si «in parti distinte o parrocchie» (can. 374 § 1), demanda al diritto
particolare la definizione di ulteriori «peculiari raggruppamenti» so-
vraparrocchiali (ibid., § 2). Mi pare possa qui trovare applicazione il
cosiddetto “principio di sussidiarietà”, fatto proprio, a suo tempo,
dalla Commissione incaricata della revisione del CIC vigente 40. Il

39
Discorso di Paolo VI in apertura del secondo periodo del Concilio (29 settembre 1963), in EV 1,
n. 149*.
40
Torna utile rileggere quel testo: «Si badi opportunamente al principio che deriva dal precedente, e
che si chiama il principio di sussidiarietà, da applicare tanto più nella Chiesa, in quanto l’ufficio dei Ve-
scovi con le potestà annesse è di diritto divino. In forza di questo principio, mentre si mantengono l’unità
Unità pastorali: contributo per una definizione 163

“suggerimento” del Sinodo straordinario dei vescovi del 1985 (for-


mulato a seguito dei dubbi sollevati dal cardinal Hamer il 21 novem-
bre 1985 41), era di verificare «in quale grado e senso» il principio di
sussidiarietà possa essere applicato alla Chiesa. La sussidiarietà pe-
netra profondamente all’interno della Chiesa particolare. Richiede,
per esempio, (sono parole di Pio XII)
«que l’on confie au laïc les tâches, qu’il peut accomplir, aussi bien ou même
mieux que le prêtre, et que, dans les limites de sa fonction ou celles que trace le
bien commun de l’Église, il puisse agir librement et exercer sa responsabilité» 42.

Spetta alla legislazione particolare esplorare le nuove vie di una


normativa che sia espressione della “comunione” e della “sussidia-
rietà”.
Da ultimo, al progetto UP non sembra possa rimanere estranea
la vita consacrata. I testi esaminati sovente fanno riferimento ai con-
sacrati coinvolgendoli più o meno direttamente nella nuova esperien-
za. Come risponderanno le persone consacrate, in particolare gli Isti-
tuti di vita religiosa apostolica e le Società di vita apostolica presenti
e operanti nelle Chiese particolari? Dovrà trovare visibile applicazio-
ne quanto si legge nella recente esortazione postsinodale di Giovan-
ni Paolo II Vita consecrata (25 marzo 1996):
«Da parte loro, le persone di vita consacrata non mancheranno di offrire ge-
nerosamente la loro collaborazione alla Chiesa particolare secondo le pro-
prie forze e nel rispetto del proprio carisma, operando in piena comunione
col Vescovo, nell’ambito dell’evangelizzazione, della catechesi, della vita
delle parrocchie» (n. 49, 1).

AGOSTINO MONTAN
Piazza S. Giovanni in Laterano, 4
00120 Città del Vaticano

legislativa e il diritto universale e generale, si propugnano anche la convenienza e la necessità di provve-


dere all’utilità dei singoli istituti, in modo speciale, attraverso i diritti particolari, e una sana autonomia
della potestà esecutiva particolare a essi riconosciuta. Fondandosi adunque sul medesimo principio, il
nuovo Codice demandi, sia ai diritti particolari, sia alla potestà esecutiva, ciò che non è necessario al-
l’unità della disciplina della Chiesa universale, cosicché si provveda opportunamente al cosiddetto sano
“decentramento”, allontanando il pericolo della disgregazione o della costituzione di Chiese nazionali»
(CIC [25 gennaio1983], Prefazione, Edizioni UECI, Roma 1984, pp. 47-49).
41
Cf Synode extraordinaire, Paris 1986, p. 646 (intervento del cardinal Hamer). Sulla sussidiarietà nella
Chiesa locale, cf J.M. TILLARD, L’Église locale, cit., pp. 361-364.
42
PIO XII, Iis qui interfuerunt Conventui alteri catholicorum ex universo orbe, pro Laicorum Apostolatu,
Romae habito (5 octobris 1957), in AAS 39 (1957) 927. Pio XII, in questo passaggio del celebre discor-
so, richiama esplicitamente il principio di sussidiarietà. Se il contesto del discorso è l’impegno dei laici
nel mondo, a me pare che l’esortazione, riportata sopra e rivolta alla Gerarchia, possa trovare applica-
zione anche nella vita della Chiesa particolare.
164

Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 164-173
Forme
di collaborazione interparrocchiali
secondo il Codice
di Gianni Trevisan

Nel presente articolo si intendono illustrare sinteticamente le


possibilità che sono contenute nel Codice di diritto canonico per una
azione pastorale comune di più parrocchie.

La forma esplicitamente prevista è il vicariato foraneo. Indiretta-


mente ne sono indicate anche altre: un parroco, o un gruppo di sacer-
doti in solido a cui è affidata la cura pastorale di più parrocchie vicine
e il vicario parrocchiale che svolge il suo servizio a più parrocchie.

Il vicariato foraneo

Il vicariato foraneo e la cura pastorale, mediante l’azione comune


Il can. 374 § 2 afferma esplicitamente che
«per favorire la cura pastorale, mediante un’azione comune, più parrocchie
vicine possono essere riunite in particolari raggruppamenti, quali i vicariati
foranei» 1.

È una svolta pastorale sostanziale rispetto al CIC 1917, che consi-


derava il vicariato foraneo una divisione amministrativa della diocesi:
«Il Vescovo divida il territorio della sua diocesi in regioni o distretti, formati
di più parrocchie, che sono i vicariati foranei, i decanati, le Arcipreture,
ecc.» (can. 217).

1
La terminologia usata tradizionalmente è assai varia (arcipretura, decananto, pievania). Per un ap-
profondimento della problematica merita di essere letto il contributo già presentato su questa rivista:
G.P. MONTINI, I Vicari foranei in Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991) 376-389.
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 165

È importante osservare che la terminologia usata dal nuovo Co-


dice definisce il vicariato foraneo come «riunione di più parrocchie
vicine» e non «divisione della diocesi»: la preoccupazione non è quel-
la di «suddividere un territorio vasto», al contrario si tratta di «unire
insieme più parrocchie vicine». Questa esigenza non nasce solamen-
te dalla preoccupazione del vescovo di ben amministrare la diocesi,
ma dalla natura della parrocchia stessa che in quanto luogo dove si
fa esperienza della Chiesa una, santa cattolica e apostolica 2 è per sua
natura aperta alla comunione possibile con le altre esperienze di
Chiesa. Le parrocchie vicine, i cui fedeli sono uniti da vincoli sociolo-
gici sia storici sia geografici, sono luogo privilegiato di collaborazio-
ne, non solo per ragioni di opportunità, ma come espressione e ma-
nifestazione del mistero della Chiesa stessa.

Il vicariato foraneo è una possibile struttura che dovrebbe per-


mettere questa collaborazione fra parrocchie, luogo di comunione e
di scambio di esperienze fra gli operatori pastorali la cui azione è
orientata a una pastorale d’insieme. Vale la pena ricordare che il vica-
riato foraneo è una forma che il Codice indica come esemplificativa
per la collaborazione interparrocchiale; durante l’iter di revisione e-
spressamente si presero in considerazione anche altre forme, per
esempio la Prefettura per la diocesi di Roma 3. Così pure più parroc-
chie possono essere riunite insieme sotto la responsabilità di un vi-
cario episcopale, come è espressamente previsto dal can. 476.

Il decreto conciliare Christus Dominus al n. 30, 1 invita esplicita-


mente i parroci a collaborare fra di loro e con gli altri sacerdoti che
esercitano un ministero pastorale, indicando come uno dei luoghi
privilegiati appunto il vicariato foraneo «affinché la cura pastorale ab-
bia la dovuta unità e sia resa più efficace».
Il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi caratterizza i
vicariati foranei come «circoscrizioni» che
«possono giovare molto alla pastorale organica e sono strumento indispen-
sabile per l’applicazione in diocesi dei principi di sussidiarietà e della giusta
distribuzione dei ministeri» (EI 184).

2
Cf SC 42, 1; LG 26, 1; 28, 2; AG 37, 1. Cf pure F. COCCOPALMERIO, Il concetto di parrocchia nel nuovo
Codice di diritto canonico, in Quaderni di diritto ecclesiale 2 (1989) 127-142.
3
Communicationes 12 (1980) 284.
166 Gianni Trevisan

Hanno come scopo quello di costituire


«una specie di cellula del presbiterio diocesano, attorno al quale venga op-
portunamente coordinato anche l’apostolato specifico dei religiosi, delle reli-
giose e dei laici che operano in quel territorio o in quel determinato incarico
pastorale, così che la comune azione pastorale ne risulti incrementata e or-
ganizzata» (EI 185).

Pertanto nella costituzione dei vicariati foranei il vescovo deve


seguire dei criteri che tengono conto
«dell’omogeneità dell’indole, dei costumi e delle condizioni sociali della popo-
lazione, dell’identità o almeno somiglianza geografica e storica delle parroc-
chie da raggruppare, della comunanza di interessi economici, amministrativi,
culturali, disciplinari, della relativa facilità per i presbiteri della stessa forania
di incontrarsi spesso tra loro insieme al vicario e delle consuetudini già col-
laudate dal tempo» (ibid.).

Il vicariato foraneo acquista la sua configurazione non solo, se-


condo la normativa del Codice precedente, come luogo di vigilanza
del vicario foraneo, ma come forma stabile di collaborazione inter-
parrocchiale, perché i soggetti agenti sono tutti gli operatori pastora-
li del territorio, parroci, sacerdoti, religiosi e laici.
La lunga tradizione dei vicariati foranei li configura come luoghi
storicamente già sperimentati in cui si è riscontrata una certa omo-
geneità sociologica ed ecclesiale, luoghi quindi significativi per un
rapporto di collaborazione fra parrocchie che già da tempo hanno le-
gami fra loro. Non si possono comunque ignorare quelle situazioni
dove per svariate ragioni, i vicariati foranei si presentano con moda-
lità diverse, non omogenei territorialmente oppure composti da una
sola parrocchia o da poche piccole comunità parrocchiali. Il diritto
particolare dovrà pertanto preoccuparsi di adeguare le situazioni,
anche sopprimendo o modificando i vicariati foranei attualmente esi-
stenti, in maniera che soddisfino alle esigenze indicate dalla legisla-
zione, soprattutto possano essere in concreto luogo di collaborazio-
ne possibile fra parrocchie vicine in un territorio omogeneo.

Il vicario foraneo
L’innovazione del Codice che configura il vicariato foraneo come
luogo di collaborazione interparrocchiale appare chiaramente anche
se si confrontano i compiti del vicario foraneo. Secondo il CIC 1917 le
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 167

sue competenze riguardavano solo la vigilanza, la visita delle parroc-


chie (can. 447), l’assistenza ai sacerdoti ammalati e l’organizzazione
dei corsi per l’aggiornamento (can 448), rendendo conto dell’anda-
mento ogni anno all’Ordinario (can. 449).
Il can. 555 § 1, 1° del CIC vigente, invece, pur prevedendo anco-
ra come compiti del vicario foraneo quelli tradizionali, indica tuttavia
come suo primo diritto-dovere «promuovere e coordinare l’attività
pastorale comune nell’ambito del vicariato». Il vicario foraneo quindi
non è solo la longa manus del vescovo verso le parrocchie, ma è
chiamato a farsi carico all’interno del vicariato delle istanze di coope-
razione che emergono dalle parrocchie stesse.

Il vicariato foraneo non costituisce una comunità di fedeli, con a


capo il vicario foraneo, collocata a metà strada fra la parrocchia e la
diocesi; è piuttosto una struttura di collaborazione attraverso la qua-
le «viene perseguito un bene che non è di per sé alla portata di cia-
scuna parrocchia lasciata a se stessa» 4, appunto «la cura pastorale
mediante l’azione comune».
Il vicario foraneo, in forza del suo ufficio, si trova allo stesso li-
vello gerarchico degli altri parroci. Viene nominato dal vescovo, con
particolari mansioni e funzioni che però non gli danno particolare
autorità sugli altri sacerdoti del vicariato.
La tradizione ecclesiale non ha mai considerato che il vicario fo-
raneo sia un superiore degli altri parroci, anche se gli ha riconosciu-
to una certa giurisdizione in ordine alla vigilanza da esercitare. Il
Concilio in Christus Dominus, n. 30, in riferimento al vicariato fora-
neo, individua nella collaborazione e nella cura pastorale unitaria ed
efficace l’impegno di tutti i parroci e dei loro collaboratori. Il Diretto-
rio per il ministero pastorale dei vescovi configura l’ufficio di vicario
foraneo con l’aggettivo «sopraparrocchiale» e attribuisce
«non soltanto l’onere della vigilanza, ma anche quello di una vera sollecitudi-
ne apostolica, come animatore della vita del presbiterio locale e coordinato-
re della pastorale organica a livello foraniale» (n. 187).

Sembra quasi che il legislatore intenda valorizzare gli elementi


“carismatici” di autorevolezza, certamente più efficaci per coordina-

4
A. MONTAN, Forme istituzionali di cooperazione tra parrocchie di un medesimo territorio e “unità pa-
storali”, in AA.VV., Unità pastorali - Verso un modello di parrocchia, Roma 1994, p. 54.
168 Gianni Trevisan

re il lavoro comune, insistendo meno su quelli amministrativi e buro-


cratici. Questo emerge anche nel modo con cui il vescovo normal-
mente procede alla scelta, ovvero dopo aver sentito gli altri sacerdoti
del vicariato (can. 553 § 2), e questo per individuare il sacerdote del
vicariato che ha riconosciute particolari qualità umane e ministeriali
che lo rendono capace di coordinare l’azione comune delle parroc-
chie e che gli conferisce l’autorevolezza per attuare una reale colla-
borazione.
In questo modo non viene sminuita l’importanza degli altri par-
roci, che sono «pastori propri della parrocchia affidata» (can. 519),
chiamati a «partecipare al ministero di Cristo, per compiere al servi-
zio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare,
anche con la collaborazione di altri presbiteri...» 5. Al contrario il vica-
rio foraneo è chiamato a «riconoscere la parrocchia come il luogo
principale e fondamentale dell’esperienza ecclesiale e porsi al suo
servizio» 6.

In che direzione c’è spazio per evolvere il vicariato foraneo


Il Codice lascia ampio spazio al diritto particolare di precisare
meglio le modalità della collaborazione interparrocchiale del vicaria-
to foraneo, configurando concretamente l’agire comune. In base alle
indicazioni offerte dal Direttorio per il ministero pastorale dei vesco-
vi, il vicariato foraneo si deve organizzare anche con alcune strutture
di collaborazione, che permettano agli operatori pastorali, non solo
ai parroci, ma anche agli altri sacerdoti, ai religiosi e ai laici, di in-
contrarsi in un clima di fraternità per conoscersi, analizzare la situa-
zione e valorizzare le risorse disponibili, prospettare un’azione co-
mune e verificare i risultati raggiunti (EI 186).
A questo proposito è bene soffermarsi sul problema concreto
del riconoscimento della personalità giuridica canonica e civile del
vicariato foraneo.

5
Quest’ultimo accenno alla collaborazione è normalmente inteso come riferito soltanto agli eventuali
altri sacerdoti che svolgono qualche ufficio in parrocchia (per esempio il vicario parrocchiale); così in-
teso però non risulterebbe vero per tutte le parrocchie, in particolare per quelle con un numero di abi-
tanti ridotto. A mio avviso il testo del canone potrebbe riferirsi anche alla collaborazione con presbiteri
e diaconi del vicariato foraneo, risultando così vero per tutte le parrocchie e indicando la necessità per
ogni parroco, e quindi per ogni parrocchia, di collaborare con le altre realtà vicine.
6
G.P. MONTINI, I Vicari foranei, cit., p. 384.
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 169

Il Codice non attribuisce esplicitamente al vicariato foraneo la


personalità giuridica, diversamente da quanto stabilito per la parroc-
chia e per la diocesi. Per rispondere dobbiamo considerare “struttu-
re analoghe” di collaborazione previste dal legislatore. Esse possono
essere di due tipi:

– la Provincia ecclesiastica che è


«istituita affinché venga promossa un’azione pastorale comune da parte di
diverse diocesi vicine secondo le circostanze di persone e di luoghi, e affin-
ché vengano favoriti in modo più adeguato i mutui rapporti dei Vescovi dio-
cesani» (can. 431 § 1)

e che «gode di personalità giuridica per il diritto stesso» (can. 432 § 2).
In essa «hanno autorità, a norma del diritto, il Concilio provinciale e il
Metropolita» (can. 432 § 1), ma le competenze di quest’ultimo sono
«ormai minime, con elenco tassativo. [...] Sulle diocesi suffraganee deve vi-
gilare perché siano conservate con scrupolo la retta fede e la disciplina ca-
nonica, e se vi sono abusi non interviene, ma ne avverte il Papa. Supplisce la
visita canonica, avvisandone la Santa Sede, se non la fa il Vescovo proprio.
[...] Il suo ruolo si manifesta particolarmente in occasione del concilio pro-
vinciale...» 7.

Come si può osservare, a parte la potestà legislativa del Conci-


lio provinciale, si possono intravvedere analogie con il concetto di vi-
cariato foraneo, secondo il precedente Codice, dove l’autorità di chi
presiede è soprattutto di vigilare, senza intervenire direttamente;

– la Regione Ecclesiastica che è la congiunzione di province


ecclesiastiche e che può essere eretta in persona giuridica (can. 433
§ 1). Recentemente sono state erette in persona giuridica sia canoni-
ca sia civile delle regioni ecclesiastiche in Italia. Nel decreto della
Congregazione per i vescovi viene anche indicata come finalità della
regione la «promozione di un’azione comune delle diverse diocesi vici-
ne, secondo le circostanze di persone e di luoghi» 8. È anche interes-
sante osservare che lo Statuto prevede un «governo collegiale da par-

7
A. GIACOBBI, Strutture di comunione tra le Chiese particolari, in AA.VV., Il Diritto nel mistero della
Chiesa, II, Roma 1990, pp. 536-538.
8
Il Regno - Documenti 41 (1996) 157.
170 Gianni Trevisan

te della Conferenza episcopale regionale» (art. 3), con «l’elezione del


Presidente» (art. 6) che «rappresenta legalmente la Regione» (art. 7) 9.

La normativa che determina la natura e il funzionamento della


Regione Ecclesiastica, soprattutto se si considera il diritto particola-
re italiano, potrebbe essere tenuta presente per dare una configura-
zione giuridica al vicariato foraneo, evidentemente limitatamente a
quello che è possibile secondo la natura delle cose. Quest’ultimo po-
trebbe avere personalità giuridica canonica pubblica, con possibilità
di ottenere il riconoscimento civile, e avere una natura collegiale do-
ve i parroci insieme prendono le decisioni di interesse generale, ri-
servando al vicario foraneo la presidenza e le prerogative proprie del
suo ufficio in quanto rappresentante del vescovo.
Il riconoscimento della personalità giuridica potrebbe aiutare la
soluzione di gestioni a livello di vicariato foraneo di strutture comu-
ni, quali un oratorio, una casa di riposo, un centro di accoglienza
ecc. e al tempo stesso dare maggior chiarezza sulla possibile colla-
borazione interparrocchiale.

Il parroco a cui è affidata la cura pastorale di più parrocchie


È la situazione prevista dal can. 526 § 1:
«per la scarsità di sacerdoti o per altre circostanze, può essere affidata al
medesimo parroco la cura di più parrocchie vicine».

Questo in deroga al principio generale che «il parroco abbia la


cura pastorale di una sola parrocchia» (can. 526 § 1).

In ogni caso deve rimanere integra la costituzione delle diverse


comunità di fedeli, anche come entità giuridica: il parroco è “pastore
proprio” di ciascuna comunità e deve esercitare le funzioni stabilite
per il suo ufficio sia liturgiche come anche amministrative e burocra-
tiche, così come ogni comunità è chiamata a darsi le strutture di
collaborazione previste (per esempio il Consiglio pastorale e il Con-

9
Certamente è una struttura diversa la Conferenza episcopale perché si tratta di «un organismo di per
sé permanente, costituito dall’assemblea dei vescovi di una nazione o di un territorio determinato, i
quali esercitano congiuntamente alcune funzioni pastorali per i fedeli di quel territorio, per promuove-
re maggiormente il bene che la Chiesa offre agli uomini, soprattutto mediante forme e modalità di apo-
stolato opportunamente adeguate alle circostanze di tempo e di luogo, a norma del diritto» (can. 477).
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 171

siglio per gli affari economici). «L’identità di ciascuna parrocchia do-


vrà essere assicurata dalla costituzione di una rete articolata e per-
manente di ministeri laicali» 10. Il Codice non esclude che ci possano
essere momenti di collaborazione fra le parrocchie e attività comuni,
anche se non li rende obbligatori; il principio di unità nell’azione pa-
storale è la presenza del medesimo parroco, che, soprattutto per ra-
gioni di praticità e di razionale uso del tempo, troverà più utile far
convergere insieme alcuni tipi di attività.

Appare comunque evidente che ci troviamo di fronte a una solu-


zione di passaggio, di solito poco gradita ai fedeli, che inizialmente la
subiscono. Infatti spesso tale decisione dell’autorità è dovuta all’esi-
guità della composizione di più parrocchie vicine, per cui in attesa di
unirle insieme, sono affidate alla cura del medesimo sacerdote, oppu-
re è la mancanza di clero in diocesi, che obbliga a costituire un parro-
co per più parrocchie sufficientemente consistenti e organizzate, con
la segreta speranza che, una volta risolti i problemi vocazionali, ogni
comunità riacquisti la propria autonomia con un parroco proprio.

Più sacerdoti a cui è affidata in solido la cura pastorale


di più parrocchie
È la possibilità prevista dal can. 517 § 1, qualora
«le circostanze lo richiedono, la cura pastorale di una o di più parrocchie
contemporaneamente può essere affidata in solido a più sacerdoti, a condi-
zione tuttavia che uno di essi ne sia il moderatore nell’esercizio della cura
pastorale, tale cioè che diriga l’attività comune e di essa risponda davanti al
Vescovo».

Si tratta di almeno due sacerdoti che formano un gruppo (coe-


tus), pur non costituendo una persona giuridica (cf can. 520 § 1), e
che insieme attuano la cura pastorale. Con due precisazioni. In soli-
do: nel senso che a ogni componente del gruppo è affidata tutta l’atti-
vità pastorale da esercitare insieme con gli altri. Con un moderatore,
che rappresenta nei negozi giuridici la parrocchia o le parrocchie af-
fidate (can. 543 § 1) e che è tenuto a dirigere l’attività del gruppo e a
risponderne al vescovo. In concreto, il gruppo, nel quale tutti sono

10
A. MONTAN, Forme istituzionali..., cit., p. 66.
172 Gianni Trevisan

uguali, con uguali diritti e doveri, decide collegialmente (a maggio-


ranza quindi, anche contro il volere del moderatore) le linee d’azione
pastorale, la distribuzione tra i componenti del servizio pastorale e
ne risponde collegialmente di fronte al vescovo. Al moderatore com-
pete di essere coordinatore dell’attività del gruppo e il referente nei
confronti del vescovo.
Pur riconoscendo a questa forma di cura pastorale che ci trovia-
mo di fronte a una nuova e originale maniera di attuare la collabora-
zione fra sacerdoti, mi sembra invece che per quanto riguarda l’in-
sieme delle parrocchie destinatarie della cura pastorale vada rilevato
il reale pericolo che ci sia una distribuzione a settori del servizio pa-
storale, mettendo in discussione così il concetto stesso di parrocchia
a vantaggio di una pastorale di settore. È difficile pensare che i par-
roci in solido distribuiscano il servizio pastorale in modo che ognu-
no sia il parroco di ciascuna parrocchia; è più probabile che ogni
parroco curi in tutte le parrocchie un settore: chi i giovani, chi gli
ammalati, chi la carità... cosicché alla fine risulterà difficile ricono-
scere le comunità parrocchiali, al posto delle quali ci saranno la co-
munità dei giovani, degli ammalati, dei volontari...
Nella collaborazione che si attua invece nel vicariato foraneo
non è tutta la cura pastorale che viene condivisa, ma solo quanto le
parrocchie singolarmente non possono attuare da sole, necessitando
della collaborazione delle altre, nel pieno rispetto del principio di sus-
sidiarietà.

Un vicario parrocchiale che cura in più parrocchie


un settore di pastorale
Il can. 545 § 2 offre la possibilità, che un vicario parrocchiale
«assolva uno specifico ministero contemporaneamente in più parroc-
chie determinate» 11.
È necessario che nel decreto di nomina siano precisati in modo
accurato e analitico i suoi compiti e i suoi rapporti con le comunità
parrocchiali e i parroci coinvolti in quanto nel Codice sono previsti
solo pochi accenni: svolge uno specifico ministero (can. 545 § 2), in
parrocchie determinate (ibid.), è nominato dal vescovo dopo aver
sentito, se lo ritiene opportuno, i parroci delle parrocchie per le qua-

11
In merito a questo argomento rimando al contributo di C. REDAELLI, Il Vicario Parrocchiale in Qua-
derni di diritto ecclesiale 3 (1990) 32-34.
Forme di collaborazione interparrocchiali secondo il Codice 173

li è costituito e inoltre il vicario foraneo (can. 547), deve risiedere in


una delle parrocchie a meno che l’Ordinario non decida diversamen-
te (can. 550).
Sembra comunque che questa figura presupponga già un tessu-
to di collaborazione interparrocchiale, all’interno del quale può por-
tare un contributo significativo.

Conclusione
Il Codice recepisce l’indicazione conciliare in ordine alla colla-
borazione interparrocchiale e la applica conseguentemente al vica-
riato foraneo, lasciando comunque ampio spazio anche per altre pos-
sibili forme, non solo per quelle che sono determinate almeno nelle
linee essenziali, ma anche per quelle che il diritto particolare potreb-
be elaborare in considerazione delle diverse situazioni sociali, geo-
grafiche e storiche.
Va osservato che le possibilità di collaborazione interparrocchia-
le indicate dal Codice permettono di essere attuate con delle struttu-
re collegiali, dove è il gruppo che insieme decide e attua quanto pro-
gettato. La collaborazione fra parrocchie non è solo questione di col-
laborazione fra parroci, ma si allarga anche alle altre componenti del
popolo di Dio, i religiosi e i laici, e coinvolge anche le associazioni di
laicato, le comunità religiose e i diaconi permanenti che hanno una
dimensione per loro natura sovraparrocchiale.

GIANNI TREVISAN
Via S. Pietro, 19
32100 Belluno
174
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 174-194
La cura pastorale della parrocchia
non affidata al sacerdote
di Giangiacomo Sarzi Sartori

All’interno della disciplina canonica riguardante le parrocchie, i


parroci e i vicari parrocchiali, ai cann. 515-552 del CIC vigente 1, vi
sono norme che costituiscono una novità rispetto alla legislazione
precedente. Il CIC 1917, infatti, non prevedeva talune soluzioni oggi
possibili e che riflettono l’ansia della Chiesa nell’andare incontro con
attenta sollecitudine alle necessità dei singoli fedeli e delle comunità
cristiane nelle attuali circostanze. Si tratta di norme profondamente
innovatrici sia dal punto di vista ecclesiologico sia dal lato pastorale,
perché aprono orizzonti nuovi alla concreta cooperazione dei fedeli
e, tra essi, delle persone consacrate e soprattutto dei laici – uomini e
donne – in un ambito ministeriale e in servizi ecclesiali che prima
erano considerati un campo esclusivamente riservato al clero.
In particolare, il can. 517 § 2 prevede la possibilità di «affidare
una partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parroc-
chia», per mancanza di sacerdoti, all’impegno di un diacono o di al-
tre persone non insignite del carattere sacerdotale o anche di una
comunità di persone, costituendo, tuttavia, un sacerdote quale «mo-
deratore della cura pastorale».
Il canone in esame recita testualmente:
«Nel caso che il Vescovo diocesano, a motivo della scarsità di sacerdoti, ab-
bia giudicato di dover affidare ad un diacono o ad una persona non insignita
del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone una partecipazione
nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia, costituisca un sacerdote
il quale, con la potestà e le facoltà di parroco, sia il moderatore della cura pa-
storale».

1
Cf parte II, sezione II, titolo III, capitolo VI del Libro secondo del CIC: De paroeciis de parochis et de
vicariis paroecialibus.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 175

Per una retta comprensione della norma è necessario eviden-


ziarne gli elementi essenziali e compiere alcune riflessioni in merito
al senso e al contenuto della stessa 2.

«...a motivo della scarsità di sacerdoti»


La sola causa canonica che il Codice prospetta per questo tipo
di soluzione risulta essere la scarsità o mancanza di sacerdoti («Si
ob sacerdotum penuriam...»), a motivo della quale il vescovo della
diocesi ritiene di dover provvedere alla vita di una comunità affidan-
do a una o più persone che non sono sacerdoti una partecipazione
nell’esercizio della cura pastorale della parrocchia 3.
Il primo interrogativo riguarda il concetto di «penuria» di sacer-
doti, proposto dal Codice, ma non esplicitato. Che cosa significa con-
cretamente? e in base a quali criteri o parametri può essere invocata
questa ragione per motivare la decisione di affidare la parrocchia a
persone che non sono sacerdoti? «Penuria», infatti, può significare
semplicemente – e questa situazione si sta pesantemente aggravan-
do in tutte le nostre Chiese particolari – che i preti di una diocesi so-
no diminuiti in numero e in forze rispetto a tempi non troppo remoti
e, quindi, che sono “pochi”. Ma può anche significare che i presbite-
ri “non sono sufficienti” rispetto alle esigenze pastorali diocesane o
alle urgenze poste da una certa situazione generale, o anche dalla
necessità che taluni presbiteri debbano assumere compiti specifici –
oggi sempre più richiesti – e che esigono preparazione e competen-
ze che non tutti possono avere acquisito. Che cosa significa e che co-
sa comporta questa «insufficenza», e quando si verifica? Il Codice
sembra dare una prima risposta al can. 526 § 1 quando afferma che
essendo impossibile provvedere efficacemente alla cura pastorale
delle parrocchie «per la scarsità dei sacerdoti («ob penuriam sacer-
dotum...») può essere affidata al medesimo parroco la cura di più
parrocchie vicine»; e al can. 517 § 1, allorché dichiara che «quando
le circostanze lo richiedono («Ubi adiuncta id requirant») – e quindi
anche a causa della scarsità dei sacerdoti – la cura pastorale di una

2
Sulla storia del can. 517 § 2 è utile riferirsi a: Communicationes 8 (1976) 24; Schema 1977 can. 349 § 3;
Communicationes 13 (1981) 147.149.306; Schema 1980 can. 456 § 2; Relatio 1981, in Communicationes
14 (1982) 222; Schema 1982 can. 517 § 2.
3
Si vedano le osservazioni del vescovo mons. Coccopalmerio nella pubblicazione curata dalla Pontifi-
cia Università Gregoriana: F. COCCOPALMERIO, De paroecia, Roma 1991, pp. 107-110.
176 Giangiacomo Sarzi Sartori

parrocchia, o di più parrocchie contemporaneamente, può essere af-


fidata in solido a più sacerdoti...».
Evidentemente circa la situazione di “penuria” o di “insufficien-
za” dei sacerdoti e circa l’“urgenza” posta dalle circostanze è il ve-
scovo diocesano nel concreto a dover giudicare ed è la stessa norma
canonica a ricordarlo eloquentemente al can. 517 § 2, quando affer-
ma che si può procedere alla soluzione prevista solo «nel caso che il
Vescovo diocesano... abbia giudicato di dover affidare... una parteci-
pazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia...» a chi
non è presbitero («Si ob sacerdotum penuriam Episcopus dioecesanus
aestimaverit participationem in exercitio curae pastoralis paroeciae
concredendam esse...»).
Ma proprio per questa ragione, cioè per la dichiarata responsa-
bilità del vescovo nello stabilire concretamente, tenendo conto della
situazione complessiva della sua Chiesa particolare, la possibilità e
anzi la necessità – «Quando le circostanze lo richiedono» (can. 517
§ 1) – di procedere alla realizzazione di soluzioni diverse rispetto alle
normali condizioni della cura pastorale, mette in risalto il ruolo deci-
sivo del munus episcopale nell’applicazione della normativa canonica
e soprattutto nell’indagine e nella verifica sullo stato generale della
diocesi e quindi anche la sua responsabilità nel ritrovamento delle
formule pastorali più adatte ai bisogni emersi, rifacendosi alle indica-
zioni della disciplina ecclesiale.
La norma canonica è veramente ampia e lascia, dunque, al ve-
scovo un ampio giudizio concreto circa le necessità e le urgenze pa-
storali e circa la destinazione dei sacerdoti per i servizi diocesani e
specialmente per la cura pastorale delle parrocchie.

«...ad un diacono, o ad una persona non insignita


del carattere sacerdotale, o ad una comunità di persone»
Dunque, secondo il canone che stiamo esaminando, nel caso di
scarsità di sacerdoti alla quale, secondo il giudizio del vescovo, non
si può far fronte in altro modo, diaconi, membri di istituti di vita
consacrata o di società di vita apostolica, uomini e donne, laici e lai-
che, singoli o in gruppo possono ricevere dal vescovo una partecipa-
zione alla cura pastorale di una parrocchia, mentre un sacerdote,
con la potestà e le facoltà di parroco, deve esserne il moderatore.
Come già si annotava sopra, si tratta di una novità del Codice at-
tuale, ma anche di una realtà già vigente da diverso tempo nella
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 177

prassi della Chiesa, specialmente in terra di missione. Questa possi-


bilità oggi inserita nella disciplina canonica va, tuttavia, compresa se-
condo l’esattezza del dato normativo e nella sua reale portata, per
poi attuarla nella vita ecclesiale con la correttezza e le potenzialità
che lascia trasparire.
Anzitutto, coloro che ricevono questo ufficio di «partecipazione
alla cura pastorale» di una comunità parrocchiale non sono parroci,
in quanto solo un sacerdote può ricevere l’ufficio di parroco (il can.
521 § 1 richiede che per la validità della nomina il parroco debba es-
sere un presbitero), ma hanno la cura pastorale della parrocchia in
tutto ciò che non richiede l’esercizio del ministero sacerdotale, e
quindi possono svolgere quelle attività pastorali che non richiedano
il carattere sacerdotale.

I diaconi
Per ciò che concerne l’attività del diacono l’interpretazione è ab-
bastanza semplice perché, nonostante le questioni che accompagna-
no la definizione dell’identità e della missione diaconale 4, la tradizio-
ne, la dottrina e la disciplina ecclesiale prevedono quali siano le fun-
zioni che competono a questa figura in attuazione del suo ministero e
in conformità con le prerogative dell’ordine del diaconato (can. 1009
§ 1). Esso costituisce il primo grado del sacramento dell’ordine; li co-
stituisce «ministri sacri»; e fa in modo che siano «consacrati e desti-
nati a pascere il popolo di Dio, adempiendo nella persona di Cristo
Capo, ciascuno nel suo grado, le funzioni di insegnare, santificare e
governare» (can. 1008).
Il carattere indelebile con il quale il ministro sacro è segnato
esprime il cambiamento ontologico che avviene per mezzo del sacra-
mento dell’Ordine e nello stesso tempo la perpetuità di tale cambia-
mento. Questa realtà indica anche la differenza fra laici e ministri sa-
cri 5; infatti, solo i ministri ordinati, adempiendo «nella persona di
Cristo Capo» le funzioni di insegnare, santificare e governare, pasco-
no il popolo di Dio. Così, il Codice al can. 1008 precisa opportuna-

4
Vedi J. BEYER, De diaconatu animadversiones, in Periodica 69 (1980) 441-460.
5
In LG 10 si afferma questa differenziazione, ma anche la connessione tra il sacerdozio comune e quello
ministeriale «con la potestà sacra di cui è investito»: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio mi-
nisteriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordi-
nati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro a suo proprio modo partecipano all’unico sacerdozio di Cristo».
178 Giangiacomo Sarzi Sartori

mente che il sacramento dell’ordine non abilita soltanto o prima di


tutto a svolgere delle funzioni. Esso produce una realtà ontologica
stabile in coloro che lo ricevono. Proprio per questo non sono sem-
plicemente abilitati a svolgere dei compiti, ma sono «costituiti» mini-
stri sacri. Sebbene il Concilio non abbia affermato che l’ordinazione
diaconale imprima il carattere, tuttavia nel gruppo di studio sui sa-
cramenti tutti furono d’accordo nel lasciare la menzione del caratte-
re anche per i diaconi, trattandosi di dottrina comune 6.
Il conferimento della potestà di ordine tocca quindi necessaria-
mente la sfera ontologica della persona, per cui, ricevuta nell’ordina-
zione, l’ordinato non può mai esserne privato, ma solo impedito di e-
sercitarla in tutto o in parte (cf cann. 1338 § 2; 292), e questo perché
dovendo agire «in persona Christi», lo potrà e dovrà sempre fare ogni
volta che lo richiede il bene spirituale di qualche fedele (cf cann. 976;
1335). Tenendo conto di queste osservazioni, può essere maggior-
mente illuminato anche il ministero dei diaconi i quali, sebbene non
siano ordinati per il sacerdozio, ricevono il primo grado dell’ordine
sacro che riguardo ai sacramenti non dà, dal punto di vista ontologi-
co, nessun potere nuovo rispetto al battesimo, ma solo una partecipa-
zione alla potestà di santificazione non sacramentale d’ordine 7. Sap-
piamo, infatti, che per i ministeri di santificazione la potestà per com-
piere i sacramenti in senso stretto è partecipata solo da coloro che
hanno ricevuto il sacramento dell’ordine almeno nel grado del presbi-
terato (potestà di santificazione sacramentale d’ordine) per la confer-
mazione, l’eucaristia, la penitenza, l’unzione e l’ordine sacro (cf cann.
882; 883; 884; 900 § 1; 965; 1003 § 1). Nel caso della confermazione
l’autorità gerarchica regola l’esercizio di tale potestà riservandolo at-
tualmente in modo ordinario al vescovo; mentre nel caso dell’ordine
sacro esclusivamente a lui. Per il battesimo (can. 861 § 2) la potestà di
santificazione sacramentale è partecipata da tutti i battezzati, anzi, in
caso di necessità, anche da non battezzati, mossi da retta intenzione; e
per il matrimonio (can. 1057 § 1) dagli stessi battezzati contraenti il

6
Cf Communicationes 10 (1978) 181; PAOLO VI, Sacrum diaconatus ordinem, in EV 2, n. 1369. Si veda-
no le osservazioni di G. GHIRLANDA, L’Ordine Sacro, in AA.VV., I Sacramenti della Chiesa, Bologna 1989,
pp. 256-263.
7
Così LG 29a parla del servizio dei diaconi: «...sostenuti dalla grazia sacramentale, nel servizio (diaco-
nia) della liturgia, della parola e della carità sono al servizio del popolo di Dio, in comunione col Vesco-
vo e il suo presbiterio. Appartiene al diacono, conforme gli sarà stato assegnato dalla competente auto-
rità, amministrare solennemente il Battesimo, conservare e distribuire l’Eucaristia, in nome della Chie-
sa assistere e benedire il Matrimonio, portare il Viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai
fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacra-
mentali, presiedere al rito del funerale e della sepoltura»; cf anche CD 15a.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 179

vincolo coniugale. Infine, per porre atti di santificazione quali i sacra-


mentali (cann. 1168; 1169), la potestà di santificazione è partecipata
anzitutto dai chierici (potestà di santificazione non sacramentale d’or-
dine) secondo competenze proprie, ma anche dai laici (potestà di san-
tificazione non sacramentale).
Per una più concreta visione circa l’esercizio del ministero dei
diaconi è interessante considerare ciò che prospetta il documento
promulgato dalla Conferenza episcopale italiana I diaconi permanen-
ti nella Chiesa in Italia. Orientamenti e Norme (1° giugno 1993) 8. Il
testo, come si afferma nell’introduzione, «offre autorevolmente le li-
nee comuni alle quali i Vescovi sono invitati a riferirsi per favorire in-
dirizzi formativi e pastorali comuni», e nei capitoli secondo (Il discer-
nimento vocazionale), terzo (La formazione dei candidati al diacona-
to) e quarto (Il ministero)
«contiene peraltro quelle disposizioni giuridicamente vincolanti che il can.
236 del Codice di diritto canonico affida alla competenza della Conferenza e-
piscopale e costitutiscono diritto particolare per le Chiese che sono in Italia».

In particolare nel capitolo quarto (nn. 37-50) si descrivono i vari


compiti dei diaconi e si sostiene che
«nella multiforme ricchezza del dono ricevuto, che li destina alle varie atti-
vità del servizio della Parola, del Sacramento e della carità, il ministero dei
diaconi deve rimanere aperto alle sollecitazioni che dallo Spirito e dai segni
dei tempi vengono alla Chiesa e alla sua missione» (n. 40).

Il documento, poi, stabilisce che


«al diacono può essere affidato un compito specifico nella cura pastorale di
una parrocchia, secondo il mandato e le disposizioni del Vescovo: la parroc-
chia, infatti, è l’ambiente usuale in cui la vasta maggioranza dei diaconi as-
solvono il mandato della loro ordinazione per aiutare il Vescovo e il suo pre-
sbiterio. Il diacono può essere impegnato anche nelle comunità parrocchiali
senza presbitero residente e nelle parrocchie affidate in solidum ad un grup-
po di sacerdoti, per la cura di quegli ambiti che sono propri del ministero
diaconale» (cf can. 517 § 2).

Le persone consacrate
Circa le persone consacrate, ricordiamo che al can. 758, con
una annotazione di carattere generale ma molto promettente per gli

8
Notiziario della Conferenza episcopale italiana 6 (1° giugno 1993) 150-176.
180 Giangiacomo Sarzi Sartori

sviluppi a cui può portare, si prevede che i membri degli istituti di vi-
ta consacrata, in forza della propria consacrazione a Dio, vengano as-
sunti dal vescovo in aiuto alle necessità della Chiesa per annunciare
il Vangelo.
Per un particolare titolo vocazionale e di condizione nella Chiesa
può dunque rivelarsi assai opportuno che alle persone consacra-
te – si pensi specialmente alle religiose che operano profondamente
inserite nella vita delle nostre diocesi – venga richiesta una partecipa-
zione alla cura pastorale delle parrocchie. E infatti, negli istituti reli-
giosi dediti all’apostolato, l’azione pastorale appartiene alla loro stessa
natura e spesso anche alla peculiarità del loro carisma di fondazione.
Perciò il Codice ricorda che l’intera vita dei membri dev’essere per-
meata di spirito apostolico e, d’altra parte, tutta l’azione apostolica sarà
animata dallo spirito religioso (can. 675 § 1). Ne consegue che l’affida-
mento delle parrocchie, prive di parroco, alle religiose di vita attiva in
nessun modo contrasta con la loro vocazione, se teniamo in considera-
zione quanto già il decreto conciliare Perfectae caritatis ebbe a dire
con un’affermazione di sicuro valore per orientare la comprensione
del carisma della vita consacrata nella missione della Chiesa:
«I membri di qualsiasi istituto ricordino anzitutto di aver risposto alla divina
chiamata con la professione dei consigli evangelici, in modo che essi, non
solo morti al peccato, ma rinunciando al mondo, vivano per Dio solo. Tutta
la loro vita, infatti, è stata posta al servizio di Dio, e ciò costituisce una spe-
ciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella conscarazione batte-
simale, e ne è un’espressione più perfetta. Avendo poi la Chiesa ricevuto
questa loro donazione di sé, sappiano essi di essere anche a servizio della
Chiesa» (PC 5).

Si tratta, quindi, di porre attenzione al senso e alle conseguenze


della loro consacrazione a Dio e alla Chiesa e, volendo valorizzare la
stima e la considerazione che le persone religiose godono presso il
popolo cristiano e il rispetto che anche persone lontane o estranee
alla pratica religiosa nutrono nei loro confronti, può essere favorito il
loro impegno nell’adempimento di compiti pastorali specifici per le
comunità parrocchiali, nella tutela della loro esperienza e dei loro ca-
rismi. Non a caso il Concilio esorta gli istituti ad aprirsi sempre più
avvedutamente alle urgenze e alle sfide poste dalle circostanze attua-
li cosicché essi
«procurino ai loro membri un’apposita conoscenza sia delle condizioni dei
tempi e degli uomini, sia dei bisogni della Chiesa, in modo che essi [...] sia-
no in grado di giovare agli altri più efficacemente» (PC 2d);
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 181

e ancora dichiara:
«Gli istituti mantengano e svolgano fedelmente le opere proprie e, tenendo
presente l’utilità della Chiesa universale e delle diocesi, adattino le opere
stesse alle necessità dei tempi e dei luoghi, adoperando i mezzi opportuni
anche se nuovi...» (PC 20) 9.

La recente esortazione apostolica postsinodale del Santo Padre


Vita Consecrata (25 marzo 1996) in diverse occasioni riflette sul te-
ma della vita consacrata come «dono alla Chiesa» (n. 3); come espe-
rienza da vivere «nella Chiesa e per la Chiesa» (terza parte del primo
capitolo, nn. 29-34); come segno di comunione nella Chiesa («Si-
gnum fraternitatis»: secondo capitolo, nn. 41 e ss); come esperienza
necessariamente aperta alla missione e alla collaborazione ecclesiale
(«Servitium caritatis»: terzo capitolo, soprattutto i nn. 72-74, 76). In
modo particolare richiamiamo il punto in cui si mette in collegamen-
to «La vita consacrata e la Chiesa particolare» (n. 48), riconoscendo
ancora una volta il ruolo significativo che spetta alle persone consa-
crate all’interno delle diocesi e delle parrocchie e «il fondamentale
rilievo che la collaborazione delle persone consacrate con i Vescovi
riveste per l’armonioso sviluppo della pastorale diocesana».
Sviluppando queste osservazioni l’esortazione riconosce «ai sin-
goli istituti una giusta autonomia, grazie alla quale essi possono va-
lersi di una propria disciplina e conservare integro il loro patrimonio
spirituale e apostolico» e indica come «compito degli Ordinari dei
luoghi conservare e tutelare tale autonomia». Al tempo stesso, però,
mentre vede nel vescovo il «padre e pastore dell’intera Chiesa parti-
colare», colui al quale «compete di riconoscere e rispettare i singoli
carismi, di promuoverli e coordinarli», si appella al vescovo perché
nella sua carità pastorale «accolga il carisma della vita consacrata co-
me grazia che non riguarda soltanto un istituto, ma rifluisce a van-
taggio di tutta la Chiesa». E, quindi, se al vescovo chiede di
«sostenere e aiutare le persone consacrate, affinché, in comunione con la
Chiesa, si aprano a prospettive spirituali e pastorali corrispondenti alle esi-
genze del nostro tempo»,

9
Sul tema della missione della vita consacrata si veda J. BEYER, La Chiesa si interroga sulla vita consa-
crata, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 363 ss, soprattutto 374-379; O.G. GIRARDI, Vita consacra-
ta e Chiesa locale, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 388-402; S. RECCHI, La missione della vita
consacrata nella Chiesa missione, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 403-411.
182 Giangiacomo Sarzi Sartori

alle persone di vita consacrata domanda


«di offrire generosamente la loro collaborazione alla Chiesa particolare se-
condo le proprie forze e nel rispetto del proprio carisma, operando in piena
comunione col Vescovo nell’ambito della evangelizzazione, della catechesi,
della vita delle parrocchie» (n. 49).

I laici
In diversi contesti il Codice richiama le possibilità di coopera-
zione e di partecipazione alla cura pastorale da parte di chi non è
insignito del sacerdozio ministeriale, e in particolare presenta molte-
plici ministeri ecclesiali affidabili ai laici 10. Per esempio nella norma-
tiva canonica si parla dei laici che possono essere assunti stabilmen-
te ai ministeri di lettori e di accoliti (can. 230 § 1); o di laici che nelle
azioni liturgiche possono assolvere la funzione di lettore con incari-
co temporaneo e che possono godere della facoltà di esercitare le
funzioni di commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto
(can. 230 § 2); o di coloro che senza essere lettori o accoliti istituiti
mediante il rito liturgico, possono supplire alcuni dei loro uffici eser-
citando il ministero della parola (esclusa l’omelia, riservata al sacer-
dote e al diacono: can. 767 § 1), presiedendo alle preghiere liturgi-
che, amministrando il battesimo e distribuendo la comunione secon-
do le disposizioni del diritto (can. 230 § 3). Si tratta, soprattutto in
quest’ultimo paragrafo del canone, di un elenco non tassativo, ma e-
semplificativo («videlicet») che la disciplina propone circa i ministeri
laicali per orientare a quegli ambiti di servizio ecclesiale che sono af-
fidabili a persone che non hanno ricevuto il ministero sacro, ma che
possono assumere taluni incarichi di grande importanza per la vita
ordinaria di una comunità cristiana e per la cura pastorale dei fedeli
di una parrocchia. Sono, dunque, ministeri laicali previsti in ordine
alle azioni liturgiche e ad altri compiti: ministeri stabili di lettore e di
accolito 11, ministeri liturgici temporanei, ministeri straordinari di

10
Sull’identità, i diritti e doveri, la missione dei laici si veda G. FELICIANI, Il popolo di Dio, Bologna
1991, capitolo terzo I laici, pp. 93-119. Sul tema dell’identità del laico secondo l’esortazione di Giovanni
Paolo II Christifideles laici e sul tema della formazione dei laici in vista delle funzioni o ministeri che
possono svolgere si veda: G. SARZI SARTORI, Il Laico nel mondo. Gli orientamenti dell’esortazione postsi-
nodale e la normativa canonica, in Quaderni di diritto ecclesiale 2 (1989) 319-328; ID., I laici e la cono-
scenza della dottrina cristiana (can. 229 § 1), in Quaderni di diritto ecclesiale 7 (1994) 334-342.
11
Questi ministeri sono stati riorganizzati dal papa PAOLO VI con la Lettera Apostolica Ministeria quae-
dam (15 agosto 1972) EV 4, nn. 1749-1770. A tale riguardo si vedano anche i due documenti pastorali
della Conferenza episcopale italiana: I ministeri nella Chiesa (15 settembre 1973) ed Evangelizzazione e
ministeri (15 agosto 1977) ECEI 2, nn. 546-600; 2745-2873.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 183

supplenza, in mancanza di ministri ordinati, ossia di sacerdoti e di


diaconi.
Tenendo in considerazione altri riferimenti codiciali, ricordiamo
che la partecipazione dei laici alla funzione di insegnare propria del-
la Chiesa (munus docendi) è già bene evidenziata dalla disposizione
del can. 211 che sancisce il diritto e il dovere di tutti i fedeli di impe-
gnarsi nell’«annuncio divino della salvezza». Il codificatore, però, ha
ritenuto opportuno dedicare a essa un norma specifica affermando,
nel can. 759 che «i fedeli laici, in forza del Battesimo e della Confer-
mazione, sono testimoni dell’annuncio evangelico con la parola e con
l’esempio della vita». Ha voluto così sottolineare come l’esercizio del-
la funzione profetica competa non solo alla gerarchia ma anche ai lai-
ci e, al contempo, evidenziare come questa loro responsabilità derivi
direttamente dai sacramenti dell’iniziazione cristiana e non richieda,
quindi, un apposito mandato da parte dell’autorità ecclesiastica 12.
Tuttavia, perché i laici possano «cooperare con il Vescovo o con i
presbiteri nell’esercizio del ministero della parola», adempiendo a
specifici incarichi o funzioni di natura ecclesiastica, è richiesta una
“chiamata” in tal senso da parte della gerarchia, come lo stesso ca-
none si preoccupa di precisare. E circa le concrete modalità con cui
si può realizzare tale cooperazione il legislatore non ha mancato di
emanare più dettagliate disposizioni. Va considerato, in particolare,
il can. 766 dove si stabilisce che i laici «possono essere ammessi a
predicare in una chiesa se in determinate circostanze lo richieda la
necessità o se in casi particolari lo consigli l’utilità, secondo le dispo-
sizioni della Conferenza episcopale» e fatte salve le condizioni poste
dal can. 767 § 1.
La norma è più complessa di quanto possa apparire. Infatti, il
Legislatore ha ritenuto di doversi limitare a stabilire pochi ed essen-
ziali principi a causa, probabilmente, della notevole diversità delle si-
tuazioni che si possono presentare nei vari Paesi. Al tempo stesso ha
giudicato indispensabile, per evitare qualunque forma di sconcerto o
di stupore tra i fedeli, l’adozione di una linea di condotta uniforme da
parte dei vescovi di una stessa nazione. Secondo il Codice, quindi, la
predicazione dei laici, in quanto avvenga negli edifici sacri, deve rive-
stire il carattere di una certa eccezionalità e non può essere praticata
in modo indiscriminato e generalizzato, per non oscurare in alcun

12
Si veda a questo riguardo la costituzione conciliare LG 33.
184 Giangiacomo Sarzi Sartori

modo la differenza di autorevolezza che intercorre tra il loro inse-


gnamento e quello dei sacerdoti. D’altro canto, le formule adottate
per stabilire le limitazioni ritenute indispensabili risultano abbastan-
za vaghe e generiche. Il caso di necessità si presenta essenzialmente
là dove, a causa della insufficienza numerica del clero, non è possibi-
le assicurare la celebrazione della messa nemmeno nelle domeniche
e nelle altre feste di precetto. In queste situazioni il can. 1248 § 2 rac-
comanda, tra l’altro, che i fedeli prendano parte a una liturgia della
parola da tenersi nella chiesa parrocchiale o in altro luogo sacro se-
condo le prescrizioni del vescovo. Ed è evidente che, qualora non si
possa disporre neanche del ministero di un diacono, sarà inevitabile
ricorrere a un laico se non si vuole privare la comunità dell’aiuto del-
la predicazione. E tale “predicazione” da parte del laico può ulterior-
mente inquadrarsi in quella forma più ampia e organica di collabora-
zione al parroco prevista dal can. 517 § 2. In questo senso il can. 230
§ 3 dispone che, quando la necessità della Chiesa lo richieda, i laici
possono, in mancanza di sacri ministri, supplire ad alcuni loro uffici
e, in particolare, esercitare il ministero della parola.
Quanto ai casi di utilità ogni più precisa determinazione è lascia-
ta alle Conferenze episcopali che, per lo più, hanno preferito sottrarsi
a questo difficile compito ricorrendo alla soluzione di affidare al ve-
scovo diocesano la responsabilità di definire le circostanze che rendo-
no opportuna la predicazione dei laici nelle chiese e negli oratori. Il
Codice, invece, non lascia alcuna discrezionalità alle Conferenze epi-
scopali solo riguardo all’omelia, cioè alla predicazione che avviene nel
contesto della Messa per esporre «alla luce del testo sacro i misteri
della fede e le norme della vita cristiana». In quanto parte integrante
della celebrazione liturgica, essa è categoricamente riservata ai sa-
cerdoti e ai diaconi (can. 767 § 1) con una disposizione tassativa che
esclude la possibilità che il vescovo diocesano autorizzi delle eccezio-
ni 13. La Conferenza episcopale italiana (CEI) non ha ritenuto necessa-
rio emanare una normativa dettagliata al riguardo, limitandosi a stabi-
lire che questa “predicazione” sia consentita solo a quei laici che – ol-
tre a presentare «come requisiti necessari l’ortodossia di fede, la
preparazione teologico-spirituale, l’esemplarità di vita a livello perso-
nale e comunitario, la capacità di comunicazione» – «abbiano ricevuto
il mandato dall’ordinario del luogo» (delibera n. 22).

13
Così afferma il responso della Commissione per l’interpretazione autentica del Codice del 20 giugno
1987.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 185

È invece molto frequente che i parroci, soprattutto per la prepa-


razione ai sacramenti della confessione, della prima comunione e
della cresima, si avvalgano della collaborazione dei laici nell’istruzio-
ne catechistica, come è del resto loro raccomandato dal can. 776. A
differenza di quanto avviene per la predicazione, il Codice non stabi-
lisce alcun limite specifico per l’insegnamento catechistico dei laici
negli edifici sacri. Tuttavia il Legislatore non enuncia, però, il criterio
per distinguere queste due modalità del ministero della parola che
non risultano, quindi, chiaramente definite nella loro specificità. In
linea di massima si può affermare che la predicazione ha scopi so-
prattutto esortativi, mentre la catechesi si propone di aumentare le
conoscenze dei fedeli circa i contenuti della fede, mediante una
esposizione sistematica della dottrina cristiana.
Per quanto riguarda la funzione di santificare in generale (mu-
nus sanctificandi) e la prassi sacramentale, vi sono ulteriori indica-
zioni disciplinari. Sappiamo che tutti i laici, in quanto fedeli, sono
partecipi dell’ufficio sacerdotale di Cristo, ma alcuni possono essere
chiamati dalla gerarchia a contribuire alla missione santificatrice del-
la Chiesa nell’esercizio di incarichi determinati.
Già sopra si ricordava come il Codice avverta che i laici posso-
no essere assunti stabilmente, mediante il prescritto rito liturgico, al
ministero di lettore – che attribuisce le funzioni di leggere la Sacra
Scrittura durante le celebrazioni eucaristiche, di guidare il canto e la
partecipazione del popolo, di preparare i fedeli alla ricezione dei sa-
cramenti – e di accolito, che attribuisce i compiti di assistere il sacer-
dote e il diacono nel servizio all’altare, soprattutto nella messa, e di
distribuire, all’occorrenza, la comunione. Sono ministeri riservati ai
soli battezzati di sesso maschile e non danno diritto ad alcuna remu-
nerazione, mentre la determinazione dell’età e delle doti richieste
per il loro affidamento è demandata alle Conferenze episcopali com-
petenti (can. 230 § 1). In merito la CEI ha stabilito l’età minima di
venticinque anni e ha richiesto, come «doti fondamentali», che l’Or-
dinario riconoscerà su attestazione del parroco, «maturità umana,
buona fama nella comunità cristiana, pietà, adeguata preparazione
teologico-liturgica, collaudata attitudine all’impegno pastorale, dispo-
nibilità per il servizio nella diocesi» (delibera n. 21).
Il Codice, tuttavia, dispone che alcuni dei compiti propri dei let-
tori e degli accoliti – in specie quelli di leggere, commentare, canta-
re durante le azioni liturgiche – possono essere comunque svolti an-
che dagli altri fedeli che ne siano stati incaricati in modo temporaneo
186 Giangiacomo Sarzi Sartori

o occasionale (can. 230 § 2). Ed è pure espressamente consentito


che un laico debitamente preparato presti l’assistenza necessaria al
celebrante infermo (can. 930 § 2).
Il can. 1168, inoltre, prevede che, qualora l’Ordinario del luogo
lo ritenga opportuno, i laici dotati delle qualità convenienti ricevano
la facoltà di amministrare alcuni sacramentali, vale a dire di imparti-
re determinate benedizioni.
Il Codice autorizza i laici a esercitare altre funzioni relative alla
santificazione – come la presidenza delle preghiere liturgiche nel ca-
so previsto dal can. 1248 § 2 che abbiamo già ricordato –, ma solo
quando il bene della comunità cristiana lo esiga e non sia possibile
avvalersi del ministero dei sacerdoti e dei diaconi (can. 230 § 3).
Così, non si deve dimenticare che la normativa autorizza, qualo-
ra mancasse o fosse impedito il ministro ordinario, a conferire «leci-
tamente il Battesimo il catechista o altra persona incaricata dall’Ordi-
nario del luogo a questo compito e anzi, in caso di necessità, chiun-
que, mosso da retta intenzione» (can. 861 § 2). Al can. 910 § 2, poi, si
dice che «ministro straordinario della sacra Comunione è l’accolito o
anche un altro fedele incaricato a norma del can. 230 § 3»; e in spe-
ciali circostanze il laico incaricato di distribuire la comunione, così
come l’accolito o altra persona designata dall’Ordinario del luogo,
può procedere all’esposizione del Santissimo Sacramento attenendo-
si rigorosamente alle disposizioni stabilite dal vescovo. Al can. 1112
§ 1, poi, si stabilisce che «dove mancano sacerdoti o diaconi, il Ve-
scovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza episcopa-
le e ottenuta la facoltà dalla Santa Sede, può delegare dei laici perché
assistano ai matrimoni». Sappiamo che ministri del sacramento del
matrimonio sono gli sposi stessi, ma la Chiesa, soprattutto allo scopo
di accertare che nulla si opponga alla celebrazione e di garantire la
necessaria pubblicità della stessa, ha prescritto sotto pena di nullità
che di norma vi assistano l’Ordinario o il parroco del luogo oppure il
sacerdote o il diacono delegato da uno di essi (can. 1108 § 1). Peral-
tro, là dove non era possibile assicurare la presenza di un chierico, la
Santa Sede concedeva talora che la delega fosse data anche a fedeli
privi dell’ordine sacro. Il CIC vigente consente ora un più ampio ri-
corso a questa prassi concedendo, secondo il can. 1112, di poter de-
legare l’assistenza ai matrimoni a persone di ambo i sessi in grado di
istruire i nubendi sul significato del sacramento che si apprestano a
celebrare e di compiere nel modo dovuto il rito liturgico. Questa di-
sposizione fino a ora non ha trovato attuazione in Italia poiché la CEI
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 187

ha ritenuto che la scarsità del clero non sia tale da esigere il ricorso
ai laici.
Ricordiamo, infine, che anche il rito delle esequie ecclesiasti-
che senza la messa può essere celebrato dal diacono e, se la neces-
sità pastorale lo esige, con il consenso della Sede Apostolica, la Con-
ferenza episcopale può designare per questo specifico servizio litur-
gico anche un laico (cf can. 1176 § 2 e Ordo exequiarum, n. 19).
Sono, quindi, numerose e significative le azioni pastorali che
persone non ordinate possono esercitare a servizio della comunità
ecclesiale e in specie nell’ambito della cura pastorale di una parroc-
chia quando fosse assente in maniera stabile la figura del presbitero e
quando fossero chiamati a questa cooperazione dal vescovo diocesa-
no. Sono ministeri ecclesiali che riguardano la funzione di insegnare
e quella di santificare, eccettuati gli uffici che «natura sua» sono riser-
vati ai ministri sacri (cann. 150 e 274 § 1).

Quando «il Vescovo diocesano abbia giudicato


di dover affidare... una partecipazione
nell’esercizio della cura pastorale...»
Il can. 517 § 2 parla di «affidamento» da parte del vescovo, e
quindi di un atto specifico della sua potestà, e di «partecipazione della
cura pastorale» cioè di un mandato preciso che prevede l’assunzione
di un incarico ecclesiastico. Il can. 228 § 1 riconosce la capacità giuri-
dica dei laici, che risultino idonei, «a essere assunti dai sacri pastori in
quegli uffici ecclesiastici e in quelle funzioni che sono in grado di
esercitare legittimamente». Tale capacità, dunque, non spetta indistin-
tamente a tutti i laici in quanto suppone una specifica idoneità. Inoltre,
per potersi effettivamente esplicare, esige una “assunzione” o una
“chiamata”, di natura ampiamente discrezionale, da parte della gerar-
chia. Non concerne, infatti, compiti che i fedeli hanno il diritto-dovere
di svolgere nell’ambito ecclesiale o secolare, ma riguarda funzioni
propriamente «ecclesiastiche» e «responsabilità più intimamente con-
nesse con i doveri dei pastori» e, quindi, anche nelle modalità di eser-
cizio, pienamente soggette alla «direzione superiore» di questi ulti-
mi 14. Notiamo che la formulazione del canone resta vaga e indefinita

14
Vedi LG 33 in cui si afferma che «i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare
più immediatamente coll’apostolato della gerarchia [...]. Hanno inoltre l’attitudine a essere assunti dalla
gerarchia per esercitare, per un fine spirituale, alcune funzioni ecclesiastiche»; e il decreto AA 24: «La
188 Giangiacomo Sarzi Sartori

in quanto, in sostanza, si risolve in un rinvio alle disposizioni che con-


sentono o che vietano l’accesso dei laici ai singoli uffici e incarichi.
Al riguardo l’esortazione apostolica Christifideles laici, n. 23 pre-
cisa che
«quando la necessità o l’utilità della Chiesa lo esige, i pastori possono affida-
re ai fedeli laici, secondo le norme stabilite dal diritto universale, alcuni com-
piti che sono connessi con il loro proprio ministero di pastori, ma che non
esigono il carattere dell’Ordine».

Per comprendere i termini della questione è opportuno innanzi-


tutto osservare come, in linea di principio, nulla si oppone a che vi
siano uffici (officia) e incarichi (munera) di natura ecclesiastica ac-
cessibili ai laici. Il Codice prospetta, infatti, una nozione di ufficio piut-
tosto lata, definendolo come «qualunque incarico, costituito stabil-
mente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per
un fine spirituale» (can. 145). Ancora più ampio appare il significato
del termine munera che, nel can. 228 § 1, sembra indicare quei com-
piti che, non essendo costituiti stabilmente, si differenziano dagli uffi-
ci veri e propri. È ugualmente fuori discussione che non tutti gli uffici
e le funzioni ecclesiastiche possono essere esercitati dai laici, perché
molti di essi implicano l’esercizio del potere di ordine (can. 199, 6°)
e, quindi, sono riservati ai chierici in genere (can. 274 § 1) o più spe-
cificamente ai presbiteri – come quelli che importano la piena cura
d’anime, can. 150 – e ai vescovi, come la guida di una diocesi.
Molto meno agevole è invece determinare se sia consentito ai
laici ricoprire uffici e adempiere incarichi che comportino l’esercizio
del potere di governo dal momento che le prescrizioni del Codice in
materia non appaiono del tutto chiare e univoche. Alcune disposizio-
ni sembrano escludere questa eventualità. In particolare il can. 274
§ 1 afferma espressamente che solo i chierici possono ricoprire uffi-
ci il cui esercizio richieda il potere di governo e nello stesso senso si
pronuncia il can. 129, qualificando come «abili» a tale potere, che
nella Chiesa è di istituzione divina ed è chiamato anche potere di giu-
risdizione, «coloro che sono insigniti dell’ordine sacro» («Potestas re-
giminis [....] et etiam potestas iurisdictionis vocatur, [...] habiles sunt
qui ordine sacro sunt insigniti»).

gerarchia affida ai laici alcuni compiti, che sono più intimamente collegati con i doveri dei pastori, co-
me nell’esposizione della dottrina cristiana, in alcuni atti liturgici, nella cura delle anime. In forza di tale
missione, i laici, quanto nell’esercizio del loro compito, sono pienamente soggetti alla direzione supe-
riore ecclesiastica».
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 189

Alla luce di una interpretazione sistematica, tuttavia, queste nor-


me risultano assai meno categoriche di quanto possa apparire a una
prima lettura. Infatti, non solo il secondo paragrafo del can. 129 rico-
nosce che «i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto» nell’e-
sercizio del potere di governo, ma il can. 1421 § 2 consente che «an-
che dei fedeli laici siano costituiti giudici» ammettendoli, dunque, a
un ufficio che per definizione importa l’esercizio di una delle attività
proprie del potere di governo.
Articolate e approfondite argomentazioni provenienti da diver-
se parti si sono proposte di dimostrare come tutti questi canoni non
diano luogo ad antinomie, ma si armonizzino nell’unità della discipli-
na canonica. Ma è inevitabile riconoscere che il Legislatore si è tro-
vato di fronte a un problema molto dibattuto e difficilmente ricondu-
cibile a una soluzione univoca e organica; si è imbattuto in una que-
stione – come quella della potestà sacra e del suo esercizio nella
Chiesa – così annosa nella stessa storia del diritto canonico e della
teologia, che ha certamente costituito una delle maggiori difficoltà
incontrate anche nel processo di codificazione. Basti ricordare come
il gruppo dei consultori della Commissione codificatrice, all’inizio
dei lavori, proponga di riservare ai chierici gli uffici che importino
esercizio di potere di governo connesso con il potere di ordine; rico-
nosce espressamente che la formula è eccessivamente indetermina-
ta, ma ritiene possibile giungere a una maggior precisione solo
quando la suprema autorità della Chiesa stabilisca in che misura si
possano affidare ai laici funzioni autoritative 15. Questa impostazione,
adottata in via provvisoria, rimase invariata sino allo schema del
1980 provocando diverse e contrastanti critiche da parte dei membri
della Commissione allargata che nello schema del 1982 determinaro-
no le modifiche successivamente recepite nel testo promulgato. La
cautela dei consultori e le divergenze in seno alla Commissione non
devono sorprendere: il problema implica, come si sa, delicate que-
stioni di carattere teologico non ancora del tutto definite dal Magi-
stero, che concernono il rapporto tra il potere d’ordine e il potere di
governo e la stessa concezione della sacra potestas 16.

15
Communicationes 3 (1971) 195.
16
Le opinioni dei consultori e degli stessi membri della Commissione allargata circa tali questioni fu-
rono tutt’altro che unanimi come risulta dai verbali dei lavori che riportano le discussioni avvenute; si
veda in particolare Communicationes 14 (1982) 71-73 e 146-149; 16 (1984) 168-169. Sul tema della pote-
stà sacra nella Chiesa si veda J. BEYER, Dal Concilio al Codice. Il nuovo Codice e le istanze del Concilio
Vaticano II, Bologna 1984, pp. 55-65.
190 Giangiacomo Sarzi Sartori

Inoltre, non si debbono sottovalutare le conseguenze che pos-


sono derivare dall’attribuire ai laici compiti che sono normalmente
svolti dai chierici, anche qualora non implichino l’esercizio della
potestà. Al riguardo il Sinodo dei vescovi del 1987, pur esprimendo
apprezzamento per la «generosa disponibilità» di tanti laici, ha mes-
so in luce gli inconvenienti a cui un indiscriminato uso di questa fa-
coltà può dare luogo come
«la confusione e talvolta il livellamento tra il sacerdozio comune e il sacerdo-
zio ministeriale [...] la tendenza alla “clericalizzazione” dei fedeli laici e il ri-
schio di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a quella
fondata sul sacramento dell’Ordine» 17.

Tutta questa serie di questioni aperte esige ulteriori studi e ri-


flessioni come risulta anche dalla decisione di Giovanni Paolo II di
istituire una apposita commissione «per studiare in modo approfon-
dito i diversi problemi teologici, liturgici, giuridici e pastorali solleva-
ti dall’attuale fioritura di ministeri affidati ai fedeli laici» 18.
In ogni caso il Codice si preoccupa di precisare quali siano i do-
veri e i diritti dei laici chiamati a prestare, in modo permanente o
temporaneo, uno specifico servizio alla comunità ecclesiale. Dispo-
ne, infatti, che essi sono tenuti ad acquisire in modo adeguato la
«formazione richiesta per adempiere debitamenente il proprio incari-
co e per esercitarlo consapevolmente, assiduamente e diligentemen-
te» (can. 231 § 1). Riconosce, inoltre, il diritto a una «onesta remune-
razione» che consenta di provvedere decorosamente alle necessità
personali e familiari, esigendo che siano comunque garantite le pre-
stazioni della previdenza e della sicurezza sociali unitamente a quelle
dell’assistenza sanitaria (can. 231 § 2).

«...costituisca un sacerdote...
che sia il moderatore della cura pastorale»
Nel caso di affidamento di una partecipazione nell’esercizio del-
la cura pastorale di una parrocchia a persona priva del carattere sa-
cerdotale, il can. 517 § 2 stabilisce comunque che per le funzioni che
richiedono la potestas ordinis, e anche per la direzione del comune

17
Esortazione apostolica Christifideles laici (= CfL), n. 23.
18
CfL 23.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 191

lavoro, venga istituito un sacerdote moderatore, munito di tutte le po-


testà e le facoltà proprie del parroco.
Anche la figura di questo «moderatore della cura pastorale», co-
me dice il testo del Codice, è di nuova istituzione. La normativa la
prevede anche nel caso in cui una o più parrocchie siano affidate
contemporaneamente «in solido a più sacerdoti» e dispone che que-
sto avvenga «a condizione che uno di essi ne sia il moderatore nel-
l’esercizio della cura pastorale, tale cioè che diriga l’attività comune
e di essa risponda davanti al Vescovo» (can. 517 § 1). Il moderatore,
quindi, non è il parroco; tuttavia, ha responsabilità – e quindi vera
autorità – in ordine all’attività del gruppo di sacerdoti destinati a
compiere questa esperienza e alla direzione della stessa opera pasto-
rale comune. Proprio per questa responsabilità egli solo ha la rap-
presentanza giuridica della parrocchia o delle parrocchie affidate al
gruppo (can. 543 § 2, 3°). Analogamente, nel caso prospettato dal § 2
dello stesso canone, il moderatore, che non è il parroco ma ha la po-
testà e le facoltà tipiche del parroco, è deputato a svolgere un’«atti-
vità moderatrice» nella cura pastorale della parrocchia e, quindi, an-
che di coordinamento, di verifica e di promozione delle opere pasto-
rali affidate al diacono, o alle persone consacrate, o ai laici chiamati
dal vescovo a partecipare alla cura della comunità cristiana.
Il suo primo compito sarà, dunque, quello di vigilare sulla retta
conduzione delle opere e delle funzioni assegnate a questi fedeli
coinvolti in maniera diretta nella cura pastorale, e inoltre dovrà eser-
citare quelle funzioni necessarie alla vita parrocchiale e che richie-
dono essenzialmente che il ministro sia costituito nel sacramento
dell’ordine nel grado del presbiterato, quali la presidenza della cele-
brazione eucaristica, il sacramento della penitenza e quello dell’un-
zione degli infermi.
Si tratta, quindi, di una figura importante e di un ruolo indispen-
sabile anche in ordine all’esigenza di un riferimento unico e unitario
di cui le comunità hanno bisogno e che sentono profondamente so-
prattutto quando manca la presenza stabile del sacerdote-parroco.
Tuttavia, e in maniera significativa, il Codice non definisce il modera-
tore quale «pastore proprio» della parrocchia come invece si trova
nella disciplina che tratta della figura del parroco («Parochus est pa-
stor proprius paroeciae», can. 519). Anzi, dagli atti del gruppo di e-
sperti che nella riforma del Codice si occuparono del De populo Dei,
nell’aprile del 1980, fu cancellata la definizione del sacerdote-mode-
ratore con facoltà di parroco come «pastore proprio» della parroc-
192 Giangiacomo Sarzi Sartori

chia contenuta nello Schema del 1977, «per non ridurre eccessiva-
mente la portata di questa nuova figura né coartare troppo l’ambito
di competenza di questi incaricati» 19.

Conclusioni
L’esame della disciplina ecclesiale, al di là delle condizioni e dei
vincoli che giustamente pone per l’esatta comprensione dei ministe-
ri, delle funzioni e degli uffici ecclesiastici e per il loro corretto eser-
cizio a vantaggio del popolo cristiano, fa rilevare l’importanza del fat-
to che, a norma del diritto, oggi sia possibile e, in certe circostanze
persino doveroso, affidare una partecipazione della cura pastorale
delle parrocchie a persone che non sono sacerdoti.
Si parla di «cura pastorale» e non soltanto di qualche servizio u-
tile, ma secondario o contingente; e si parla di «partecipazione nel-
l’esercizio» di un ministero che è proprio del sacerdote chiamato a
essere il «pastore proprio» di una comunità parrocchiale e, quindi, di
una responsabilità apostolica assai significativa.
Già questa considerazione dà rilievo al dettato del Codice che,
riprendendo il magistero del Vaticano II, accentua l’impegno – il di-
ritto-dovere – di un maggior coinvolgimento e di una più matura par-
tecipazione di tutti i christifideles all’esperienza ecclesiale e all’opera
evangelizzatrice di tutta la comunità dei fedeli, in una Chiesa che de-
ve vivere più profondamente la sua dimensione comunionale ed e-
sprimere in maniera più trasparente ed efficace la sua interna e in-
trinseca dinamica ministeriale.
Dunque, anche se a partire dalla norma canonica l’eccezionalità
del caso sembra motivata in modo esclusivo dalla penuria di sacer-
doti; nonostante si tratti di una soluzione piuttosto contingente nella
quale si sceglie per necessità; e pur constatando che la possibilità
suggerita dalla disciplina risolve solo parzialmente il problema, poi-
ché escluso l’esercizio di potestà derivanti dal presbiterato, si esten-
de solo ad aspetti riconducibili alla normativa sui diaconi e sui laici,
va rilevato che il Codice intende sottolineare l’urgenza di un contri-
buto alla vita ecclesiale che nel tempo attuale può e deve provenire
non solo dai ministri sacri, bensì da ogni battezzato, dalle diverse vo-
cazioni e carismi e dai molti ministeri esercitabili nella Chiesa a sua
edificazione e, con la Chiesa, per la vita del mondo.

19
Communicationes 13 (1981) 149.
La cura pastorale della parrocchia non affidata al sacerdote 193

Anche attraverso le indicazioni del can. 517 § 2 emerge il valore


e la concretezza delle enunciazioni fatte a proposito dei diritti-doveri
fondamentali di ogni cristiano, in particolare quelle sancite dal can.
210 dove si dichiara che
«tutti i fedeli, secondo la propria condizione e le proprie possibilità, debbono
dedicare le proprie energie al fine di condurre una vita santa e di promuove-
re la crescita della Chiesa e la sua continua santificazione»;

e dal can. 211 dove si sostiene che


«tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l’annuncio divi-
no della salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini...».

Dunque, se da una lato è necessario – come ha auspicato l’as-


semblea sinodale del 1987 – che sia espressa con chiarezza, anche
servendosi di una terminologia più corretta, l’unità di missione della
Chiesa – alla quale partecipano tutti i battezzati – e insieme l’essen-
ziale diversità di ministero dei pastori, radicato nel sacramento del-
l’ordine, rispetto agli altri ministeri, uffici e funzioni ecclesiali, che
sono radicati nei sacramenti del battesimo e della confermazione;
per altro verso oggi va curata e incoraggiata la partecipazione dei fe-
deli – soprattutto dei laici – alla vita della Chiesa-Comunione 20 e va
sollecitata la loro corresponsabilità nella Chiesa-Missione 21 per rea-
lizzare una unità organica in cui diversità e complementarietà «delle
vocazioni e condizioni di vita, dei ministeri, dei carismi e delle re-
sponsabilità» si armonizzano e portano frutto. «Grazie a questa di-
versità e complementarietà ogni fedele [...] si trova in relazione con
tutto il corpo e a esso offre il suo proprio contributo» 22.
Certo, accanto all’urgenza di un maggior coinvolgimento dei
christifideles che non sono sacerdoti nell’impegno effettivo della cor-
responsabilità ecclesiale anche con incarichi formalmente affidati
dal vescovo, rimane quanto mai viva e sempre più impellente l’esi-
genza di un’adeguata formazione dei cristiani e delle comunità a in-
teriorizzare la visione comunionale della Chiesa in tutte le sue di-
mensioni dottrinali e operative, per compiere una reale esperienza di
corresponsabilità missionaria; e resta quanto mai grave il bisogno di

20
Cf CfL II, 18-31.
21
CfL III, 32-44
22
CfL, 20.
194 Giangiacomo Sarzi Sartori

attivare e approfondire quella che si potrebbe chiamare una “peda-


gogia della cura pastorale” sia in coloro che sono chiamati a servizi
particolari di partecipazione all’esercizio di tale “cura”, sia nelle co-
munità cristiane che devono farsi recettive, accoglienti, “disciplina-
te” e, a loro volta, corresponsabili nella conduzione della vita parroc-
chiale e dei suoi impegni pastorali.

GIANGIACOMO SARZI SARTORI


Piazza Sordello, 15
46100 Mantova
195

Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 195-208
Commento a un canone
Il momento della vacanza di un ufficio
conferito per un tempo determinato
o fino a una determinata età (can. 186)
di G. Paolo Montini

«Nel caso in cui un ufficio si perda per scadenza del termine di tempo stabi-
lito o per raggiunto limite di età, la perdita dell’ufficio ha effetto solamente
dal momento in cui è intimata per iscritto dall’autorità competente».

Il prescritto del can. 186 è nuovo. Nel Codice precedente non e-


sisteva esplicitamente una norma simile 1.
Il motivo di tale assenza era dovuto principalmente al fatto che
in quel Codice era raro il caso di uffici ecclesiastici conferiti ad tem-
pus definitum 2 e rarissimo nell’ordinamento canonico il caso di uffici
ecclesiastici da cui si decadeva al compimento di una certa età 3.
Che se poi si prescinde dal richiamo al diritto dei religiosi e ci
si riferisce solamente alla strutturazione gerarchica principale della
Chiesa, la previsione di uffici ecclesiastici ad tempus definitum o fino
a una certa età era praticamente inesistente.
Di questo si poteva avere riscontro nella stessa lettera del Codi-
ce piano-benedettino. Nel can. 183 § 1 si prevedeva infatti che la per-
dita dell’ufficio potesse avvenire anzitutto «per rinuncia, per privazio-
ne, per rimozione, per trasferimento» e da ultimo si menzionava «per
la scadenza di un termine di tempo prestabilito». Neppure c’era trac-
cia della menzione del raggiungimento di una certa età 4.
1
La normativa generale e in specie il can. 965 § 3 del CCEO concorda del tutto con la normativa del
CIC vigente.
2
Fra i rari casi si possono ricordare gli esaminatori sinodali, i giudici sinodali e i parroci consultori, che
«post decennium ab incepto munere vel etiam prius, adveniente nova Synodo, officio cadunt» (can. 387 § 1).
3
L’unico caso era costituito per gli Uditori Rotali, i quali, «appena iniziano il 75° anno di età, [...] cessa-
no dalle funzioni di Giudice» (art. 2 § 2 Nuove Norme del Tribunale della Sacra Romana Rota, 27 mag-
gio 1969).
4
Mancava pure la menzione della morte quale modo ordinario di perdita dell’ufficio, soprattutto se da-
to in perpetuo. La ragione dell’assenza è da ricollegare probabilmente al fatto che con la morte viene a
mancare lo stesso soggetto che può perdere l’ufficio.
196 G. Paolo Montini

Nel nostro Codice invece il canone parallelo (can. 184 § 1) pone


la scadenza del termine di tempo prestabilito come primo modo di
perdere l’ufficio ecclesiastico, seguito subito dal raggiungimento di
un’età giuridicamente stabilita, e poi i modi tradizionali: «rinuncia,
trasferimento, rimozione e privazione» 5.
Nel nostro Codice infatti sono diffusi e rilevanti i casi in cui uffi-
ci ecclesiastici sono conferiti ad tempus definitum o cessano con il
raggiungimento di una certa età.
Nella prima serie sono da recensire 6:
– i vicari episcopali, se non sono vescovi ausiliari: «tantum ad
tempus, in ipso constitutionis actu determinandum» (cann. 477 § 1 e
481 § 1);
– i membri del Consiglio diocesano per gli affari economici:
«ad quinquennium» (can. 492 § 2);
– l’economo diocesano: «ad quinquennium» (can. 494 § 2);
– i membri del Consiglio presbiterale diocesano: «ad tempus, in
statutis determinatum» (can. 501 § 1);
– i membri del Collegio dei consultori: «ad quinquennium»
(can. 502 § 1);
– il Consiglio pastorale diocesano: «ad tempus, iuxta praescripta
statutorum» (can. 513 § 1);
– i parroci nominati «ad certum tempus», secondo il decreto del-
la Conferenza episcopale: can. 522 7;
– i vicari foranei: «ad certum tempus, iure particulari determina-
tum» (can. 554 § 2);
– i superiori di istituti religiosi (can. 624 § 1), di istituti secolari
(can. 717 § 1) e di società di vita apostolica (can. 734): «ad certum et
conveniens temporis spatium iuxta naturam et necessitatem instituti»;

5
Cf Communicationes 21 (1989) 227. Il mutamento di ordine è proposto esplicitamente, ma non moti-
vato.
6
Diamo qui di seguito un elenco dei principali uffici conferiti ad tempus definitum. Vi si potrebbe distin-
guere il caso di uffici conferiti nel contesto di organismi, consigli e istituti (che poi hanno autonomamen-
te una propria scadenza) e il caso di conferimenti di uffici per un tempo non definito in anni, giorni e me-
si, ma, per esempio, con riferimento a eventi futuri (cf, per esempio, il commissario designato dall’auto-
rità ecclesiastica moderatore di una associazione pubblica per gravi ragioni [can. 318 § 1]; i membri del
Consiglio della Segreteria del Sinodo dei vescovi: fino all’inizio della successiva Assemblea [can. 348
§ 1]; i segretari speciali di un’Assemblea del Sinodo dei vescovi: fino alla fine della medesima Assemblea
[can. 348 § 2]) o in diretta connessione con altri uffici (cf uffici conferiti durante munere).
7
Cf G.P. MONTINI, Il presupposto della nomina del parroco e la permanenza nell’ufficio, in La parroc-
chia, Città del Vaticano, di prossima pubblicazione. In questo lavoro si trovano molti riferimenti alla
problematica e all’interpretazione del can. 186.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 197

– il vicario giudiziale, i vicari giudiziali aggiunti e i giudici: «ad


definitum tempus» (can. 1422)8;
– i Prefetti, i Presidenti, i Membri, i Segretari, i rimanenti Offi-
ciali maggiori e i Consultori dei Dicasteri della Curia Romana: «ad
quinquennium» (art. 5 § 1 della Costituzione Apostolica Pastor bonus
[PB] sulla Curia Romana, 28 giugno 1988; art. 11 § 2 Regolamento
Generale della Curia Romana 9, 4 febbraio 1992).

Nell’altra serie sono da recensire 10:


– i Giudici del Tribunale Apostolico della Rota Romana: «vix at-
tigerint septuagesimum quintum aetatis annum [= al compimento del
74° anno]» (art. 3 § 2 Normae Rotales, 7 febbraio 1994);
– il Decano del Tribunale Apostolico della Rota Romana: «exple-
to septuagesimo quinto aetatis anno» (art. 3 § 3 Normae Rotales);
– i Capi di Dicasteri della Curia Romana (se non cardinali), i Se-
gretari e quanti sono a essi equiparati: «expleto septuagesimo quinto
aetatis anno» (PB 5 § 2; art. 43 § 2 Regolamento Generale della Curia
Romana);
– i Sottosegretari ed equiparati nonché gli Officiali: «al compi-
mento del settantesimo anno di età» (art. 43 §§ 5-6 Regolamento Ge-
nerale della Curia Romana);
– i Cardinali Prefetti, Presidenti o comunque Capi di Dicasteri
della Curia Romana o di altri Istituti della Santa Sede e dello Stato
della Città del Vaticano, come pure i loro Membri: «octogesimo anno
expleto» (art. 5 § 2 PB);
– i laici nella Curia Romana: «al compimento del sessantacin-
quesimo anno di età» (art. 43 § 6 Regolamento Generale della Curia
Romana).

Non rientra assolutamente in questa seconda serie di casi il rag-


giungimento di un’età in cui la legge preveda solo l’invito a presenta-

8
Attiene a un altro argomento e riguarda altri principi giuridici la questione se un giudice, cessato dal-
l’ufficio e intimatagli anche tale cessazione, possa continuare a trattare le cause in corso al momen-
to della cessazione dall’ufficio pronunciando la sentenza. Cf al riguardo, e con parere affermativo,
J.M. PINTO GOMEZ, La giurisdizione, in AA.VV., Il processo matrimoniale canonico. Nuova edizione rive-
duta e ampliata, a cura di P.A. Bonnet - C. Gullo, Città del Vaticano 1994, p. 131.
9
Il Regolamento Generale della Curia Romana riferisce all’art. 11 § 3 il prescritto del can. 186: «La ces-
sazione dall’ufficio, però, ha effetto soltanto dal momento in cui è comunicata per iscritto dalla compe-
tente autorità» (cf pure il richiamo nell’art. 43 § 7).
10
La questione del limite di età è stata distinta nella redazione finale del testo del Codice dalla questio-
ne dell’attribuzione del titolo di «emerito» (cf can. 185).
198 G. Paolo Montini

re rinuncia (cf cann. 401 § 1 [Vescovi diocesani]; 411 [Vescovi coa-


diutori e ausiliari]; 538 § 3 [Parroci]; 354 [Cardinali preposti a Dica-
steri della Curia Romana]) 11.

Le ragioni di questa scelta del legislatore canonico non costitui-


scono oggetto del presente studio, ma certamente si possono far risa-
lire e all’esigenza di una maggiore flessibilità nell’utilizzo delle scarse
risorse di persone nella Chiesa e all’odierna esigenza di una maggio-
re creatività ed efficenza in ogni ambito pastorale e alla influenza del
diritto civile statale che, conoscendo quasi esclusivamente cariche e-
lettive, è sfociato quasi sempre in cariche ad tempus definitum.

Questa nuova situazione ha creato però una nuova, peculiare e


ovvia preoccupazione nell’ordinamento canonico: impedire che si ve-
rifichino delle discontinuità nella titolarità dell’ufficio e, soprattutto,
nel suo svolgimento. Ciò infatti potrebbe accadere se alla scadenza
di un determinato periodo o al raggiungimento di una certa età non
si prestasse attenzione alla nomina del nuovo titolare dell’ufficio.
Ciò potrebbe oggi accadere con maggiore frequenza e pericolo
sia per il fatto che tali durate limitate degli uffici si vanno diffonden-
do e moltiplicando, sia perché tali modi di cessare dall’ufficio non so-
no di per se stessi comunicati o noti o avvertiti dall’autorità compe-
tente alla nomina all’ufficio 12, come lo erano invece i modi tradiziona-
li di cessare all’ufficio: oltre alla morte, fatto di notevole rilevanza
esteriore e normato dettagliatamente nella vacanza seguente, la ri-
nuncia richiedeva normalmente l’accettazione da parte del superiore
e il trasferimento, la rimozione e la privazione erano atti dello stesso
superiore.

11
Cf, per esempio, il can. 538 ove non è recensito, fra i modi con cui si cessa dall’ufficio di parroco, il
raggiungimento né del settantacinquesimo anno di età né di alcuna altra età. Sarà particolarmente pru-
dente pertanto scegliere nell’annuncio della vacanza della parrocchia dizioni che rispettino la natura
dell’atto giuridico (rinuncia) connesso con il raggiungimento del settantacinquesimo anno di età di un
parroco. Non si potrà pertanto annunciare «la vacanza della parrocchia [...] per raggiunti limiti di età
del parroco».
Più corretta la dizione usata da L’Osservatore Romano che, nel caso di vescovi, si riferisce a «rinuncia
presentata in conformità al can. 401 § 1».
12
È probabilmente da comprendere in questa linea l’osservazione del Segretario della Commissione
per la Riforma del Codice: «Cessatio ab officio non venit expletione aetatis sed per auctoritatis actum»
(Communicationes 23 [1991] 263). Infatti anche nell’automaticità della cessazione l’intervento dell’auto-
rità non è assente, dato che l’autorità ha stabilito tale termine e modo di cessazione. È però vero che è
opportuno che l’autorità si renda conto direttamente della cessazione dell’ufficio nel momento in cui
avviene.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 199

Potrebbe perciò accadere oggi con una certa frequenza che


l’autorità competente a provvedere, colpevolmente o incolpevolmen-
te, ignori la cessazione da un ufficio con il pericolo che un ufficio
non svolga le sue funzioni, con detrimento per il bene delle anime.
Per venire incontro a questa nuova problematica il Codice ha
previsto vari rimedi.
Si potrebbe pensare al nuovo prescritto del can. 153 § 2, che
permette la provvista di un ufficio, che per diritto è assegnato a tem-
po determinato, anche entro i sei mesi precedenti alla scadenza del
tempo determinato fissato per quell’ufficio, con effetto naturalmente
dal giorno della vacanza.
Senza questa esplicita previsione una siffatta provvista sarebbe
invalida né potrebbe in alcun modo sanarsi per la successiva vacanza
(cf can. 153 § 1).
Si potrebbe pensare al nuovo prescritto del can. 184 § 3:
«La perdita dell’ufficio, che abbia sortito effetto, sia comunicata quanto pri-
ma a tutti coloro cui competa un qualche diritto nella (successiva) provvista
di quell’ufficio» 13.

Il modo più efficace è però quello previsto appunto dal nuovo


prescritto del can. 186 che si commenta 14.
In esso si stabilisce che nel caso di un ufficio conferito per un
periodo determinato o fino a una data età, la perdita dell’ufficio non
abbia effetto, cioè non renda vacante l’ufficio 15, se non con la intima-
zione scritta da parte dell’autorità competente.

13
Il canone è stato introdotto senza peculiari motivazioni, quando ancora non era chiara e definita la
normativa del can. 186 (cf Communicationes 21 [1989] 227; 23 [1991] 262-263). Per quanto attiene al no-
stro scopo il canone non ha grande rilievo dal momento che, perché la perdita dell’ufficio abbia effetto,
dev’essere intimata dall’autorità competente, che perciò stesso sa e le è nota la vacanza. Il canone po-
trebbe rilevare più propriamente là dove il procedimento di provvista richieda l’intervento di più sog-
getti. Il suo parallelo nel CIC 1917 (can. 191 § 2) depone per quest’ultima lettura.
14
La scelta del legislatore canonico è stata preceduta, nell’opera di riforma del Codice, da non poche
incertezze. Mentre fin dall’inizio fu previsto un canone che rimandasse all’intimazione scritta della
competente autorità la cessazione dall’ufficio per raggiunti limiti di età (cf Communicationes 21 [1989]
228), non così fu per la cessazione dall’ufficio per la scadenza del termine di tempo stabilito. Per que-
st’ultimo caso si previde in un primo tempo, come «res minus odiosa» che «elapso hoc tempore officium
amittit(ur), nisi in eodem iam confirmatus fuerit» (cf ibid., 250). Era perciò prevista nel I Schema del
Codice una disparità di trattamento fra cessazione dell’ufficio per raggiunti limiti di età e cessazione
dall’ufficio per scadenza del termine di tempo stabilito.
Nel II Schema del Codice, dopo le osservazioni degli Organi di consultazione si giunse in Commissio-
ne alla proposta di un unico canone che trattasse congiuntamente dei due casi e attribuendo a essi la
medesima normativa (cf ibid., 23 [1991] 263).
15
Che la vacanza dell’ufficio sia l’effetto della perdita dell’ufficio, lo si desume esplicitamente dal con-
fronto dei canoni 150 § 1 e 183 § 1 del CIC 1917. Nel Codice vigente il significato è implicito.
200 G. Paolo Montini

Ciò significa che nulla muta nella titolarità, nel possesso e nel-
l’esercizio dell’ufficio né oggettivamente né soggettivamente tra la
scadenza temporale prevista o il raggiungimento dell’età determina-
ta e l’intimazione scritta da parte dell’autorità competente.
Per fare un esempio.
Il sacerdote che in una diocesi italiana sia stato nominato espli-
citamente a parroco di una certa parrocchia per il periodo di nove
anni, scaduti i nove anni, computati dalla data della bolla di nomina,
permane parroco a ogni effetto di quella parrocchia, finché non rice-
va dal vescovo diocesano l’intimazione scritta in cui si avverta che il
termine è scaduto.
Ne consegue che:
– il parroco non può lasciare di fatto l’ufficio il cui termine sia
scaduto, in quanto egli ne è parroco a tutti gli effetti, dovendo assol-
vere (o meglio: continuare ad assolvere) a tutti i doveri inerenti al-
l’ufficio e potendo godere di tutti i diritti direttamente e indiretta-
mente connessi con l’ufficio di parroco;
– il vescovo diocesano non può provvedere a quell’ufficio, per-
ché non è giuridicamente vacante 16;
– il parroco non è tenuto ad avvertire il vescovo diocesano della
scadenza imminente o oltrepassata;
– il vescovo diocesano non è tenuto a intimare al parroco la ces-
sazione per scadenza del termine di nove anni.
Abbiamo detto che, dopo la scadenza del termine o il raggiungi-
mento dell’età, il titolare dell’ufficio continua nell’ufficio fino alla inti-
mazione, a tutti gli effetti. Ciò non è completamente vero poiché una
differenza – e rilevante – esiste: egli diventa in realtà titolare dell’uf-
ficio rimuovibile ad nutum 17. Nel momento in cui l’autorità compe-

16
Pertanto si deve riconoscere al titolare dell’ufficio il cui limite di tempo sia già stato raggiunto, ma cui
non sia stato ancora intimato, la possibilità di ricorrere contro l’atto o decreto con cui l’autorità compe-
tente provveda al medesimo ufficio, nominandone un (altro) titolare: «Provisio officii de iure non vacan-
tis est ipso iure irrita [...]» (can. 153 § 1). Potrà chiedere la dichiarazione di invalidità della nomina.
Non preclude tale ricorso l’intimazione che segua eventualmente alla nomina che si impugna. Il titolare
con tale intimazione cessa dall’ufficio, ma non per questo viene sanata la nomina eseguita in preceden-
za: « [...] nec subsequenti vacatione convalescit» (can. 153 § 1).
Non preclude tale ricorso neppure la dichiarazione di invalidità della nomina e la riproposizione della
stessa nomina dopo la intimazione della scadenza del limite di tempo. Il ricorrente ha infatti il diritto di
vedersi comunque riconoscere la titolarità dell’ufficio fino alla intimazione. Dovrà certo dimostrarne
l’interesse (economico, morale, spirituale).
Cf al riguardo una Florentina (prot. n. 22099/90 C.A.) presso la Sectio Altera del Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica.
17
L’espressione «rimuovibile ad nutum» è imprecisa in quanto l’autorità competente, intervenendo
(anche tardivamente) nell’intimare, non rimuove, ma dà effetto alla cessazione dall’ufficio. Si tratta
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 201

tente gli vorrà intimare la cessazione del periodo prestabilito o il rag-


giungimento dell’età, fosse anche dopo mesi o anni dalla reale sca-
denza temporale del termine o dal reale compimento dell’età, egli
cesserà in quel momento dall’ufficio e questo sarà vacante.

Fra i metodi possibili, la scelta operata dal legislatore canonico


nel can. 186 ha inteso tutelare nel modo maggiore possibile (ed in
questo è riuscita) il bene delle anime, che richiede un ininterrotto e
sempre pieno esercizio degli uffici ecclesiastici, soprattutto quelli
con cura di anime 18.
Non è stato previsto nell’ordinamento giuridico canonico il regi-
me della prorogatio, intesa come periodo in cui il titolare dell’ufficio ha
poteri limitati in quanto è cessato il periodo comunque prestabilito 19.
Non si è ritenuto sufficiente nel caso il rimando alla normativa
sulla vacanza dell’ufficio, sia perché nel caso la vacanza non è facil-
mente percepita, data la semplice scadenza del termine, facilmente
inavvertita, sia perché nel periodo di sede vacante l’ufficio non può
essere svolto nella sua pienezza e per limiti posti da singole norme
positive e per limiti costituzionali generali (Sede vacante nihil inno-
vetur).
La scelta operata dal legislatore canonico nel can. 186 porta però
con sé un duplice svantaggio, inteso come possibilità di abuso. Da un
lato la pigrizia che può provocare nell’autorità competente a prov-
vedere 20, essendo comunque salvaguardato il bene pubblico dell’e-
sercizio pieno dell’ufficio anche dopo la scadenza naturale; dall’altro
la possibilità che, rimandando artificiosamente la intimazione della
cessazione del periodo o del raggiungimento dell’età, crei di fatto una
nuova situazione giuridica di uffici ad nutum originariamente confi-
gurati invece con una certa stabilità.

piuttosto della condizione in cui un titolare di un ufficio lo possiede potendo perderlo ad nutum dell’au-
torità competente.
18
Non esistendo tale problema ed essendo in contesto diverso, il prescritto del can. 186 non è ripetuto
per la cessazione della potestà delegata, che cessa automaticamente «elapso tempore» (can. 142 § 1),
pur con un’eccezione equitativa per il foro interno (cf can. 142 § 2).
19
Il permanere nel proprio ufficio, potendosi però occupare soltanto del governo ordinario o degli af-
fari ordinari è sì conosciuto dall’ordinamento canonico, ma per ipotesi molto limitate: cf, per esempio,
l’art. 44 §§ 2-3 Regolamento Generale della Curia Romana circa gli uffici di Camerlengo, Sostituto per
gli Affari Generali della Segreteria di Stato, Segretario di Dicasteri ed equiparati, nel periodo di sede
vacante.
20
Non essendo de iure vacante l’ufficio, l’autorità competente a provvedere non può essere dichiarata
nel caso né negligente né impedita (cf can. 155).
202 G. Paolo Montini

Alcune questioni particolari

Intimazione per iscritto


Per intimazione per iscritto si intende la consegna all’interessa-
to (nel caso, al titolare dell’ufficio), e pertanto pure la recezione da
parte del medesimo, del decreto dell’autorità competente, in cui si
comunica che è avvenuta la scadenza del termine di tempo definito o
il raggiungimento dell’età prestabilita.
È ad validitatem il prescritto secondo cui l’intimazione dev’es-
sere per iscritto?
Senz’altro no 21.
Infatti l’intimazione potrebbe avvenire anche in altre forme, se
si verificano le condizioni di cui ai canoni
– 55: «Se vi è una ragione gravissima per cui il testo del decreto
non sia consegnato». In questo caso il decreto si ha per intimato se
viene letto all’interessato di fronte a un notaio o a due testimoni e
viene redatto un verbale di quanto avvenuto, con la firma di tutti i
presenti;
– 56: se l’interessato, debitamente convocato a questo scopo, si
rifiuti senza giusta causa di comparire a ricevere o a sentir leggere il
decreto, oppure, comparso a ricevere o a sentir leggere il decreto,
non sottoscriva il relativo verbale. In questo caso il decreto si ha per
intimato.
Sarà sì illecito che l’autorità ricorra a queste forme senza che ri-
corrano le condizioni previste; ma non sarà invalido.
Lo stesso si dica del caso in cui l’autorità possa in altro modo
provare che l’intimazione sia comunque avvenuta e il momento, sen-
za però averla intimata per iscritto.
Potrebbe l’intimazione di cui al can. 186 coincidere (essere cioè
implicitamente o tacitamente o ipso facto contenuta) con un altro
provvedimento canonico che concerna la persona titolare dell’uffi-
cio, come, per esempio, la nomina a un (altro) ufficio?
In linea di principio non si riscontrano difficoltà, in quanto il
prescritto codiciale non richiede che l’intimazione sia esplicita e co-
stituisca oggetto proprio e unico di un atto dell’autorità competente.

21
Cf F.J. URRUTIA, Les normes générales. Commentaire des canons 1-203, Paris 1994, n. 895, p. 253;
V. DE PAOLIS, Il Libro primo del Codice: Norme generali, in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa. I. Il
diritto nella realtà umana e nella vita della Chiesa. Il Libro I del Codice: le Norme generali, a cura del
2
Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Roma 1988 , p. 424.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 203

In concreto però appare procedimento assai pericoloso, poiché


non sempre è chiaro quando un provvedimento canonico contenga
implicitamente la cessazione dall’ufficio precedentemente detenuto,
vista anche la nozione non sempre individuabile chiaramente di in-
compatibilità fra uffici (cf can. 152).
Per fare un esempio, nessuna difficoltà sorgerebbe se, dopo la
scadenza novennale di un parroco, al medesimo il vescovo inviasse
la nomina a un’altra parrocchia: in questo provvedimento di provvi-
sta sarebbe contenuta implicitamente la comunicazione della cessa-
zione dall’ufficio precedente 22.
Ma che pensare di un vicario episcopale che, dopo la scadenza
del termine di tempo del proprio ufficio, riceva la nomina a parroco?
L’assenza di una chiara incompatibilità fra i due uffici renderebbe in-
certo se è avvenuta o meno l’intimazione di cui al can. 186.
Ogni dubbio è bene che sia risolto inserendo nel provvedimen-
to successivo la menzione della cessazione dall’ufficio, la cui scaden-
za di tempo è già avvenuta.

L’intimazione non potrà che coincidere o seguire il termine del-


la scadenza del tempo definito o del raggiungimento di un’età presta-
bilita. Nel caso preceda si deve ritenere come non avvenuta e quindi
senza effetto, data la formulazione assoluta del can. 186.

In quale momento l’intimazione avviene per iscritto? Tale que-


stione è importante ai fini della fissazione del momento della vacan-
za dell’ufficio e perciò della validità della susseguente provvista.
È dovere dell’autorità competente provare quale sia questo mo-
mento.
Nel caso in cui la cessazione sia intimata per iscritto, farà fede
la data della ricevuta di ritorno della raccomandata con cui essa sarà
spedita.
Nel caso in cui sia stata intimata per iscritto nella forma del can.
55 o in un’altra forma similare, ma con verbale valido della intimazio-
ne, farà fede la data del verbale stesso.
Nel caso di cui al can. 56, farà fede la data del verbale all’uopo
sottoscritto.

22
Anche questo caso non è esente da incertezze là dove sia invalsa l’interpretazione giuridica secondo
cui non siano de se incompatibili due uffici parrocchiali. Questa interpretazione è sufficientemente dif-
fusa nel caso di parrocchie vicine di esigue dimensioni.
204 G. Paolo Montini

Non si vede ragione alcuna per cui si debba prescindere da tale


procedura nel caso in cui «l’ufficio sia rinnovato», ossia l’ufficio sia
conferito di nuovo alla stessa persona che era giunta al termine in ra-
gione della scadenza del termine di tempo definito. La provvista di
un ufficio non vacante è invalida, fosse anche la medesima persona
titolare a essere investita del medesimo ufficio.
Lo richiede l’assolutezza della formulazione dei canoni, come
pure la certezza del diritto e delle posizioni giuridiche soggettive.
Si potrebbe però ritenere, come si è detto sopra, che l’intimazio-
ne sia contenuta implicitamente nel decreto di (nuovo) conferimento
dell’ufficio, soprattutto se quest’ultimo decreto non ammette equivo-
ci di sorta sulla cessazione in quel momento dall’ufficio e dal conferi-
mento in quel medesimo momento dello stesso ufficio.

Autorità competente
L’autorità cui il canone si riferisce è quella competente a prov-
vedere all’ufficio, anzi a quell’ufficio, qualunque sia il titolo specifico
di competenza in quel caso specifico.
Non si tratta pertanto di una comunicazione da parte di un qual-
siasi organo, anche sovraordinato (Curia diocesana, cancelliere della
Curia diocesana, vicario episcopale, segretario ecc.): si tratta di una
comunicazione che crea la vacanza e dev’essere originata da quella
medesima autorità che è abilitata poi a provvedere.
Certamente potrebbe comunque darsi il caso che una pluralità
di autorità sia nel caso (cumulativamente) competente all’intimazio-
ne: se una pluralità di autorità è competente a provvedere (cf vesco-
vo diocesano e vicario generale con mandato speciale); se una perso-
na è delegata dall’autorità competente con delega a provvedere e/o a
intimare la cessazione dall’ufficio; se la cessazione e/o la provvista
sia atto complesso in cui intervengono più autorità (cf can. 682) 23.

Diritto-dovere all’intimazione
Per rispondere adeguatamente alla questione è necessario anzi-
tutto distinguere di quale ufficio si tratti.

23
Cf J.H. PROVOST, Canon 1984 [ma 184]. Due Process Against the Loss of a Limited Tenured Office
When the Predetermined Time Has Elapsed, in CANON LAW SOCIETY OF AMERICA, Roman Replies and CLSA
Advisory Opinions 1986, ed. W.A. Schumacher - J.J. Cuneo, Washington 1986, p. 54.
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 205

Nel caso in cui il limite di tempo per l’ufficio sia determinato


(legislativamente o amministrativamente) dalla stessa autorità che è
competente a provvedere, non si può avanzare da parte del titolare
alcun diritto all’intimazione e non si può affermare che esista alcun
dovere dell’autorità alla medesima intimazione.
Se, per esempio, il vescovo diocesano, personalmente, nella bolla
di nomina o nelle costituzioni sinodali, ponga un termine quinquenna-
le nell’ufficio di vicario parrocchiale, allo scadere del termine non può
il medesimo vicario esigere l’intimazione per uscire dalla precarietà
del possesso dell’ufficio in cui si trova dopo la scadenza e prima del-
l’intimazione. L’autorità competente all’intimazione è la stessa che è al-
l’origine della determinazione del tempo definito e perciò non è tenuta.
Nel caso invece in cui il termine di tempo sia definito dal diritto
universale o dal diritto particolare promulgato dall’autorità superio-
re, esiste nel titolare dell’ufficio un diritto tutelato all’intimazione che
ponga fine a uno stato in cui egli possiede l’ufficio, ma non nella for-
ma stabile in cui lo richiede l’ordinamento (cf almeno can. 193 § 2),
ma ad nutum.
Si pensi a un parroco che, nominato in Italia per nove anni, si
veda giungere all’undicesimo anno senza che alcuno gli abbia inti-
mato la scadenza novennale: è parroco, continua cioè a esserlo, ma
gli è sottratta la stabilità che l’ordinamento richiede e gli attribuisce.
Ha diritto a quella stabilità fungendo da parroco. Oppure, e meglio,
ha diritto alla cessazione di quello stato comunque anomalo 24.
L’eventuale ricorso presentato all’autorità competente secondo
la normativa propria del sistema canonico di giustizia amministrativa
potrà sortire una dichiarazione di illegittimità della mancata intima-
zione, fino a un’intimazione direttamente posta o dall’autorità supe-
riore a quella competente o dallo stesso Supremo Tribunale della Se-
gnatura Apostolica, adito nelle forme dovute.

24
Ciò non toglie che vi siano casi “ragionevoli” in cui l’autorità competente tergiversi per un certo tem-
po e ritardi nell’intimazione.
Ciò può avvenire quando la scadenza del termine di tempo dell’ufficio sia prossima al raggiungimento
del limite di età per il medesimo ufficio. Si pensi a un Officiale della Curia Romana il cui quinquennio
scada vicino al limite del settantacinquesimo anno di età. Non si dà questo per i parroci, per il fatto che
il settantacinquesimo anno di età non è e non può essere scadenza di termine temporale per l’ufficio di
parroco (cf l. cit.).
Ciò può avvenire quando l’autorità competente è prossima a una nomina del titolare dell’ufficio, la cui
scadenza temporale sia appena avvenuta.
Nel caso in cui si proceda a nomina ad tempus, nel cui spazio di tempo cada il raggiungimento del
limite di età, quest’ultimo limite prevale, tanto da essere menzionato nella stessa nomina ad tempus
(cf l. cit.).
206 G. Paolo Montini

Rinnovo automatico?
Alcuni autori hanno supposto che il trascorrere della scadenza
di tempo definito senza alcun atto dell’autorità competente potesse
comportare il rinnovo automatico del tempo definito e perciò del ti-
tolare nell’ufficio.
A volte tale supposizione è stata suffragata dall’esplicito cenno
che in alcuni testi normativi si rinviene alla rinnovabilità del termine
definito di tempo (cf, per esempio, cann. 492 § 2 e 494 § 2).
Tale supposizione però manca di ogni fondamento sia consi-
derando il can. 186, che rimarrebbe contraddetto e senza ragione,
sia considerando il can. 153 § 2, che registra solo una possibilità e
non una necessità («fieri potest») di una provvista precedente alla
scadenza.
Ben diverso è il caso in cui chi ha dal diritto universale potere
normativo nella determinazione del tempo definito per un ufficio,
stabilisca o un rinnovo automatico o una prorogazione del tempo de-
finito per un tempo definito in modo diverso 25.

Tempo prestabilito: quale?


Quando il Codice tratta di «tempus praefinitum» o di «tempus de-
terminatum» si riferisce solo agli uffici conferiti per un numero pre-
stabilito di anni, mesi, giorni oppure intende riferirsi pure a quegli
uffici che sono determinati nel tempo da fatti certi, ancorché futuri e
non precisamente collocabili in un giorno, mese, anno nel momento
del conferimento dell’ufficio?
Da una esegesi comparata dei cann. 153 § 2 e 186, mi pare si
possa concludere che la normativa del Codice attiene solo agli uffici
il cui tempo sia determinato dal diritto (universale o particolare) e
pertanto in modo certo e definito.

25
È il caso, per esempio, della Conferenza episcopale francese che esplicitamente prevede il regime di
prorogazione per la nomina dei parroci ad tempus (cf can. 522) e ne spiega la natura: «Prorogation veut
dire prolongement de durée sans obligation de renouvellement pour une durée égale au premier mandat».
Questa norma si distingue dal ritardo nella intimazione del raggiungimento del termine per il fatto che
nel periodo della prorogazione l’ufficio del parroco gode di stabilità.
È il caso del decreto della Conferenza episcopale portoghese nello stesso contesto normativo: «Tal no-
meaçao será renovada automaticamente por um novo sexénio e assim sucessivamente, sempre que o Bi-
spo, para o bem das almas, nao determinar expressamente o contrário, pelo menos dois meses antes de se
perfezar o prazo».
Il momento della vacanza di un ufficio (can. 186) 207

Rapporto fra il can. 153 § 2 e il can. 186


Ci sono due difficoltà principali di coordinamento coerente fra
questi due canoni.
La prima attiene alla definizione del momento della vacanza di
cui al can. 153 § 2. È infatti da questo momento che ha effetto la
provvista effettuata entro sei mesi prima della scadenza di tempo de-
terminato dal diritto.
Ma si tratta del momento della reale scadenza del tempo defini-
to oppure del momento di cui al can. 186, cioè dell’intimazione?
Con un esempio si potrà essere più chiari.
Un sacerdote è stato nominato parroco il 1° gennaio 1990 per
nove anni, secondo la possibilità prevista dal decreto della Conferen-
za episcopale italiana. La scadenza del tempo definito è al 1° gennaio
1999.
Il vescovo diocesano si attiva tre mesi prima (il 1° ottobre 1998)
per provvedere alla parrocchia ed emana la bolla di nomina di un
nuovo parroco (questa volta nominato a tempo indefinito) in data 22
ottobre 1998.
Quest’ultimo nuovo parroco sarà parroco dal 2 gennaio 1999
(primo giorno di vacanza della parrocchia, prendendo come riferi-
mento la scadenza naturale del termine) oppure dal giorno in cui il
vescovo intimerà, a norma del can. 186, la scadenza avvenuta del pe-
riodo di nove anni al primo parroco?
A mio avviso la ratio legis fa deporre per la prima interpretazio-
ne 26. Nel caso infatti non esiste il pericolo cui intende ovviare il can.
186: l’interruzione nella titolarità e nell’esercizio dell’ufficio.
L’altra attiene all’interpretazione dell’«hoc tempus» di cui al can.
153 § 2.
Da parte di alcuni autori si è sostenuta una tesi di questo tenore.
Poiché il can. 153 § 2 dà la possibilità di provvedere entro sei mesi pri-
ma della scadenza del termine di tempo definito, tale possibilità do-

26
L’iter stesso della codificazione sembra deporre per questa interpretazione. Il I Schema del Codice,
infatti, affermava esplicitamente che tale provvista avrebbe avuto effetto «expleto hoc tempore» (cf Com-
municationes 21 [1989] 213). Il mutamento avvenuto nella discussione delle osservazioni pervenute da-
gli Organi di consultazione («Probatur textus, mutato [...] “expleto hoc tempore” cum “a die vacationis”»)
non intende mutare il significato del canone, ma solo rendere più chiaro che nel caso non si tratta di
una mera «praevia designatio» della persona all’ufficio, ma «de provisione quae effectum habet a die va-
cationis» (cf ibid., 23 [1991] 251).
È questa medesima interpretazione che soggiace poi al decreto della Conferenza episcopale portoghe-
se, di cui sopra, circa il rinnovo automatico dei parroci nel loro termine definito.
208 G. Paolo Montini

vrebbe valere anche nel caso in cui ci si trovi dopo la scadenza del ter-
mine e prima dell’intimazione (è il caso del can. 186). In tal modo la
provvista potrebbe sempre precedere l’intimazione, anche ritardata.
Credo che la lettera del can. 153 § 2 che si pone nella previsio-
ne dei sei mesi precedenti alla scadenza di questo tempo, cioè quello
determinato dal diritto, e non quello prolungato ope canonis 186,
non lasci spazio alla seconda interpretazione.

A mo’ di conclusione
La diffusione di nuovi termini di esercizio degli uffici ecclesia-
stici deve rendere attenti non solo alla corretta interpretazione so-
stanziale della novità legislativa, ma anche alla corretta interpretazio-
ne formale di una normativa cui non si è a tutt’oggi abituati. Entram-
be devono e possono concorrere all’unico vero bene delle anime
(salus animarum), naturalmente dei fedeli e dei pastori.

G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
Brescia
209
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 209-238
Il Diritto pubblico ecclesiastico:
una disciplina canonistica
tra passato e futuro. II
di Giuseppe M. Siviero

In un precedente articolo abbiamo illustrato per sommi capi la


storia e le caratteristiche scientifiche dello Ius publicum ecclesiasti-
cum 1. Come disciplina canonistica esso fu relativamente recente, tut-
tavia, dopo l’incerta fase iniziale del secolo XVIII, assunse alle soglie
del nostro secolo una matura e sofisticata veste scientifica. Il notevo-
le consenso che incontrò si può senz’altro accreditare all’autorevo-
lezza dei canonisti che la coltivarono, alle novità importanti che essa
apportava alla tradizionale dogmatica canonica, all’ambizione di nuo-
va sintesi teologico giuridica e allo spirito di raffinata apologia che
l’animava 2. Tra i due concili Vaticani, però, dopo aver toccato l’apice
del prestigio e della fortuna, lo Ius publicum ecclesiasticum si avviò
verso un repentino tramonto che ne portò ancor più alla luce le in-
sufficienze metodologiche ed epistemologiche, soprattutto di fronte
al progresso dell’ecclesiologia. Questo nostro secondo articolo, che
va a completare il precedente, illustra brevemente l’aggiornamento
tracciato dal Vaticano II, il magistero di Paolo VI e le prospettive at-
tuali del diritto pubblico ecclesiastico (DPE).

1
Cf Quaderni di diritto ecclesiale 3 (1993) 332-351.
2
«La sua novità sta nell’aver elaborato una disciplina giuridica nuova dal profilo metodologico rispetto
alla canonistica classica e di aver affrontato per la prima volta, nella parte dedicata allo ius publicum in-
ternum, il problema della natura del diritto della Chiesa, superando così lo status quaestionis medioeva-
le. [...] Tuttavia la connessione ultima tra Chiesa, società perfetta, e diritto ecclesiale è fatta dipendere
ultimamente non dalla struttura interna della Chiesa in quanto tale, ma volontaristicamente ed estrinse-
cisticamente dalla volontà di Cristo il quale avebbe voluto costituire la Chiesa sia come società perfetta
sia come società giuridica» (E. CORECCO, Teologia del Diritto canonico, in Nuovo Dizionario di Teologia,
[= NDT], Paoline, Cinisello Balsamo 1991, 1692).
210 Giuseppe M. Siviero

L’aggiornamento del Vaticano II: comunione e missione


Nella sostanza si può dire che il concilio Vaticano II abbia se-
gnato in modo netto il passaggio da un’ecclesiologia prevalentemen-
te giuridico-verticistica a un’ecclesiologia più teologico-comunionale
ed ecumenico-missionaria 3, realizzando in questo modo un grande
mutamento di prospettiva teorico-pratica e ipotizzando, infine, per
quanto concerne il diritto canonico, non tanto la sua sparizione dal-
l’orizzonte ecclesiale quanto piuttosto un’autentica metamorfosi: da
diritto della gerarchia a diritto del popolo di Dio. Questo obiettivo
sarà, fra l’altro, uno dei criteri informatori della nuova codificazione
latina promulgata nel 1983 4.
È necessario, a questo punto, rammentare il contesto remoto di
tali eventi. È ormai tesi comune che nel secondo millennio dell’era cri-
stiana si siano andate facendo sempre più pressanti le istanze di rifor-
ma della Chiesa. Infatti, dopo la scelta di sganciarsi dalla tradizione
giudaica, dopo la conseguente compenetrazione ideologica con l’am-
biente ellenistico e gli inediti problemi istituzionali che nascevano
dalla convivenza con l’impero romano e il suo ordine politico religio-
so, la Chiesa si ritrovò a godere di un nuovo status, attraverso il rico-
noscimento ufficiale maturato in epoca costantiniana che veniva a
sancire il sempre più ampio consenso di cui il movimento cristiano
godeva nella società. Poté così proseguire, in un clima di maggiore si-
curezza esterna ma anche di minore coesione interna, la lunga e pro-
blematica opera di cristianizzazione del mondo conosciuto. Al termi-
ne di questo processo, insieme ai risultati positivi della diffusione del
Vangelo si cominciò, tuttavia, a prendere coscienza piano piano anche
dei limiti e dei rischi incorsi. Tra questi emergeva soprattutto l’ecces-
siva mondanizzazione della Chiesa stessa a fronte dell’illusione di
avere costruito nella sua forma autentica e definitiva il regno di Cri-

3
«...una svolta radicale da operare nella concezione e nella prassi della Chiesa. Si tratta di passare da
un’ecclesiologia piramidale, gerarcologica, dove da Cristo si perviene ai battezzati per la visibile media-
zione gerarchica, a un’ecclesiologia di comunione, dove la dimensione pneumatologica è posta in pri-
mo piano, e lo Spirito è visto agire su tutta la comunità, per farne il corpo di Cristo, suscitando in essa
la molteplicità dei carismi, che si configurano poi nella varietà dei ministeri al servizio della crescita
della comunità stessa. La Chiesa intera viene così a essere pensata dinamicamente: essa non è stabilita
una volta per sempre e autosufficiente fino alla fine del tempo grazie all’istituzione gerarchica che a tut-
to provvede, ma è continuamente suscitata e rinnovata dalla fedeltà dello Spirito, che continua nella sto-
ria “per una non debole analogia” (LG 8) il mistero dell’Incarnazione» (B. FORTE, Le forme di concretiz-
zazione storica della chiesa [gerarchia-laicato-vita religiosa], in Credere oggi 28 [1985] 59).
4
Come tutti sanno lo stesso GIOVANNI PAOLO II, nella Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges
(25 gennaio 1983) con la quale promulgava il nuovo Codice definì il medesimo come «un grande sforzo
di tradurre in linguaggio canonistico [...] l’ecclesiologa conciliare».
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 211

sto in questo mondo, immaginandolo come metafora di grande poten-


za, anche umanamente dominante e vittoriosa. Cesaropapismo e pa-
pocesarismo furono le due massime espressioni della tensione ridut-
tiva cui era sottoposta l’utopia cristiana in simili frangenti. E se tutto
ciò non valse a distruggere del tutto la genuina testimonianza evan-
gelica le procurò tuttavia ingenti e perduranti oscuramenti. Molti fu-
rono d’altra parte anche i sintomi di un ritorno della vocazione eccle-
siale al di sopra e al di là di tanti altri compiti e interessi aggiuntivi di
carattere temporalistico: movimenti di religiosità popolare, correnti e-
litarie di spiritualità, attività missionarie degli ordini religiosi, perso-
nalità di santi e carismatici, grandi figure di pastori, voci critiche o di
sdegno mai del tutto sopite da comode condanne e censure, operazio-
ni laceranti ma assolutamente significative come la riforma luterana,
alcuni sinodi e concili che sporadicamente ma coraggiosamente met-
tevano a fuoco il tema del rinnovamento della Chiesa ecc.
Il sentimento forte della necessità di un più radicale rinnova-
mento, però, non si sarebbe forse mai del tutto fatto strada nella ge-
nerale coscienza ecclesiale se non vi fosse stato, oltre alla spinta in-
terna, un lungo e deciso processo esterno di emancipazione della sfe-
ra temporale dal dominio ecclesiastico, in modo tale da sfrondare di
molti fini secondi l’azione della Chiesa nel cuore del mondo moder-
no. Il distacco della cultura, del costume sociale, dell’economia e del-
la politica hanno convinto (e anche un po’ forzato) la coscienza della
Chiesa stessa della necessità di percorre vie diverse, come quella di
riscoprire l’antica ecclesiologia di comunione, più atta a significare la
natura della comunità cristiana, a semplificarne la vita, a ordinarne e
organizzarne l’azione a partire dalle realtà a essa più proprie (l’evan-
gelizzazione, il servizio, la testimonianza della carità, la profezia, il
fermento delle culture), a ripensarne il necessario confronto con il
mondo e la sua autonoma sfera in termini non di potere ma di fedeltà
a Dio e di servizio all’uomo 5.
Il contesto storico prossimo che ha preceduto l’evento del Vati-
cano II è invece quello della prima metà del Novecento, cioè di un pe-
riodo ricco sia di contraddizioni che di fermenti positivi che venivano
da più lontano e che esso portava a maturazione. La seconda metà

5
«Si tratta [...] di mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del Vangelo il mondo moder-
no [...], dare alla Chiesa la possibilità di contribuire più efficacemente alla soluzione dei problemi del-
l’età moderna»: così GIOVANNI XXIII nella Costituzione apostolica Humanae salutis (25 dicembre 1961)
con la quale indiceva il concilio Vaticano II, i cui documenti più importanti risulteranno non a caso im-
pastati di spirito giovanneo.
212 Giuseppe M. Siviero

del secolo manifesterà poi altre fasi di segno alterno che riguarderan-
no e segneranno l’attuazione del Concilio stesso e le vicende ecclesia-
li a noi contemporanee di cui ovviamente qui non parliamo. A livello
socioculturale e politico, dopo l’amarissima esperienza delle due guer-
re mondiali, muta il vecchio assetto politico europeo; cresce l’impor-
tanza delle relazioni internazionali e della diplomazia plurilaterale; si
affacciano nuovi soggetti alla ribalta della vita internazionale; si e-
spandono, nonostante tutte le spinte contrarie e il perdurare dei tota-
litarismi, i sistemi democratici e, in particolare, il modello-mito della
società e della democrazia statunitense; si diffonde l’industrializzazio-
ne; cresce globalmente l’economia e l’interdipendenza dei sistemi e-
conomici; declinano le certezze metafisiche e si affermano filosofie
centrate sull’uomo e sulla storia; si manifestano nuove esigenze di
partecipazione nella società; la secolarizzazione si può definire relati-
vamente vincente in larghi strati dei paesi occidentali; si diffondono
nuove rivendicazioni e istanze di liberazione dei popoli e dei soggetti
ecc. Perdura d’altra parte in quasi tutto il secolo un’incapacità quasi
strutturale dell’Occidente a uscire dalla propria visione eurocentrica
dell’uomo, del mondo e dei problemi, visione cui anche la Chiesa cat-
tolica e la sua migliore teologia molto spesso inconsciamente sog-
giacciono.
A livello intraecclesiale si nota il fiorire della ricerca teologica in
genere e degli studi biblici e patristici in particolare; le istanze di
riforma della liturgia; il movimento ecumenico; la problematica mis-
sionaria e i problemi che la missione e le missioni pongono alla Chie-
sa; l’indigenizzazione dell’episcopato nelle nuove Chiese; l’internazio-
nalizzazione di alcune istituzioni ecclesiastiche centrali come la diplo-
mazia pontificia e la curia vaticana; le aggregazioni laicali e il loro
apostolato; le nuove frontiere aperte dalla pastorale del lavoro, della
gioventù, delle aree urbane; la piena accettazione del principio della
laicità dello Stato da parte della cultura politica di ispirazione cattoli-
ca; il ripensamento delle vecchie teorie sui rapporti Chiesa-Stato; il
mutare lento ma certo dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti
del mondo e della modernità e altri fattori offrono alla Chiesa cattoli-
ca l’occasione di approfondire la conoscenza e la coscienza di sé e dei
suoi compiti, al fine di elaborare un nuovo grande progetto che la
possa portare con freschezza verso il terzo millennio.
Questo contesto per se stesso richiedeva e insieme favoriva –
poiché in certa misura ne offriva gli strumenti – una risposta globale
e coraggiosa da parte della Chiesa cattolica da esso fortemente in-
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 213

terpellata se non addirittura messa in discussione nelle sue sicurez-


ze istituzionali. Due intuizioni permisero ai padri del Vaticano II di
individuare l’approccio giusto per affrontare i numerosi problemi
che si palesavano sia sul versante della teoria sia sul versante della
prassi: la riscoperta delle fonti originali dell’esperienza cristiana e l’a-
pertura al molteplice mondo dell’umano in atteggiamento di dialogo
missionario. Da questa nuova prospettiva seguirono naturalmente
anche disagi e tensioni, ma soprattutto ne scaturì un grande benefi-
cio generale per l’impulso che ne ricevettero le discipline teologiche,
per il riorientamento della pastorale e per il risveglio dell’attività e-
vangelizzatrice in nuovi ambiti e forme. Tutto ciò acquistò il signifi-
cato di una vera maturazione, soprattutto perché si era preso atto ed
era stata affrontata la crisi interna della Chiesa e insieme la separa-
zione tra cultura-ethos contemporanei e Vangelo, e si era deciso di
perseguire organicamente lo scopo di rinnovare la Chiesa, affinché
Cristo fosse sempre più luce delle genti. Gli esiti finali di questa emi-
nente operazione di progettazione pastorale, a distanza di un tren-
tennio, non sono forse ancora adeguatamente misurabili; certo non
sono compiute tutte le intenzioni del Vaticano II e ciò, di per sé, ba-
sta a dirne l’ambizione.
Possiamo a questo punto elencare alcuni dati fra i più importan-
ti della riflessione conciliare nel campo dell’ecclesiologia e del DPE.
Essi sono: il nuovo approccio teologico-pastorale alle questioni che
riguardano la vita e la missione della Chiesa; la riqualificazione del
giuridico ecclesiale; la dottrina della collegialità episcopale; la valo-
rizzazione della figura e del ruolo dei fedeli laici; la riscoperta della
teologia della Chiesa particolare; la scelta ecumenica; la riformula-
zione della relazione con la comunità politica.

L’ approccio teologico pastorale


Si tratta con ogni probabilità della novità metodologicamente
più decisiva, quella che in un certo senso determina e qualifica tutte
le altre: pensare e costruire la Chiesa facendo leva su uno spunto
nettamente teologico e pastorale, che cioè riconosca la Chiesa stessa
come realtà tutta relativa al mistero di Dio e dell’Uomo rivelato in
Gesù Cristo. Essendo, nel suo mistero più profondo, promossa da
un’azione divina storico-salvifica, la Chiesa è chiamata a configurarsi,
ad assumere figura e forma, nel tempo e nello spazio dentro le diffe-
renti culture e linguaggi come un segno della salvezza che il Padre
214 Giuseppe M. Siviero

dona in Cristo all’umanità chiamata a vivere nello Spirito. Essa è per


ciò stesso un’entità dominata dal primato della fede, della pastorale,
della comunione e dell’evangelizzazione, cioè di dinamismi che pur
potendo-dovendo essere anche scientificamente studiati non offrono
criteri del tutto razionalmente dominabili. D’altronde l’azione della
Chiesa non può essere completamente soddisfatta nemmeno in ra-
gione del conseguimento di risultati empirici, pure attesi e importan-
ti, e certo una volta ottenuti non può da essi farsi catturare, in quanto
è azione che tende a un obiettivo, il regno di Dio, che non ha punto
d’arrivo assoluto dentro la storia perché di ogni vicenda storica è
istanza critica. Così, se da un lato la missione è volta legittimamente
a piantare la Chiesa e le sue istituzioni, dall’altro è ancor più volta a
disseminare gratuitamente e disinteressatamente il Vangelo come
annuncio e testimonianza a tutti del primato dell’amore nel farsi
prossimo di Dio al mondo dell’uomo. Di qui lo sforzo che il Concilio
intraprende al fine di tradurre la nuova comprensione della realtà sa-
cramentale della Chiesa in un ordinamento di vita e di azione pasto-
rale decisamente interessato alla vicenda mondana, ma altrettanto
decisamente scevro da interessi temporalistici, per evidenziare
quanto più possibile l’essenziale dell’esperienza cristiana che essa in-
tende comunicare agli uomini 6.
Pur essendo perciò possibile, e anzi legittimo e doveroso, stu-
diare la Chiesa e interpretarne l’azione da vari punti di vista, si deve
riconoscere che l’intelligenza meno inadeguata che di essa si può
pretendere è quella teologica. La teologia, scienza della fede radicata
nella rivelazione, apre la fede stessa alla conoscenza critico-sapien-
ziale tipica della maturità dell’uomo credente, a servizio di una più
consapevole e autentica vita di carità. Essa, per assolvere al compito
di illuminazione che appare necessario nell’attuale frangente della
storia della Chiesa, deve sempre più approfondire lo studio delle fon-
ti; deve poi precisare, articolare e integrare la propria metodologia;
deve infine rinnovare e ampliare i propri riferimenti culturali 7.

6
«Singolare fenomeno: mentre la Chiesa, cercando di animare la sua interiore vitalità dello spirito del
Signore, si distingue e si stacca dalla società profana, in cui è immersa, viene al tempo stesso qualifi-
candosi come fermento vivificante e strumento di salvezza del mondo medesimo, e scoprendo e corro-
borando la sua vocazione missionaria, ch’è quanto dire la sua essenziale destinazione a fare dell’uma-
nità, in qualunque condizione essa si trovi, l’oggetto dell’appassionata sua missione evangelizzatrice».
(PAOLO VI, Discorso di apertura del secondo periodo del concilio [29 settembre 1963]).
7
Cf per esempio DV 24; GS 62; UR 4.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 215

La riqualificazione del giuridico ecclesiale

Nonostante manchi nei documenti conciliari una trattazione


specifica del diritto canonico, risulta chiaro, dal loro tenore comples-
sivo, che l’approccio teologico pastorale di per sé non significa affat-
to il misconoscimento o l’avvilimento della dimensione giuridica ec-
clesiale, ma semmai la ricomprensione teologica e la riqualificazione
giuridica del “diritto” ecclesiale stesso la cui estensione semantica
ed ermeneutica supera, per sua natura, di gran lunga il concetto di
“legge” ecclesiastica. Perfino coloro che auspicavano l’abbandono
del diritto canonico si sentivano a ciò legittimati nella misura in cui
avevano buone ragioni per identificare il diritto della Chiesa con una
sua determinata espressione storica contaminata con l’ideologia sa-
crale del potere ecclesiastico. Il doveroso ristabilimento del primato
della dimensione teologica porta, invece, alla riaffermazione di un
senso nuovo del giuridico ecclesiale come dimensione dell’ecclesiologia
e, all’interno del giuridico ecclesiale stesso, di una funzione e di un
ruolo strumentale e mediativo della legge ecclesiastica nell’economia
pastorale della Chiesa. La stessa legge ecclesiastica, poi, va ormai
considerata non come appannaggio esclusivo e responsabilità assolu-
ta dell’ufficio di governo gerarchico, ma anche e soprattutto come
momento proprio al dinamismo comunitario del discernimento pasto-
rale. Essa appartiene al farsi della Chiesa come comunità di persone
il cui sensus fidei non può non essere in ogni cosa responsabilmente
valorizzato 8.
La dimensione giuridica ecclesiale è, quindi, riconosciuta parte-
cipe-relativa alle dimensioni ecclesiali costituive della parola, del sa-
cramento, del carisma/ministero, della comunione/missione eccle-
siale, al servizio delle quali si pone e il servizio delle quali regola. Il
mandato che l’assemblea conciliare consegna agli studiosi, infatti, è
che «nell’esposizione del diritto canonico [...] si tenga presente il mi-
stero della chiesa, secondo la costituzione dogmatica De ecclesia pro-
mulgata da questo S. Sinodo» 9.

8
«Nella formulazione delle leggi sarà nostro dovere promuovere il dialogo il più ampio possibile, così
da leggere e interpretare insieme, sotto la guida dello Spirito, il disegno di Dio sulla vita delle nostre
comunità. Siamo convinti che si debba arrivare alla promulgazione delle leggi e alle successive neces-
sarie modificazioni attraverso un cammino di comunione, assicurando sia la partecipazione attiva della
comunità, sia il servizio di guida e di governo dei pastori, a cui spetta deliberare». (CEI, Documento pa-
storale: Comunione, comunità e disciplina ecclesiale [1° gennaio 1989], n. 55).
9
OT 16.
216 Giuseppe M. Siviero

La collegialità episcopale
Il legame tra sacramentalità dell’ordine e collegialità episcopale
può essere considerato un progresso tra i più importanti della teolo-
gia conciliare: esso infatti chiarisce meglio di quanto non avesse fat-
to la dottrina precedente il ruolo cardine della figura del vescovo nel-
l’ordinamento della Chiesa cattolica 10. Il carisma istituzionale del
vescovo, infatti, non più compreso a partire dal concetto di giurisdi-
zione, cioè da un modello societario tipico del diritto pubblico statua-
le, quanto a partire dal sacramento, cioè da una genuina e originaria
dimensione ecclesiale, è portatore di una costitutiva corresponsabi-
lità nel servizio e perciò modifica sensibilmente lo schema verticisti-
co della Chiesa cattolica romana in uno schema più comunionale e
sinodale.
Ciò d’altra parte favorisce anche una visione meno formale e
più teologica e unitaria della sacra potestas, insieme a una effettiva
articolazione nell’esercizio del discernimento e delle responsabilità
pastorali, anche a livello di Chiesa locale. Sicché, tratta fuori dalle
secche dei modelli burocratico-temporalistici e radicata nel sacra-
mento e nel servizio ecclesiale, la leadership pastorale della comu-
nità cristiana risulta più comprensibile e accettabile nonché meglio
equipaggiata nel rispondere ai bisogni emergenti del popolo di Dio,
il cui futuro, per quanto sempre ricco di incognite, è tuttavia ben ra-
dicato nel solco della grande tradizione di origine apostolica e patri-
stica che sempre ha compreso la Chiesa come communio delle con-
crete comunità locali le quali, sotto la presidenza del vescovo, cele-
brano l’eucaristia, vivono la carità e testimoniano la fede 11.

La figura e il ruolo dei fedeli laici


Per quanto riguarda il laicato, determinante è il ricupero a mon-
te dell’immagine biblica della Chiesa popolo di Dio e, in essa, del pri-

10
Cf G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen Gentium, Milano 1982,
pp. 197-339.
11
In verità a un’analisi attenta non può sfuggire, insieme al grande fascino di un’ecclesiologia di
comunione centrata sul principo dell’unica eucaristia e sul ministero diretto del vescovo, la considera-
zione delle difficoltà che nascono qualora si voglia ribadire l’esemplare modello pastorale dei primi tre
secoli all’interno della assai più complessa struttura-prassi della Chiesa odierna nella ancor più com-
plessa società contemporanea. Cf al riguardo le osservazioni di S. DIANICH, sia nell’esposizione più si-
stematica della voce «Ministero», in NDT, cit., 889-914; sia nell’esposizione più giornalistica di un re-
cente articolo dal titolo Piccole o grandi diocesi?, in Vita pastorale 6 (1995) 32-33.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 217

mato della consacrazione battesimale 12. All’interno di questa nuova


considerazione della realtà della Chiesa il laico, che ne è la figura per
così dire normale e maggioritaria, riacquista necessariamente più va-
lore e ritrova una fisionomia propria, potendo essere considerato in
positivo per ciò che ha di proprio e non solo in negativo per ciò che,
rispetto alla gerarchia o ai religiosi, gli manca. I laici sono, infatti, in-
corporati a Cristo e costituiti popolo di Dio. In una loro misura origi-
nale sono resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale
di Cristo. La secolarità è il loro carattere proprio: spetta cioè pecu-
liarmente ai laici «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali
e ordinandole secondo Dio» 13. Essi sono chiamati da Dio nel mondo
«a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del
mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello
spirito evangelico, e in questo modo a rendere visibile Cristo agli altri, prin-
cipalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della
speranza e della carità» 14.

Ciononostante il Concilio non seppe cogliere l’occasione per va-


lorizzare fino in fondo la questione dei ministeri (anche laicali) in una
Chiesa che va sempre più autocomprendendosi come tutta ministe-
riale. Sarà compito della riflessione teologico-pastorale successiva
approfondire questo punto portando a maturazione i germi presenti
nella dottrina conciliare 15.

La teologia della Chiesa particolare


Nel Concilio vi sono anche esplicite premesse di una teologia
della Chiesa particolare, non ancora però uno sviluppo organico e
del tutto coerente di essa. La stessa terminologia usata è ancora va-
riabile e incerta. Nondimeno la sostanza teologica dei testi conciliari
e la loro rilevanza costituzionale dicono in modo inequivocabile l’ir-
reversibilità di tali acquisizioni 16. In uno di questi testi conciliari si af-
ferma infatti che

12
Cf LG 2 e 4.
13
LG 31.
14
LG 31.
15
Una panoramica introduttiva sull’argomento si trova in Credere oggi 2 (1988) intitolato Carismi e mi-
nisteri: cf in particolare il contributo di E.R. TURA, Per uno sfondo teologico dei ministeri, 45-57.
16
«L’ecclesiologia del Vaticano II, pur presentandosi globalmente come universalistica, in quanto sot-
tolinea soprattutto i fattori che ne assicurano l’unità e la missione a livello universale, tuttavia ha anche
218 Giuseppe M. Siviero

«nella comunione ecclesiastica, vi sono legittimamente delle Chiese partico-


lari, che godono di proprie tradizioni, rimanendo integro il primato della cat-
tedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale della carità, tute-
la le varietà legittime, e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non so-
lo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» 17.

La teologia conciliare della Chiesa particolare può essere ap-


prezzata anche sullo sfondo delle affermazioni circa la natura sacra-
mentale del ministero episcopale e della collegialità (vedi sopra) pro-
prio per le loro vicendevoli implicazioni. Così possiamo dire che i ve-
scovi
«singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nel-
le loro Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle
quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica» 18.

E proprio in virtù
«di questa cattolicità le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, di maniera che il tutto e le singole parti si accrescono con
l’apporto di tutte, che sono in comunione le une con le altre, e coi loro sforzi
verso la pienezza dell’unità» 19.

L’ecumenismo
L’ecumenismo non è solo un tema accanto agli altri, vale a dire
quello che si propone di richiamare il dovere di riconoscere gli erro-
ri, sanare le ferite, avviare una nuova “politica” ecclesiastica che miri
al ristabilimento dell’unità perduta fra i cristiani. Bensì è argomento
di tale pervasività da esigere una riconsiderazione di tutte le questio-
ni ecclesiologiche e anche pastorali in un orizzonte nuovo, quello ap-

attirato l’attenzione sui principi che costruiscono la Chiesa particolare (non solo riconoscendo la figura
e il ruolo del vescovo e del presbiterio, ma anche dando rilievo alla forza creatrice della parola viva e
dei sacramenti, soprattutto dell’eucaristia). [...] L’essenza della realtà della Chiesa è nell’azione di Cri-
sto e del suo Spirito, tramite la parola, i sacramenti e i ministeri-carismi, cui devono corrispondere la fe-
de e la carità attiva della comunità cristiana in tensione missionaria, e di testimonianza, rispetto al mon-
do. Se questo è la Chiesa, allora (senza rinnegare le condizioni di cammino ortodosso e unitario, di cui
sopra) essa sussiste realmente, e soprattutto, nelle comunità locali, nelle Chiese particolari. In esse, co-
me dice il Vaticano II, “vive l’unica chiesa di Cristo”. [...] La riconsiderazione teologica della Chiesa par-
ticolare e del suo relativo primato (entro i limiti sopra precisati) rispetto alla Chiesa intesa come fatto
universalistico, trae seco molti problemi d’ordine pratico (anche di riforma sul piano giuridico, discipli-
nare e pastorale)» (L. SARTORI, Chiesa, in NDT, cit., 163).
17
LG 13.
18
LG 23.
19
LG 13.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 219

punto ecumenico, che consideri i valori della verità, dell’unità, della


fede, del Vangelo ecc., non come possessi pacifici di qualcuno, ma co-
me pegni e appelli a intraprendere insieme percorsi di conversione a
Cristo, di comunione, di umanizzazione, di approfondimento della ve-
rità. Non è più possibile pensare e vivere la Chiesa senza tener conto
di questa fondamentale vocazione all’umile discepolato della verità
più grande che è Dio e che si manifesta nella varietà-unità che costi-
tuisce la Chiesa stessa sul modello trinitario.
«Questo è il sacro mistero dell’unità della Chiesa, in Cristo e per mezzo di
Cristo, mentre lo Spirito santo opera la varietà dei doni. Il supremo modello
e il principio di questo mistero è l’unità nella trinità delle persone di un solo
Dio Padre e Figlio nello Spirito santo» 20.

Il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, nel proemio,


afferma che «il ristabilimento dell’unità da promuoversi fra tutti i cri-
stiani è uno dei principali intenti del sacro concilio ecumenico Vatica-
no secondo». Perciò vanno anzitutto comprese con attenzione le ra-
gioni storiche che hanno prodotto guasti all’unità e all’espressione
armonica della varietà, liberandosi da pregiudizi e da facili semplifi-
cazioni. Infatti quelli «che ora nascono e sono istruiti nella fede di
Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di
separazione» 21. Inoltre quelli «che credono in Cristo e hanno ricevu-
to debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione,
sebbene imperfetta con la Chiesa cattolica» 22. In conclusione, nono-
stante le divisioni storiche e le differenze di interpretazione di alcuni
contenuti dottrinali, costoro
«giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono
a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della Chiesa cattolica sono
giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore» 23.

Perciò, «per ristabilire o conservare la comunione e l’unità biso-


gna “non imporre altro peso fuorché le cose necessarie” (At 15, 28)» 24.
Il decreto non manca di spiegare come l’ecumenismo interpelli anche

20
UR 2.
21
UR 3.
22
UR 3.
23
UR 3.
24
UR 18.
220 Giuseppe M. Siviero

i cristiani cattolici, la loro mentalità, il loro stile di vita, la loro etica ec-
clesiale:
«Nella Chiesa tutti [...] pur custodendo l’unità nelle cose necessarie, serbino
la debita libertà, in ogni cosa osservino la carità. Poichè agendo così, mani-
festeranno ogni giorno meglio la vera cattolicità e insieme l’apostolicità della
Chiesa» 25.

Poiché vi sono «questioni che riguardano la fede e la struttura


ecclesiastica» 26, i cattolici, da parte loro, devono anzitutto riconosce-
re che «esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cat-
tolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cri-
stiana» 27, e poi
«con sincerità e diligenza considerare ciò che deve essere rinnovato e fatto
nella stessa famiglia cattolica, affinché la sua vita renda una testimonianza
più fedele e più chiara della dottrina e delle istituzioni tramandate da Cristo
per mezzo degli apostoli» 28.

Non sono interpellati però solo i singoli fedeli ma anche la Chie-


sa cattolica in quanto tale, le sue strutture, la sua dimensione istitu-
zionale, il suo concreto ordinamento in quanto «la Chiesa pellegri-
nante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa
stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» 29.
Proprio questo anzi è l’obiettivo del Concilio.

La relazione con la comunità politica


Questa problematica è affrontata soprattutto nella Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes.
Al numero 76 di tale documento, dopo aver ribadito la necessità, in
una società pluralistica, di avere una giusta visione dei rapporti tra la
comunità politica e la Chiesa, si afferma:
«La Chiesa, che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessu-
na maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun siste-

25
UR 4.
26
UR 13.
27
UR 11.
28
UR 4.
29
UR 6.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 221

ma politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente


della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e
autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo di-
verso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse perso-
ne umane. Esse svolgeranno questo servizio a vantaggio di tutti, in maniera
tanto più efficace quanto meglio coltivano una sana cooperazione tra di loro
secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo».

In questo celebre testo sono enunciati in densissima formula-


zione alcuni punti di grande importanza teorico-pratica. Essi sono la
distinzione tra la Chiesa e la comunità politica; il principio di indipen-
denza e autonomia di ambedue, nei rispettivi ambiti; il principio di
sana cooperazione tra la Chiesa e la comunità politica; la dichiarazio-
ne-impegno di non legamento della Chiesa ad alcun sistema politico;
l’autocoscienza della Chiesa della propria vocazione a essere segno
e tutela della trascendenza della persona umana; il diritto-dovere del-
la Chiesa e della comunità politica di servire, sotto diversi titoli, alla
vocazione personale e sociale della persona umana.
Un altro importante testo conciliare, la dichiarazione sulla li-
bertà religiosa Dignitatis humanae afferma, al n. 13, che
«la libertà della Chiesa è un principio fondamentale nelle relazioni fra la
Chiesa e i poteri pubblici e tutto l’ordinamento civile [...] fra le cose che ap-
partengono al bene della Chiesa, anzi al bene della stessa città terrena, che
vanno ovunque e sempre conservate e difese da ogni violazione, la più im-
portante è certamente che la Chiesa goda di tanta libertà d’azione quanta ne
richiede la cura della salvezza degli uomini».

Più oltre, allo stesso numero, afferma anche che nella società
umana e dinanzi a qualsiasi potere pubblico, la Chiesa rivendica la
propria libertà in quanto è «autorità spirituale, costituita da Cristo Si-
gnore». A essa per mandato divino incombe l’obbligo di andare in
tutto il mondo e predicare il Vangelo a ogni creatura. Parimenti, la
Chiesa rivendica la propria libertà in quanto «è anche una società di
uomini», i quali hanno il diritto di vivere nella società civile secondo
le norme della fede cristiana. In sintesi, in questi passaggi della Di-
gnitatis humanae si proclama che la «libertas ecclesiae» è principio
fondamentale nella regolamentazione politico-pratica dei rapporti tra
la Chiesa e la comunità politica; che la Chiesa ha perfino un doppio
titolo per rivendicare tale libertà: in quanto autorità religiosa e in
quanto società di uomini; che tale libertà di agire è misurata quanti-
tativamente e qualitativamente dal criterio della salus hominum.
222 Giuseppe M. Siviero

L’insegnamento di Paolo VI: ripensare e rinnovare la Chiesa


Al fine di comprendere la Chiesa che si va configurando nei no-
stri tempi è necessario studiare anche il Magistero e l’attività dei pa-
pi. La figura del vescovo di Roma, infatti, occupa nell’ordinamento
della Chiesa cattolica un posto di primo piano, non solo primaziale
ma anche potestativo. Inoltre, in essa convergono e su di essa pesa-
no tali e tante attese e dinamiche di tipo simbolico e rappresentativo
che la parola e l’azione del papa si impogono da sé come oggetto che
necessita di essere studiato e interpretato.
In particolare, quello di Paolo VI può essere considerato il pri-
mo e più emblematico caso di pontificato in evidente e sostanziale
continuità storico-critica con il Vaticano II, per l’importante ruolo di
ispirazione (pur se di diverso peso e stile rispetto a quella giovan-
nea), di gestione e applicazione che papa Montini vi ha giocato 30.
La Chiesa, considerata sia in quanto realtà viva sia in quanto te-
ma di meditazione e di Magistero, ci appare, infatti, come la vera pas-
sione di Paolo VI; e se non l’unico è certamente l’interesse centrale
della sua vita, la vera chiave di lettura della sua esperienza pastorale,
diplomatica e pontificale 31. Egli stesso può essere considerato a ragio-
ne come uno tra i più autorevoli commentatori-catechisti-diffusori
delle idee conciliari, soprattutto per quanto riguarda l’insegnamento
ecclesiologico. Infatti, in Paolo VI ritroviamo più che un’ecclesiologia
originale, la cui elaborazione non figura tra i compiti di un papa, una
sorta di catechesi sistematica dell’ecclesiologia conciliare, filtrata at-

30
La questione dei rapporti intercorsi tra Paolo VI e il Concilio e il loro vicendevole influsso è stata
trattata nel Colloquio internazionale su Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio (Brescia, 19-21
settembre 1986). Le relazioni hanno sviscerato numerosi punti: Paolo VI e la ripresa del concilio (G.
MARTINA); L’azione direttiva di Paolo VI nei periodi II e III del concilio (R. AUBERT - V. CARBONE); Les in-
terventions de Paul VI dans la préparation de Lumen Gentium (A. PRIGNON - C. TROISFONTAINES - L. DE-
CLERK); Paul VI et l’ecclésiologie de Lumen gentium (J.P. TORREL). G. COLOMBO, nel Colloquio internazio-
nale su Genesi, storia e significato dell’enciclica Ecclesiam suam (Roma 24-26 ottobre 1980) sostiene che
«anche per la Gaudium et Spes come per il decreto Unitatis Redintegratio è evidentemente impensabile
che il Concilio abbia espresso una dottrina diversa da quella della ES; più plausibile invece che la ES si
sia posta come oggettivo punto di riferimento per la dottrina del Concilio. In questa prospettiva si po-
trebbe dire che in ultima analisi il Concilio ha fagocitato la ES [...] Svolto il suo compito di offrire un ri-
ferimento al Concilio, se mai ne aveva bisogno, e qui occorre attendere il giudizio degli storici, essa ha
assolto la sua funzione» (in AA.VV, “Ecclesiam Suam”. Première Lettre Encyclique de Paul VI, Brescia
1982, p. 158).
31
Paolo VI tratta in particolare il tema “Chiesa” nei seguenti documenti e occasioni: Enciclica Eccle-
siam suam (1964); Discorsi tenuti al Concilio: in apertura/chiusura del II periodo (1963-1964); in aper-
tura/chiusura del III periodo (1964); nella 116° congregazione generale dei padri conciliari (1964); in
apertura del IV periodo (1965); nella settima e ottava sessione (1965); nella solenne conclusione (8 di-
cembre 1965); Udienze generali del mercoledì (in specie anni 1966-1972); Esortazione apostolica Evan-
gelii nuntiandi (1975).
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 223

traverso la sensibile personalità dello stesso pontefice 32. Egli ricono-


sce, anzitutto, al concilio Vaticano II il merito di aver affrontato il
compito di «ripensare la Chiesa» 33 in vista di un profondo rinnova-
mento che a partire dalla più genuina tradizione la portasse a meglio
servire gli uomini d’oggi. È perciò sua particolare convinzione che la
Chiesa debba in questo preciso momento della sua storia, sotto l’im-
pulso dello Spirito, ancora più approfondire e completare lo studio
(«coscienza» e «riflessione») di se stessa 34. E questo non già per un
malgiustificato neotrionfalismo ecclesiocentrico, quanto piuttosto per-
ché, essendo la Chiesa «quasi l’emanazione e la continuazione altret-
tanto terrena quanto misteriosa di Cristo» 35, studiare la Chiesa signi-
fica studiare Cristo nella sua salvifica presenza nel mondo d’oggi.

Il mistero della Chiesa


Tra le immagini e metafore biblico-teologiche utilizzate da Pao-
lo VI per illustrare il mistero della Chiesa, spiccano senz’altro gli ap-
pellativi di “corpo mistico”, “popolo di Dio”, “sposa di Cristo”. Nella
sua prima e forse più decisiva enciclica, l’Ecclesiam suam del 1964,
Paolo VI si richiama soprattutto alla teologia della Chiesa-mistero e
della Chiesa-corpo mistico: esse mantengono un notevole rilievo an-
che in tutto il successivo insegnamento. Invece nell’ultimo documen-
to di grande risonanza del suo pontificato, l’esortazione apostolica
Evangelii nuntiandi del 1975, Paolo VI fa riferimento prevalentemen-
te alla teologia della Chiesa sacramento di salvezza e della Chiesa
popolo di Dio: due nozioni che non appartenevano fino in fondo alla
sua formazione, ma che egli acquisisce dall’ecclesiologia conciliare
e, anche mediante l’aiuto di riflessione del Sinodo dei vescovi, inte-
gra felicemente nel suo Magistero. La teologia della Chiesa-sposa di

32
Alcune espressioni di Paolo VI, tra le moltissime, sono al riguardo veramente emblematiche: «La
Chiesa cattolica [...] forma il principale oggetto delle nostre cure, delle nostre sollecitudini, del nostro
amore e della nostra devozione» (al Concistoro unico, 28 aprile 1969); «La Chiesa! È essa il nostro amo-
re costante, la nostra sollecitudine primordiale, il nostro “pensiero fisso”!» (al Sacro Collegio, 21 giu-
gno 1976); «Un pensiero ci domina [...]: ed è il pensiero della Chiesa. Noi faremo bene a lasciare che
questo pensiero ci domini. Esso contiene molti segreti; segreti che ci riguardano» (Udienza generale,
22 giugno 1977); «Di che cosa possiamo, di che cosa dobbiamo parlarvi? Della Chiesa, ancora e sem-
pre della Chiesa! Prima di tutto perché tale è la nostra missione» (Udienza generale, 25 agosto 1977);
«E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica e apostolica, ricevi col mio benedi-
cente saluto il mio supremo atto d’amore» (Testamento, 16 settembre 1978).
33
Ecclesiam suam, in L’Osservatore Romano, 10-11 agosto 1964, 6.
34
Cf Discorso di apertura del II periodo del Concilio (29 settembre 1963).
35
Udienza generale (5 settembre 1973).
224 Giuseppe M. Siviero

Cristo, infine, non ebbe particolare consacrazione in nessuno dei


grandi documenti del pontificato montiniano, ma un ruolo del tutto
evidente e costante nel tempo e riscontrabile, per esempio, nei di-
scorsi delle udienze generali del mercoledì 36. A parte questi impor-
tanti titoli ecclesiologici, sono comunque innumerevoli i “nomi” della
Chiesa che si possono rintracciare nel suo Magistero. Essi rivelano
una percezione teologica profonda e aperta del mysterium ecclesiae,
tesa piuttosto a integrare che a escludere 37. Insieme a essi è ben do-
cumentata, nel Magistero montiniano, anche la lucida consapevolezza
dell’insolubile intreccio, insieme provvidenziale e problematico, che
sussiste tra la dimensione comunionale-spirituale-carismatica della
Chiesa, nella quale emerge soprattutto il diritto “divino”, derivato da
Gesù e più in generale dalla Rivelazione, e la dimensione comunita-
ria-societaria-istituzionale, nella quale molto più spazio assume il dirit-
to “umano”, derivato dalla tradizione ecclesiastica e da altri influssi.
Dice Paolo VI che

36
Nei più significativi discorsi di Paolo VI al Concilio, dal 1963 al 1965, si può rilevare a mo’ di campio-
ne la presenza di alcuni preminenti titoli ecclesiologici, come segue: “Ecclesia” (comprese le varianti
“Ecclesia Dei”, “Ecclesia Christi”, “Ecclesia Catholica”, “Sancta Ecclesia” ecc.) compare circa 300 volte;
“Corpus Mysticum” circa 16 volte; “Populus Dei” (con la variante “plebs Dei”) 11 volte; “Sponsa Christi” 5
volte; “Mysterium” (con la variante “arcana res”) 7 volte; “Societas” 7 volte; altri: 10 volte. G. COLOMBO
sostiene che «non si sbaglia se si afferma che, per quanto concerne la natura intima della Chiesa, l’ec-
clesiologia di Papa Montini è quella della Mystici Corporis. Conseguentemenete il passaggio, pur nella
continuità, all’ecclesiologia del “popolo di Dio”, ha costituito anche per lui un progresso...» (Genesi, sto-
ria e significato dell’“Ecclesiam Suam”, in AA.VV., “Ecclesiam Suam”..., cit., p. 142). E ancora: «L’eccle-
siologia della Ecclesiam Suam è la ecclesiologia della Mystici Corporis, però per l’aspetto innovatore,
cioè non in quanto identifica la Chiesa con l’aspetto visibile della Chiesa, ma in quanto ne sottolinea l’a-
spetto misterico, soprattutto. Paolo VI è sensibilissimo a questo aspetto. Gli è venuto direttamente dai
suoi studi, indubbiamente, ma in particolare dal card. Journet...» (discussione seguita alla sua relazio-
ne, pp. 167-168).
37
Tra i tanti vi sono i seguenti: “Misterioso edificio spirituale”, “Famiglia di adoratori del Padre in spi-
rito e verità”, “Oceano dei disegni divini, delle divine misericordie, delle verità e delle grazie, delle spe-
ranze e della storia umana”, “Famiglia di Dio”, “Madre, Maestra, Arca”, “Fenomeno divino-umano”,
“Comunione della salvezza”, “Misteriosa costruzione”, “Organismo spirituale unificato”, “Nuova strut-
tura umana, storica, universale, vivente dello Spirito di Cristo”, “Vitale condizione dell’economia stori-
co-sociale stabilita dal Signore”, “Ordine spirituale e sociale complesso”, “Ente misterioso e comples-
so”, “Corpo di Cristo Risuscitato e Risuscitatore”, “Ponte di passaggio”, “Umanità congregata nel nome
di Cristo”, “Fenomeno storico, umano, religioso”, “Zona di luce celeste proiettata sul mondo”, “Organo
della salute portata al mondo da Cristo”, “Memoria mistica e vivente di Cristo”, “La continuità di Cristo
nel tempo”, “Associazione di preghiera”, “Societas Spiritus”, “Il risultato, sempre in via di perfeziona-
mento della Redenzione”, “Popolo messianico”, “L’ostensorio di Cristo”, “Punto d’incontro dell’amore
di Cristo per noi”, “Casa delle nozze”, “Madre degli uomini vivi”, “Società dei fratelli”, “Dispensatrice
dei sacramenti”, “Società della salvezza”, “L’Auditorio di Cristo”, “Un’obbedienza liberatrice”, “Città re-
ligiosa”, “Una fraternità”, “L’umile ma fulgente lampada e il circoscritto ma sempre aperto santuario
dello Spirito Santo”, “Solidarietà collettiva e superiore”, “Fiume che promana da Cristo”, “Il fermento e
l’anima del mondo”, “Società della speranza in continua crescita”, “Popolo missionario”, “Società uni-
versale della fede e della carità”, “Comunione organica di anime libere”, “L’Israele di Dio, il Regno dei
Cieli, Città di Dio, Gerusalemme celeste, Madre dei fedeli, Campo di Dio, Vigna del Signore, Ovile di
Cristo, Casa di Dio”.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 225

«la costituzione della Chiesa è insieme pneumatica e istituzionale: la Chiesa


è mistero di salvezza reso visibile dalla sua costituzione di vera società uma-
na e dalla sua attività nella sfera esterna. In tal modo, nella Chiesa, come
unione sociale umana, gli uomini si uniscono a Cristo e, per mezzo di lui,
con Dio, raggiungendo così la salvezza; e lo Spirito santo è in essa presente
e operante in tutta l’estensione della vita di lei. Vale a dire che la Chiesa-isti-
tuzione è allo stesso tempo intrinsecamente spirituale, soprannaturale» 38.

La dimensione comunionale, sacramentale e carismatica


È l’aspetto verticale-discendente, di dono dall’alto. La Chiesa è
chiamata a manifestare il mistero della comunione cioè della vita di-
vina: essa non ha altro senso che questo. Infatti la Chiesa radical-
mente considerata
«è un mistero, non solo nel senso della profondità nascosta della sua vita, ma
nel senso altresì ch’essa è una realtà non tanto umana e storica e visibile, ma
altresì divina e superiore alla nostra normale capacità conoscitiva; come noi
oggi la vediamo, la Chiesa è essa stessa un segno, un segno sacro, un sacra-
mento, che ora non possiamo adeguatamente conoscere nella sua vera e inte-
riore pienezza, ma che proprio ora ci attrae a uno studio nuovo e stupendo» 39.

«[La Chiesa è] una realtà la quale, anche nei suoi aspetti visibili e istituzio-
nali, si presenta come “sacramento”, cioè come segno e strumento d’un pia-
no divino nel mondo» 40;

«è lo strumento, è il veicolo, l’organo storico e sociale, sacramento, cioè se-


gno e causa, della duplice unione soprannaturale dell’uomo con Dio e degli
uomini fra loro» 41.

Essendo «quel grande sacramento che tutti gli altri contiene e


dispensa» 42, in definitiva essa è «segno di Cristo: la Chiesa significa
Cristo» 43. Di conseguenza comunione è per papa Montini un «concet-
to fondamentale» 44 nella comprensione della Chiesa; è «un nuovo ti-
tolo, essenziale [...] e pieno di significati» 45. Esso ne descrive la natu-

38
Cf Discorso ai partecipanti al II Congresso internazionale di diritto canonico (17 settembre 1973).
Importanti al riguardo sono anche i Discorsi tenuti al I Congresso internazionale di diritto canonico
(20 gennaio 1970) e alle Udienze generali del 19 ottobre 1966 e del 30 aprile 1969.
39
Udienza generale (27 aprile 1966).
40
Udienza generale (18 novembre 1970).
41
Udienza generale (18 ottobre 1972).
42
Udienza generale (14 agosto 1968).
43
Udienza generale (26 ottobre 1966).
44
Udienza generale (12 novembre 1969).
45
Udienza generale (8 giugno 1966).
226 Giuseppe M. Siviero

ra profonda, l’essenza, la realtà costitutiva, cioè l’ontologia, ma insie-


me anche la sua deontologia, il dover essere, la vocazione ecclesiale
fondamentale, la missione. Esso è, inoltre, in profonda consonanza
con la mentalità «spirituale e sociologica» 46 contemporanea. La no-
zione di Chiesa comunione, «anche se di per sé incompleta» 47, acqui-
sta perciò oggi un ruolo rilevantissimo nella definizione e nella attua-
zione della Chiesa. Infatti
«se la Chiesa è comunione, essa comporta una base d’eguaglianza, la dignità
personale, la fratellanza comune [...] una progressiva solidarietà [...] una ob-
bedienza disciplinata e una collaborazione leale [...] una relativa correspon-
sabilità nella promozione del bene comune» 48.

La dimensione comunitaria, societaria e istituzionale


È l’aspetto orizzontale-ascendente, di costruzione dal basso. La
comunione, dono che il Padre ci fa nello spirito e nella carne di Gesù,
tende sempre di fatto a farsi anche socialità storicizzata, comunità so-
ciale riconoscibile e perfino organizzata. Questa tendenza non va cer-
to né rinnegata né lasciata a se stessa né assolutizzata nelle sue
espressioni fattuali, ma rettamente valorizzata affinché contribuisca a
realizzare lo scopo decisivo e salvifico di avvicinare la communio, che
è l’ambiente di Dio, alla socialità, che è l’ambiente dell’uomo.
Perciò è applicabile alla Chiesa anche il concetto generico di so-
cietà 49. Paolo VI parla spesso della Chiesa come di una società, ag-
giungendo tuttavia quasi sempre una specificazione, un aggettivo,
un genitivo che ne chiarisce di volta in volta il senso e la portata. La
Chiesa è, perciò, «società ecclesiale» o «società ecclesiastica»; è «so-

46
Udienza generale (21 luglio 1971).
47
Udienza generale (21 luglio 1971).
48
Udienza generale (2 giugno 1970).
49
I concetti di Chiesa-società e Chiesa-comunità, ciascuno per sua parte, dicono certamente qualcosa
di importante sia dal punto di vista esterno, in quanto rivelano lo statuto socioculturale e anche giuridi-
co che alla Chiesa è riconosciuto in un determinato contesto storico; sia dal punto di vista interno, in
quanto manifestano il tipo di organizzazione delle relazioni vigenti in essa in un determinato momento.
Discriminante è invece il fatto che con l’espressione «ecclesia est societas perfecta» si sia voluto significa-
re, fino al concilio Vaticano II, non soltanto la formulazione giuridica (iuridice perfecta) dell’autonomia
e dell’indipendenza della Chiesa dalla sfera di domino assoluto dello Stato moderno, affermazione che
rimane ancora oggi valida, ma una sorta di ecclesiologia giuridica, costruita senza espliciti fondamenti
teologici, avvalorando una pretesa impropria e assolutamente criticabile per la ragione che non si può
costruire alcuna ecclesiologia a partire da soli concetti filosofico giuridici o comunque preteologici.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 227

cietas Spiritus» o «società dei credenti e dei seguaci di Cristo» e «so-


cietà religiosa dei credenti e degli oranti» 50. Egli constata che «la
nostra religione si presenta come una società, spirituale e visibile, di-
vina e umana» 51. L’idea ricorrente e portante è che Gesù Cristo ha
fondato la Chiesa «come una società nuova, visibile, spirituale e uni-
versale» 52. Essa è
«la società dei cristiani, come Gesù l’ha voluta, sorretta, anzi ministerialmen-
te generata dal sacerdozio gerarchico, e fraterna in una comunità sgombra
da ogni interno steccato egoistico» 53;

«è una vera società, concreta e spirituale, sia nella sua composizione di


membra viventi di fede e di grazia, sia nella sua coesione organica di figli e
di fratelli compaginati in una effettiva carità, e sia nella validità operativa di
virtù umane e cristiane, tese non soltanto alla perfezione personale, ma al
buon esempio, alla testimonianza altresì, al servizio del prossimo e all’ani-
mazione cristiana della società» 54.

50
Queste espressioni si trovano in diversi discorsi, rispettivamente: Udienza generale (10 novembre
1971); Alla Rota (28 gennaio 1971); Udienze generali (23 giugno 1971; 9 luglio 1969); Ai partecipanti al
congresso internazionale di diritto canonico (20 gennaio 1970); Udienze generali (22 maggio 1968; 13
marzo 1968).
51
Udienza generale (20 novembre 1963); vedi anche 13 marzo 1968.
52
Udienza generale (17 gennaio 1973).
53
Omelia in “Cena Domini” (30 marzo 1972).
54
Ai rappresentanti dell’Azione cattolica italiana (7 dicembre 1963). Oltre ai ben noti concetti di società
e di comunità vi sono altri concetti, quali famiglia, gruppo, movimento, popolo, organizzazione interna-
zionale ecc. cui la Chiesa può riferirsi, e che fanno anzitutto appello a un quadro di ordine sociologico.
Più problematica, anche se storicamente avvenuta, risulta invece l’applicazione alla Chiesa del concetto
di stato o impero, in quanto implicante non solo una “neutra” nozione culturale e sociologica, come per
gli altri, ma un più esplicito progetto di segno politico, come tale in evidente contrasto con la vocazione
escatologica della Chiesa cristiana. Tuttavia, il nocciolo della questione non consiste nello stabilire,
astrattamente, se la Chiesa debba essere una società o una comunità. Di fatto, al di là dei gusti e delle
ragioni di ciascuno, ciò è deciso in gran parte dal quadro storicoculturale in cui la Chiesa è inscritta e
da altre circostanze sulle quali essa non sempre ha esplicito dominio, come per esempio il numero dei
membri, il tipo di appartenenza da essi sviluppato, la cultura preesistente sulla quale si innesta l’evan-
gelizzazione ecc. Nessuno metterà, per esempio, in dubbio che i nostri tempi manifestino una preferen-
za per una Chiesa “comunità di fede” piuttosto che per una Chiesa “società religiosa”, salvo poi riscon-
tare nel tessuto organizzativo della Chiesa contemporanea notevoli commistioni tra aspetti societari e
aspetti comunitari (si vedano le ecclesiologie soggiacenti al CIC). In ultima analisi sono sempre i con-
cetti teologici di communio e di missio che, in quanto ne individuano l’asse trinitario-cristologico, risul-
tano decisivi per la decodificazione finale del fenomeno Chiesa e che, proprio per questo fatto, possono
arricchire di qualità nuove lo stesso quadro sociologico di una Chiesa concreta ottimizzandone – per
così dire – l’evidenziazione storica in linea con il suo essere sacramento di Cristo. Si può quindi certa-
mente auspicare che l’importanza degli aspetti societari non giunga mai al punto di ridurre la Chiesa a
una istituzione formale, a una serie di relazioni istituzionalizzate del tutto omogenee e funzionali ai bi-
sogni religiosi al cui soddisfacimento la Chiesa stessa può essere deputata dalla più vasta collettività ci-
vile quasi ne fosse una mera funzione. Né d’altra parte che la valorizzazione degli aspetti interpersonali
degeneri al punto di ridurre la Chiesa a un clan o a una corporazione di interessi privati. Ambedue le
posizioni, come si vede, negano la realtà genuina della Chiesa, poichè essa, in ogni caso, non può mai
rinunciare allo sforzo di esprimere al meglio delle possibilità storicoculturali date la pienezza del miste-
ro umano divino che la costituisce, cioè la comunione e la missione.
228 Giuseppe M. Siviero

Paolo VI usa inoltre con frequenza, in riferimento alla Chiesa,


anche l’altro termine altrettanto generico di “istituzione” 55. Egli di-
ce, appunto, che la Chiesa è «istituzione»; in particolare essa è «isti-
tuzione fondata da Cristo», è «istituzione spirituale e sociale», è «isti-
tuzione divina» 56. È in definitiva quella «istituzione dalla quale noi ri-
ceviamo i doni di verità e di grazia indispensabili per la nostra vita
presente e futura» 57. È molto diffuso, nella sua terminologia, anche
l’aggettivo “istituzionale”, per lo più usato al fine di descrivere e ab-
bracciare quanto nella Chiesa v’è di umano, visibile, giuridico, stori-
co, gerarchico, strutturale, tangibile e... criticabile. Montini ne fa un
maggior uso quando parla, come abbiamo accennato precedentemen-
te, della contrapposizione-distinzione che concettualmente si può sta-
bilire tra Chiesa spirituale-invisibile-carismatica e Chiesa istituziona-
le-visibile-giuridica: distinzione che, per il Pontefice, non può mai es-
sere trasportata dal piano ermeneutico, che le è proprio, a quello
della realtà, poiché in questo caso diventerebbe subito artificiale, pre-
testuosa e, in definitiva, antiecclesiale.

55
L’istituzione, come tutti sanno, si esprime sempre attraverso dottrine-riti-simboli e nasce mediante
un più o meno lungo processo di fissazione-stabilizzazione dei valori di un determinato gruppo umano.
Essa consente al gruppo umano stesso di conservare nel tempo, al di là del mutare delle generazioni, i
suoi valori-beni collettivi, di identificarvisi e di condividerli con altri. In questo modo, infatti, tali valori-
beni non dipendono più dalla volontà-qualità-genialità-forza-ispirazione di pochi, ma possono essere – in
certa misura – facilmente tradotti e usufruiti dalla massa, scaricando il singolo dall’angoscia esistenzia-
le, dovuta alla coscienza della propria debolezza di fronte al mondo e alla vita, infondendogli sicurezza
e protezione per un’esistenza forse meno eroica ma più tranquilla e ordinata. (cf anche E. ROGGERO,
Istituzione, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Cinisello B. 1994, 1082-1088.) La funzione in via
di principio altamente benefica delle istituzioni può però immiserirsi e addirittura andare del tutto
smarrita laddove le istituzioni stesse, affidate a mediocri funzionari, non riescano più a metabolizzare
con intelligenza e tempismo gli stimoli nuovi e positivi che provengono dalla società, dagli individui più
creativi e liberi, dallo spirito di profezia ecc., come ben chiarisce il sociologo C. PRANDI: «...il momento
profetico ha il compito specifico di richiamare, sulla base di contingenze storiche (i “segni dei tempi”)
che premono dall’esterno, i moduli originari sui quali l’istituzione fonda la propria identità, di ripristina-
re l’atmosfera dello “statu nascenti”, di riproporre tensioni etiche, teologiche (e, non di rado, politiche)
capaci di rivitalizzare un organismo sottoposto al rischio costante della sclerosi, dell’irrigidimento ge-
rarchico e della continua prevaricazione da parte del campo religioso». [campo religioso = apparato
dottrinale + apparato gerarchico + apparato simbolico rituale-sacramentale] (Carismi e istituzione, in
Credere oggi 5 [1986] 16). Per quanto riguarda la Chiesa, quindi, il processo storicamente necessario di
istituzionalizzazione non può rinunciare ad assumere connotati originali, come si sforza di sottolineare
il teologo S. DIANICH: «Si può parlare di comunità dove la comunione è manifestata al livello del fenome-
no constatabile e assume un volto stabile. I protagonisti dell’evento della comunicazione della fede fan-
no la comunità quando la loro esperienza interpersonale approda a una forma di convivenza che impli-
ca condivisione di sentimenti, di parole e di opere determinate, che tendenzialmente duri nel tempo»
(Chiesa in missione: per un’ecclesiologia dinamica, Paoline, 1985, p. 195).
56
Cf i Discorsi alle seguenti Udienze generali: 16 settembre 1964; 1° giugno 1966; 5 maggio 1967; 23
luglio 1963; 9 novembre 1966; 31 agosto 1966.
57
Udienza generale (16 settembre 1964).
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 229

Il rinnovamento delle istituzioni ecclesiali


Le ricorrenti esigenze di riforma non sono da interpretare, nella
Chiesa, solo come una questione pratica, espressione di un bisogno
corporativistico teso a rivendicare l’aggiornamento funzionale del-
l’organizzazione ecclesiastica o di quei settori di essa la cui resa pro-
duttiva non è più corrispondente alle aspettative. Esse vanno piutto-
sto intese come l’emergere, più o meno consapevole, di un profondo
bisogno di riflessione circa la natura della Chiesa, della sua missione
e delle sue istituzioni portanti. Paolo VI registra che la Chiesa oggi
«è in un periodo d’intensa attività. Il Concilio ha risvegliato in lei la coscienza
della sua vocazione e quindi quella di nuovi doveri, di nuove riforme, di nuo-
ve attività; e il Concilio [...] le ha infuso nuova energia, nuovo impulso dello
Spirito Santo. Bisogna dar lode a Dio e riconoscere che la Chiesa si trova og-
gi in un momento d’intensa vitalità. Senza alcun trionfalismo, la Chiesa stu-
dia e ripensa se stessa, la Chiesa insegna e rinnova la sua catechesi e la sua
teologia, la Chiesa prega e riforma la sua liturgia, la Chiesa perfeziona e svi-
luppa le sue strutture, stringe le sue file, accresce la circolazione interna del-
la sua attività, rivede la sua legge canonica, allarga la sua area missionaria,
apre il colloquio con i fratelli separati, determina e vivifica la sua posizione
nel mondo, oggi tanto più bisognoso di lei, quanto più secolarizzato e pro-
gredito» 58.

Tutto ciò pone alcuni problemi non trascurabili, il primo dei


quali è quello di identificare chiaramente le potenzialità e i limiti del
processo di rinnovamento stesso. Il punto, sostiene Paolo VI, è che
«vi è qualche cosa nella tradizione a cui dobbiamo essere fedeli [...]. Identifi-
care questo “qualche cosa” costituisce uno dei problemi più delicati e com-
plessi nel processo innovatore della chiesa odierna; problema duplice: che
cosa conservare di antico, e che cosa introdurre di nuovo [...] e questa valu-
tazione non può essere né frettolosa né arbitraria» 59.

Così constatiamo che


«vi sono molte cose che possono essere corrette e modificate nella vita catto-
lica, molte dottrine che possono essere approfondite, integrate ed esposte in

58
Udienza generale (22 aprile 1970). Sul tema del rinnovamento delle istituzioni vedi la lettera di Pao-
lo VI al Presidente delle Settimane sociali di Francia (8 maggio 1975).
59
Udienza generale (24 settembre 1969). In altra circostanza Paolo VI richiama a «una seconda fedeltà
oggi necessaria alla Chiesa, quella fondata sulla valutazione autorizzata e responsabile degli elementi
costitutivi o storicamente acquisiti e non arbitrariamente alienabili della Chiesa stessa, tanto nel campo
istituzionale, quanto in quello dottrinale; e questa valutazione non può essere né frettolosa né arbitra-
ria» (Udienza generale [24 settembre 1969]).
230 Giuseppe M. Siviero

termini meglio comprensibili, molte norme che possono essere semplificate


e meglio adattate ai bisogni del nostro tempo; ma due cose specialmente non
possono essere messe in discussione: le verità della fede, autorevolmente
sancite dalla tradizione e dal magistero ecclesiastico, e le leggi costituzionali
della Chiesa [...]. Perciò rinnovamento, sì; cambiamento arbitrario, no» 60.

Il limite e insieme la ragione e la misura del rinnovamento sono


definiti, quindi, da quelle realtà che costituiscono la natura della
Chiesa cioè, per usare lo stesso linguaggio montiniano, dalle sue ba-
si e leggi costituzionali. Nessun rinnovamento deve snaturare la
Chiesa, anzi ogni rinnovamento è tanto più doveroso e urgente in
quanto chiamato a conservare tale natura essenziale nei nuovi conte-
sti nei quali la Chiesa storicamente si trova inserita. Ma quali sono le
realtà che costituiscono la Chiesa? Che cosa in essa è definibile co-
me costitutivo? Qual è la sua genuina costituzione 61?
Per rispondere a queste domande cruciali necessitiamo ovvia-
mente di criteri adeguati. Dal magistero di Paolo VI se ne ricavano
almeno due dotati di grande chiarezza e persuasività. Il primo crite-
rio è nettamente cristologico ed è così perentoriamente formulato:
«bisogna ricorrere al pensiero di Cristo» 62. Ribadisce la necessità,
soprattutto nei momenti di crisi-svolta-cambio, di riferirsi al pensie-

60
Udienza generale (25 aprile 1968).
61
P. LOMBARDIA afferma che «sebbene il nucleo fondamentale della “costituzione” della Chiesa sia ir-
reformabile, essendo stato definitivamente stabilito da Cristo, la comunità ecclesiale si arricchisce pro-
gressivamente nella storia, nella misura in cui cresce nella conoscenza dei molteplici aspetti del dise-
gno di Dio riguardante la sua natura e la sua missone, e, pertanto, nella comprensione dei principi di
“diritto divino” concernenti la sua struttura di società giuridicamente organizzata (positivizzazione)»
(Lezioni di diritto canonico, Milano 1985, p. 80). Gli fa eco un altro studioso il quale nota che l’espres-
sione “costituzione della Chiesa” «indica la struttura della Chiesa nella quale si rispecchia la sua essen-
za. [...] È ovvio che tale struttura deve fondamentalmente e in forma irrinunciabile ritrovarsi nel NT,
benché ciò non lo si possa esigere in un senso strettamente giuridico. In secondo luogo è giusto non
confondere la “struttura” della Chiesa con le molteplici forme concrete della sua organizzazione, ovve-
ro con le sue figure storiche» (M. SEMERARO, Lexicon. Dizionario Teologico Enciclopedico, Piemme, Ca-
sale Monferrato 1993, 226).
62
Udienza generale (18 maggio 1966). Anche in altra occasione Paolo VI ebbe a ribadire che «ciò che
soprattutto importa è non perdere di vista le recondite e misterose realtà che stimolano e regolano, nel-
la Chiesa, il progresso delle istituzioni. Il vangelo è il seme, Cristo è l’unico sommo vero capo, sebbene
invisibile, lo Spirito santo è l’animatore, il santificatore, il paraclito: fonte di vitalità, di conforto, di co-
raggio, di gaudio» (Ad alcuni neocardinali, 30 aprile 1969). Paolo VI commenta così UR 18 che afferma
l’unità nelle cose necessarie (si direbbe essenziali-costitutive-costituzionali): «Il necessario è una carità
senza finzione, l’identità della fede, la sottomissione all’ordine essenziale voluto da Cristo per la sua
Chiesa» (discorso in occasione della visita del “Catholicos” Khoren I di Cilicia, 9 maggio 1967). Lo stes-
so Paolo VI, nel contesto di una riflessione sull’ecumenismo, fenomeno che di per sé richiama la co-
scienza ecclesiale a perseguire incessantemente le verità necessarie dentro e al di là delle tradizioni
particolari, dice che «ritrovarsi uniti nella diversità e nella fedeltà non può che essere l’opera dello spiri-
to d’amore. Se l’unità della fede è requisito per la piena comunione, la diversità di costumi non è affatto
un ostacolo, al contrario» (Discorso nella chiesa patriarcale di S. Giorgio di Istanbul in occasione della
visita al patriarca Athenagoras, 5 luglio 1967).
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 231

ro-progetto-signoria di Cristo, con la massima precisione e fedeltà


possibili alla verità della sua vicenda storica e insieme alla sua per-
manente ispirazione. La Chiesa, infatti, non esiste autenticamente se
non come Chiesa di Gesù il Signore. Suo unico scopo è quello di cu-
stodire nel mondo, testimoniandola e attualizzandola, la memoria
salvifica di Gesù e della sua causa 63. Il secondo criterio, più antropo-
logico, permette di cogliere non solo l’aspetto utopico dell’istanza di
rinnovamento, ma anche quello storicamente realizzabile nella situa-
zione data, il rinnovamento oggi possibile e doveroso, cioè – in altri
termini – «nel contesto della ecclesiologia del Vaticano II, dei riflessi
pastorali che essa ha nel mondo di oggi, dello sviluppo e del pro-
gresso delle scienze giuridiche» 64.
Individuata, in tal modo, la bussola del cambiamento si accede
con maggiore cognizione di causa alla riforma concreta delle istitu-
zioni. Il Concilio, infatti, non ha auspicato soltanto un rinnovamento
spirituale-morale-personale, ma ha fatto decollare concretamente an-
che la riforma istituzionale della Chiesa, cioè a dire la riforma
dell’organizzazione delle grandi relazioni ecclesiali che reggono l’an-
nuncio-celebrazione-testimonianza comunitaria della fede. Ciò ha
richiesto, oltre a una robusta riflessione teologico-biblica e a un’ispi-
rata intuizione pastorale, anche una traduzione giuridica che confi-
gurasse le novità istituzionali non come decisioni tattiche-superficia-
li-provvisorie-politiche di adeguamento ai gusti dei tempi, ma come
espressioni di un disegno ecclesiologico che mirasse efficacemente
a un complessivo perfezionamento del “sistema Chiesa”: un disegno
dotato del massimo grado possibile di coerenza tra principi e realiz-
zazioni istituzionali.
Su questa configurazione di fondo che deve informare con va-
lenza costituzionale ogni espressione e struttura di Chiesa, si vanno

63
Senza entrare qui in problematiche che coinvolgono altre competenze, soprattutto per quanto ri-
guarda la questione per molti versi cruciale del pensiero-progetto di Gesù circa la Chiesa, rileviamo
quanto meno che la carenza di organizzazione ecclesiastica lasciata da Gesù è talmente evidente, soprat-
tutto se paragonata con l’esorbitante grandezza dell’ispirazione che egli lasciò in eredità ai suoi, che le
prime generazioni cristiane, di fatto, altro non poterono fare che accettare la sfida di compiere la loro
missione e conservare la comunione senza poter contare su un modello assiomatico di Chiesa. Ciò le
indirizzò verso un necessario confronto-contaminazione con le organizzazioni politico religiose del tem-
po: dapprima quelle giudaiche, poi quelle ellenistico romane, più tardi quelle germanico barbariche e
così via. Possiamo condividere la conclusione di B. VAN IRSEL: «Le più antiche comunità cristiane non
hanno elaborato nessuna struttura propria ma hanno assunto piuttosto modelli di organizzazione che
trovarono nei diversi ambienti» (Strutture della Chiesa di domani. Riflessioni bibliche, in AA.VV., L’avve-
nire della chiesa, Congresso di Bruxelles 1970, Brescia 1970, p. 181).
64
Al Sacro Collegio (23 giugno 1970).
232 Giuseppe M. Siviero

modellando nel nostro tempo le nuove istituzioni e rinnovando le an-


tiche. Infatti, spiega Paolo VI,
«l’attività postconciliare riformatrice e innovatrice tende a interpretare i biso-
gni dei tempi nella fedeltà alle basi costitutive della Chiesa, con nuove istitu-
zioni (sinodo episcopale, consigli presbiterali e pastorali, conferenze episco-
pali ecc...)» 65.

In particolare il Sinodo dei vescovi fu istituito dallo stesso Pao-


lo VI il 15 settembre 1965 mediante la lettera apostolica Apostolica
sollicitudo, in risposta alle molte richieste fatte durante il Concilio dai
padri circa la costituzione di un organismo permanente che espri-
messe la collegialità dei vescovi. In un discorso del 1974, durante la
preghiera dell’Angelus, papa Montini spiega:
«Che cosa è il Sinodo episcopale? [...] È una istituzione ecclesiastica che noi,
interrogando i segni dei tempi, e ancor più cercando di interpretare in
profondità i disegni divini e la costituzione della Chiesa cattolica, abbiamo
stabilita dopo il concilio ecumenico Vaticano secondo, per favorire l’unione e
la collaborazione dei vescovi di tutto il mondo con questa sede apostolica,
mediante uno studio comune delle condizioni della Chiesa e la soluzione
concorde delle questioni relative alla sua missione» 66.

Di un’altra grande novità, quella delle Conferenze episcopali,


Paolo VI dice che la loro istituzione dove ancora non esistevano,
«è grande merito del Concilio ed è grande progresso non soltanto organizza-
tivo e canonico, della Chiesa, ma anche istituzionale e mistico» 67.

Il profilo costituzionale della Chiesa a partire dalla dottrina conciliare


e dal magistero di Paolo VI
Dall’ecclesiologia conciliare di comunione-missione promana una
fisionomia di Chiesa che si configura costituzionalmente come nuova
rispetto a quella espressa nella codificazione piano-benedettina che,
come abbiamo visto, era giustificata a livello teoretico dalla dottrina
dello Ius publicum ecclesiasticum 68. L’ecclesiologia del Vaticano II è,

65
Udienza generale (25 agosto 1971).
66
Angelus (22 settembre 1974).
67
Alla CEI (11 giugno 1973).
68
«Si deve evitare la visione stratificata della Chiesa, che era presente nel CIC 1917, superata dal Vati-
cano II. Essa dipendeva dalla scuola del diritto pubblico ecclesiastico, preponderante al tempo della pri-
ma codificazione, che considerava la Chiesa come società di inuguali, in connessione con la sua visione
unilaterale della Chiesa come società perfetta. Infatti, sottolineando fortemente l’inuguaglianza tra i
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 233

pur con qualche reticenza, sostanzialmente confluita nei due Codici,


quello latino rinnovato e quello orientale. Essa viene così, anche for-
malmente, dotata di strumenti normativi e legalmente vigenti. Lascian-
do però ad altri l’analisi più puntuale dei Codici e rimanendo ancora
sul piano dell’ispirazione conciliare e montiniana potremmo così e-
nunciare i principi portanti del nuovo profilo costituzionale della Chie-
sa cattolica (ius constitutivum communionis et missionis ecclesiae):
1. Il principio della comunione tra le Chiese particolari e la loro
pari dignità ecclesiale, per cui esse costituiscono l’unica e universale
chiesa di Cristo cui presiede nella carità, nella fede e nella disciplina
il vescovo di Roma 69. Questa prospettiva teologica, che vede ciascu-
na Chiesa locale al suo interno strutturarsi come comunione e la
Chiesa universale come comunione di Chiese, si pone all’inizio di un
cammino che soprattutto a livello di traduzione giuridica necessiterà
di tempi lunghi di armonizzazione e di ottimizzazione ma la cui sfida,
benchè ardua, risulta certamente affascinante.
2. Il principio della missione evangelizzatrice e pastorale come
azione propria della Chiesa, diritto-dovere irriducibile, fonte di legit-
timità per una sua originale presenza nel mondo.
3. Il principio della fondamentale uguaglianza e corresponsabi-
lità dei discepoli del Signore, prima e sopra ogni pur necessaria di-
stinzione di ruoli, funzioni, carismi e ministeri, nello strutturarsi del-
la comunione e nell’esercizio della missione 70. Interessante, a questo
proposito, la metodologia scelta dal Codice latino il quale premette
l’elenco dei diritti-doveri del christifidelis allo sviluppo dei singoli sta-
ti di vita e dei relativi diritti-doveri specifici.

membri della Chiesa, veniva affermata l’esistenza della gerarchia, in modo che la Chiesa, come società
giuridicamente perfetta, risultasse pienamente indipendente dall’autorità civile. Non possiamo dubitare
che la Chiesa sia una società giuridicamente perfetta, ma dobbiamo anche dire che questa visione della
Chiesa non ne spiega tutta la reatà misterica, di sacramento della salvezza e di realizzazione della co-
munione col Dio uno e trino. Il difetto della scuola del diritto pubblico ecclesiastico consisteva nella sua
visione parziale della Chiesa, perdendo di vista il tutto» (G. GHIRLANDA, Il diritto nella chiesa mistero di
comunione, Paoline, Roma - Cinisello B. 1990, p. 52). Si veda anche la descrizione tracciata nella prima
parte di questo articolo, in Quaderni di Diritto Ecclesiale 3 [1993] 332-351.
69
La Chiesa è anche definita da Paolo VI come «complessa unità» (Udienza generale [6 ottobre
1971]). La complessità dell’articolazione giuridica della “communio” storicizzata (“communio ecclesiae”
e “communio ecclesiarum”), a fronte della semplicità dell’intuizione mistico-teologica di essa, è stata be-
ne evidenziata in varie occasioni da E. CORECCO: cf, per esempio, Aspetti della ricezione del Vaticano II
nel Codice di diritto canonico, in AA.VV., Il Vaticano II e la Chiesa, (a cura di G. Alberigo e J.P. Jossua),
Brescia 1985, pp. 333-397 (in particolare pp. 367-387).
70
Si confronti, per esempio, l’Udienza generale dell’8 luglio 1964 dove, oltreché di «paternità» e «figlio-
lanza», Paolo VI parla di «rapporto di fraternità» di «parentela strettissima», di «fratellanza». Al riguardo
anche il Concilio, malgrado tutte le distinzioni intraecclesiali che esso pure non dissolve, sancisce non
senza solennità: «Nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa [...] una vera uguaglianza [...]» (LG 32).
234 Giuseppe M. Siviero

4. Il principio che giustifica l’ordinamento ecclesiale in quanto


pensato e gestito come ordinamento di servizio 71. La plurisecolare
questione del “potere” (in ogni sua forma, sia elitaristica che demo-
craticistica) viene, almeno a livello di principi, superata di slancio,
mentre permane la fatica di tirarne tutte le conseguenze per l’ordina-
mento canonico sia ad intra che ad extra 72. La questione può essere
oggi utilmente considerata, e forse in parte risolta, alla luce di una
più generale esigenza sistematica e metodologica: quella di distin-
guere più chiaramente, anche nell’ordinamento ecclesiastico vigen-
te, tra canoni “costituzionali” e canoni “disciplinari” 73.

71
«L’ordinamento ecclesiale è inteso esattamente solo se concepito come ordinamento di servizio» (Ai
parroci e predicatori quaresimalisti di Roma, 17 febbraio 1969); e «il servizio ecclesiale è compito pro-
prio di tutti i membri della chiesa» (Udienza generale, 17 giugno 1970): la citazione fatta da Paolo VI è
presa dal contributo di M. LÖHRER, La gerarchia al servizio del popolo cristiano, in La chiesa del Vatica-
no II (a cura di Barauna), Firenze 1965, p. 699. Si delinea più precisamente la descrizione della Chiesa
come di una fraternità organica, ministeriale e carismatica insieme, laddove «ministero vuol dire servi-
zio, servizio per amore, per altrui utilità, con sacrificio di sé» (Udienza generale, 17 giugno 1970).
72
Paolo VI postula precisamente «il servizio come ragion d’essere dell’autorità nella Chiesa» (Udienza
generale, 17 giugno 1970) ed esprime ancor più chiaramente il principio secondo cui «l’idea del servi-
zio rimane il parametro di confronto e di perfezionamento canonico del potere conferito da Cristo ai
suoi apostoli e ai loro successori per la guida del popolo di Dio» (ibid.). Per cui possiamo dire che, nel-
la Chiesa, non è l’autorità a decidere cos’è servizio, ma è il servizio a decidere cos’è autorità. Un’auto-
rità, inoltre, che solo «per certe operazioni riveste il carattere funzionale di superiorità sociale» [!]
(Udienza generale, 18 maggio 1966; cf anche: Udienza generale, 25 agosto 1971).
Non bisogna, però, ingenuamente ignorare che l’esercizio dell’autorità è di fatto sempre in certa misura
condizionato, anche nella Chiesa, dai cosiddetti “modelli storici”, sui quali il pastoralista P.-A. Liége ebbe
modo di fare a suo tempo la seguente serena ma efficace riflessione: «La struttura costituita nella comu-
nità dal ministero pastorale prospetta inevitabilmente il problema dell’autorità e del funzionamento del
potere. Risulta che la Chiesa, lungo tutta la sua storia, ebbe difficoltà a mantenere inalterato, nella sua
originalità, il modello evangelico dell’autorità. Ha permesso che vi si sovrimponessero dei modelli cultu-
rali e politici dei quali alcuni si opponevano, più o meno profondamente, al modello evangelico: – Il dirit-
to romano per il quale l’autorità è dominium e non servitium causò diversi irrigidimenti nella concezione
dell’ordine da mantenere e delle leggi da fare osservare. – La società feudale ha dato il suo contributo
nel consolidare il senso della gerarchia, il carattere privilegiato dei capi ecclesiastici. – L’esercito ha cer-
tamente segnato della sua impronta l’autorità cristiana, diffondendo l’idea che l’origine assoluta di tale
autorità doveva escludere ogni dialogo e che essa non sarebbe mai stata arbitraria. – Le monarchie asso-
lute, a loro volta, hanno proposto un modello di potenza e di trionfo al di fuori degli imperativi evangeli-
ci. – Furono queste come ondate successive che, senza che vi si ponesse riparo, allinearono l’istituzione
ecclesiale e i suoi responsabili su situazioni sociologiche di fatto non sottoposte a critica» (Lo stare insie-
me dei cristiani tra comunità e istituzioni, Brescia 1979, p. 59). Interessanti anche le considerazioni di
A. LONGHITANO, Uffici ecclesiastici e condizionamenti politico culturali, in AA.VV., Ministeri e ruoli sociali,
Torino 1978, pp. 43-55 e di R.P. MC BRIEN, Chiesa cattolica romana, in Dizionario del movimento ecume-
nico, EDB, Bologna 1994, pp. 151-152. Lo stesso Montini ebbe una sofferta percezione della decisività
del “modo” dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Ciò emerge in misura del tutto particolare a livello
ecumenico nell’interpretazione del primato del vescovo di Roma: «Noi sappiamo che il nostro apostolico
ministero, posto al centro della Chiesa, è per quasi tutti questi fratelli, uno degli ostacoli principali alla lo-
ro ricomposizione nell’unità della Chiesa» (Udienza generale, 18 gennaio 1967).
73
In mancanza di un linguaggio più adeguato usiamo questa diade (costituzionale/disciplinare) per ri-
conoscere nei canoni “costituzionali” il risvolto giuridico (laddove ci sia) del dogma. E quindi conside-
rare la loro intrinseca maggiore importanza nella struttura canonica fondamentale della Chiesa, ma allo
stesso tempo anche la necessità di una loro costante purificazione ermeneutica. Il che, a livello tecnico,
implica uno sforzo mai compiuto di riformulazione della stessa norma costituzionale positiva, la quale
in quanto legge scritta rimane un modesto strumento umano chiamato a farsi carico non tanto della
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 235

5. Il principio del primato ecclesiogenetico del carisma-ministero


gerarchico, il quale proprio nella prospettiva pastorale ritrova il suo
ruolo specifico: mantenere in collegamento vitale (non solo dogmati-
co) tutta la comunità ecclesiale e le sue componenti con la autentica
parola del Signore, e desiderare-cercare che ciascun credente accre-
sca la propria umanità nello spirito di Gesù fino alla piena maturità
nell’amore, nella libertà, nel servizio. Ciò che l’“anziano” della Chiesa
è chiamato a ricordare sempre, autorevolmente e a tutti è il dovere
cardine della testimonianza-obbedienza al comandamento nuovo del
Signore, affinché il mondo creda. C’è, quindi, un ruolo di autorità e di
leadership ecclesiale più ampio e primordiale (e difficile) del puro e
semplice essere a capo-comandare, ed è quello da un lato “paterno-
materno” di generare altri alla fede e alla corresponsabilità ecclesiale,
e dall’altro “fraterno-amicale” di accompagnare il loro cammino senza
impadronirsi delle coscienze e senza creare dipendenze. Altri ruoli,
secondari o suppletivi (sia interni che esterni alla comunità), dei quali
la gerarchia spesso è stata caricata sulla scorta di un’immagine mon-
dana e totalizzante dell’autorità, possono essere ecclesiologicamente
legittimati ormai solo da circostanze eccezionali e temporanee, e in
ogni caso sempre nella misura in cui non intralciano ma favoriscono la
piena realizzazione del servizio primario 74.

funzione ideologica di legittimare un’ordine comunque dato nella Chiesa, quanto piuttosto di quella più
teologica di riconoscere-identificare formalmente il quid essenziale e costitutivo, contenuto nel myste-
rium ecclesiae di tutti i tempi, per la Chiesa dei nostri tempi. Mentre i canoni “disciplinari” sono piutto-
sto costruiti sulle consuetudini ecclesiastiche, tutte venerabili e perfino forse mai abbastanza valorizza-
te, ma certo anche non tutte nella stessa misura obbliganti. Infatti sono disciplina ecclesiale sia i diversi
riti che danno corpo alla più importante espressione culturale delle Chiese, cioè l’attività liturgica, sia,
per esempio per la Chiesa latina, la legge del celibato per i sacerdoti o l’obbligo per gli stessi di indos-
sare l’abito talare, come pure il voto solo consultivo degli organismi di corresponsabilità pastorale in
questioni che non toccano direttamente la fede e la morale ecc. Non tutte queste leggi hanno un lega-
me diretto con l’essenziale della fede, né partecipano allo stesso modo alla sua obbligatorietà, come
ben si sa. Essi, perciò, sono l’aspetto esistenziale, il rivestimento storico e antropologico culturale del
mysterium ecclesiae. La loro importanza, talora notevole, è però soprattutto di ordine pratico, un’impor-
tanza di fatto più che di principio. In teoria, quindi, questi canoni disciplinari sono per loro natura al-
quanto più mutevoli e in ogni caso non si impongono per se stessi alla coscienza del cristiano poiché
non poggiano direttamente (taluni neanche indirettamente) sui contenuti urgenti-cogenti della fede cri-
stologica, ma sulla tradizione disciplinare della comunità cristiana, formatasi a partire da un preciso
contesto, e che può ben essere anch’essa considerata autorevole, ma a partire da diverse motivazioni.
In definitiva, quale disciplina della vita comune nei suoi aspetti storici circostanziati, tali canoni discipli-
nari necessitano oggi di essere maggiormente pensati con il contributo di tutta la comunità, cioè dei
christifideles cuncti. Secondo l’antico motto: quod omnes tangit ab ommnibus approbari debet!
74
Secondo Paolo VI «l’opera della gerarchia visibile è ordinata all’effusione dello Spirito santo nelle
membra della Chiesa; il suo ministero non è indispensabile per la misericordia di Dio, la quale può
effondersi come a Dio piace; ma è normalmente indispensabile per noi...» (Alla Rota, 28 gennaio 1971).
Si può ritenere a ragione che il modello cui si ispira anche Paolo VI sia ispirato dall’adagio agostiniano:
«Noi siamo i vostri pastori ma siamo anche, assieme a voi, le pecore di questo Pastore. Dal nostro po-
sto siamo per voi come dei dottori, ma sotto il Maestro siamo, assieme a voi, dei discepoli in questa
scuola» (Enarrationes in psalmos, 126, 2-3).
236 Giuseppe M. Siviero

Un nuovo diritto pubblico ecclesiastico?


In fase di bilancio conclusivo di questo nostro introdutttivo di-
scorso sul diritto pubblico della Chiesa si deve anzitutto riconoscere
all’antica disciplina dello Ius publicum ecclesiasticum un merito stori-
co, nella sua sostanza confermato dalla dottrina del Vaticano II (cf Lu-
men gentium I, n. 8; Optatam totius, n. 16), quello cioè di aver tentato,
con strumenti concettuali rivelatisi soltanto poi non del tutto consoni
all’oggetto, la tematizzazione della questione complessivamente più
rilevante per la canonistica, cioè la giuridicità non di questa o quella
istituzione ecclesiastica, ma della Chiesa in quanto tale. Successiva-
mente, si deve prendere atto che la svolta teologica e pastorale opera-
ta dal Vaticano II ha posto un nuovo punto di partenza allo studio di
tutte le questioni giuridiche che appartengono alla vita e alla missio-
ne della comunità ecclesiale, quindi anche al suo diritto pubblico. Il
terreno sul quale ha luogo la costruzione più o meno architettonica
del DPE non è quello delle identità o delle analogie dell’ordinamento
ecclesiale con gli ordinamenti statuali, ma quello dell’alterità e delle
peculiarità rispetto a qualsivoglia modello esterno.
Infine, si possono fare alcune osservazioni di tenore generalis-
simo circa tre aree appartenenti tutte alla complessa fisionomia della
scienza canonica contemporanea.
a) La teologia del diritto canonico: per sua natura, si trova a ra-
gionare sul fondamento teologico del diritto ecclesiale, sul suo sen-
so, sulla sua natura, sui suoi contenuti necessari e sulla legittimità
teologica della canonistica. Essa, per ovvi motivi, non può che dedi-
carsi a studiare soprattutto le premesse (appunto il fondamento) e il
merito teologico delle questioni che concernono la fisionomia costi-
tuzionale e internazionale della Chiesa, così come si viene realizzan-
do ed esprimendo nella storia. Infatti, l’affrontamento completo di ta-
li questioni implica necessariamente l’utilizzo di categorie tecnico
giuridiche che alla visione teologica del diritto non appartengono 75.

75
Le questioni che rientrano nel campo del diritto pubblico tradizionalmente erano, da una parte quelle
del governo ecclesiastico, la sua organizzazione e i suoi diritti/doveri; e dall’altra la relazione Chiesa/Sta-
to e la difesa del buon diritto della Chiesa erga omnes. Le stesse questioni oggi non solo si presentano in
nuova forma ma a esse si aggiungono nuovi contenuti: la configurazione dei diritti-doveri dei christifideles;
la struttura della communio ecclesiale e l’integrazione dei vari carismi-ministeri; la configurazione dei rap-
porti Chiesa locale/Chiesa universale; Chiesa cattolica/altre confessioni cristiane; Chiesa cattolica/altri
ordinamenti religiosi; Chiesa locale/comunità politica; Chiesa universale/ordinamento internazionale. Al-
lo scopo di difendere giuridicamente la libertas ecclesiae, illustrando in maniera efficace il diritto-dovere
della Chiesa di essere comunità con un proprio ordinamento e soggetto attivo dentro il mondo contempo-
raneo, in nome di una missione spirituale universale il cui destino è non quello di dominare, ma quello di
illuminare tanto le coscienze individuali quanto le strutture della convivenza umana.
Il Diritto pubblico ecclesiastico: una disciplina canonistica tra passato e futuro. II 237

b) La teoria generale dell’ordinamento canonico: pur essendo


pienamente abilitata allo studio metodico delle questioni teologico
giuridiche, per la sua caratteristica di astrazione a partire dai dati po-
sitivi dell’ordinamento stesso come norme, istituzioni, principi gene-
rali ecc., può certamente meglio esporre nelle sue concatenazioni si-
stemiche il diritto pubblico della Chiesa. Tuttavia non può senz’altro
limitarsi specificamente a esso. Ha bisogno, infatti, di coltivare inte-
ressi più ampi, di spaziare sulla generalità delle questioni, appunto.
c) Infine, l’umile e necessaria esegesi scolastica delle leggi codi-
ciali (CIC e CCEO): proprio per l’inedito ingresso in esse di molti
canoni costituzionali formulati all’interno degli schemi del progetto
di Lex ecclesiae fundamentalis 76, e della sostanza ecclesiologica delle
costituzioni conciliari, può permettere un approccio del tutto dignito-
so e plausibile allo studio del diritto pubblico della Chiesa. Tuttavia
non può agevolmente supplire al limite di non disporre di materiale
sufficiente per costruire il discorso sul diritto pubblico esterno, lad-
dove è chiamata in causa la conoscenza della complessa normativa
extracodiciale di merito, anzitutto quella concordataria, e la cono-
scenza degli altri ordinamenti ecclesiali non cattolici nonché dei
principali ordinamenti confessionali non cristiani.
E se tutto ciò non bastasse a dimostrare la necessità di una disci-
plina ad hoc che consideri in modo peculiare ed esaustivo il nuovo di-
ritto pubblico della Chiesa 77? Quand’anche ciò non bastasse gli indizi
sin qui raccolti possono certamente suggerire a tutti l’idea dell’utilità,
teorica e pratica, di una trattazione ordinata, qualcosa più di un serio
capitolo consuntivo, sul DPE nei suoi due tradizionali versanti non se-
parabili: quello del diritto pubblico “interno”, che tratti prevalente-
mente le problematiche ordinamentali della comunione ecclesiale e
interecclesiale; e quello del diritto pubblico “esterno”, che consideri
la relazione con gli altri ordinamenti, sia confessionali sia non.

76
Sulla LEF cf: AA.VV., Legge e Vangelo: discussione su una legge fondamentale per la Chiesa, Brescia
1972, con il testo in appendice.
77
Le obiezioni nascono su un doppio versante: quello della materia di cui la disciplina speciale del
DPE dovrebbe occuparsi e che è ormai entrata in gran parte nel tessuto della normativa codiciale e da
essa non può essere del tutto estrapolata senza un certo grado di arbitrarietà. D’altra parte, anche sul
versante del metodo il DPE non può sottrarsi alla necessità di adottare la stessa prospettiva metodologi-
ca che appartiene in generale alla scienza canonistica postconciliare e, in ogni caso, dev’essere capace
di poter dialogare seriamente con la scienza madre e con la stessa ecclesiologia. Si aggiunga altresì
che il DPE non può esimersi, per sua natura, dal confronto con il diritto pubblico proprio delle comu-
nità civili e con il diritto della comunità internazionale.
238 Giuseppe M. Siviero

Così inteso questo capitolo della canonistica è, a ben pensare,


l’unico che dia ragione fino in fondo del fatto che quello canonico è,
in linea di principio, un sistema giuridico radicalmente estroverso, sia
in linea verticale che in linea orizzontale. In esso, infatti, né il raffor-
zamento egoistico del sistema né la sua stessa esistenza possono co-
stituire il fine primario e assoluto 78. Proprio per questa sorta di “ano-
malo” DNA che il diritto canonico si porta dentro e che lo costringe a
confrontarsi con una interna e permanente istanza critica, esso è in
grado di riformulare la propria significatività anche per la Chiesa fu-
tura, nella lucida consapevolezza di uno “scarto” incolmabile. Quello
che sussiste tra un fenomeno giuridico che si autocomprenda in rap-
porto diretto, pur se asintotico, con un principio di “fiducia” nell’alte-
rità e addirittura di derivazione da essa, e un altro fenomeno giuridico
che si costruisca piuttosto su un bisogno di “difesa” dell’identità e
che, nell’obiettivo di conciliare interessi diversi, quali che essi siano,
evidenzi di fatto più la diffidenza che il riconoscimento reciproco tra i
protagonisti dell’avventura umana. Allo stesso tempo questo scarto
segna anche l’inevitabile apparente fragilità del primo rispetto al se-
condo nel variegato universo del diritto contemporaneo.

GIUSEPPE M. SIVIERO
Via Vescovi, 7
35038 Torreglia (Padova)

78
L’ordinamento della Chiesa e le sue istituzioni non possono avere obiettivi diversi o più importanti di
quelli della Chiesa stessa: la comunicazione della fede cristologica che diventa amore salvifico per il mon-
do. In vista cioè di una relazione estroversa: la missione dei credenti in vista della fraternità realizzata nel-
la società; le istituzioni ecclesiali in vista del servizio all’uomo; la propria vita in vista di un dono. Alla con-
servazione della Chiesa non è, di per sé, deputato il sistema giuridico, se non secondariamente, ma pri-
mariamente la libera elezione di Dio nei confronti di un popolo che egli fa suo. Laddove la comunicazione
di questo mysterium ha luogo, il diritto canonico si pone come sua espressione sussidiaria affinché la kà-
ris-caritas sia compiutamente incarnata nell’umano. Altre impostazioni del problema, quantunque diffuse,
laddove sembrino suggerire l’idea che il diritto o le istituzioni ecclesiali debbano a ragione anzitutto (e a
tutti i costi) conservare se stesse, ci paiono stravolgere di fatto il senso profondo delle cose e palesare
gravi carenze di ordine teologico e non meno gravi superficialità sul piano della stessa riflessione giuridi-
ca. Ben si sa, infatti, che – in generale – quando avviene (e avviene certamente troppo spesso) che le isti-
tuzioni diventano fine a se stesse è perché subiscono processi degenerativi di varia natura, non certo per-
ché realizzano correttamente la propria funzione. E per quanto riguarda le istituzioni specificamente ec-
clesiali bisogna riconoscere che solo nel porsi totalmente a servizio del sovrano evento dell’incontro
dell’uomo con Dio (e quindi non monopolizzandolo) esse possono affermarsi legittimamente. Viceversa,
altro non farebbero che negarsi in radice, distruggendo ogni proprio genuino significato ecclesiologico.
In verità taluni che, sia prima sia dopo il Concilio, si sono fatti fautori a oltranza di un dogmatico immobili-
smo istituzionale mal celavano il timore che il dinamismo riformatore potesse condurre all’azzeramento
di ogni istituzione ecclesiale e, quindi, alla presunta “morte” della Chiesa stessa. Ciò è del tutto irraziona-
le: l’esperienza insegna che al dissolversi di una forma istituzionale storicizzata non succede il nulla (isti-
tuzionale) ma una nuova e, si spera, più adeguata espressione istituzionale dell’esperienza comunitaria di
fede che, in quanto fede rivelata, delle stesse istituzioni più che figlia è da considerarsi madre.
239
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 239-256
I. La forma straordinaria
del matrimonio
di Jan Hendriks
(traduzione di Paolo Bianchi)

In questi ultimi anni è stato scritto poco sulla forma straordina-


ria del matrimonio. Alcuni autori ritengono che tale forma abbia per-
so importanza, dal momento che il vescovo diocesano – previo pare-
re favorevole della Conferenza episcopale e ottenuta la licenza della
Santa Sede – può delegare dei laici per l’assistenza al matrimonio
laddove manchino sacerdoti o diaconi (can. 1112 § 1). Inoltre, non
rappresenta ormai quasi più una grave difficoltà la semplice distan-
za, in quanto l’assistente alle nozze può ormai giungere quasi ovun-
que con l’uso dell’automobile.
Ciò nonostante, non sembra sia da privare del tutto di valore la
forma straordinaria del matrimonio, dal momento anche che molti
cattolici per varie ragioni non celebrano più il matrimonio in chiesa.
Cresce ogni giorno il numero di coloro che convivono liberamente o
sono uniti soltanto civilmente. Inoltre, coloro che hanno contratto ma-
trimonio solo davanti all’ufficiale civile facilmente ottengono la possi-
bilità di contrarre nuove nozze. Vi sono inoltre alcuni che non con-
traggono matrimonio in chiesa per evitare alcuni inconvenienti: fra
questi i cittadini di alcune nazioni nelle quali il matrimonio religioso è
permesso solo se preceduto dal matrimonio civile, che essi non vo-
gliono contrarre per non perdere pensioni o altre fonti di reddito.
Gli autori concordano che, in alcune circostanze, il matrimonio
civile possa corrispondere ai requisiti del can. 1116 per l’applicazio-
ne della forma straordinaria. In alcuni casi il matrimonio civile viene
appunto considerato come un vero matrimonio contratto in forma
straordinaria. Ma in quali casi è lecito alle parti contrarre matrimo-
nio in forma straordinaria?
240 Jan Hendriks

La forma straordinaria e il matrimonio civile


Il matrimonio civile contratto da due persone tenute alla forma
canonica è nullo. Nel Codice di diritto canonico il matrimonio civile
non è considerato semplicemente come un matrimonio nullo per di-
fetto di forma. Ciò appare chiaro da un responso dato dalla Pontificia
commissione per la interpretazione del Codice nel 1984 1. Nel Codice
tale matrimonio civile è considerato soltanto come fatto giuridico dal
quale possono derivare effetti civili (can. 1686) ovvero effetti canoni-
ci negativi, quali le irregolarità alla ricezione dell’ordine sacro (can.
1041, 3°) o la pena latae sententiae della sospensione (can. 1394 § 1) 2.
Vi sono alcuni che ritengono che il matrimonio civile sia da conside-
rare inesistente se i contraenti dovevano osservare la forma canoni-
ca 3. E tale opinione è in qualche modo rafforzata dal citato responso
secondo il quale non si esige il processo documentale se consta che i
contraenti non abbiano osservato la forma canonica alla quale erano
tenuti. D’altro lato, si presume che perseveri un consenso veramente
matrimoniale sebbene il matrimonio sia stato invalido per difetto di
forma (can. 1107), per cui il matrimonio può essere convalidato an-
che senza rinnovo del consenso (can. 1163 § 1; cf cann. 1100 e 1107; e
can. 1139 § 1 del CIC 1917). Talora il matrimonio civile rappresenta la
forma pubblica nella quale viene celebrato il matrimonio di coloro
che sarebbero tenuti alla forma canonica ma che sono stati dispensati
dalla stessa (can. 1127 § 2). Persino, in certe circostanze, il contratto
matrimoniale civile di fedeli ha valore di forma straordinaria. La Chie-
sa, dunque, nella sua attività pastorale e amministrativa, può riscon-
trare nel matrimonio civile alcuni elementi naturali che, in certi casi,
possono essere ritenuti sufficienti per una valida celebrazione.
Il sommo pontefice Giovanni Paolo II, nella sua Esortazione
apostolica Familiaris consortio, ha scritto in proposito dei cattolici
che hanno contratto il matrimonio solo civile:

1
PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsa 11 iulii 1984, in
AAS 76 (1984) 747: «Utrum ad comprobandum statum liberum eorum qui, etsi ad canonicam formam
adstricti, matrimonium attentarunt coram civili officiali aut ministro acatholico, necessario requiratur
processus documentalis de quo in can. 1686, an sufficiat investigatio praematrimonialis ad normam
cann. 1066-1067. Resp. Negative ad primum; affirmative ad secundum».
2
Si veda K. BOCCAFOLA, Gli impedimenti relativi ai vincoli etico-giuridici tra le persone: affinitas, con-
sanguinitas, publica honestas, cognatio legalis, in AA.VV., Gli impedimenti al matrimonio canonico, Città
del Vaticano 1989, pp. 203-217, particolarmente pp. 213-215.
3
Un quadro delle opinioni in materia si può vedere nella c. Funghini 30 giugno 1988, in Monitor Eccle-
siasticus 114 (1989) 309-319 (un riassunto di questa sentenza in F. DELLA ROCCA, Diritto matrimoniale
canonico. Terzo volume di aggiornamento, Padova 1992, n. 132).
I. La forma straordinaria del matrimonio 241

«Il loro stato non si può senz’altro equiparare alla condizione dei conviventi
che non sono legati da alcun vincolo, in quanto nel loro caso si ritrova alme-
no un certo impegno a mantenere un definito e verosimilmente stabile stato
di vita, anche se non è estranea a questo stato la possibilità di un eventuale
divorzio. Ricercando il pubblico riconoscimento del vincolo da parte dello
Stato, tali coniugi mostrano di essere disposti ad assumersene, assieme ai
vantaggi, anche gli obblighi» 4.

Per tutto quanto sopra osservato, il matrimonio civile di coloro


che sono tenuti alla forma canonica appare piuttosto da considerarsi
come giuridicamente inefficace 5. L’espressione “matrimonio inesisten-
te” appare infelice.
Come già abbiamo accennato, sono molti coloro che, per varie
ragioni, contraggono un matrimonio civile. Aumenta la scarsità nu-
merica del clero, molti fedeli vivono in uno stato di dispersione. Per
tale ragione, spesso viene sollevata la questione se il matrimonio ci-
vile – qualora si adempiano le condizioni enumerate dal can. 1116 –
possa avere valore ed essere utilizzato come forma straordinaria di
celebrazione. In tale forma, il matrimonio è celebrato di fronte ai soli
testi e non si richiede la presenza di un chierico o comunque di un
assistente alle nozze. Stando così le cose, dobbiamo considerare
quali siano le condizioni per l’utilizzo di questa forma straordinaria.

Il diritto a contrarre matrimonio


e l’obbligo di osser vare la forma canonica
Il matrimonio nella forma canonica, detta dagli autori “ordina-
ria” si contrae di fronte all’Ordinario del luogo, ovvero di fronte al
parroco, ovvero di fronte al sacerdote o al diacono da essi delegato
quali assistenti, nonché di fronte a due testimoni (can. 1108 § 1).
La prescrizione canonica di una specifica forma di celebrazione
del matrimonio è una legge puramente ecclesiastica. Perché secon-
do il diritto divino, un matrimonio sia valido si richiedono le condi-
zioni indicate nel can. 1057: che due persone giuridicamente abili
prestino un vero consenso matrimoniale. È necessario che il con-
traente sia “abile”, legittimato a emettere quell’atto di volontà da cui
il matrimonio viene in essere, ovvero non sia interessato da impedi-
menti di diritto divino e sia capace di assumere gli obblighi del ma-

4
In AAS 74 (1982) 183, n.82.
5
Cf c. Funghini 30 giugno 1988, in F. DELLA ROCCA, Diritto matrimoniale..., cit., 303.
242 Jan Hendriks

trimonio. È inoltre necessario che egli presti un consenso diretto al-


meno alla essenza del matrimonio né esclusorio delle proprietà es-
senziali del matrimonio; un consenso che nessuna potestà umana
può supplire. È diritto naturale di ogni persona contrarre matrimo-
nio, a patto che essa sia capace di contrarre o non abbia liberamente
rinunciato a un tale diritto, per esempio dedicandosi a Dio attraverso
il voto di castità. Per questa ragione, l’Ordinario del luogo non ha fa-
coltà di impedire un matrimonio se non temporaneamente, per una
causa grave e fintanto che essa sussista (can. 1077 § 1). Il diritto na-
turale prevale sugli obblighi puramente ecclesiastici. Pertanto, in al-
cune condizioni, l’obbligo di osservare la forma canonica ordinaria
viene a cessare. Allo scopo di tutelare il diritto naturale di contrarre
matrimonio, talvolta viene meno l’obbligo di osservare la forma ca-
nonica ordinaria, in modo che sia da ritenersi sufficiente la forma
straordinaria ovvero persino nessuna forma.

Cosa si richiede ad validitatem


perché possa utilizzarsi la forma straordinaria
Nel testo del can. 1116 § 1 si legge:
«Se non si può avere la presenza o accedere senza grave incomodo all’assi-
stente competente a norma del diritto, coloro che abbiano l’intenzione di ce-
lebrare un vero matrimonio possono contrarlo validamente e lecitamente di
fronte ai soli testi: 1. in pericolo di morte; 2. al di fuori del pericolo di morte
purché si preveda prudentemente che tale stato di cose durerà per un mese».

Nel secondo paragrafo del canone si aggiunge, solo per la li-


ceità dell’atto, la prescrizione di convocare laddove possibile un sa-
cerdote o un diacono quantunque non competenti:
«In entrambi i casi, se vi sia un altro sacerdote o diacono che possa essere
presente, deve essere chiamato e presenziare, assieme ai testi, alla celebra-
zione del matrimonio, salva la validità delle nozze di fronte ai soli testi» 6.

Il can. 1116 non muta il senso del can. 1098 del Codice previ-
gente, che regolamenta la medesima materia 7.

6
Cf anche CCEO 832.
7
«...praeplacuit canonem 1098, quoad substantiam attinet, immutatum relinquere», in Communicatio-
nes 3 (1971) 80.
I. La forma straordinaria del matrimonio 243

Grave incomodo
Nel can. 1116 si prevede uno stato di cose per cui non si possa
o avere presente o raggiungere alcun assistente in senso tecnico –
né il parroco, né un chierico o un laico debitamente delegati – senza
un grave incomodo, che incomba da un lato sia sull’Ordinario, sia
sul parroco, sia sul loro delegato e, dall’altro, anche solo su uno dei
due contraenti 8. Tale incomodo è di natura obiettiva. La gravità di ta-
le incomodo può essere assoluta, ossia concernente qualsiasi perso-
na, ovvero relativa, ossia concernente almeno uno dei due coniugi o
l’assistente, per esempio in ragione di una malattia, della distanza,
della povertà, della persecuzione ecc. 9. Gli autori aggiungono che ta-
le grave incomodo potrebbe riguardare anche una terza persona ri-
spetto a quelle già richiamate o anche il bene comune, riferendosi al-
la vita, alla salute, alla libertà, alla fama, al possesso dei beni tempo-
rali 10. È ritenuto grave l’incomodo derivante dal divieto dell’autorità
civile, anche sanzionato da una pena, di celebrare il matrimonio reli-
gioso senza la precedente celebrazione di quello civile nel caso che
da parte della autorità civile si rifiuti la celebrazione medesima, per
esempio per difetto della documentazione richiesta dalla legge civi-
le 11. L’incomodo relativo è sufficiente per l’utilizzo della forma straor-
dinaria.
Qualora di fatto un grave incomodo non sussista, il matrimonio
celebrato secondo la forma straordinaria è nullo, né giova l’opinione
soggettiva, l’ignoranza o l’errore di valutazione, neanche se l’errore
sia invincibile e scusabile 12. La forma straordinaria tuttavia vale se
l’assistente non possa essere presente o essere raggiunto senza gra-
ve incomodo, anche se materialmente sia presente nel luogo 13, non
invece se – in assenza del parroco proprio – i contraenti abbiano avu-

8
PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum 3 maii 1945, in
AAS 37 (1945) 149. I responsi dati prima della promulgazione del Codice vigente conservano valore in-
terpretativo ai sensi del can. 6 § 2. Cf Communicationes 10 (1978) 94 e 15 (1983) 237.
9
C. Masala 14 dicembre 1982, in APOSTOLICUM ROTAE ROMANAE TRIBUNAL, Decisiones seu sententiae,
LXXIV, 628.
10
P. FELICI, De forma matrimonii extraordinaria, in P. PALAZZINI (Ed.), Casus conscientiae. I. De matri-
monio, Roma 1961, p. 134; V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, Mechlina 1945, p. 270; P. GASPARRI,
Tractatus canonicus de matrimonio, II, Città del Vaticano 1932, pp. 137-138, n. 1008; A. SZENTIRMAI, De
applicatione can. 1098 in peculiaribus quibusdam adiunctis, in Periodica 52 (1963) 166-169.
11
S. CONGREGATIO DE SACRAMENTIS, Responsum 24 aprilis 1935.
12
C. Masala 14 dicembre 1982, cit., 628-629.
13
PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum 25 iulii 1931, in
AAS 23 (1931) 388.
244 Jan Hendriks

to la possibilità di rivolgersi a un altro parroco. Le parti non sono te-


nute ad affontare un viaggio costoso ovvero pericoloso 14. La forma
straordinaria vale anche se la possibilità di raggiungere un assisten-
te competente venne a suo tempo colpevolmente trascurata 15.
Questa forma si utilizza quando il matrimonio non può essere
contratto secondo le leggi civili e queste stesse leggi distolgono con
la minaccia di gravi pene i ministri della Chiesa dalla celebrazione 16.
La celebrazione religiosa del matrimonio era proibita a meno che
fosse preceduta dal matrimonio civile nelle nazioni allora marxiste e
anche in altre nazioni, quali per esempio il Belgio, la Francia 17, la
Germania, l’Olanda, la Svizzera, l’Argentina, il Salvador, l’Uruguay e
il Venezuela secondo una ricerca di Pio Ciprotti. In Germania, tutta-
via, è stata abrogata la sanzione penale che sanzionava l’inosservan-
za della legge, come riferisce il medesimo autore 18.
La S. Congregazione de Propaganda Fide aveva dato dei respon-
si circa questa materia già prima della promulgazione del CIC 1917.
Nell’anno 1785 tale Congregazione aveva risposto che potevano vali-
damente e lecitamente contrarre matrimonio davanti ai soli testi co-
loro che fossero veramente poveri qualora, per contrarre davanti al-
l’officiale civile, avrebbero dovuto versare cinquanta fiorini, mentre
nel contempo la medesima legge civile proibiva al parroco di assiste-
re al matrimonio religioso con la comminazione della multa di cin-
quecento fiorini 19. In altre circostanze, un fedele contrasse matrimo-
nio in forma straordinaria avendo in antecedenza contratto un matri-
monio civile invalido, ma non potendo ottenere una pronuncia circa

14
C. SARTORI - B. BELLUCCO, Enchiridion canonicum, Roma 1963, 290; J. BANK, Connubia canonica, Ro-
ma 1959, p. 483 dove si legge in una nota: «Debent tamen parochum vicinum adire, usquedum hic aditus
non constituat “grave incommodum” (10-15 km)»; R. BIDAGOR, De forma extraordinaria celebrationis
matrimonii casus singulares, in Monitor Ecclesiasticus 80 (1955) 471: «...pauca quaedam kilometra (10
aut 15 km) non videntur constituere distantiam talem, quae grave incommodum gignat eam percurrere».
15
V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., p. 270.
16
Cf la serie di risposte della Pontificia commissione per la interpretazione autentica del Codice in me-
rito al can. 1098, CIC 1917 dei giorni 10 novembre 1925; 10 marzo 1928; 25 luglio 1931; 12 aprile 1933;
24 aprile 1935; 3 maggio 1945, in C. SARTORI - B. BELLUCCO, Enchiridion..., cit., 289-292.
17
«Le bénéfice de ces diverses interprétationes (Pont. Comm. Interpretationis CIC) peut etre invoqué en
France où la loi du 8 avr. 1802, art. 54 dispose que le mariage civil doit etre célébré le premier, et où les
art. 199 et 200 du Code pénal punissent le ministre du cult qui n’aura pas respecté l’obligation de cette
anteriorité. Lors donc que des époux se heurtent à l’impossibilité de célébrer leur mariage devant l’officier
de l’état civil, alors que la loi ecclésiastique les admet à contracter, ils peuvent se marier simplement de-
vant deux témoins, en la forme prévue par le can.1098, pour éviter toute poursuite contre le ministre du
cult» (R. NAZ, Mariage en droit occidental, in ID. [ED.], Dictionnaire de droit canonique, VI, col. 772).
18
P. CIPROTTI, Il matrimonio religioso nelle legislazioni civili, in Monitor Ecclesiasticus 105 (1980) 88-90.
19
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., cit., pp. 135-136.
I. La forma straordinaria del matrimonio 245

l’invalidità o lo scioglimento dello stesso. Poiché la legge civile proi-


biva un nuovo matrimonio, venne utilizzata la forma straordinaria 20.

In alcune diocesi una legge particolare canonica vieta il matri-


monio a quei fedeli che non abbiano assolto la prevista preparazione
di quattro mesi al matrimonio medesimo e non consente ai ministri
deputati di assistervi. Tale legge è invalida. Infatti l’Ordinario del
luogo soltanto in un caso particolare, per una grave causa e fintanto
che questa sussista, può vietare un matrimonio (can. 1077 § 1). Gli
autori ritengono che quei coniugi per i quali detto tempo di prepara-
zione costituisca realmente un grave incomodo possano contrarre
secondo la forma straordinaria 21.
Non mancano dei canonisti che ritengono che un Ordinario del
luogo non possa impedire a tempo indefinito dei matrimoni misti an-
che nel caso in cui la parte cattolica non voglia prestare le prescritte
promesse, dovendosi ritenere prevalente nel caso il diritto al matri-
monio. Per rispondere a tale opinione occorre da un lato richiamarsi
al can. 1060 del Codice previgente: «[...] se vi è pericolo di perversio-
ne per il coniuge cattolico e per la prole, il matrimonio è vietato dalla
stessa legge divina». Qui si fa riferimento all’obbligo di battezzare
tutta la prole come cattolica e di educarla cattolicamente 22. D’altro la-
to appare che a una persona che scelga un matrimonio dal quale pos-
sa derivare un pericolo per la sua fede, non possano tuttavia essere
negati i diritti naturali, «ma occorre distinguere fra l’errore, sempre
da rigettarsi, e l’errante, che conserva ancora la sua dignità di perso-
na» (GS 28), «né è da ostacolarsi che agisca secondo la propria co-
scienza, soprattutto in materia religiosa» (DH 3). In materia inoltre
almeno per molti casi si è provveduto dal momento che l’obbligo del-
la forma canonica è stato eliminato per coloro che si sono allontanati
con atto formale dalla Chiesa cattolica (can. 1117). L’Ordinario che
non concede la licenza per il matrimonio misto nel caso che i coniugi
non prestino le dovute promesse non toglie il diritto al matrimonio;

20
Cf E. GARCIA, Cases and inquiries: extraordinary form of marriage, in Boletin Ecclesiastico de Filipinas
63 (1987) 226-227 (cit. in Canon Law Abstracts 59 [1988/1] 56).
21
R. CREWSE, The wait to get married, in Homiletic and Pastoral Review 6 (1985) 61-64; J. FARRAHER,
Does canon law allow delaying weddings for some months?, in ibid. 10 (1985) 71 (un riassunto di questi
articoli si trova in Canon Law Abstracts 55 [1986/1] 69 e 56 [1986/2] 59).
22
Cf S.C.S. OFFICII, Responsum diei 22 dec. 1949, in F.X. OCHOA, Leges Ecclesiae, II, n. 2093: «firma sem-
per et integra manente gravi legis naturalis e positivae obligatione catholice baptizandi et educandi uni-
versam utriusque sexus prolem».
246 Jan Hendriks

soltanto circoscrive questo diritto per i fedeli cattolici allo scopo che
sia salvaguardata la legge divina. La parte cattolica solo viene richie-
sta di fare il possibile per corrispondere alle esigenze della sua fede.
Per questa ragione, si deve ritenere che la forma straordinaria non
sia applicabile laddove l’Ordinario nega la licenza per un matrimonio
misto, a meno che siano adempiute le condizioni poste dalla legge
canonica (cf can. 1125).

Non viene ammessa la validità di un matrimonio contratto in


forma straordinaria per ragioni economiche, a meno che ne derivino
gravi danni per coniugi che siano davvero poveri. La Congregazione
per i sacramenti rispose nel 1917 al seguente quesito:
«Se si possano ammettere alla celebrazione del matrimonio quelle donne
che, private dei mariti morti in guerra, non vogliono celebrare il matrimonio
civile allo scopo di non perdere l’annua pensione governativa».

Venne risposto:
«Non si deve recedere dalla prassi della S. Congregazione, e pertanto la per-
dita della pensione non è causa sufficiente per permettere la celebrazione
del matrimonio senza rito civile. Se si abbiano poi altre particolari circostan-
ze, si ricorra nei singoli casi» 23.

La perdita della pensione non costituisce quindi un grave inco-


modo a meno che a essa si aggiunga qualche circostanza aggravan-
te, come nel caso che tale perdita sia da considerarsi veramente in-
giusta, per esempio in quanto rappresentasse la perdita della fonte
del sostentamento 24.

Quando non si verificano le circostanze che costituiscono il gra-


ve incomodo, la forma cosiddetta straordinaria di celebrazione del
matrimonio davanti ai soli testi è illecita e invalida 25.

La Congregazione per la disciplina dei sacramenti raccomandò


che gli Ordinari predisponessero una istruzione con la quale dichia-

23
Risoluzione del 2 luglio 1917, in R. BIDAGOR, De forma extraordinaria celebrationis matrimonii casus
singulares, in Monitor Ecclesiasticus 80 (1955) 471.
24
Cf, su questa questione, K. LUEDICKE, Münsterischer Kommentar zum Codex Iuris Canonici, Essen
1985 e successivi aggiornamenti, commento al can. 1116, 6°.
25
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., cit., p. 141.
I. La forma straordinaria del matrimonio 247

rassero in quali luoghi fosse valido e lecito l’uso della forma straordi-
naria di celebrazione delle nozze,
«sia in considerazione della sempre più grave penuria di sacerdoti e di diaco-
ni, sia per il crescente numero di persone che abitano lontano dalla sede par-
rocchiale e dal domicilio del parroco, sia infine per la mancanza o la diffi-
coltà dei trasporti» 26.

La presenza dei testi


Si richiede la presenza di due testi (can. 1116 § 1; cf can. 1108
§ 1) a meno che si abbia dispensa dalla forma canonica. Il Codice
non richiede per i testi alcuna caratteristica particolare. È sufficiente
che possano effettivamente fungere da testi, ossia che comprendano
che si sta prestando il consenso matrimoniale e che siano in grado di
poter essere testimoni di questo fatto. Svolge validamente la funzio-
ne di teste colui che, seppure non preavvertito di dover svolgere
questo ruolo, effettivamente rende testimonianza dell’avvenuto con-
senso 27. Sono quindi esclusi dal ruolo di testi, come del resto appare
dalla logica delle cose, coloro che non posseggono l’uso di ragione.
Prima dell’inizio del potere comunista, agli Ordinari di luogo ci-
nesi era stata data la facoltà di dispensare dalla forma canonica in ca-
si di vera necessità, in tal modo che nemmeno i testi fossero neces-
sari per la validità del patto nuziale 28.
In caso di pericolo di morte si faccia riferimento a quanto si dirà
più avanti. Nel caso di matrimoni misti, qualora ostino gravi diffi-
coltà alla sua osservanza, l’Ordinario del luogo della parte cattolica
ha la facoltà di dispensare dalla forma canonica, salva tuttavia per la
validità una qualche forma pubblica di celebrazione (can. 1127 § 2).
Il 31 gennaio 1916 la S. Congregazione per i Sacramenti rispose
al seguente dubbio:
«Come debba provvedersi qualora la legge civile proibisca a un parroco di
assistere a un matrimonio di fedeli se non dopo la celebrazione del matrimo-
nio civile, la quale non sempre invero può premettersi».

26
Istruzione Ad Sanctam Sedem sulla celebrazione dei matrimoni di fronte ai soli testi in casi particola-
ri del 7 dicembre 1971, in EV 4, n. 1341.
27
Cf la sentenza della Rota Romana c. Sebastianelli 17 febbraio 1917, in AAS 9 (1917) 504; cf anche
V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., pp. 244-245.
28
Cf le risposte del 1908 della S. Congregazione del Concilio e del 1933 della S. Congregazione de pro-
paganda Fide in Enchiridion canonicum, 291.
248 Jan Hendriks

E la risposta fu:
«Si faccia ricorso nei singoli casi, eccetto che in pericolo di morte, nel qual
caso ogni sacerdote ha la facoltà di dispensare anche dall’impedimento di
clandestinità, permettendo che nelle dette circostanze il matrimonio sia cele-
brato lecitamente e validamente di fronte ai soli testi» 29.

La medesima Congregazione, però, già il 31 marzo 1916 scrive-


va che non era necessario ricorrere nei singoli casi 30. Per questa ra-
gione, alcuni autori ritenevano che un sacerdote potesse dispensare
dalla forma canonica anche al di fuori del pericolo di morte, seppure
per cause gravissime. La qual cosa,
«piuttosto che una vera dispensa, sarebbe una dichiarazione che la legge sta-
bilita dalla Chiesa non sarebbe da urgere nella sua osservanza, a causa della
impossibilità morale di osservarla» 31.

In rarissime circostanze i coniugi possono quindi contrarre ma-


trimonio senza la presenza di alcun teste e senza alcuna dispensa
dalla forma canonica. A questo proposito, scrisse il cardinale Pietro
Gasparri:
«Se la forma sostanziale prescritta dal diritto per la celebrazione di un matri-
monio non può essere osservata senza un grave incomodo, cessa l’obbligo
di osservarla; e, pur nella inosservanza della stessa, il matrimonio è valido e
lecito, in quanto in questo caso la forma sostanziale si opporrebbe al diritto
naturale al matrimonio, conflitto nel quale è evidente che il diritto naturale
debba prevalere [...] l’obbligo, se non può essere osservato senza grave in-
comodo sia circa la presenza del sacerdote sia circa quella dei testi, cessa
del tutto» 32.

Questo accadrebbe qualora i nubendi, diversamente, dovrebbe-


ro astenersi per sempre o per lunghissimo tempo dal celebrare il
matrimonio, cosa che accade piuttosto raramente 33.
Instauratosi in Cina il regime comunista, il S. Ufficio dichiarò
che i fedeli non erano tenuti alla forma canonica di matrimonio, sia

29
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., cit., p. 140, n. 1015.
30
«Ordinarius recurrere non dedignetur in singulis casibus iuxta decretum editum ab hac S. Congregatio-
ne die 31 ian. 1916» in AAS 8 (1916) 37.
31
Sentenza c. Palestro 19 febbraio 1986, in ARRT Dec. LXXVIII, 106 (cf anche 105).
32
P. GASPARRI, Tractatus..., cit., p. 134, n. 998.
33
Cf V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., p. 269, il quale cita P. CHRETIEN, Praelectiones de matri-
monio, Metis 1937, p. 137.
I. La forma straordinaria del matrimonio 249

ordinaria sia straordinaria, e neppure agli impedimenti di diritto ec-


clesiastico dai quali la Chiesa soleva dispensare. Questo decreto ha
valore di una interpretazione dichiarativa «in quanto concerne pre-
scrizioni di diritto positivo che, in considerazione delle circostanze
straordinarie di quel territorio, non possono essere osservate». Nel
caso in cui le leggi positive non possano essere osservate, il decreto
offre l’enunciazione del principio secondo cui le leggi puramente ec-
clesiastiche non obbligano con un grande incomodo, in forza del
quale il decreto medesimo «può essere applicato anche ad altri terri-
tori» 34. In caso di necessità dunque, non è richiesta nemmeno la pre-
senza dei testi e il contraente è esentato da ogni forma prescritta di
celebrazione.
Talvolta, il medesimo principio secondo cui la legge ecclesiasti-
ca non obbliga con un incomodo tanto grave, viene applicato ai casi
in cui il matrimonio non possa essere celebrato in forma canonica
pur in presenza di certezza morale della nullità di un matrimonio
precedente di uno dei due interessati, certezza però acquisibile solo
in foro interno e non dimostrabile nel foro ecclesiastico. In tal caso,
sarebbe sufficiente il solo consenso naturalmente valido, senza poter
richiedere alcuna forma. Circa tali casi, ha tuttavia osservato monsi-
gnor Mario Francesco Pompedda, decano della Rota Romana: «Nella
realtà una simile eventualità [è] tanto rara da potersi considerare co-
me praticamente non verificantesi» 35. Se non consta in modo legitti-
mo della nullità o dello scioglimento del precedente matrimonio, a
due nubendi non è per la legge canonica lecito contrarre matrimonio
in forma straordinaria (can. 1085 § 2) 36.

Il consenso
Se non è presente alcun ministro sacro, i contraenti possono
utilizzare la forma straordinaria di celebrazione descritta dal can.
1116 § 1, che comporta la presenza di due testi. Coloro che si trova-
no nelle condizioni previste dal canone conoscono però assai rara-
mente questa possibilità della forma straordinaria.

34
S.C.S. OFFICII, Responsum del giorno 27 gennaio 1949 e del giorno 22 dicembre 1949, in X. OCHOA,
Leges Ecclesiae, II, 2563, nn. 2021, 2659, 2093.
35
La questione della ammissione ai sacramenti dei divorziati civilmente risposati, in ID., Studi di diritto
matrimoniale canonico, Milano 1993, p. 506; cf J. HENDRIKS, Huwelijksrecht, Brugge, Oestgeest 1995,
p. 222.
36
Cf Communicationes 10 (1978) 94.
250 Jan Hendriks

Tuttavia, se i due contraenti in qualsiasi modo esprimono una


autentica volontà matrimoniale alla presenza di due testimoni, si de-
vono ravvisare adempiute le condizioni in forza delle quali essi con-
traggono matrimonio in forma straordinaria: sia in quanto la validità
del matrimonio non dipende dal rito; sia in quanto non si richiede
che i coniugi siano consapevoli di contrarre validamente, poiché «sa-
pere o supporre che il matrimonio sia nullo non esclude necessaria-
mente il consenso matrimoniale» (can. 1100). Per la validità del patto
matrimoniale è necessario e sufficiente che coloro che siano in con-
dizione di ricorrere alla forma straordinaria intendano «celebrare un
vero matrimonio» (can. 1116 § 1) 37.

In pericolo di morte
Se incombe il pericolo di morte, l’Ordinario del luogo, ma an-
che un sacerdote e un diacono – qualora non sia possibile raggiun-
gere l’Ordinario del luogo – hanno sicura facoltà di dispensare dalla
forma canonica (can. 1079 § 1-2); né, in tale circostanza, è più nem-
meno richiesta la presenza dei testi. Sempre se incombe il pericolo
di morte, il sacerdote o il diacono che non possano ricorrere all’Or-
dinario del luogo possono pure dispensare dagli impedimenti che
non siano di diritto divino, eccettuato però l’impedimento derivante
dalla ricezione dell’ordine del presbiterato (can. 1079 § 2).
Il pericolo di morte si realizza quando vi sia una vera e grave
probabilità del verificarsi della morte 38. La causa del pericolo di mor-
te può provenire sia da una malattia sia da una causa esterna al sog-
getto, come per esempio una guerra, un parto difficile, una condan-
na capitale, una operazione chirurgica. La facoltà di dispensare può
essere esercitata anche se la parte interessata dall’impedimento sia
in buona salute e sia invece l’altra parte a versare in pericolo di mor-
te 39. Il pericolo di morte deve essere valutato moralmente 40. La di-
spensa vale se il ministro prudentemente giudichi vi sia pericolo di

37
Queste parole del can. 1116 mancavano nel can. 1098 del Codice previgente; furono introdotte per
evitare una casistica eccessivamente tortuosa. Si veda Communicationes 10 (1978) 95-96 e anche
J. MARTINEZ-TORRON, La valoración del consentimiento en la forma estraordinaria del matrimonio canó-
nico, in Revista Española de Derecho Canónico 40 (1984) 431-458.
38
P. GASPARRI, Tractatus canonicus de matrimonio, I, Città del Vaticano 1932, p. 231.
39
Come risulta evidente da un responso del S. Ufficio del 1° luglio 1891: cf V. HEYLEN, Tractatus de
matrimonio, cit., p. 658.
40
Cf P. GASPARRI, Tractatus..., I, cit., p. 231.
I. La forma straordinaria del matrimonio 251

morte, anche se per esempio successivamente un medico valuti che


la condizione del malato era in realtà migliore di quanto non apparis-
se 41. Il pericolo di morte è urgente qualora il tempo sia verosimil-
mente insufficiente affinché il sacerdote o il diacono possano ricor-
rere all’Ordinario con mezzi ordinari (cf can. 1079 § 4). In questi
casi, concessa la dispensa dalla forma canonica e dagli eventuali im-
pedimenti, sono sufficienti quegli elementi che, per diritto divino,
debbono essere richiesti per contrarre un valido matrimonio.
Una volta concessa la dispensa, il ministro sacro che l’ha accor-
data ne deve dare immediata notizia all’Ordinario del luogo. Detta di-
spensa va annotata sul libro dei matrimoni (can. 1081).
È da notare che la forma straordinaria può essere utilizzata an-
che se il pericolo di morte, che pure è sempre necessario sussista,
non sia urgente. E nemmeno occorre che la circostanza, per la quale
un assistente legittimato alle nozze non possa intervenire o non possa
essere raggiunto senza un grave incomodo, sia di fatto a lungo duratu-
ra. Affinché la forma straordinaria possa essere applicata è sufficiente
che uno dei contraenti si trovi in pericolo di morte e che in quel deter-
minato momento non sia possibile, senza grave incomodo, ottenere la
presenza di una persona legittimata ad assistere alle nozze.

Al di fuori del pericolo di morte


Al di fuori del pericolo di morte, è consentito contrarre matri-
monio nella forma straordinaria a coloro che non possono avere un
assistente legittimato «purché prudentemente si preveda che quella
situazione si protrarrà per un mese» (can. 1116 § 1, 2°). Non è suffi-
ciente né si esige un’assenza del ministro assistente perché possa
farsi ricorso alla forma straordinaria 42. Tale assenza di un mese, ri-
chiesta dal decreto Ne temere del 1907, non si ritrova nel Codice del
1917 43. Il can. 1098 di quel Codice si esprime con le medesime paro-
le che si ritrovano nel vigente can. 1116 § 1, 2°. Si tratta qui di una
previsione relativa a un tempo futuro, che
«deve fondarsi su di un giudizio moralmente certo, non basato su circostan-
ze inopinate e straordinarie, ma su una previsione che prenda le mosse da

41
Cf T. VLAMING - L. BENDER, Praelectiones iuris matrimonii, Bussum in Hollandia 1950, p. 298.
42
C. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629.
43
S. CONGREGATIO CONCILII, Decreto Ne temere, 2 agosto 1907.
252 Jan Hendriks

quanto solitamente accade; ovvero formatosi a partire da un fatto notorio o


da una indagine» 44.

L’opinione più comune afferma che è sufficiente una condizione


obiettiva di cose in base alla quale possa prevedersi con certezza mo-
rale l’assenza o l’impedimento dell’assistente alle nozze, e che non si
richieda invece sempre un giudizio in merito formatosi personalmen-
te dai due coniugi ovvero da coloro che curano la preparazione delle
nozze 45. Considerando gli sviluppi futuri, si deve in sostanza giudica-
re che l’assistente legittimato non possa essere presente o non si pos-
sa raggiungere senza un grave incomodo. Perché ci si possa formare
rettamente un tale giudizio, debbono essere accuratamente vagliate
nella loro obiettiva gravità le circostanze di fatto e personali. Non è da
esigersi una indagine particolarmente scrupolosa. Se una prudente
previsione si dimostra successivamente erronea, la validità del matri-
monio non ne resta intaccata 46. Nemmeno si oppone alla validità del
matrimonio il fatto che, in maniera imprevedibile, il parroco o un al-
tro assistente legittimato improvvisamente si rendano presenti. Con
queste affermazioni che esigono una certezza morale, nella giuri-
sprudenza rotale si dà risposta alla discussione fra gli autori circa l’in-
terpretazione oggettiva ovvero soggettiva che si dovrebbe dare a que-
sto criterio della impossibilità protratta per un mese di avere la assi-
stenza alle nozze da parte di un ministro legittimato 47.
In ogni caso, contraggono validamente matrimonio coloro che –
secondo un prudente giudizio – si trovano nelle condizioni che si di-
mostrano corrispondere a quelle del can. 1116.
I nubendi non hanno bisogno del permesso del parroco ovvero
di qualche altra autorità per fare ricorso alla forma straordinaria. È
sufficiente che si verifichino le condizioni richieste dalla legge. Nem-
meno è necessario che i nubendi conoscano che per la Chiesa esiste
questa forma straordinaria di matrimonio. Coloro che emettono un
consenso naturalmente sufficiente, qualora si trovino in condizioni
che realizzano quelle richieste dal canone, contraggono un vero ma-

44
C. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629; V. HEYLEN, Tractatus de matrimonio, cit., p. 274; PONTIFICIA
COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Resp. 10 novembris 1925, in AAS 17
(1925) 583.
45
Cf R. BIDAGOR, Circa interpretationem canonis 1098 CIC, in Monitor Ecclesiasticus 78 (1953) 480-485.
46
C. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629.
47
Circa questa questione della interpretazione soggettiva piuttosto che oggettiva, cf J. BANK, Connubia
canonica, cit., pp. 485-488.
I. La forma straordinaria del matrimonio 253

trimonio secondo la forma straordinaria. Per esempio, occorre pre-


sumere la validità di un matrimonio (cf can. 1060) celebrato davanti
a un ufficiale civile, se i coniugi si trovavano in una situazione che
realizzava le condizioni previste nel can. 1116, anche se quei coniugi
ignoravano che quel loro matrimonio avesse valore anche per la
Chiesa 48. Chi è chiamato a giudicare della validità di questi matrimo-
ni, deve ricostruire la volontà dei contraenti. Se non vi sono impedi-
menti dirimenti, è valido il matrimonio di coloro che, alla presenza di
due testi, esprimono un vero consenso matrimoniale. La forma in cui
questo consenso è stato espresso (per esempio di fronte a un ufficia-
le civile, in una casa privata; ovvero le parole attraverso le quali il
consenso è stato espresso) in tali casi non pongono ostacolo alla vali-
dità del matrimonio. Per la qual cosa, anche un matrimonio civile sa-
rebbe valido canonicamente se contratto in condizioni nelle quali è
lecito contrarre in forma straordinaria.
«Quando infatti si verificano le condizioni che la Chiesa in un certo caso esi-
ge perché sia valido un matrimonio anche senza l’assistenza di un teste qua-
lificato, la soluzione della questione deve essere trovata in ciò che effettiva-
mente le parti abbiano voluto, e cioè nel fatto se il loro consenso fosse o me-
no naturalmente sufficiente [...] E infatti, quando nulla manca di quanto la
Chiesa richiede in queste circostanze, la volontà dei contraenti produce im-
mediatamente il suo effetto. Né si oppone alla validità del loro matrimonio il
fatto che i contraenti errino, ritenendo che non valga di fronte alla Chiesa un
simile matrimonio celebrato di fronte a un ufficiale civile» 49.

Cosa si richiede ad liceitatem


perché possa utilizzarsi la forma straordinaria di celebrazione
Il secondo paragrafo del can. 1116 pone delle condizioni che con-
cernono solo la liceità di un matrimonio contratto nella forma straor-
dinaria, sia che sia presente o meno il pericolo di morte:
«In entrambi i casi, se sia disponibile un altro sacerdote o diacono che possa
essere presente, deve essere chiamato e presenziare alle nozze assieme coi
testi, salva la validità del matrimonio celebrato davanti ai soli testi».

48
P. FELICI, De forma matrimonii..., cit., p. 136.
49
C. Jullien, sentenza 7 dicembre 1931, citata nella c. Masala 14 dicembre 1992, cit., 629-630, n. 7. Sul
punto si veda anche J. BANK, Connubia canonica, cit., pp. 488-490; L. BENDER, Valor actus, ut aiunt, civi-
lis in casibus qui a can. 1098 reguntur, in Monitor Ecclesiasticus 80 (1955) 106-119; Communicationes 10
(1978) 95.
254 Jan Hendriks

Il sacerdote o diacono deve essere dunque chiamato ed essere


presente se possa presenziare alle nozze assieme coi testi. Deve es-
sere invitato un sacerdote o un diacono che sia presente nel luogo,
non colui che potrebbe con difficoltà essere presente. Tale chierico
ha la facoltà di dispensare circa quanto previsto nel can. 1079 (in pe-
ricolo di morte) e nel can. 1080 (quando tutto è ormai predisposto
per le nozze). È del tutto opportuno, anche se non viene espressa-
mente prescritto, che sia lui a richiedere la manifestazione del con-
senso da parte dei contraenti. Se essi sono liberi da impedimenti, la
presenza di tale sacerdote o diacono comunque non rileva per la vali-
dità del loro matrimonio.
Il sacerdote o diacono che presenzia a un matrimonio celebrato
in forma straordinaria o – in caso di assenza di quelli – i testi hanno in
solido con i contraenti l’obbligo di notificare quanto prima al parroco
o all’Ordinario del luogo la avvenuta celebrazione, come stabilisce il
can. 1121 § 2. Il matrimonio così contratto deve essere annotato sui
registri di matrimonio e dei battezzati (cann. 1121 § 1 e 1122 § 1).
Nel diritto orientale si stabilisce che il sacerdote deve essere
chiamato, se è disponibile, perché benedica le nozze (CCEO can. 832
§ 2); diversamente i coniugi sono tenuti a chiedere, successivamente
rispetto alla celebrazione, la benedizione di un sacerdote (§ 3). Le
quali cose sono richieste solo per la liceità.
Dal momento che al matrimonio celebrato in forma straordina-
ria manca «qualsiasi segno che illustri l’indole sacra e religiosa delle
nozze», la Congregazione per la disciplina dei sacramenti nel 1971
ha pubblicato una Istruzione secondo la quale, per rendere maggior-
mente fruttuose queste celebrazioni, si raccomanda la deputazione
di laici che possano effettuare una catechesi previa alle nozze, che ri-
coprano il ruolo di uno dei due testimoni e che redigano nella debita
forma un documento relativo alla celebrazione del matrimonio 50.
Circa le cerimonie da osservarsi nella celebrazone del matrimo-
nio nella forma straordinaria, attualmente nulla è stabilito, nemmeno
per la liceità 51.

50
Istruzione Ad sanctam Sedem, in EV 4, nn. 1338-1344: il testo citato si trova al n.1339. Circa il laico
preparato allo svolgimento dei detti compiti, cf i nn. 1342-1344.
51
Cf tuttavia P. GASPARRI, Tractatus..., II, cit., p. 139, circa una lettera della S. Congregazione de propa-
ganda Fide del 1830, che indicava anche delle modalità celebrative.
I. La forma straordinaria del matrimonio 255

Alcune conclusioni pratiche


Nei lavori della commissione per la revisione del Codice si di-
scusse anche dei possibili abusi della forma straordinaria. I membri
della commissione ammettevano che non pochi matrimoni clandesti-
ni vengono contratti
«soprattutto, se non unicamente, in quelle regioni dove la legge civile colpi-
sce con una pena il ministro di culto che assiste alla celebrazione di un ma-
trimonio religioso prima che abbia avuto luogo il matrimonio civile».

Lungo tutti i lavori di codificazione, anche altri inconvenienti


della forma straordinaria vennero presi in considerazione. Vari e-
mendamenti vennero proposti al testo del canone per precauzionarsi
nei confronti di tali inconvenienti: tuttavia i consultori respinsero tut-
te le proposte fatte.
«Tanto è urgente la necessità di tutelare il diritto a contrarre un matrimonio
sicuramente valido, che esso non può essere reso più incerto a causa degli
abusi, per quanto gravi, nell’utilizzo della forma straordinaria» 52.

Per la qual cosa, nulla è stato innovato in questa materia. Colo-


ro che intendono contrarre un vero matrimonio e si trovano nelle
condizioni enumerate nel can. 1116 contraggono validamente, anche
se non siano a conoscenza della esistenza di tale forma straordinaria
di celebrazione.
Una risposta della Pontificia Commissione per la interpretazione
autentica del Codice del 1984 stabilisce che sono sufficienti le investi-
gazioni prematrimoniali da farsi ai sensi dei cann. 1066-1067, qualora
abbiano contratto matrimonio solo civile persone che erano per sé te-
nute alla forma canonica 53. In tali casi, tuttavia, rimane aperta una
questione di rilevantissima importanza, e cioè se i soggetti fossero
davvero tenuti o meno alla forma canonica, dal momento che deve
sempre constare che «nulla si opponga a una valida e lecita celebra-
zione» (can. 1066). In modo particolare occorre verificare lo stato di
cose effettivamente sussistente quando venne celebrato il matrimo-
nio civile. Se vi si trovavano realizzati i requisiti del can. 1116, il matri-
monio celebrato è valido pure canonicamente, anche qualora la forma

52
Communicationes 3 (1971) 80-81; 8 (1976) 50-53; 10 (1978) 94-95.
53
AAS 76 (1984) 746-747.
256 Jan Hendriks

straordinaria venne utilizzata illecitamente e per alcuni aspetti in


fraudem iuris 54.
In alcune nazioni dove il matrimonio religioso è vietato se non è
preceduto da quello civile, coloro che contraggono il detto matrimo-
nio civile sono gravati da importanti responsabilità economiche, cui
si sottraggono coloro che liberamente convivono. Coloro che, per ta-
li ragioni, non vogliono contrarre il matrimonio civile, possono con-
trarlo validamente in forma straordinaria. Tuttavia, non ogni grava-
me economico è sufficiente perché i contraenti possano fare ricorso
a questa forma di matrimonio. Occorre ponderare se il disagio eco-
nomico fosse per loro effettivamente grave.
L’esortazione apostolica Familiaris consortio, al n. 82 stabilisce
a proposito dei cattolici che «preferiscono contrarre il solo matrimo-
nio civile, disatteso o anche solo differito quello religioso»: «I pastori
della Chiesa, purtroppo, non possono ammetterli ai sacramenti» 55.
Per questa ragione, perché possano essere ammessi alla santa co-
munione e agli altri sacramenti, coloro che hanno contratto un matri-
monio civile che sia considerabile come forma canonica straordina-
ria è opportuno curino che il loro matrimonio sia annotato nei regi-
stri ecclesiastici di matrimonio.
Se viene utilizzata la forma straordinaria ma vi è la presenza di
impedimenti è necessario, perché il matrimonio abbia valore, che es-
si siano dispensati. Solo in circostanze del tutto straordinarie si può
dire che gli impedimenti ecclesiastici vengano meno. Tuttavia chi
per lungo tempo non sia in condizioni di poter chiedere la dispensa
da qualche impedimento, non è tenuto dagli impedimenti che posso-
no andare soggetti a dispensa, poiché nel caso prevale il diritto natu-
rale a contrarre matrimonio 56.
JAN HENDRIKS
Grote Haven, 10
2851 BM Haastrecht (Paesi Bassi)

54
Cf SEGNATURA APOSTOLICA, Letter to the Bishop of Mainz, 10 maggio 1976, in Canon Law Society of
Great Britain and Ireland - Newsletter 75 (1988) 48-50.
55
GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, in AAS 73 (1981)
183, n. 82. Cf anche J. HENDRIKS, «Ad sacram communionem ne admittantur...». Adnotationes in can.
915, in Periodica 79 (1990) 172; ID., «Non siano ammessi alla sacra comunione...» in Quaderni di diritto
ecclesiale 5 (1992) 199.
56
F.M. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de sacramentis, III, De matrimonio, Torino 1939, n. 692;
P. CHRETIEN, Praelectiones de matrimonio, Metis 1937, p. 173.
257
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 257-267
II. Note in materia
di “forma straordinaria”
della celebrazione del matrimonio
di Paolo Bianchi

Assai volentieri la nostra rivista ha ospitato l’articolo del sacer-


dote dottor Jan Hendriks, professore olandese di diritto canonico, in
merito alla forma canonica cosiddetta straordinaria di celebrazione
del matrimonio.
I lettori che già hanno affrontato questo articolo si saranno cer-
to resi conto come esso – cosa peraltro non infrequente in ambito ca-
nonistico – conduca a porre in luce non solo problematiche di carat-
tere organizzativo e disciplinare concernenti l’ordine della vita eccle-
siale, bensì anche questioni di carattere generale e, per così dire,
fondamentali dell’ordinamento matrimoniale canonico.
Per questo è parso bene accompagnare la pubblicazione di que-
sto articolo con alcune brevi note che, da un lato, consentano di co-
gliere pienamente la ricchezza del discorso sviluppato dall’Autore e,
dall’altro, consentano di riferire la problematica affrontata alla situa-
zione ecclesiale italiana, per alcuni aspetti regolamentata da una nor-
mativa particolare.

1. L’articolo del professor Hendriks nasce come relazione tenu-


ta a un corso di aggiornamento organizzato dalla Pontificia Univer-
sità Gregoriana. Esso è poi recentemente apparso sotto forma, ap-
punto, di articolo nella Rivista di materia canonistica di questa presti-
giosa Università 1. La relazione e l’articolo sono in lingua latina. Per
la nostra rivista se ne è approntata una traduzione, il più possibile fe-
dele al testo dell’Autore, anche se non meccanicamente letterale. Più

1
J. HENDRIKS, Matrimonii forma extraordinaria (can. 1116), in Periodica de re canonica 84 (1995)
687-709.
258 Paolo Bianchi

sotto si offriranno alcune puntualizzazioni anche su qualche passag-


gio dove una maggiore esplicitazione concettuale e pratica sono ap-
parse opportune.

2. L’articolo del professor Hendriks ha di mira la esplicitazione


delle linee generali della disciplina canonica in materia di forma co-
siddetta straordinaria della celebrazione del matrimonio, nonché si
preoccupa di far emergere la ratio di tale disciplina che – è forse be-
ne subito ribadirlo – è a tutti gli effetti “forma canonica” di celebra-
zione del matrimonio.
Per quanto appena detto è chiaro che l’esposizione non ha e-
spressamente come suo riferimento una situazione ecclesiale e so-
ciale particolare quale quella italiana: essa fa piuttosto riferimento a
due altre situazioni di contesto generale.
In primo luogo, al fatto che l’ordinamento canonico ha territo-
rialmente una diffusione mondiale, valendo l’obbligo della forma ca-
nonica di matrimonio laddove vi sia un cattolico che intenda contrar-
re un vero matrimonio. Per questo, per esempio, hanno ancora un
plausibile valore alcune determinazioni operate dalla dottrina – sep-
pure datata di qualche decennio – in merito alle distanze che potreb-
bero costituire l’estremo del grave incomodo per accedere al mini-
stro legittimato a prestare assistenza al matrimonio come teste quali-
ficato. È infatti da considerarsi come non per tutti i cattolici le
possibilità di spostamento siano equivalenti a quelle dei cattolici che
vivono nelle condizioni abitualmente caratterizzanti il nostro Paese.

In secondo luogo, l’articolo fa spesso riferimento a particolari


(ma non del tutto statisticamente eccezionali) disposizioni civili cui
sono tenuti i cattolici in alcune nazioni in materia matrimoniale e che
possono costituire una potenziale limitazione di fatto dell’esercizio
del loro diritto al matrimonio e integrare una situazione che giustifi-
chi l’applicabilità della forma cosiddetta straordinaria di celebrazio-
ne. Si intende soprattutto far cenno a quelle disposizioni della legge
statale che impongono come obbligatoria la celebrazione civile delle
nozze previamente a quella religiosa, magari anche sanzionando am-
ministrativamente, se non penalmente, la prassi contraria.

3. Quanto è però di maggior rilievo da notare nell’articolo del


professor Hendriks e che rappresenta il pregio principale della sua
esposizione è il fatto che, in tutto il suo sviluppo, vengono chiara-
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 259

mente e correttamente tenuti in tensione l’attenzione alle ragioni del


concreto istituto di diritto positivo (la “forma” di celebrazione del
matrimonio, sia ordinaria che straordinaria) e il diritto “naturale” del
fedele al matrimonio medesimo (cf il can. 1058), che è poi per lui di-
ritto al matrimonio-sacramento, dato il principio della identità-insepa-
rabilità tra valido contratto matrimoniale fra battezzati e sacramento
che anche la vigente legislazione ribadisce (can. 1055 § 2).
Tale impostazione va giustamente valorizzata. Essa, da un lato,
non sottovaluta le ragioni e la opportunità di una forma (anche straor-
dinaria) ad validitatem di celebrazione, che sono da reperirsi nella
pubblicità del patto matrimoniale e nella certezza dello stato giuridico
che ne deriva. Tuttavia, d’altro lato, non consente che tale norma di
diritto positivo venga, per così dire, assolutizzata, con potenziale de-
trimento di precetti giuridici di rango maggiore e certamente sovra-
ordinati rispetto alla pur ragionevole prescrizione della solennità del-
la celebrazione matrimoniale.
Tali principi di maggior rango e che, in caso di obiettivo contra-
sto, devono certamente prevalere rispetto a quelli di mero diritto po-
sitivo sono: la possibilità di effettivo esercizio del diritto “naturale” al
matrimonio; il ruolo di unica causa efficiente del consenso nel patto
nuziale, sostanzialmente in se stesso sufficiente ed efficace se inter-
corrente fra persone “abili” alle nozze.
Questi principi sono di troppa importanza perché siano sottopo-
sti al pericolo di venire neutralizzati da una non prudente ed equa
applicazione del precetto della obbligatorietà della forma canonica di
celebrazione.
La sottolineatura appena fatta appare di particolare utilità: pros-
simamente per meglio comprendere e apprezzare la esposizione del
professor Hendriks; più remotamente e genericamente per cogliere
una dinamica peculiare dell’ordinamento ecclesiale, ossia la sua pro-
pensione a realizzare la giustizia sostanziale, alla quale sacrificare al-
cuni aspetti formali dell’ordinamento in quei casi, seppure eccezio-
nali, nei quali essi potrebbero deviare dagli scopi per cui sono stati
istituiti, trasformandosi nel pratico disconoscimento dei diritti della
persona.

4. Indicate quelle che paiono essere le principali avvertenze per


una più proficua lettura dell’articolo del professor Hendriks possia-
mo passare: a segnalare alcune questioni meritevoli di una seppure
breve ripresa (n. 5); a effettuare alcune applicazioni alla situazione e
260 Paolo Bianchi

normativa ecclesiale italiana (n. 6); e a illustrare esemplificativamen-


te alcune situazioni forse meno facilmente configurabili presentate
dall’articolo di cui ci occupiamo (n. 7).

5. Due appaiono le questioni toccate dall’articolo del professor


Hendriks che sono meritevoli di una breve ripresa e puntualizzazione.
a) La prima concerne quanto accennato alla fine del paragrafo
dedicato alla presenza dei testi anche nella forma cosiddetta straor-
dinaria di celebrazione. L’articolo, ricordando situazioni storiche
affatto particolari, richiama un principio tradizionale canonico-mora-
le, ossia quello che sancisce il non obbligo delle leggi puramente ec-
clesiastiche qualora la loro osservanza procuri un grave incomodo
nel soggetto che vi sarebbe obbligato. L’Autore ricorda che tale prin-
cipio è stato talvolta applicato alla questione dei matrimoni obiettiva-
mente invalidi ma non dimostrabili in “foro esterno” come tali. Giu-
stamente – anche attraverso il richiamo ad autorevole dottrina – si ri-
badisce però il fatto che simili fattispecie sono del tutto eccezionali e
non possono essere prospettate come una normale eventualità.
È infatti, da un lato, davvero difficile che ci possa essere una
certezza morale in coscienza in una materia tanto complessa e deli-
cata e, soprattutto, laddove il soggetto sarebbe il giudice di se stes-
so, con gravi rischi circa l’effettiva obiettività del giudizio medesimo
(da qui il saggio principio tradizionale nemo iudex in causa propria);
dall’altro, occorre ricordare come il vigente ordinamento processua-
le canonico abbia cercato di elaborare uno strumentario probatorio e
dei criteri di valutazione della prova che favoriscano al massimo la
corrispondenza fra verità effettiva e verità raggiungibile nel proces-
so 2. Per questo si ritiene del tutto condivisibile e ragionevole la posi-
zione dell’Autore che giudica illecito il ricorso alla forma cosiddetta
straordinaria del matrimonio nel caso non consti in modo legittimo
della nullità o dello scioglimento di un eventuale matrimonio prece-
dente.
Teorizzare tale ricorso come abituale “soluzione” di molte posi-
zioni familiari irregolari introdurrebbe verosimilmente una prassi
che non solo non raggiungerebbe lo scopo pur generosamente inte-
so (chi garantirebbe la verità del giudizio di coscienza dato? tale giu-

2
Ci si permette il rinvio all’articolo di P. BIANCHI, Nullità di matrimonio non dimostrabili. Equivoco o
problema pastorale?, in Quaderni di Diritto ecclesiale 6 (1993) 280-297.
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 261

dizio sarebbe uguale per la coscienza dei due coniugi interessati? e


quale dovrebbe prevalere in caso di difformità? sarebbe poi tale giu-
dizio permanente nel tempo, ovvero soggetto a ripensamenti e incer-
tezze, non essendo certificato da alcuna autorità legittima terza?),
ma anzi non farebbe che incrementare quella deriva di soggettivizza-
zione della esperienza della vita cristiana che sembra al contrario
meritevole di nessun facile ed emotivo incoraggiamento.
b) La seconda questione che merita una breve ripresa è quella
che l’Autore tocca nell’ambito delle conclusioni pratiche che pone in
fine al suo lavoro. Si tratta di una questione assai delicata e concerne
la possibilità di ricorrere alla forma straordinaria di matrimonio per
evitare gli incomodi derivanti dalle sfavorevoli condizioni economi-
che che verrebbero a crearsi dall’obbligo della celebrazione civile
del matrimonio, in alcune nazioni da premettersi al rito religioso. È
chiaro che, per la situazione italiana, il problema si pone soprattutto
in relazione al matrimonio concordatario (ossia canonico con effetti
civili) o, ancor più precisamente, di fronte alla negazione, da parte
della autorità ecclesiastica competente, dell’autorizzazione a contrar-
re matrimonio solo canonico proprio in ragione dei temuti svantaggi
patrimoniali.
A questo proposito, si deve condividere la posizione secondo la
quale, in linea generale, si ritiene ingiustificato considerare un grave
incomodo la volontà di conservare un beneficio di carattere patrimo-
niale (per esempio la reversibilità della pensione di un precedente
coniuge; ovvero il non provocare modifiche nel proprio asse succes-
sorio), realizzata attraverso il rifiuto di far acquisire rilievo anche ci-
vile al proprio matrimonio. Tale incomodo potrebbe sussistere solo
laddove si possa ritenere che, dalla modifica che si prevede nella
condizione patrimoniale del soggetto, sarebbero poste in discrimine
le stesse possibilità di sussistenza economica della persona o che es-
sa verrebbe a trovarsi in condizioni economiche sostanzialmente
peggiorate. In caso diverso, appare equo che chi sceglie il matrimo-
nio contragga un vincolo valido anche di fronte all’ordinamento civi-
le, con quelle conseguenze, anche di carattere giuridico-patrimonia-
le, che discendono dalla nuova situazione personale.
Né pare, almeno nella situazione italiana, che nell’eventuale ca-
so di vera necessità, i fedeli siano legittimati al ricorso alla cosiddetta
forma straordinaria di celebrazione del matrimonio. Infatti, la norma-
262 Paolo Bianchi

tiva canonica particolare per la Chiesa italiana, prevede che, in tali


casi, la stessa autorità ecclesiastica possa concedere la celebrazione
del matrimonio solo canonico. In questa linea, il decreto generale
della Conferenza episcopale nazionale in tema di matrimonio canoni-
co, in vigore dal 17 febbraio 1991, prevede – con riferimento al caso
di più frequente verificazione – che

«l’ammissione al matrimonio solo canonico di persone vedove può essere


concessa dall’ordinario del luogo, per giusta causa, quando esse siano anzia-
ne e veramente bisognose. Al di fuori di tali circostanze la licenza può essere
data soltanto per ragioni gravi e a condizione che le parti si impegnino a ri-
chiedere la trascrizione del matrimonio agli effetti civili non appena vengano
meno le cause che hanno motivato la licenza medesima» (art. 40).

Né sembra infine ragionevole ipotizzare che la decisione di ca-


rattere pastorale di non concedere la celebrazione del matrimonio
solo religioso possa costituire un grave incomodo che giustifichi il ri-
corso alla forma cosiddetta straordinaria della celebrazione. Detta
decisione, infatti, non preclude l’esercizio del diritto del fedele a con-
trarre matrimonio, bensì solo accerta e dichiara che non sussistono
le condizioni per consentire la costituzione di un vincolo matrimonia-
le che non sia anche riconosciuto (come è di norma e di ragione op-
portuno e auspicabile sia: da qui le intese concordatarie in merito fra
Chiesa cattolica e Stato italiano) dall’ordinamento giuridico civile.

6. In diretto riferimento alla particolare normativa canonica ita-


liana in materia matrimoniale, pure due questioni debbono essere
puntualizzate.
a) La prima concerne quanto in linea generale correttamente
affermato dal professor Hendriks nel primo paragrafo del suo lavo-
ro: La forma straordinaria e il matrimonio civile. L’Autore vi afferma
che il matrimonio civile potrebbe rappresentare una valida forma di
celebrazione del matrimonio per quei fedeli che siano stati dispensa-
ti dalla osservanza della forma canonica, soprattutto nel caso di ma-
trimoni cosiddetti misti (cf can. 1127 § 2).
Tale affermazione, sicuramente corretta, deve però tener conto,
nella situazione italiana, della prescrizione del già citato decreto ge-
nerale della Conferenza episcopale in vigore dal 17 febbraio 1991.
Regolamentando la materia dei matrimoni misti, anche sotto il profi-
lo della forma della loro celebrazione e della eventuale dispensa dal-
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 263

la forma cosiddetta canonica, l’art. 50, terzo comma della detta nor-
mativa prevede che:
«di norma – salvo che sia disposto diversamente da eventuali intese con al-
tre confessioni cristiane – si richieda che le nozze siano celebrate davanti a
un legittimo ministro di culto, e non con il solo rito civile, stante la necessità
di dare risalto al carattere religioso del matrimonio».

È chiara la ratio di tale disposizione: evidenziare – pure in caso


di dispensa dalla forma canonica – il carattere religioso del matrimo-
nio, anche cosiddetto interconfessionale. È pure evidente, anche alla
semplice lettura della norma citata, che la disposizione della Confe-
renza episcopale è formulata in modo piuttosto elastico, onde con-
sentire di provvedere con sapienza alle più diverse situazioni che po-
trebbero verificarsi nella prassi pastorale. È da precisare che assai
recentemente, nel corso della Assemblea generale del 6-10 maggio
1996, la Conferenza episcopale italiana ha approvato una intesa con
le comunità valdesi e metodiste italiane ove si consente che l’Ordina-
rio autorizzi la parte cattolica a contrarre matrimonio in forma civile.
Non è questa Nota la sede adatta per presentare né in genere
detta intesa, né in specie le ragioni e gli aspetti dottrinali e giuridici
di questa possibilità nuova (almeno a livello nazionale) circa la forma
di celebrazione del matrimonio.
Basti qui richiamarne l’esistenza (la disposizione, per sé, en-
trerà in vigore dopo la recognitio della S. Sede e la debita promulga-
zione) e puntualizzare che essa non rappresenta una forma canonica
tecnicamente “straordinaria” di celebrazione, bensì un caso di di-
spensa dalla forma canonica medesima, come peraltro già previsto
dalla norma codiciale, che non richiede necessariamente un conte-
sto religioso di celebrazione ma che sia «salva ad validitatem aliqua
forma publica celebrationis» (can. 1127 § 2).
Può essere utile richiamare per memoria e comodità dei lettori
in merito alle possibilità di dispensa dalla forma canonica, che, alla
stregua della risposta del 14 maggio 1985 della allora Commissione
pontificia per la interpretazione del Codice, la cui pubblicazione fu
poi ordinata il 5 luglio 1985 dal Sommo Pontefice, ai vescovi diocesa-
ni non è lecito dispensare – ai sensi del can. 87 § 1 – dalla forma ca-
nonica due fedeli cattolici se non in urgente pericolo di morte 3.

3
Cf AAS 77 (1985) 771, ove venne promulgata il 1° agosto 1985.
264 Paolo Bianchi

b) La seconda questione cui occorre brevemente accennare in


rapporto alla normativa particolare della Chiesa italiana è quella re-
lativa all’interrogativo circa la possibile trascrivibilità di un matrimo-
nio celebrato nella forma canonica cosiddetta straordinaria.
È noto infatti che, nel contesto italiano, la norma pattizia ora rap-
presentata dall’art. 8, n. 1 dall’accordo 18 febbraio 1984 stipulato fra la
Santa Sede e lo Stato italiano per la revisione del Concordato latera-
nense garantisce la trascrizione al fine della acquisizione degli effetti
civili dei matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico.
Non potendosi negare che anche il matrimonio celebrato secondo la
forma cosiddetta straordinaria sia contratto secondo le norme del dirit-
to canonico, può essere interessante domandarsi se anche questo tipo
di matrimonio possa acquisire gli effetti civili attraverso il meccani-
smo della trascrizione previsto dalla normativa concordataria.
La dottrina in proposito oscilla fra una posizione negativa e una
di incertezza. Così, si sostiene la intrascrivibilità del matrimonio con-
tratto coram solis testibus in ragione del fatto che la normativa con-
cordataria prevede espressamente la presenza del ministro di culto,
investito di una funzione pubblica che si realizza anche attraverso
una serie di prescritti adempimenti 4 (per esempio richiesta e accet-
tazione del consenso, redazione dell’atto di matrimonio, lettura degli
articoli 143-144 e 147 del Codice civile). Altri autori preferiscono se-
gnalare che, per la complessità delle problematiche connesse al que-
sito circa la trascrivibilità di eventuali matrimoni celebrati in forma
cosiddetta straordinaria, la questione deve ritenersi sostanzialmente
ancora discussa 5.

Non è questa la sede per affrontare e risolvere la questione. È


però possibile in merito offrire una serie di considerazioni.

È del tutto verosimile che una fattispecie come quella ipotizzata


si prospetti come un caso di trascrizione “tardiva”: sia per il fatto
che, nella situazione sociale ed ecclesiale del nostro Paese, il ricorso
alla forma straordinaria di celebrazione deve ipotizzarsi in caso di
circostanze piuttosto straordinarie e improvvise; sia per il fatto che
può trascorrere un certo tempo per le informazioni al parroco o al-

4
Cf G. DALLA TORRE, Il matrimonio canonico in Italia, oggi, in AA.VV., Il matrimonio canonico in Italia
(a cura di E. Cappellini), Cremona 1984, p. 180.
5
Cf L. MUSSELLI, Manuale di diritto canonico e matrimoniale, Bologna 1995, p. 224.
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 265

l’Ordinario di cui al can. 1121 § 2, laddove il parroco del luogo della


celebrazione deve richiedere la trascrizione non oltre i cinque giorni
dalla celebrazione, come recita la norma concordataria.
Ora è bene richiamare che la trascrizione richiesta posterior-
mente al detto termine può essere effettuata, a norma del vigente ac-
cordo concordatario solo
«su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e
senza l’opposizione dell’altro» (art. 8, n. 1, ult. comma).

Ancora è bene richiamare che la semplice omissione delle pub-


blicazioni civili non è ragione per il rifiuto della trascrizione 6, così
come, almeno secondo parte della dottrina, nemmeno tale è ritenuta
la non effettuazione della lettura degli art. 143-144 e 147 del Codice
civile 7.
Ne deriva che la difficoltà relativamente alla trascrivibilità del
matrimonio celebrato nella forma cosiddetta straordinaria si incentra
sull’assenza della persona del ministro qualificato, la cui identifica-
zione è prevista dall’art. 13 della già richiamata legge di applicazione
della disciplina concordataria del 1929 in materia matrimoniale. L’ap-
profondire ulteriormente questa tematica esula però dai limiti di
questa Nota.

7. Da ultimo, appare utile riprendere due passi dell’articolo del


professor Hendriks che possono forse essere esemplificati per mag-
giore chiarezza dei lettori.
a) Analizzando il concetto di “grave incomodo” come elemento
necessario ad validitatem per fare ricorso alla forma cosiddetta
straordinaria di celebrazione delle nozze, l’Autore afferma che sussi-
ste grave incomodo anche se l’assistente, pur presente, non può es-
sere raggiunto, «non invece se – in assenza del parroco proprio – i
contraenti abbiano avuto la possibilità di rivolgersi a un altro parro-
co». Subito dopo si afferma però che «la forma straordinaria vale an-
che se la possibilità di raggiungere un assistente competente venne
a suo tempo colpevolmente trascurata».

6
Cf Legge 27 maggio 1929, n. 847, art. 13.
7
Cf G. MARAGNOLI, Osservazioni intorno alla lettura degli artt. 143-144.147 cod. civ. durante la celebra-
zione del matrimonio concordatario, in Quaderni di Diritto ecclesiale 7 (1994) 322-333.
266 Paolo Bianchi

Potrebbe sembrare di ravvisare una contraddizione fra le due


affermazioni. In realtà è verosimile che esse debbano essere inter-
pretate e spiegate così.
La prima delle ipotesi formulate è quella che prevede la con-
temporaneità delle due situazioni; ossia, l’impossibilità di raggiunge-
re il parroco proprio accompagnata dalla contemporanea possibilità
di rivolgersi a un altro parroco, legittimato ad assistere alle nozze
anche dei non parrocchiani: in tal caso, non sarebbe giustificato e le-
cito il ricorso alla forma straordinaria di celebrazione.
La seconda ipotesi è quella che prevede la attuale impossibilità
di raggiungere un qualsiasi ministro legittimato ad assistere alle noz-
ze, sia che si tratti del parroco proprio sia di altri ministri; possibilità
che però sussisteva in tempo precedente e che pure non venne sfrut-
tata dai nubendi anche per loro mancanza di diligenza: per esempio
laddove già si prevedeva che il ministro competente ad assistere alle
loro nozze avrebbe potuto rendersi in breve tempo non più disponi-
bile. In tale situazione di attuale impossibilità di aversi per il tempo
previsto l’assistente legittimato, non rileva il fatto che i due nubendi
non se ne avvalsero in tempo precedente. Rileva in altre parole solo
il fatto che, nel momento in cui essi decidono di passare alle nozze,
si trovino in condizione di applicare la forma straordinaria di celebra-
zione, senza una possibilità alternativa di ricorrere alla forma cosid-
detta ordinaria.
b) Nel trarre dal suo studio «Alcune conclusioni pratiche», il
professor Hendriks riprende la tematica suscitata dalla risposta della
Pontificia commissione per la interpretazione del Codice in merito
all’ammissione al matrimonio di persone che, tenute alla forma cano-
nica, abbiano contratto (evidentemente in precedenza e con altri) ma-
trimonio civile 8. L’Autore invita ad agire con giusta prudenza in ogni
singolo caso, valutando la effettiva situazione di coloro che contrasse-
ro il primo matrimonio, solo civile. E, in effetti, sviluppando la possi-
bile casistica, ci si potrebbe trovare di fronte a tre diverse situazioni.
La prima concerne persone che, pur battezzate nella Chiesa cat-
tolica, non fossero in realtà (più) tenute alla forma canonica: come
avviene nel caso di chi abbia abbandonato con atto formale la Chiesa
cattolica (cf can. 1117). In tal caso il matrimonio civile celebrato
sarebbe valido anche per l’ordinamento canonico.

8
AAS 76 (1984) 746-747.
II. Note in materia di “forma straordinaria” della celebrazione del matrimonio 267

La seconda situazione ipotizzabile è quella di persone pur tenu-


te alla forma canonica di celebrazione, ma che si trovavano in condi-
zione di contrarre nella forma straordinaria di essa, prevista dal can.
1116. Anche in tal caso il loro matrimonio civile sarebbe valido pure
ai fini canonici: non in quanto tale, cioè in quanto matrimonio civile,
ma in quanto di fatto rappresentante forma straordinaria di celebra-
zione coram solis testibus.
La terza situazione ipotizzabile è quella di persone tenute alla
forma canonica di celebrazione e non in condizione di contrarre nel-
la forma straordinaria: in tal caso il loro matrimonio civile sarebbe
invalido e, per l’ammissione loro a un matrimonio canonico, sarebbe
sufficiente osservare – circa l’accertamento della libertà di stato –
quanto la detta interpretazione autentica della norma del Codice pre-
vede per simili casi: ossia quelle indagini comunemente da svolgersi
per chi chiede il matrimonio senza mai essersi sposato con un vinco-
lo riconosciuto dall’ordinamento canonico.

Ciò – è bene precisare e ripetere – quanto all’accertamento del-


la libertà di stato. Vi sono infatti altre prescrizioni particolari da os-
servare in simili casi (cf il can. 1071, 2°e 3°e anche l’art. 44, nn. 2 e
3 del decreto generale sul matrimonio canonico della Conferenza
episcopale italiana in vigore dal 17 febbraio 1991), che vanno a prov-
vedere per altri delicati profili della situazione ipotizzata.

PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
269 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
272 Il sacramento dell’Unzione degli infermi: N. 3 - LUGLIO 1996
celebrazione e ministro
di Massimo Calvi DIREZIONE ONORARIA

295 A chi conferire il sacramento Jean Beyer, S.I.


dell’Unzione degli infermi? DIREZIONE E REDAZIONE
di Eugenio Zanetti Francesco Coccopalmerio
314 Amministrazione e ricezione dei sacramenti Paolo Bianchi - Massimo Calvi
in pericolo di morte. Il viatico Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
di Mauro Rivella Silvia Recchi - Carlo Redaelli
Mauro Rivella
321 L’Unzione degli infermi
Giangiacomo Sarzi Sartori
e la communicatio in sacris Gianni Trevisan
di G. Paolo Montini Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
337 Commento a un canone
La cremazione SEGRETERIA DI REDAZIONE
del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) G. Paolo Montini
di Egidio Miragoli Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
Tel. (030) 37.121
357 Esempi di applicazione giurisprudenziale
del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori PROPRIETÀ
di Paolo Bianchi Istituto Pavoniano Artigianelli
379 La pubblicazione di scritti Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
che espongono nuove apparizioni,
rivelazioni, visioni, profezie, miracoli AMMINISTRAZIONE
o introducono nuove devozioni Editrice Àncora
di Marino Mosconi Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Tel. (02) 345608.1

STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

ABBONAMENTI PER IL 1996


Italia: L. 20.000
Estero: L. 27.000
Via Aerea L. 37.000
Un fascicolo: L. 7.000
Fascicoli arretrati: L. 14.000
C/C Postale n. 31522204
intestato a: Editrice Àncora
Autorizzazione del Tribunale di
Milano n. 752 del 13.11.1987
Nulla osta alla stampa:
Milano, 24-10-1996, don Franco Pizzagalli Spedizione in abb. postale comma 27
Imprimatur: Milano 24-10-1996, Angelo Mascheroni Vic. ep. art. 2 legge 549/95 - Milano
269

Editoriale

Estrema Unzione o Unzione degli infermi?


La domanda potrebbe sembrare fuori posto e del tutto inutile
dopo la scelta operata dal concilio Vaticano II (cf SC 73), ulterior-
mente confermata dal magistero ecclesiale (cf Paolo VI, Costituzione
apostolica Sacram Unctionem Infirmorum, 1972), di preferire per il
sacramento la denominazione “Unzione degli infermi”.
Tuttavia, sebbene il periodo immediatamente successivo alla
promulgazione del nuovo Rituale sia stato caratterizzato da un rinno-
vato interesse della riflessione teologica, liturgica e pastorale sul-
l’Unzione, non si può dire che tutte le questioni a essa connesse ab-
biamo trovato soluzione: obbligatorietà dell’Unzione, condizioni da
richiedere nel soggetto, effetti del sacramento.
In particolare ci sembra che, ancora oggi, a distanza di vent’an-
ni dalla riforma del rito, la prassi sacramentale faccia emergere una
certa contraddizione:
– da una parte il desiderio di superare la concezione che faceva
dell’Unzione il sacramento dei moribondi e l’interpretazione molto
larga delle indicazioni normative hanno portato talvolta, specialmen-
te nelle celebrazioni comunitarie (cf can. 1002), a una indiscriminata
amministrazione del sacramento, indipendentemente dall’esistenza
di uno stato di reale infermità;
– dall’altra, quando tale infermità esiste, continua a permanere
nei fedeli, soprattutto nei familiari del malato, la tendenza a procra-
stinare l’amministrazione del sacramento fino al momento in cui l’in-
fermo non ha più alcuna percezione di sé e del mondo esterno.
Queste considerazioni hanno convinto dell’utilità di proporre
una rilettura delle diverse tematiche legate al sacramento, a partire
270 Editoriale

dalla normativa codiciale. Il Codice, infatti, essendo stato promulga-


to nel 1983, può essere considerato anche come un primo bilancio
della riforma liturgica voluta dal Concilio: se il più delle volte esso si
è sforzato di trasferire lo spirito della riforma conciliare nella norma-
tiva, in altre circostanze, invece, esso ha volutamente apportato mo-
difiche, chiarimenti, aggiunte nell’ambito della disciplina liturgica, al
fine di favorire il superamento delle difficoltà e incertezze manifesta-
tesi via via che la riforma liturgica trovava attuazione (cf Pierre-Ma-
rie Gy, Les changements dans les Praenotanda des livres liturgiques à
la suite du code de droit canonique, in Notitiae 20 [1983] 556-561).

Il tema viene introdotto (Calvi) partendo dalla constatazione


che la malattia è una condizione nella quale il credente è provato
non solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto spirituale.
In questa situazione delicata della vita, Cristo e la Chiesa si fanno
prossimi al cristiano sofferente nel sacramento dell’Unzione. Un bre-
ve esame della prassi liturgica e normativa, a partire dai primi secoli
fino al concilio di Trento, evidenzia un cambiamento di prospettiva
nella considerazione degli effetti del sacramento, con una progressi-
va valorizzazione degli effetti spirituali. L’articolo presenta poi un
commento ai primi due capitoli che il Codice dedica all’Unzione de-
gli infermi, cioè alle norme relative alla celebrazione e al ministro
del sacramento.
Si porta quindi l’attenzione sul soggetto del sacramento e sulle
condizioni richieste a chi lo riceve (Zanetti). L’Autore, al fine di indivi-
duare il tempo opportuno per l’amministrazione dell’Unzione, si inter-
roga anzitutto sullo stato di salute del malato e sulla pericolosità o me-
no della malattia, per poi passare in rassegna le diverse situazioni in
cui al ministro potrebbe essere chiesto di conferire l’Unzione: malati
gravi, anziani molto debilitati, coloro che sono operati per un male pe-
ricoloso, moribondi, handicappati mentali ecc. L’articolo si chiude con
l’importante tema della celebrazione comunitaria (cf can. 1002), per la
quale il Codice assume un atteggiamento prudente ed equilibrato tra
la diffidenza e la promozione entusiastica di questa forma celebrativa
del sacramento dell’Unzione degli infermi.
Sebbene l’Unzione degli infermi non debba più essere conside-
rata soltanto come il sacramento dei moribondi, è innegabile che il
momento dell’imminenza della morte e del passaggio all’altra vita
rappresentino una particolarissima situazione umana alla quale la pa-
storale e la normativa ecclesiale sono chiamate a dedicare una spe-
Editoriale 271

ciale attenzione. Nell’articolo (Rivella) si chiarisce anzitutto che co-


sa si debba intendere, dal punto di vista canonico, per “pericolo di
morte”, per poi soffermarsi sulle norme canoniche che regolano e,
in un certo senso, facilitano l’amministrazione e la recezione dei sa-
cramenti in tale situazione.
Chiude la parte monografica un articolo dedicato alla celebra-
zione dell’Unzione degli infermi nel contesto della communicatio in
sacris (Montini). L’attuale contesto sociale e lo spirito ecumenico fa-
voriscono la (richiesta di) celebrazione comune di sacramenti tra fe-
deli di diverse appartenenze ecclesiali. L’Autore studia l’applicazione
della normativa generale in materia di communicatio in sacris allo
specifico caso della celebrazione del sacramento dell’Unzione degli
infermi.

La seconda parte del fascicolo si apre, secondo il solito, con il


commento a un canone (Miragoli). Si tratta in questo caso del cano-
ne 1176 § 3. Il commento dà l’occasione di affrontare l’ampia, attuale
e interessante tematica della cremazione, tenendo presente i vari
aspetti che intervengono nella questione e ne condizionano la nor-
mativa e l’interpretazione: l’aspetto storico, sociale, giuridico-civile,
pastorale.
Vengono poi considerate le norme canoniche vigenti circa le pub-
blicazioni dedicate ad apparizioni e a fatti soprannaturali (Mosconi).
L’argomento matrimoniale è poi affrontato in ordine al capo di
nullità del dolo (Bianchi): la novità della sua introduzione nel Codice
vigente pone problematiche interpretative ancora aperte.
272
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 272-294
Il sacramento
dell’Unzione degli infermi:
celebrazione e ministro
di Massimo Calvi

La malattia e la sofferenza sono tra le realtà che, con la loro for-


za dirompente, mettono maggiormente in crisi la vita dell’uomo.
Nella malattia l’uomo fa innanzitutto l’esperienza della propria
finitezza e del proprio limite. Essa, ben lontano dall’essere una sem-
plice alterazione delle strutture e delle funzioni di qualche organo,
si configura come una particolare situazione in cui l’uomo tutto inte-
ro – spirito, anima e corpo – ha una particolare percezione di se stes-
so e del mondo che lo circonda.

Nel tempo della malattia l’uomo vive innanzitutto una certa alie-
nazione dal proprio corpo: esso gli si rivolta contro, non gli obbedi-
sce più e, diventando causa della sua sofferenza, nelle situazioni più
gravi gli fa presagire, in modo più o meno consapevole, la possibilità
della morte. La malattia,
«colpendo l’uomo nel corpo, lo aggredisce nel vivo della sua unità esistenzia-
le [...] Il corpo è per l’uomo la concretezza attiva e passiva del suo essere
con gli altri e per gli altri nel mondo. La malattia intacca il corpo, e ne capo-
volge il senso: da strumento fondamentale che era, lo muta in potenza ostile
che si oppone alla voglia di vivere dell’uomo» 1.

A ciò si aggiunge anche una certa alienazione dal proprio am-


biente. Il malato è costretto a cambiare ritmo di vita e a rapportarsi
diversamente con gli altri: ha bisogno di loro in modo più intenso di
prima, tanto da sentirsi talvolta in balia degli altri. Tale alienazione

1
G. GOZZELLINO, Unzione degli infermi, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, III, Torino 1977, p. 507.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 273

oggi rischia di essere maggiormente accentuata rispetto al passato,


quando il malato era curato a casa e non conosceva la prova del di-
stacco, della solitudine e dell’isolamento. Attualmente
«la necessità di trattamenti specializzati e perciò del ricovero ospedaliero
provocano nel malato esperienze psicologiche laceranti, quali la frantuma-
zione della propria identità, il peso della emarginazione sociale, l’isolamento
e la solitudine esistenziali, la sensazione di essere in uno stato di minorità
[...] il paziente si trova dinanzi a persone sconosciute – che gli chiedono una
serie di esami la cui ragione e i cui risultati gli sfuggono – e alle quali è total-
mente sottomesso» 2.

Inoltre, malattia e sofferenza fanno sì che il malato si scontri


con l’esperienza del limite, della propria relatività e contingenza e si
senta come posto davanti a un muro che non può sfondare. Anche
quando riesce a reagire e a lottare contro il suo stato, avverte che l’e-
sito di tale lotta non dipende soltanto da lui.
Alla luce di quanto detto, si può facilmente capire come la ma-
lattia, soprattutto quando di una certa gravità, si trasformi anche in
un momento di prova per la fede del cristiano.
Essa può condurre al ripiegamento su di sé, all’angoscia e, tal-
volta persino alla disperazione, alla perdita della fede e alla ribellione
contro Dio.
«All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla
base dell’intero mondo delle sofferenze appare inevitabile l’interrogativo:
perché? È un interrogativo circa la causa, la ragione, e insieme un interroga-
tivo circa lo scopo (perché?) e, in definitiva circa il senso [...] È ben noto co-
me sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustra-
zioni e conflitti nei rapporti con Dio, ma capiti anche che si giunga alla nega-
zione stessa di Dio» 3.

Ma se questo è vero, non bisogna tuttavia dimenticare che la


malattia può anche diventare occasione positiva per la fede dell’uo-
mo: essa può rendere la persona più matura e consapevole, aiutarla a
discernere nella propria esistenza quanto non è essenziale per vol-
gersi verso ciò che lo è. Molto spesso il malato si sente provocato
dalla sua condizione a una rinnovata ricerca di Dio, a un ritorno a lui.
Il limitarsi delle prospettive del futuro prossimo lo rimanda all’aspet-

2
G. COLOMBO, Unzione degli infermi, in Nuovo Dizionario Liturgico, Roma 1984, p. 1540.
3
Salvifici doloris, n. 9.
274 Massimo Calvi

tativa del futuro assoluto, aprendosi a un nuovo e più radicale orien-


tamento verso il trascendente e, spesso, lo conduce a una scoperta
del tutto nuova e particolarmente feconda della vicinanza e dell’amo-
re di Dio.
«Fratelli, chi ci separerà dell’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’ango-
scia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci
ha amati» (Rm 8, 35.37).

Anche nella prova del dolore e della malattia il cristiano può es-
sere vittorioso solo alla luce di una rinnovata consapevolezza dell’a-
more di Dio.

La compassione di Dio e della Chiesa


«Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato inces-
santemente al mondo dell’umana sofferenza. “Passò facendo del bene” e
questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che atten-
devano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affa-
mati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio
e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì la vita ai morti» 4.

La compassione di Cristo verso gli ammalati e i numerosi mira-


coli di guarigione da lui operati, nel contesto neotestametario, ap-
paiono come un segno rivelatore della visita di Dio al suo popolo. Es-
si sono annuncio e manifestazione che il regno di Dio è vicino, anzi è
già qui. L’attività taumaturgica del Cristo diventa un segno che la vit-
toria sul peccato e sulle sue conseguenze, preannunciata dai profeti,
è già in atto.
Ancor di più egli si fa carico delle sofferenze dell’uomo e, in tut-
to obbediente al disegno d’amore del Padre, come servo di Jhwh, va
volontariamente incontro alla passione e alla croce perché la sua vita
offerta per amore diventi sorgente di salvezza e redenzione per tutti
gli uomini. In tal modo egli rivela ancor più chiaramente che le gua-
rigioni operate erano segni che annunciavano una guarigione più ra-
dicale: la vittoria sul peccato e sulla morte attraverso la sua Pasqua.

4
Salvifici doloris, n. 16.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 275

Il Cristo prolunga e continua questa sua compassione verso gli


infermi rendendo i discepoli pienamente partecipi del suo ministero:
«Chiamò i Dodici, e incominciò a mandarli a due a due [...] Ed essi, partiti,
predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungeva-
no di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6, 7.12-13).

Tale invito verrà rinnovato dal Risorto:


«Andate in tutto il mondo [...] questi i segni che accompagneranno colo-
ro che credono [...] imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc
16, 15.17-18).

L’esperienza di Cristo diventa così l’esperienza della Chiesa che


ne prolunga i gesti di guarigione e il loro significato salvifico.
Gli Atti degli apostoli registrano numerose guarigioni (At 3, 1 ss;
8, 7; 9, 32; 14, 8; 28, 8) che mostrano la potenza del nome di Gesù e la
realtà della sua risurrezione. L’apostolo Paolo tra i carismi ricorda
quello di guarigione (1 Cor 12, 9.28.30): esso diventa il segno che,
per mezzo del suo Spirito, Cristo, medico delle anime e dei corpi, è
presente e operante nella sua Chiesa.
La comunità cristiana è chiamata a essere solidale con i suoi
membri che, nella malattia, condividono le sofferenze di Cristo e, so-
prattutto, ha il compito di offrire loro tutti gli aiuti spirituali di cui
hanno bisogno per non venir meno nella fede a causa della prova.

Nella molteplicità di questi aiuti spirituali, la Chiesa apostoli-


ca ne testimonia uno che si attua come rito specifico a favore degli
infermi.
Lo attesta l’apostolo Giacomo:
«Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo
averlo unto con olio, nel nome del Signore.
E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha
commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5, 14-15).

Un sacramento per gli infermi


Il testo dell’apostolo Giacomo rappresenta il punto di riferimento
per fondare la prassi sacramentale dell’unzione. Esso, letto nel conte-
sto del Nuovo Testamento e della prassi liturgica della comunità cri-
stiana primitiva, ha costituito il centro della riflessione ecclesiale sul
276 Massimo Calvi

sacramento degli infermi che ha trovato una delle espressioni più ma-
ture nelle affermazioni dogmatiche del concilio di Trento:
«Questa sacra unzione è stata istituita come vero e proprio sacramento nel
Nuovo Testamento da Cristo Signore, ed è accennato da Marco ed è racco-
mandato ai fedeli e promulgato poi da Giacomo, Apostolo e fratello del Si-
gnore» 5.

La Chiesa antica, fin dal I secolo, faceva abbondante uso di un-


zioni rituali nel Battesimo, nella Cresima, nelle Ordinazioni sacerdo-
tali, nella Penitenza e, sicuramente, anche a favore dei malati. Tutta-
via, circa l’Unzione di infermi si hanno testimonianze inequivocabili
solo a partire dal sec. IV.
Tra quelle di indubbia autenticità, la più antica che possediamo
è la formula trasmessa nel capitolo 5 della Traditio Apostolica di Ip-
polito:
«Come santificando quest’olio tu doni, o Dio, la santità a coloro che ne sono
unti e che lo ricevono, [quest’olio] con cui tu hai unto i re, i sacerdoti e i pro-
feti, così [esso] procuri il sollievo a coloro che lo gustano [gustantibus], e la
salute a coloro che ne fanno uso [utentibus]» 6.

Altra fonte di particolare rilievo è la lettera scritta dal pontefice


Innocenzo I (416) al vescovo Decenzio di Gubbio. In essa, benché il
problema sottosposto da Decenzio al pontefice riguardasse in primo
luogo l’amministrazione dell’Unzione da parte del vescovo, si ha una
buona testimonianza della prassi rituale agli inizi del V secolo.
Riferendosi al famoso passo dell’apostolo Giacomo, si afferma:
«Non c’è dubbio che ciò si debba intendere e comprendere riguardo ai fede-
li malati che possono essere unti con l’olio santo del crisma. Consacrato dal
vescovo, è permesso usarne non solo ai sacerdoti, ma anche a tutti i cristia-
ni, per fare l’unzione nelle loro necessità personali, o in quelle dei loro cari.
D’altra parte questa aggiunta ci sembra superflua: ci si chiede cioè se il ve-
scovo possa ciò che è certamente permesso ai sacerdoti. Infatti il motivo per
cui si parla dei sacerdoti è che i vescovi, impediti da altre occupazioni, non
possono recarsi presso tutti i malati. Tuttavia, se un vescovo ne ha la possibi-
lità, e se ritiene che qualcuno meriti di essere visitato da lui, lo può benedire
e applicargli il crisma senza la minima esitazione, poiché è lui che fa il cri-

5
Concilio di Trento, XIV sessione, cap. I, in DENZINGER - SCHÖNMETZER, Enchiridion Symbolorum, Defi-
nitionum et Declarationum de rebus fidei et morum [= DS], Herder 1976, ed. XXXVI, 1965.
6
La presente traduzione è ripresa da G. COLOMBO, Unzione degli infermi, cit., p. 1542.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 277

sma. Però non si può fare l’unzione sui penitenti, poiché essa appartiene ai
sacramenti. Infatti, come pensare che si possa concederne uno a colui al
quale si negano gli altri sacramenti?» 7.

Il testo lascia trasparire il valore sacramentale del rito dell’un-


zione, non tanto per il termine usato “sacramento”, termine che allo-
ra non aveva ancora un significato univoco, quanto piuttosto per il
fatto che ne venivano esclusi i penitenti.
«È interessante rilevare nella risposta del Papa il valore che viene dato al-
l’Unzione; è un sacramento, e va considerata e ricevuta alla stregua degli al-
tri sacramenti, l’Eucaristia e la Riconciliazione, che i penitenti possono rice-
vere solamente al termine della loro espiazione» 8.

Infine, tra le testimonianze liturgiche ricordiamo l’antica formu-


la per la benedizione dell’olio, contenuta sia nel Gelasiano, sia nel
Gregoriano, di origine schiettamente romana, la cui composizione
può essere fissata a principio o a metà del sec. V.
«Questi testi si pongono in continuità con la Traditio apostolica, inserendo la
formula di benedizione entro la prece eucaristica; la preghiera è rivolta allo
Spirito Santo, del quale si invoca la venuta sull’olio, perché esso divenga ri-
medio per il corpo (redazione gregoriana) e per lo spirito: “Manda, o Signo-
re, dal cielo lo Spirito Santo paraclito, in quest’olio che hai voluto trarre da
un verde albero per ristorare lo spirito e il corpo. La tua santa benedizione
diventi, per chiunque ne sia unto [ungenti], lo beva [gustanti] o se lo appli-
chi [tangenti], rimedio del corpo, dell’anima e dello spirito; scacci ogni dolo-
re, ogni debolezza, ogni male dello spirito e del corpo; quest’olio con cui hai
unto i sacerdoti, i re e i profeti e i martiri, l’ottimo crisma che tu hai benedet-
to, rimanga nelle nostre viscere, nel nome di Gesù Cristo, nostro Signore» 9.

Tralasciando le innumerevoli attestazioni contenute nei rituali


che si sono succeduti lungo il corso dei secoli, alle quali peraltro fa-
remo cenno più avanti quando tratteremo degli effetti del sacramen-
to, ricordiamo ancora l’intervento del concilio Ecumenico di Firenze
(1439) il quale, affermata inequivocabilmente la sacramentalità, ne
precisa gli elementi essenziali: olio benedetto dal vescovo, unzione
delle varie parti del corpo da parte del sacerdote che ne è il mini-
stro, la formula «Per questa santa unzione e per la sua piissima mise-

7
DS 216.
8
M. RIGHETTI, Storia liturgica, IV, Milano 1953, p. 232.
9
G. COLOMBO, Unzione degli infermi, cit., p. 1543.
278 Massimo Calvi

ricordia il Signore ti perdoni i peccati che hai commesso con gli oc-
chi, con le orecchie [...]» e gli effetti (cf DS 1324-1325).

Il concilio Vaticano II ne parla nella Costituzione Sacrosanctum


concilium (nn. 73-75) e nella Lumen gentium [= LG]:
«Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei presbiteri, tutta la
chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché
alleggerisca le loro pene e li salvi, anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla
passione e alla morte di Cristo, per contribuire così al bene del popolo di
Dio» (LG 11).

Effetti del sacramento


L’evoluzione del rito dell’Unzione lungo il corso dei secoli ci ri-
corda che la individuazione degli effetti del sacramento è intrinseca-
mente legata alle condizioni nelle quali si trovava il soggetto al quale
esso veniva conferito 10.
I brevi accenni alla prassi liturgica più antica, fatti nel preceden-
te paragrafo, ci orientano a comprendere come nei primi secoli, tra
gli effetti del sacramento, venisse sottolineato particolarmente il re-
cupero della salute fisica.
Per quanto riguarda l’epoca precarolingia si può infatti afferma-
re che
«scopo dell’unzione è soprattutto la guarigione corporale del malato. L’olio è
la “medicina Ecclesiae” (san Cesario); i fedeli ne chiedono la benedizione per
averlo pronto ad diversas morborum causas necessarium. Ogni male corpora-
le, grave o leggero, ammette l’Unzione sacra, anche se ha carattere perma-
nente; si ungono i muti, i sordi, i ciechi, gli energumeni, i paralitici. Però non
si constata in nessuno dei testi precarolingi, che l’Unzione sia conferita in
extremis, allo scopo espresso di preparare il malato alla morte» 11.

Nei secoli successivi si assiste al graduale slittamento della


prassi del sacramento nella direzione della morte con la concomitan-
te sottolineatura degli effetti spirituali, visti soprattutto sotto l’aspetto
penitenziale della purificazione dal peccato.
A tale evoluzione contribuì certamente il fatto che, nei testi litur-
gici del tempo, il rito dell’Unzione era giustapposto a quelli della peni-

10
Per la trattazione di questo tema rinviamo all’articolo in questo stesso numero della rivista di E. ZA-
NETTI, A chi conferire il sacramento dell’unzione?
11
M. RIGHETTI, Storia liturgica, cit., pp. 235-236.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 279

tenza ad mortem e a quello della Commendatio animae. La penitenza


ad mortem dipendeva dall’antica disciplina della penitenza pubblica: il
penitente, anche dopo la riconciliazione, doveva osservare rigorose
conseguenze, specialmente l’astinenza dalla carne e dai rapporti co-
niugali. Quando la penitenza ad mortem perse il suo carattere pubbli-
co e fu sostituita dalla penitenza privata, l’Unzione unì le preghiere e
le particolarità proprie della penitenza ad mortem 12.
In questa prospettiva il sacramento viene conferito ungendo i
diversi sensi, non tanto perché malati, ma in quanto veicoli e stru-
menti di peccato nella vita terrena del penitente. La malattia in que-
sto tempo viene principalmente vista come occasione di conversione
dai peccati e come momento di riconciliazione con Dio.
Nella riflessione teologica sul sacramento e sul rito dell’Unzio-
ne fu soprattutto la Scolastica a sottolineare la rilevanza spirituale de-
gli effetti del sacramento:
«se esso è un sacramento, ragionavano gli Scolastici, e sacramento a caratte-
re medicinale, come dichiara san Giacomo, questa medicina non può essere
ordinata a un effetto corporale, altrimenti dovrebbe operare infallibilmente
la guarigione dell’infermo; sarà invece una medicina spirituale produttiva di
effetti spirituali. Questi si riassumono essenzialmente nella remissione dei
peccati; non dei peccati mortali, perché sono rimessi dalla confessione, ma
dei veniali, le reliquie del peccato. Come tale, l’unzione dell’Olio santo rap-
presenta l’ultima purificazione dell’anima; e perciò nunquam nisi in extremo
adhibenda est; è insomma l’estrema Unzione. Questo nome le divenne così
comune; nella prassi fu differita dopo l’Eucaristia e considerata il sacramen-
to che in articulo mortis dispone a ben morire» 13.

Nel contesto della riflessione dottrinale sul sacramento, il conci-


lio di Trento – che al tema dell’Unzione, unitamente a quello della
Penitenza, ha dedicato la sessione XIV del novembre 1551 – segna
una tappa fondamentale e determinante. Contro le radicali istanze
della Riforma, i Padri conciliari riaffermano la sacramentalità del-
l’Unzione e la sua divina istituzione, dettando precise norme per ciò
che riguarda materia, forma e ministro.
Circa il soggetto, il Tridentino si muove certamente all’interno
delle opzioni dottrinali della teologia scolastica che caratterizzano
l’Unzione come sacramento per i malati prossimi a morire. Perfezio-

12
Cf A.G. MARTIMORT, La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, IV, Brescia 1987, p. 151.
13
M. RIGHETTI, Storia liturgica, cit., p. 239.
280 Massimo Calvi

namento non solo della penitenza, ma anche di tutta la vita cristiana,


l’estrema Unzione è vista come il sacramento con il quale
«il clementissimo nostro Redentore [...] fortificò come di fermissimo presi-
dio la fine della vita (cap. 1). Benché infatti il nostro nemico cerchi e appro-
fitti di tutte le occasioni durante tutta la vita, per poter in qualche modo divo-
rare (cf 1 Pt 5, 8) le nostre anime; non vi è però alcun tempo, in cui con più
veemenza egli concentri le forze della sua astuzia per perderci del tutto, e
per toglierci, se potesse, anche la fiducia nella divina misericordia, che quan-
do vede per noi imminente la fine della vita” (Introduzione, DS 1694).

Tuttavia Trento non esclusivizza i moribondi come soggetto del


sacramento ricordando che
«questa unzione deve esser fatta agli infermi, e soprattutto a coloro i quali si
trovano in una condizione di tale pericolo, che sembrano essere in fin di vita,
per cui essa è chiamata anche sacramento dei moribondi (hanc unctionem
infirmis adhibendam, illis vero praesertim, qui tam periculose decumbunt, ut
in exitu vitae constituti videantur)» (DS 1698).

Nel capitolo II, l’Unzione viene definita come grazia dello Spiri-
to Santo che si traduce in una molteplicità di effetti spirituali e corpo-
rali per il bene del malato:
«L’essenza è questa grazia dello Spirito Santo, la cui unzione toglie i delitti,
se ve ne sono ancora da espiare, e i postumi del peccato, e allevia e fortifica
l’anima del malato (can. 2), eccitando in lui una grande fiducia nella divina
misericordia, e l’infermo ne è sollevato, sopporta meglio gli incomodi e le
pene della malattia, resiste più facilmente alle tentazioni del demonio “che
insidia il calcagno” (Gn 3, 15), e consegue talvolta la sanità del corpo, quan-
do fosse conveniente alla salvezza dell’anima» (DS 1696).

In questa alternanza di prospettiva tra unzione di malati e di


moribondi, tra effetti corporali e spirituali, come descrivere la grazia
propria del sacramento?

Per rispondere occorre innanzitutto sgombrare il campo da


quel possibile malinteso che porta erroneamente a concepire l’ani-
ma e il corpo come due “cose” diverse messe assieme. In realtà ciò
che esiste è l’uomo come unità biologica e spirituale in cui gli aspetti
anatomico, fisiologico, psicologico e soprannaturale sono inscindibil-
mente uniti e che stanno in una continua e mutua interferenza.
La crisi esistenziale nella quale viene a trovarsi l’uomo malato,
non è né una afflizione puramente corporale, né una tentazione pura-
mente spirituale.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 281

Anche il sollievo che l’Unzione offre all’infermo deve quindi in-


vestire tutto l’uomo. La grazia sacramentale si configura dunque co-
me un aiuto concesso alla persona intera perché possa vivere inten-
samente e in modo fecondo la vita soprannaturale nonostante le diffi-
coltà particolari della malattia:
«tutto l’uomo ne riceve aiuto per la sua salvezza, si sente rinfrancato nella fi-
ducia in Dio e ottiene forze nuove contro le tentazioni del maligno e l’ansietà
della morte. Egli può così non solo sopportare validamente il male, ma com-
batterlo...» 14.

In questa prospettiva possiamo affermare che il primo e fonda-


mentale effetto della Unzione consiste nell’aiuto soprannaturale a
vincere – nel senso più profondo del termine – la malattia: ossia nel
rendere capaci di viverla in modo salvifico per sé e per gli altri. Una
simile vittoria sulla malattia appare in sintonia con la definizione che
oggi si è soliti dare di salute:
«Una persona è sana quando è abitualmente capace di vivere, utilizzando le
facoltà e le energie in suo possesso e realmente disponibili per il compimen-
to della sua missione, in ogni situazione che incontra, anche se difficile e do-
lorosa, e quando è capace di sviluppare in ogni situazione della propria vita il
massimo di amore oblativo in Cristo, di cui è concretamente capace in quel
momento...» 15.

Tralasciando l’analisi approfondita di tutti gli effetti del sacra-


mento possiamo sinteticamente osservare che
«l’Unzione degli infermi è un gesto culmine di comunione del Cristo, del suo
Spirito e della Chiesa con il malato: un gesto atto a conferirgli il potere di
vincere la malattia, ossia atto a dargli il conforto, il rimedio e il rinvigorimen-
to spirituale necessari perché egli possa realizzare, anche nella sua situazio-
ne di crisi, la propria personale trasformazione pasquale, approdando alla
guarigione corporale escatologica e magari, quale suo segno, a quella imme-
diata; liberandosi dai peccati e dai loro resti; e disponendosi, nel caso di ma-
lattia mortale, a entrare nella morte in modo salvifico» 16.

14
Rituale Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, edizione tipica per la lingua italiana,
1974, Praenotanda, n. 6.
15
Tale definizione, elaborata nel contesto del I convegno nazionale della Consulta per la pastorale del-
la sanità della CEI, è riportata nella nota 1 del documento CEI La pastorale della salute nella Chiesa ita-
liana, del 1989.
16
G. GOZZELLINO, Unzione degli infermi, cit., p. 509.
282 Massimo Calvi

Dal vecchio al nuovo Codice


Prima di presentare dettagliatamente la normativa canonica cir-
ca la celebrazione e il ministro del sacramento, riteniamo opportuno
proporre un primo e sommario confronto tra il CIC 1917 (cann. 937-
947) e quello attuale (cann. 998-1007).
La prima evidente novità appare nel titolo, nel quale si usa la
nuova denominazione del sacramento: non più “Estrema unzione”
bensì “Unzione degli infermi”, in ossequio alle decisioni del concilio
Vaticano II, che ha così inteso evidenziare che questo non è il sacra-
mento di coloro soltanto che sono in fin di vita, e che il tempo oppor-
tuno per riceverlo ha certamente inizio già quando il fedele, per ma-
lattia o per vecchiaia, incomincia a essere in pericolo (cf SC 73).
Simile al CIC 1917 è la collocazione della materia – dopo il sa-
cramento della Penitenza e prima di quello dell’Ordine – e la suddivi-
sione in tre capitoli.
Il Codice vigente differisce però dal precedente per quanto ri-
guarda l’ordine sistematico della materia :

CIC 1983 CIC 1917


Cap. I La celebrazione Cap. I De ministro extremae
del sacramento unctionis

Cap. II Il ministro della Cap. II De subiecto extremae


unzione degli infermi unctionis

Cap. III A chi va conferita Cap. III De ritibus et caerimo-


l’unzione degli infermi niis extremae unctionis

Più correttamente, e in armonia con la disposizione sistematica


di tutta la normativa sui sacramenti, il CIC vigente mette al primo po-
sto i canoni relativi alla celebrazione del sacramento.
Come già nel Codice precedente, la trattazione è aperta da un
canone introduttivo. Rispetto al Codice del 1917 (cf can. 937), l’attuale
formulazione della norma aggiunge alcune affermazioni di carattere
dottrinale, che hanno come fonte immediata Lumen gentium, n. 11:
«L’Unzione degli infermi, con la quale la Chiesa raccomanda al Signore sof-
ferente e glorificato i fedeli gravemente infermi affinché li sollevi e li salvi,
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 283

viene conferita ungendoli con olio e pronunciando le parole stabilite nei libri
liturgici» (can. 998).

Come sempre in materia di sacramenti, il Codice si limita alle


principali disposizioni, soprattutto in ordine alla loro valida e lecita
celebrazione, rinviando per tutto il resto ai libri liturgici propri (cf
can. 2) che, per l’Unzione degli infermi è l’Ordo unctionis infirmo-
rum eorumque pastoralis curae, rituale riformato a norma dei decreti
del Vaticano II, promulgato dal papa Paolo VI il 30 novembre 1972
(l’edizione tipica in lingua italiana, pubblicata nel maggio 1974, è di-
ventata obbligatoria il 16 febbraio 1975).

È tuttavia doveroso osservare che in seguito alla entrata in vi-


gore del nuovo Codice sono state apportate al suddetto rituale im-
portanti modifiche al fine di uniformare il testo alle nuove disposizio-
ni normative 17.
Analizzando le variazioni introdotte osserviamo che il Codice
ha chiarito su diversi punti della normativa.
In particolare:
– circa il dovere di amministrare il sacramento in alcuni casi par-
ticolari, è stata introdotta una formulazione più precettiva. È il caso
dei bambini che abbiano raggiunto l’uso di ragione: in luogo del «si
può conferire» è detto «si conferisca». Ciò anche nel caso si abbia il
dubbio circa il raggiunto uso della ragione (cf Variationes, IX, n. 12).
Così, anche nel caso di ammalati che abbiano perso l’uso di ra-
gione o si trovino in stato di incoscienza, la nuova norma indica co-
me condizione sufficiente per conferire l’unzione il ritenere che il
soggetto, qualora fosse stato nel pieno delle sue facoltà, lo avrebbe
chiesto «almeno implicitamente» (cf Variationes, IX, n. 14).
Nel dubbio che il malato sia veramente morto, il ministro ha
l’obbligo di amministrargli il sacramento secondo il rito previsto per
questi casi, cioè sotto condizione(cf Variationes, IX, n. 15).
– Viene anche introdotta una limitazione non prevista dal ritua-
le ma chiaramente espressa dal Codice. Si tratta del divieto di ammi-
nistrare l’Unzione a coloro che perseverano ostinatamente in pecca-
to grave manifesto (cf ibid.).

17
Cf SACRA CONGREGATIO PRO SACRAMENTIS ET CULTU DIVINO, Variationes in novas editiones librorum li-
turgicorum introducendae, in Notitiae 19 (1983) 540-555.
284 Massimo Calvi

– In merito al ministro viene ulteriormente precisato l’elenco di


coloro che esercitano in via ordinaria questo ministero (cf Variatio-
nes, IX, nn. 16 e 18) e si precisa che il sacerdote può benedire l’olio
solo nell’ambito della celebrazione del sacramento (cf Variationes,
IX, n. 21).
– Quanto alle celebrazioni comunitarie il CIC introduce una in-
novazione che pare suggerire una maggiore cautela in proposito: il
compito di regolarle viene affidato al “vescovo diocesano”, e non più
all’ordinario del luogo, come precedentemente previsto dal rituale
(Variationes, IX, n. 17).

La celebrazione del sacramento


Sotto il capitolo II (cann. 999-1002), il Codice raccoglie, in quat-
tro canoni, sia le disposizioni relative alla benedizione dell’olio che
quelle relative all’Unzione vera e propria.

Materia e forma
Sono indicate dal can. 998 «L’Unzione degli infermi [...] viene
conferita ungendoli con olio e pronunciando le parole stabilite nei li-
bri liturgici», e più esplicitamente definite nella Costituzione aposto-
lica Sacram unctionem infirmorum del papa Paolo VI (30 novembre
1972):
«[...] poiché questa revisione tocca in alcune parti lo stesso rito sacramenta-
le, con la nostra autorità apostolica decretiamo che, per l’avvenire, sia osser-
vato nel rito latino quanto segue: Il sacramento dell’Unzione degli infermi si
conferisce a quelli che sono ammalati con serio pericolo, ungendoli sulla
fronte e sulle mani con olio d’oliva o, secondo l’opportunità, con altro olio ve-
getale, debitamente benedetto, e pronunciando, per una volta soltanto, que-
ste parole: “Per istam sanctam Unctionem et suam piissimam misericordiam
adiuvet te Dominus gratia Spiritus Sancti, ut a peccatis liberatum te salvet at-
que propitius allevet”».

Il mutamento della formula fu motivato dalla volontà di espri-


mere più chiaramente gli effetti del sacramento, così come indicati
dalle parole dell’apostolo Giacomo. Si ricorderà come nel rituale in
uso precedentemente la formula sottolineava invece il carattere peni-
tenziale del sacramento
«Per istam sanctam Unctionem, et suam piissimam misericordiam, indulgeat
tibi Dominus quidquid per visum (auditum, odoratum, gustum et locutio-
nem,...) deliquisti».
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 285

L’unzione
Circa il segno sacramentale è opportuno ricordare la ricchissi-
ma significazione biblica dell’unzione: l’olio, uno dei prodotti base
della terra degli Ebrei, era simbolo naturale di ricchezza e prospe-
rità. Come presso altre popolazioni, era usato quale mezzo terapeuti-
co per guarire le ferite, lenire i dolori, per rinvigorire le membra e
per profumare il corpo. L’unzione poi simboleggiava l’elezione da
parte di Dio ed era utilizzato come strumento di consacrazione.
Nel sacramento essa diventa segno del sollievo e del conforto
offerto da Dio Padre, per opera dello Spirito, nel nome di Cristo Si-
gnore al cristiano infermo e sofferente.

Nel vecchio rituale, in via ordinaria, si prescrivevano sei unzio-


ni: occhi, orecchie, naso, bocca, mani e piedi . Quella ai fianchi veniva
sempre omessa per esplicita prescrizione del Codice (cf CIC 1917,
can. 947 § 2).
Come si è visto, nel nuovo Rituale è prevista l’unzione della
fronte e delle mani. Tuttavia,
«nulla impedisce che, tenuto conto delle tradizioni o del carattere particolare
di una data popolazione, il numero delle unzioni venga aumentato o che se
ne cambi il luogo: questi eventuali cambiamenti dovranno però essere previ-
sti e predisposti nei Rituali particolari» (Praenotanda, n. 24).

Tuttavia, in caso di necessità,


«è sufficiente un’unica unzione sulla fronte, o anche in un’ altra parte del
corpo, pronunciando integralmente la formula» (can. 1000 § 1).

In via ordinaria il ministro è tenuto a compiere le unzioni con la


propria mano, a meno che una ragione grave non suggerisca l’uso di
uno strumento adatto (cf can. 1000 § 2). Ragione grave può essere,
per esempio, la presenza di una malattia infettiva o il pericolo di con-
tagio.

L’imposizione delle mani


Il gesto tradizionale dell’imposizione delle mani, precede le un-
zioni. Nel precedente rituale era accompagnato da una preghiera
esorcistica: «In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, extinguantur
in te omnis virtus diaboli...».
286 Massimo Calvi

Nel rituale rinnovato, questo gesto, compiuto in silenzio, assu-


me carattere di epiclesi richiamando il dono dello Spirito Santo. Pur
non essendo essenziale per la validità del sacramento, costituisce
parte integrante del rito (cf Praenotanda, n. 5).

L’olio da usarsi
È utile rilevare che, diversamente dalla normativa precedente
(CIC 1917, can. 937), non è più tassativo l’uso dell’olio d’oliva purché
si utilizzi un olio di origine vegetale
«Dato [...] che l’olio di oliva, quale era fino ad ora prescritto per la validità
del sacramento, in alcune regioni manca del tutto o può essere difficile pro-
curarlo, abbiamo stabilito, su richiesta di numerosi vescovi, che possa esse-
re usato in futuro, secondo le circostanze, anche un olio di altro tipo, che tut-
tavia sia ricavato da piante, in quanto più somigliante all’olio d’oliva» (Costi-
tuzione Apostolica Sacram unctionem infirmorum).

La benedizione dell’olio
Il can. 999, indica il ministro ordinario della benedizione dell’o-
lio. Oltre al vescovo, che di solito lo benedice nella solenne celebra-
zione della Messa crismale, l’olio può essere innanzitutto benedet-
to da tutti coloro che nel diritto sono equiparati al vescovo diocesano
(1°), vale a dire coloro che presiedono la prelatura territoriale e
l’abbazia territoriale, il vicariato apostolico e la prefettura apostolica
e l’amministrazione apostolica eretta stabilmente (cf can. 381 § 2).
Si noti che, in ossequio alla prassi liturgica più antica, il rituale
per la Messa crismale prevede la possibilità di benedire l’olio degli
infermi sia insieme a quello dei catecumeni e del Crisma, dopo l’o-
melia, sia da solo, prima della conclusione della Prece eucaristica.

In caso di necessità, qualunque sacerdote, può benedire l’olio,


ma solo nella stessa celebrazione del sacramento (cf can. 1000 § 2),
utilizzando l’apposita preghiera prevista dal Rituale. Questa estensio-
ne della possibilità di benedire l’olio nel contesto della celebrazione
del sacramento è un recupero della prassi antica che riservava al ve-
scovo solo la confezione del Crisma, mentre l’olio per gli infermi era
benedetto dai presbiteri, di solito nel contesto del canone della mes-
sa. Tale prassi è rimasta in uso anche presso i greci e gli armeni.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 287

Nel Rituale rinnovato, la formula prescritta per la solenne bene-


dizione dell’olio mette in più chiara evidenza la sollecitudine del Cri-
sto per i malati, gli effetti del sacramento e l’importanza della pre-
ghiera animata dalla fede:
«O Dio, Padre di ogni consolazione,
che per mezzo del tuo Figlio,
hai voluto recare sollievo alle sofferenze degli infermi,
ascolta la preghiera della nostra fede:
manda dal cielo il tuo Spirito Santo Paraclito
su quest’olio, frutto dell’olivo,
nutrimento e sollievo del nostro corpo,
effondi la tua santa benedizione,
perché quanti riceveranno l’unzione
ottengano conforto nel corpo, nell’anima e nello spirito,
e siano liberi da ogni malattia,
angoscia e dolore.
Questo dono della tua creazione
diventi olio santo da te benedetto per noi,
nel nome del nostro Signore Gesù Cristo,
che vive e regna per tutti i secoli dei secoli».

Quando la benedizione dell’olio viene fatta nel contesto della


stessa celebrazione del sacramento, il sacerdote, oltre alla formula
appena citata può usarne un’altra che, dopo un articolato rendimen-
to di grazie, si conclude con una breve invocazione che richiama nei
contenuti quella sopra riportata (cf Rituale, n. 77 bis).
La formula di benedizione da usarsi nel caso dell’imminente
pericolo di morte è invece molto più breve ed essenziale:
«Benedici Signore quest’olio
e benedici il nostro fratello infermo,
che ne riceve l’Unzione e il conforto» (Rituale, n. 179 bis).

Tempo opportuno per l’amministrazione


Per ciò che riguarda sia il dovere dei pastori d’anime e dei pa-
renti perché, a tempo opportuno, gli infermi siano confortati dal sa-
cramento (cf can. 1001), sia la celebrazione comune (cf can. 1002) si
rimanda al già citato articolo di Zanetti, contenuto in questo stesso
numero della rivista.
288 Massimo Calvi

Conservazione dell’olio
Mentre il Codice del 1917 prescriveva al parroco di conservare
l’olio benedetto in un luogo adeguato e dentro a una ampolla di me-
tallo (cf can. 946), il CIC vigente tace sull’argomento.
Ne tratta invece il Rituale che offre al riguardo indicazioni suffi-
cientemente precise: se l’olio è stato solennemente benedetto dal ve-
scovo, dovrà essere conservato, con il dovuto rispetto, in un luogo
adatto (solitamente in chiesa parrocchiale) e recato presso il malato
in una ampolla di materia adatta a conservarlo, ben pulita e in quan-
tità sufficiente per le unzioni da farsi. È inoltre necessario fare atten-
zione a che l’olio non si alteri con il tempo, ma resti adatto all’unzio-
ne. Almeno una volta l’anno, dopo la benedizione fatta dal vescovo,
dovrà essere rinnovato.
Se invece è stato benedetto durante il rito sacramentale dell’Un-
zione, l’olio eventualmente avanzato deve essere bruciato aggiun-
gendovi cotone idrofilo (cf Rituale, n. 22).

Il paragrafo 3 del can. 1003, ricorda che a qualunque sacerdote


è lecito portare con sé l’olio benedetto perché, qualora ce ne fosse la
necessità, sia in grado di amministrare il sacramento. È il caso, per
esempio, di quei sacerdoti che tengono sempre l’olio degli infermi
nella propria automobile per poter intervenire in caso di incidente
stradale.

Il ministro dell’unzione degli infermi


Il Codice riassume in un solo canone, il 1003, la normativa rela-
tiva al ministro del sacramento.

Necessità del sacerdozio


Il canone indica innanzitutto la condizione necessaria per la va-
lida amministrazione del sacramento:
«Amministra validamente l’unzione degli infermi ogni sacerdote e soltanto il
sacerdote».

La presenza del presbitero come ministro del sacramento è


dunque necessaria per la sua validità. Chi agisse contro il disposto di
questo canone simulando l’amministrazione del sacramento, non so-
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 289

lo lo farebbe invalidamente, ma commetterebbe una profanazione


del sacramento e potrebbe perciò stesso essere punito a norma del
can. 1379.
Tale determinazione, già presente nel CIC 1917 (can. 938 § 1), ha
come fonte il concilio di Trento e ancor prima quello di Firenze.
Tuttavia non sembra pregiudicare la possibilità che la Chiesa,
in futuro, faccia scelte diverse.
Abbiamo visto, infatti, che fino all’età carolingia l’Unzione non
era riservata ai soli sacerdoti, ma era concessa a tutti i cristiani, sia
per uso proprio che per il bene dei propri ammalati, purché utilizzas-
sero l’olio benedetto dal presbitero o dal vescovo e invocassero il no-
me di Dio. Sappiamo che per i primi secoli non sempre è facile di-
stinguere tra l’amministrazione del sacramento in senso proprio e
unzioni di altro genere. Tuttavia è certo che, l’uso di riservare ai soli
sacerdoti l’Unzione degli infermi andò di pari passo con la graduale
connotazione penitenziale assunta dal rito: man mano si faceva stret-
to il legame tra penitenza sacramentale e unzione, diventava anche
più rilevante il ruolo dei presbiteri.
La discussione circa questo punto della normativa ci è testimo-
niata anche durante l’iter di revisione del Codice. Il confronto si im-
perniò sulla questione se fosse da preferire la terminologia più chia-
ra, ma anche più categorica, già adottata dal CIC del 1917 («valide
administrat omnis et solus sacerdos», can. 938 § 1), oppure la formula-
zione proposta nello schema per la revisione del CIC, formulazione
che si ispirava alla terminologia usata dal concilio di Trento («mini-
ster proprius est solus sacerdos») 18.
Vista la delicatezza della materia la Commissione ritenne oppor-
tuno fare appello esplicito a eventuali decisioni del Sommo Ponte-
fice 19.
La scelta di conservare la dizione del vecchio Codice ci sembra
esprimere non tanto la volontà di chiudere ogni possibile discussio-
ne in materia, quanto l’intenzione di offrire un testo normativo chia-
ro e inequivocabile, che aiuti a individuare ciò che oggi deve ritener-
si essenziale per la validità del sacramento.

18
Cf Communicationes 9 (1977) 342.
19
Cf l. cit.
290 Massimo Calvi

«Non vi è dubbio che per ora l’unico ministro valido del sacramento sia il sa-
cerdote o il vescovo. Resta tuttavia da chiedersi se la Chiesa è talmente
legata a questa prassi da non poter accordare tale potere ad altri, ad esempio
a dei diaconi. Sulla base della prima tradizione del sacramento, sembra non
si possa escludere tale possibilità» 20.

Il ministro ordinario
Quanto alla individuazione del ministro al quale compete il dirit-
to-dovere di amministrare il sacramento, il Codice semplifica la nor-
mativa precedente, favorendo la più ampia possibilità di offrire ai fe-
deli il salutare sollievo dell’Unzione.
Il paragrafo 2 del can. 1003, infatti, stabilisce che
«hanno il dovere e il diritto di amministrare l’Unzione degli infermi tutti i sa-
cerdoti ai quali è demandata la cura delle anime, ai fedeli affidati al loro uffi-
cio pastorale; per una ragionevole causa, qualunque sacerdote può ammini-
strare questo sacramento con il consenso almeno presunto del sacerdote di
cui sopra».

Il Rituale indica espressamente quali siano questi pastori di


anime:
«i vescovi, i parroci, i vicari parrocchiali e i loro collaboratori, i cappellani de-
gli ospedali o di case di riposo e i superiori delle comunità religiose clericali,
esercitano in via ordinaria questo ministero» 21.

Si noti che la menzione dei vicari parrocchiali è stata aggiunta


al testo dal documento Variationes, a motivo del Codice che così de-
scrive il ministero del vicario parrocchiale, in genere: «è tenuto al-
l’obbligo [...] di aiutare il parroco in tutto il ministero parrocchiale»
(can. 548 § 2).
Ancora il Codice ricorda che al parroco le funzioni tipiche del
suo ministero sono affidate in modo speciale, ma non esclusivo (cf
can. 530).

Altri ministri
L’attuale normativa indica la possibilità che l’amministrazione
del sacramento venga fatta da un sacerdote diverso da quello più so-

20
G. GOZZELLINO, Unzione degli infermi, cit., p. 509.
21
Praenotanda, n. 16.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 291

pra indicato. Perché ciò avvenga in modo lecito sono sufficienti una
ragionevole causa e il consenso almeno presunto di colui che ne ha
normalmente l’incombenza (cf can. 1003 § 2). La normativa prece-
dente, invece, appariva al riguardo un poco più severa limitando tali
interventi ai casi di necessità (cf CIC 1917, can. 938 § 2).
Effettuata la celebrazione il ministro non ordinario ha il dovere
di informarne il responsabile (cf Rituale, n. 18).

Doveri del ministro


Farsi carico della cura pastorale dei malati, offrendo loro gli aiu-
ti spirituali necessari per vivere la loro condizione con autentico spi-
rito di fede e ferma speranza, è preciso dovere di tutti coloro che
hanno responsabilità di cura d’anime.
Il Codice precedente indicava espressamente tale dovere, di-
stinguendo tra il ministro ordinario e gli altri sacerdoti. Il primo era
tenuto ad assicurare l’amministrazione dell’Unzione per dovere di
giustizia, i secondi per dovere di carità (cf can. 939): sebbene il sa-
cramento non fosse considerato, in se stesso, un mezzo necessario
per la salvezza, tuttavia il vecchio Codice ribadiva ulteriormente che
a nessuno era lecito trascurarlo, anzi era dovere dei ministri curare
con ogni diligenza e impegno che gli infermi avessero a riceverlo (cf
can. 944). A questo proposito la dottrina spiegava che, pur non ne-
cessario in senso assoluto, talora, soprattutto nel caso del moribon-
do ormai privo di sensi, il sacramento poteva rappresentare il mezzo
unico o quasi per recuperare lo stato di grazia 22 .
Da ciò la manualistica traeva la conseguenza che, rifiutando
senza giusta causa, o differendo con grave pericolo che il fedele mo-
risse senza sacramento, sia il ministro ordinario che gli altri ministri
peccavano gravemente 23.
Sebbene il nuovo Codice abbia rinunciato a queste precisazioni,
il dovere del ministro circa il sacramento è affermato chiaramente
(cf can. 1003 § 2). A questo proposito si noti che anch’esso, come già
il CIC del 1917, attribuisce responsabilità diverse ai pastori d’anime
e ai sacerdoti in genere: i primi hanno il “dovere-diritto” di ammini-

22
Cf J. DESHUSSES, Extrême-onction en droit occidental, in Dictionnaire de droit canonique, V, Paris
1953, col. 723.
23
Cf M. CONTE A CORONATA, Compendium iuris canonici, III, Torino 1949, p. 225.
292 Massimo Calvi

strare il sacramento; gli altri, se vi è una ragionevole causa, “posso-


no” amministrarlo (cf can. 1003 § 2).
In particolare, per il parroco, si ricorda che per poter adempiere
diligentemente l’ufficio di pastore deve cercare di conoscere i fedeli
affidati alle sue cure; visitare le famiglie, partecipando alle sollecitudi-
ni dei fedeli, soprattutto alle loro angosce; assistere con traboccante
carità gli ammalati, soprattutto quelli vicini alla morte, nutrendoli con
sollecitudine dei sacramenti e raccomandandone l’anima a Dio; con
speciale diligenza deve essere vicino agli ammalati (cf can. 529 § 1).
Ciò che è detto per il parroco può essere, in modo analogico, ri-
ferito anche agli altri ministri che hanno la responsabilità della cura
d’anime.

Affinché i fedeli possano ricevere l’Unzione a tempo debito e


con vero frutto, i ministri hanno pure l’obbligo di offrire loro una
adeguata catechesi. Il Codice richiama questo dovere nel contesto
delle responsabilità che i ministri sacri hanno in relazione alla cele-
brazione del culto cristiano illuminata dalla fede (can. 836) e in rela-
zione alla adeguata preparazione dei fedeli che chiedono i sacramen-
ti (cf can. 843 § 2).
Il Rituale specifica ulteriormente, ricordando innanzitutto la ne-
cessità di una catechesi remota, destinata anche a tutti coloro che la-
vorano nel campo della sanità:
«Nella catechesi sia pubblica sia familiare si abbia cura di educare i fedeli a
chiedere essi stessi l’Unzione e, appena ne verrà il momento, a riceverla con
fede e devozione grande, senza indulgere alla pessima abitudine di rinviare
la ricezione di questo sacramento. Anche a tutti coloro che prestano servizio
ai malati si spieghi la natura e l’efficacia del sacramento dell’Unzione» 24.

A ciò si aggiunge l’impegno della catechesi prossima, volta a


predisporre malati e familiari alla celebrazione del sacramento:
«Perché quanto si è detto sui sacramenti dell’Unzione e del Viatico possa es-
sere sempre meglio compreso, e perché la loro celebrazione nutra davvero,
irrobustisca ed esprima la fede, importanza grandissima si deve dare alla ca-
techesi: una catechesi adatta, fatta ai fedeli in genere e ai malati in specie,
che li conduca quasi per mano a preparare la celebrazione di questi sacra-
menti e a parteciparvi attivamente, soprattutto se avviene in forma comuni-

24
Praenotanda, n. 13.
Il sacramento dell’Unzione degli infermi: celebrazione e ministro 293

taria; così la fede professata nel rito ravviva la preghiera della fede che ac-
compagna la celebrazione del sacramento» 25.

Avvertendo l’urgenza di questa opera educativa la Conferenza


episcopale italiana nel 1974 fece seguire all’entrata in vigore del nuo-
vo Rituale, la pubblicazione del documento pastorale Evangelizzazio-
ne e sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi 26.

La comunità cristiana
Il ruolo del ministro esprime e richiama la relazione con la co-
munità ecclesiale che, per mezzo di lui e con lui, cioè attraverso la
sua ministerialità, è chiamata a offrire un servizio all’ammalato 27.
Nei sacramenti nulla avviene senza la Chiesa. Istituiti da Cristo,
sono affidati alla Chiesa; sono nel contempo azione di Cristo e della
Chiesa. Segni e mezzi mediante i quali viene espressa e irrobustita
la fede e si rende culto a Dio per la santificazione degli uomini, essi
concorrono sommamente a generare, confermare, manifestare e in-
tensificare la comunione ecclesiale (cf can. 840).
Nel caso dell’Unzione tale legame con la comunità credente ac-
quista un carattere particolare.

All’inizio di questo articolo abbiamo ricordato che la malattia


tende a creare situazioni di isolamento ed emarginazione del malato
dal contesto sociale. Proprio per questo il sacramento dell’Unzione,
insieme a tutti gli altri aiuti spirituali che si possono offrire ai creden-
ti in tale situazione, esprime e sostiene lo sforzo che la comunità cri-
stiana è chiamata a metter in atto per realizzarsi autenticamente co-
me Corpo di Cristo: se un membro soffre, soffrono con lui tutti gli al-
tri membri (cf 1 Cor 12, 26).
In questo contesto i sacramenti, in particolare quello dell’Unzio-
ne, diventano il segno e lo strumento della consolazione e del con-
forto di Dio e della Chiesa.
Non possiamo poi trascurare il fatto che sin dai primi secoli, la
comunità cristiana, consapevole di aver ricevuto questo compito dal
suo Signore (cf Mt 10, 8), ha avvertito tra i suoi doveri quello della

25
Ibid., n. 36; cf anche n. 17.
26
Si vedano in particolare i nn. 151-160.
27
Cf Communicationes 9 (1977) 342.
294 Massimo Calvi

cura e dell’assistenza ai malati. La storia antica e recente testimonia


il fiorire di iniziative, istituzioni, fondazioni religiose, gruppi dediti a
questa opera di misericordia.
«Soggetto primario della pastorale sanitaria è la comunità cristiana, popolo
santo di Dio, adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sot-
to la guida dei pastori. Nell’attenzione ai problemi del mondo della salute e
nella cura amorevole verso i malati, la comunità ecclesiale è coinvolta in tut-
te le sue componenti» 28.

Da ultimo si deve affermare con piena convinzione che l’amma-


lato resta «soggetto attivo e responsabile dell’opera di evangelizza-
zione e di salvezza» 29.
Il sacramento dell’Unzione aiuta il cristiano sofferente a pren-
dere coscienza e a vivere con maggiore intensità questa dimensione
che gli è propria: con l’apostolo Paolo può scoprirsi chiamato a com-
pletare ciò che manca alle sofferenze di Cristo in favore del suo cor-
po, che è la Chiesa (Col 1, 24):
«I malati che ricevono questo sacramento unendosi spontaneamente alla pas-
sione e morte di Cristo, contribuiscono al bene del popolo di Dio. Celebrando
questo sacramento, la Chiesa, nella comunione dei santi, intercede per il be-
ne del malato. E l’infermo, a sua volta, per la grazia di questo sacramento,
contribuisce alla santificazione della Chiesa e al bene di tutti gli uomini per i
quali la Chiesa soffre e si offre, per mezzo di Cristo, a Dio Padre» 30.

MASSIMO CALVI
Via Milano, 5
26100 Cremona

28
CONSULTA NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLA SANITÀ, Nota La pastorale della salute nella Chiesa ita-
liana. Linee di pastorale sanitaria, Roma 1989, n. 23.
29
Christifideles laici, n. 54.
30
CCC 1522.
295
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 295-313
A chi conferire il sacramento
dell’Unzione degli infermi?
di Eugenio Zanetti

Al can. 1001 del Codice si afferma che i Pastori d’anime e i paren-


ti degli infermi devono provvedere che gli infermi a tempo opportuno
siano sollevati mediante il sacramento dell’Unzione degli infermi.
Ma qual è questo “tempo opportuno”?
È evidente che la domanda rimanda alla questione del “destina-
tario” del sacramento dell’Unzione degli infermi.
La risposta a questa questione ha senz’altro le sue radici nell’ap-
profondimento del “significato” e degli “effetti” dell’Unzione degli in-
fermi, sacramento attraverso cui il fedele è aiutato dallo Spirito a u-
nirsi al mistero pasquale di Cristo e pertanto riceve sollievo e salvez-
za nel corpo e nello spirito, e nuove forze per combattere contro il
male insito nel suo stato di salute, le tentazioni del maligno e l’an-
sietà della morte 1. Il presente articolo, però, si propone solo di esa-
minare quanto il CIC vigente stabilisce a proposito di chi debba rice-
vere l’Unzione degli infermi, alla luce del dibattito conciliare e post-
conciliare. L’esame del tema dei “destinatari” potrebbe, comunque,
aiutare lo stesso chiarimento del significato e delle finalità per cui il
sacramento viene conferito.
Gli aspetti da considerare ci sembrano sostanzialmente due:
l’“entità” della malattia, con le diverse situazioni che si possono ave-
re, e le “condizioni o disposizioni” del malato per la ricezione del sa-
cramento. Collegata a questi due aspetti vi è poi la valutazione circa
l’opportunità della “celebrazione comunitaria” dell’Unzione degli in-
fermi.

1
Cf l’articolo di M. CALVI, Il sacramento dell’Unzione degli infermi, pubblicato in questo fascicolo.
296 Eugenio Zanetti

Il criterio riguardante la salute:


la “pericolosità” della malattia
Nel can. 998 i destinatari dell’Unzione degli infermi vengono in-
dividuati nei «fideles periculose aegrotantes». Il canone ha come fonte
generale il testo conciliare di Lumen gentium, n. 11, nel quale però
non si trova l’espressione ora citata, ma semplicemente quella di ae-
grotantes 2. L’avverbio periculose aggiunto ad aegrotantes si trova, in-
vece, nella Costituzione apostolica Sacram unctionem infirmorum di
Paolo VI e nell’Ordo dell’Unzione degli infermi, in cui si afferma
chiaramente che tale sacramento va conferito ai fedeli «pericolosa-
mente ammalati» 3.
Va ricordato, inoltre, che fonte del can. 998 è pure un altro testo
conciliare, quello di Sacrosanctum Concilium [= SC], n. 73, in cui vi è
la chiara affermazione che il tempo opportuno per ricevere l’Unzio-
ne degli infermi «si ha certamente già quando il fedele incomincia
ad essere in pericolo di morte». Tale espressione è stata sostanzial-
mente recepita nel Codice attuale al can. 1004 § 1, cioè nel primo ca-
none del capitolo sui destinatari dell’Unzione degli infermi:
«L’unzione degli infermi può essere amministrata al fedele che, raggiunto
l’uso di ragione, per malattia o vecchiaia comincia a trovarsi in pericolo».

In sede di redazione dei testi del CIC vigente sull’Unzione degli


infermi constatiamo che ci fu la ferma volontà di mantenere il termi-
ne periculose o l’espressione corrispondente in periculo, sia di fronte
a coloro che vedevano in essi un allargamento indeterminato del mo-
tivo oggettivo per conferire l’Unzione degli infermi e quindi conse-
guenti problemi a livello di prassi pastorale, sia di fronte a coloro
che, al contrario, vedevano in essi una restrizione delle indicazioni
contenute nell’Ordo, il quale invece avrebbe lasciato più ampio spa-
zio di applicazione del sacramento. È interessante notare come en-

2
«Sacra infirmorum unctione atque oratione presbyterorum Ecclesia tota aegrotantes Domino patienti
et glorificato commendat, ut eos alleviet et salvet (cf Iac 5, 14-16) [...]» (LG 11, in EV 1, n. 314).
3
«Sacramentum Unctionis infirmorum confertur infirmis periculose aegrotantibus [...]» (PAULUS PP. VI,
Const. ap. Sacram unctionem infirmorum [30 novembre 1972], in EV 4, n. 1845); «Homo enim, periculo-
se aegrotans, peculiari Dei gratia indiget [...]» (SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Ordo unctionis
infirmorum “Hominum dolores” [7 dicembre 1972], n. 5, in EV 4, n. 1863); «Omni ergo studio ac diligen-
tia haec sacra Unctio conferenda est fidelibus qui propter infirmitatem vel senium periculose aegrotant»
(ibid., n. 8, in EV 4, n. 1867). Per comodità indicheremo, d’ora in poi, solo i numeri dell’Ordo, tenendo
presente la sua edizione italiana.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 297

trambe le posizioni auspicavano, sia pur con intenzioni diverse, la so-


stituzione delle espressioni sopra ricordate con quella di graviter 4.
Alle obiezioni sollevate la Segreteria della Commissione per la
revisione del Codice rispose che i termini usati, oltre al fatto che cor-
rispondevano a quelli contenuti nella Costituzione apostolica Sa-
cram Unctionem Infirmorum, volevano proprio esprimere la partico-
lare gravità della malattia in relazione all’inizio di una situazione che
mette in pericolo di morte e, contemporaneamente, rispecchiavano
fedelmente la preoccupazione dei testi conciliari e postconciliari di
non restringere l’Unzione degli infermi ai soli casi dei moribondi 5.
Al di là delle traduzioni in lingua volgare 6, nei testi codiciali so-
no rimaste alla fine le espressioni periculose e in periculo (cf cann.
998; 1004 § 1; 1005) con chiaro, anche se implicito, riferimento al
“pericolo di morte”. Infatti, sempre durante i lavori di approntamen-
to dei nuovi testi codiciali, in relazione allo schema del 1980, a un Pa-
dre della Commissione che proponeva di aggiungere nel can. 957 §
1, riguardante i destinatari dell’Unzione degli infermi, al termine pe-
riculo quello di mortis, la Segreteria rispose: «Non est necessarium:
sufficienter intelligitur de hoc agi» 7.
Queste annotazioni ci aiutano a collocare meglio la dottrina del
CIC vigente all’interno del dibattito pre e postconciliare circa i desti-
natari dell’Unzione degli infermi. Infatti, le obiezioni presentate nella
redazione dei testi codiciali non erano altro che l’espressione di due
istanze o tendenze teologico-pastorali: l’una più “escatologica”, cioè
più attenta alla domanda decisiva posta da una situazione di salute
ormai declinante verso la morte; l’altra più esistenziale, cioè più at-

4
Cf ACTA COMMISSIONIS, Relatio complectens synthesim animadversionum ab Em.mis atque Exc.mis Pa-
tribus Commissionis ad Novissimum Schema Codicis Iuris Canonici exhibitarum, cum responsionibus a
Secretaria et Consultoribus datis, in Communicationes 15 (1983) 213-214.
5
A coloro che vedevano nel termine “graviter” un’indicazione più ristretta e precisa la Segreteria rispo-
se: «Est idem: “periculose” idem sonat ac “graviter”» [come a dire che con il termine “periculose” si vole-
va proprio esprimere la particolare gravità della malattia]; a coloro che, invece, vi vedevano una restri-
zione rispose: «Nulla adest contradictio neque restrictio», citando il n. 8 dell’Ordo e SC 73 e aggiungendo
che il riferimento al prudente e probabile giudizio presente nell’Ordo indicava solo il “modo” per giun-
gere al giudizio sulla gravità della malattia (cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 [1983] 216 e
214).
6
Nell’edizione UECI ai cann. 998 e 1005 il termine “periculose” è tradotto in italiano con “gravemente”.
Anche nella traduzione italiana dell’Ordo contenuta nell’Enchiridion Vaticanum (EDB) il termine “peri-
culose” al n. 5 è reso con “gravemente” e al n. 8 l’espressione «fidelibus qui... periculose aegrotant» è reso
con «a quei fedeli, il cui stato di salute risulta seriamente compromesso...». Queste espressioni sono sta-
te poi riprese anche nel documento della CEI, Evangelizzazione e sacramenti della Penitenza e del-
l’Unzione degli infermi (12 luglio 1974): «Il sacramento dell’Unzione degli infermi è perciò destinato a
tutti i malati gravi il cui stato di salute risulti seriamente compromesso [...]» (n. 141, in ECEI 2, n. 1515).
7
ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
298 Eugenio Zanetti

tenta alla crisi spirituale ingenerata da una grave malattia, al di là del


pericolo di morte 8.
Queste due tendenze rispecchiano, d’altronde, le diverse prassi
e dottrine sviluppatesi nella storia della Chiesa.
Non si può certo non porre come punto di partenza il testo bibli-
co di Gc 5, 14-16, nel quale, a proposito dei destinatari dell’unzione, si
usano i verbi greci astzeneo, che significa propriamente “essere debo-
le, senza forze”, e kamno, cioè “essere spossato, sfinito”. Nei primi se-
coli poi l’Unzione degli infermi fu vista soprattutto come sacramento
per aiutare i fedeli di fronte a una situazione di grave malattia; nel
Medioevo, invece, sempre più come sacramento per i malati in pe-
ricolo di morte (i moribondi). Nel concilio di Firenze (1439) e in quel-
lo di Trento (sessione VII nel 1547 e sessione XIV nel 1551) la prassi
medioevale venne confermata, anche se con indicazioni più sfumate
e aperte; e tale posizione rimase praticamente in auge fino al CIC
1917 9. È con il concilio Vaticano II che si è passati decisamente dalla
concezione di “Estrema unzione” a quella di “Unzione degli infermi”:
«L’“estrema unzione”, che può essere chiamata anche e meglio “unzione de-
gli infermi”, non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di vita»
(SC 73).

Nel postconcilio, soprattutto sulla spinta dei nuovi studi liturgi-


10
ci , si è poi accentuata maggiormente l’attenzione sulla partecipazio-
ne attiva del fedele che riceve il sacramento e dunque sui risvolti esi-
stenziali, psicologici e spirituali della malattia (quasi al di là del peri-
colo di morte).
Nella dottrina attuale, possiamo dire che è assodato che l’Un-
zione degli infermi non è soltanto per coloro che sono in fin di vita e

8
La prima tendenza, sulla linea di Abelardo e in parte anche di san Tommaso, è più legata alla teologia
tedesca (cf per esempio: K. RAHNER, Il libro dei sacramenti, Brescia 1977, pp. 79-94); la seconda, invece,
alla scuola francese, più attenta alla prassi e alla teologia della Chiesa primitiva (cf il capostipite di tale
tendenza: A. CHAVASSE, Étude sur l’onction des infirmes dans l’Église latine du III au XI siècle, Lyon
1942).
9
«Extrema unctio praeberi non potest nisi fideli, qui adeptum usum rationis ob infirmitatem vel senium
in periculo mortis versetur» (can. 940 § 1, CIC 1917). Occorre, però, menzionare anche il can. 944 che
sottolinea l’importanza di curare che «infirmi, dum sui plene compotes sunt, illud recipiant».
10
Cf D. BOROBIO, Unzione degli infermi, in La celebrazione della Chiesa, 2. I sacramenti, a cura di
D. Borobio, Torino 1994, pp.731-832; G. GOZZELLINO, L’unzione degli infermi, Torino 1976; A. DONGHI,
L’olio della speranza, Roma 1984; E. LUINI, Unzione degli infermi, Milano 1986. Tra le riviste liturgiche
che ultimamente si sono dedicate a questo tema si veda: Competenza per celebrare l’Unzione degli in-
fermi in Rivista liturgica 1 (1993) e Salvezza e salute in Rivista liturgica 5 (1994); Liturgie et pastorale de
la santé in La maison Dieu 205 (1996).
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 299

che, pertanto, va corretta la prassi di rimandarla all’ultimo momento,


creando nel malato più angoscia che consolazione. Ma è altrettanto
chiaro che essa non può essere conferita genericamente per qualsia-
si stato di malattia.
Il can. 1004 § 1, come abbiamo visto, raccoglie, sia pur sobria-
mente, questi dati assodati 11.
Una volta chiariti questi limiti estremi, rimane tuttavia il proble-
ma di come precisare meglio il criterio che individua e accomuna le
diverse situazioni comprese fra tali limiti.
Ci sembra di poter concludere che la normativa codiciale attua-
le, fedele alla dottrina conciliare, individui tale criterio nella “perico-
losità” della malattia in relazione alla perdita della vita. È vero che
nel Codice non si usa esplicitamente l’espressione “pericolo di mor-
te”, ma ciò sembra essere stato dettato solo dalla precauzione di non
ricadere nel fraintendimento del pericolo “imminente” di morte, cioè
nella situazione dei moribondi.
Affermando che è il pericolo di morte, più o meno lontano, il cri-
terio per valutare l’opportunità di conferire l’Unzione degli infermi si
vuol dire che tale sacramento è destinato a tutti coloro che, in ragio-
ne della loro malattia o della loro vecchiaia, prendono coscienza che
la loro vita va pericolosamente verso il suo termine, con o senza pos-
sibilità di guarigione, e dunque sentono il bisogno di una grazia parti-
colare per vivere questo momento di sofferenza fisica e di crisi spiri-
tuale, per non lasciarsi prendere dalla sfiducia o dalla disperazione.
Entro questi termini ci sembra che si possa evitare il pericolo di con-
siderare l’Unzione degli infermi semplicemente come il sacramento
dei malati o, all’opposto, come il sacramento dei soli moribondi. Ci
sembra, cioè, che si possa avere un valido criterio oggettivo e sogget-
tivo per valutare l’opportunità di conferire il sacramento.
Nella valutazione della gravità del male devono, infatti, entrare
congiuntamente sia gli elementi oggettivi, supportati da un prudente
giudizio medico, sia gli elementi soggettivi, riguardanti la reazione
psicofisica e spirituale del malato 12. L’unione di questi due fattori per-

11
Durante la revisione del Codice fu proposto di stigmatizzare esplicitamente le due situazioni limite,
dicendo che in caso di malattia o vecchiaia si “può” amministrare l’Unzione degli infermi, mentre in
presenza di imminente pericolo di morte si “deve” amministrare l’Unzione; ma la proposta non fu rite-
nuta opportuna (cf ACTA COMMISSIONIS, Coetus studiorum de Sacramentis: 18-22 aprile 1977, in Com-
municationes 9 [1977] 341).
12
Ci sembra insufficiente e difficoltoso limitarsi ad affermare che «la malattia grave si definisce so-
prattutto in base ai profondi cambiamenti che produce nella vita psicofisica e spirituale del malato, con
300 Eugenio Zanetti

metterà di dare il giusto rilievo alla percezione interna della malattia


e insieme impedirà di essere in balia degli stati psichici del malato o
di chi si ritiene tale.
Nel caso, poi, permanga il dubbio circa la “pericolosità” del male,
nel can. 1005 si sancisce che il sacramento sia comunque conferito.

Le diverse “situazioni” in cui conferire il sacramento


Le osservazioni fin qui svolte mettono in evidenza come la figu-
ra del destinatario dell’Unzione degli infermi si articoli necessaria-
mente in modi diversi: è differente, infatti, la situazione di chi vive
coscientemente la sua grave situazione di salute da quella di chi è
già in stato di coma; oppure la situazione del bambino da quella del-
l’adulto; o ancora la situazione del malato cronico da quella di chi ha
subito un improvviso e grave incidente. Per questo lo stesso Vatica-
no II ha invitato a rivedere il rito dell’Unzione degli infermi in modo
che le orazioni «rispondano alle diverse condizioni dei malati che ri-
cevono il sacramento» (SC 75). Ciò è stato recepito nell’Ordo, sia in-
dicando esplicitamente alcune particolari situazioni di malattia (nn.
8-12), sia offrendo una gamma diversificata di orazioni (nn. 79-80),
sia predisponendo differenti forme celebrative (rito ordinario, nn.
66-82; in pericolo immediato di morte, nn. 165-203; nel caso in cui vi
sia il dubbio che il malato sia ancora in vita, n. 204).
Il CIC vigente non ha voluto riportare indicazioni per casi parti-
colari, ma solo legiferare sulle situazioni ordinarie, rimandando al-
l’Ordo o ai commentari per questioni specifiche 13.
Vogliamo riportare qui di seguito un elenco delle situazioni in
cui potrebbe essere conferita l’Unzione degli infermi: si tratta di casi
previsti dagli stessi documenti magisteriali o da alcuni commentari.
L’elenco non è certamente esaustivo, ma ci dà la possibilità di applica-
re il criterio generale elaborato nel primo paragrafo. Ci permette,
cioè, di considerare i diversi casi in cui può verificarsi una “pericolo-
sità” per la vita dei fedeli, dal suo inizio alla sua consumazione nel-

seri turbamenti della sua attività normale e delle sue abituali relazioni con gli altri e con Dio» (D. BORO-
BIO, La celebrazione nella Chiesa, cit., p. 821). Ci sembra più equilibrato riconoscere che «poiché sog-
getto dell’unzione è l’uomo, la valutazione della gravità della malattia non dipende semplicemente dai
criteri medici, ma interessa anche la psicologia dell’uomo infermo» (A. DONGHI, L’olio della speranza,
cit., p. 87).
13
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 9 (1977) 343 e 15 (1983) n. 2, 215.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 301

l’imminenza della morte, una pericolosità insita nel corpo, cioè la ma-
lattia o la vecchiaia, e non semplicemente proveniente dall’esterno 14.
Malati gravi: sulla gravità della malattia già abbiamo riflettuto a
lungo; qui basta ricordare alcuni casi concreti, come quello dei fedeli
affetti da un tumore o da altre malattie in cui la diagnosi medica sia
particolarmente infausta o comunque non escluda un improvviso e
pericoloso aggravamento, oppure il caso di grave paralisi, amputa-
zione, asportazione di un organo importante in un contesto di pro-
gressiva degenerazione della malattia.
Anziani molto debilitati: non si tratta di tutti gli anziani, ma solo
di coloro la cui salute sta pericolosamente declinando a causa di un
sensibile indebolimento delle forze, anche se non vi è la presenza di
una grave malattia (cf Ordo, n. 11).
Coloro che sono operati per un male pericoloso: prima di un’ope-
razione chirurgica si può amministrare l’Unzione degli infermi qua-
lora causa dell’operazione stessa sia una malattia comportante peri-
colo per la vita (cf Ordo, n. 10).
I moribondi: «Soggetti dell’Unzione degli infermi sono anche i
moribondi, qualora non sia stato possibile conferire loro il sacramen-
to in tempo più opportuno» 15.
Nei casi ora ricordati possono venire a trovarsi anche i bambini,
gli incidentati, gli handicappati, i malati incoscienti. Ma in questi ca-
si, per conferire l’Unzione degli infermi, occorre valutare anche altre
condizioni, oltre alla pericolosità della situazione di salute: e cioè la
presenza di un sufficiente uso di ragione e l’intenzione precedente di
ricevere il sacramento.
Infatti, nel can. 1004 § 1 per l’amministrazione dell’Unzione de-
gli infermi si richiede in generale l’aver «raggiunto l’uso di ragione».
Il riferimento anzitutto ai bambini è implicito, visto che stando al
can. 97 § 2 si presume che abbia raggiunto l’uso di ragione il “bambi-
no” che ha compiuto i 7 anni di età.
L’Ordo, trattando esplicitamente dei bambini, non si accontenta
però di prendere in considerazione i semplici dati cronologici, ma
aggiunge valutazioni più psicologiche: «anche ai bambini si può dare
la sacra unzione, purché abbiano raggiunto un uso di ragione tale
che possano essere confortati da questo sacramento» (n. 12).

14
Perciò non sembrano motivi sufficienti per conferire l’Unzione degli infermi i pericoli esterni come
la guerra, il terrorismo o le calamità (cf V. DE PAOLIS, Il sacramento dell’unzione degli infermi, in AA.VV.,
I sacramenti della Chiesa, Bologna 1989, p. 248).
15
CEI, Evangelizzazione e... Unzione degli Infermi, n. 141, in ECEI 2, n. 1515.
302 Eugenio Zanetti

Nonostante l’interesse di tali precisazioni, esse non furono rece-


pite nel Codice, perché ritenute non necessarie e non convenienti in
una legislazione 16. Pertanto, stando alla normativa vigente, si deve
dire che, raggiunto l’uso di ragione, anche ai bambini pericolosa-
mente ammalati non solo si “può”, ma si “deve” conferire il sacra-
mento dell’Unzione degli infermi 17.
La proposta di introdurre nei testi codiciali l’espressione «tali
rationis usu praeditus ut confortari possit», ora ricordata a proposito
dei bambini, era stata avanzata anche in riferimento agli handicappa-
ti mentali; essa, infatti, pastoralmente sembrava offrire un criterio
più chiaro per risolvere il problema se e quando conferire l’Unzione
degli infermi a queste persone. Nel Codice fu, invece, mantenuta la
semplice indicazione «adepto rationis usu»; tale criterio “oggettivo”
sembrò, infatti, giuridicamente meno problematico rispetto a quello
“soggettivo” introdotto dall’altra espressione, non escludendo però
di ricorrere a ulteriori specificazioni contenute nell’Ordo o nei com-
mentari degli autori, ma risolvendo comunque gli eventuali casi dub-
bi sempre a favore del conferimento del sacramento 18.
Fa pure riferimento al tema dell’“uso di ragione” il caso di colo-
ro che non sono nel possesso delle proprie facoltà mentali («sui non
compotes sunt»), o perché hanno perso l’uso di ragione (come nel ca-
so di pazzia) o perché sono in stato di incoscienza (come nel caso
del coma). Il can. 1006 stabilisce che a essi sia conferito il sacra-
mento dell’Unzione degli infermi qualora, «mentre erano nel posses-
so delle proprie facoltà, lo abbiano chiesto almeno implicitamente»
(ciò potrebbe essere dedotto, per esempio, dalla condotta cristiana
del fedele o dalla sua fede nel vivere la malattia o dal suo desiderio
di una morte cristiana). La normativa codiciale introduce un criterio
più largo rispetto allo stesso Ordo: aggiungendo il riferimento all’in-
tenzione almeno “implicita” del fedele e ingiungendo la “doverosità”
del conferimento del sacramento e non solo la possibilità 19.

16
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
17
L’Ordo stesso ha dovuto conformarsi alle indicazioni codiciali (Cf SACRA CONGREGAZIONE PER I SACRA-
MENTI E IL CULTO DIVINO, Variazioni da introdurre nelle nuove edizioni dei libri liturgici [12 settembre
1983], n. 12, in EV 9, n. 403).
18
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
Riconosciamo che non è facile valutare la situazione delle persone handicappate psichiche; per un
approfondimento si veda: L. GHIZZONI, Dare i sacramenti agli handicappati psichici gravi?, in Quaderni
di diritto ecclesiale 4 (1991) 180-183.
19
In tal senso è stato modificato l’Ordo (cf Variationes, n. 14, in EV 9, n. 403).
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 303

Si collega qui anche il caso di persone che hanno subito degli


incidenti e si trovano in pericolo di morte, avendo perso anche cono-
scenza. Se sono persone conosciute si applicano per esse i criteri so-
pra ricordati. Se invece non fossero conosciute né dal sacerdote né
dai presenti e fosse difficile sapere se sono dei cristiani e se avrebbe-
ro voluto ricevere l’Unzione degli infermi, non dando né l’Ordo né il
Codice una soluzione generale, spetterà al sacerdote valutare la situa-
zione caso per caso 20.
In generale ci sembra di poter concludere che il Codice è pro-
penso alla necessità di conferire il sacramento anche in assenza di
uso di ragione o di conoscenza; ciò è confermato dal modo con cui
esso tratta i casi di “dubbio” riguardanti il raggiungimento dell’uso
di ragione o la certezza che il fedele sia già morto. Infatti, mentre
nell’Ordo per tali casi si prevedeva la semplice “possibilità” di confe-
rire l’Unzione degli infermi, al can. 1005, invece, si afferma che il sa-
cramento «sia amministrato» 21.
Già abbiamo accennato alle modifiche che si sono, pertanto, in-
trodotte nell’Ordo a proposito dell’uso di ragione. Per quanto riguar-
da il dubbio di morte, il nuovo testo dell’Ordo ha assunto senz’altro
un’indole più favorevole al conferimento del sacramento, togliendo
anche la dizione «sotto condizione» 22.

“Condizioni” necessarie per ricevere il sacramento


Quanto sottolineato finora non vuole assolutamente misconosce-
re l’importanza delle condizioni soggettive del fedele che riceve l’Un-
zione degli infermi né tanto meno il dovuto rispetto della sua libertà.
Il Codice, a causa della sua indole, non dedica particolari attenzioni a
questo aspetto; tuttavia, fornisce alcune indicazioni fondamentali.

20
«Riguardo alle persone vittime di incidenti oppure agli infermi in stato incosciente sconosciuti al mi-
nistro è difficile dare una norma generale. Crediamo che, se c’è probabilità seria e positiva che siano
cristiani, si possa amministrare loro l’unzione degli infermi sotto condizione (la condizione, d’altra par-
te, è già implicita nella volontà del ministro di agire nella e con la Chiesa). Diversamente, farlo in modo
generale e indiscriminato sembra voler ignorare il legame che necessariamente c’è tra il sacramento e
la fede di chi lo riceve» (V. RAMALLO, Unzione degli infermi, in Dizionario di Diritto Canonico, Milano
1993, p. 1084).
21
Il termine “ministretur” fu esplicitamente mantenuto nella redazione del canone rispetto ai termini
usati nell’Ordo, con le seguenti osservazioni della Segreteria: «[...] melius est textum servare, ne in casu
dubii infirmi sacramento priventur» (ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 [1983] 216).
22
«Se il sacerdote viene chiamato... sia veramente morto, [...] gli amministri il sacramento secondo il
rito più oltre descritto» (Variationes, n. 15, in EV 9, n. 403). (Le parti in corsivo sono quelle modificate o
aggiunte).
304 Eugenio Zanetti

Affermando più volte che l’Unzione degli infermi va conferita a


un “fedele”, la normativa codiciale rammenta che prima e fondamen-
tale condizione per ricevere questo sacramento è essere “battezzati”
(cf cann. 842 § 1; 849). Non è questo solo un requisito giuridico, ma
il riconoscimento della profonda unità che vi è fra l’unzione battesi-
male e l’unzione conferita ai cristiani infermi. L’Unzione degli infer-
mi si pone sulla linea e sul fondamento battesimale, poiché, proprio
nel momento in cui la malattia e la stessa morte prendono forma di
esperienza viva e concreta, tale sacramento perfeziona l’immersione
nel mistero pasquale di Cristo iniziata nel Battesimo.
Rimandando ad altro articolo di questo numero per la proble-
matica del conferimento dell’Unzione degli infermi a cristiani non
cattolici 23, ci soffermiamo invece sul rapporto tra l’Unzione degli in-
fermi e i sacramenti della Confermazione, dell’Eucaristia e della Ri-
conciliazione. Ci chiediamo, cioè, se per ricevere l’Unzione degli in-
fermi sia necessario aver ricevuto questi altri sacramenti.
Poiché Battesimo, Confermazione ed Eucaristia sono tra loro
strettamente congiunti, tanto da essere richiesti insieme per la piena
iniziazione cristiana (can. 842 § 2), si suppone che un fedele, rag-
giunta l’età della discrezione, li abbia ricevuti. Il problema si pone
per i bambini che non hanno ancora completato il cammino dell’ini-
ziazione cristiana e per gli adulti che, pur avendo ricevuto il Battesi-
mo, non hanno ancora fatto la Prima comunione o non hanno ricevu-
to la Confermazione, e vengono a trovarsi in una situazione di infer-
mità pericolosa per la loro vita, dunque già nel tempo opportuno per
ricevere l’Unzione degli infermi.
I documenti magisteriali non si soffermano specificatamente su
questo problema. Occorre, pertanto, raccogliere alcune indicazioni
generali.
Per quanto riguarda la Confermazione, sottolineato in generale
che i fedeli sono obbligati a ricevere tempestivamente la Conferma-
zione (can. 890), nel Codice si afferma che nel caso di “pericolo di
morte” si riceve lecitamente la Confermazione anche se non vi è l’u-
so di ragione (can. 889 § 2) o non è ancora stata raggiunta l’età della
discrezione (can. 891). L’Ordo dell’Unzione degli infermi, nel caso in
cui un «infermo deve ricevere il sacramento della Confermazione»

23
Cf l’articolo di G.P. MONTINI, L’Unzione degli infermi e la “communicatio in sacris” (can. 844), pub-
blicato in questo fascicolo.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 305

(n. 31), dà, poi, delle disposizioni circa le modalità del suo conferi-
mento (nn. 167, 177, 205-206). Stanti queste indicazioni, penso che si
possa concludere che di per sé il malato, bambino o adulto, avente o
no l’uso di ragione, deve ricevere la Confermazione prima dell’Un-
zione degli infermi. Possibilmente ciò deve essere fatto con la debita
preparazione e amministrando i due sacramenti in modo autonomo.
Per quanto riguarda la Riconciliazione, al can. 989 si ricorda
che «ogni fedele, raggiunta l’età della discrezione, è tenuto all’obligo
di confessare fedelmente i propri peccati gravi, almeno una volta al-
l’anno».
Nell’Ordo dell’Unzione degli infermi, benché si riconosca che
tale «sacramento dona inoltre, se necessario, il perdono dei peccati e
porta a termine il cammino penitenziale del cristiano» (n. 6), tutta-
via, si sottolinea l’importanza della Riconciliazione prima dell’Unzio-
ne e del Viatico, nel caso in cui il malato debba o desideri confessare
i suoi peccati (cf sia il rito ordinario, n. 67, sia il rito continuo, n. 30).
Per quanto riguarda, infine, la Comunione eucaristica, il Codi-
ce, dopo aver ricordato che ogni battezzato, che non ne abbia la proi-
bizione e abbia raggiunto una sufficiente conoscenza e una accurata
preparazione per ricevere il Corpo di Cristo (can. 913 § 1), può e de-
ve essere ammesso alla sacra comunione (can. 912), afferma in par-
ticolare per i «fanciulli in pericolo di morte» che «la santissima Euca-
ristia può essere amministrata se possono distinguere il Corpo di
Cristo dal cibo comune e ricevere con riverenza la comunione» (can.
913 § 2). Nell’Ordo dell’Unzione degli infermi si sottolinea, poi, con
forza che «tutti i fedeli, che per qualsiasi causa si trovano in pericolo
di morte, sono tenuti per precetto a ricevere la santa comunione» co-
me “Viatico” che li sostenga e li conforti nella loro sofferenza fisica e
spirituale (n. 27). Si può, pertanto, concludere che il fedele pericolo-
samente ammalato, che non ha ancora fatto la Comunione, la deve ri-
cevere, alle condizioni sopra ricordate, se non altro nella forma so-
lenne del Viatico secondo le indicazioni dell’Ordo 24.
Possiamo aggiungere, infine, che coloro che hanno già ricevuto
il sacramento dell’Unzione degli infermi lo possono ricevere di nuo-

24
L’Ordo pone le norme sul “Viatico” (cap. IV) dopo quelle sull’Unzione degli infermi (capp. II-III),
quasi a indicarne la successione; inoltre, nel Rito continuo (cap. V), cioè in caso di pericolo prossimo e
improvviso di morte, si suggerisce ordinariamente di amministrare il Viatico dopo la Penitenza e l’Un-
zione degli infermi o, se ciò non è possibile, di amministrare Penitenza e Viatico e, se c’è ancora tempo,
la sacra Unzione (n. 30). Cf anche SC 74.
306 Eugenio Zanetti

vo, quando guariti ricadono ancora in una malattia pericolosa, oppu-


re la stessa malattia si sia aggravata ulteriormente (can. 1004 § 2) 25.
Così assolta la questione del rapporto con gli altri sacramenti,
consideriamo ora un altro aspetto delle condizioni per ricevere l’Un-
zione degli infermi, un aspetto per così dire più soggettivo, quello
cioè della richiesta dell’Unzione degli infermi e della preparazione e
disposizione necessarie.
Il can. 1001 sottolinea il dovere che pastori d’anime e parenti
hanno di provvedere a che gli infermi ricevano l’Unzione degli infer-
mi; nulla si dice, invece, circa l’iniziativa dei malati stessi. Lumen
gentium, n. 11, sottolineando il ruolo che tutta la comunità deve ave-
re nell’amministrazione dell’Unzione degli infermi, accenna anche
all’impegno che la stessa comunità ha nell’esortare i malati «a unirsi
spontaneamente alla passione e morte di Cristo». Ma è nell’Ordo che
si trova esplicitamente l’invito a
«educare i fedeli a chiedere essi stessi l’unzione e, appena verrà il momento
opportuno, a riceverla con fede e devozione grande, senza indulgere alla
pessima abitudine di rinviare la ricezione di questo sacramento» (n. 13).

Per questo deve essere predisposta un’adeguata catechesi co-


munitaria, familiare e individuale, oltre che una celebrazione ben
preparata. Anche il Codice afferma che è importante che gli infermi
«siano adeguatamente preparati e ben disposti» a ricevere l’Unzione
degli infermi, ma lo fa solo a proposito della celebrazione comune
del sacramento (cf can. 1002); tuttavia, al can. 843 si richiama in ge-
nerale l’importanza della preparazione e della buona disposizione
per ricevere i sacramenti.
Pertanto, comunità, ministro e soprattutto i malati che ricevono
l’Unzione degli infermi devono ravvivare e manifestare la loro fede,
poiché
«gli effetti del sacramento, per quanto riguarda la necessaria cooperazione
dell’uomo, sono legati alla fede del soggetto e alla preghiera fatta con fede
dal ministro e dalla comunità» 26.

25
A volte si può presentare il dubbio se a un malato l’Unzione degli infermi sia stata conferita oppure
no. Nel Codice non si contempla questo caso (al can. 845 § 2 ci si occupa solo del Battesimo, della Con-
fermazione e dell’Ordine); tuttavia, poiché in generale l’Unzione degli infermi può essere ripetuta, se
tale dubbio rimane anche dopo una diligente ricerca, penso che il sacramento possa essere tranquilla-
mente conferito.
26
CEI, Evangelizzazione e... Unzione degli infermi, n. 148, in ECEI 2, n. 1522.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 307

È su questo aspetto che insistono in modo particolare le rifles-


sioni dei liturgisti, sottolineando che l’aiuto proveniente dall’Unzione
degli infermi è per tutto l’uomo, è per la sua salvezza integrale, e dun-
que esige la sua collaborazione. Tali sottolineature sono corrette; tut-
tavia, occorre stare attenti a non assolutizzarle, giungendo alla conse-
guenza di ritenere inutile l’amministrazione dell’Unzione degli infer-
mi ai malati senza l’uso di ragione, moribondi o nel caso di dubbio di
morte. Non bisogna dimenticare, cioè, che tale sacramento comporta
una grazia che è legata anzitutto a un dono gratuito del Signore, im-
petrato dalla sua Chiesa orante. Se è giusto non interpretare l’Unzio-
ne degli infermi come un sacramento magico che fa guarire dal male
o concede un lasciapassare per il paradiso, al di là della partecipazio-
ne del fedele; così pure non bisogna misconoscere l’oggettività di una
grazia che viene dall’alto, da Gesù Cristo e di cui la Chiesa è stata
chiamata a essere fedele dispensatrice per tutti i suoi membri.
Nello stesso Battesimo dei neonati, d’altronde, la parte attiva
del battezzando è assunta dai genitori, dai padrini e dalla comunità
ecclesiale; il sacramento è conferito, cioè, in fide Ecclesiae.
Con ciò non si deve cadere nell’eccesso opposto, cioè nell’ammi-
nistrazione indiscriminata dell’Unzione degli infermi, senza tener in
alcun conto la volontà e la vita del soggetto. Già abbiamo ricordato
che il sacramento va conferito a coloro che, nel possesso delle loro fa-
coltà mentali, lo abbiano chiesto almeno implicitamente (can. 1006).
Ma si colloca qui anche la considerazione circa la condizione morale
del malato.
A tal proposito al can. 1007 si afferma che
«non si conferisca l’unzione degli infermi a coloro che perseverarono ostina-
tamente in un peccato grave manifesto».

Questo canone, così formulato fin dai primi schemi preparatori


e giunto alla redazione finale senza alcuna obiezione, non ha riscon-
tri né nei testi conciliari né nell’Ordo; ma ha come fonte diretta il
can. 942 del CIC 1917 27.
Esso indica, anzitutto, che l’Unzione degli infermi non può esse-
re conferita contro la volontà del malato, approfittando magari di un
momento di assopimento, ma che va rispettata la sua scelta di vita e
la sua eventuale volontà di non ricevere i sacramenti.

27
«Hoc sacramentum non est conferendum illis qui impoenitentes in manifesto peccato mortali contuma-
citer perseverant; quod si hoc dubium fuerit, conferatur sub conditione» (can. 942, CIC 1917).
308 Eugenio Zanetti

Rimane, tuttavia, il problema di chi, pur trovandosi in situazione


morale particolare, desidera ricevere l’Unzione degli infermi, chie-
dendolo lui stesso spontaneamente o chiedendolo per lui i parenti,
nel caso di incoscienza del malato.
Dal tenore del can. 1007 sembra di intuire la volontà di restrin-
gere il rifiuto del sacramento ai casi estremi. Per il rifiuto si richie-
de, infatti, anzitutto la permanenza in un «peccato grave» 28 (nel CIC
1917 si diceva «peccato mortale») e «manifesto», cioè noto alla co-
munità (tale, cioè, che, in caso di rifiuto del sacramento, non ci sia
pericolo di diffamazione del malato). Inoltre, deve verificarsi da par-
te del malato un atteggiamento di “ostinazione”, cioè di rifiuto conti-
nuo e pienamente consapevole di uscire dalla sua situazione di pec-
cato, nonostante gli inviti e i consigli ricevuti.
Per ulteriori approfondimenti, poiché né il Codice né l’Ordo dan-
no particolari specificazioni, dobbiamo fare ricorso a qualche situa-
zione analoga, come quella della privazione della Comunione eucari-
stica (can. 915) o delle esequie funebri (can. 1184). Nel primo caso
troviamo la stessa espressione contenuta nel can. 1007: «in manifesto
gravi peccato obstinate perseverantes»; in tale categoria, ricordano al-
cuni autori,
«vanno compresi coloro che hanno abbandonato pubblicamente la fede cat-
tolica, coloro che hanno aderito a ideologie o associazioni ostili alla Chiesa,
coloro che vivono in situazione matrimoniale irregolare» 29.

Sembra logico e rispettoso della loro scelta non conferire l’Un-


zione degli infermi, come gli altri sacramenti, a coloro che hanno ab-
bandonato pubblicamente la fede cattolica (per passare a un’altra re-
ligione o a qualche setta o alla professione di ateismo) o hanno ade-
rito a ideologie o associazioni ostili alla Chiesa (come, per esempio,
diverse forme di massoneria); tranne che abbiano dato dei segni di
pentimento.
Più complesso è il problema di coloro che vivono in situazione
matrimoniale irregolare e dunque non più in piena comunione con la

28
«La valutazione oggettiva della gravità morale della situazione spetta al ministro» (V. RAMALLO, Un-
zione degli infermi, cit., p. 1090).
29
A. MONTAN, Liturgia, iniziazione cristiana, Eucaristia, penitenza, unzione degli infermi, ordine (cann.
834-1054), in AA.VV., Il diritto nel mistero della Chiesa, III, Roma 1992, p. 104.
Di per sé i sacramenti sono vietati, per pena, anche agli scomunicati (can. 1331 § 1, 2°), tra i quali vi so-
no pure gli eretici, gli apostati e gli scismatici (can. 1364 § 1), e agli interdetti (can. 1332); e ciò è ricor-
dato espressamente nei cann. 915 e 1184. Ma, tale divieto «è sospeso finché il reo versa in pericolo di
morte» (can. 1352 § 1), quindi sempre per quanto riguarda l’Unzione degli infermi; infatti, nel can. 1007
non si fa menzione di questi casi.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 309

Chiesa: conviventi, sposati solo civilmente e divorziati risposati 30.


Nei documenti magisteriali che hanno trattato di queste situazioni
non si trovano riferimenti espliciti all’Unzione degli infermi, ma o
l’affermazione generale che in tali casi la Chiesa purtroppo non può
amministrare i “sacramenti” o l’approfondimento sulla Riconciliazio-
ne e sulla Comunione eucaristica 31.
Analogamente a quanto tali documenti affermano per questi due
ultimi sacramenti, penso si possa dire che l’Unzione degli infermi si
può amministrare ai malati che vivono in situazione matrimoniale ir-
regolare, qualora, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della
fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti a una forma di vita non
più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Considera-
ta generalmente l’impossibilità del malato di separarsi dal coniuge a
causa appunto della grave malattia, ciò significa in concreto l’impe-
gno a interrompere la vita sessuale (cosa spesso scontata considera-
ta la situazione) 32. Se, poi, il malato ha già perso conoscenza o l’uso di
ragione, spetterà al ministro valutare la possibilità e l’opportunità di
conferirgli l’Unzione, considerando il tenore di vita cristiana tenuta
dal fedele e le intenzioni manifestate in vita, e avendo comunque pre-
sente la generale benevolenza dimostrata nella prassi della Chiesa
nelle situazioni di pericolo di morte dei suoi fedeli.
Infine, occorre anche tener presente che per i fedeli a cui, per
qualsiasi motivo, non può essere amministrato il sacramento dell’Un-
zione degli infermi (come pure la Riconciliazione o la Comunione
eucaristica) nulla vieta che la Chiesa rivolga la sua preghiera e la sua
benedizione, anzi ciò sarà maggiormente doveroso; nella ferma fidu-
cia che
«anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore e in tale
stato tuttora vivono potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e
della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nel-
la carità» 33.

30
Nella redazione del can. 915, a proposito del divieto della Comunione eucaristica, la Segreteria vi in-
cluse esplicitamente i divorziati risposati (cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 [1983] 194).
31
Cf CEI, Nota pastotale La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimo-
niali irregolari o difficili (26 aprile 1979), nn. 25-28, 31, 36, in ECEI 2, nn. 3431-3434, 3437, 3442; GIO-
VANNI PAOLO II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), nn. 82-84, in EV 7, nn. 1792-1800.
32
Ci sembra che si possa aggiungere anche che, analogamente a quanto indicato per la Comunione
eucaristica, in questi casi sarebbe opportuno evitare il conferimento dell’Unzione degli infermi in una
celebrazione comunitaria in cui sia conosciuta la situazione matrimoniale del malato.
33
GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, n. 84, in EV 7, n. 1802.
Penso, inoltre, che mantenga la sua validità quanto asseriva il can. 944 del CIC 1917, il quale pur affer-
mando che la cura per l’Unzione degli infermi non deve essere trascurata da nessuno, tuttavia ricorda-
va che «hoc sacramentum per se non sit de necessitate medii ad salutem».
310 Eugenio Zanetti

Celebrazione individuale e celebrazione comunitaria


La domanda «a chi conferire l’Unzione degli infermi» riguarda,
infine, anche la questione se sia più opportuno conferire il sacramen-
to ai singoli, individualmente nelle loro case, oppure a più infermi in-
sieme, durante una celebrazione comunitaria nella chiesa parroc-
chiale, negli ospedali o nei santuari. La risposta a tale questione è
strettamente collegata alla valutazione delle situazioni e delle condi-
zioni oggettive e soggettive di conferimento dell’Unzione degli infer-
mi analizzate nei paragrafi precedenti.
Sembra, infatti, di notare come la tendenza a legare l’Unzione
degli infermi al pericolo di morte abbia comportato nella pastorale
ecclesiale un’attenzione particolare al singolo, dunque alla celebra-
zione individuale; invece, la tendenza a legare l’Unzione degli infer-
mi alla situazione spirituale critica creata nei fedeli dalla malattia ab-
bia portato maggiormente a rivalutare la celebrazione comunitaria.
Nei documenti magisteriali del nostro secolo si è passati dal si-
lenzio assoluto del CIC 1917 sulla celebrazione comunitaria, a una
generica sottolineatura della dimensione ecclesiale dell’Unzione de-
gli infermi nel testo conciliare di Lumen gentium, n. 11 e poi nella ci-
tata Costituzione di Paolo VI, fino a un esplicito riconoscimento della
possibilità di celebrazioni con più infermi presente nell’Ordo:
«spetta all’Ordinario del luogo regolare quelle celebrazioni in cui eventual-
mente si radunano infermi di diverse parrocchie o ospedali per ricevere la
sacra Unzione» (n. 17) 34.

Sulla linea dell’Ordo si è avuto, poi, uno sviluppo entusiastico di


questi aspetti nel Documento della CEI su “Evangelizzazione e... sa-
cramento dell’Unzione degli infermi” (1974): sia sottolineando l’oppor-
tunità, almeno ogni tanto, di sostituire la celebrazione per un infer-
mo fatta a domicilio con una «celebrazione fatta in Chiesa o in altro
luogo adatto con la partecipazione di parenti e amici» (n. 163), sia ri-
tenendo «più provvidenziale e più efficace ancora, la celebrazione

34
Al n. 36 dell’Ordo si raccomanda, inoltre, l’importanza di una catechesi e di una preparazione ben
fatte «soprattutto se l’Unzione degli infermi avviene in forma comune». Infine al n. 69 si ricorda che il
rito dell’Unzione a più infermi insieme deve essere lo stesso di quello previsto per un singolo infermo
(cap. II del rituale), anche se poi viene previsto un capitolo apposito per la «celebrazione dell’unzione in
una grande assemblea di fedeli» (cap. III), da usarsi in caso di «pellegrinaggi, convegni diocesani, citta-
dini o parrocchiali o di pie associazioni di infermi» o «qualche volta, secondo le opportunità, anche ne-
gli ospedali» (n. 97).
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 311

comunitaria dell’unzione, [...] specialmente in occasione di pellegri-


naggi a qualche santuario, o di convegni organizzati soprattutto per
gli infermi» (n. 164).
Il documento della CEI sostiene con forza che questa è «una
forma da favorire e da incrementare» per superare o correggere la
prassi corrente che riduce l’Unzione degli infermi a sacramento dei
moribondi e non permette di vedervi un mezzo attraverso cui la ma-
lattia viene inserita nel dinamismo della salvezza cristiana.
Questa breve panoramica ci aiuta a collocare e ad interpreta-
re meglio la posizione del Codice attuale espressa nel can. 1002 35.
È utile, anzitutto, accennare alle vicende redazionali di questo
canone. Dalle osservazioni allo schema del 1975 emerse la proposta
di introdurre un nuovo canone sull’Unzione degli infermi conferita a
più infermi; ma al Gruppo di studio sui sacramenti ciò non piacque 36.
E così nello schema del 1980 non comparve alcuna menzione del no-
stro canone; e a un Padre della Commissione che proponeva di inse-
rire nel nuovo schema un paragrafo sulla celebrazione comunitaria,
per sottolineare di più l’aspetto ecclesiale, la Segreteria rispose nega-
tivamente, asserendo che bastava quanto era detto nell’Ordo 37. No-
nostante ciò, durante l’ultima revisione predisposta dal Papa, alla fi-
ne fu inserito nel Codice un canone sulla celebrazione comune del-
l’Unzione degli infermi, l’attuale can. 1002:
«La celebrazione comune dell’unzione degli infermi, per più infermi simulta-
neamente, i quali siano adeguatamente preparati e ben disposti, può essere
compiuta secondo le disposizioni del Vescovo diocesano».

È evidente che il testo codiciale riprende i testi dell’Ordo, ma


con una certa indole di maggiore prudenza, ravvisabile per esempio
nell’affidamento della vigilanza di tali celebrazioni non più all’Ordina-
rio del luogo, ma al Vescovo diocesano stesso.
In conclusione ci sembra di poter dire che il CIC vigente ha re-
cepito la possibilità di conferire la sacra Unzione a più infermi, ma
senza enfasi, anzi con precauzione; infatti, è significativo che solo a

35
Notiamo che nel Codex canonum Ecclesiarum orientalium (18 ottobre 1990) non vi è alcun riferimen-
to al conferimento dell’Unzione degli infermi a più malati; vi è, invece, l’invito a mantenere l’abitudine a
far amministrare il sacramento a più sacerdoti (cf can. 737 § 2).
36
«Can 185 (novus). “Ad loci Ordinarium pertinet particulares normas edere in celebratione Sacramen-
ti Unctionis infirmorum servandas quando plures infirmi ad hoc congregantur”. Omnibus placet ut delea-
tur» (ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 9 [1977] 341).
37
Cf ACTA COMMISSIONIS, in Communicationes 15 (1983) 215.
312 Eugenio Zanetti

questo proposito il Codice richiami la necessità di un’adeguata pre-


parazione e di una buona disposizione in chi riceve il sacramento.
In tal modo la normativa codiciale ha raccolto alcune istanze
importanti, come la rivalutazione dell’aspetto ecclesiale e pneumato-
logico dell’Unzione degli infermi, la critica a una visione privatistica,
pessimistica e quasi tetra di questo sacramento, la reazione a una
cultura moderna che tende a nascondere o a misconoscere il valore
della sofferenza. D’altra parte, col suo atteggiamento prudente ha
messo in guardia da alcuni pericoli, emersi nella pastorale postconci-
liare, come la generalizzazione dell’amministrazione del sacramento
per qualsiasi malattia o vecchiaia, l’assenza di una preparazione ade-
guata e l’insorgenza di un’immagine quasi magica del rito collettivo,
con la conseguente perdita del senso genuino e peculiare dell’Unzio-
ne degli infermi. Se, infatti, la celebrazione comunitaria esalta la di-
mensione ecclesiale del sacramento, non bisogna tuttavia dimentica-
re la specifica finalità per cui esso è dato e cioè fare in modo che i
malati incontrino, attraverso l’azione della Chiesa, la grazia del Si-
gnore che li sollevi e li salvi nella situazione di pericolo da cui è
gravemente minacciata la loro vita.

Conclusione
Alla fine di questo articolo penso che il lettore abbia percepito
la laboriosità e le difficoltà avute nel delineare, anche solo dal punto
di vista canonico, i criteri per il conferimento dell’Unzione degli in-
fermi. In effetti, in assenza di documenti magisteriali recenti e riag-
giornati, come pure di studi approfonditi e particolareggiati, abbia-
mo dovuto raccogliere con pazienza i dati inerenti alla nostra temati-
ca e a volte anche azzardare alcune interpretazioni personali, oppure
lasciare aperti certi problemi.
Tutto ciò fa emergere la necessità che nella Chiesa, dopo la
promulgazione dell’Ordo dell’Unzione degli infermi del 1972 e la
scarna, anche se precisa, rielaborazione del CIC vigente, si offra a li-
vello universale e anche particolare una nuova riflessione su questo
sacramento, un po’ trascurato rispetto agli altri. Non si chiede, certo,
di dare delle determinazioni esaustive o di scadere in una farragino-
sa casistica; ma di fornire ulteriori indicazioni a livello dogmatico,
morale, antropologico, liturgico, spirituale e canonico, tali da poter
aiutare il discernimento e la prassi pastorale divenuta sempre più
complessa.
A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? 313

È oggi indispensabile una riflessione teologica e un’azione pa-


storale che in modo articolato tengano presenti le diverse situazioni
e condizioni in cui vengono a trovarsi i malati, le loro famiglie e le
stesse comunità cristiane.
In tal modo, ci sembra, si potranno superare i pericoli di perpe-
tuare una concezione “moribonda” e quasi magica dell’Unzione degli
infermi, ma anche di avventurarsi in un’interpretazione troppo “gene-
rica” e a volte eccessivamente personalistica di questo sacramento.

EUGENIO ZANETTI
Via Arena, 11
24129 Bergamo
314
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 314-320
Amministrazione
e ricezione dei sacramenti
in pericolo di morte. Il viatico
di Mauro Rivella

Come sappiamo, la salus animarum costituisce la legge suprema


nella Chiesa, nel senso che l’intera normativa canonica, non solo nella
sua impostazione fondamentale, ma anche nelle concrete esplicitazio-
ni normative, si propone quale strumento di accompagnamento e so-
stegno dell’uomo in cammino verso la realizzazione del progetto di
salvezza individuale e comunitario che il Padre, attraverso Gesù Cristo
e nello Spirito, ha da sempre pensato per lui. Tale orientamento, che
esclude ogni assolutizzazione non solo delle norme positive ma anche
degli istituti giuridici che costituiscono il sistema canonico, si manife-
sta in maniera peculiare nel ricorso alla dispensa, come possibilità, la-
sciata al superiore, di esonerare il fedele dall’osservanza di una legge
disciplinare che, nel caso concreto, costituirebbe per il soggetto un
aggravio piuttosto che un aiuto (cf cann. 85-93). Nello stesso spirito la
legge canonica stabilisce particolari condizioni per quanto riguarda
l’amministrazione dei sacramenti, quando chi li debba ricevere si trovi
in pericolo di morte: fatto salvo ciò che è costitutivo della stessa realtà
sacramentale, vengono ridotti al minimo quei binari disciplinari che
ne regolano ordinariamente la celebrazione e la ricezione. Essendo in-
fatti i sacramenti gli “strumenti” per eccellenza mediante i quali si di-
spiega l’azione salvifica di Cristo, è comprensibile che in situazioni di
particolare gravità prevalga l’intenzione di andare incontro al fedele
nel bisogno sull’esigenza di adempiere a tutte le condizioni che ne re-
golano ordinariamente la corretta amministrazione.
Ma che cosa si deve intendere per pericolo di morte? I commen-
tatori sono concordi nel definire in tal modo quelle situazioni in cui
la morte costituisce una minaccia probabile in tempi prossimi. Il
concetto si chiarifica nella differenziazione dall’essere in punto di
Amministrazione e ricezione dei sacramenti in pericolo di morte. Il viatico 315

morte (in articulo mortis), che configura invece il caso ove si dà la


certezza morale che la morte seguirà in tempi rapidi. Si può poi ulte-
riormente distinguere fra il pericolo derivante dall’interno (ab in-
trinseco) e quello che nasce dall’esterno (ab extrinseco): la prima fat-
tispecie è prodotta da circostanze connesse con la persona stessa,
quali la vecchiaia o una malattia grave, che lasci presagire un esito
infausto, indipendentemente dalle cure adottate. La seconda deriva
da situazioni o avvenimenti esterni al soggetto, che mutano il corso
della sua esistenza ponendolo di fronte a un rischio in precedenza
inesistente: questo gruppo comprende chi si trova in guerra, chi abi-
ta in un’area soggetta ad attacchi militari e bombardamenti o è espo-
sta al contagio da epidemia, chi deve intraprendere un viaggio aereo
o marittimo pericoloso, chi deve affrontare un intervento chirurgico
grave o un parto problematico.

Proviamo ora a scorrere la normativa codiciale in materia, par-


tendo dalla Confermazione e dalla Penitenza, sacramenti che posso-
no essere validamente amministrati solo dal sacerdote dotato del-
la facoltà specifica, che gli viene attribuita dalla legge o dal superio-
re. Come si può rilevare, nel caso in cui il fedele versi in pericolo di
morte, è la legge stessa a concedere tale facoltà al ministro. In tale
circostanza infatti ogni presbitero può amministrare la Confermazio-
ne (can. 883, 3°). Ciò costituisce addirittura un dovere per quanti
hanno la cura d’anime, ovvero i parroci (can. 530, 2°) e i cappellani
(can. 566 § 1): spetta infatti primariamente a loro far sì che il fedele
possa disporre degli aiuti di grazia necessari per affrontare un mo-
mento particolarmente critico della propria esistenza.
Per quanto riguarda la Penitenza, qualunque sacerdote, anche
se privo della facoltà o dimesso dallo stato clericale, è tenuto all’ob-
bligo di ascoltare le confessioni sacramentali dei fedeli che si trova-
no in pericolo di morte (can. 986 § 2). L’assoluzione si estende a
ogni censura e peccato (can. 976), compresa l’assoluzione del com-
plice nel peccato contro il sesto comandamento (can. 977), che in
tutti gli altri casi sarebbe invalida. Si tenga presente che le censure
che vietano la celebrazione di sacramenti sono sospese ogniqualvol-
ta si debba provvedere ai fedeli in pericolo di morte (can. 1335). Se
la pena vieta di ricevere sacramenti o sacramentali, resta sospesa fin-
ché il reo versa in pericolo di morte (can. 1352 § 1).
Qualora vi sia imminente pericolo di morte e non basti il tempo
per ascoltare le confessioni dei singoli penitenti, è pure possibile im-
316 Mauro Rivella

partire l’assoluzione a più penitenti insieme senza la confessione in-


dividuale previa (can. 961 § 1, 1°). In questo caso è necessario che il
penitente sia ben disposto e che faccia il proposito di confessare a
tempo debito i singoli peccati gravi (can. 962 § 1).

Diamo ora uno sguardo agli altri sacramenti. Sappiamo che, in


assenza di un ministro ordinato, amministra lecitamente il Battesimo
chiunque sia mosso da retta intenzione (can. 861 § 2). L’adulto in pe-
ricolo di morte può essere battezzato se, avendo una qualche cono-
scenza delle verità principali della fede, in qualunque modo ha mani-
festato l’intenzione di ricevere il Battesimo e promesso di osservare
i comandamenti del cristianesimo (can. 865 § 2).
Il bambino in pericolo di morte deve essere battezzato senza in-
dugio (can. 867 § 2); è battezzato lecitamente anche contro la vo-
lontà dei genitori, pure acattolici (can. 868 § 2) 1.

Per quel che riguarda il Matrimonio, in pericolo di morte è vali-


do anche se contratto alla presenza dei soli testimoni (can. 1116 § 1):
è tuttavia auspicata la presenza di un sacerdote o diacono, anche se
privo della facoltà di assistere al matrimonio (§ 2) 2. Si noti che, dal
momento che i nubendi sono i ministri del sacramento, non è neces-
sario che la legge investa il sacerdote o il diacono della facoltà di as-
sistenza di cui non dispone ad altro titolo, ma più semplicemente è
stabilito che la sua presenza non è necessaria.
Il can. 1079 enumera l’ampio ventaglio di dispense matrimoniali
che sono possibili qualora vi sia un pericolo di morte: in forza del § 1
l’Ordinario del luogo può dispensare i propri sudditi dovunque dimo-
rino e quanti si trovino nel suo territorio sia dall’osservanza degli
elementi prescritti per la validità della forma canonica (ovvero la pre-
senza del ministro sacro in qualità di assistente e di due testimoni),
sia da tutti e singoli gli impedimenti di diritto ecclesiastico, sia pub-
blici sia occulti, con la sola eccezione dell’impedimento che deriva
dalla ricezione del presbiterato. Quando non sia possibile ricorrere
all’Ordinario del luogo, le medesime facoltà di dispensare sono ac-

1
Sull’argomento rimando al mio articolo, dal titolo Battezzare i bambini in pericolo di morte anche con-
tro la volontà dei genitori (can. 868 § 2), in Quaderni di diritto ecclesiale 9 (1996) 66-75.
2
La traduzione proposta nelle edizioni correnti del CIC (UECI, EDB, Chiappetta): «se vi è un altro sa-
cerdote o diacono che possa essere presente, deve essere chiamato e assistere», ci sembra infelice, per-
ché confonde il concetto di “assistenza”, per la quale è necessaria la facoltà concessa dalla legge o dele-
gata dal titolare, con quello di “presenza”.
Amministrazione e ricezione dei sacramenti in pericolo di morte. Il viatico 317

cordate dal § 2 sia al parroco, sia al ministro sacro debitamente dele-


gato, sia al sacerdote o diacono che presenziano al matrimonio a
norma del can. 1116 § 2. Il § 4 precisa che si considera impossibile il
ricorso all’Ordinario, quando ciò possa avvenire solo per telegrafo o
per telefono: c’è infatti il rischio che un impedimento occulto venga
divulgato. Il § 3 concede infine al confessore la facoltà di dispensare
in pericolo di morte nel solo foro interno, sia sacramentale che ex-
trasacramentale, dagli impedimenti occulti.

Il pericolo di morte è pure una delle circostanze che rende pos-


sibile la communicatio in sacris. In base al can. 844 § 4, i ministri cat-
tolici conferiscono lecitamente i sacramenti della Penitenza, dell’Eu-
caristia e dell’Unzione degli infermi ai cristiani delle comunità eccle-
siali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica, e che
versano in pericolo di morte, alle seguenti condizioni: a) assenza del
ministro del proprio culto; b) richiesta spontanea da parte del fedele;
c) fede cattolica circa i sacramenti che vengono chiesti; d) presenza
delle disposizioni necessarie a riceverli. Toccherà al ministro cattoli-
co verificare che esistano tutte le suddette condizioni. È evidente co-
me anche in questo caso prevalga su tutto la preoccupazione di non
privare il soggetto, che si trova in una situazione particolarmente
drammatica, della grazia dei sacramenti. Si noti ancora come questa
sia l’applicazione più generosa all’interno della normativa sulla com-
municatio in sacris. Quando infatti ci si trovi di fronte a un’altra “gra-
ve necessità” (esemplificabile con uno stato di carcerazione, di per-
secuzione o di diaspora che priva l’acattolico del proprio ministro di
culto) l’ammissione ai sacramenti non è lasciata alla discrezione del
ministro ma è subordinata al giudizio del Vescovo diocesano o della
Conferenza episcopale.

Abbiamo tenuto per ultimo il sacramento dell’Eucaristia, per-


ché è connesso alla trattazione sul Viatico, che merita una speciale
considerazione. Il can. 913 § 2 afferma che ai fanciulli in pericolo di
morte l’Eucaristia deve essere amministrata se sono in grado di di-
stinguere il Corpo di Cristo dal cibo comune e di riceverlo con rive-
renza. Quanto al Viatico, la normativa canonica è piuttosto stringata:
esiste il dovere di ricevere la comunione come Viatico quando ci si
trova in pericolo di morte (can. 921 § 1) e si è invitati ad accostarsi
nuovamente alla comunione, se ci si è già comunicati nella stessa
giornata (can. 921 § 2). Il can. 922 raccomanda di non differire trop-
318 Mauro Rivella

po il Viatico e impone a quanti hanno la cura d’anime di vigilare af-


finché gli infermi ne ricevano il conforto quando sono nel pieno pos-
sesso delle loro facoltà. Hanno il dovere e il diritto di portarlo agli in-
fermi il parroco e i vicari parrocchiali, i cappellani, come pure il su-
periore della comunità negli istituti religiosi clericali o nelle società
di vita apostolica, nei riguardi di tutti coloro che si trovano nella casa
(can. 911 § 1; cf anche cann. 530, 3°; 566 § 1). Il can. 911 § 2 estende
tale diritto-dovere a tutti i sacerdoti e altri ministri della comunione,
in caso di necessità o con licenza almeno presunta del parroco, del
cappellano o del superiore, i quali poi devono essere informati.

È evidente che il tema merita una trattazione più ampia, che


non può prescindere dal senso teologico del Viatico, dalla normativa
contenuta nei libri liturgici e da alcune considerazioni di carattere
pastorale 3.
Possiamo muoverci da una duplice considerazione, da una
parte storica e dall’altra teologica. Da un punto di vista storico, la
conservazione dell’Eucaristia appare proprio finalizzata al Viatico,
cioè alla Comunione in punto di morte. Come insegna il Catechismo
della Chiesa cattolica, al n. 1524:
«È seme di vita eterna e potenza di risurrezione, secondo le parole del Si-
gnore: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6, 54). Sacramento di Cristo morto e ri-
sorto, l’Eucaristia è, qui, sacramento del passaggio dalla morte alla vita, da
questo mondo al Padre».

Fin dal sec. IV è testimoniato l’uso di porre in bocca ai morenti


l’Eucaristia nel momento del trapasso e, a questo scopo, era prassi
comune comunicare il morente anche più volte al giorno. Il Corpo di
Cristo costituisce infatti l’aiuto supremo al fedele che attua il suo
esodo pasquale, unendo la propria morte a quella di Gesù ed entran-
do con lui nella vita eterna.
Il nuovo rito del Viatico, contenuto nel Rituale intitolato Sacra-
mento dell’Unzione e cura pastorale degli infermi, è finalizzato alla ri-
scoperta della dimensione escatologica dell’Eucaristia. Esso prevede,
sia nel caso in cui venga conferito durante la messa, sia che avvenga

3
Rivista di pastorale liturgica dedica la parte monografica del fascicolo 190 (1995/3) al tema del Viati-
co. Segnalo i contributi di R. DALLA MUTTA, Il Viatico ai morenti: panoramica storica, pp. 23-30;
C. ROCCHETTA, Teologia del Viatico, pp. 31-39; G. DAVANZO, Il Viatico: suggerimenti pastorali, pp. 40-45.
Amministrazione e ricezione dei sacramenti in pericolo di morte. Il viatico 319

fuori della messa, la professione di fede mediante la rinnovazione del-


le promesse battesimali. Si tratta di una vera e propria redditio del
Simbolo consegnato al fedele nel giorno del suo inserimento nella co-
munità ecclesiale. Particolarmente significativo è il cosiddetto rito
continuo, ovvero la modalità celebrativa da utilizzarsi
«per i casi particolari, nei quali o per un male repentino o per altri motivi un
fedele venisse a trovarsi d’improvviso in pericolo prossimo di morte» (Pre-
messe al Rito, 30),

e che consiste nell’amministrazione senza soluzione di continuità


della Penitenza, dell’Unzione e dell’Eucaristia in forma di Viatico. La
particolare sequenza introdotta in questo caso risponde a una sim-
metria con i Sacramenti dell’iniziazione cristiana, come nota il Cate-
chismo della Chiesa cattolica, al n. 1525:
«Come i sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell’Eucaristia co-
stituiscono una unità chiamata “i sacramenti dell’iniziazione cristiana”, così
si può dire che la Penitenza, la Sacra Unzione e l’Eucaristia, in quanto viati-
co, costituiscono, al termine della vita cristiana, “i sacramenti che preparano
alla Patria” o i sacramenti che concludono il pellegrinaggio terreno».

Ancora al n. 30 delle Premesse al Rito si osserva che, quando


mancasse il tempo di conferire tutti e tre i sacramenti nell’ordine so-
pra indicato, è opportuno dare la precedenza alla confessione sacra-
mentale, anche solo in forma generica, amministrando subito dopo il
Viatico, dal momento che ogni battezzato è tenuto a riceverlo in pun-
to di morte, e lasciando per ultima, se resta tempo, la sacra Unzione.
Quando tuttavia l’infermo non fosse più in grado di ricevere la comu-
nione, gli si deve conferire l’Unzione.
Per quanto sia teologicamente ricco e liturgicamente suggesti-
vo, il conferimento del Viatico, sia nella forma ordinaria sia all’inter-
no del “rito continuo”, rischia di essere disatteso nella prassi pasto-
rale corrente. Ciò – sia chiaro – non è in genere imputabile alla catti-
va volontà o alla negligenza dei pastori, o tanto meno all’indifferenza
dei fedeli. Gioca piuttosto a suo sfavore la rimozione della tematica
della morte nella cultura occidentale contemporanea, fenomeno cul-
turale dal quale neppure i cristiani più ferventi sono immuni. Sul
tema si è scritto parecchio e sarebbe superfluo tornarci qui limitan-
dosi a qualche accenno: basti considerare il divario esistente fra la
concezione dell’Eucaristia come passaggio, sottesa alla teologia del
320 Mauro Rivella

Viatico, e la mentalità corrente, dove la morte migliore e augurabile


è quella che avviene improvvisamente, senza che l’interessato abbia
tempo di rendersi conto di ciò che sta avvenendo e di soffrire per il
distacco dalla vita terrena. Per altro verso alla celebrazione del Viati-
co così come è prevista dai libri liturgici rinnovati si oppone la cre-
scente ospedalizzazione della morte, che rende praticamente impos-
sibile celebrare la messa accanto al letto del malato e tende a priva-
tizzare la vicenda stessa dell’infermo, che talvolta, soggetto a cure
intensive, è anche fisicamente isolato dalle persone care. Quando in-
vece, come capita il più delle volte, il paziente è ricoverato insieme
ad altri degenti, diventa praticamente impossibile qualsiasi celebra-
zione pubblica, che rischierebbe di essere vissuta con imbarazzo, se
non addirittura con timore, da parte degli altri ricoverati e dei loro
parenti.
Queste considerazioni, che presentano dati di fatto che è impos-
sibile ignorare, impongono una riconsiderazione della prassi pasto-
rale del Viatico che aiuti a riscoprirne il prezioso significato spiritua-
le e non ne vanifichi l’applicazione. Da una parte può essere feconda
una catechesi eucaristica che non ne taccia la dimensione escatologi-
ca, magari a favore di una presentazione orizzontalistica che potreb-
be parere più facile e accattivante. Dall’altra si tratta di approfondire
le condizioni di possibilità di una rinnovata pastorale della malattia,
accettando i contesti socioculturali in cui essa è chiamata oggi a rea-
lizzarsi, senza tuttavia rinunciare aprioristicamente alla possibilità
dell’annuncio di fede, anche in quegli elementi più provocatori e me-
no in linea con la sensibilità sociale dominante.

MAURO RIVELLA
Via Lanfranchi, 10
10131 Torino
321
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 321-336
L’Unzione degli infermi
e la communicatio in sacris
di G. Paolo Montini

L’interesse in merito alla «partecipazione comune alla celebra-


zione di sacramenti fra fedeli appartenenti a Chiese o comunità ec-
clesiali diverse» (ciò che brevemente si dice communicatio in sacris)
è del tutto assorbito dal sacramento della Santissima Eucaristia o
della Comunione eucaristica.
Gli interventi della Santa Sede, come pure delle Conferenze e-
piscopali, per quanto di loro competenza, e la stessa produzione nor-
mativa e lo stesso dibattito scientifico teologico e canonico, si sono
appuntati con particolare insistenza sulla comune partecipazione al-
l’Eucaristia (intercomunione e ospitalità eucaristica), trascurando i
sacramenti della Penitenza e dell’Unzione degli infermi 1.
Eppure il can. 844 §§ 2-5 riserva una apposita normativa ai tre
sacramenti (Eucaristia, Penitenza e Unzione degli infermi) che più
direttamente sono necessari a donare la grazia e per i quali perciò
più direttamente si avverte l’esigenza di una partecipazione comune
fra fedeli pur appartenenti a Chiese o comunità ecclesiali diverse 2.

1
Basti pensare agli interventi della Santa Sede (Segretariato per l’unità dei cristiani) a chiarificazione
del Direttorio ecumenico: Nota circa l’applicazione del Direttorio ecumenico, 6 ottobre 1968 (in L’Osser-
vatore Romano, 6 ottobre 1968); Dichiarazione Dans ces derniers temps, 7 gennaio 1970 (in AAS 62
[1970] 184-188); Istruzione In quibus rerum circumstantiis, 1° giugno 1972 (AAS 64 [1972] 518-525);
Nota Dopo la pubblicazione, 17 ottobre 1973 (AAS 65[1973]616-619), tutti riguardanti la partecipazione
all’Eucaristia.
Lo stesso si può dire degli interventi delle Conferenze episcopali: cf J.T. MARTIN DE AGAR, Legislazione
delle Conferenze episcopali complementare al CIC, Milano 1990, ad canonem.
2
Normativa del tutto analoga riporta il Codice dei canoni delle Chiese orientali al can. 671 §§ 2-5. Per
un primo commento cf D. SALACHAS, La comunione nel culto liturgico e nella vita sacramentale tra la
Chiesa cattolica e le altre Chiese e Comunità ecclesiali, in Angelicum 66 (1989) 403-421; ID., L’iniziazione
cristiana nei Codici orientale e latino. Battesimo, Cresima, Eucaristia nel CCEO e nel CIC, Bologna-Ro-
ma 1991, pp. 24-42.
322 G. Paolo Montini

La ragione di tale trascuratezza è abbastanza evidente se si po-


ne mente alla notevole rilevanza teologica, in ordine all’appartenenza
ecclesiale, del sacramento dell’Eucaristia nonché al fatto della diffu-
sione notevole del fenomeno della celebrazione del sacramento del-
l’Eucaristia e della partecipazione dei fedeli alla medesima. E, corri-
spettivamente, se si pone mente alla scarsa rilevanza ecclesiologica
del sacramento della Unzione degli infermi, rilevabile anche dal pun-
to di vista celebrativo; alla esiguità di richiesta del sacramento del-
l’Unzione degli infermi, rilevabile anche nella assenza in alcune co-
munità ecclesiali dello stesso sacramento dell’Unzione degli infermi.

Il nostro intento è pertanto di considerare l’applicazione concre-


ta delle norme sulla communicatio in sacris al sacramento dell’Unzio-
ne degli infermi.
In pratica le domande basilari saranno due: a quali condizioni
un fedele cattolico può (chiedere e) ricevere il sacramento dell’Un-
zione degli infermi da un ministro non cattolico? a quali condizioni
un ministro cattolico può amministrare il sacramento dell’Unzione
degli infermi a un fedele appartenente a una Chiesa o comunità ec-
clesiale non in piena comunione con la Chiesa cattolica (= un fedele
non cattolico) 3?
A nessuno sfugge l’importanza anche pastorale di tale proble-
matica, considerato soprattutto lo spirito ecumenico che deve anima-
re la norma ecclesiale; le molteplici occasioni (turismo, ospedali 4,

Benché la normativa sia del tutto analoga, certamente appare più consono allo spirito dell’ecumenismo
favorire un’eventuale communicatio in sacris tra Chiese cattoliche orientali e Chiese orientali ortodos-
se, piuttosto che urgere indiscriminatamente la parità normativa in materia ecumenica fra Chiesa latina
e Chiese cattoliche orientali nei confronti degli Ortodossi.
3
Tralasciamo qui il problema molto complesso della communicatio in sacris tra fedeli di Chiese o co-
munità ecclesiali, in cui non sia coinvolto un fedele o un ministro cattolico.
4
È senz’altro quello ospedaliero il contesto più comune della problematica. A questo riguardo la legge
civile normalmente facilita l’accesso alle strutture ospedaliere dei ministri di culto.
In Italia il D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128 (Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) all’art. 35 prevede
che, oltre all’assistenza religiosa cattolica assicurata istituzionalmente, «tutto il personale è tenuto a tra-
smettere alla direzione sanitaria le richieste di assistenza religiosa a lui rivolta da infermi di qualunque
religione. La direzione sanitaria provvede a reperire i ministri di religione diversa dalla cattolica secon-
do la richiesta dell’infermo». Anzi la L. 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del Servizio Sanitario Na-
zionale) all’art. 38 prevede che l’unità sanitaria locale, per assicurare l’assistenza religiosa nel rispetto
della volontà e della libertà di coscienza del cittadino, provveda «per gli altri culti d’intesa con le rispet-
tive autorità religiose competenti per territorio». Data però la esiguità di presenza sul territorio di altre
confessioni cristiane o religioni, difficilmente si potranno prevedere intese regionali tra l’autorità civi-
le e l’autorità religiosa (cf schema-regionale d’intesa della Regione Emilia Romagna, L. 10 aprile 1989,
n. 12, allegato B).
Di fatto, oltre al Concordato (art. 11), tutte le intese finora siglate con le confessioni religiose prevedo-
no garanzie per gli infermi circa l’accesso dei propri ministri alle strutture ospedaliere: cf artt. 6-7, L. 11
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 323

cliniche specializzate all’estero) di trovarsi in contesti sociali in cui vi


sono fedeli di diverse appartenenze ecclesiali; la peculiare situazione
di malattia e la peculiare connessa urgenza di conforto spirituale ed
ecclesiale; la peculiare forma di celebrazione comunitaria dell’Unzio-
ne degli infermi (cf can. 1002); la peculiare possibilità che la Unzione
degli infermi sia amministrata a chi non sia più compos sui.
Per quanto attiene ai principi generali sull’ecumenismo e sulla
communicatio in sacris non possiamo qui che rinviare ad altri testi e
trattati 5, non potendo che richiamarli in modo conciso quando ne
sarà data l’occasione.

Un fedele cattolico chiede l’Unzione degli infermi


a un ministro non cattolico
La normativa canonica (cf can. 844 § 2) richiede che si verifichi-
no quattro condizioni perché un fedele cattolico possa (chiedere e)
ricevere l’Unzione degli infermi da un ministro non cattolico. Vedia-
mole distintamente.
1°. «Quoties necessitas id postulet aut vera spiritualis utilitas id
suadeat»: ogniqualvolta una necessità lo esiga o una vera utilità spiri-
tuale lo consigli.
Questa condizione è praticamente inoperante nel caso del sa-
cramento dell’Unzione degli infermi, in quanto la normativa canoni-
ca cui è tenuto il fedele cattolico richiede che egli si trovi in periculo
mortis per essere soggetto legittimamente adeguato a (chiedere e)
ricevere l’Unzione (cf cann. 998; 1004 § 1). Nel pericolo di morte è
senz’altro compresa come minus la necessità e, a fortiori, la vera uti-
lità spirituale 6.

agosto 1984, n. 449 (Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese); artt. 8.10, L. 22 novembre 1988, n. 516
(Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno); artt. 4-5.7, L. 22 novembre 1988, n. 517
(Assemblee di Dio in Italia); artt. 7.9, L. 8 marzo 1989, n. 101 (Unione delle Comunità Ebraiche Italia-
ne); art. 6, L. 12 aprile 1995, n. 116 (Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia); art. 6, L. 29 novem-
bre 1995, n. 520 (Chiesa Evangelica Luterana in Italia).
L’onere economico corrispettivo è a carico dell’ente ospedaliero (art. 35 D.P.R. 27 marzo 1969, 128), a
meno che la singola Confessione religiosa non se lo assuma spontaneamente.
5
Cf T. BROGLIO, Alcune considerazioni sulla “Communicatio in Sacris” nel Codice di Diritto Canonico, in
Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 83-91.
6
Ciò vale anche se la discussione circa la obbligarietà di ricevere l’Unzione degli infermi rimane aperta
(cf F.M. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de Sacramentis. II/2 De Extrema Unctione, Taurinorum
Augustae-Romae 1932, pp. 216-226, nn. 239-246). Qui si suppone la richiesta del singolo fedele, giustifi-
cata anche solo dalla presenza istituzionale nella Chiesa del sacramento dell’Unzione degli infermi.
324 G. Paolo Montini

2°. «Dummodo periculum vitetur erroris et indifferentismi»: pur-


ché sia evitato il pericolo di errore o di indifferentismo.
Questa condizione è un principio generalissimo e di diritto divi-
no che concerne qualsiasi atto di communicatio in sacris e non solo
il caso che stiamo trattando. Il decreto conciliare Orientalium Eccle-
siarum è, a questo riguardo, di speciale chiarezza:
«La communicatio in sacris che offende l’unità della Chiesa o include la for-
male adesione all’errore o il pericolo di errore, di scandalo e di indifferenti-
smo, è proibita per legge divina» (OE 26).

3°. «Christifidelibus quibus physice aut moraliter impossibile sit


accedere ad ministrum catholicum»: (se) ai fedeli è fisicamente o mo-
ralmente impossibile accedere al ministro cattolico.
L’adempimento di questa condizione normalmente compirà an-
che la precedente, in quanto proprio l’assenza del (proprio) ministro
cattolico, fugherà ogni sospetto di errore e ogni pericolo di indiffe-
rentismo, facendo della (richiesta dell’) Unzione degli infermi un at-
to chiaro e comprensibile, non certo di adesione alla Chiesa o comu-
nità ecclesiale del ministro non cattolico.
Ha però pure una sua valenza propria, anche nel caso in cui in
altro modo sia stato fugato ogni pericolo di errore o di indifferenti-
smo.
È però vero che l’accenno all’impossibilità morale, enerva in
modo consistente la condizione apposta.
Nel caso dell’Unzione degli infermi tale impossibilità morale po-
trebbe verificarsi nel caso in cui il rito dell’Unzione sia connesso
strettamente con la celebrazione del sacramento della Penitenza, per
la quale la Chiesa rispetta il massimo di libertà nel fedele quanto a
scelta del ministro (cf can. 976).

4°. «A ministris non catholicis, in quorum Ecclesia valida exsi-


stunt praedicta sacramenta»: da ministri non cattolici nella cui Chie-
sa sono validi i predetti sacramenti.
Questa condizione richiede di «rivolgere l’attenzione alle due
principali categorie di scissioni, che hanno intaccato l’inconsutile tu-
nica di Cristo»(UR 13a). Occorre distinguere fra ministri non cattoli-
ci appartenenti alle Chiese orientali e ministri non cattolici apparte-
nenti alle Comunità ecclesiali occidentali.
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 325

Ministri di Chiese Orientali non cattoliche


Le Chiese Orientali, «ancorché separate, hanno veri sacramenti
e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e
l’Eucaristia»(UR 15c).
Si deve pertanto ritenere che la condizione sia sempre verifica-
ta nel caso in cui si chieda l’Unzione degli infermi a un ministro di
una Chiesa orientale non cattolica.
E ciò sia per il fatto che tali ministri possiedono l’Ordine sacro,
che hanno validamente ricevuto tramite l’ordinazione sacra, sia per il
fatto che nella fede di queste Chiese orientali non cattoliche l’Unzio-
ne degli infermi è riconosciuta come sacramento e la sua identità
teologica è pressoché la stessa di quella affermata dalla Chiesa cat-
tolica 7.
Si verifica direi quasi a priori per i ministri di Chiese orientali
non cattoliche il requisito che cioè abbiano nella loro Chiesa il valido
sacramento dell’Unzione degli infermi.
Che se poi ci si chiede quali siano queste Chiese orientali non
cattoliche, è chiaro che queste sono soprattutto le Chiese ortodosse,
come pure tutte quelle Chiese che la Sede Apostolica dichiari che si
trovano nelle stesse condizioni canoniche delle Chiese ortodosse (cf
can. 844 § 3) 8.
Il Direttorio Ecumenico chiede però in questo caso una duplice
attenzione:
«Poiché presso i cattolici e presso i cristiani orientali vigono usanze diverse
riguardo alla frequenza della comunione, alla confessione prima della comu-
nione e al digiuno eucaristico, è necessario che i cattolici abbiano cura di
non suscitare scandalo e diffidenza tra i cristiani orientali non seguendo le
consuetudini delle chiese d’oriente. Un cattolico che desidera legittimamen-

7
Cf la documentata esposizione di Th. SPAČIL, Doctrina Theologiae Orientis separati de sacra infirmo-
rum Unctione, in Orientalia Christiana 24 (1931) 42-259, che giunge alla conclusione secondo cui non si
può dubitare «Orientales separatos re vera sacramentum extremae unctionis habere et vere ministrare [...]
eos saltem quoad substantiam attinet, de hoc sacramento recte sentire et docere» (ibid., pp. 256.257). Cf pu-
re R. KACZYNSKI, Feier der Krankensalbung, in Gottesdienst der Kirche. Handbuch der Liturgiewissenschaft.
VII/2 Sakramentliche Feiern, I/2, Regensburg 1992, pp. 315-323; E.Ch. SUTTNER, Die Krankensalbung
(das “Öl des Gebets”) in den altorientalischen Kirchen, in Ephemerides Liturgicae 89 (1975) 371-396;
G. FERRARI, Chi può ricevere il Sacramento dell’Olio Santo, in Oriente cristiano 11/1 (1971) 72-82; ID., Il
Sacramento dell’Olio Santo nella Tradizione orientale, in ibid., 11/4 (1971) 21-33.
8
La sostanziale convergenza di fede nel sacramento dell’Unzione degli infermi si può constatare, per
esempio, nella Chiese ortodosse calcedonesi e nei Vecchiocattolici (Chiesa non cattolica occidentale):
cf Dichiarazione sulla dottrina sacramentale (v. 6) della Commissione teologica mista ortodossa-vec-
chiocattolica (Kavala 1987), in Enchiridion Oecumenicum III. Dialoghi internazionali 1985-1994, Bolo-
gna 1995, pp. 1162-1163, nn. 2766-2770.
326 G. Paolo Montini

te ricevere la comunione presso i cristiani orientali deve, nella misura del


possibile, rispettare la disciplina orientale e, se questa riserva la comunione
sacramentale ai propri fedeli escludendo tutti gli altri, deve astenersi dal
prendervi parte»(124).

Si tratta, in altre parole, di un’esortazione (e non già di un obbli-


go) a tener conto soprattutto
– da un lato che normalmente le Chiese orientali negano l’Un-
zione degli infermi a fedeli cattolici (sia latini sia orientali). Ciò dovrà
fare in modo che il fedele cattolico chieda preferibilmente l’Unzione
in caso di necessità e sia pronto anche a sentirsi negare tale celebra-
zione da un ministro non cattolico orientale;
– dall’altro lato che normalmente le Chiese orientali non am-
mettono all’Unzione degli infermi coloro che non sono coscienti. An-
che in questo caso, pur potendo richiedere il sacramento (preferibil-
mente in caso di necessità), dovranno essere pronti anche a sentirsi
opporre un rifiuto.
È chiaro poi che il ministro non cattolico orientale celebrerà il
sacramento secondo il proprio rito.

Ministri di Comunità ecclesiali non cattoliche occidentali


«Le comunità ecclesiali [...] crediamo che, specialmente per la mancanza del
sacramento dell’Ordine, non hanno conservata la genuina e integra sostanza
del Mistero eucaristico [...] Bisogna quindi che la dottrina circa la Cena del
Signore, gli altri sacramenti, il culto e i ministeri della Chiesa costituiscano
l’oggetto del dialogo»(UR 22c).

In altre parole, mancando per i ministri non cattolici delle co-


munità ecclesiali occidentali il (valido) sacramento dell’Ordine ed es-
sendo ministro dell’Unzione degli infermi solo il sacerdote (valida-
mente ordinato) 9, il fedele cattolico non può (richiedere e) ricevere
da un ministro non cattolico occidentale il sacramento dell’Unzione
degli infermi.
Tale norma è adombrata anche dall’uso che il can. 844 § 2 fa del
termine “Chiesa”. Il canone ammette infatti che il fedele cattolico
possa (chiedere e) ricevere l’Unzione degli infermi da un ministro

9
Il can. 1003 § 1 è perentorio circa il ministro dell’Unzione degli infermi, anche se la discussione teolo-
gica al riguardo non sembra del tutto conclusa (cf, per esempio, Ph. ROUILLARD, Le ministre du sacre-
ment de l’onction des malades, in Nouvelle Revue Théologique 101 [1979] 395-402).
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 327

non cattolico nella cui “Chiesa” vi sia il predetto sacramento valido.


Ora la comunità ecclesiale cui appartiene un ministro non cattolico
occidentale nei testi canonici non è detta “Chiesa”, bensì “comunità
ecclesiale”, che appunto il canone qui non menziona 10.
Merita qui di considerare attentamente l’espressione usata dal
Legislatore canonico: «ministri non cattolici nella cui Chiesa vi sono
validi i predetti sacramenti».
Non è infatti infrequente il caso di singoli ministri non cattolici
(occidentali) che per ragioni varie, come singoli appunto, possono
considerarsi validamente ordinati dal punto di vista canonico e che,
magari in contrasto con la propria Chiesa o comunità ecclesiale, pro-
fessino una fede identica a quella della Chiesa cattolica sui sacra-
menti in genere e sul sacramento, a esempio, per quanto attiene a
noi, dell’Unzione degli infermi oppure siano disposti, di fronte a una
richiesta esplicita, ad amministrare il sacramento dell’Unzione degli
infermi «come lo fa la Chiesa».
Si potrebbe in questo caso (chiedere e) ricevere da questo mi-
nistro il sacramento dell’Unzione degli infermi?
Parrebbe di no.
Infatti la normativa canonica attuale (cf can. 844 § 2) non consi-
dera tanto le condizioni oggettive o soggettive del singolo ministro
non cattolico relativamente alla problematica del ministro della vali-
da celebrazione del sacramento, quanto piuttosto l’appartenenza del
ministro non cattolico a una comunità ecclesiale, nella quale va veri-
ficata la esistenza di sacramenti validi e, in specie, di quel sacramen-
to come valido.
Anche se questa interpretazione non appare del tutto congrua
con la ratio legis (la comune partecipazione sacramentale è giustifi-
cata, nel caso, dalla necessità del singolo fedele di accedere alla gra-
zia), purtuttavia riveste una sua ragionevolezza per il fatto che il peri-
colo di errore o indifferentismo è enorme nel caso in cui il ministro

10
Supposta la coerenza terminologica del Codice, si aprirebbe qui uno spiraglio per una verifica della
esistenza della Unzione degli infermi nelle stesse Chiese. Anche perché la dizione scelta dal Codice
(exsistunt) sembra suggerire che la verifica vada condotta non solo sulla fede e sui dati tradizionali di
essa in una Chiesa, ma precisamente pure sul fatto che in una Chiesa si sia conservata e sia tuttora os-
servata la prassi attinente al sacramento dell’Unzione degli infermi. Il problema è molto vasto e concer-
ne, in gradi diversi, tutte le Chiese e comunità ecclesiali dove non vi sia una rigida struttura gerarchica
e magisteriale. Cf, per esempio, per le Chiese non cattoliche orientali, B.J. GROEN, Ter Genezing van
ziel en lichaam. De viering van het oliesel in de Griek-Orthodoxe Kerk. Een wetenschlappelijke proeve op
het gebied van de godgeleerdheid, Kampen-Weinheim 1991, che rileva discrepanze fra la dottrina e la
prassi; R. KACZYNSKI, Feier der Krankensalbung, cit., pp. 316-317, che rileva l’assenza del sacramento
dell’Unzione in alcune Chiese non cattoliche orientali.
328 G. Paolo Montini

e il fedele (per la loro appartenenza diversa) intendano positivamen-


te in modo diverso ciò che pure compiono assieme 11.
Analogicamente la Conferenza episcopale statunitense ha proi-
bito liturgie con Unzioni non sacramentali, nel caso in cui i fedeli po-
tessero non essere in grado di distinguere fra queste Unzioni e quel-
la sacramentale dell’Unzione degli infermi 12.

Un ministro cattolico è richiesto dell’Unzione degli infermi


da un fedele non cattolico orientale
La possibilità che un ministro cattolico celebri la Unzione degli
infermi per un fedele non cattolico orientale è subordinata all’adem-
pimento di due condizioni.
Vediamole.
1°. «Si sponte id petant»: se lo richiedono spontaneamente. Que-
sta condizione per sé attiene anche a ogni fedele cattolico e pertanto
non costituirebbe una condizione propria per i fedeli non cattolici:
ogni sacramento dev’essere conferito a chi lo richieda di propria
spontanea volontà.
Nel nostro caso intende sottolineare ed evidenziare una partico-
lare spontaneità ed esplicitazione della richiesta, così da fugare ogni
dubbio e sospetto che la prassi della communicatio in sacris divenga
per il ministro cattolico l’occasione di proselitismo.
Ciò rende un po’ problematica l’applicazione del can. 1006:
«Si conferisca il sacramento a quegli infermi che, mentre erano nel possesso
delle proprie facoltà mentali, lo abbiano chiesto almeno implicitamente» 13.

11
Questa interpretazione normativa del Codice, più rigida, si discosta da quella più larga dei Direttori
ecumenici. Il primo Direttorio ecumenico affermava simpliciter: «Catholicus [...] haec sacramenta pete-
re nequit, nisi a ministro qui Ordinis Sacramentum valide suscepit» (SECRETARIATUS AD CHRISTANORUM
UNITATEM FOVENDAM, Directorium ad ea quae a Concilio Vaticano II de re oecumenica promulgata sunt
exsequenda, Pars I Ad totam Ecclesiam, 14 maggio 1967, n. 55b). Il Direttorio ecumenico vigente preve-
de che «un catholique [...] ne peut demander ces sacrements qu’à un ministre d’une Église dont les sacre-
ments sont valides ou à un ministre qui, selon la doctrine catholique de l’ordination, est reconnu comme
validement ordonné» (PONTIFICIUM CONSILIUM AD UNITATEM CHRISTIANORUM FOVENDAM, Directoire pour
l’application des Principes et des Normes sur l’Oecumenisme, 25 marzo 1993, n. 132).
Nel contrasto fra Codice di diritto canonico e Direttorio ecumenico (sia precedente sia seguente il Co-
dice) prevale il Codice rispettivamente per il can. 6 § 1, 2° e 4° e per il can. 33 § 1.
Per l’introduzione nel Codice dell’espressione restrittiva cf Communicationes 9 (1977) 335-337.
12
A Pastoral Statement on the Catholic Charismatic Renewal, in R. KACZYNSKI, Feier der Krankensal-
bung, cit., p. 341. Un caso analogo (unzioni di leaders parrocchiali e catechisti) si può trovare commen-
tato da J.H. PROVOST, in Roman Replies and CLSA Advisory Opinions 1993, edd. K.W. Vann - J.I. Donlon,
Washington 1993, p. 64.
13
Il parallelo canone del Codice dei canoni delle Chiese orientali (cf can. 740) presume la richiesta del
sacramento per quei fedeli ammalati che non siano coscienti o abbiano perso l’uso di ragione.
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 329

E la difficoltà, com’è evidente, non nasce dalla richiesta implici-


ta (che può certo configurare la richiesta spontanea di cui al can. 844
§ 3), quanto piuttosto perché sembra che il can. 844 § 3 esiga una
esplicita statuizione (ancorché implicita, in riferimento al can. 1006)
di adire (anche) un ministro cattolico per la celebrazione del sacra-
mento dell’Unzione degli infermi.
In parole semplici si richiederebbe nel caso una duplice vo-
lontà: quella di ricevere l’Unzione degli infermi e quella di riceverla
(anche) da un ministro cattolico.
Al pastore d’anime cattolico che si trovi di fronte a un fedele
non cattolico orientale in pericolo di morte incombe l’obbligo di veri-
ficare la volontà, ancorché implicita, ma in qualche modo qualificata
del soggetto di ricevere l’Unzione degli infermi.
In articulo mortis la richiesta, ancorché implicita, dell’Unzione
degli infermi si può ritenere sufficiente perché il ministro cattolico
celebri il sacramento.
2°. «Rite sint dispositi»: siano ben disposti. Anche questa condi-
zione non si distingue da quella richiesta per ogni fedele cattolico (cf
can. 843 § 1). Si riferisce alle circostanze interiori, alle disposizioni
interiori richieste dal sacramento. Se ne è data la possibilità all’inter-
no del pericolo di morte, questa condizione può richiedere la cele-
brazione previa del sacramento della penitenza. Non pare comunque
che tale celebrazione previa possa imporsi o richiedersi formalmen-
te al fedele non cattolico (orientale) che faccia richiesta della (sola)
Unzione degli infermi 14.

La esiguità delle condizioni richieste ha fatto sollevare due se-


rie di difficoltà circa la normativa canonica testé descritta.
La prima attiene all’indifferentismo ecclesiologico che si nascon-
derebbe nella (assoluta) equiparazione fra il fedele cattolico e il fede-
le non cattolico orientale che richiede l’Unzione degli infermi a un
ministro cattolico.
Tale equiparazione da un lato è giustificata dagli strettissimi le-
gami che uniscono la Chiesa cattolica e queste Chiese orientali non
cattoliche 15.

14
Cf, nello stesso senso, G. D[AVANZO], L’unzione ai fratelli separati, in Anime e Corpi 9 (1971) 401.
15
Cf, SECRETARIATUS AD CHRISTANORUM UNITATEM FOVENDAM, Declaratio In quibus rerum circumstantiis,
1° giugno 1972.
330 G. Paolo Montini

Dall’altro è mitigata da Dichiarazioni e Convenzioni comuni fra


la Chiesa cattolica e singole Chiese orientali non cattoliche in cui tale
equiparazione può essere mitigata, corretta o comunque ridelineata.
Così, per esempio, la Dichiarazione comune sottoscritta il 23
giugno 1984 dal Sommo Pontefice e dal Patriarca dei Siri-Ortodossi
prevede, pur in regime di parità, che l’accesso a un ministro cattolico
avvenga
«quando sia fisicamente o moralmente impossibile l’accesso al ministro del-
la propria Chiesa [e] quando vi sia una necessità da parte dei fedeli» 16.

L’altra attiene all’accusa di proselitismo per il fatto che la Chiesa


cattolica non pone ostacoli alla communicatio in sacris là dove invece
le Chiese orientali non cattoliche proibiscono o limitano ai propri fe-
deli l’accesso ai ministri cattolici per la celebrazione di alcuni sacra-
menti, fra cui l’Unzione degli infermi.
L’accusa di proselitismo è molto grave e la risposta cattolica si
articola in più punti:
– da un lato la Chiesa cattolica riconosce di non dare norme
a fedeli non cattolici orientali (neppure canonizzando quelle delle
Chiese loro proprie), limitando il loro accesso a un ministro cattolico
(cf can. 11);
– da un altro lato il ministro cattolico non può che supporre che
i fedeli orientali non cattolici che gli si rivolgono siano osservanti
delle norme che li concernono. In caso contrario si imporrebbe sulle
spalle del ministro cattolico un peso insopportabile;
– da un altro lato ancora la Chiesa cattolica raccomanda ai suoi
ministri di evitare ogni forma, anche solo apparente di proselitismo 17;
– da un altro lato ancora il canone 844 § 5 obbliga a non emanare
norme generali, «senza aver consultato l’autorità competente almeno
locale della Chiesa o comunità ecclesiale non cattolica interessata» 18;

16
«It is not rare, in fact, for our faithful to find access to a priest of their own Church materially or moral-
ly impossible. Anxious to meet theirs needs and with their spiritual benefit in mind, we authorize them in
such cases to ask for the Sacraments of Penance, Eucharist and Anointing of the Sick from lawful priests
of either of our two sister Churches, when they need them» (AAS 85 [1993] 240-241).
17
Cf Direttorio ecumenico (vigente), n. 125. Questo potrebbe anche significare l’impegno del ministro
cattolico, soprattutto in strutture protette, quali ospedali, cliniche, case per persone anziane, «di avver-
tire i sacerdoti e i ministri sacri delle altre comunità cristiane della presenza di loro fedeli, e agevolarli
perché possano far visita a dette persone e portar loro un aiuto spirituale e sacramentale in condizioni
degne e decorose, anche con l’uso della cappella»(cf ibid., 142). Tale sensibilità sembrerebbe desumer-
si anche dal principio generale del can. 844 § 1.
18
È stato espunto l’inciso «nisi post favorabilem exitum consultationis», che rendeva discriminante e vin-
colante la posizione della Chiesa o comunità ecclesiale non cattolica interessata, con possibilità di pre-
giudizio per le necessità pastorali dei fedeli (cf Communicationes 15 [1983] 176; Nuntia 8/15 [1982] 10).
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 331

– da un ultimo lato infine richiede ai suoi ministri «di prestare at-


tenzione alla disciplina delle Chiese orientali per i loro propri fedeli» 19.
Che cosa può significare giuridicamente tale ultima prescrizio-
ne, nel caso dell’Unzione degli infermi?
Certo non può riguardare il rito e la sua celebrazione, che il mi-
nistro cattolico porrà secondo le norme liturgiche proprie (del rito ro-
mano o del rito orientale cui appartiene il ministro)(cf can. 846 § 2).
Che dire invece della normativa orientale che attiene al sogget-
to del sacramento, in cui si nota una differenziazione con la normati-
va cattolica? Può, in parole semplici, un ministro cattolico celebrare
l’Unzione degli infermi se a richiederla è un fedele non cattolico
orientale malato non gravemente? o colpito da una malattia tempora-
nea e lieve 20?
La risposta tiene conto di due aspetti:
– da un lato, a norma del can. 11, i fedeli non cattolici orientali
non sono tenuti alle leggi puramente ecclesiastiche; anzi, conse-
guentemente, si può affermare che sono tenuti alle leggi emanate
dalle autorità ecclesiastiche orientali loro proprie. Se, come sembra,
i gradi di gravità della malattia richiesti per il soggetto dell’Unzione
degli infermi non sono di diritto divino 21, si deve concludere che la
richiesta di un fedele orientale non cattolico, nel contesto della com-
municatio in sacris, di ricevere l’Unzione degli infermi ancorché non
in pericolo di morte è pienamente legittima;
– dall’altro lato, pur potendo il ministro cattolico venire incontro
alla richiesta celebrando l’Unzione, non sarà tenuto ad acconsentire,
se, secondo i principi generali e secondo verosimiglianza, il suo con-
senso sarà fonte di scandalo.

19
L. cit..
20
Escludo dall’esempio il caso della richiesta di Unzione degli infermi da parte di un fedele sano, in
quanto più difficile (o almeno dubbio) mi pare in questo caso escludere che si tratti di una richiesta
che vada contro il diritto divino o l’identità dello stesso sacramento.
La prassi dell’Unzione degli infermi a fedeli sani è perfettamente attestata e riconosciuta nelle Chiese
Ortodosse: «I frutti di questo sacramento sono la guarigione dei malati e la remissione dei peccati. Da-
ta la sua duplice azione terapeutica, nella Chiesa ortodossa questo sacramento viene amministrato an-
che a persone che non soffrono di alcuna malattia e che si preparano a ricevere la santa eucaristia [...]
L’unzione dei malati può essere ricevuta da tutti i battezzati e non solo dalle persone malate o in perico-
lo di morte» (COMMISSIONE TEOLOGICA MISTA ORTODOSSA-VECCHIOCATTOLICA, Dichiarazione sulla dottrina
sacramentale, V.6.4/5 [Kavala 1987], in Enchiridion Oecumenicum III, p. 1163, nn. 2769-2770).
21
Può costituire riprova di questo la disparità normativa al riguardo del Codice di diritto canonico
(can. 1004 § 1: «in periculo incipit versari») e del Codice dei canoni delle Chiese orientali (cf can. 738:
«quandocumque graviter aegrotant»).
332 G. Paolo Montini

Un ministro cattolico è richiesto dell’Unzione degli infermi


da un fedele non cattolico occidentale
Le condizioni richieste in questo caso sono molto onerose. Ve-
diamole.
1°. «Si sponte id petant»: se lo richiedono spontaneamente. Cf la
spiegazione sopra addotta.
2°. «Rite sint dispositi»: siano ben disposti. Cf la spiegazione so-
pra addotta.
3°. «Qui ad suae communitatis ministrum accedere nequeant»:
non possano accedere al ministro della propria comunità. Anche qui
vale quanto sopra commentato. Tuttavia il testo qui non menziona la
impossibilità morale, quasi a voler rafforzare la configurazione della
condizione apposta. Il peculiare caso di impossibilità che qui si ha è
poi moltiplicato nel caso di un ministro proprio che, per ragioni pro-
prie, non voglia amministrare l’Unzione degli infermi, non presente
o non diffusa nella sua comunità ecclesiale.
4°. «Dummodo quoad eadem sacramenta fidem catholicam ma-
nifestent»: purché manifestino circa i medesimi sacramenti la fede
cattolica.
È una condizione molto impegnativa, che ha richiesto interpre-
tazioni, le quali non sempre sono state omogenee.
Nel campo della Eucaristia l’allora Segretariato per l’unità dei
cristiani ha dovuto specificare che
«questa fede non si limita soltanto all’affermazione della “presenza reale”
nell’Eucaristia, ma implica la dottrina circa l’Eucaristia come insegna la
Chiesa cattolica» 22.

Il Codice dei canoni delle Chiese orientali però muta la formula-


zione del can. 844 § 4 usando un’espressione più blanda:
«fidem manifestent fidei Ecclesiae Catholicae consentaneam [= manifestino
una fede consona alla fede della Chiesa cattolica]»(can. 671 § 4).

Nel caso dell’Unzione degli infermi si richiede almeno una fede


che comprenda la sacramentalità (così come intesa dalla Chiesa cat-
tolica) dell’Unzione e i principali effetti della medesima Unzione.
Ma qual è la fede delle comunità ecclesiali non cattoliche occi-
dentali a questo riguardo?

22
Nota Dopo la pubblicazione, 17 ottobre 1973.
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 333

Anglicani
La cancellazione del rito dell’Unzione avviene solo nel 1552, a
partire dal Second Prayer Book, dove il rito viene semplicemente o-
messo.
Ben presto si manifestano tentativi di reintroduzione del rito
nel secolo XVIII (1718 Nonjuror’s Liturgy; 1734 A Compleat Collec-
tion of Devotions; 1747 A Full, True and Comprehensive View of Chri-
stianity) e nel secolo XIX (cf il movimento di Oxford).
La restaurazione del rito avvenne però nel nostro secolo attra-
verso l’incorporazione dell’Unzione degli infermi in alcuni rituali
(Prayer Book) pubblicati per singole province della Comunione An-
glicana (1928 American; 1929 Scottish; 1935 Canterbury; 1936 York;
1954 South African; 1962 Canadian).
Attualmente molte province possiedono un rito apposito per
l’Unzione degli infermi in cui normalmente con la imposizione delle
mani è prevista (a volte facoltativamente) l’Unzione con una formula
di unzione 23.

Protestanti
In ambito protestante l’Unzione degli infermi è scomparsa sotto
le critiche rivolte da Lutero e Calvino alla prassi sacramentale della
Chiesa cattolica e in specie alla trasformazione dell’Unzione degli in-
fermi in Unzione dei moribondi, come pure sotto la peculiare concen-
trazione sulla Parola, che ha privilegiato di fronte al malato un esame
della propria fede o la domanda sul rapporto fra malattia e peccato 24.
Il ricupero dell’Unzione degli infermi avviene nel mondo prote-
stante più tardi che nell’ambito anglicano e con maggiori incertezze
e lacune 25.

23
Cf più analiticamente in R. KACZINSKI, Feier der Krankensalbung, cit., pp. 323-330. Cf pure W.CH. GU-
SMER, Anointing of the Sick in the Church of England, in Worship 45 (1971) 262-272.
24
Cf H. VORGRIMLER, Krankensalbung, in Theologische Realenzyklopädie XIX, Berlin-New York 1990,
667; CH. GRETHLEIN, Andere Handlungen (Benediktionen und Krankensalbung), in Handbuch der Litur-
gie. Liturgiewissenschaft in Theologie und Praxis der Kirche, edd. H.-CH. Schmidt-Lauber - K.-H. Bieritz,
Leipzig-Göttingen 1995, p. 450; H.-CH. PIPER, Krankenseelsorge, in Evangelisches Kirchenlexikon. Inter-
nationale theologische Enzyklopädie, II, Göttingen 1989, 1547.
25
È significativa, al riguardo, l’assenza nell’Evangelisches Kirchenlexikon della voce Krankensalbung
(Unzione degli infermi). Della medesima Unzione v’è solo un rimando nella voce Krankenseelsorge (Pa-
storale degli Infermi) a Salbung (Unzione), dove, fra le varie unzioni, quella degli infermi ottiene solo
un paio di righe. Una notevole distanza si può constatare anche nella Dichiarazione concordata Vivere
e morire santamente (1989), II. 3, del Gruppo di dialogo fra cattolici e metodisti uniti negli USA, in En-
chiridion Oecumenicum IV. Dialoghi locali 1988-1994, Bologna 1996, p. 1273, nn. 3382-3383.
334 G. Paolo Montini

La prima a innovare è la Michaelsbruderschaft che nel 1949 pro-


pone in appendice al Testo per la pastorale dei malati e dei moribondi
un rito per l’Unzione degli infermi.
Nelle comunità ecclesiali luterane si fa contemporaneamente
largo la convinzione di aver “dimenticato” nella propria liturgia una
funzione fondamentale della Chiesa, avendo omesso l’Unzione degli
infermi 26.
In Germania appare così nel 1958 un’appendice al Manuale per
il servizio pastorale in cui si tratta dell’Unzione degli infermi. Scom-
pare però nell’edizione seguente del 1966.
Negli Stati Uniti e Canada la restaurazione del rito risale al 1979.
Riappare in Germania il rito a opera di alcune comunità eccle-
siali luterane (1986 Nordelbische Kirche) e poi nel recente progetto di
un nuovo Testo per la pastorale dei malati (1992).
Un’analoga tendenza può rilevarsi anche in altre comunità ec-
clesiali 27.
Ai fini della convergenza sulla fede cattolica richiesta per la
communicatio in sacris dal can. 844 § 4 non basta comunque che nel-
le (o almeno in alcune) comunità ecclesiali non cattoliche occidentali
in questo secolo si sia andato riscoprendo il ruolo e il rito dell’Unzio-
ne all’interno della visita e della pastorale degli infermi. È una prassi
ancora troppo poco diffusa (almeno in modo omogeneo) e troppo
poco contestualizzata in ambito sacramentale per poter presumere
nel fedele non cattolico occidentale una fede (anche solo) simile a
quella della Chiesa cattolica 28.
Certo basta però per rendere del tutto possibile che un fedele
non cattolico occidentale richieda l’Unzione degli infermi.
Ancorché questa condizione appaia imprescindibile, si deve far
accenno al caso in cui tale condizione appaia inattuabile o impossibi-

26
Sullo stato del dialogo cattolico luterano circa l’Unzione degli infermi cf COMMISSIONE CONGIUNTA
CATTOLICA ROMANA - EVANGELICA LUTERANA, Documento L’unità davanti a noi, a conclusione dei lavori
1984, in Enchiridion Oecumenicum I. Dialoghi internazionali 1931-1984, Bologna 1986, pp. 794-795,
n. 1631; GRUPPO DI LAVORO BILATERALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TEDESCA E DELLA CHIESA UNITA EVAN-
GELICA LUTERANA DI GERMANIA, Comunione ecclesiale nella Parola e nel sacramento (1984), in ibid., II.
Dialoghi locali 1965-1987, Bologna 1988, pp. 625-626, n. 1387.
27
Cf, in termini più analitici, R. KACZYNSKI, Feier der Krankensalbung, cit., pp. 331-338.
28
«We recognize that this does not represent widespread or universal practice, and that it leaves unanswe-
red and indeed untouched the theological question of the value of this rite in non-Roman communions of
the West» (F.R. MCMANUS, The Sacrament of Anointing: ecumenical Considerations, in Miscellanea litur-
gica in onore di Sua Eminenza il Cardinale Giacomo Lercaro, II, Roma 1967, p. 834).
L’Unzione degli infermi e la communicatio in sacris 335

le, sia fisicamente sia moralmente, vuoi perché l’infermo si trova in


articulo mortis vuoi perché l’infermo è incosciente vuoi perché l’in-
fermo non può essere scosso in un momento tanto delicato nella sua
buona fede.
Si dovrà per questo rifiutare l’Unzione degli infermi?
Alcune pronunce dell’allora Santo Ufficio su materie analoghe 29,
come pure le opinioni più diffuse fra gli autori più provati sempre su
materie analoghe 30, fanno propendere per l’amministrazione di que-
sto sacramento per fedeli non cattolici occidentali alla sola condizione
che si trovino in stato di incoscienza 31 o in articulo mortis 32 oppure
che anche solo implicitamente abbiano manifestato la fede cattolica
richiesta per quel sacramento 33.
Le ragioni interpretative di tale apertura sono principalmente le
seguenti:
– da un lato il fatto che la normativa canonica (sulla communi-
catio in sacris, per esempio) recensita nel Codice non attiene al caso
specifico di pericolo di morte, per il quale essa dev’essere integrata
con altri principi giuridici. E su questo concordano i commentatori
di entrambi i Codici;
– dall’altro lato non sembra verosimile che la normativa canoni-
ca postconciliare, con le sue aperture e innovazioni, in realtà in que-
sto specifico caso risulti più rigida e severa di quella preconciliare.

29
La problematica allora verteva sulla verifica della previa reiectio degli errori e sulla conseguente ri-
conciliazione con la Chiesa (cf can. 731 § 2 del Codice del 1917). Per un primo esame degli interventi
del Santo Ufficio cf L.L. MCREAVY, Ministering to dying non-catholics, in Clergy Review 40 (1955) 80-81,
note 1-4.
30
Cf ibid., pp. 81-87. L’Autore nella parte finale del suo lavoro delinea a mo’ di conclusioni pratiche le
seguenti proposizioni probabili: «All three sacraments, Baptism, Penance and Extreme Unction, may be
given conditionally to the unconscious, whatever their previous dispositions may have been, provided
always that scandal can be avoided [...] With the same stipulation as to scandal, all three sacrements may
be conditionally given even to the conscious, provided that they can be induced to embrace the true faith at
least implicitly, or, if this cannot be attempted without danger of fruitlessly disturbing their good faith to the
peril of their souls, provided they appear to be in good faith, sorry for their sins, and anxious to do whate-
ver God requires of them» (ibid., pp. 87-88). Una posizione simile assume lo stesso F.M. CAPPELLO nell’ul-
7
tima edizione del suo Tractatus canonico-moralis de Sacramentis II. De Poenitentia, Torino 1967 , pp.
156-157, n. 195.
31
Supposta la richiesta anche solo implicita del sacramento, chi si trovi in stato di incoscienza e in peri-
colo di morte non può emettere una professione di fede cattolica circa il sacramento dell’Unzione degli
infermi. L’impossibilità nel caso esime dall’obbligo.
32
Supposta nel caso la richiesta anche solo implicita del sacramento dell’Unzione, non si dà tempo e
modo di richiedere e ottenere una professione di fede cattolica circa il sacramento dell’Unzione.
33
Supposta la richiesta del sacramento dell’Unzione, può essere moralmente impossibile, per le circo-
stanze in cui il soggetto si trova, chiedere e ottenere una professione esplicita di fede circa il sacramen-
to dell’Unzione: sarebbe sufficiente qui un qualche segno, anche precedentemente posto, di vicinanza
o adesione alla Chiesa cattolica.
La celebrazione sub condicione del sacramento della Unzione degli infermi nei casi qui elencati potreb-
be essere giustificata solo nel caso in cui si voglia evitare lo scandalo.
336 G. Paolo Montini

5°. «Si adsit periculum mortis aut, iudicio Episcopi dioecesani


aut Episcoporum conferentiae, alia urgeat gravis necessitas»: se vi sia
pericolo di morte o qualora, a giudizio del Vescovo diocesano o della
Conferenza episcopale, urga altra grave necessità.
Sembra a prima vista una condizione non operante nel caso del-
l’Unzione degli infermi. Infatti il soggetto dell’Unzione si qualifica
proprio per lo stato di pericolo di morte in cui si trova e pertanto
chiederà l’Unzione a un ministro cattolico solo appunto in pericolo di
morte 34.
Può invece operare tale disposizione in forma indiretta laddove
l’Unzione degli infermi in alcune prassi sia sganciata dal pericolo di
morte e collegata simpliciter o in senso lato alla malattia, ancorché
non grave. Questa condizione confermerebbe in ogni caso la legitti-
mità della richiesta solo in pericolo di morte, recidendo ogni ulterio-
re possibilità di interpretazione.

Conclusione
L’Unzione degli infermi in ambito ecumenico è un caso emble-
matico di quanto possa la progressiva convergenza dottrinale, nor-
mativa, liturgica e pratica delle Chiese o comunità ecclesiali per una
celebrazione comune dei sacramenti.
Certo oggi la celebrazione comune è riservata ai casi di neces-
sità o vera utilità spirituale del singolo fedele. Non sarà certo questa
la strada per cui passerà un vero cammino ecumenico.
Certo può costituire un ulteriore stimolo a quella convergenza
dottrinale, normativa, liturgica e pratica reciproca, da cui potrà sca-
turire una nuova strada ecumenica.

G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
Brescia

34
Non si può certo affermare che, siccome nel caso è richiesto due volte il pericolo di morte (per il
soggetto del sacramento e per la communicatio in sacris), questa condizione, contro il suo stesso teno-
re verbale, limiti l’accesso all’Unzione degli infermi solo nei casi più urgenti o per coloro che si trovano
in articulo mortis.
337
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 337-356
Commento a un canone
La cremazione
del corpo dei defunti (can. 1176 § 3)
di Egidio Miragoli

La pratica pastorale mette il sacerdote spesso di fronte alla mor-


te e alla sepoltura, eppure questo non facilita gran che quando si
tratta di entrare nei dettagli di un tema come quello prescelto. Lo
stesso vale per il canonista che cerchi non solo di commentare la
legge, ma anche di inquadrarla nel contesto più ampio del problema:
perché lo si affronti con un minimo di plausibilità, esso richiede in-
fatti molteplici competenze tecniche che sono in possesso solo di chi
opera nel settore dei servizi funerari, dei cimiteri e, appunto, della
cremazione.
L’argomento – d’altronde – è poco frequentato. Oggi tutti ten-
diamo a rimuovere l’idea della morte e i momenti di contatto con es-
sa, delegando proprio alle agenzie funebri di curare ogni particolare.
Lo scongiuro, molto più che una serena consapevolezza, pare essere
la reazione di molti quando si allude alla sfera del lutto.
Se però si guardano gli slogan di propaganda della cremazione,
si riscontra come essi posseggano una evidente efficacia e pongano
questioni piuttosto serie: alla morte qualcuno pensa, intorno alla
morte qualcuno ragiona e cerca di innovare. Ecco qualche manife-
sto, pubblicato in Italia o all’estero:
«Cremazione. Una scelta di libertà e di progresso».
«I nostri bambini giocheranno nei cimiteri? Le tombe invadono la terra. La-
sciate la terra ai vivi!».
«Ricordati uomo che sei polvere e che tu ritornerai polvere».

L’interesse rinasce. E se la cremazione in passato appariva op-


zione polemicamente atea o appannaggio dei soli ceti abbienti, oggi
va diffondendosi presso tutti gli strati sociali nonché fra i credenti.
338 Egidio Miragoli

Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2301) le riconosce le-


gittimità «se tale scelta non mette in questione la fede nella risurre-
zione dei corpi». Le consuetudini, dunque, si modificano, con conse-
guenze che si riflettono su vari piani, da quello pratico a quello pa-
storale.
In questa sede, vorremmo almeno dare lo spunto per ulteriori
riflessioni e approfondimenti. Perciò muoveremo da qualche cenno
storico e dai rilievi statistici disponibili sulla diffusione del fenomeno
per giungere alle motivazioni del suo successo, alle norme canoni-
che e civili che lo dovrebbero disciplinare e – infine – ai problemi pa-
storali che esso indubbiamente pone.

Qualche cenno storico


La cremazione è un rito funerario molto antico 1. Gli inizi vanno
ricercati in diversi paesi. Si presume che essa si sia sviluppata come
una fase ulteriore dell’inumazione (sepoltura).
L’Antico Testamento conosce un unico caso di cremazione, una
vera e propria eccezione rispetto alla consuetudine: quello di Saul e
dei suoi figli (1 Sam 31, 12-13). Il cristianesimo considererà la crema-
zione un’istituzione pagana; l’influenza del cristianesimo e dell’isla-
mismo radicherà nella maggior parte dei popoli la pratica dell’inuma-
zione.
In epoca moderna, il Settecento costituisce il secolo del rilancio
dell’idea cremazionista: muovendo dall’orrore della ragione per la
putrefazione dei corpi, l’illuminismo sosterrà sempre più motivazioni
di igiene e di salute pubblica; l’anticlericalismo e l’odio per la religio-
ne diverranno un ulteriore elemento a sostegno della cremazione,
come pratica funeraria alternativa a quella della Chiesa. Dalla Fran-
cia il movimento di idee si estenderà ad altri paesi vicini: Germania,
Italia, Inghilterra.
Nell’Ottocento se ne studieranno forme più razionali di attuazio-
ne, sempre nell’intento di togliere «quasi l’aspetto di squallore alla
morte» cui si volevano, invece, garantire «parvenze meno sconfor-
tanti e più accettabili dai congiunti e amici che tributano all’estinto
l’ultimo vale» 2.

1
Per una visione completa della storia, del diritto canonico e della legislazione civile, si veda la recente
opera di Z. SUCHECKI, La cremazione nel diritto canonico e civile, Città del Vaticano 1995.
2
F. ABBÀ, La Cremazione, Torino 1898, in L’Ara (1995/2) 15.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 339

La consistenza del fenomeno


In Italia, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’i-
dea cremazionista fu diffusa e sostenuta soprattutto dalle Società di
cremazione.
«A tutto il 1907 in Italia si sono fondate oltre 30 società per la cremazione
con Are proprie od appartenenti ai rispettivi Municipi. Milano fu la prima e
dopo quella vennero successivamente le Società di Lodi, costituita nel 1877;
Roma, Cremona, Brescia (1883)» 3,

e tutte le altre. All’Italia spetta pure l’aver ideato e messo a punto il


primo forno crematorio veramente efficiente, per quel tempo; mo-
dello che poi verrà esportato.
Ciò premesso, volendo offrire qualche dato sulla consistenza
del fenomeno in Italia, è necessario fare una precisazione: non esiste
ancora da noi il sistema di rilevamento nazionale delle cremazioni e
delle altre forme di sepoltura. Le possibili fonti in merito, attualmen-
te, sono tre: i singoli Comuni per i dati di loro competenza, la
So.Crem (Federazione Italiana delle Società per la Cremazione) 4 per
il numero degli iscritti alle Società di cremazione, la SEFIT (Servizi
funerari pubblici italiani aderenti a Federgasacqua e Cispel) 5 per un
quadro statistico più complessivo.
Ebbene, al 1995 in Italia si contano 39 Società legate alla So.Crem.
(quasi tutte nel Nord e centro Italia); risultano 42 forni crematori, dei
quali funzionanti 35: il 90% è localizzato soprattutto nel settentrione e in
Toscana, il restante 10% nel Centro, Sud e nelle Isole.
Attualmente
«la percentuale delle cremazioni si è portata al 2%. Tale valore però non ri-
specchia il forte aumento delle cremazioni registratosi negli ultimi anni in
molte grandi e medie città del Nord (valga per tutti Torino con circa il 15%,
Milano con oltre il 10% e Bologna con oltre il 5%)» 6.

3
L. cit.
4
La rivista della Federazione si intitola L’Ara.
5
Fino al 1995 la denominazione era Federgasacqua, realtà entro la quale operava un settore riguardan-
te i servizi funebri e cimiteriali, con una apposita rivista, Antigone, che prossimamente dovrebbe ri-
prendere le pubblicazioni con un nuovo titolo. Molti dei dati qui usati ci sono stati gentilmente offerti
dalla SEFIT tramite l’ing. D. Fogli, che ringraziamo.
6
E. MARINI, La cremazione in Italia, in Antigone (1993/4) 33-34. I dati aggiornati circa l’Italia forniti
dalla SEFIT indicano una stima di 14.398 cremazioni eseguite nel 1995. L’incidenza sul totale dei deces-
si è attorno al 2,7%.
340 Egidio Miragoli

Se è vero che il fenomeno, da noi, risulta piuttosto contenuto,


tuttavia appare in aumento. E se l’aumento delle cremazioni è sul mi-
gliaio all’anno, quello annuale dei nuovi iscritti alle Società di crema-
zione è di circa otto-dieci mila unità 7.
Ben diversa la situazione in altri paesi europei. Il caso limite è
l’Inghilterra «dove l’incentivazione della cremazione non ha mai co-
nosciuto soste, attestandosi nel 1991 su una percentuale del 69,90%» 8;
in Germania siamo ormai oltre il 30%; in Francia i dati registrano cir-
ca un 10% 9.

Perché ci si fa cremare? Perché la cremazione?


Nel febbraio 1941 la Federazione italiana per la cremazione for-
mulò un “referendum” all’interno delle società a essa collegate, po-
nendo il seguente quesito: «Perché voglio essere cremato» 10. Dall’in-
dagine risultano sei tipi di considerazioni che riprendiamo quasi alla
lettera:
1. L’igiene: sottoterra la salma verrà «orribilmente decomposta
e putrefatta dai vermi» e le ossa esumate verranno distrutte con aci-
do solforico. Viceversa la cremazione evita nel modo più assoluto il
diffondersi dei germi infettivi, evita l’inquinamento e trasforma rapi-
damente la materia.
2. La morale: la cremazione, nel purificare con il fuoco la salma,
rappresenta
«uno strumento di civiltà, in quanto parifica tutti i morti senza distinzione di
censo nelle onoranze e nelle lapidi, consente il rispetto della dignità del de-
funto [...] esprime la libertà dell’individuo nella scelta di un rito antico e mo-
derno, alieno dallo sfarzo e dalle vanità, ispirato a una poetica liberazione del
corpo, rappresenta il più rapido ritorno alla Natura e l’applicazione del motto
evangelico Pulvis eras et in pulverem reverteris».

3. L’economia: la cremazione è più economica della inumazione


e della tumulazione, evita le speculazioni «da parte delle imprese di
pompe funebri, del servizio di manutenzione delle tombe e talora da
parte del clero».

7
Si vedano in Appendice i dati degli ultimi anni pubblicati dalle Società di Cremazione.
8
E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 33.
9
Cf Dati statistici (a cura di D. Fogli), in Antigone (1995/3) 29. Le cifre ivi pubblicate sono riprese dal-
la rivista di settore Pharos International.
10
Cf Nel 1941 un referendum della nostra federazione, in L’Ara (1994/2) 7.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 341

4. Lo spazio: i cimiteri occupano un’estensione sempre maggio-


re, la cremazione risparmia aree a beneficio dei viventi.
5. La morte apparente: la cremazione «evita di venir sepolti an-
cora in vita, nell’ipotesi della cosiddetta morte apparente».
6. La religione:
«si distingue la religione intesa come sentimento e professione di fede sotto
ogni profilo compatibile con la cremazione, e la religione come dogmatismo
intollerante (causa di guerre, roghi, persecuzioni) e come speculazione affa-
ristica clericale. È un rito consentaneo alla religiosità universale dell’Uma-
nità, espressa, in forme diversissime, confessionali o laiche, al di fuori della
superstizione e del bigottismo».

Così si esprime la sintesi pubblicata dalla Rivista delle Società


di Cremazione. Il riferimento diretto a un testo “storico” ci permette
di recuperare e conoscere aspetti tipici del pensiero cremazionista e
delle Società di Cremazione.
Facciamo ora alcune considerazioni quanto meno sulle motiva-
zioni che paiono più serie.

a) Il motivo dell’igiene (e della dignità)


L’aspetto igienico – oggi si direbbe “ecologico” – è sempre sta-
to, insieme a quello della “dignità”, il cavallo di battaglia dei crema-
zionisti. La cremazione resta per costoro il procedimento più confor-
me all’igiene: in una-due ore il fuoco ottiene una completa mineraliz-
zazione, ciò che la natura, mediante decomposizione, può compiere
solo in cinque-dieci o più anni, con grossi rischi di inquinamento del
suolo e delle acque sotterranee 11. Occorre tuttavia far notare che,
mentre alcuni sostengono con grande ottimismo l’innocuità totale
dei fumi, altri non trascurano di evidenziarne l’alta tossicità, che fini-
sce per intaccare anche i filtri per l’aria, certamente obbligatori, ma
di cui è praticamente impossibile disfarsi 12.

11
Alcuni sostengono la necessità della cremazione là dove il defunto è stato portatore di certi tipi di
malattie infettive, in quanto solo il fuoco potrebbe neutralizzare determinati germi. Significativo il caso
riportato da Suchecki e riguardante l’apertura (dopo cinquecento anni) della tomba reale di Casimiro
Jagielonczyk nel 1972-73 a Cracovia. I quattro studiosi che presenziano morirono tutti in breve periodo
di tempo, pare, secondo i medici, per germi di malattie sprigionatisi dalla tomba (cf F. ABBÀ, La crema-
zione, cit., p. 173).
12
Così i vescovi tedeschi: «L’opinione pubblica si rende poco conto del fatto che le cremazioni richiedo-
no un notevole consumo di energia primaria e che i gas che ne risultano inquinano in modo non trascu-
rabile l’aria (oggi sono certamente obbligatori i filtri per l’aria, ma è praticamente impossibile disfarsi dei
residui altamente tossici raccolti dal filtro» (La cura per i morti, in Il Regno-documenti 5 [1995] 141).
342 Egidio Miragoli

In ogni caso, come scrive L-V. Thomas, convinto cremazionista,


«è soprattutto l’igiene mentale che è in causa. In effetti non c’è spettacolo
più affliggente di quello di un cadavere entrato in putrefazione [...]. Questo
corpo che le madri hanno portato affettuosamente nel loro grembo, che è
stato curato, carezzato, amato [...] nella morte è promesso a un destino fune-
sto: l’orribile sconfitta della carognizzazione [...]. Dignità del morto e rispet-
to dei sopravvissuti, ecco ciò che soltanto la cremazione può dare» 13.

Questo argomento oggi è particolarmente sentito, data l’alta per-


centuale di salme esumate e ancora inconsunte. Si giunge infatti a per-
centuali del 20-30% e punte del 50% dopo dieci anni di inumazione 14.
Un addetto alla Società di cremazione testimonia che l’impres-
sione suscitata nei parenti da tali esumazioni costituisce oggi uno dei
più frequenti stimoli per i quali le persone si iscrivono alla Società.

b) Il motivo economico
Sono molti coloro che oggi optano per la cremazione per conve-
nienza economica. Benché le cifre possano variare da luogo a luogo,
qualche dato può meglio illustrare questo punto. L’acquisto di un lo-
culo (per trentacinque anni) in una città di provincia costa 7,5 milioni
(più IVA), cui si deve aggiungere il prezzo per la lapide; un monu-
mento funerario costa anche molto di più, e a esso vanno assommate
le spese per lo spazio dato in concessione.
A queste cifre si devono aggiungere quelle relative alle onoran-
ze funebri: 3,6 milioni per funerale di media, con cifre minime di lire
1,5 milioni e massime di 15 milioni 15. Considerato che la cremazione
in Italia è gratuita e che un loculo per la conservazione delle ceneri
(in perpetuo) di due persone costa sulle cinquecento mila lire (in
una città di provincia), si comprende perché molti, ultimamente, op-
tino per la cremazione. Essa permette una spesa complessiva inferio-
re anche del 50%.

13
Riflessioni attorno alla cremazione, in Antigone (1994/1) 28.
14
Cf E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 34. Occorre aggiungere che in tali situazioni i resti mor-
tali vanno riseppelliti.
15
Dati SEFIT. In questa cifra sono comprese quattro voci: prestazioni generali (vestizione salma, trat-
tamenti conservativi, incassamento, pratiche amministrative); fornitura di feretro e accessori conforme
alla destinazione (cremazione, inumazione, tumulazione); avvisi e album firme (stampa, tasse comuna-
li, affissione); composizioni floreali (un copribara, una corona). A queste spese solitamente la famiglia
non può rinunciare, per tanti motivi.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 343

Inoltre, anche la collettività deve sostenere dei costi, e pure in


questo caso la cremazione è considerata una soluzione molto valida,
benché costosa nella fase di avvio 16. Ciò, naturalmente, spiega il fa-
vore che la cremazione incontra da parte dei servizi cimiteriali.

c) Il guadagno di spazi
Su questo punto è necessario operare qualche distinguo. Se è
vero infatti che il problema ha assunto una certa urgenza nelle gran-
di città 17, altrettanto innegabile appare la sua irrilevanza altrove. Per
rendersene conto, basta pensare al sereno decoro di tanti piccoli ci-
miteri di paesi, quali – per esempio – quelli che si incontrano presso
le chiese in Alto Adige. Lì il rischio di “sovraffollamenti” pare davve-
ro remoto.

La legislazione italiana: ius conditum e ius condendum


In pochi anni la legislazione italiana sulla cremazione si è note-
volmente evoluta. Tre sono stati gli interventi più rilevanti, conside-
rati altrettante tappe di una rivoluzione normativa a favore della cre-
mazione 18. Li vediamo brevemente.
a) La legge del 29 ottobre 1987, n. 440 ha stabilito che la crema-
zione è “servizio pubblico gratuito”, i cui costi sono addossati al Co-
mune di residenza.
b) Il nuovo regolamento di polizia mortuaria (Decreto del Presi-
dente della Repubblica del 10 settembre 1990) ove si semplificano le
procedure per l’adempimento delle volontà del defunto.

16
Il fabbisogno annuo di posti salma, in Italia, è di circa 175.000, e il costo medio di costruzione, a po-
sto, è di 2 milioni di lire. Le tumulazioni necessitano pertanto annualmente di 350 miliardi, con 10.000
addetti. Quanto alla cremazione: ogni impianto completo di edificio per cerimonia, forno e sistemi di
abbattimento fumi, costa da 1,2 a 2 miliardi di media, se realizzato con semplicità. Impianti di grandi di-
mensioni per città metropolitane possono richiedere investimenti anche nell’ordine di 5 miliardi. Il co-
sto di una cremazione per comuni sprovvisti di impianto di cremazione è stabilito con D.M. Interno
(8/2/88). Oggi si può dire che la maggior parte delle cremazioni (circa 80%) avviene in impianti di clas-
se “terza” (cioè con tariffa per non residenti di lire 680.000) (Dati SEFIT).
17
Fra l’altro gli esperti del settore prevedono per l’Italia che «la mortalità potrebbe calcolarsi nel 2025
in circa +20% rispetto a quella odierna (655.000 decessi, contro gli attuali 540.000 annui)» (cf Antigone
[1994/3] 28). Gli esperti del settore affermano che «in uno spazio di 10 mq ci stanno al massimo 4 tom-
be, ma di urne ce ne potranno stare 200» (L.-V. THOMAS, Riflessioni attorno alla cremazione (Parte pri-
ma), in Antigone [1994/1] 27). In un loculo, al posto di un feretro, possono stare, in teoria (con un pia-
no di separazione interno) oltre 30 urne cinerarie (Dati SEFIT).
18
Cf L’Ara (1995/2) 18.
344 Egidio Miragoli

L’articolo 79 dice che la cremazione di ciascun cadavere deve


essere autorizzata dal Sindaco sulla base della volontà testamentaria
espressa in tal senso dal defunto.
«In mancanza di disposizione testamentaria, la volontà deve essere manife-
stata dal coniuge e, in difetto, dal parente più prossimo individuato secondo
gli articoli 74 e seguenti del codice civile e, nel caso di concorrenza di più
parenti nello stesso grado, da tutti gli stessi».

c) Circolare del Ministero della Sanità (24 giugno 1993, n. 24),


una circolare esplicativa del regolamento di polizia mortuaria che ha
interpretato in modo estensivo le modalità per autorizzare ed esegui-
re la cremazione. Gli aspetti di novità sono considerati dal punto 14.2
«Modalità per autorizzare ed eseguire la cremazione». Eccoli:
– Per il rilascio dell’autorizzazione alla cremazione, l’ufficio che
istruisce la pratica è tenuto a verificare la presenza di: 1) un docu-
mento nel quale sia espressa la volontà della cremazione. Tale docu-
mento può consistere o nel testamento (forma olografa oppure reso
e depositato presso notaio), o nell’atto scritto con sottoscrizione au-
tentica dal quale risulti la volontà del coniuge o parente più prossimo
di dar corso alla cremazione della salma di cui trattasi, o dichiarazio-
ne di volontà di essere cremato, in carta libera e datata, firmata dal-
l’iscritto a una associazione riconosciuta che abbia tra i propri fini
quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati; 2) certifica-
to del medico curante o del medico necroscopo dal quale risulti
escluso il sospetto di morte dovuta a reato; 3) nei casi di morte im-
provvisa o sospetta occorre la presentazione del nulla osta dell’auto-
rità giudiziaria.
– La cremazione dei cadaveri di persone decedute prima del 27
ottobre 1990 è possibile solo in presenza dell’espressa volontà del de
cuius; la cremazione dei cadaveri di persone decedute successiva-
mente a tale data (data di entrata in vigore del DPR n. 285/90) è con-
sentita a richiesta degli interessati, con la produzione della docu-
mentazione di cui sopra, anche per salme provenienti da esumazioni
ed estumulazioni 19.

19
Questa circolare ministeriale «contribuirà indubbiamente a un consistente recupero del patrimo-
nio cimiteriale esistente e alla soluzione del problema delle salme inconsunte con l’avvio a cremazione,
non dissenzienti i familiari, degli esiti dei fenomeni cadaverici trasformativi provenienti da inumazione»
(E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 34).
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 345

– Nel cimitero dove è situato l’impianto di cremazione deve es-


sere predisposto un edificio per accogliere le urne cinerarie. Novità
sostanziale è data dall’obbligo della realizzazione in ogni cimitero di
un cinerario comune. Si tratta di
«un manufatto nel quale vengono disperse, preferibilmente attraverso un ri-
to apposito, le ceneri provenienti dalla cremazione delle salme per le quali
sia stata espressa in vita la volontà del de cuius di scegliere tale forma di se-
poltura».

Nel cinerario comune vengono raccolte pure le ceneri (in forma


indistinta) nei casi di disinteresse dei familiari alla collocazione in se-
poltura dell’urna cineraria. Tale forma di sepoltura è gratuita.
Quanto a una ulteriore evoluzione della normativa, il prossimo
obiettivo perseguito dai sostenitori dell’idea cremazionista è la possi-
bilità di disperdere le ceneri. Sono attualmente quattro i progetti di
legge presentati in Parlamento 20. Qui ci limitiamo a considerare il di-
segno di legge presentato il 10 maggio 1995 21, in quanto ci permette
di cogliere i problemi essenziali sottesi.
Occorre premettere che attualmente è impossibile ottenere che
le proprie ceneri siano disperse in luoghi particolari (per esempio un
luogo caro alla memoria dello scomparso) diversi dai cimiteri.
Osta, infatti, alla attuazione di questo desiderio – realizzabile,
invece, in quasi tutto il mondo – una chiara norma del Codice penale
che, nell’ambito delle disposizioni volte a punire i delitti contro la
pietà dei defunti, prevede all’articolo 411 il reato di distruzione, sop-
pressione o sottrazione di cadavere, equiparando a queste fattispecie
l’atto di sottrarre o di disperdere le ceneri del defunto. La proposta
chiede dunque di modificare l’articolo 411 del Codice penale.

La legislazione canonica
La Chiesa ha sempre sostenuto la scelta della inumazione dei
cadaveri, sia circondando tale atto con riti destinati a metterne in ri-
salto il significato simbolico e religioso, sia comminando pene con-
tro chi si scostasse da tale prassi, e ciò specialmente quando l’oppo-

20
Cf Sono quattro i progetti-legge in Parlamento, in L’Ara (1995/2) 7.
21
Cf XII Legislatura. Disegno di legge “Modifica dell’articolo 411 del Codice penale: Per la dispersione
delle ceneri”, in L’Ara (1995/1) 9.
346 Egidio Miragoli

sizione veniva da associazioni che proponevano l’alternativa della


cremazione con l’intento di negare i dogmi cristiani, particolarmente
quelli della risurrezione dei morti e della immortalità dell’anima. Qui
ci limitiamo alle prese di posizioni “recenti”.

a) Il Codice del 1917


Riassumevano la posizione della Chiesa due canoni del Codice
del 1917 22 nei quali si vietava l’esecuzione del mandato di cremazio-
ne e veniva negata la sepoltura ecclesiastica a chi aveva chiesto la
cremazione.
«can. 1203 § 1: I corpi dei fedeli defunti devono essere seppelliti, riprovata la
prassi della loro cremazione.

§ 2: Se qualcuno, in qualsiasi modo avrà ordinato che il suo corpo sia crema-
to, è illecito eseguire questa volontà; che se questa volontà sarà apposta a un
contratto, al testamento o a qualunque altro atto, la si consideri come non
posta.

can. 1240 § 1: Sono privati della sepoltura ecclesiastica, a meno che prima
della morte non abbiano dato segni di pentimento: [...]
5° Chi avesse stabilito che il suo corpo venisse cremato».

b) L’Istruzione del S. Ufficio del 1963


Un passaggio significativo nella evoluzione della legislazione ec-
clesiastica è costituito dall’Istruzione della Congregazione del S. Uffi-
cio La cremazione dei cadaveri, del 5 luglio 1963 23.
Il breve testo, dopo una premessa, conclude con una parte più
normativa. Ecco i passaggi essenziali.
– L’incenerazione dei cadaveri, come non tocca l’anima, e non
impedisce all’onnipotenza divina di ricostruire il corpo, così non con-
tiene, in sé e per sé, l’oggettiva negazione di quei dogmi. Non si trat-
ta, quindi di cosa intrinsecamente cattiva o di per sé contraria alla re-

22
Can. 1203 § 1: Fidelium defunctorum corpora sepelienda sunt, reprobata eorundem crematione.
§ 2: Si quis quovis modo mandaverit ut corpus suum cremetur, illicitum est hanc exsequi voluntatem;
quae si adiecta fuerit contractui, testamento aut alii cuilibet actui, tanquam non adiecta habeatur.
Can. 1240 § 1: Ecclesiastica sepoltura privantur, nisi ante mortem aliqua dederint poenitentiae signa:
[...] 5°: qui mandaverint suum corpus cremationi tradi.
23
SUPREMA SACRA CONGREGATIO SANCTI OFFICII, Instructio Piam et constantem: de cadaverum crematio-
ne, in EV 2, pp. 106-109.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 347

ligione cristiana, come del resto dimostra il fatto che in particolari


circostanze, specie di ordine pubblico, la cremazione veniva permes-
sa. Attualmente, sempre con maggior frequenza, la cremazione vie-
ne richiesta non per odio contro la Chiesa o contro le usanze cristia-
ne, ma solo per ragioni igieniche, economiche o di altro genere, di
ordine pubblico o privato.
– Sia fedelmente mantenuta la consuetudine di seppellire i ca-
daveri dei fedeli; non si receda dall’uso dell’inumazione se non in ca-
si di vera necessità.
– I cann. 1203 § 2 e 1240 § 1, 5° sono da applicarsi solo quando
la cremazione è voluta come espressione della negazione dei dogmi
cristiani o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa.
– «Per non indebolire l’attaccamento del popolo cristiano alla
tradizione ecclesiastica e per mostrare l’avversione della Chiesa alla
cremazione, i riti della sepoltura ecclesiastica e i susseguenti suffra-
gi non si celebreranno mai nel luogo ove avviene la cremazione e
neppure vi si accompagnerà il cadavere».

c) Il Rito delle Esequie (1974)


Il mutato atteggiamento della Chiesa, nel frattempo confluiva
nei Praenotanda del Rito delle Esequie, riformato a norma del conci-
lio Vaticano II. Del nostro argomento si parla al n. 15:
«A coloro che avessero scelto la cremazione del loro cadavere si può conce-
dere il rito delle esequie cristiane, a meno che la loro scelta non risulti detta-
ta da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana: tutto questo, in base a
quanto stabilito dall’Istruzione della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio
De cadaverum crematione [...].
Le esequie siano celebrate secondo il tipo in uso nella regione, in modo però
che non resti offuscata la preferenza della Chiesa per la sepoltura dei corpi,
come il Signore stesso volle essere sepolto, e sia evitato il pericolo di ammi-
razione o di scandalo da parte dei fedeli. In questo caso i riti previsti nella
cappella del cimitero o presso la tomba si possono fare nella stessa sala crema-
toria, cercando di evitare con la debita prudenza ogni pericolo di scandalo o
di indifferentismo religioso» 24.

Alcuni anni dopo, nel 1977, questo testo era oggetto di una pre-
cisazione da parte della S. Congregazione per i Sacramenti e il Culto

24
Rito delle esequie, n. 15.
348 Egidio Miragoli

Divino. A questa, infatti, era stato chiesto se oltre ai riti che si svol-
gono nello stesso edificio crematorio, anzi, in assenza di altro luogo
adatto nella stessa stanza del forno, sia possibile effettuare in chiesa
la celebrazione delle esequie, portandovi l’urna con le ceneri. Così
rispondeva la Congregazione:
«In certo modo, la risposta al problema si trova nel suddetto n. 15 dei Prae-
notanda, dove il discorso concerne soltanto i riti che si svolgono presso la
cappella o il sepolcro. Dal contesto di quello stesso numero si deduce che la
messa delle esequie è già stata celebrata, con presente il corpo del defunto
in chiesa, prima che venisse portato all’edificio della cremazione, mentre al
contrario nel cimitero, nella cappella o nell’edificio o nella stanza del forno si
compiono i riti che accompagnano la sepoltura.
Infatti non sembra opportuno celebrare sulle ceneri i riti il cui scopo è di vene-
rare il corpo del defunto. Non si tratta di condannare la cremazione, ma piutto-
sto di conservare la verità del segno dell’azione liturgica. Infatti le ceneri, che
stanno ad esprimere la corruzione del corpo umano, male adombrano il ca-
rattere del “sonno” in attesa della risurrezione. Inoltre il corpo (e non le cene-
ri) riceve gli onori liturgici, poiché dal battesimo è reso tempio consacrato
dallo Spirito di Dio. È importantissimo conservare l’autenticità del segno, af-
finché catechesi liturgica e celebrazione stessa si svolgano in verità e con effi-
cacia. Se invece il corpo del defunto non può essere portato in chiesa per la
celebrazione della messa d’esequie, se non s’oppongono altre ragioni, anche
in assenza del corpo del defunto, la medesima messa si può celebrare secon-
do le norme che vanno osservate per il rito con presente il cadavere» 25.

Occorre tuttavia notare che la presa di posizione del 1977 non è


l’ultima parola in materia, come dimostrano le risposte positive date
dalla Congregazione del Culto Divino alle richieste dei Vescovi del
Canada (3 dicembre 1984), al Vescovo di Honolulu (23 maggio 1986)
e la conferma (6 agosto 1988) da parte della medesima Congregazio-
ne, della traduzione in lingua spagnola dell’Order of Christian Fune-
rals. Tutte queste prese di posizione riguardano la possibilità di cele-
brare l’Eucarestia alla presenza delle ceneri del defunto 26.

d) Il Codice 1983
Il nuovo Codice non contiene novità di rilievo rispetto alle nor-
me postconciliari fin qui illustrate; se però operiamo un confronto
con i canoni del Codice 1917, allora è possibile cogliere il grande

25
Notitiae 13 (1977) 45; oppure EV 3, pp. 854-855. Nostra traduzione dal testo latino.
26
Cf M.J. HENCAL, Cremation: canonical issues, in The Jurist 55 (1995) 281-298.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 349

cambiamento avvenuto a livello legislativo nella Chiesa circa la cre-


mazione. Pertanto i canoni non necessitano di particolare commen-
to. Eccoli:
«Can. 1176 § 3: La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia con-
suetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazio-
ne, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina
cristiana.
Can 1184 § 1, 2°: Se prima della morte non diedero alcun segno di penti-
mento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche [...] coloro che
scelsero la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cri-
stiana».

Alcune considerazioni

Sulla scelta di iscriversi alle Società di cremazione


In passato era molto viva la polemica e la contrapposizione dei
cremazionisti nei confronti della Chiesa. Oggi è più sfumata; da par-
te delle Società di cremazione si reclamizza l’apertura della Chiesa
nei confronti della cremazione, ma la dimensione di fede pare non
entri nel loro patrimonio culturale. L’impressione è che restino co-
munque realtà laiche e laiciste, e che a volte propongano addirittura
un contraltare alla pratica religiosa della sepoltura (si pensi al rito
laico, di cui sotto diremo, e alle polemiche sugli interessi degli eccle-
siastici ecc.). Pertanto, se è vero che la cremazione è oggi una possi-
bilità anche per il credente, c’è da chiedersi se sia comunque oppor-
tuna l’iscrizione a tali Società 27.

Le dovute attenzioni del Nuovo Rito delle Esequie


Il sacerdote che segue l’attuale Rito delle Esequie, qualora il de-
funto abbia scelto la cremazione, si trova a volte in difficoltà. Infatti,
benché nei Praenotanda si accenni anche alla evenienza della crema-
zione, nei testi delle orazioni, poi, si presuppone sempre, più o meno
direttamente, la tumulazione.

27
Tra l’altro è forse utile sapere che «le So.Crem. per effetto dell’art. 79, 3° comma, del DPR 285/90
devono essere “associazioni riconosciute”, ma quante lo sono? Negli ultimi tempi si è avvertita una
sempre maggiore infiltrazione di imprese di onoranze funebri in attività di So. Crem., e viceversa si re-
gistrano veri e propri sconfinamenti delle stesse So.Crem. in attività commerciali, svolte senza le pre-
scritte autorizzazioni» (E. MARINI, La cremazione in Italia, cit., p. 35).
350 Egidio Miragoli

La Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacra-


menti il 19 gennaio 1994, incontrando i vescovi del Panamà ha tratta-
to del tema della cremazione, informandoli che il fenomeno è allo stu-
dio, data la sua crescente diffusione in tante aree geografiche, e an-
che in preparazione della prossima edizione del Rito delle Esequie.
«Essa informa, inoltre, di aver concesso alle Conferenze episcopali, che ne
hanno fatto richiesta, di poter fare una celebrazione esequiale prima dell’in-
cenerazione, in modo da accompagnare tale atto con la preghiera. Facendo
presente che la versione inglese di quel Rituale, approvato per l’Inghilterra,
già contiene appositi riti, si suggerisce ai vescovi del Panamà di considerarli
e di fare i necessari passi per avviare una loro proposta in tale senso alla
Congregazione» 28.

Ci chiediamo se ciò non sarebbe opportuno anche per l’Italia.


Attualmente si tratta soprattutto di colmare un vuoto; non a caso, le
Società di Cremazione inscenano a volte riti “laici”, quasi brutte imi-
tazioni delle esequie cristiane.
Esempio significativo è quello di Torino, città guida, in Italia,
per le cremazioni. Leggiamo infatti nella rivista delle Società di Cre-
mazione che la So.Crem. di Torino
«all’avanguardia sotto molteplici aspetti, ha inaugurato un rituale come ri-
sposta ai bisogni (di identità, riconoscimento, senso di appartenenza alla co-
munità) propri della società contemporanea. Il rito è concepito quale ricono-
scimento di valori etici, culturali e religiosi nella fase in cui fra il defunto e i
viventi vi è distacco definitivo [...] La ricerca della So.Crem. di Torino, sor-
retta da questionari e da convegni di studio, ha condotto a un percorso ritua-
le le cui procedure garantiscono rispetto, dignità e solidarietà a quanti scel-
gono la cremazione, oltre a un’intensa partecipazione ideale e consolazione
per i familiari del defunto» 29 (Si veda in nota l’articolazione del “rito”).

28
Notitiae 30 (1994) 23.
29
La cremazione oggi per domani (relazione dell’avv. Segre al Convegno «Etica e tecnica in campo fu-
nerario»), in L’Ara (1995/2) 18. Benché interessante, verrebbe troppo lungo descrivere in che consista
il rituale. Vi facciamo solo un cenno utile per capire lo spirito che anima le Società di Cremazione. Il ri-
to si svolge in tre fasi: la prima (riti di accoglienza?) alla porta del cimitero, dove il «direttore del tem-
pio crematorio, che è anche il cerimoniere [...] si presenta ai dolenti e prende simbolicamente in conse-
gna il feretro». Fatto un breve corteo si giunge alla «sala del commiato», nella quale si diffonde musica,
«un primo brano di accoglienza rappresentato da melodie di Vivaldi o Mozart o Beethoven o Liszt,
azionata dal telecomando dell’assistente». Firmato il verbale di consegna della salma, da parte dei fami-
liari, «la musica si interrompe e il cerimoniere dà inizio al rituale vero e proprio dicendo: Siete qui per
affidare il sig... alla Società per la Cremazione... Noi ci siamo assunti il compito di rispettarne le vo-
lontà... La cremazione garantisce l’individualità e la purezza delle ceneri... Raccogliamoci per qualche
istante. Se qualcuno tra voi vuole prendere la parola, può farlo... Appena terminato il breve saluto si
diffonde il 2° brano musicale (eventualmente a richiesta, quello di un determinato Autore)». Mentre la
musica si dissolve il cerimoniere ricorda a tutti la frase di Ariodante Fabretti, uno dei fondatori e primo
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 351

Quale rispetto, oggi, per il corpo del defunto?


Uno dei valori sempre affermati dalla Chiesa è il rispetto del cor-
po del defunto, corpo-tempio dello Spirito Santo, corpo destinato alla
risurrezione. L’inumazione del corpo rispondeva anche alla conside-
razione di questo valore. Sembra legittimo chiedersi – scrive un auto-
re – se l’inumazione, quale viene attualmente praticata nei cimiteri
dei grandi agglomerati urbani, rispetti veramente tali valori o, al con-
trario, non leda esplicitamente i diritti della persona umana, quali ap-
punto il rispetto e la pietà dovuti ai defunti 30. L’autore cita la situazio-
ne di Napoli – esempio di grande città dove la mancanza di spazi co-
stituisce davvero un problema – e descrive come vi si ponga rimedio:
«Dopo tre anni di sepoltura sotto terra o dopo venti mesi in caso di inumazio-
ne in luogo asciutto, i cadaveri vengono riesumati. È noto che in questo pe-
riodo i corpi sono al colmo della loro putrefazione, le membra possono essere
così più facilmente scomposte e avvolte in lenzuola. I cadaveri vengono posti
in loculi lunghi 85 cm, addossati gli uni sopra gli altri, secondo una numera-
zione variabile in rapporto allo spazio disponibile. Senza voler descrivere in
dettaglio tali operazioni, per ragioni di decenza, riteniamo che tali procedi-
menti non siano differenti, nella sostanza, dalla prassi condannata da Bonifa-
cio VIII. Non è fuori luogo, quindi, chiedersi se non venga in questo modo
violata la dignità del corpo del defunto, con pregiudizio dello stesso ricordo di
una persona umana» 31.

In tali situazioni, conclude l’autore, è legittimo chiedersi se la


prassi della cremazione non sia più rispettosa del defunto e se la con-
servazione delle ceneri in piccole urne non garantisca maggiormente
il culto, le preghiere e il ricordo di quelli che sono stati loro vicini.
Si potrà eventualmente obiettare che questo è un caso limite,
ma non è più edificante quanto avviene in cimiteri di altre grandi me-
tropoli con sepolture meccanizzate: una ruspa che interviene a co-
prire una fila di bare allineate in una specie di trincea.

presidente della So.Crem., scritta all’interno del tempio: «Trasformati in cenere dalla forza del fuoco
che tutto rinnova, noi veniamo restituiti quale materia a Te, benigna genitrice». E parte il 3° brano mu-
sicale. «L’assistente al cerimoniere con un gesto manuale apre la porta che un tempo adduceva al forno
a legna e ora invece adduce a un vano addobbato con velluto rosso e illuminato con getti di luce a sim-
boleggiare le fiamme della cremazione. L’assistente spinge il carrello con il feretro verso l’interno e
quindi chiude la porta. A questo punto il cerimoniere informa che il funerale è terminato». O meglio,
bisognerebbe dire che il giorno dopo il funerale continua: infatti è previsto un seguito per la consegna
delle ceneri. Ma quanto riassunto penso basti a dare l’idea.
30
Cf F. GIUNCHEDI, Note sulla Cremazione, in Rassegna di teologia 33 (1994) 216-219.
31
Ibid., p. 218.
352 Egidio Miragoli

Cremazione e nuovi problemi


La Chiesa ha sempre consentito, anche in passato, la cremazio-
ne nei casi di bene pubblico. Abbiamo accennato alle difficoltà delle
aree cimiteriali delle grandi città e ai problemi connessi. In quale li-
nea si muoverà la Chiesa nei prossimi anni? Ma il problema principa-
le forse non è quello di favorire o meno la cremazione.
Altri problemi, e forse più rilevanti, sono già all’orizzonte. Pen-
siamo al tema della dispersione delle ceneri o delle sepolture anoni-
me (delle urne cinerarie) 32 e ai tanti risvolti di significato connessi,
alcuni dei quali comuni. Quanto alla dispersione delle ceneri, è in-
dubbio che le ceneri non sono residui qualunque, «quantunque pol-
vere e non più corpo, esse, ancora e sempre sono un vestigio di iden-
tità e di presenza di un essere caro» 33.
In questo caso – come del resto per le sepolture anonime – sia-
mo in presenza di
«un’impedimento alla elaborazione del lutto e dell’associare la memoria a un
determinato posto [...]. La relazione con i morti si trasforma in una soppres-
sione e in un disfarsi dei corpi [...]; la catena delle generazioni si spezza; si fa
strada una crescente assenza di storia» 34;

sul versante della fede queste forme


«contraddicono già di fatto la comune pietà e soprattutto l’idea cristiana della
dignità dell’uomo come immagine di Dio, come colui che è stato chiamato per
nome, e l’appartenenza dei battezzati alla comunione ecclesiale e alla comu-
nità cristiana [...]. Rendono più difficile il ricordo dei morti, anzi lo estinguo-
no anzitempo e coscientemente, e impediscono la solidarietà con i morti» 35.

La dispersione delle ceneri, in particolare, evidenzia una conce-


zione romantica-panteistica della vita che può anche contraddire – se
non negare – alcune verità della fede.

32
Là dove la cremazione è diffusa, è in aumento anche il numero delle persone che richiedono la se-
poltura anonima. Ne parla anche uno specifico paragrafo (n. 5) del documento già citato dei vescovi te-
deschi. Dopo la cremazione, l’urna viene deposta a opera dell’amministrazione cimiteriale nel campo ri-
servato per questo; in genere, le tombe sono provviste solo di tappeto erboso. Non vi è comunicazione
alcuna riguardo all’ora e al luogo della sepoltura; non vi è trascrizione del nome del defunto che per-
metta di poter identificare il luogo dove è stata deposta l’urna. Questa forma è intesa e scelta dagli inte-
ressati o dai loro parenti come definitiva cancellazione della vita vissuta. Le amministrazioni mettono a
disposizione per queste sepolture campi comunitari. Questo tipo di sepoltura è originario dei paesi
scandinavi. A Copenaghen, per esempio il 90% delle sepolture è anonimo.
Qui tralasciamo volutamente il tema delle “tumulazione in mare” o deposizione delle urne cinerarie in
mare.
33
L.-V. THOMAS, Riflessioni, cit., p. 26.
34
La cura per i morti, p. 147.
35
L. cit.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 353

Conclusioni

Un corretto atteggiamento del clero


Al mutato atteggiamento della Chiesa sancito dalla normativa,
deve però corrispondere un atteggiamento più attento e rispettoso
da parte dei sacerdoti. Alcuni parroci, infatti, ritengono di favorire e
sostenere la sepoltura dei defunti opponendo il rifiuto ad accompa-
gnare al cimitero le salme destinate alla cremazione. Questo ci sem-
bra non corretto e non conveniente (naturalmente qui ci si riferisce
a quelle situazioni nelle quali si usa ancora accompagnare i defunti al
cimitero dopo la celebrazione delle esequie, là dove è ancora possibi-
le e normalmente ciò avviene). Quando la cremazione è scelta per
motivi che non intaccano minimamente i principi della fede, non è
giusto “penalizzare” chi ha fatto questa scelta (defunto e familiari),
tanto più che – come abbiamo già detto – le società di cremazione
tendono a inserirsi in questo “vuoto” con una presenza discutibile.
Sono altri i luoghi e gli spazi, eventualmente, per illustrare ai fedeli
la preferenza della Chiesa per la sepoltura dei corpi. E a questo ri-
guardo il discorso può e deve essere allargato a ripensare la conside-
razione che la pastorale dedica alle esequie e all’accompagnamento
delle persone in lutto. Ora le possibilità di partecipazione della Chie-
sa si vanno riducendo anche riguardo al tema della sepoltura. Per
tutti possono valere alcune considerazioni fatte dai vescovi tedeschi:
«Nonostante tutti gli sforzi, l’importanza delle chiese, delle comunità cristia-
ne e dei loro ministri nel campo della sepoltura e dell’accompagnamento del-
le persone in lutto si è andata significativamente riducendo negli ultimi anni,
perlomeno nelle grandi città. Oggi le chiese non hanno più quel monopolio
delle sepolture che un tempo era considerato ovvio [...]. Diversi pastori d’a-
nime sono troppo poco coscienti dell’importanza che rivestono questi riti co-
me sostegno e aiuto spirituale nelle situazioni di lutto [...]. Il troppo lavoro e
lo stress dei ministri, dovuti alla crescente mancanza di preti e all’età avanza-
ta del clero, aggravano la situazione. E spesso i pastori lamentano di dover
seguire, per quanto riguarda gli orari e la forma della sepoltura, gli ordini
dell’amministrazione cimiteriale o dei parenti del defunto. D’altra parte, l’im-
pegno pastorale dei pastori e delle comunità per uno svolgimento dignitoso,
personale, e partecipato dei riti di sepoltura e un’efficace pastorale di aiuto e
di accompagnamento sono considerati positivamente e con riconoscenza an-
che come dimostrazioni concrete della credibilità delle chiese» 36.

36
Ibid., p. 138.
354 Egidio Miragoli

L’importanza del diritto particolare


Il percorso che abbiamo fatto ha cercato, sulla base di dati preci-
si, di evidenziare alcuni problemi. Non era certo intendimento nostro
quello di prendere posizione pro o contro la cremazione. Più volte si
è cercato, inoltre, di sottolineare la diversità delle situazioni che pos-
sono far prevalere considerazioni particolari anche in rapporto alla
cremazione. Il Codice, da parte sua, traccia degli argini molto ampi.
Da tutto questo si può concludere auspicando una particolare atten-
zione alla questione da parte del diritto particolare. È nelle singole
diocesi, infatti, che la materia può essere meglio regolamentata, favo-
rendo anche una prassi omogenea nello stesso territorio. Sarà co-
munque importante grande prudenza pastorale, non solo per la solu-
zione concreta dei problemi che oggi si pongono, ma per saper preve-
dere e normare ulteriori sviluppi e le relative conseguenze per la vita
della Chiesa.

EGIDIO MIRAGOLI
Via Madre Cabrini, 2
20075 Lodi
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) 355

Appendice
Tabella 1 - Elenco dei Comuni italiani sede di impianto di crema-
zione - Dati sulla cremazione di salme nell’anno 1995 (dati SEFIT)
Dati trasmessi Numero Stime Numero
Bologna 998 Bergamo 145
Cagliari 30 Brà 0
Cin. Balsamo 117 Livorno 497
Como 470 Milano 3.231
Cremona 107 Padova 250
Firenze 558 Torino 1.655
Genova 1.458 Trieste 400
La Spezia 0 Vicenza 61
Lodi 150
Mantova 174
Novara 167
Palermo 0
Pavia 170
Perugia 230
Pisa 172
Reggio E. 749
Roma 384
Savona 406
S. B. Tronto 137
Siena 65
Udine 229
Venezia 675
Varese 242
Verbania 439
Verona 236
8.359 6.239

Totale stimato cremazioni ’95 14.598


Dati provvisori
356 Egidio Miragoli

Tabella 2 - Dati statistici degli iscritti alle Società di Cremazione in


Italia*
Società Soci
1993 1994 1995
Arezzo 82
Bergamo 2.318 2.831 2.560
Bolzano 1.122 1.563 2.000
Bra 115 129 –
Brescia 97 166 321
Cagliari 237 241 254
Catania 43 – –
Cinisello Balsamo 290 404 592
Cremona 1.082 1.133 1.191
Cuneo 156 167 167
Ferrara 1.700 1.300 1.835
Firenze 7.743 8.527 9.711
Genova 14.1931 4.193 14.960
Livorno 3.205 3.510 4.500
Lodi 775 870 947
Mantova 2.456 3.218 3.703
Milano 22.7182 3.200 23.557
Novara 6.227 6.390 6.652
Pavia 1.932 2.020 2.153
Piombino 13.686 1.850 2.012
Pisa 1.244 1.330 1.387
Pistoia 510 800 1.000
Prato 785 902 1.169
Reggio Emilia 4.458 4.974 5.585
Roma 7.300 7.502 7.762
S. Benedetto del T. 495 629 730
Sanremo 1.466 1.466 1.507
Siena 430 439 452
Sondrio 250 310 426
Spoleto 220 229 243
Torino 20.011 22.019 24.703
Torre del Greco 20 23 23
Trento 919 1.152 1.652
Varese 5.676 5.961 6.335
Venezia 1.685 1.775 1.860
Verona-Legnago 3.126 3.663 3.930
Vicenza 2.348 2.596 2.768

Totali 119.901 127.211 138.000


(*) La presente tabella è stata composta utilizzando i dati annuali pubblicati sulla rivista L’Ara - Notizia-
rio della Federazione Italiana delle Società per la Cremazione, in particolare: 2/1993, 2/1994, 2/1995.
357
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 357-378
Esempi
di applicazione giurisprudenziale
del can. 1098 (dolo):
casistica e problemi probatori *
di Paolo Bianchi

In questa comunicazione cercherò di attenermi strettamente al-


l’oggetto del seminario così come definito ed enunciato dal suo stes-
so titolo: presenterò quindi in primo luogo la casistica e, quindi,
quelli che appaiono i problemi probatori relativi al can. 1098.

Casistica

Premessa
Quanto alla casistica mi pare utile riportare dati concreti relativi
al Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo (TERL) dal 1988 in
avanti.
I dati precedenti sono meno accessibili per scomodità di archi-
vio e anche meno significativi, in quanto l’applicazione giurispruden-

* Il seguente testo è la rielaborazione di una comunicazione tenuta dall’Autore nell’ambito di un Semi-


nario organizzato dall’Istituto di diritto pubblico – Cattedra di diritto canonico dell’Università di Pavia.
Il Seminario aveva come oggetto il medesimo titolo della presente comunicazione. Il testo qui pubblica-
to è stato rielaborato in vista della sua accessibilità anche da parte di lettori meno “tecnici” rispetto a
laureandi o dottorandi in una Facoltà di giurisprudenza, discostandosi tuttavia il meno possibile dal-
l’originale. In esso si dà come è logico per presupposta una presentazione generale del can. 1098, per la
quale si potrà utilmente consultare, fra l’altro, un contributo già apparso nella nostra Rivista (5 [1992]
205-226).
L’utilità della pubblicazione della presente comunicazione è apparsa quella di dare un esempio concre-
to delle fattispecie presentatesi in un Tribunale regionale italiano e ricondotte alla disposizione del can.
1098, come noto introdotta nella disciplina canonica solo dal Codice latino del 1983. Non si intende
quindi – beninteso – presentare una sorta di “giurisprudenza locale” sulla materia, concetto peraltro di
dubbia o comunque discussa legittimità, bensì solo dare un duplice contributo: in primo luogo una pra-
tica campionatura delle “qualità” personali proposte come oggetto dell’errore di cui al can. 1098 così
come prospettate dalle parti al Tribunale; in secondo luogo una prima, sintetica, riflessione sui proble-
mi probatori rappresentati dai singoli elementi costitutivi della innovativa e complessa fattispecie.
358 Paolo Bianchi

ziale ha dovuto scontare massicciamente la questione della irretroat-


tività della norma sull’errore doloso, ossia della sua inapplicabilità ai
matrimoni celebrati prima della entrata in vigore del Codice e cioè
prima del 27 novembre 1983. Come è noto, la giurisprudenza preva-
lente (non mancando tuttavia voci in contrario, soprattutto in dottri-
na) è orientata appunto per la non retroattività della norma di cui al
can. 1098. Di fatto, la maggior parte delle cause trattate al TERL fra
l’entrata in vigore del Codice e il 1988 sono terminate o con rinuncia
alla istanza ovvero con decisione negativa.

Mi sembra interessante così presentare i dati relativi all’attività


del Tribunale dal 1988 in avanti. Precisamente organizzati secondo:

1) il numero di cause di “dolo” (d’ora in avanti così indicherò la


fattispecie per semplicità rispetto alla sua esatta definizione, che sa-
rebbe piuttosto quella di errore dolosamente indotto circa una qua-
lità personale della comparte al fine di estorcere il consenso matri-
moniale) trattate nell’anno giudiziario in esame;

2) il grado di giudizio in cui furono trattate: infatti il TERL è


competente in primo grado per le cause “lombarde” (ossia, di nor-
ma: per i matrimoni celebrati in una delle diocesi lombarde, ovvero
laddove la parte convenuta in giudizio abbia domicilio in una di tali
diocesi) e in appello per quelle del Tribunale Pedemontano (Piemon-
te e Valle d’Aosta) e del Tribunale Triveneto (Veneto, Friuli-Venezia
Giulia e Trentino-Alto Adige);

3) l’esito delle cause medesime, cioè il tenore della pronuncia


definitiva con cui si è chiusa l’istanza, ossia il grado di giudizio;

4) la qualitas che nel singolo caso è stata riconosciuta – o per lo


meno proposta al giudizio del Tribunale – come oggetto dell’errore
doloso.

Presentazione della casistica


Procedendo dunque secondo lo schema di informazioni indica-
to, in tal modo possono essere presentati i dati emergenti dal lavoro
del Tribunale.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 359

Anno 1988
In tale anno furono trattate dal Tribunale due cause per dolo,
una conclusasi con sentenza affermativa e una con sentenza negati-
va. Precisamente:

1) causa 2/1988, in primo grado di giudizio, conclusasi afferma-


tivamente. Qualità oggetto di dolo fu la ricaduta del convenuto in
uno stato di tossicodipendenza da cui pareva ormai affrancato;

2) causa 219/1988, in primo grado di giudizio, conclusasi nega-


tivamente. Qualità oggetto di dolo sarebbero stati l’altruismo, il di-
sinteresse, l’amore mostrati dalla convenuta per introdursi nella fa-
miglia e nella azienda dell’attore. L’istruttoria non confermò tale tesi.
Può essere interessante rilevare che la pronuncia del TERL venne
impugnata presso la Rota Romana che confermò la decisione di pri-
mo grado con una motivazione analoga a quella dei primi giudici.

Anno 1989
In tale anno furono trattate nove cause per dolo, con gli esiti
che vengono qui di seguito registrati:

1) causa 56/1989, in primo grado, decisa affermativamente. Il


convenuto ingannò la attrice su tali sue qualità personali: una millan-
tata laurea in giurisprudenza, un praticantato legale in corso, la pro-
spettiva di un lavoro di prestigio nelle forze dell’ordine;

2) causa 75/1989, in primo grado di giudizio, rinunciata ma pas-


sata in forza del can. 1681 a procedimento amministrativo per matri-
monio non consumato, conclusosi con dispensa del S. Padre. La qua-
lità oggetto di inganno sarebbe consistita nella sincerità dell’amore
del convenuto verso l’attrice;

3) causa 76/1989, in primo grado di giudizio, decisa per la nul-


lità del matrimonio. L’attrice era stata ingannata dal fidanzato circa
uno stato di tossicodipendenza di lui;

4) causa 134/1989, in secondo grado di giudizio, decisa per la


conferma della decisione affermativa di primo grado. La qualità ogget-
360 Paolo Bianchi

to di inganno fu la millantata occupazione di alto livello (con conse-


guente stile di vita) da parte del convenuto che in realtà si fece mante-
nere dall’attrice fintanto che riuscì ad avvalersi della credulità di lei;

5) causa 137/1989, in primo grado di giudizio, conclusasi nega-


tivamente. Non fu infatti resa dimostrazione che la gravidanza della
convenuta, causa prossima delle nozze, fosse effettivamente dell’al-
tro uomo che ella allora frequentava; anzi risultò che la convenuta
stessa riteneva che la gravidanza derivasse effettivamente da rappor-
ti col fidanzato;

6) causa 144/1989, in primo grado di giudizio, con esito negati-


vo. La qualità della tossicodipendenza del convenuto, pur certa, era
infatti nota all’attrice già prima di sposarsi;

7) causa 205/1989, in primo grado e interrottasi per rinuncia.


La qualità oggetto di dolo sarebbe stata la sincerità dell’amore della
stessa attrice verso il convenuto;

8) causa 219/1989, in primo grado di giudizio e conclusasi af-


fermativamente. La qualità oggetto di dolo fu la omosessualità prati-
cata dal convenuto;

9) causa 255/1989, in primo grado di giudizio, conclusa con


sentenza negativa. La qualità oggetto di inganno era il carattere gelo-
so del convenuto, ben noto all’attrice fin dal fidanzamento.

Anno 1990
In tale anno furono trattate sette cause per errore doloso, con i
seguenti esiti processuali:

1) causa 11/1990, in secondo grado di giudizio e con conferma


della decisione affermativa di primo grado, in quanto risultò che era
stata celata all’attore l’epilessia da cui la convenuta era affetta;

2) causa 83/1990, in primo grado di giudizio, decisa negativa-


mente. Le qualità oggetto di inganno sarebbero state la lealtà, la sin-
cerità ecc. del convenuto, invischiato in non ben precisate (quanto a
origine e a importi) situazioni debitorie. La causa trovò tuttavia per
altro capo soluzione affermativa;
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 361

3) causa 107/1990, in primo grado di giudizio e archiviata per


inattività processuale ai sensi del can. 1520. La qualità oggetto di in-
ganno erano asseriti (ma non provati) disturbi mentali prenuziali del-
la convenuta;
4) causa 166/1990, in primo grado di giudizio e conclusasi con
rinuncia formale. La qualità oggetto di dolo consisteva nell’alcolismo
della convenuta che venne dimostrato pregresso al momento delle
nozze e solo risorto poi successivamente a esse;
5) causa 217/1990, in secondo grado di giudizio con conferma
per decreto della decisione di primo grado. La qualità: l’essere, da
parte della convenuta, gravida da altra persona rispetto al fidanzato;
6) causa 250/1990, in primo grado di giudizio, con sentenza af-
fermativa. La qualità oggetto di dolo fu lo stato di tossicodipendenza
del convenuto;
7) causa 252/1990, in primo grado di giudizio, terminata con
sentenza negativa. Non vennero infatti dimostrati i precedenti psico-
patologici della convenuta, che avrebbero dovuto rappresentare la
qualità oggetto dell’inganno ai danni dell’attore.

Anno 1991
Nell’anno 1991 ben dieci cause ebbero a oggetto l’errore dolo-
so. Le decisioni in merito del Tribunale furono le seguenti:
1) causa 13/1991, in primo grado di giudizio, rinunciata dalla at-
trice. La qualità dolosamente celatale dal convenuto sarebbero stati
disturbi mentali di lui, solo malcertamente illustrati in giudizio;
2) causa 22/1991, in primo grado di giudizio, decisa negativa-
mente per il dolo ma affermativamente per l’incapacità psichica del
convenuto. Infatti, i disturbi di natura psicotica certi e prenuziali di
lui (che sarebbero stati poi l’oggetto del dolo) lo resero senza dub-
bio incapace al matrimonio, con una pronuncia assorbente rispetto a
quella circa l’induzione della comparte in errore;
3) causa 50/1991, di primo grado e conclusa con rinuncia della
attrice. Non risultò infatti provata la sterilità del convenuto, qualità
personale oggetto dell’asserito inganno da lei patito;
362 Paolo Bianchi

4) causa 87/1991, in primo grado di giudizio, decisa negativa-


mente per il dolo e affermativamente per l’incapacità psichica del
convenuto. Anche in questo caso, i disturbi psicotici prenuziali di lui
costituirono per i giudici una prospettiva prevalente di nullità rispet-
to a un asserito inganno del medesimo circa le proprie condizioni di
salute. Chi è certamente incapace di consentire è infatti almeno
dubbio sia capace di ingannare;

5) causa 111/1991, in secondo grado di giudizio. Il Tribunale


confermò solo in parte la decisione di primo grado, che aveva sen-
tenziato affermativamente sia per la esclusione della fedeltà che per
il dolo da parte della convenuta quale soggetto attivo. I giudici di ap-
pello ritennero che una relazione con altro uomo sia fatto volontario
e non una qualità personale (a meno di poterla ricondurre a una in-
capacità del soggetto a osservare la fedeltà);

6) causa 170/1991, in secondo grado di giudizio, confermata


per decreto. Il convenuto avrebbe nascosto artatamente il proprio
carattere difficile, spaccone, arrogante, per farsi sposare dalla attrice
e approfittarsi economicamente di lei;

7) causa 227/1991, in primo grado di giudizio, con sentenza ne-


gativa. Il convenuto era gravato da numerosi debiti, fatto (qualità o
semplice circostanza?) comunque noto alla attrice fin dal fidanza-
mento;

8) causa 281/1991, in primo grado di giudizio, decisa con sen-


tenza negativa. Alla convenuta erano attribuiti gravi disturbi psichici.
Essi vennero in causa dimostrati come problemi neurologici adole-
scenziali del tutto e da anni superati al momento delle nozze, senza
che vi fosse volontà di inganno circa essi da parte della convenuta
stessa;

9) causa 289/1991, in primo grado di giudizio, affermativa. La


qualità oggetto di inganno: la tossicodipendenza del convenuto;

10) causa 298/1991, in secondo grado di giudizio e con senten-


za negativa. La millantata laurea in biologia da parte della convenuta
non aveva avuto infatti alcun ruolo determinante nella emissione del
consenso da parte dell’attore.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 363

Anno 1992
In tale anno furono trattate otto cause sotto la prospettiva del
dolo e tutte in primo grado di giudizio, cosa che si eviterà quindi di
ripetere nella elencazione dei loro esiti concreti:

1) causa 57/1992, decisa negativamente. L’attore asseriva di es-


sere stato ingannato circa l’esistenza di un precedente matrimonio
da parte della convenuta, dispensato per inconsumazione dal S. Pon-
tefice. L’istruttoria non dimostrò l’inganno subìto, anzi, portò a chia-
rire che l’attore conosceva la detta situazione, come poté confermare
il sacerdote che aveva eseguito l’esame dei fidanzati, sul verbale del
quale l’attore stesso aveva apposto la firma proprio immediatamente
sotto i dati relativi alla precedente unione della donna;

2) causa 138/1992, pure decisa negativamente. L’oggetto del


non dimostrato inganno sarebbero state le millantate qualità di “bra-
vo ragazzo”, serio, generoso ecc. che l’attrice aveva creduto di ravvi-
sare in lui prima delle nozze. A parte la genericità delle richiamate
“qualità”, nulla di certo e di grave venne dimostrato nel comporta-
mento del convenuto che potesse con certezza escluderlo dalle dette
categorie;

3) causa 189/1992, decisa negativamente per il dolo, ma affer-


mativamente per il can. 1095, essendosi dimostrato con certezza che
il convenuto era affetto da schizofrenia già prima delle nozze. Come
già in altri casi, la provata incapacità psichica fece presumere la im-
possibilità per il convenuto di essere soggetto attivo del dolo;

4) causa 203/1992, decisa negativamente in quanto fu dimostra-


to che il convenuto non sapeva della propria sterilità prima delle noz-
ze: non avrebbe quindi potuto ingannare l’attrice in merito. La causa
venne decisa invece affermativamente per l’altra ipotesi di errore
sulla qualità della persona, quella prevista dal can. 1097 § 2. Fu infat-
ti provato che l’attrice, smaniosa di avere figli, voleva sposare con in-
tenzione diretta e principale un uomo fertile;

5) causa 214/1992, decisa affermativamente, essendo stata la


donna attrice tenuta all’oscuro della tossicodipendenza del marito, ri-
presa in pieno dopo una terapia, che sembrava riuscita, in una comu-
nità;
364 Paolo Bianchi

6) causa 277/1992, negativa per quanto concerne il dolo ma af-


fermativa per la incapacità psichica dell’uomo, in quanto la tossicodi-
pendenza in cui era immerso era di tale gravità da incidere sulle sue
stesse capacità consensuali;
7) causa 282/1992, decisa affermativamente. La qualità oggetto
di inganno fu che la gravidanza che condusse alle nozze non era
dell’attore in causa, ma di un altro uomo;
8) causa 315/1992, affermativa e dove la qualità oggetto di in-
ganno per ottenere il consenso della attrice fu la tossicodipendenza
del convenuto già da fidanzato. C’erano stati dei dubbi, ma l’uomo
aveva giurato persino di fronte al parroco di nulla avere a che fare
con la droga, inducendo quindi nella fidanzata un vero giudizio falso
circa la propria condizione.

Anno 1993
In tale anno giudiziario vennero trattate ben dodici cause di do-
lo, quattro di primo grado e ben otto in appello. Analiticamente:
1) causa 9/1993, in secondo grado e risolta con conferma della
precedente decisione affermativa. La qualità oggetto di dolo sarebbe
stata la simulazione da parte del convenuto di una complessiva per-
sonalità non corrispondente al reale per mire economiche circa il
matrimonio con l’attrice. Una causa comunque incerta, dal momento
che forse più correttamente la fattispecie avrebbe potuto essere qua-
lificata come una simulazione cosiddetta totale;
2) causa 50/1993, in primo grado di giudizio e con sentenza af-
fermativa in ragione della celata tossicodipendenza del convenuto;
3) causa 164/1993 in secondo grado di giudizio e confermata
dopo un rinvio a esame ordinario, in ragione delle difficoltà di diritto
e di fatto che presentava. La qualità che fu prospettata come oggetto
di dolo fu una maternità della convenuta, avvenuta però anni prima
che ella conoscesse l’attore ed essendo stato dato il figlio in adozio-
ne, senza che la convenuta medesima intrattenesse più alcun rappor-
to con quello. In questo senso, i giudici fra l’altro si interrogarono se
il fatto costituisse una vera e propria qualità personale, ovvero piutto-
sto una circostanza ormai pregressa della vita della convenuta;
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 365

4) causa 237/1993, in secondo grado di giudizio e con conferma


della decisione affermativa di primo grado. La convenuta aveva di-
chiarato una gravidanza in realtà non sussistente, per farsi sposare
dall’incerto fidanzato che la considerava ormai come la madre del
proprio figlio;

5) causa 245/1993, in secondo grado di giudizio e confermante


la decisione affermativa di primo grado. La qualità oggetto di dolo fu
la relazione che la donna intratteneva con altro uomo al tempo delle
nozze. La causa fu in realtà molto dibattuta dai giudici, dal momento
che ad alcuni di essi non pareva che una relazione con altro uomo
rappresentasse una qualità, bensì un fatto volontario, da ricondursi
semmai al fenomeno simulatorio del consenso (contro il bene della
fedeltà o del coniuge);

6) causa 259/1993, in secondo grado e con conferma della deci-


sione affermativa di primo grado, in riferimento alla celata tossicodi-
pendenza del convenuto;

7) causa 264/1993, in secondo grado di giudizio e con esito e


fattispecie identici al caso immediatamente precedente;

8) causa 360/1993, in primo grado di giudizio e con decisione


negativa. Né l’inganno fu provato (e come indirizzato all’ottenimento
del consenso) né fu possibile circoscrivere con precisione la qualità
che ne sarebbe stata l’oggetto, dal momento che la prospettazione
dell’attore non andò al di là delle vaghissime affermazioni per cui
credeva che la fidanzata fosse “davvero innamorata” di lui ovvero ne
condividesse i “nobili sentimenti”, anche in campo religioso;

9) causa 376/1993, in secondo grado e con decreto di conferma


della decisione affermativa di primo grado. Il dolo verté nel caso su
disturbi psichici della convenuta, in questo caso celati a opera dei fa-
miliari di lei che approfittarono del carattere semplice e ingenuo del-
l’attore per... liberarsi della scomoda familiare;

10) causa 387/1993, in secondo grado di giudizio e con riforma


della decisione affermativa di primo grado. A detta della attrice, il
convenuto l’avrebbe ingannata avendo già un figlio da altra donna,
falsamente tranquillizzandola in occasione di dubbi prenuziali in me-
366 Paolo Bianchi

rito. Tuttavia tale paternità non fu giudizialmente provata, non por-


tando l’attrice nulla di più che l’affermazione che il bambino (nato
fra l’altro da donna con diverse relazioni sentimentali) sarebbe molto
somigliante al presunto padre;

11) causa 405/1993, in primo grado di giudizio e con decisione


affermativa. La qualità oggetto di inganno fu la sieropositività al vi-
rus HIV del convenuto, contratta da frequentazioni omosessuali, tut-
te cose ignote alla attrice in causa;

12) causa 408/1993, in primo grado di giudizio e con sentenza


affermativa. Il convenuto nascose alla attrice, prima delle nozze, di
avere contratto una grave e contagiosa malattia venerea.

Anno 1994
In tale anno di attività del TERL vennero proposte nove cause
di nullità matrimoniale nelle quali venne prospettata l’ipotesi del do-
lo: otto in primo grado e una in appello:

1) causa 7/1994, in primo grado di giudizio e formalmente ri-


nunciata dalla parte attrice. Nel corso dell’istruttoria emerse infatti
che né il dolo di cui l’attore si accusava né la sterilità che sarebbe
stato l’oggetto dell’inganno alla comparte erano provati;

2) causa 15/1994, in primo grado di giudizio e decisa negativa-


mente. L’attrice aveva accusato il convenuto di averle celato prima
delle nozze la tendenza a pratiche sessuali assai disordinate, ma l’i-
struttoria provò che la attrice – ancora fidanzata – ben le conosceva,
dal momento che vi prendeva parte e del tutto liberamente;

3) causa 63/1994, in primo grado di giurisdizione e ancora da


decidere. L’oggetto dell’inganno sarebbe la tossicodipendenza del
convenuto;

4) causa 73/1994, in secondo grado di giudizio e decisa con


sentenza negativa in riforma di quella di primo grado. Non risultò in-
fatti che la convenuta fosse a conoscenza – e quindi avesse potuto
dolosamente celare – la compromissione del proprio apparato ripro-
duttivo interno all’attore;
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 367

5) causa 241/1994, in primo grado di giudizio: negativa per il


dolo, ma affermativa per la incapacità del convenuto, gravemente
tossicodipendente. L’attrice fu troppo passiva di fronte agli indizi già
emersi nel fidanzamento e alla realtà emersa dopo le nozze per poter
essere ritenuta effettivamente in stato di errore meritevole di tutela
ai sensi del can. 1098;

6) causa 245/1994, in primo grado di giudizio. La attrice aveva


fondati dubbi circa l’adesione del fidanzato ai Testimoni di Geova e
si “cautelò” con una riserva contro l’impegno della indissolubilità del
matrimonio nel caso egli fosse o divenisse membro della detta setta.
Risultando provato questo difetto del consenso, il Tribunale ritenne
preclusa la possibilità di accertare il vizio del consenso rappresenta-
to dall’errore doloso circa l’appartenenza medesima ai Testimoni di
Geova;

7) causa 274/1994, in primo grado di giudizio e decisa affermati-


vamente. La qualità oggetto di dolo sarebbe stata la non volontà di fi-
gli del convenuto, oggetto fra l’altro di connesso pronunciamento af-
fermativo. Una decisione certo problematica, ritenendo il sottoscritto
che un atto di volontà – quale per esempio l’esclusione della prole –
non possa essere ritenuto alla stregua di una qualità personale;

8) causa 309/1994, in primo grado di giudizio e rinunciata dal-


l’attore. Egli sosteneva di essere stato ingannato dalla fidanzata con
una finta gravidanza per farsi sposare. In realtà la istruttoria accertò
che, quando il matrimonio fu celebrato, non solo detta gravidanza
(vera o falsa che fosse) era già venuta meno a conoscenza anche del-
l’attore, ma che pure questi aveva di nuovo reso gravida la fidanzata
medesima, confermando con fatti inequivocabili la sua adesione a lei;

9) causa 311/1994, in primo grado e ancora da decidere. Qua-


lità personale oggetto di inganno ancora una volta la tossicodipen-
denza del convenuto.
368 Paolo Bianchi

Anno 1995
In tale anno vennero trattate dieci cause per dolo: sei in primo
grado e quattro in appello:
1) causa 48/1995, in primo grado di giudizio. Essa fu negativa
per il dolo circa la tossicodipendenza del convenuto, ma affermativa
per l’incapacità di lui, data la gravità dello stato di intossicazione cro-
nica;
2) causa 61/1995, in primo grado e ancora da definire. L’oggetto
dell’inganno consisterebbe nella (probabile) sterilità del convenuto;
3) causa 77/1995, in secondo grado di giudizio e ancora da de-
cidere. La qualità oggetto di inganno sarebbe la mancanza di fedeltà
da parte del convenuto;
4-5-6) cause 87.103.145/1995, in primo grado e ancora da deci-
dere. Tutte e tre caratterizzate dalla millantata e non sussistente pro-
fessione medica del convenuto, oggetto di errore doloso e determi-
nante subito dalla attrice;
7) causa 160/1995, in secondo grado e ancora da decidere. La
qualità oggetto di inganno sarebbe consistita in una grave affezione
dermatologica ai genitali del convenuto, non rivelata prima delle noz-
ze alla fidanzata;
8) causa 168/1995, in secondo grado e decisa per la conferma
della sentenza affermativa di primo grado. La qualità oggetto di in-
ganno fu la tossicodipendenza del convenuto;
9) causa 178/1995, in primo grado di giudizio e ancora da deci-
dere. Oggetto di inganno sarebbero stati l’uso di droga e la gravità
del disturbo diabetico del convenuto;
10) causa 253/1995, in secondo grado e decisa negativamente,
in riforma della decisione di primo grado. Infatti i provati gravissimi
disturbi mentali della convenuta – che dettero adito alla conferma
della decisione pure di primo grado in materia di incapacità psichi-
ca – resero per i Giudici di appello improponibile il capo di dolo sul
medesimo oggetto, dovendosi considerare incapace di atto umano la
convenuta: quindi incapace anche di dolo.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 369

Anno 1996
Al momento del seminario (17 aprile 1996) sono state introdot-
te, su 72 cause messe a ruolo, due cause per dolo: una in primo e
una in secondo grado ed entrambe ancora da definire:

1) causa 21/1996, in primo grado. Qualità oggetto di inganno:


l’omosessualità e la sieropositività HIV del convenuto;

2) causa 63/1996, in secondo grado. Oggetto del dolo sarebbe


stata la relazione fra il convenuto e una sua segretaria, in corso e na-
scosta all’attrice al momento del matrimonio.

Osser vazioni
Dall’analisi della casistica presentata si possono svolgere – cer-
to in primissima approssimazione – alcune considerazioni.

1) Sul numero totale di cause trattate dal TERL (circa 350-400


per anno) la percentuale di impugnative della validità del matrimo-
nio in ragione del dolo appare essersi stabilizzata attorno a un valore
del tre per cento circa. Personalmente mi appare un valore del tutto
fisiologico, se si tiene conto della complessità della fattispecie, cosa
che riprenderemo quando si tratterà dei problemi probatori della fat-
tispecie medesima.

2) Su 58 cause concluse con sentenza o decreto in secondo gra-


do nel periodo preso in considerazione (dal 1988 in avanti: come vi-
sto alcune cause sono ancora non definite essendo il numero totale
di cause per dolo 69): 25 sono affermative, mentre le restanti 33 so-
no 24 negative, 8 rinunciate o perente per inattività processuale e 1
riassorbita in altra pronuncia essendo il dolo stato concordato in su-
bordine rispetto a una simulazione di consenso (il caso n. 6 del
1994). La percentuale delle affermative è dunque circa del 50% o di
qualche unità inferiore a esso se si considerano anche le cause ri-
nunciate o comunque perente.
Questo dato va però attentamente valutato:
a) da un lato dimostra ancora, seppure genericamente, la com-
plessità della fattispecie e dei problemi probatori connessi;
b) d’altro lato, occorre tener conto che alcune (10: non un nu-
mero irrilevante) delle cause decise negativamente per dolo trovaro-
370 Paolo Bianchi

no risposta affermativa sotto altra qualificazione giuridica, che sem-


brò più rettamente corrispondere alla fattispecie concreta. In parti-
colare, ci si è orientati a ritenere che l’accertamento di una incapa-
cità psichica al matrimonio (soprattutto ex can. 1095, nn. 1 e 2) pre-
cluda – almeno indiziariamente – che allo stesso soggetto possa
essere attribuito il ruolo di deceptor ai sensi del can.1098. Dico “al-
meno indiziariamente” in quanto per sé l’oggetto della capacità con-
sensuale e del dolo sono diversi, non richiedendosi quindi necessa-
riamente lo stesso grado di capacità critiche e di autodeterminazione
per l’imputabilità del relativo comportamento;
c) d’altro lato ancora, non credo debba attribuirsi gran rilievo a
questo dato numerico, in quanto occorrerebbe più analiticamente
studiare per quale motivo la causa medesima abbia trovato risposta
negativa (ovvero la parte si sia orientata alla rinuncia, formale o im-
plicita ex can. 1520): diverso è infatti se l’esito contrario alla doman-
da attorea sia derivato dalla inconsistenza, per così dire concettuale,
della qualità proposta come oggetto del dolo (per esempio il grado di
innamoramento della controparte); ovvero se sia dipeso dalla impos-
sibilità di provare il presupposto oggettivo della fattispecie (per e-
sempio una qualità magari anche ben identificata concettualmente,
ma non dimostrabile: poni la omosessualità o la tossicodipendenza);
ovvero se sia conseguenza del riscontro negativo circa uno dei costi-
tutivi soggettivi della fattispecie, per esempio il dolo specifico, ossia
il suo essere finalizzato all’ottenimento del consenso.

3) Sembra anche, almeno dalla applicazione giurisdizionale del-


la norma da parte del TERL, che le qualitates riconosciute come pos-
sibile oggetto di dolo siano state intese in rapporto a un parametro
piuttosto oggettivo, cioè in generale riferimento alle esigenze del
consorzio di vita coniugale, come del resto la norma in parola sem-
bra dettare (suapte natura), almeno se letta secondo i criteri della
sua interpretazione più comune e usuale in linea del resto con le re-
gole interpretative dettate dalla stessa legge canonica (cf can. 17).

Così sono state intese come rilevanti ai sensi del can. 1098 situa-
zioni per così dire “croniche” del soggetto e strettamente aderenti al-
la sua persona, quali la tossicodipendenza, la sieropositività HIV, il di-
sordine della personalità clinicamente diagnosticato seppure non di
rilievo in se stesso incapacitante ai sensi del can. 1095 (costituendo
quindi autonomo motivo di nullità), la malattia venerea contagiosa.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 371

Così pure sono state intese situazioni per sé riconducibili a un


fatto puntuale (che potrebbero quindi forse concettualmente ascri-
versi al concetto di “circostanza” piuttosto che a quello di “qualità”),
ma che tuttavia segnano profondamente, da un lato, la persona me-
desima dal punto di vista della sua immagine sociale; e, dall’altro, di-
mostrano di avere un sicuro riflesso sullo specifico consorzio di vita
matrimoniale: così l’essere gravida o l’essere già stata madre da un
altro; ovvero il millantato esercizio di una professione ad alto apprez-
zamento sociale e che scolpisce per così dire la personalità globale
del soggetto, quale quella del medico o del funzionario delle forze
dell’ordine.

Non sono state invece considerate meritevoli di essere sussun-


te nel concetto di qualitas così come inteso dal can. 1098 situazioni
assai più fluide e sfumate, sia dal punto di vista concettuale sia dal
punto di vista fattuale e probatorio: quali quella di apparire e non es-
sere un “bravo ragazzo”, soprattutto in difetto di prova di fatti gravi
imputabili al soggetto; ovvero quella del nutrire veri e intensi (come
misurabili?) sentimenti amorosi nei confronti del coniuge (sono poi
una qualità o non piuttosto una circostanza che per definizione – si
parla di un sentimento! – può svanire?). A giudizio del sottoscritto –
nonostante un paio di decisioni in senso contrario sul punto – anche
un atto positivo di volontà contrario a qualche proprietà o elemento
essenziale del matrimonio (per esempio la esclusione della prole o
della fedeltà) non potrebbe essere sussunto sotto il concetto di qua-
lità, dovendosi riferire a un atto puntuale e volontario del soggetto,
per definizione modificabile volontariamente. Tale fattispecie si rife-
rirebbe in altro modo alla responsabilità del soggetto agente e do-
vrebbe trovare altra qualificazione nell’ordinamento matrimoniale
canonico.

4) Né deve indurre in confusione il fatto che casi in cui ricorra


come oggetto del dolo una qualità che è stata sicuramente ritenuta
in linea generale riconducibile al concetto di qualitas ai sensi del
can. 1098 (per esempio la tossicodipendenza) possano avere ottenu-
to a volte decisioni affermative e a volte decisioni invece negative.
Infatti – ciò è del tutto evidente, ma forse è bene richiamarlo –
l’accertamento giudiziale deve portare alla verifica della sussistenza
di tutti i costitutivi della fattispecie normativa per potersi concludere
con una sentenza affermativa. Basta l’impossibilità di prova di uno di
372 Paolo Bianchi

tali elementi – se non addirittura la prova del contrario – per impedi-


re la declaratoria di nullità del matrimonio.
Ciò induce a volgerci ai problemi probatori.

Problemi probatori
I problemi probatori sottesi alla applicazione del can. 1098 sono
davvero ardui ed è ormai divenuta tralatizia la considerazione che la
prova del dolo come vizio del consenso matrimoniale sarebbe di ec-
cezionale impegno. Talora si ritrova l’espressione – certo in sé ec-
cessiva – che quella del dolo ai sensi del nostro canone sarebbe una
probatio diabolica.
È ovvio che in una comunicazione come la presente non posso-
no essere affrontati tutti questi problemi. Mi limito a fare una consi-
derazione di carattere generale e a sviluppare alcune osservazioni
specifiche in ordine ad alcuni particolari problemi di prova.

Considerazione generale
Alcuni Autori presentano la norma di cui al can. 1098 come co-
stituita da tre ovvero da quattro elementi costitutivi.
Sperando di non eccedere in acribia analitica, a me pare che gli
elementi costitutivi della fattispecie normativa siano in realtà cinque.
Ciò non è irrilevante e per due ragioni.
In primo luogo, in quanto è davvero centrale per l’interprete del-
la norma poter identificare con precisione cosa egli debba verificare
per la sua applicazione ai casi concreti.
In secondo luogo, in quanto ogni elemento da verificarsi può
avere – quanto alla sua prova – difficoltà specifiche o anche “stru-
mentari” (per esempio logici, come usuali criteriologie di analisi dei
fatti) peculiari che possono essere utili nella lettura del caso.

A me pare che gli elementi costitutivi della fattispecie normati-


va in esame siano i seguenti cinque.
I primi due concernono i requisiti soggettivi da parte dell’indu-
cente in errore e consistono ne:

1) il dolo: ossia la volontarietà della azione od omissione posta


in essere;
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 373

2) la specificità del dolo: ossia la sua finalizzazione all’ottenimen-


to del consenso matrimoniale di almeno uno dei contraenti (è noto
che – almeno in teoria – si riconosce che l’azione dolosa possa esse-
re esercitata da terzi rispetto ai coniugi interessati).

Il terzo elemento concerne il requisito soggettivo da parte del


deceptus e consiste appunto ne:

3) la situazione di errore in cui si trova il soggetto che patisce


l’inganno e, precisamente, una situazione di errore qualificabile co-
me essenziale, ossia – per esprimerci con la terminologia codiciale
utilizzata in una norma relativa a materia assai affine alla presente
(trattandosi dell’unico altro caso di errore su di una qualità persona-
le rilevante per la validità del consenso matrimoniale) – un errore
causam dans al contratto.

Gli ultimi elementi costitutivi riguardano infine i profili per così


dire oggettivi della fattispecie e, precisamente, richiedono che:

4) l’oggetto dell’inganno sia una qualità personale di uno dei co-


niugi, nonché

5) una qualità che sia per sua natura potenzialmente perturbati-


va del consorzio di vita coniugale.

È ovvio, come sopra accennato, che la prova di ciascuno di questi


elementi propone problemi peculiari e manifesta difficoltà specifiche.

Osser vazioni specifiche


a) Quanto alla dolosità dell’azione dell’inducente in errore, sem-
bra imporsi in dottrina e in giurisprudenza una presunzione di carat-
tere generale, che del resto non fa che applicare al caso specifico il
principio comune di ragione che ciascuno è responsabile dei propri
atti fino a prova del contrario. Precisamente, che: provata una azione
commissiva o omissiva di induzione in errore, si deve presumere
che essa sia stata posta volontariamente.

A proposito di quanto appena detto, non è possibile evitare una


brevissima puntualizzazione.
374 Paolo Bianchi

Si è fatto riferimento a «una azione commissiva o omissiva di in-


duzione in errore». E, in effetti, seppure il dolo sarà normalmente
ordito tramite un atteggiamento “commissivo”, consistente nell’oc-
cultare ciò che è, ovvero nel fingere ciò che non è, non è tuttavia
escluso che esso possa esprimersi anche attraverso un atteggiamen-
to “omissivo”, il che accade quando l’agente si limiti a non trarre il
soggetto che erra dall’errore in cui sa che quegli si trova. Si tratta di
un comportamento che, in una parola, potrebbe venire definito col
termine “reticenza”.
Di ciò si è occupata autorevole dottrina 1 ma anche recente giu-
risprudenza rotale. In particolare, è bene fare riferimento a una deci-
sione c. Burke 25 ottobre 1990 2. In essa viene ricordato che, nel cor-
so dei lavori di redazione del testo del nuovo Codice canonico, venne
deciso in seno alla competente Commissione di non prevedere che il
dolo rilevante come vizio di consenso potesse essere etiam per reti-
centiam patratus. Ciò dovrebbe portare a ritenere che la reticenza,
sia pure avente a oggetto una qualità atta a perturbare gravemente il
consorzio di vita coniugale, non possa essere considerata in via ge-
nerale causa atta a rendere rilevante l’errore ai fini del can. 1098.

Tuttavia, la medesima sentenza sembra proclive a recuperare in


casi particolari quel discorso che intende come impraticabile in via
generale. Afferma infatti: «consensum vitiat occultatio non cuiusvis
qualitatis, sed illius tantum quae autodonationi coniugali essentialis
sit [...] Opinari vero licet quod relatio idealis inter sponsos secumferre
debeat totalem reciprocam aperturam [...] Haud tamen licet affirma-
re coniugale ius ad compartem cognoscendam, vel mutuam auto-reve-
lationis obligationem, absque ullis limitibus exstare. Tale ius vel talem
obligationem referre licet tantum ad id quod autodonationi coniugali
essentiale sit, non vero ad elementa accidentalia, vel tantum “perfecti-
va” huius donationis» (724, n. 7: «vizia il consenso l’occultamento
non di qualsivoglia qualità, ma solo di quella che sia essenziale alla
autodonazione coniugale [...] È lecito ritenere che la relazione ideale
fra i fidanzati debba comportare una apertura reciproca totale [...]
Tuttavia, non è lecito affermare che il diritto del coniuge alla cono-
scenza della comparte, ovvero l’obbligo alla mutua autorivelazione,

1
Cf M.F. POMPEDDA, Annotazioni sul diritto matrimoniale nel nuovo Codice canonico, in GROCHOLEWSKI -
POMPEDDA - ZAGGIA, Il matrimonio nel nuovo Codice di diritto canonico, Padova 1984, pp. 62 e 66.
2
ARRT Dec. LXXXII, 722 ss.
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 375

sussistano senza alcun limite. È lecito riferire tale diritto e tale obbli-
go solo a ciò che è essenziale alla autodonazione coniugale, non in-
vece agli elementi accidentali o soltanto perfezionativi di questa do-
nazione»).
In altre parole, secondo il punto di vista qui recensito, sembra
potersi dire che all’interno della categoria delle qualità personali la
cui presenza (o assenza) è suscettibile di perturbare gravemente la
vita coniugale, ne esistano per lo meno alcune così importanti e si-
gnificative che riguardo a esse, e a esse sole, si configurerebbe il do-
vere non solo morale ma anche giuridico di renderle note alla perso-
na con cui ci si vuole sposare; principio questo che sarebbe quindi
atto a giustificare la conclusione che l’errore su di esse renda nullo il
consenso anche se indotto da mera reticenza.
Naturalmente, così dicendo, non si vuole dimenticare che, in
concreto, molto facilmente le qualità in discorso non saranno soltan-
to sottaciute, bensì positivamente occultate con espedienti, menzo-
gne, astuzie.

b) Quanto alla condizione di errore del soggetto, si debbono fa-


re due osservazioni.
Seppure sia in dottrina sia in giurisprudenza si ribadisca la chia-
ra e talora tralatizia distinzione fra errore (ossia “giudizio falso”) e
semplice ignoranza (ossia semplice “mancanza di conoscenza”) non
mancano voci in dottrina ma soprattutto esempi concreti in giuri-
sprudenza in cui tale distinzione è praticamente disattesa e – ai fini
della applicazione del can. 1098 – si ritiene sufficiente la semplice
ignoranza di una qualità personale del coniuge (soprattutto in caso
di qualità negative), senza che si richieda la dimostrazione che il
soggetto sia passato attraverso quel processo mentale che giunge al-
la formazione di un giudizio sbagliato in merito, ovverosia di un “er-
rore” in senso proprio.
Quanto alla prova dell’errore ai sensi del can. 1098 si trova spes-
so utilizzato lo strumentario logico costituito dai due criteri indiziari
denominati criterium aestimationis e criterium reactionis. In concreto:
l’accertare che il soggetto tenesse alla presenza o all’assenza di una
certa qualità personale nel suo futuro coniuge, nonché il verificare
come esso si sia comportato alla scoperta dell’errore sono considera-
ti elementi indiziari della prova di un vero stato di errore e – ancor
più precisamente – di un errore determinante, ossia causam dans al
consenso matrimoniale.
376 Paolo Bianchi

Va da sé, nell’applicazione di tale criteriologia probatoria della


condizione soggettiva di errore, che i due criteri reactionis et aesti-
mationis non potranno tuttavia essere esigiti con quella nettezza con
cui logicamente debbono riscontrarsi nell’altra fattispecie di errore
sulla qualità personale del coniuge rilevante quale vizio del consen-
so. Infatti, nella ipotesi in parola, ossia quella di cui al can. 1097 § 2,
la qualità personale che è oggetto di errore sarebbe stata in ipotesi
voluta dal soggetto errante in modo “diretto e principale”, ovvero co-
stituita per propria decisione oggetto essenziale della propria volontà
negoziale.

c) Quanto alla specificità del dolo, ovverosia alla sua finalizzazio-


ne all’ottenimento del consenso matrimoniale, ritengo non infondato
rifarsi allo strumentario abitualmente utilizzato per dimostrare il fe-
nomeno, per certi versi analogo, della simulazione di consenso. In-
fatti l’intenzione di carpire all’altro il compimento di uno specifico at-
to giuridico non può che attuarsi attraverso un atto di volontà positi-
vo e finalisticamente orientato in tale senso.
Così, la specificità del dolo sarà dimostrabile attraverso la prova
diretta o materiale, che consiste nella confessione in giudizio dell’in-
ducente in errore, ma soprattutto nella confessione stragiudiziale ri-
portata da testi che conobbero in tempo non sospetto il fine della sua
azione sleale nei confronti dell’indotto in errore.
Inoltre, tale specificità del dolo sarà dimostrabile attraverso la
prova indiretta o logica, desumibile dalle circostanze e dai moventi
riscontrabili nell’agire del soggetto: per esempio se egli tenesse mol-
to al matrimonio; se spingesse per farlo o affrettarlo; se avesse altri
motivi per esercitare l’azione dolosa (per esempio proteggere la sua
buona fama, evitare sanzioni penali).
È chiaro, come del resto avviene nei casi di simulazione, che le
due “vie” di prova spesso potranno concorrere. È pure molto impor-
tante sottolineare il rilievo della via indiretta o logica di prova, che
spesso si trova a essere l’unico strumento utilizzabile dal giudice,
laddove il soggetto attivo del dolo rifiuti una collaborazione nella ve-
rità col Tribunale, cosa che spesso comporta che anche i testi da lui
messi eventualmente a suo tempo al corrente dei suoi intenti si atte-
stino su di un analogo atteggiamento di indisponibilità.

d) Quanto ai due profili oggettivi della fattispecie in esame, non


entro nella questione – più di carattere teorico e dottrinale – della
Esempi di applicazione giurisprudenziale del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori 377

definizione formale del concetto di “qualità” (almeno in rapporto al


dettato del can. 1098) e della interpretazione della potenzialità per-
turbativa della qualità medesima suapte natura in rapporto al consor-
zio di vita coniugale.
Ho già accennato di condividere la lettura piuttosto oggettiva di
tale caratteristica, ossia una lettura da condursi in riferimento alle
esigenze generali del consorzio di vita, anche se non si possono del
tutto trascurare (ma non credo porre in primo piano) le coordinate
culturali, sociali, temperamentali di ogni singolo caso.
Voglio invece sottolineare un problema probatorio (che per sé
concerne anche l’accertamento di altre fattispecie invalidanti il ma-
trimonio) che spesso esercita un peso assai negativo sulla ammini-
strazione della giustizia ecclesiastica, rappresentando un ostacolo a
che la verità processuale adegui la verità obiettiva del caso.
Intendo riferirmi alla difficoltà di ottenere documentazione cli-
nica da Direzioni sanitarie o informazioni da personale medico e
paramedico laddove non vi sia il consenso espresso del diretto inte-
ressato. Questa difficoltà spesso si incontra laddove oggetto del dolo
sono malattie fisiche o psichiche ovvero situazioni tipo la tossicodi-
pendenza.
È giusto riconoscere che la prudenza di medici, Direttori sani-
tari, psicologi ecc. nel rilasciare tali informazioni sia giustificata dalla
esigenza di tutela della riservatezza dovuta all’individuo in un campo
tanto delicato quale quello della salute.
È però non del tutto irragionevole ipotizzare (e la prassi non in-
frequentemente permette di riscontrarlo) che questa situazione pos-
sa risolversi – al di là delle intenzioni – in un’arma di ulteriore vessa-
zione posta in mano a chi ha già una volta operato slealmente.
In altre parole, non appare irragionevole sostenere che il dove-
roso diritto alla riservatezza della persona dovrebbe meglio essere
composto con altri diritti ugualmente fondamentali, quali quello del-
l’accertamento del proprio effettivo status sia ecclesiastico, sia civile.
Lo Stato italiano, anche con pronunciamenti dei suoi supremi
organi giurisdizionali, riconosce la competenza dei Tribunali eccle-
siastici a giudicare della validità dei matrimoni anche cosidetti con-
cordatari, ossia con effetti civili e dà rilievo anche civile alle sentenze
canoniche col meccanismo processuale della delibazione.
Ciò dovrebbe logicamente comportare la implicita ammissione
della possibilità per il giudice canonico di acquisire tutti gli elementi
di prova funzionali a una decisione corrispondente alla giustizia e al-
378 Paolo Bianchi

la verità dei fatti. Tuttavia si deve riconoscere l’assenza di una norma


di rilevanza processuale nell’ordinamento pattizio o civile che con-
senta al giudice ecclesiastico di acquisire autonomamente tali prove,
ovvero anche solo di ottenere l’assistenza del giudice italiano nel
procurarsele.

Anche sotto il profilo della prassi la situazione è assai diversi-


ficata.
In alcune regioni italiane i Tribunali ecclesiastici, in vista di ot-
tenere la detta assistenza, si rivolgono alle Procure della Repubblica,
in altre – con più frequenza – ai Tribunali e con esiti diversi. Alcuni
Tribunali autorizzano l’acquisizione delle cartelle cliniche; altri nega-
no l’autorizzazione. Alcuni Tribunali motivano il loro provvedimento,
altri no. Le stesse norme del C.P.C. sono citate a sostegno di diverse
conclusioni. Pure sotto il profilo formale la casistica varia: non man-
ca il caso di una ordinanza del Presidente di un Tribunale civile di-
rettamente alla Direzione sanitaria perché faccia avere al Tribunale
ecclesiastico il materiale richiesto.
Non sarebbe un esito inutile di questo seminario se la problema-
tica venisse approfondita anche sotto il profilo interdisciplinare. Oltre
a chi meglio potrebbe riflettere sui diritti fondamentali della persona
(di rilevanza costituzionale) e sul loro reciproco coordinamento, an-
che gli esperti di diritto ecclesiastico, di diritto internazionale e di
procedura civile potrebbero portare dei contributi in merito.

PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
379
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 379-390
La pubblicazione di scritti
che espongono nuove apparizioni,
rivelazioni, visioni, profezie, miracoli
o introducono nuove devozioni
di Marino Mosconi

«Non è proibito divulgare – senza l’imprimatur – scritti riguar-


danti nuove apparizioni, rivelazioni, profezie e miracoli» 1; con questa
espressione posta in nota ad alcuni scritti recenti si vuole giustificare
la diffusione di informazioni legate a fatti “straordinari” e prive di un
giudizio positivo da parte dell’Ordinario, presentandola come una lo-
gica conseguenza del fatto che «il concilio Vaticano II ha riconosciu-
to il diritto all’informazione leale fra le persone oneste» 2. La questio-
ne riguarda i molti presunti eventi “straordinari” che vengono conti-
nuamente annunciati in tutti i paesi del mondo e pone interrogativi
rilevanti: si può diffondere, con retta coscienza, qualsiasi informazio-
ne relativa a presunti fatti “soprannaturali”? Quali sono i compiti di
vigilanza che restano affidati all’Ordinario in questo campo?
Il presente articolo si propone di approfondire la problematica
esponendo: la normativa antica, relativa alla proibizione degli scritti;
la svolta introdotta dal concilio Vaticano II, con la conseguente nuo-
va impostazione della questione; la normativa del Codice di diritto
canonico vigente, evidenziando quali vincoli legislativi rimangono in
vigore in relazione alla diffusione di scritti relativi a eventi straordi-
nari di natura soprannaturale.

La normativa precedente il concilio Vaticano II


La norma giuridica preconciliare conosce una limitazione relati-
vamente alla diffusione di scritti su presunti eventi soprannaturali,

1
Così in una nota all’opuscolo Messaggi (vi parla padre Pio).
2
Ibid., richiamando Documentazione Cattolica 1488, 327.
380 Marino Mosconi

che può essere espressa nella formula della «proibizione di pubblica-


re quanto non previamente giudicato positivamente dall’autorità».
Gli istituti giuridici evocati sono sostanzialmente due; «la proibizione
di scritti» e la richiesta di una «censura previa»: si tratta di due stru-
menti che si sono diffusi nel corso dei secoli e che sono finalizzati a
garantire una retta diffusione del sapere tra i credenti, preservando
soprattutto i fedeli meno preparati da errori relativi alla fede o alla
morale.
– Il primo metodo a cui fece ricorso l’autorità ecclesiastica per
evitare la diffusione e lettura di testi giudicati “pericolosi” era la sem-
plice “distruzione con fuoco” degli stessi, imposta autorevolmente e
sotto minaccia di gravi pene. L’introduzione della stampa, in coinci-
denza con la polemica antiluterana del XVI secolo, rende impossibile
la completa distruzione dei testi prodotti in numerose copie e fa pre-
valere nettamente la prassi della “proibizione” di “accedere” (senza
una debita “licenza”) in qualsiasi modo a scritti segnalati dall’autorità
competente come degni di “condanna” 3. Dopo aver ricevuto una pri-
ma formulazione generale nell’ambito del concilio di Trento 4 ed esse-
re stata ampiamente applicata dalla Sacra Congregazione dell’Indice
(istituita nel 1571), la normativa relativa ai libri proibiti viene organiz-
zata in modo sistematico nel Codice di diritto canonico del 1917. Il
can. 1398 precisa il concetto di “proibizione” inteso come non consen-
tire, senza la debita licenza, di pubblicare, leggere, possedere, vende-
re, tradurre e comunicare con altri il contenuto di un determinato
scritto. Quali siano i libri proibiti lo afferma il diritto stesso nel can.
1399 o l’autorità competente ai sensi del can. 1395 in uno specifico at-
to di proibizione (da cui, per quanto di competenza della Sede Aposto-
lica, il cosiddetto “Indice dei libri proibiti” 5); in alcuni casi la proibizio-
ne viene imposta anche con il ricorso a sanzioni penali (cf can. 2318).
– L’obbligo della censura previa riguarda un testo nella fase pre-
cedente alla sua pubblicazione e consiste nell’esigere, quando lo
scritto presenta determinate caratteristiche (per l’argomento trattato
o per l’uso a cui è destinato), un giudizio favorevole dell’autorità
competente, prima di poter procedere alla diffusione a mezzo stam-

3
Cf E. BARAGLI, Una costante preoccupazione pastorale della Chiesa: l’imprimatur, in La Civiltà Cattoli-
ca 126 (1975) 437.
4
La questione viene rimessa al giudizio del Pontefice (Concilio di Trento, sessione XXV, decreto Su-
per indice librorum, catechismo, breviario et missali ); sulla base di questo mandato Pio IV pubblica la
costituzione apostolica Dominici gregis del 24 marzo 1564.
5
La prima versione risale, con Paolo IV, al 1557 e l’ultimo aggiornamento è del 1946.
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 381

pa. L’istituto della richiesta di censura previa viene previsto per la


prima volta a livello di Chiesa universale con la costituzione apostoli-
ca Inter multiplices (di Innocenzo VIII del 17 novembre 1487), la cui
normativa è ripresa autorevolmente dal concilio Lateranense V 6 ed
entra poi a far parte del Codice di diritto canonico del 1917. I cann.
1385-1392 espongono nel dettaglio i diversi generi di scritti che sog-
giacciono all’obbligo di censura previa, mentre il can. 1393 precisa
come deve essere svolto l’esame da parte dell’autorità ecclesiastica:
attraverso l’opera di una persona competente, denominata “censo-
re”, a cui compete un accurato confronto dello scritto con i principi
della dottrina cattolica, in particolare quelli affermati dai Concili ecu-
menici e dalla Sede Apostolica.
Le due prassi così descritte si applicano agli scritti relativi a pre-
sunti eventi soprannaturali da quando i pastori della Chiesa, rilevan-
do abusi in pretese apparizioni e rivelazioni private, riservano all’au-
torità il giudizio in questo campo. La questione emerge in relazione
al problema della beatificazione e della canonizzazione dei santi: l’au-
torità ecclesiastica, dopo essersi semplicemente limitata a ratificare
con sue disposizioni il giudizio del popolo di Dio, sente la necessità
di intervenire riservando il giudizio 7 alla Sede Apostolica. Papa Ur-
bano VIII rende rigorosa la riserva alla Santa Sede vietando ogni for-
ma di culto pubblico che sia previa a un riconoscimento ufficiale e si
premura di proibire la diffusione degli scritti relativi a gesta, miraco-
li o rivelazioni di presunti santi, che non siano stati previamente ap-
provati, «affinché non si introduca la frode, o qualcosa di nuovo e di-
sordinato in una cosa così grave» 8. In alcune risposte successive la
Sacra Congregazione dei Riti 9, dovendo intervenire in questioni rela-
tive alla diffusione di notizie su presunte apparizioni mariane, esten-
de le medesime norme già stabilite da Urbano VIII per i santi e i bea-

6
Cf concilio Lateranense V, sessione X, decreto Super impressione librorum. Ripreso dalla costituzione
apostolica Inter sollecitudines (di Leone X, del 4 maggio 1515).
7
Su questa riserva, attribuita ad Alessandro III (1159-1181), ma attuata in realtà da Gregorio IX (1227-
1241), cf E. PIACENTINI, L’infallibilità papale nella canonizzazione dei santi, in Monitor Ecclesiasticus 117
(1992) 91-132.
8
Cf URBANO VIII, costituzione apostolica Coelestis Hierusalem (5 luglio 1634), in Codicis Iuris Canonici
fontes (a cura di P. Gasparri - I. Seredi), vol. I, Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1947, p. 403: «ne dein-
de fraus, aut aliquid novum, et inordinatum in re tam gravi committeretur». Stesso testo in S.C.S. OFFI-
CII, Decretum (13 aprile 1625), in Codicis Iuris Canonici fontes (a cura di P. Gasparri - I. Seredi), vol. IV,
Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1951, p. 3.
9
Cf S.C.R., Sancti Iacobi de Chile (12 maggio 1877) e S.C.R., Capuana, Portus Aloisii et Sanctissimae
Conceptionis de Chile (12 maggio 1877). Testi in Codicis Iuris Canonici fontes (a cura di P. Gasparri-
I. Seredi), vol.VIII, Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1948, pp. 190-191 e 209-210.
382 Marino Mosconi

ti, pur raccomandando una certa tolleranza nei confronti di chi per-
sonalmente decide di credere alla verità di eventi straordinari su cui
l’autorità si è semplicemente astenuta dal pronunciarsi.
Con la fine del XIX secolo, nel 1897, abbiamo per la prima volta
una proibizione generale relativa agli scritti narranti fatti straordinari
e pubblicati senza la legittima licenza; si tratta dell’art. 13 della costi-
tuzione apostolica di Leone XIII Officiorum ac munerum 10. Il testo
viene ripreso quasi alla lettera dal can. 1399, 5° del Codice del 1917,
nell’elenco dei libri proibiti dal diritto stesso:
«sono proibiti dal diritto stesso: [...] i libri e opuscoli che espongono nuove
apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli, o che introducono nuove
devozioni, anche sotto il pretesto che siano private, se sono stati pubblicati
non osservando le prescrizioni dei canoni» 11.

La nuova visione del concilio Vaticano II


Dopo la conclusione del concilio Vaticano II una delle prime
riforme della normativa ecclesiastica messa in atto riguarda la prassi
della proibizione degli scritti; si tratta di quanto stabilito dalla notifi-
cazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede Post
litteras apostolicas (14 giugno 1966) 12, con la quale viene sostanzial-
mente abolito l’Indice dei libri e, come chiarisce in modo inequivoco
il successivo decreto della stessa Congregazione Post editum (15 no-
vembre 1966) 13, perde forza di legge l’elenco dei testi proibiti dal di-
ritto stesso (can. 1399) e il corrispettivo canone penale (can. 2318).
In tal modo anche per gli scritti relativi a presunti fatti “soprannatu-
rali” e pubblicati senza debita approvazione decade la proibizione
prevista in precedenza.
Il profondo cambiamento legislativo trova la sua radice in due
ambiti fondamentali: il rinnovato clima culturale e la grande riflessio-
ne che la Chiesa ha compiuto su di sé con il concilio Vaticano II.

10
Cf LEONE XIII, Officiorum ac munerum (25 gennaio 1897), art. 13, in Codicis Iuris Canonici fontes (a
cura di P. Gasparri - I. Seredi), vol. III, Typis Polyglottis Vaticanis Romae 1933, p. 507: «Libri aut scrip-
ta, quae narrant novas apparitiones, revelationes, visiones, prophetias, miracula vel quae novas inducunt
devotiones, etiam sub praetextu quod sint privatae, si publicentur absque legitima Superiororum Ecclesiae
licentia, proscribuntur».
11
Cf can. 1399: «Ipso iure prohibentur:... libri ac libelli qui novas apparitiones, revelationes, visiones,
prophetias, miracula enarrant, vel qui novas inducunt devotiones, etiam sub praetextu quod sint privatae,
si editi fuerint non servatis canonum praescriptionibus».
12
Cf testo in EV 2, nn. 705-706.
13
Cf testo in EV Supplementum 1, n. 106.
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 383

Il contesto culturale del mondo occidentale nel XX secolo, so-


prattutto dopo la Seconda Guerra mondiale, è caratterizzato da una
società pluralista e secolarizzata, per la quale la prassi della proibi-
zione dei libri diventa praticamente inefficace: la proibizione di un li-
bro, oltre a non impedirne la diffusione, corre il rischio di essere
una involontaria forma di pubblicità per lo scritto e un motivo di di-
scredito per la credibilità della Chiesa stessa, che si espone al ri-
schio di essere accusata di mancanza di rispetto per la libertà indivi-
duale.
Il concilio Vaticano II mette a fuoco il bisogno di rivedere i prin-
cipi relativi alla circolazione delle informazioni nella società cristiana
e nei rapporti con il mondo: si pensi all’affermazione con cui la costi-
tuzione sulla Chiesa stabilisce il diritto dei fedeli, che talvolta può di-
ventare dovere, «di far conoscere il loro parere su ciò che riguarda il
bene della Chiesa» (LG 37) 14 e il passo con cui il decreto sui mezzi
di comunicazione sociale riconosce il diritto di tutti gli uomini alla
informazione, purché vera e integra nel contenuto e onesta e conve-
niente nel modo (IM 5). In sostanza il concilio Vaticano II introduce
una nuova mentalità, che invita a valorizzare maggiormente nella
Chiesa lo spazio che deve essere riconosciuto alla coscienza matura
dei fedeli 15. Diverse sono le conseguenze di questa impostazione ge-
nerale nel comprendere la realtà ecclesiale e il suo rapporto col te-
ma della diffusione dei testi scritti: si attenua la preoccupazione apo-
logetica nei confronti del mondo; si presta più attenzione ai diritti
della persona; si riscopre il ruolo di ogni fedele nella missione d’in-
segnamento della Chiesa; si ha maggiore consapevolezza della li-
bertà di ricerca e di espressione del teologo 16.
L’indubbio carattere di progresso rappresentato da queste os-
servazioni non attenua in alcun modo, nella sua sostanza, la validità
del principio posto da Urbano VIII 17, secondo il quale in un campo
così grave come quello delle rivelazioni private e dei fatti miracolisti-
ci si deve evitare che i fedeli siano indotti in errore; in particolare so-

14
Testo in EV 1, n. 382: «Suam sententiam de iis quae bonum Ecclesiae respiciunt declarandi».
15
Cf SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, notificazione Post litteras apostolicas, in EV 2,
n. 705: «Ecclesia fidelium maturae conscientiae confidit».
16
Per una esposizione di queste motivazioni cf J.A. CORIDEN, The End of the Imprimatur, in The Jurist
44 (1984) 349-350.
17
La cui validità viene espressamente ribadita dalla costituzione apostolica di Giovanni Paolo II, Divi-
nus perfectionis magister (25 gennaio 1983), n. 2. Cf EV 8, n. 553.
384 Marino Mosconi

no due i punti su cui i pastori della Chiesa non possono non essere
vigilanti: evitare di indurre confusione su quale sia la posizione auto-
revole della Chiesa sulla veridicità di un evento soprannaturale (con
tutte le conseguenze relative al “culto pubblico”); impedire che siano
attribuiti a Dio, alla Madonna o ai santi messaggi la cui coerenza con
la rivelazione sia perlomeno dubbia. In questa linea si ricordi che il
Vaticano II rivaluta e sottolinea l’importanza della centralità della ve-
rità rivelata, che non può essere messa in discussione da rivelazioni
private (DV 4) 18 ed evidenzia inoltre l’urgenza di riscoprire un auten-
tico culto dei santi, evitando abusi, eccessi o difetti (LG 51) 19.
Per quanto riguarda specificamente l’utilizzo degli scritti si noti
che la notificazione Post litteras apostolicas, pur abolendo l’Indice dei
libri proibiti, ne ribadisce la forza morale: «in quanto ammonisce la
coscienza dei cristiani a guardarsi, per una esigenza che scaturisce
dallo stesso diritto naturale, da quegli scritti che possono mettere in
pericolo la fede e i costumi» 20. Questa ammonizione impegna a mag-
gior ragione i responsabili dei mezzi di comunicazione di massa (IM
11), che più di altri sono impegnati «a formare e diffondere opinioni
pubbliche rette» (IM 8) 21.
In conclusione si può affermare che la dottrina del Vaticano II
invita a superare strumenti che non sono più proponibili nella so-
cietà di oggi, quale la proibizione degli scritti, e punta il suo interes-
se sull’opera pastorale della formazione delle coscienze dei fedeli,
per una duplice finalità: imparare a rapportarsi con il mondo delle
comunicazione di massa (dal punto di vista del “produttore” come da
quello dell’utente); costituire una minima cultura religiosa di base
che consenta di distinguere quanto coerisce con la verità rivelata da
quanto si allontana da essa (discernimento affidato al «senso di fede
dei fedeli», LG 12). Il Concilio non rinnega poi l’importanza di man-
tenere una debita vigilanza dell’autorità ecclesiastica sulla diffusione
di notizie relative a fatti straordinari di presunta origine soprannatu-
rale e questo perché, intervenendo opportunamente nei casi in cui
sia necessario, si eviti che un ricorso troppo affrettato al miracolisti-

18
Testo in EV 1, n. 876: «nulla iam nova revelatio publica expectanda est ante gloriosam manifestatio-
nem Domini nostri Iesu Christi».
19
Testo in EV 1, n. 424: «omnes ad quos spectat hortatur, ut si qui abusus, excessus vel defectus hic illicve
irrepserint, eos arcere aut corrigere satagant ac omnia ad pleniorem Christi et Dei laudem instaurent».
20
Testo in EV 2, n. 705: «quatenus Christifidelium conscientiam docet, ut ab illis scriptis, ipso iure natu-
rali exigente, caveant, quae fidem ac bonos mores in discrimen adducere possint».
21
Testo in EV 1, n. 256: «ad rectas publicas opiniones efformandas atque pandendas».
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 385

co e allo straordinario oscuri quel quadro dottrinale incentrato sul


mistero rivelato che il Concilio stesso ha contribuito a riscoprire e a
ricomprendere nella sua purezza dottrinale.

La normativa del Codice di diritto canonico del 1983


Non si vuole qui riproporre tutta la normativa del Codice vigen-
te relativa alla diffusione degli scritti, ma semplicemente rispondere
alla domanda se, sotto il profilo strettamente giuridico, dopo la sop-
pressione del can. 1399 del Codice del 1917 restano ancora alcuni
vincoli relativamente alla pubblicazione di scritti che riguardino pre-
sunti eventi soprannaturali.
In primo luogo la legislazione universale vigente relativa agli
scritti (introdotta dal decreto della Sacra Congregazione per la Dot-
trina della Fede Ecclesiae pastorum del 19 marzo1975 22 e recepita nei
cann. 822-832 del Codice del 1983) non prevede più lo strumento
della proibizione canonica 23, anche se questo istituto resta in vigore
nel Codice dei canoni delle Chiese d’oriente (can. 652 § 2) e potreb-
be essere previsto dalla legislazione particolare 24. In luogo della
proibizione la notificazione Post litteras apostolicas prevedeva la pos-
sibilità della «riprovazione» di uno scritto per provvedere al bene del-
le anime, e il can. 823 § 1 riconosce tale strumento come un autenti-
co «dovere e diritto» dei pastori della Chiesa (dei vescovi, singoli o
riuniti in Conferenze episcopali, per i fedeli a loro affidati, e della
Santa Sede e del Concilio ecumenico, per tutti i fedeli): «riprovare gli
scritti che portino danno alla retta fede o ai buoni costumi» 25. La ri-
provazione si presenta nella sostanza come uno strumento simile al-
l’antica “proibizione” (anche se si differenzia, non prevedendo più le
conseguenze canoniche di cui al can. 1398 del 1917) e soffre di limiti
analoghi (scarsa efficacia pratica e difficoltà a essere compresa nel
contesto culturale attuale 26); per questo motivo è poco usata e si pre-

22
Testo in EV 5, nn. 1203-1220.
23
Ancora applicata per gli scritti relativi alle presunte apparizioni della Madonna ad Amsterdam; cf SA-
CRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, In merito (25 maggio 1974), in EV Supplementum 1,
n. 493.
24
Sulla base del dovere di cui al can. 386 § 2 e secondo le facoltà previste dal can. 391 § 1; così argo-
menta: C.J. ERRAZURIZ, Il Munus Docendi Ecclesiae: diritti e doveri dei fedeli, Giuffrè, Milano 1991,
p. 101.
25
Cf can. 823 § 1: «reprobandi scripta quae rectae fidei aut bonis moribus noceant».
26
Per queste osservazioni cf F.J. URRUTIA, De limitibus scribendi fidelium iuxta legem canonicam, in Pe-
riodica de re morali, canonica et liturgica 65 (1976) 532-533.
386 Marino Mosconi

senta come poco opportuna per una efficace limitazione della diffu-
sione di scritti relativi a fatti straordinari su cui l’autorità ecclesiasti-
ca abbia espresso parere negativo. Nonostante questi limiti l’autorità
ecclesiastica potrà comunque fare ricorso alla riprovazione, conside-
randola un mezzo estremo nel caso di testi veramente pericolosi per
il bene delle anime o che comunque inducono grande confusione nei
fedeli e nel caso in cui si rivelino inefficaci altri mezzi di correzione.
Un giudizio di tale gravità potrà essere utilmente lasciato alla compe-
tenza della Congregazione per la Dottrina della Fede (stabilita su
questo argomento dalla costituzione apostolica Pastor Bonus del 28
giugno 1988 all’art. 51), sia per la portata universale che assume il
tema delle “apparizioni e rivelazioni” nella attuale società dell’infor-
mazione, sia per la particolare competenza richiesta per procedere a
tale tipo di giudizi.
In questa linea non si può escludere neanche la possibilità che si
renda necessario, nei confronti di un atteggiamento di persistente di-
sobbedienza alle indicazioni dell’autorità sulla non divulgazione di
scritti relativi a presunte apparizioni o rivelazioni con contenuti nocivi
per la fede e la morale, il ricorso a vere e proprie sanzioni disciplinari
o penali 27: nella forma del precetto penale (can. 1319: imponendo di
cessare nel divulgare una certa opera sotto la minaccia di una con-
grua pena) o applicando alcuni canoni penali già previsti (can. 1389
§ 1 sull’abuso del proprio ufficio; can. 1371, 2° per l’atteggiamento di
disobbedienza; can. 1371, 1° per questioni di fede non ereticali 28...);
eventualmente ricorrendo anche alla competenza penale della Con-
gregazione per la Dottrina della Fede (Pastor Bonus, art. 52). Il ricor-
so a questi mezzi deve considerarsi veramente estremo, anche per le
aspre polemiche a cui potrebbe dare luogo, ma può essere opportuno
per ottenere due effetti: rendere a tutti chiaro e inequivoco quale sia
l’opinione dell’autorità ecclesiastica su un presunto evento sopranna-
turale; fare percepire ai fedeli “in errore” quanto sia grave il loro at-
teggiamento di disobbedienza in questa materia.
Strumento più consueto per un controllo della corretta diffusio-
ne degli scritti nella Chiesa è la richiesta di un giudizio autorevole
previamente alla stampa. Questa prassi è prevista dalla normativa vi-

27
Sul ricorso a questi mezzi disciplinari e penali cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, In-
structio quoad aliquos adspectus usus instrumentorum communicationis socialis in doctrina fidei traden-
da, 2 a, in Communicationes 24 (1992) 20.
28
Nel caso di eresia formale va da sé l’applicazione delle pene di cui al can. 1364.
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 387

gente in sostanziale continuità con la tradizione precedente, anche


se con una forte limitazione (si pensi all’ampiezza delle indicazioni
del can. 1385 del Codice del 1917) delle categorie di scritti assogget-
tate all’obbligo del giudizio previo. Il Codice del 1983 «raccomanda»
di sottoporre alla censura previa ogni scritto che in qualche modo ri-
guardi «la religione» (can. 827 § 3) e certamente gli scritti relativi a
rivelazioni, miracoli, apparizioni o profezie rientrano in tale catego-
ria, ma non si stabilisce per essi un espresso obbligo giuridico. Un
autentico vincolo normativo è stabilito con la riserva all’autorità ec-
clesiastica della pubblicazione dei testi liturgici (cann. 826 § 1-2 e
838 §§ 2-3), e con la richiesta di previa licenza per la pubblicazione di
libri di preghiera, sia per l’uso pubblico che privato (can. 826 § 3): in
questo campo l’ordinario deve vigilare affinché non si propongano
alla devozione dei fedeli testi di preghiere derivate da presunti fatti
straordinari che siano dubbi quanto alla correttezza del loro conte-
nuto e deve garantire altresì che non si propugni il culto pubblico
verso persone non ancora beatificate o santificate dalla legittima au-
torità 29. Si noti che la licenza eventualmente concessa per la pubbli-
cazione di un libro di preghiere relativo ad alcuni eventi straordinari
non costituisce in alcun modo una “ufficializzazione” della verità di
tali eventi, ma semplicemente attesta la non contrarietà dello scritto
alla fede e alla morale (can. 830 § 2) 30.
Molto importante è la prescrizione del can. 827 § 4 secondo cui
senza licenza o successiva approvazione dell’autorità ecclesiastica
nelle chiese e negli oratori non possono essere venduti, esposti o an-
che semplicemente «dati» (distribuiti in forma gratuita o messi a di-
sposizione su un tavolo all’interno del luogo sacro) «libri o altri scrit-
ti» che trattino di religione o di costumi. La legge canonica stabilisce
questa limitazione per evitare che i fedeli possano essere in qualsiasi
modo tratti in inganno in materia di religione proprio nella casa del
Signore, che è il luogo a cui istintivamente ogni fedele riconosce una
certa autorevolezza e ufficialità: contraddice apertamente questa
prassi la diffusione in una chiesa o oratorio di libri, opuscoli o stam-
pati di vario genere (sul concetto di “libri” cf il can. 824 § 2) relativi

29
La riserva all’autorità ecclesiastica del riconoscimento al culto pubblico per santi e beati è affermata
nel can. 1187; per uno studio sulla questione cf F. D’OSTILIO, Il culto dei santi beati venerabili servi di
Dio, in Monitor Ecclesiasticus 117 (1992) 63-90.
30
Sull’ipotesi che la “licenza” implichi un minore coinvolgimento dell’autorità ecclesiastica rispetto alla
“approvazione”, cf C.J. ERRAZURIZ, Gli strumenti di comunicazione sociale e in specie i libri, in AA.VV., La
funzione di insegnare della Chiesa, Glossa, Milano 1994, p. 115.
388 Marino Mosconi

ad apparizioni o rivelazioni particolari e del tutto privi di una qualche


approvazione ecclesiastica.
Ai testi sottoposti all’obbligo di censura per diritto universale il
vescovo diocesano può poi aggiungere particolari categorie (can.
823 § 1) e quindi, se ne abbia fondati motivi, può esigere con precet-
to singolare (can. 49) che gli scritti relativi ad apparizioni, rivelazioni
e miracoli siano sottoposti al suo giudizio 31.
Alle indicazioni relative al giudizio previo si aggiunge, per i soli
membri di istituti religiosi, l’obbligo particolare di una licenza del
proprio Superiore maggiore per pubblicare scritti relativi alla religio-
ne (can. 832), e certamente gli scritti relativi a eventi soprannaturali
rientrano in questo ambito.
Per tutti i casi in cui si esige il previo giudizio dell’autorità com-
petente sarà evidentemente premura dell’Ordinario garantire la mas-
sima correttezza nell’analisi del testo scritto, rifuggendo da ogni pre-
giudizio e motivando adeguatamente ogni eventuale diniego (can.
830 § 3).
Un’ultima annotazione deve essere fatta relativamente ai nuovi
mezzi di comunicazione di massa presenti nella società di oggi; a essi
non si rivolge direttamente il presente studio (relativo agli “scritti”)
ma è evidente il dovere dei pastori della Chiesa di vigilare sul modo
in cui anche questi strumenti diffondono le notizie di presunti eventi
soprannaturali. In particolare la prima preoccupazione sarà quella di
promuovere la presenza, in trasmissioni relative a fatti religiosi, di
«persone degne e preparate» (IM 11) 32, facendo ogni sforzo per tra-
smettere con chiarezza, in modo comprensibile agli uomini del no-
stro tempo, quale sia la posizione dell’autorità ecclesiastica, di modo
che i fedeli che si riconoscono cattolici possano adempiere al pro-
prio dovere di «informarsi tempestivamente dei giudizi che in queste
materie vengono dati dalla competente autorità, e di attenervisi se-
condo le norme della retta coscienza» (IM 9b) 33. Il Codice contiene
anche un invito a stabilire norme (da parte della Conferenza episco-
pale) sulla partecipazione di chierici e membri di istituti religiosi a

31
Su questa eventualità cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Instructio quoad aliquos ad-
spectus usus instrumentorum communicationis socialis in doctrina fidei tradenda, 8 § 2, in Communica-
tiones 24 (1992) 23.
32
Testo in EV 1, n. 262: «personis dignis ac peritis».
33
Testo in EV 1, n. 258: «sese tempestive certiores faciendi de sententiis quae his in rebus a competenti
auctoritate ferantur, atque eisdem secundum rectae conscientiae normas obsequendi».
Scritti circa nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli e nuove devozioni 389

trasmissioni radiofoniche o televisive su temi attinenti la dottrina cat-


tolica o i costumi (can. 831 § 2 e, in modo più generale, can. 653 del
Codice orientale).

Conclusioni
In sostanza il concilio Vaticano II invita i pastori della Chiesa a
un atteggiamento di libertà e fiducia verso i fedeli, tollerando nel
campo delle rivelazioni private quel sereno dibattito che può accom-
pagnare eventi non ancora riconosciuti, ma non ancora condannati
ed evitando di ripetere alcuni errori commessi nel passato con meto-
di di intolleranza nel servizio alla verità 34. In questo contesto alcuni
strumenti giuridici, come quello della proibizione degli scritti, non
sembrano più attuali e praticabili.
La riscoperta della centralità della rivelazione pubblica, suscitata
dal dibattito conciliare, invita però la Chiesa a mantenere alta la vigi-
lanza sulle presunte rivelazioni private, per garantire una retta com-
prensione del loro rapporto con la storia della salvezza e per evitare
che la diffusione di messaggi di dubbia autenticità e di dubbia coe-
renza con il piano salvifico sia di ostacolo nella comprensione della
centralità del mistero divino. Questa vigilanza si esprime in diverse
attenzioni che possono essere sinteticamente ricondotte allo schema
seguente:
– la Chiesa si prende a cura la formazione delle coscienze dei
credenti, educando a una retta comprensione dei contenuti centrali
della rivelazione pubblica e a un rapporto maturo con i mezzi di dif-
fusione delle informazioni (in particolare i mezzi di comunicazione
di massa), perché ogni credente sia messo in condizione di discer-
nere al meglio ciò che viene da Dio e ciò che viene dall’uomo;
– la diffusione di testi particolarmente importanti per la vita spi-
rituale del credente, quali i testi di preghiera (can. 826) e tutto ciò che
viene offerto ai fedeli nell’ambito di un luogo sacro (can. 827 § 4), de-
ve essere sottoposta al previo giudizio dell’autorità competente;
– l’autorità ecclesiastica ha il compito di far conoscere con chia-
rezza la propria posizione davanti ai diversi fenomeni soprannaturali
(can. 386 § 2), evitando che si intenda come “ufficiale” ciò che appar-
tiene alla sfera delle opinioni private, e ha il dovere di intervenire,

34
Cf GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), n. 35.
390 Marino Mosconi

esigendo per esempio per legge particolare la licenza previa alla


stampa, quando si trova davanti a prevedibili comportamenti scor-
retti in questo campo (can. 823 § 1);
– davanti a presunti fenomeni soprannaturali che ledono nel lo-
ro contenuto la verità della fede e dei costumi o costituiscono un au-
tentico inganno per i credenti più semplici, i pastori della Chiesa pos-
sono ricorrere alla “riprovazione” di uno scritto (can. 823) 35;
– se nel campo delle rivelazioni private si verifica un fenomeno
particolarmente grave di disobbedienza, che arriva a minacciare se-
riamente la verità della fede, può essere necessario anche un vero e
proprio intervento sanzionatorio, sia in senso disciplinare che in sen-
so strettamente penale (secondo i principi del can. 1341).
Il principio superiore a cui devono ispirarsi i pastori è quello di
una generale libertà di fondo, senza trascurare di intervenire autore-
volmente nei pochi casi previsti espressamente dal diritto e ogni vol-
ta che la preoccupazione per il bene delle anime lo rende necessario;
secondo una nota espressione ripresa dal Concilio, l’autorità eccle-
siastica deve garantire che tra i fedeli «ci sia unità nelle cose neces-
sarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità» (GS 92 b) 36.

Marino Mosconi
Piazza Fontana, 2
20122 Milano

35
Cf sugli scritti di Vassula Ryden: CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Notificazione (6 otto-
bre 1995).
36
Testo in EV 1, n. 1639: «sit in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas».
Hanno collaborato a questo numero:

DON MASSIMO CALVI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Cremona

DON EUGENIO ZANETTI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario di Bergamo

DON MAURO RIVELLA


Responsabile dell’avvocatura della Curia arcivescovile di Torino

DON GIAN PAOLO MONTINI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Brescia

DON EGIDIO MIRAGOLI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Lodi

DON PAOLO BIANCHI


Vicario giudiziale aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo

DON MARINO MOSCONI


Addetto di Cancelleria della Curia di Milano
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

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QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
397 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO IX
400 Le Conferenze episcopali N. 4 - OTTOBRE 1996
di Giorgio Feliciani
421 Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali DIREZIONE ONORARIA

di Mauro Rivella Jean Beyer, S.I.


433 Le Conferenze episcopali DIREZIONE E REDAZIONE
e i Sinodi delle Chiese orientali Francesco Coccopalmerio
di G. Paolo Montini Paolo Bianchi - Massimo Calvi
449 La produzione normativa Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
Silvia Recchi - Carlo Redaelli
della Conferenza episcopale italiana
Mauro Rivella
di Massimo Calvi
Giangiacomo Sarzi Sartori
476 Commento a un canone Gianni Trevisan
«La celebrazione eucaristica Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1)
di Giuliano Brugnotto SEGRETERIA DI REDAZIONE
G. Paolo Montini
483 Vita consecrata: le questioni aperte Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
“Istituti misti” e nuove aggregazioni Tel. (030) 37.121
di Gianfranco Ghirlanda
495 Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio PROPRIETÀ

XII. Il consenso condizionato Istituto Pavoniano Artigianelli


di Paolo Bianchi Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano

AMMINISTRAZIONE
Editrice Àncora
Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Tel. (02) 345608.1

STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

ABBONAMENTI PER IL 1996


Italia: L. 20.000
Estero: L. 27.000
Via Aerea L. 37.000
Un fascicolo: L. 7.000
Fascicoli arretrati: L. 14.000
C/C Postale n. 31522204
intestato a: Editrice Àncora
Autorizzazione del Tribunale di
Milano n. 752 del 13.11.1987
Nulla osta alla stampa:
Milano, 27-12-1996, don Franco Pizzagalli Spedizione in abb. postale comma 27
Imprimatur: Milano 3-1-1997, Angelo Mascheroni Vic. ep. art. 2 legge 549/95 - Milano
397

Editoriale

Una rilettura spassionata della stagione ecclesiale postconcilia-


re non può non riconoscere il ruolo che le Conferenze episcopali na-
zionali hanno giocato nella recezione degli orientamenti del Vatica-
no II e nell’attuazione operativa delle riscoperte funzioni dell’episco-
pato e delle Chiese particolari. Per quanto non siano mancate diretti-
ve autorevoli, è constatazione comune che il periodo conciliare è sta-
to dominato dall’incertezza circa la natura teologica e giuridica di
queste istituzioni, con evidenti riflessi in ordine alla delimitazione
delle loro finalità e dei compiti. Ciò fu chiaro all’Assemblea straordi-
naria del Sinodo dei Vescovi, tenutasi nel 1985 per celebrare i ven-
t’anni dalla conclusione del concilio Vaticano II, che nella Relazione
finale espresse così il desiderio di vedere manifestata più compiuta-
mente la natura delle Conferenze episcopali:
«Poiché le Conferenze episcopali sono tanto utili, anzi necessarie, nell’odier-
no lavoro pastorale della Chiesa, si auspica che venga più ampiamente e pro-
fondamente esplicitato lo studio del loro status teologico e soprattutto il pro-
blema dell’autorità dottrinale» (II, c, 8b).

In seguito a tale indicazione, la Congregazione per i Vescovi pre-


parò un Instrumentum laboris, inviato per la consultazione agli organi-
smi competenti nel 1987. Se non si è giunti sinora a un testo definiti-
vo, è forse perché il testo presentato parve esprimere una prospettiva
interpretativa troppo angusta, ma anche perché è davvero difficile al
momento presente formulare una parola definitiva sulla natura teolo-
gica e i conseguenti compiti operativi delle Conferenze episcopali.
Consapevole della complessità del tema e nel contempo della
necessità che la questione venga compiutamente affrontata, perché
398 Editoriale

troppo grande è la posta in gioco, la nostra Rivista propone nella par-


te monografica del presente numero una visione d’insieme di quanto
oggi si può affermare circa le Conferenze episcopali e offre alcuni
spunti che possano servire per ulteriori approfondimenti.
Siamo infatti convinti da una parte che solo partendo dalla pro-
spettiva teologica, ovvero dalla riflessione sui presupposti ecclesiolo-
gici di tali organismi e sulla loro organica connessione con la struttu-
ra costituzionale della Chiesa, è possibile giungere a definirne in mo-
do non arbitrario o avventato le finalità e gli ambiti operativi. D’altro
canto, non è possibile in tale processo ignorare quali compiti le Con-
ferenze episcopali abbiano concretamente svolto nella stagione post-
conciliare, sotto la spinta delle urgenze pastorali e delle necessità via
via emergenti, così come è necessario considerare gli orientamenti
normativi contenuti nel Codice vigente.

Nel primo articolo viene offerta una puntuale sintesi dello sta-
tus quaestionis, indicando quali aspetti possano oggi ritenersi acqui-
siti nella riflessione teologica e canonistica e quali invece necessitino
di ulteriore definizione (Feliciani).
Sono poi illustrati, alla luce della vigente normativa, quali deci-
sioni e pronunciamenti competano a tali organismi, indicando inoltre
in che misura vincolino i vescovi che ne fanno parte e i fedeli a loro
soggetti (Rivella).
Nel tentativo di aprire ulteriori vie per l’approfondimento della
natura e funzione delle Conferenze episcopali, si instaura un’analisi
parallela fra le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese cattoli-
che orientali (Montini): lo scopo è di indicare non già un concreto
ius condendum per le Conferenze episcopali, quanto piuttosto di pre-
sentare linee ispiratrici a partire da un ordinamento giuridico, quale
quello orientale, in cui più forte è stata la sperimentazione di struttu-
re collegiali e di istanze intermedie nella costituzione della Chiesa.
Anche in questo modo si risponde all’invito che il Papa più volte ha
rivolto alla Chiesa tutta, di respirare cioè con i due polmoni, la tradi-
zione occidentale e orientale.
Viene infine ripercorsa la produzione normativa della Conferen-
za episcopale italiana, focalizzando l’attenzione sulla legislazione com-
plementare successiva al CIC e sulla normativa di attuazione della
revisione concordataria (Calvi). Lo scopo non è di presentare un bi-
lancio critico del diritto particolare italiano, quanto piuttosto di infor-
mare degli interventi normativi e orientativi della Conferenza episco-
Editoriale 399

pale italiana negli ultimi anni, fornendo le indicazioni per un facile re-
perimento dei testi. Si tratta, in verità, di testi normativi che i Quader-
ni di diritto ecclesiale hanno già affrontato, nella maggior parte, nella
rubrica di commento alle delibere CEI. All’occorrenza nell’articolo si
farà riferimento a tali approfondimenti.

La seconda parte del fascicolo si apre con il commento al cano-


ne 932 § 1 (Brugnotto). Viene affrontata la questione canonica e pa-
storale insieme del luogo della celebrazione eucaristica. Il testo del
canone commentato rappresenta un equilibrio fra l’esigenza del luo-
go sacro e l’esigenza della vicinanza della celebrazione nelle più sva-
riate situazioni di vita del singolo e della comunità cristiana.
Si introduce poi una rubrica che accompagnerà i lettori per un
anno circa nella individuazione dei punti difficili e rimasti aperti do-
po la pubblicazione dell’Esortazione apostolica postsinodale Vita
consecrata. Lo stesso documento pontificio infatti prevede esplicita-
mente in alcuni casi la istituzione di Commissioni di studio che forni-
scano ulteriori elementi per una decisione successiva. Così, in meri-
to ad «alcuni Istituti religiosi, che nel progetto originario del fondato-
re si configuravano come fraternità, nelle quali tutti i membri –
sacerdoti e non sacerdoti – erano considerati uguali tra di loro», pur
avendo i Padri sinodali «espresso il voto che in tali Istituti sia ricono-
sciuta a tutti i religiosi parità di diritti e di obblighi, eccettuati quelli
che scaturiscono dall’Ordine sacro», per esaminare e risolvere i pro-
blemi connessi con questa materia è istituita un’apposita commissio-
ne (cf VC 61). Si tratta del problema dei cosiddetti “Istituti misti”, che
qui viene affrontato e per chiarificarlo e per individuare una qualche
linea di risposta (Ghirlanda). Nei prossimi fascicoli si affronteranno i
temi delle nuove forme di vita consacrata, della clausura e della colla-
borazione con i laici.
Continua poi la rubrica sul matrimonio, in vista di un primo aiu-
to da parte dei pastori d’anime a coniugi che, in difficoltà, si chiedo-
no se il proprio matrimonio non sia stato viziato fin dall’inizio, così
da essere nullo (Bianchi). Viene in questo caso affrontato il tema
della nullità matrimoniale per una condizione apposta al momento
della celebrazione.
400
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 400-420
Le Conferenze episcopali
di Giorgio Feliciani

Le Conferenze episcopali possono senz’altro considerarsi come


un istituto discusso in quanto, mentre nel primo decennio di ricezio-
ne del Vaticano II c’è stato un «pieno riconoscimento» della loro effi-
cienza pastorale, nel periodo successivo si sono levate non poche
«voci di allarme provenienti da organismi del governo centrale della
Chiesa e da alcuni teologi e canonisti» per denunciare il pericolo sia
di «nazionalismi ecclesiastici pericolosi per l’unità della Chiesa» sia
di inaccettabili limitazioni dell’autonomia dei vescovi diocesani 1.
Tali preoccupazioni hanno avuto modo di manifestarsi anche
nell’Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi del di-
cembre 1985 che, nella relazione conclusiva dei propri lavori, pur
confermando l’utilità e la necessità delle Conferenze episcopali, ha
auspicato uno studio approfondito del loro statuto teologico 2. L’impe-
gnativo compito è stato poi affidato dal Pontefice al Prefetto della
Congregazione per i Vescovi, con l’indicazione di avvalersi della con-
sultazione delle Chiese locali e della collaborazione degli organi rap-
presentativi e competenti della Curia romana 3. Si è giunti così alla
redazione di un primo Instrumentum laboris che è stato sottoposto
all’attenzione dei diversi episcopati 4. Come meglio si mostrerà in se-

1
Cf A. ANTÓN, Lo statuto teologico delle conferenze episcopali, in AA.VV., Natura e futuro delle Conferenze
episcopali, Bologna 1988, p. 202.
2
Cf SINODO DEI VESCOVI, Relatio finalis, 7 dicembre 1985, II, C, n. 8, lett. b (EV 9, n. 1809).
3
Vedi l’allocuzione ai Cardinali e alla Curia romana, 28 giugno 1986, n. 7, lett. c, in Insegnamenti di
Giovanni Paolo II, IX.1, Città del Vaticano, 1987, pp. 1963-1964.
4
Cf CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Instrumentum laboris sullo «status» teologico e giuridico delle confe-
renze episcopali, 1° luglio 1987 (EV 10, nn. 1844-1913).
Le Conferenze episcopali 401

guito le reazioni di questi ultimi si sono rilevate talmente critiche da


richiedere una profonda rielaborazione del documento che a tutt’og-
gi non ha ancora visto la luce.

Dalle origini alla codificazione postconciliare


Per comprendere il significato di tante preoccupazioni e incer-
tezze intorno alle Conferenze episcopali è opportuno, innanzitutto,
ricordare che si tratta di un istituto relativamente recente che non
sembra avere ancora trovato un assetto stabile e definitivo. Le sue
origini risalgono, è noto, alla metà del secolo scorso quando la costi-
tuzione degli Stati nazionali, la secolarizzazione delle istituzioni, la
crescente socializzazione della vita cominciano a richiedere una con-
sultazione sistematica tra i vescovi appartenenti a una stessa nazione
in funzione della realizzazione di iniziative comuni dirette a far fronte
alle nuove esigenze della evangelizzazione.
Nascono, così, per spontanea iniziativa di alcuni episcopati dap-
prima e con il deciso appoggio della Santa Sede poi, le Conferenze
che periodicamente e molto frequentemente riuniscono i vescovi di
uno stesso Stato e sono dotate di organismi permanenti per assicura-
re uno stabile coordinamento delle attività pastorali.
Nei decenni successivi lo sviluppo dell’istituto continua senza
interruzioni fino ad assumere un ritmo nuovo e più dinamico con il
pontificato di Pio XII che si adopera per la sua diffusione in tutto l’or-
be cattolico anche mediante iniziative di portata continentale. Ma è
al Vaticano II che si impone l’esigenza di dotare le conferenze di una
adeguata disciplina di diritto universale a causa di una serie di fattori
che vanno dalla rilevanza assunta dagli episcopati nazionali in seno
all’assise conciliare alla stessa concezione ecclesiologica della costi-
tuzione Lumen gentium.
Infatti, la riscoperta del significato delle Chiese particolari im-
plica necessariamente la valorizzazione dei loro organici raggruppa-
menti a livello locale, mentre la dottrina della collegialità porta a ri-
conoscere espressamente il «molteplice e fecondo contributo» che le
conferenze possono dare alla concreta applicazione dello spirito col-
legiale 5.

5
Per più ampie notizie circa le origini delle Conferenze episcopali, il dibattito conciliare e le relative
deliberazioni, vedi G. FELICIANI, Le conferenze episcopali, Bologna 1974.
402 Giorgio Feliciani

Alla luce di queste considerazioni si comprende come il Conci-


lio non si sia limitato a prendere atto della realtà preesistente ma ab-
bia anche profondamente inciso sulla fisionomia dell’istituto: il de-
creto Christus Dominus trasforma le conferenze da incontri non for-
mali in istanze inquadrate nel diritto costituzionale della Chiesa, da
assemblee volontarie in riunioni obbligatorie quanto a convocazione
e partecipazione, da realtà eterogenee nella configurazione e nella
composizione in istituzioni essenzialmente omogenee, da organismi
dotati esclusivamente di autorità morale in collegi capaci di assume-
re deliberazioni giuridicamente vincolanti 6.
Queste innovazioni incontrarono non poche resistenze nell’aula
conciliare poiché mentre alcuni denunciarono il pericolo di una ecces-
siva limitazione dei poteri dei singoli vescovi, altri osservarono che
era in gioco lo stesso primato pontificio. Le due obiezioni, fondate ri-
spettivamente sulla difesa della autonomia diocesana e sulla rivendica-
zione del primato del vescovo di Roma, erano meno distanti di quanto
potesse apparire a prima vista in quanto tendevano al medesimo risul-
tato di escludere qualunque istanza intermedia tra il Pontefice e i sin-
goli vescovi. Ed è proprio a questo proposito che è possibile cogliere
una delle ragioni di fondo del contrasto sullo statuto delle conferenze
che dura ancora oggi: alla tesi che riconosce in esse uno strumento di
comunione e di pluralismo si oppongono quanti vedono nella istituzio-
ne e nel potenziamento di “corpi intermedi” un pericolo per l’unità del-
la Chiesa universale e per la libertà delle Chiese particolari.
Di fronte a queste posizioni contrapposte la legislazione conci-
liare e postconciliare dapprima e il nuovo Codice poi hanno assunto
un atteggiamento equilibrato o, se si vuole, di compromesso in quan-
to, mentre attribuiscono alle conferenze poteri legislativi, li limitano
a materie determinate, stabilendo anche condizioni quanto mai rigo-
rose per il loro esercizio, come meglio si mostrerà in seguito 7.

La fisionomia dell’istituto
Gli autori della codificazione canonica del 1983 si sono trovati di
fronte a un compito tutt’altro che agevole. Infatti sia il Concilio sia la
legislazione successiva non avevano sancito una normativa completa

6
Cf J. MANZANARES, Las conferencias episcopales en el nuevo código de derecho canónico, in AA.VV., Rac-
colta di scritti in onore di Pio Fedele, I, Perugia 1984, pp. 513-514.
7
Vedi infra.
Le Conferenze episcopali 403

e organica ma si erano limitati a pochi e generalissimi principi, forse


anche allo scopo di lasciare un adeguato periodo di sperimentazione
alle innovazioni introdotte dal Vaticano II.
Il codificatore doveva, dunque, colmare questa lacuna e, di con-
seguenza, non poteva limitarsi a ripetere testualmente le prescrizioni
del decreto conciliare Christus Dominus e delle sue norme di attua-
zione. Doveva, invece, impegnarsi a integrarle con tutte le specifica-
zioni che apparissero utili o necessarie e apportarvi anche quelle
modifiche che fossero suggerite dall’esperienza.
Tale preoccupazione risulta evidente già nel primo canone del
capitolo del Codice dedicato alla materia dove la Conferenza episco-
pale è definita come l’unione dei vescovi di una nazione o di un de-
terminato territorio che esercitano congiuntamente alcune funzioni
di carattere pastorale per l’incremento del bene che la Chiesa offre
agli uomini, specialmente per mezzo delle forme di apostolato ade-
guate alle circostanze dei tempi e dei luoghi (cf can. 447).
Questa formula ripete quasi testualmente il disposto del decreto
conciliare Christus Dominus, n. 38, 1, ma con una significativa varia-
zione: mentre secondo il Concilio i vescovi nelle conferenze esercita-
no congiuntamente il loro ministero, il Codice limita espressamente
tale esercizio congiunto ad «alcune funzioni di carattere pastorale».
L’innovazione è tutt’altro che irrilevante in quanto mira a sottolineare
che, di norma, il ministero episcopale viene esercitato personalmente
dal singolo vescovo nell’ambito della Chiesa particolare affidata alle
sue cure.
Il codificatore ha pure messo in luce come la conferenza non si
riduca a una assemblea più o meno frequente, ma costituisca un «in-
stitutum permanens» (can. 447) che sussiste e opera anche quando i
suoi membri non sono riuniti. E ha ulteriormente evidenziato tale ca-
rattere mediante l’esplicito riconoscimento per legge della persona-
lità giuridica a opera del can. 449 § 2. Si pone così termine nel modo
migliore a un’annosa disputa 8 e, al contempo, si dà un notevole con-
tributo a una più precisa qualificazione giuridica dell’istituto.
Il Codice ha poi accentuato la preferenza manifestata dal Conci-
lio per le conferenze nazionali fino a farne una norma giuridica: se-
condo la «regola generale» enunciata nel can. 448 § 1, la conferenza

8
Per una rassegna delle diverse tesi sostenute al riguardo vedi J. MANZANARES, De conferentiis episco-
palibus post decem annos a Concilio Vaticano II, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 64 (1975)
611-613.
404 Giorgio Feliciani

deve comprendere tutti e soli i vescovi di una medesima nazione.


Come logica conseguenza, lo stesso canone, nel paragrafo successi-
vo, estende le restrizioni già in vigore per le conferenze internazio-
nali anche a quelle infranazionali dal momento che in ambedue i casi
si ha una eccezione alla regola generale. Il giudizio sulla opportunità
della loro istituzione è, quindi, riservato alla Santa Sede che consul-
terà i vescovi diocesani interessati e stabilirà per ognuna di esse spe-
cifiche norme.

Il titolo di partecipazione
Una ben più significativa innovazione riguarda la complessa
questione della “ritualità” delle conferenze. Dall’insieme dei testi
conciliari risulta chiaramente che questo istituto riguarda essenzial-
mente la Chiesa latina poiché nelle Chiese cattoliche orientali le sue
funzioni sono di regola svolte dai Sinodi patriarcali. Tuttavia il decre-
to Christus Dominus (n. 38, 2), allo scopo di promuovere l’organica
collaborazione dei vescovi di rito latino, predominante in un dato ter-
ritorio, con le gerarchie delle minoranze rituali ivi esistenti, non ha
voluto affermare coerentemente e rigorosamente il carattere rituale
delle conferenze e ha, quindi, disposto che vi partecipino a parità di
diritti i vescovi di qualunque rito.
L’attribuzione del voto deliberativo agli ordinari delle minoran-
ze rituali ha suscitato notevoli perplessità. In questo modo, infatti, es-
si venivano assoggettati alle decisioni giuridicamente vincolanti di
assemblee prevalentemente composte da vescovi di un rito diverso
con l’evidente pericolo di una lesione delle legittime autonomie delle
loro Chiese. Inoltre, si osservava, molte delle decisioni di competen-
za delle conferenze, riguardavano esclusivamente la Chiesa latina (si
pensi, per esempio, alla materia liturgica) e non si vedeva come i ve-
scovi orientali potessero contribuire con il loro voto all’assunzione di
deliberazioni che non li concernevano 9.
È quindi da condividere pienamente la disposizione del can. 450
§ 1 CIC che, da un lato, limita la partecipazione di diritto ai prelati di
rito latino e, dall’altro, consente espressamente che gli orientali sia-
no invitati ma con il solo voto consultivo.

9
Vedi W. AYMANS, Ritusgebundenheit und territoriale Abgrenzung der Bischofskonferenzen, in «Archiv für
katholisches Kirchenrecht» 135 (1966) 548-549.
Le Conferenze episcopali 405

Peraltro la norma non è formulata in modo assoluto ma condi-


zionato alla mancanza di diverse disposizioni nello statuto della con-
ferenza. Il codificatore, infatti, non ha voluto escludere categorica-
mente ogni possibilità di ricorrere a soluzioni differenti a causa della
grande varietà di situazioni che si possono presentare.
Tra i prelati di rito latino sono membri di diritto della conferenza
quanti sono preposti alle diocesi e alle comunità ecclesiali a esse
equiparate (vescovi diocesani; prelati e abati territoriali; vicari, prefet-
ti e amministratori apostolici; ordinari militari) e, inoltre, i vescovi
coadiutori, i vescovi ausiliari, i vescovi che esercitano nel territo-
rio una specifica funzione per incarico della Santa Sede o della stes-
sa conferenza. Vengono, poi, espressamente esclusi dal novero dei
membri di diritto, insieme al Legato pontificio, gli altri vescovi titolari
(can. 450; cf decreto Christus Dominus, n. 38, 2). Peraltro, la parteci-
pazione di questi ultimi può essere disposta dagli statuti delle singole
conferenze, mentre la cooptazione di sacerdoti, religiosi, laici è consi-
derata incompatibile con la «episcopalità» di queste assemblee 10.
Si può, quindi, affermare che il diritto di partecipazione si fon-
da sulla titolarità di uno specifico ministero di carattere episcopale
in funzione delle Chiese particolari rappresentate nella conferenza.
Il ministero concretamente esercitato non solo costituisce il titolo
di partecipazione, ma determina anche una “gerarchizzazione” dei
membri a cui vengono riconosciuti diversi diritti in funzione della di-
versa rilevanza dell’ufficio di cui sono titolari in modo da privilegiare
nettamente la posizione degli ordinari dei luoghi e dei coadiutori.
Infatti il decreto Christus Dominus, n. 38, 2 e, sulle sue orme, il
can. 454 riservano a essi il suffragio deliberativo, lasciando agli sta-
tuti la facoltà di attribuirlo anche agli altri componenti la conferenza.
Questa norma – che ha incontrato notevoli resistenze tra i Padri con-
ciliari – è dettata dalla necessità di evitare che gli ordinari dei luoghi
si possano trovare in minoranza nelle deliberazioni collegiali. Né var-
rebbe osservare che molti statuti, avvalendosi della facoltà espressa-
mente concessa dal decreto conciliare, hanno riconosciuto il voto de-
liberativo ai vescovi ausiliari o con speciali funzioni. Da un lato tale
orientamento potrà diffondersi ulteriormente solo se in futuro diven-
teranno meno necessarie le nomine degli ausiliari il cui numero in

10
Vedi il responso della Commissione per l’interpretazione dei decreti del Vaticano II del 31 ottobre
1970 (EV S1, n. 398).
406 Giorgio Feliciani

alcune nazioni è oggi notevolmente elevato. Dall’altro, quando si


tratti di approvare o modificare gli statuti il voto deliberativo resta
comunque riservato a quanti ne godono per diritto universale, così
come è stabilito dal can. 454 § 2.

L’assemblea plenaria
Il decreto conciliare Christus Dominus, mettendo in luce l’utilità
che «in tutto il mondo i vescovi della stessa nazione o regione si co-
stituiscano in un unico organismo e si adunino periodicamente tra di
loro», menziona l’assemblea plenaria nella stessa descrizione della
conferenza. In effetti, la sua funzione è talmente essenziale per la vi-
ta di questo istituto che gli statuti delle diverse conferenze, con di-
versa terminologia ma con assoluta unanimità di pensiero, ricono-
scono nell’assemblea plenaria l’organo supremo, principale, ordina-
rio, che ha tutti i poteri e tutte le facoltà e che, in ultima analisi, si
identifica con la conferenza stessa.
Si comprende quindi agevolmente come non solo il Codice ma
anche gli statuti rinuncino a fissarne in modo dettagliato ed esaurien-
te le competenze, limitandosi a menzionare le funzioni più rilevanti.
In particolare il potere legislativo è assolutamente riservato all’as-
semblea plenaria che non può in alcun caso delegarlo (can. 455 § 2).
Il significato di questa “riserva” eccede di gran lunga il proble-
ma specifico della modalità di esercizio del potere legislativo. Esso,
infatti, è da riconoscersi in una netta affermazione del ruolo centrale
e insostituibile dell’assemblea plenaria con cui si intende scongiura-
re il pericolo che, per l’urgenza di disciplinare determinate materie e
per la difficoltà di convocare l’intero episcopato, i poteri legislativi
vengano di fatto ad accentrarsi nelle mani di pochi vescovi che non
incontrerebbero poi ostacoli a condizionare tutta l’attività della con-
ferenza.
Questo ruolo essenziale dell’assemblea plenaria esige, perché
la conferenza possa realizzare i suoi fini istituzionali, che essa venga
convocata non solo periodicamente, come è espressamente previsto
dal Concilio, ma anche molto frequentemente. Di conseguenza il Co-
dice stabilisce che i vescovi si riuniscano almeno una volta all’anno
e, inoltre, tutte le volte che speciali circostanze lo richiedano secon-
do le modalità previste dagli statuti per la convocazione delle assem-
blee straordinarie (can. 453).
Le Conferenze episcopali 407

Il Codice si occupa delle procedure assembleari esclusivamente


a proposito delle decisioni giuridicamente vincolanti per le quali,
conformemente al Concilio, esige una maggioranza singolarmente
elevata. Infatti, non solo viene richiesta – come per deliberazioni del-
la massima importanza quali l’elezione del Pontefice o le decisioni
del Vaticano II – l’approvazione dei due terzi, ma tale quorum deve
essere computato non già sul numero dei votanti ma su quello dei
membri della conferenza dotati di suffragio deliberativo con la con-
seguenza che i suffragi nulli, le astensioni e le stesse assenze equi-
valgono a voti contrari.
Per quanto, poi, concerne le deliberazioni non giuridicamente
vincolanti, esse, in mancanza di specifiche disposizioni dei singoli
statuti, vengono assunte ai sensi del can. 119 che, come regola gene-
rale richiede il voto favorevole della maggioranza assoluta dei pre-
senti che, a loro volta, devono costituire la maggior parte degli aven-
ti diritto.

Gli organi permanenti


In ogni caso l’assemblea plenaria – che siede necessariamente
solo pochi giorni all’anno, non potendo i vescovi restare troppo a
lungo lontani dalle loro diocesi – non è in grado di assicurare diretta-
mente quell’azione comune di carattere continuativo che è richiesta
dal fine istituzionale delle conferenze.
Di conseguenza, il Codice stabilisce che ogni conferenza sia do-
tata di un presidente (can. 452) e provveda, nei suoi statuti, alla isti-
tuzione di un consiglio episcopale permanente, di una segreteria ge-
nerale e, inoltre, di tutti quegli uffici o commissioni che appaiano uti-
li o necessari (can. 451).
Il Codice, sulle orme del Concilio, ha voluto limitarsi a questa
indicazione vaga e generica per rispettare le diverse esigenze dei va-
ri episcopati che hanno adottato soluzioni quanto mai disparate sì
che, mentre in alcuni Paesi mancano del tutto uffici e commissioni,
nei vari statuti le attribuzioni dei singoli organi permanenti non sono
sempre identiche.
Questa mancanza di una disciplina comune rende ardua una
impostazione unitaria delle questioni connesse alla istituzione degli
organi permanenti che pure esigono di essere criticamente affronta-
te soprattutto per quanto riguarda il loro rapporto con l’assemblea
408 Giorgio Feliciani

plenaria. In linea di principio i termini di tale rapporto sono chiarissi-


mi poiché non solo il Concilio e il Codice assegnano agli organi per-
manenti un ruolo nettamente subordinato, ma tutti gli statuti, come
si è già accennato, affermano espressamente la supremazia dell’as-
semblea.
Tuttavia si possono, in concreto, porre gravi problemi. È infatti
evidente che quando le assemblee sono molto numerose gli organi
responsabili della formulazione dell’ordine del giorno, della istrutto-
ria e della presentazione dei singoli argomenti, della conduzione del-
la riunione, esercitano un notevole influsso sulla impostazione e sul-
lo svolgimento del dibattito e sulle relative conclusioni.
Si può, quindi, presentare il pericolo – già prospettato da alcuni
Padri conciliari – di un prevalere di oligarchie e burocrazie episcopa-
li che impedirebbe l’effettiva corresponsabilità dell’intero episcopato
nell’azione della conferenza.
Per evitare tale inconveniente è assolutamente necessario che
le funzioni degli organi permanenti vengano il più possibile circo-
scritte dalle disposizioni statutarie in modo che l’assemblea sia sem-
pre in grado di indirizzarne e controllarne l’attività. Peraltro, questa
condizione non appare di facile realizzazione in alcune conferenze
dove l’esigenza di tutelare le prerogative dell’assemblea – che non
può essere convocata né rapidamente né molto frequentemente – si
scontra con la necessità di assicurare adeguatamente tutti i servizi
richiesti dall’azione unitaria di un episcopato numeroso e di consen-
tirne una tempestiva presa di posizione di fronte alle questioni ur-
genti che eventualmente si pongano.
In queste situazioni la garanzia più efficace contro il costituirsi
di oligarchie episcopali è costituita dalla elezione a tempo determina-
to dei vescovi a cui spetteranno le funzioni permanenti da parte del-
l’assemblea plenaria, la quale, in questo modo, si riserva la libertà di
confermare o revocare la fiducia in essi.
E sotto questo profilo è da lamentare che il Codice preveda
espressamente l’elezione solo per il presidente (can. 452 § 1) 11 e sen-
za precisare che la sua carica è comunque a tempo determinato.

11
Una regola che subisce alcune eccezioni: in Italia il presidente è nominato dal Pontefice e in Belgio –
dove la conferenza riunisce i vescovi di una sola provincia ecclesiastica – tale funzione spetta di diritto
al metropolita.
Le Conferenze episcopali 409

Il presidente
Circa le funzioni del presidente – che qualora sia legittimamen-
te impedito è sostituito dal pro-presidente – il Codice si limita a pre-
vedere che egli presieda sia le riunioni del consiglio permanente sia
le assemblee plenarie (can. 452 § 2) e provveda a trasmettere tempe-
stivamente alla Santa Sede gli atti approvati nel corso di queste ulti-
me (cf can. 456). Peraltro – come ha rilevato il presidente della Com-
missione per l’interpretazione autentica del Codice 12 – questo ufficio
assume notevole rilevanza nella vita della conferenza, comportando,
tra l’altro, la rappresentanza della stessa, la delicata responsabilità di
dirimere le questioni nelle impasses dovute alla parità dei voti ottenu-
ti da due tesi contrapposte (cf can. 119, 2°) e la partecipazione di di-
ritto alle assemblee generali straordinarie del Sinodo dei vescovi 13.
Tali considerazioni hanno indotto la stessa Commissione a ri-
tenere nel responso del 23 maggio 1988 14 che la funzione di presi-
dente non possa essere affidata a un vescovo ausiliare. Essa, dun-
que, rimane riservata ai membri della conferenza pleno iure, vale a
dire a quanti siano dotati di suffragio deliberativo per diritto univer-
sale (cf can. 454).

Il consiglio permanente
Di notevole importanza anche la funzione del consiglio perma-
nente che assicura, negli intervalli tra un’assemblea e l’altra, quella
stretta collaborazione tra i vescovi che costituisce il fine istituzionale
della conferenza. Più specificamente quest’organo – a norma degli
statuti – deve garantire la continuazione delle attività intraprese, pre-
parare l’assemblea plenaria, preoccuparsi della esecuzione delle sue
decisioni, dirigere la segreteria generale, coordinare l’attività delle
commissioni, sovrintendere alla amministrazione dei beni della con-
ferenza. Il problema di dotare quest’organo di una adeguata compo-
sizione non appare di facile soluzione poiché – oltre a tenere conto
dei fattori che variano da Paese a Paese – occorre contemperare di-
verse esigenze. Infatti, un’ampia rappresentatività del consiglio se

12
Vedi card. R. CASTILLO LARA, De episcoporum conferentiarum praesidentia, in «Communicationes» 21
(1989) 94-98.
13
Vedi Regolamento del Sinodo dei Vescovi riveduto e ampliato, 24 giugno 1969, art. 5 § 2 (EV 3,
n. 1352).
14
EV 11, n. 697.
410 Giorgio Feliciani

evita di accentrarne le funzioni nelle mani di poche persone, importa


inevitabilmente un rafforzamento della sua autorità che può ritorna-
re a scapito di quella dell’assemblea. In genere, allo scopo di favorire
un efficace coordinamento di tutte le attività della conferenza, vi par-
tecipano i presidenti dei vari organi permanenti a cui spesso si ag-
giungono altri membri appositamente eletti dall’assemblea o dai sin-
goli episcopati provinciali e regionali.
Benché gli statuti si adoperino per delimitare rigorosamente la
competenza del consiglio – definito come organo esecutivo, con po-
teri delegati da esercitarsi entro i limiti statutari e conformemente al-
le direttive dell’assemblea – i suoi compiti risultano in genere molto
ampi soprattutto là dove viene a esso affidata la responsabilità di far
fronte ai problemi di carattere urgente, prendendo gli opportuni
provvedimenti e stilando, all’occorrenza, pubbliche dichiarazioni.
Va peraltro osservato come il rapporto tra assemblea plenaria e
consiglio permanente non si ponga dovunque negli stessi termini in
quanto l’ampiezza delle funzioni di quest’ultimo si rivela direttamente
proporzionale al numero dei componenti la conferenza. È infatti, evi-
dente che dove le assemblee ordinarie sono molto frequenti e quelle
straordinarie risultano di agevole convocazione, lo spazio per un’azio-
ne del consiglio che non sia mera esecuzione delle decisioni dell’inte-
ro episcopato è necessariamente molto ristretto. Così, mentre nelle
conferenze composte da pochi membri esso non esiste neppure o è
ridotto all’essenziale sia nella composizione sia nelle funzioni, nelle
conferenze più numerose ha una struttura talmente complessa e una
somma così rilevante di compiti che alcuni di essi vengono affidati a
organi più ristretti (per esempio il consiglio di presidenza) per assicu-
rarne il tempestivo svolgimento.

La segreteria generale
A un livello decisamente inferiore a quello spettante al presi-
dente e al consiglio permanente si colloca la segreteria generale. La
responsabilità di questo organo permanente è affidata a una singola
persona che non è necessariamente un membro della conferenza e
ha compiti di carattere tecnico, dovendo apprestare e garantire tutti
quei servizi che sono indispensabili a un proficuo e ordinato svolgi-
mento dell’attività della conferenza. In particolare, a norma degli sta-
tuti, assicura le comunicazioni di ogni genere, procura le informazio-
Le Conferenze episcopali 411

ni opportune, garantisce il collegamento tra le commissioni, favori-


sce le relazioni con le altre conferenze, custodisce l’archivio.
La creazione di quest’organo appare indispensabile in quanto
un istituto collegiale non può far fronte a funzioni di carattere conti-
nuativo, come quelle proprie delle conferenze, senza dar vita a una
organizzazione stabile, il cui funzionamento non può essere garanti-
to né dal consiglio – attivo solo quando i suoi membri si consultano e
decidono in comune – né dal presidente, a cui possono incombere
anche altre gravi responsabilità come il governo di una diocesi, spes-
so di vaste proporzioni.
In linea di massima si può affermare che la segreteria, pur
avendo un ruolo essenziale, non pone seri problemi nei rapporti con
gli altri organi della conferenza, data la sua posizione di netta subor-
dinazione. L’unico pericolo è costituito da una sua eccessiva burocra-
tizzazione che si ripercuoterebbe negativamente su tutta la vita della
conferenza. Un siffatto inconveniente sarebbe, però, imputabile più
che alla segreteria stessa, agli organi incaricati di dirigerne e con-
trollarne l’attività, che si rivelerebbero incapaci di svolgere in modo
adeguato tale funzione.

Le commissioni
Mentre il consiglio permanente e la segreteria generale presen-
tano nei singoli Paesi una struttura relativamente omogenea e svol-
gono funzioni che investono, sia pure a livelli diversi, l’intera vita del-
la conferenza, le commissioni hanno competenze di tipo specifico e
si rivelano organizzate in modi molto vari, dettati sia dalla natura dei
compiti loro affidati sia dalle caratteristiche dei diversi episcopati. In
ogni caso, l’assemblea si riserva su di esse i più vasti poteri, attri-
buendosi direttamente la funzione di istituirle, sopprimerle, appro-
varne i programmi e controllarne l’attività. La sua supremazia sem-
brerebbe, quindi, adeguatamente assicurata ma, a una attenta anali-
si, in non poche conferenze la realtà si presenta ben diversa sì da far
ritenere che, tra i vari organi permanenti, proprio le commissioni
pongono i più gravi problemi. Infatti la loro attività investe, spesso
direttamente, il concreto svolgimento dell’azione pastorale, sì da po-
ter condizionare lo stesso esercizio ordinario del ministero episcopa-
le. È, dunque, opportuno che ovunque i compiti di questi organi sia-
no rigorosamente delimitati in modo da accentuarne più la funzione
412 Giorgio Feliciani

di consulenza nei confronti dell’episcopato che una eventuale re-


sponsabilità nella direzione di determinati settori della vita religiosa
e dell’attività pastorale che si svolge nel Paese.

La competenza
Le Conferenze episcopali possono emanare decreti generali a
condizione che questi ricevano l’approvazione dei due terzi dei mem-
bri con voto deliberativo e ottengano il nullaosta della Santa Sede.
Godono, dunque, di vero e proprio potere legislativo, sia pure in mi-
sura limitata. Esso, infatti, non è di carattere generale come quello
dei concili provinciali e plenari (cf can. 445), ma riguarda esclusiva-
mente le materie specificamente stabilite dal diritto universale o da
una speciale disposizione della Santa Sede, emanata di sua iniziativa
o su richiesta della stessa conferenza (can. 455 §§ 1-2).
Questa limitazione si spiega con l’osservazione che una più am-
pia competenza legislativa avrebbe finito con il comprimere eccessi-
vamente lo spazio di autodeterminazione dei singoli vescovi diocesa-
ni. E timori di questo genere sono stati ripetutamente e decisamente
espressi sia nell’aula conciliare, sia nelle consultazioni per l’elabora-
zione del nuovo Codice.
Infatti, come si è già avuto modo di ricordare, le conferenze non
sono solo assemblee occasionali di vescovi come altri istituti di sino-
dalità particolare, ma costituiscono veri e propri “istituti permanen-
ti”. Di conseguenza, qualora fossero dotate di un potere legislativo di
carattere generale, potrebbero condizionare sistematicamente e con-
tinuamente diversi aspetti del ministero del singolo vescovo diocesa-
no con l’evidente pericolo di una lesione dell’autorità che gli compe-
te per diritto divino nella guida della porzione del popolo di Dio affi-
data alle sue cure pastorali.
Non sorprende, quindi, che tutta la normativa sancita dal Codice
circa i poteri delle conferenze riveli una marcata preoccupazione di ti-
po garantistico nei confronti dell’autonomia diocesana. Particolarmen-
te significativa sotto questo profilo risulta la disposizione del can. 455
§ 4, secondo la quale, nei campi in cui la conferenza non gode di pote-
re legislativo, rimane intatta la competenza del vescovo diocesano sì
che né la conferenza né il suo presidente possono parlare a nome di
tutti i vescovi se non hanno la loro approvazione unanime.
Se la limitazione dei poteri legislativi delle Conferenze episco-
pali è pienamente da condividere, è però evidente che il bene della
Le Conferenze episcopali 413

Chiesa in un determinato Paese può esigere una legislazione parti-


colare organica e non solamente episodica e frammentaria, quale
può essere assicurata dalla conferenza. Di conseguenza, il Codice
prevede che, quando lo ritengano utile o necessario, i vescovi appar-
tenenti alla stessa conferenza possano, con 1’approvazione della San-
ta Sede, riunirsi in concilio plenario (can. 439), che, come noto, gode
di un potere di governo, soprattutto legislativo, di carattere generale
(can. 445).
Non è qui possibile prospettare un quadro delle specifiche e
molteplici competenze legislative attribuite alle conferenze dal Codi-
ce. Si può solo ricordare come a esse sia stato assegnato un ruolo di
primo piano nell’attuazione della nuova codificazione, in quanto de-
vono integrarla e specificarla in funzione delle diverse esigenze dei
tempi e dei luoghi nelle materie loro attribuite da numerosi canoni
sparsi nei vari libri del Codice.
Peraltro i compiti delle conferenze risultano decisamente infe-
riori non solo alle aspettative di taluni ma anche al progetto origina-
rio della commissione codificatrice poiché, con il progredire dei la-
vori, scompaiono molte competenze previste dagli schemi inviati agli
organi di consultazione tra il 1972 e il 1977 nel quadro di un ridimen-
sionamento che non si limita a una riduzione quantitativa di funzioni
specifiche ma incide sulla stessa fisionomia dell’istituto. Viene, tra
l’altro, abbandonato il progetto di attribuire alla Conferenza episco-
pale diretta e immediata autorità su una vera e propria circoscrizione
ecclesiastica mediante la istituzione obbligatoria di regioni compren-
denti, di regola, tutte le province esistenti in uno stesso Stato 15.
Questo notevole mutamento dei progetti iniziali appare preva-
lentemente dovuto alla ricordata preoccupazione di tutelare l’autono-
mia delle singole Chiese particolari. È infatti significativo che esso si
verifichi soprattutto nello schema del 1980, elaborato sulla base delle
osservazioni dell’episcopato mondiale, e che in molte delle materie
non più attribuite alle conferenze la competenza non venga riservata
alla Santa Sede ma riconosciuta ai vescovi diocesani.
Tali timori e preoccupazioni potranno in un prossimo futuro es-
sere superati o almeno ridimensionati se le conferenze si dimostre-
ranno capaci di rispondere a due esigenze differenti e non facilmen-
te conciliabili tra loro.

15
Per più ampie notizie al riguardo vedi G. FELICIANI, La dimensione «spazio» nel nuovo codice di diritto
canonico, in AA.VV., Raccolta di scritti in onore di Pio Fedele, cit., pp. 447-450.
414 Giorgio Feliciani

Da un lato esse dovranno dimostrarsi all’altezza dei compiti lo-


ro attribuiti, provvedendo in modo efficace e tempestivo a emanare
le legislazioni particolari previste dal Codice. E, a questo proposito,
sarà interessante effettuare una valutazione critica e comparativa
delle deliberazioni assunte in merito dai vari episcopati 16.
Dall’altro occorre che, nonostante le aumentate responsabilità,
le conferenze mantengano predominante il loro tradizionale carattere
consultivo evitando di trasformarsi in strutture burocratiche e orga-
nizzative o in assemblee decisionali che sacrifichino alla rapidità delle
deliberazioni il dialogo costruttivo e il sereno confronto tra le diverse
esperienze e i vari orientamenti dei loro membri. In ogni caso non va
assolutamente sottovalutata l’importanza dell’azione delle conferenze
anche in quei campi in cui esse sono sprovviste di poteri legislativi
poiché, mentre la consultazione deve estendersi a tutti i problemi pa-
storali che eccedono l’ambito diocesano, la collaborazione tra i vesco-
vi può tradursi nelle più svariate iniziative e realizzazioni.
Infine va ricordato come le funzioni delle conferenze non si li-
mitino ai rispettivi territori ma riguardino anche la Chiesa universa-
le. Le conferenze sono infatti diventate lo strumento privilegiato per
la concreta espressione di quella organica collaborazione tra il Ro-
mano Pontefice e i vescovi che appare indispensabile per un efficace
esercizio del suo supremo ministero.
In merito va innanzitutto ricordato come le assemblee generali
ordinarie del Sinodo dei Vescovi – istituito dal Pontefice nel 1965 allo
scopo di favorire l’unione e la stretta collaborazione con l’episcopato
del mondo intero (cf can. 342) – sono prevalentemente composte da
prelati che rappresentano le singole conferenze (can. 346 § 1), facen-
dosi portavoce dei desiderata espressi dai rispettivi episcopati dopo
un approfondito esame dei diversi argomenti all’ordine del giorno.
Inoltre, dopo il Concilio, le conferenze vengono anche sistema-
ticamente utilizzate come strumento per una tempestiva comuni-
cazione tra l’intero episcopato e la Santa Sede che, mediante lettere
circolari indirizzate ai loro presidenti, comunica direttive e chiede
notizie e pareri. Svolgono così un’ampia funzione consultiva nei con-
fronti della Curia romana, la quale non solo stabilisce con esse le op-
portune relazioni, tenendo nel debito conto i voti che le vengono
presentati, ma ne chiede l’opinione in non poche materie di sua com-

16
Ora agevolmente consultabili in J.T. MARTIN DE AGAR, Legislazione delle conferenze episcopali comple-
mentare al C.I.C., Milano 1990.
Le Conferenze episcopali 415

petenza 17. Ai Legati pontifici viene poi raccomandato di mantenere


con le conferenze frequenti rapporti, fornendo a esse ogni aiuto pos-
sibile (can. 364, 3°).

I collegamenti
Il Codice raccomanda lo sviluppo delle relazioni tra le diverse
conferenze (can. 459 § 1) e individua nella segreteria generale lo
strumento per la trasmissione di atti e documenti (can. 458, 2°). Al
contempo impone alle conferenze di consultare la Santa Sede prima
di intraprendere iniziative di carattere internazionale (can. 459 § 2).
Queste scarne norme si occupano in termini quanto mai generi-
ci di un problema di notevole rilevanza.
La collaborazione tra le conferenze, costituendo una ulteriore e
più ampia manifestazione della comunione tra le Chiese, favorisce il
superamento da parte dei singoli episcopati di eventuali tentazioni
particolaristiche. Essa si rivela spesso indispensabile anche da un
punto di vista pratico e immediato per rispondere a esigenze pastora-
li che interessano territori più vasti di quelli dei singoli Stati. Si com-
prende, quindi, agevolmente come tale collaborazione sia venuta
strutturandosi in forme non solo occasionali ma anche organiche
mediante la creazione di appositi organismi a livello internazionale e
persino continentale.
Attualmente esistono sei riunioni internazionali di conferenze
africane, una federazione di quelle asiatiche, un Consiglio episcopale
latinoamericano, un segretariato episcopale per l’America centrale e
il Panama, due organismi per il continente europeo. Il primo (Consi-
glio delle Conferenze Episcopali Europee CCEE) riunisce gli episco-
pati dell’Est e dell’Ovest, mentre il secondo (Commissione degli Epi-
scopati della Comunità Europea COMECE), di più recente istituzio-
ne, assicura il collegamento tra i vescovi di quei Paesi che fanno
parte dell’Unione europea.
Questi organismi non devono essere confusi con le Conferenze
episcopali internazionali che, come si è visto 18, vengono istituite là
dove non vi siano condizioni idonee alla creazione di conferenze na-
zionali (vedi, per esempio, la conferenza scandinava).

17
Cf GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastor bonus, 28 giugno 1988, art. 26 § 1 (EV 11, n. 858).
18
Vedi supra.
416 Giorgio Feliciani

Infatti, le riunioni internazionali, federazioni, consigli, segreta-


riati, commissioni sopra ricordati non sono composti da singoli ve-
scovi ma da intere Conferenze episcopali. In nessun caso, poi, godo-
no di poteri legislativi in quanto la loro funzione si riduce a garantire
la collaborazione tra gli episcopati che ne fanno parte.
Tale collaborazione appare sempre più necessaria a causa della
dimensione che i problemi pastorali assumono nel mondo contem-
poraneo ed è quindi da prevedere un suo ulteriore incremento e svi-
luppo.
In questa prospettiva occorre valutare attentamente l’ipotesi di
attribuire alle assemblee che riuniscono i membri di più Conferenze
episcopali (si pensi alle conferenze generali dell’episcopato latinoa-
mericano svoltesi a Medellín e a Puebla rispettivamente nel 1968 e
nel 1979) poteri legislativi in determinate materie.
Da un lato è evidente che anche a livello internazionale e conti-
nentale possono presentarsi problemi che richiedono una regolamen-
tazione giuridica comune. Dall’altro occorre evitare il più possibile il
moltiplicarsi di istanze gerarchiche intermedie tra la Santa Sede e i
singoli vescovi. Infatti, tale pluralità di istanze, pur non essendo in
contrasto con la divina costituzione della Chiesa, porrebbe delicati
problemi di salvaguardia dell’unità cattolica e di tutela delle legittime
autonomie delle diverse conferenze e degli stessi vescovi diocesani.

I problemi aperti
L’Instrumentum laboris sullo status teologico e giuridico delle
conferenze, sottoposto all’attenzione dei diversi episcopati nel 1987 19,
ha suscitato reazioni piuttosto critiche. Tutta l’impostazione del docu-
mento, attualmente in fase di rielaborazione, è stata da più parti con-
siderata come eccessivamente riduttiva del significato ecclesiologico
e delle funzioni delle conferenze.
Molto sinteticamente si può qui ricordare come l’instrumentum
giustifichi l’esistenza delle conferenze in una prospettiva eminente-
mente operativa come mezzo di carattere contingente, necessario
per far fronte ai “segni dei tempi”. In pratica, si nega che, a rigor di
termini, si possa parlare a questo proposito di collegialità episcopale
poiché, secondo gli insegnamenti conciliari, quest’ultima è di natura

19
Vedi supra.
Le Conferenze episcopali 417

universale e va quindi intesa rispetto all’insieme della Chiesa, cioè al-


la totalità del corpo episcopale in unione con il Papa. È evidente che
queste condizioni, presenti nel Concilio ecumenico e in certa misura
anche nel Sinodo dei vescovi, non si realizzano nelle singole confe-
renze in quanto esse né riuniscono né rappresentano l’intero colle-
gio episcopale. Si potrà dunque parlare di collegialità solo in senso
analogico e teologicamente improprio.
Tale impostazione viene considerata statica e schematica da
quanti aderiscono a una interpretazione più dinamica del magistero
del Vaticano II che li porta a individuare nelle conferenze una realiz-
zazione parziale ma effettiva della collegialità. In questa prospettiva
non si mette in discussione che esse siano istituti di diritto ecclesia-
stico, ma si afferma che, in quanto espressioni, sia pure non esau-
rienti, della communio ecclesiarum e della stessa collegialità, trovano
il loro fondamento ultimo nel diritto divino.
Di fronte a queste tesi contrapposte c’è chi sottolinea con equili-
brio la necessità di ulteriori contributi di studio e di riflessione, av-
vertendo che «siamo molto lontani dal poter dire l’ultima e anche la
penultima parola» poiché «nemmeno il Vaticano II e i Sinodi del 1969
e del 1985 hanno proposto soluzioni definitive per superare la diver-
genza di opinioni e le tensioni bipolari che la concretizzazione del
principio della collegialità all’interno della Chiesa porta con sé» 20.
Non meno deciso si rivela l’orientamento dell’Instrumentum la-
boris a proposito della funzione dottrinale. Sostiene, infatti, che, pro-
priamente parlando, le conferenze non godono del munus docendi.
Esso apparterrebbe piuttosto alla competenza di ogni vescovo a cui,
attraverso la consacrazione e la missio canonica, viene affidata la cu-
stodia e la trasmissione della doctrina fidei nella rispettiva Chiesa
particolare. Gli atti di magistero della conferenza non sarebbero al-
tro che un insieme di azioni simultanee dei suoi membri, non impu-
tabili all’assemblea in quanto tale.
La dottrina canonistica si è occupata ampiamente della questio-
ne e, anche se non mancano voci autorevoli favorevoli alla tesi della
Congregazione per i Vescovi, molti studiosi sostengono un’opinione
nettamente diversa come risulta dagli atti del colloquio svoltosi a Sa-
lamanca all’inizio del 1988 21. Non è qui possibile offrire un pur sinte-

20
A. ANTÓN, Lo statuto teologico..., cit., p. 229.
21
Se ne vedano gli atti in AA.VV., Natura e futuro delle conferenze episcopali, cit.
418 Giorgio Feliciani

tico resoconto delle articolate argomentazioni addotte da una parte e


dall’altra in modo singolarmente dettagliato e approfondito. Va tutta-
via osservato che il dibattito sembra svolgersi a un livello alquanto
astratto.
Se le conferenze devono promuovere il maggior bene che la
Chiesa offre agli uomini, appare inevitabile che la loro preoccupazio-
ne si estenda anche all’orientamento dottrinale dei fedeli. E, di fatto,
esse si sono sempre mosse in tal senso. Questa loro azione ha tutta-
via suscitato negli ultimi tempi non pochi problemi. In vari Paesi i
documenti collettivi sono diventati eccessivamente frequenti e pro-
lissi, affrontando spesso tematiche di grande risonanza nell’opinione
pubblica, difficilmente suscettibili di valutazioni unanimi. Alcuni epi-
scopati hanno poi adottato procedure di elaborazione dei testi quan-
to mai discutibili, pubblicando bozze preparatorie e sollecitando sug-
gerimenti da parte dei fedeli. Inoltre certe prese di posizione sono
state interpretate come contrastanti con gli insegnamenti pontifici o
per lo meno dirette ad attenuarne la portata. Si aggiunga che spesso
anche le singole commissioni pubblicano documenti senza che ne
sia chiaro il valore e l’autorità.
Relativamente a questi innegabili inconvenienti la discussione
in corso, pur essendo di notevole interesse sul piano dogmatico e
scientifico, risulta scarsamente incidente. Sarebbe, infatti, molto più
produttivo prevedere norme precise circa le modalità di esercizio
delle funzioni magisteriali, sia nel diritto universale sia negli stessi
statuti delle singole conferenze che per lo più, come risulta da recen-
ti studi 22, non dedicano molta attenzione al problema. In tale linea si
potrebbe, per esempio, prevedere che tutti i documenti dottrinali sia-
no approvati dall’assemblea plenaria e con maggioranze particolar-
mente qualificate, che la loro elaborazione si compia nella dovuta
discrezione e riservatezza, che le prese di posizione collettive riguar-
dino solo problemi che esigono un orientamento unitario da parte
dell’episcopato nazionale, che si precisi la forza obbligante di ogni
singola dichiarazione e via dicendo.
Ancor più in generale va rilevato che i problemi attualmente po-
sti dalle conferenze sono eminentemente di carattere pratico, riguar-
dando soprattutto il pericolo che divengano apparati talmente deci-

22
Vedi A. ASTORRI, Gli statuti delle conferenze episcopali, I, Europa, e I.C. IBAN, Gli statuti delle conferen-
ze episcopali, II, America, Padova, 1987 e 1989.
Le Conferenze episcopali 419

sionali e burocratici da favorire una deresponsabilizzazione dei sin-


goli vescovi a vantaggio di «una sorta di supergoverno anonimo del-
le diocesi» 23.

Le indicazioni di Giovanni Paolo II


Un preciso contributo ad affrontare con capacità critica e sicu-
rezza di giudizio le complesse e molteplici questioni fin qui prospet-
tate è offerto dal magistero pontificio. Giovanni Paolo II non ha fino-
ra dedicato alcun apposito documento alle conferenze, ma dalla va-
sta mole dei discorsi pronunciati nel primo decennio di pontificato
emergono con chiarezza le linee essenziali del suo pensiero al ri-
guardo 24.
Innanzitutto il Pontefice non esita a identificare nella communio
la ragion d’essere e la prima finalità di ogni Conferenza episcopale e
non manca di mettere in luce lo specifico rapporto intercorrente tra
la collegialità episcopale e la conferenza stessa.
Alle valutazioni di carattere teologico si accompagnano conside-
razioni più contingenti: le conferenze sono uno strumento efficace e
praticamente indispensabile per garantire la necessaria unità di azio-
ne dei vescovi di fronte alle sfide e ai problemi urgenti della Chiesa e
della società contemporanea.
D’altro canto Giovanni Paolo II ha ben presenti gli inconvenien-
ti a cui la conferenza può dare luogo, e si preoccupa di indicare i
mezzi per prevenirli e, all’occorrenza, porvi rimedio. A tale scopo ri-
corda che i vescovi hanno una irrinunciabile responsabilità indivi-
duale e collegiale, dinnanzi a Dio e a tutta la Chiesa, circa le decisio-
ni, i documenti, le dichiarazioni della conferenza. Il lavoro di que-
st’ultima, quindi, non solo richiede un ritmo sostenuto di riunioni,
ma deve rimanere innanzitutto un lavoro proprio degli stessi vescovi
che si riservino periodi di tempo sufficientemente lunghi per dialo-
gare tra loro senza la presenza di altri, in modo da mantenere i diver-
si organismi consultivi della conferenza in una posizione nettamente
subordinata. Inoltre in nessun caso la responsabilità individuale di

23
Vedi in tal senso Conferenze episcopali e corresponsabilità dei vescovi, in «La Civiltà Cattolica» 136
(1985) II, 222-425; cf Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Cinisello Bal-
samo 1985, pp. 60-63.
24
Per una dettagliata esposizione vedi G. FELICIANI, Le conferenze episcopali nel magistero di Giovanni
Paolo II, in «Aggiornamenti sociali» 38 (1987) 141-154.
420 Giorgio Feliciani

ogni singolo vescovo può essere assorbita, sostituita o soppressa dal-


la conferenza, né tanto meno questa può pretendere di diminuirla o
restringerla, ma solo di servirla.
Tutte le possibili deviazioni che si possono concretamente veri-
ficare non impediscono comunque a Giovanni Paolo II di assegnare
alle conferenze compiti di estrema rilevanza per la vita delle Chiese
particolari e della stessa Chiesa universale. In particolare egli le con-
sidera come entità rappresentative ad intra e ad extra della realtà ec-
clesiale e insiste su questa loro funzione di rappresentare nel modo
più autentico l’episcopato presso le altre istituzioni, comprese quelle
civili. Tale insistenza risulta ancor più significativa se si considera
che i vescovi sono a loro volta definiti una rappresentanza legittima e
qualificata del popolo, una forza sociale che ha una responsabilità
nella vita dell’intera nazione.
Giovanni Paolo II si dimostra, dunque, assolutamente convinto
della importanza e persino della necessità delle conferenze nell’attua-
le momento della vita della Chiesa, in modo ancor più ampio e deciso
dei suoi predecessori. Si può, quindi, ritenere che non intenda perve-
nire a un ridimensionamento della funzione dell’istituto ma, al contra-
rio, valorizzarlo anche in vista di ulteriori e attualmente imprevedibili
sviluppi. E che questo sia il suo pensiero risulta sufficientemente
chiaro da quanto affermato nella già ricordata allocuzione del 28 giu-
gno 1986 ai Cardinali e alla Curia romana 25: le Conferenze episcopali
«sono diventate in questi anni una realtà concreta, viva ed efficiente
in tutte le parti del mondo [...] ma la crescita delle loro strutture e
della loro influenza fa nascere anche problemi dottrinali e pastorali,
risultanti dalla logica del loro sviluppo e della loro importanza».

GIORGIO FELICIANI
Via Molino dell Armi, 3
20123 Milano

25
Vedi supra.
421
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 421-432
Decisioni e dichiarazioni
delle Conferenze episcopali
di Mauro Rivella

È opinione condivisa fra gli studiosi che la rinnovata legislazio-


ne canonica non abbia risolto i nodi concettuali sottesi alla determi-
nazione del profilo teologico delle Conferenze episcopali, ma abbia
almeno contribuito a precisarne gli ambiti di intervento normativo.
La presente analisi si propone come obiettivo specifico di indicare i
diversi tipi di decisioni e dichiarazioni che possono promanare da ta-
li organismi e in che misura essi siano vincolanti non solo per i ve-
scovi che ne sono membri, ma anche per i fedeli che appartengono
al loro territorio. Anche se il discorso ha carattere generale, verrà fo-
calizzato dal punto di vista delle Conferenze episcopali nazionali.

Decreti generali
La forma tipica di esercizio della potestà legislativa che compe-
te alle Conferenze episcopali è costituita dai decreti generali, che pos-
sono emanare validamente alle condizioni elencate nei primi tre pa-
ragrafi del can. 455.
Trascriviamo per comodità il testo del § 1:
«La Conferenza episcopale può emanare decreti generali solamente nelle
materie in cui lo abbia disposto il diritto universale, oppure lo stabilisce un
mandato speciale della Sede Apostolica, sia motu proprio, sia su richiesta
della Conferenza stessa».

Ci troviamo quindi davanti a veri provvedimenti legislativi, co-


me ci ricorda il can. 29:
«I decreti generali, con i quali dal legislatore competente vengono date di-
sposizioni comuni per una comunità capace di ricevere una legge, sono pro-
priamente leggi e sono retti dalle disposizioni dei canoni sulle leggi».
422 Mauro Rivella

Dal momento che si tratta di leggi, possono essere emanate sol-


tanto da chi dispone della potestà legislativa, a meno che, secondo il
disposto del can. 30, il legislatore competente, che ha facoltà di ap-
porre nell’atto di concessione particolari condizioni, non abbia e-
spressamente a ciò delegato il detentore della potestà esecutiva.
Questo è coerente con il can. 135 § 2, che stabilisce che la potestà le-
gislativa, a eccezione che per il legislatore supremo, non può essere
validamente delegata se non è disposto esplicitamente altro dal dirit-
to. In ogni caso il legislatore inferiore non può dare validamente una
legge contraria al diritto superiore.
I commentatori interpretano in genere il senso della norma in-
trodotta dai cann. 29 e 30 facendo riferimento alle facoltà che talora il
Romano Pontefice concede alle Congregazioni romane di emanare,
su specifici ambiti e all’interno di una normativa-quadro, vere e pro-
prie leggi, travalicando l’ambito ordinario della potestà esecutiva che
a esse propriamente compete. Ciò è riferibile alle Conferenze episco-
pali nella misura in cui esse sono pensate dal CIC come organismi di
confronto e coordinamento pastorale fra i vescovi (cf can. 447), men-
tre è fuor di dubbio che tali organismi, per quanto di diritto ecclesia-
stico, dispongano di una potestà legislativa ordinaria e propria, alme-
no quando emanano decreti generali in forza del diritto universale 1.
Tali provvedimenti legislativi sono classificati fra i decreti generali e
non piuttosto fra le leggi anche perché si tratta di norme che si inseri-
scono all’interno di un quadro legislativo preesistente, determinando
punti specifici legati alle diverse situazioni di luoghi e persone: sono
di fatto questi gli ambiti per i quali il CIC chiede alle Conferenze epi-
scopali di pronunciarsi normativamente 2. Resta pertanto appurato
che il fedele che appartiene al territorio di una determinata Conferen-
za episcopale è tenuto a obbedire a quanto da essa è stato legittima-
mente determinato con decreto generale negli stessi termini con cui
è chiamato a uniformarsi alle disposizioni del diritto universale. In ba-
se al principio della territorialità della legge, al disposto dei decreti
generali sono tenuti coloro per cui sono stati dati e che hanno nel ter-
ritorio il domicilio o il quasi-domicilio e nel contempo al presente vi
dimorano (can. 12 § 3). I forestieri non sono tenuti al rispetto dei de-

1
Cf G. GHIRLANDA, Concili particolari e Conferenze dei vescovi: «munus regendi» e «munus docendi», in
«La Civiltà Cattolica» 142 (1991/II) 127.
2
Una lista indicativa dei canoni che richiedono la promulgazione di norme particolari da parte delle
Conferenze episcopali fu pubblicata dalla Segreteria di Stato l’8 novembre 1983 (cf EV 9, nn. 536-537).
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 423

creti generali vigenti nel territorio in cui si trovano, a meno che essi
provvedano all’ordine pubblico o determinino le formalità degli atti o
riguardino beni immobili situati nel territorio (can. 13 § 2, 2°).

Per la validità dei predetti decreti generali, il § 2 del can. 455 fis-
sa tre condizioni: che siano approvati dall’assemblea plenaria della
Conferenza episcopale, che ottengano voto favorevole da parte di al-
meno i due terzi dei presuli che appartengano alla conferenza con vo-
to deliberativo, e che siano legittimamente promulgati dopo la reco-
gnitio da parte della Sede Apostolica. In merito è opportuno osserva-
re che, in base al già citato can. 135 § 2 3, l’assemblea plenaria non
può delegare la potestà legislativa di cui dispone ad altri organi della
Conferenza episcopale, come la presidenza, il consiglio permanente,
la segreteria o particolari commissioni. Si noti inoltre come il CIC ri-
chieda un quorum particolarmente elevato per avallare le decisioni
normative della Conferenza episcopale: non solo la maggioranza qua-
lificata dei presenti, ma addirittura quella degli aventi diritto al voto
deliberativo, mentre per le deliberazioni assunte dai concili generali e
da quelli particolari, secondo la norma generale del can. 119, 2°, è
sufficiente la maggioranza assoluta dei presenti, se questi costituisco-
no la maggioranza degli aventi diritto al voto. È evidente che il le-
gislatore intende ovviare al rischio che gruppi ristretti condizionino
interi episcopati, dettando norme che diverranno obbligatorie per tut-
ti. In secondo luogo si tratta di garantire che le decisioni normati-
ve godano di un amplissimo consenso di base, che ne renderà senza
dubbio più facile l’applicazione. La conseguenza pratica sarà tuttavia
che su questioni controverse sarà difficile conseguire la maggioranza
richiesta, e ne risulterà una lacuna di legge, se si tratta di quei punti
sui quali la legislazione universale rinvia in maniera complementare
alle deliberazioni delle conferenze.
Il § 3 del can. 455 lascia a ciascuna Conferenza episcopale la de-
terminazione del modo di promulgazione e del tempo in cui i decreti
acquistano forza obbligante. In mancanza di disposizioni specifiche,
vale il principio generale enunciato dal can. 8 § 2, in base al quale le
leggi particolari incominciano a obbligare dopo un mese dal giorno
della promulgazione. Sarebbe auspicabile che ogni Conferenza epi-

3
In questo senso si pronunciò già la Pontificia Commissione per l’interpretazione dei decreti conciliari
il 10 giugno 1966.
424 Mauro Rivella

scopale si dotasse di un organo di stampa accessibile a tutti su cui


pubblicare i propri decreti, e che esso facesse testo ai fini della pro-
mulgazione e dell’entrata in vigore.
Come abbiamo già detto, il § 2 del can. 455 esige che i decreti
generali vengano sottomessi alla recognitio della Sede Apostolica pri-
ma della loro promulgazione. È bene lasciare in latino tale termine
tecnico, dal momento che indica un modo di intervento specifico del-
la superiore autorità, che non si sostituisce né fa proprio l’atto del-
l’organo inferiore, che ne rimane totalmente responsabile, ma ne cer-
tifica la conformità con la normativa universale autorizzandone la pro-
mulgazione. Tale intervento costituisce una condizione estrinseca ma
necessaria all’atto, e consente all’autorità superiore di richiedere, mo-
tivandole, correzioni o modifiche sul merito della norma stessa 4.
In forza del can. 88 l’Ordinario del luogo può dispensare valida-
mente dai decreti generali promulgati dalla Conferenza episcopale
ogniqualvolta ciò giovi al bene dei fedeli 5.

Altre possibilità di inter vento normativo?


Se quanto affermato sinora costituisce un dato pacificamente
acquisito nella riflessione canonistica, le opinioni degli autori diver-
gono sul modo in cui conciliare quanto stabilito dai primi tre para-
grafi del can. 455 con il dettato del § 4, qui riportato:
«Nei casi in cui né il diritto universale né uno speciale mandato della Sede
Apostolica abbiano concesso alla Conferenza episcopale la potestà di cui al
§ 1, rimane intatta la competenza di ogni singolo Vescovo diocesano e la
Conferenza episcopale o il suo presidente non possono agire validamente in
nome di tutti i Vescovi, a meno che tutti e singoli i Vescovi non abbiano dato
il loro consenso».

Si può infatti considerare assodato che il senso del § 1 del can.


455 sia di limitare l’ambito della potestà legislativa della Conferenza

4
Così la Segreteria della Pontificia Commissione per la revisione del CIC spiegò nel 1981 il senso del
termine recognoscere: «La recognitio (o approvazione, conferma) denota nel caso l’atto della competente
autorità superiore con cui si autorizza la promulgazione della legge fatta da un’autorità inferiore. Tale
recognitio non è soltanto una qualche formalità, ma un atto di potestà di governo, assolutamente neces-
sario (se manca, l’atto dell’autorità inferiore è nullo), con il quale si possono imporre modifiche anche
sostanziali alla legge o al decreto presentato per la conferma. Tuttavia l’atto (legge o decreto) non di-
venta dell’autorità superiore, ma rimane sempre un atto dell’autorità che lo stabilisce e promulga» (Re-
latio complectens synthesim, Città del Vaticano 1981, ad can. 792 § 2, p. 192).
5
M. MARCHESI, Diritto canonico complementare italiano, Bologna 1992, pp. 21-22, ritiene che il princi-
pio sia applicabile quando non torni a danno di terzi.
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 425

episcopale ai soli casi da esso contemplati, cioè alle disposizioni del


diritto universale e al mandato della Sede Apostolica, sia motu pro-
prio sia richiesto dalla Conferenza episcopale stessa. Tale imposta-
zione rispecchia fedelmente, anche nel tenore letterale, il dettato
conciliare di CD 38, 4 6, a cui si giunse dopo un’ampia discussione
che restrinse radicalmente le previsioni contenute negli schemi pre-
paratori. Il n. 24 dello Schema Decreti de Episcopis ac de dioecesium
regimine, discusso nel 1963, attribuiva infatti alle conferenze la pote-
stà di prendere decisioni giuridicamente vincolanti nei seguenti
quattro casi:
a) quando si tratta di cose particolari che sono demandate alla
discussione o alla decisione della Conferenza episcopale nazionale
sia dal diritto comune sia da uno speciale mandato della Sede Apo-
stolica;
b) quando si tratta di dichiarazioni di grande importanza da e-
mettere pubblicamente a nome della Conferenza episcopale nazionale;
c) quando si tratta di affari da trattare con il governo civile e
che riguardano l’intera nazione;
d) quando la gravità della cosa esiga un comportamento unifor-
me di tutti i vescovi e almeno i due terzi dei prelati presenti con voto
deliberativo giudichino che la decisione dev’essere rafforzata con va-
lore giuridico per tutti.
Il testo dello schema stabiliva che siffatti provvedimenti doves-
sero essere approvati con la maggioranza dei due terzi e necessitas-
sero della recognitio della Santa Sede 7.
Il nuovo schema elaborato nel 1964 sulla base dei voti e delle
osservazioni ricevute eliminò l’enumerazione dei casi, limitando la
potestà deliberativa delle Conferenze episcopali secondo la formula-
zione che sarà recepita nel testo definitivo. Anche se è vero che tale
scelta fu dettata in primo luogo da criteri di maggior concisione, e a
prescindere dalla valutazione che si intenda dare dell’opzione conci-
liare, è inevitabile dover concludere che la potestà normativa delle

6
«Le decisioni della Conferenza episcopale, quando siano state prese legittimamente e con almeno
due terzi dei suffragi dei presuli appartenenti alla Conferenza con voto deliberativo, e abbiano ottenuto
la recognitio dalla Sede Apostolica, hanno forza di obbligare giuridicamente soltanto nei casi in cui ciò
sia prescritto dal diritto comune, oppure sia stabilito da un mandato speciale della Sede Apostolica, im-
partito motu proprio o su richiesta della Conferenza stessa». La differenza testuale di maggior rilievo
sta nel fatto che nel can. 455 § 1 si è sostituito decisiones con decreta generalia, utilizzando un’espressio-
ne giuridicamente più definita.
7
Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II, II/IV, pp. 371-374.
426 Mauro Rivella

Conferenze episcopali è limitata in maniera tassativa alle sole fatti-


specie contemplate dal § 1 del can. 455 8.
Come interpretare allora il § 4, che costituisce un’evidente appli-
cazione di una regola del diritto, già ripresa dal can. 119, 3°: «Quod
omnes uti singulos tangit, ab omnibus approbari debet»?
Per rispondere alla questione, è opportuno ricordare che le li-
mitazioni imposte alla potestà legislativa delle Conferenze episcopali
dal § 1 del can. 455 sono conseguenti alla natura stessa di questi or-
ganismi, senza dubbio indispensabili nell’attuale contesto ecclesiale,
ma la cui finalità precipua – come è ben chiarito nei lavori preparato-
ri del CIC 9 – non è il legiferare. Tale facoltà è data alle Conferenze
episcopali nella misura in cui è strettamente necessario, per non
usurpare la legittima potestà della suprema autorità della Chiesa, ma
ancor più per non mortificare il ruolo e le funzioni dei vescovi dioce-
sani. Il § 4 sta dunque ad affermare che, quand’anche tutti i suoi
membri fossero d’accordo, la Conferenza episcopale in quanto tale
non potrebbe promanare provvedimenti aventi forza di legge, a me-
no che, valutate le circostanze, non abbia ottenuto dalla Santa Sede il
mandato speciale, ricadendo pertanto nella fattispecie del § 1 10. Nel
contempo rimane intatto il principio generale del can. 119, 3°, che
del resto sarebbe valido anche se non fosse qui menzionato: i vesco-
vi appartenenti a una Conferenza episcopale possono agire all’unani-
mità nell’assumere qualsiasi provvedimento di loro competenza, ma
in questo caso opereranno in forza della loro potestà nativa, e il frut-
to sarà una deliberazione concomitante e collimante, che ciascuno
dovrà promulgare come diritto particolare diocesano 11.

8
Per due autorevoli ma divergenti interpretazioni dei lavori conciliari e del loro esito, cf R. SOBANSKI,
La teologia e lo statuto giuridico delle Conferenze episcopali nel concilio Vaticano II, e J. MANZANARES,
Autorità dottrinale delle Conferenze episcopali, in AA.VV., Natura e futuro delle Conferenze episcopali, Bo-
logna 1988, pp. 92-102; 258-262.
9
È questa la risposta data dalla Segreteria della Pontificia Commissione per la revisione del CIC alle
osservazioni in merito allo Schema 1980 (Relatio complectens synthesim, ad can. 330, p. 97): «La Confe-
renza episcopale non è intesa in primo luogo come un’assemblea legislativa che debba centralizzare
quasi ogni aspetto, ma è soprattutto un organismo di unione e di comunione dei Vescovi fra loro, in mo-
do che ciascuno possa procedere nel governo della sua diocesi “dopo lo scambio delle esperienze prati-
che e il confronto dei pareri” (CD, n. 37), e pertanto nel medesimo Decreto conciliare è stabilito che le
decisioni della Conferenza vincolano giuridicamente soltanto nei casi espressamente definiti (n. 38, 4)».
10
Cf F.J. URRUTIA, Responsa Pontificiae Commissionis Codicis Iuris Canonici Authentice Interpretando,
in «Periodica de re morali canonica liturgica» 74 (1985) 613, n. 9.
11
Cf R. PERIS, Conferencia Episcopal y decisiones vinculantes, in «Ius Canonicum» 30/60 (1990) 579-
605; D. CITO, Le delibere normative delle Conferenze episcopali, in «Ius Ecclesiae» 3 (1991) 561-572;
L. MARTÍNEZ SISTACH, La actividad jurídica de la Conferencia Episcopal, in «Ius Canonicum» 32/63
(1992) 83-96.
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 427

In realtà il CIC individua nel concilio plenario, che raccoglie tut-


te le Chiese appartenenti a una Conferenza episcopale (cf cann. 439-
446) l’organismo specifico dotato di potestà legislativa a cui compete
decidere, secondo il can. 445:
«ciò che risulta opportuno per l’incremento della fede, per ordinare l’attività
pastorale comune, per regolare i costumi e per conservare, introdurre, di-
fendere la disciplina ecclesiastica».

Chi ha inteso porre un freno ai presunti eccessi delle Conferen-


ze episcopali ha richiamato il ruolo di questa assise. Con onestà bi-
sogna però riconoscere che si tratta di uno strumento poco utilizzato
nella pratica, e chiedersi se di fatto non sia destinato a essere sop-
piantato dalle conferenze stesse, che riescono a essere più tempesti-
ve perché, a differenza del concilio plenario, costituiscono un organi-
smo permanente 12.

Pronunciamenti non normativi:


un magistero delle Conferenze episcopali?
L’ipotesi di un pronunciamento unanime da parte dei membri di
una Conferenza episcopale costituisce in realtà un caso limite, così
come la modalità di intervento mediante decreti generali tocca ordi-
nariamente questioni specifiche, inserite nel più ampio quadro del
diritto universale. La maggior parte degli interventi delle conferen-
ze, quelli di più immediato interesse, destinati a rispondere alle que-
stioni e ai problemi più attuali e a ottenere vasta eco nell’opinione
pubblica, cattolica e no, rientra nel campo piuttosto indeterminato
delle prese di posizione su fatti di attualità e su questioni afferenti la
dottrina e i comportamenti morali. Proprio sul carattere di tali pro-
nunciamenti si è accesa la discussione fra gli studiosi, e un’ampia
produzione di scritti ha cercato di chiarificare se si possa attribuire
alle Conferenze episcopali una vera e propria potestà di magistero 13.

12
Cf G. MUCCI, Concili particolari e Conferenze episcopali, in «La Civiltà Cattolica» 138 (1987/II) 340-
348; G. GHIRLANDA, Concili particolari..., cit., pp. 117-132.
13
La bibliografia sull’argomento è assai ricca: mi limito a ricordare la positio questionis fatta da G.
GHIRLANDA - F.J. URRUTIA in «Periodica de re morali canonica liturgica» 76 (1987) 573-667; J. MANZANA-
RES, Autorità dottrinale..., cit., pp. 253-282; A. ANTÓN, Le conferenze episcopali. Istanze intermedie?, Cini-
sello Balsamo 1992, pp. 325-465.
428 Mauro Rivella

Anche se l’Instrumentum laboris sullo statuto teologico e giuri-


dico delle Conferenze episcopali, preparato nel 1987 dalla Congrega-
zione per i Vescovi in vista di un testo definitivo che sinora non è sta-
to pubblicato, adotta una posizione piuttosto minimalista, negando
che si possa parlare di un munus magisterii che compete alle Confe-
renze episcopali in quanto tali, come invece spetta per diritto divino
ai singoli vescovi, e affidando a tali organismi meri compiti strumen-
tali in ordine all’evangelizzazione e alla catechesi 14, ritengo che non
si possa negare alle conferenze il diritto di pronunciarsi anche su
questioni di carattere dottrinale, intendendo tali pronunciamenti, se
approvati dall’assemblea generale, come atti della conferenza stessa
e non semplicemente come l’operato simultaneo di alcuni suoi mem-
bri. Come osserva finemente Urrutia, la questione può essere risolta
avendo presente la distinzione che esiste fra la potestà di governo e
quella di magistero: la prima infatti si propone di determinare fra di-
verse opzioni un modo di agire, che diverrà vincolante per tutti se-
condo le modalità sopra descritte; la seconda invece ha come fine
l’additare la posizione dottrinale che meglio risponde all’insegna-
mento della Chiesa. Dal momento che l’insegnamento magisteriale
non può, per sua intima natura, discostarsi dalla sana dottrina della
Chiesa, il magistero delle Conferenze episcopali non potrà che esse-
re un servizio alla comunione, e come tale dovrà essere accolto an-
che dai vescovi dissenzienti 15. Lo stesso Ghirlanda, che in preceden-
za si era schierato fra gli autori che in maniera più risoluta negavano
che si potesse parlare di un munus magisterii delle conferenze, ha
poi riconosciuto che in tali organismi, da intendersi come collegio nel
senso del can. 115 § 2, e nei quali viene attuata la dimensione colle-
giale del ministero episcopale,
«i Vescovi, in comunione gerarchica col Capo del Collegio e con i membri di
esso, possono esercitare in modo congiunto o collegiale la potestà di magi-
stero, che inerisce allo stesso ufficio di pastori delle Chiese loro affidate, e

14
«Del munus magisterii non godono, propriamente parlando, le Conferenze episcopali in quanto tali.
Esse si prefiggono, per la loro stessa natura, mete operative, pastorali e sociali e non direttamente dot-
trinali. Spetta alla Conferenza episcopale occuparsi delle modalità, strumenti e agenti della catechesi e,
in questo contesto, per l’intima connessione tra la pastorale e l’ufficio, officium et ius est [...] invigilan-
di, ne scriptis aut usu instrumentorum communicationis socialis christifidelium fidei aut moribus detri-
mentum afferatur (CIC can. 823; cf anche cann. 772 § 2; 775 § 2; 810 § 2; 825; 830 § 1; 831 § 2). Le Con-
ferenze episcopali non costituiscono pertanto un’istanza dottrinale, non hanno competenza per stabilire
contenuti dogmatici e morali»(EV 10, n. 1888).
15
Cf F.J. URRUTIA, De exercitio muneris docendi a Conferentiis episcoporum, in «Periodica de re morali
canonica liturgica» 76 (1987) 622-626.
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 429

quindi si possono proporre come maestri della fede per i fedeli affidati alla
loro cura, i quali sono tenuti ad aderire con religioso ossequio al magistero
autentico proposto» 16.

Il nostro Autore ritiene che il fatto che il CIC si limiti nel can.
753 ad affermare che i vescovi, sia singolarmente sia riuniti nelle
Conferenze episcopali, sono autentici dottori e maestri della fede, e
non dia norme specifiche circa l’esercizio della potestà di magistero
da parte delle Conferenze episcopali configuri una lacuna iuris e au-
spica che anche le dichiarazioni dottrinali delle conferenze siano as-
soggettate a una disciplina simile a quella prevista dal can. 455 § 2,
ovvero che si richieda la maggioranza qualificata dei due terzi dei
membri della conferenza con voto deliberativo e la recognitio della
Santa Sede 17. Credo che si possa accogliere questa posizione pruden-
te e che il silenzio del CIC in merito sia stato dovuto da una parte al
non perfetto coordinamento fra i diversi gruppi di lavoro che hanno
preparato le sue diverse parti, e dall’altra alla fluidità della materia e
all’opportunità di concedere un tempo di sperimentazione pastorale
per una più matura verifica. È comunque bene che lo strumento delle
dichiarazioni dottrinali sia utilizzato con cautela, soprattutto nei casi
in cui il suo uso potrebbe ingenerare l’impressione di una discrepan-
za di posizioni con gli interventi magisteriali dell’Autorità suprema.
Alla luce della vigente normativa i pronunciamenti dottrinali
delle Conferenze episcopali, purché assunti nell’assemblea generale,
sono regolati dagli statuti di ciascuna, che necessitano della recogni-
tio della Sede Apostolica (can. 451) o, in mancanza di norme specifi-
che, dalla norma generale del can. 119, 2°, che richiede per gli atti
collegiali la maggioranza assoluta dei consensi dei presenti. In que-
sta linea si può intendere da applicare ad essi quanto espresso dal-
l’art. 18 dello Statuto della Conferenza episcopale italiana:
«Le altre deliberazioni sono prese dall’Assemblea con la maggioranza asso-
luta dei presenti votanti e, di regola, con suffragio scritto. A tali deliberazio-
ni, quantunque giuridicamente non vincolanti, ogni Vescovo si atterrà in vi-
sta dell’unità e del bene comune, a meno che ragioni a suo giudizio gravi ne
dissuadano l’adozione nella propria diocesi» 18.

16
G. GHIRLANDA, Concili particolari..., cit., p. 129.
17
Ibid., p. 130.
18
ECEI 3, n. 2322; la revisione dello Statuto, attualmente in corso, non dovrebbe apportare modifiche
significative a questo articolo.
430 Mauro Rivella

Può essere utile ricordare che tale formulazione rispecchia


quanto a suo tempo affermato al n. 212b del Direttorio per il ministe-
ro pastorale dei vescovi Ecclesiae Imago, che aggiunge:
«Tali decisioni e norme vengono da lui promulgate nella diocesi a nome e
con autorità propria, giacché in questi casi la Conferenza non può limitare la
potestà che ogni Vescovo personalmente detiene in nome di Cristo» 19.

Resta inteso che dichiarazioni e pronunciamenti della presiden-


za, del consiglio permanente, della segreteria e delle varie commis-
sioni non possono essere interpretati o presentati come documenti
dell’intera Conferenza episcopale e impegnano la comunità solo per
il valore intrinseco degli argomenti. È bene che ciò risulti sempre in
modo chiaro, al fine di non favorire la tendenza all’appiattimento e al-
la semplificazione caratteristica dei mezzi di comunicazione di mas-
sa, che può ingenerare non poca confusione nei fedeli.

Decreti generali esecutivi


Una risposta della Pontificia Commissione per l’interpretazione
autentica del CIC, datata 5 luglio 1985, ha definitivamente chiarito
che l’espressione «decreti generali», contenuta nel can. 455 § 1, è da
intendersi come comprensiva anche dei decreti generali esecutivi.
Ciò significa che le Conferenze episcopali, anche quando emettano
decreti generali esecutivi, devono rispettare i requisiti e le condizio-
ni previsti da detto canone e sopra elencati.
Ai decreti generali esecutivi sono dedicati i cann. 31-33. Il primo
di essi, al § 1, ce ne dà la definizione:
«Possono dare decreti generali esecutivi, con cui sono appunto determinati
più precisamente i modi da osservarsi nell’applicare la legge o con cui si ur-
ge l’osservanza delle leggi, coloro che godono nella potestà esecutiva, entro
i limiti della loro competenza».

Si tratta pertanto di provvedimenti che rientrano nella sfera del-


la potestà esecutiva, o – secondo un’altra terminologia – amministra-
tiva: non possono derogare alle leggi né introdurre disposizioni in
contrasto con le leggi stesse (can. 33 § 1). Anch’essi devono essere

19
Il documento della Congregazione per i Vescovi fu pubblicato il 22 febbraio 1973 (EV 4, n. 2317).
Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali 431

promulgati, dal momento che obbligano coloro che sono tenuti alle
leggi a cui fanno riferimento (can. 32).
Se da una parte è vero che nell’emettere decreti generali ese-
cutivi la Conferenza episcopale agisce in forza della propria compe-
tenza pastorale, bisogna notare che la norma del can. 455 § 1 non di-
stingue fra decreti generali e decreti generali esecutivi. Applicando
l’adagio «ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus», ne con-
segue che la conferenza stessa può promulgare decreti generali ese-
cutivi solo nelle materie determinate dal diritto o per concessione
della Sede Apostolica. Anche la ratio di questa norma può essere in-
dividuata nell’intenzione di non coartare la potestà nativa dei vescovi
diocesani. Quando lo speciale mandato provenga da una Congrega-
zione romana, si dovrà presumere che permetta la promulgazione di
un decreto esecutivo, dal momento che le Congregazioni di per sé
non dispongono della potestà legislativa né possono delegarla. Se in-
vece il decreto è previsto dal diritto universale, bisogna verificare se
alla conferenza sia chiesto di stabilire una norma originale, o piutto-
sto di dettagliare l’applicazione di una norma preesistente o di indi-
care il modo di osservarla 20.
Si noti che, dal punto di vista pratico, almeno in ordine alla possi-
bilità e al modo di promulgazione, è secondario stabilire se il decreto
generale della conferenza sia legislativo o esecutivo, dal momento
che la legge canonica richiede per entrambi le medesime condizioni.

Atti amministrativi singolari


Non solo le attribuzioni pastorali, ma la natura stessa di persona
giuridica pubblica esigono da parte delle Conferenze episcopali una
produzione significativa di atti amministrativi singolari, ovvero di
quei provvedimenti esecutivi, mediante i quali, come ci ricorda il
can. 48, «secondo le norme del diritto è data per un caso particolare
una provvisione o è presa una decisione».
Possiamo affermare che, per ciò che riguarda la sua struttura
interna e i compiti istituzionali, ciascuna Conferenza episcopale può
emettere atti amministrativi singolari senza particolari limiti o condi-
zioni, attenendosi alle determinazioni statutarie o alla norma supple-

20
Cf F.J. URRUTIA, Responsa Pontificiae Commissionis..., cit., pp. 609-616. L’Autore indica anche (pp.
615-616) quali canoni del CIC richiedano da parte delle Conferenze episcopali la promulgazione di de-
creti generali esecutivi: cann. 230 § 1; 276 § 2, 3°; 284; 964 § 2; 1126; 1262; 1272; 1292 § 1.
432 Mauro Rivella

toria del can. 119, 2°: quando dunque il provvedimento sia assunto
dall’assemblea generale, sarà sufficiente la maggioranza assoluta dei
presenti. Nulla vieta poi che la facoltà di dare atti amministrativi sin-
golari sia delegata in maniera stabile o occasionale agli organi della
conferenza stessa, quali la presidenza, il consiglio permanente, la se-
greteria o singole commissioni: un’indicazione in tal senso, riferita al
consiglio permanente, è contenuta nel can. 457.
Si danno tuttavia alcuni casi in cui il provvedimento della Confe-
renza episcopale, pur essendo formalmente classificabile fra gli atti
amministrativi singolari, ha conseguenze che esorbitano dalla sua
struttura interna. Il CIC richiede allora che esso sia approvato dalla
Sede Apostolica: così è per l’erezione di un seminario nazionale (can.
237 § 2); la convocazione del concilio plenario (can. 439 § 1); la pub-
blicazione di catechismi nazionali (can. 775 § 2); la costituzione di
tribunali di seconda istanza (can. 1439 §§ 1-2) 21.

Competenze di derivazione pattizia


Un’ultima questione riguarda le competenze normative che
possono derivare a una Conferenza episcopale per adempimenti di
matrice concordataria. A rigore essi vanno ricondotti alla tipologia
dei decreti generali legislativi ed esecutivi che la conferenza è abili-
tata a promulgare sulla base di uno speciale mandato della Sede
Apostolica. Come dimostra l’esperienza italiana di attuazione dell’Ac-
cordo di revisione concordataria del 1984, alcune competenze sono
state di fatto attribuite dalla Santa Sede direttamente al presidente o
al consiglio permanente. Senza dubbio in questi casi la recognitio si
dimostrerà un ottimo strumento per verificare la correttezza dei
provvedimenti assunti in rapporto alla normativa canonica universa-
le e al bene della Chiesa stessa 22.

MAURO RIVELLA
Via Lanfranchi, 10
10131 Torino

21
Cf R. PERIS, Conferencia episcopal..., cit., p. 602, nota 50; L. MARTÍNEZ SISTACH, La actividad jurídi-
ca..., cit., pp. 94-95.
22
Per il caso italiano e le soluzioni adottate, cf M. MARCHESI, Diritto canonico..., cit., pp. 28-31. Si veda
inoltre lo studio di Calvi contenuto in questo fascicolo.
433
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 433-448
Le Conferenze episcopali
e i Sinodi delle Chiese orientali
di G. Paolo Montini

Premessa
Non mi nascondo che più di una perplessità possa nascere nella
considerazione del paragone che qui si intende affrontare 1.
E le ragioni di tale perplessità risiedono sia nella scarsa co-
noscenza che di solito circonda le istituzioni delle Chiese orienta-
li cattoliche; sia nella convinzione dell’esigua rilevanza dell’influs-
so tra le istituzioni delle diverse Chiese orientali e la Chiesa latina;
sia nella pretesa chiarezza della configurazione delle Conferenze epi-
scopali.
In realtà il paragone fra le Conferenze episcopali e i Sinodi delle
Chiese orientali è non solo fruttuoso, ma per più versi giustificato e
fondato positivamente 2.
Il percorso che il presente contributo intende affrontare è il
seguente: dopo aver constatato l’incertezza che ancor oggi circon-
da le Conferenze episcopali considerate nella loro natura, si giustifi-
ca il paragone fra le medesime e i Sinodi delle Chiese orientali catto-

1
Si può trovare una simile comparazione condotta per esteso in P. PALLATH, The Synod of Bishops of
Catholic Oriental Church, Rome 1994, pp. 208-228: Chapter Seven. The Synod of Bishops and the Confe-
rence of Bishops of the Latin Church.
2
Cf A. ANTÓN, Le conferenze episcopali. Istanze intermedie? Lo stato teologico della questione, Cinisello
Balsamo 1992, pp. 106-107: «Il rapporto di analogia [...] tra le conferenze e i patriarcati d’Oriente indica
una strada molto promettente per progredire nello studio dello status teologico delle conferenze epi-
scopali e per determinare de iure condito et condendo la loro figura giuridica». Cf pure R. POTZ, Der Co-
dex Canonum Ecclesiarum Orientalium 1990 - Gedanken zur Kodifikation des katholischen Ostkirchen-
rechts, in AA.VV., Scientia canonum. Festschrift für Franz Pototschnig zum 65. Geburtstag, herausgege-
ben von H. Paarhammer - A. Rinnerthaler, München 1991, p. 408: secondo questo autore la struttura
sinodale orientale delineata dal Codice dei Canoni delle Chiese Orientali rappresenta il primo dei prin-
cipali ambiti di «eine katholische Alternative zum lateinischen Kirchenrecht», e in specie della normativa
sulle Conferenze episcopali.
434 G. Paolo Montini

liche 3 a partire dal concilio Vaticano II, si descrive la natura e la dina-


mica dei medesimi Sinodi e infine si prospettano linee di confronto
fra le due istituzioni.

Il dibattito intorno alle Conferenze episcopali


A fronte dell’inquadramento giuridico chiaro che le Conferenze
episcopali hanno ricevuto nel decreto conciliare Christus Dominus (cf
nn. 37-38), l’Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi,
convocata a vent’anni dalla conclusione del concilio Vaticano II, ha
chiesto formalmente che venisse «più ampiamente e profondamente
esplicitato lo studio dello status teologico delle Conferenze episcopali e
soprattutto il problema della loro autorità dottrinale» 4.
Il Sommo Pontefice accoglieva benevolmente l’auspicio e incari-
cava la Congregazione per i Vescovi di predisporre un documento al-
l’uopo 5.
Il documento redatto sotto forma di testo non definitivo (Instru-
mentum laboris), ma aperto a contributi e arricchimenti, veniva in-
viato alle Conferenze episcopali il 12 gennaio 1988, con l’invito a far
pervenire osservazioni entro la fine del medesimo anno 6.
Le reazioni vivaci e, per la maggioranza, insoddisfatte degli epi-
scopati e degli esperti hanno finora, a distanza di oltre otto anni, la-
sciato senza risposta il desiderio di chiarezza emerso dal Sinodo dei
Vescovi.
Anche solo tale recente vicenda dice con sufficiente convinzio-
ne che intorno alle Conferenze episcopali continuano a persistere e-
lementi di incertezza e di oscurità.

3
Il nostro discorso vorrà limitarsi alle Chiese orientali cattoliche, anche se il confronto con il diritto si-
nodale ortodosso non sarebbe particolarmente laborioso: cf J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopali:
reazioni ecumeniche. Causa nostra agitur? Punto di vista ortodosso, in AA.VV., Natura e futuro delle Con-
ferenze episcopali. Atti del Colloquio internazionale di Salamanca (3-8 gennaio 1988), a cura di H. Le-
grand - J. Manzanares - A. García y García, Bologna 1988, pp. 401-408. Tanto più che, se è vero che «le
chiese ortodosse non hanno l’esperienza di questa istituzione», cioè delle Conferenze episcopali (cf
ibid., p. 401), un fenomeno analogo si sta instaurando nella diaspora (cf INTERORTHODOXE VORBEREI-
TUNGSKOMMISSION FÜR DIE HEILIGE UND GROSSE SYNODE, Genehmigter Text über die Einrichtung von Bi-
schofskonferenzen in der Diaspora, in «Österreichisches Archiv für Kirchenrecht» 42 [1993] 709-710).
4
Relazione finale (7 dicembre 1985), II, C, 8b.
5
«Con lettera del 19 maggio scorso, ho affidato al Cardinale Prefetto della Congregazione per i vesco-
vi la responsabilità per lo studio della presente questione» (GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione ai Cardinali
e ai Collaboratori della Curia Romana, 28 giugno 1986, n. 7, in «L’Osservatore Romano» 29 giugno
1986, p. 5).
6
Il testo è stato pubblicato in «Il Regno/Documenti» 33 (1988) 390-396 e si può leggere pure in EV 10,
nn. 1844-1913.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 435

Se prescindiamo dalla problematica, particolarmente viva ma


puntuale, dell’autorità dottrinale delle Conferenze episcopali, il punto
nodale maggiormente controverso rimane quello del loro fondamen-
to teologico.
Senza voler adeguatamente delimitare le alternative della que-
stione, si può affermare che non è certo se le Conferenze episcopali
– siano fondate sul diritto divino o non piuttosto sul diritto ec-
clesiastico, per il quale sono meri strumenti pastorali oggi adatti al
bene della Chiesa;
– siano fondate sulla collegialità episcopale o non piuttosto sulle
necessità di coordinamento fra pastori di Chiese particolari, giustifi-
cato da una dimensione apostolica che spesso oggi richiede una di-
mensione nazionale;
– siano giustificate dalla comunione delle Chiese particolari che
le compongono o non piuttosto dalla mera prevalenza di omogeneità
culturale e pastorale fra Chiese particolari limitrofe e accomunate da
una medesima appartenenza politica.
Che dietro tali problematiche si agitino altre esigenze, richieste
e principi non mette conto dirlo. Come non vedere nelle alternative
sopra recensite una variabile delle incertezze se le Conferenze epi-
scopali
– debbano essere più dotate di poteri legislativi e esecutivi o
non piuttosto maggiormente delimitate nella loro potestà dalla atti-
vità della Santa Sede;
– debbano svolgere un più consistente sforzo inculturativo della
fede e della vita ecclesiali nei luoghi loro propri o non piuttosto limi-
tarsi ad applicazioni limitate, programmate ed estrinseche della nor-
mativa canonica, liturgica e magisteriale universale;
– debbano conoscere una maggiore autonomia dalla Santa Sede
e una maggiore relazione tra di loro o non piuttosto essere richiama-
te fortemente all’unità costituzionale della Chiesa cattolica?
Sarebbe illusoria ogni soluzione alle precedenti problematiche
affrontata sul mero piano dello scontro di forza fra le istituzioni in
gioco, come lasciata all’evoluzione della prassi. Il richiamo più fonda-
to rimane in questo senso quello ai testi conciliari.
436 G. Paolo Montini

Lumen gentium 23d 7


Il testo più pregnante e impegnativo dal punto di vista teologico
che concerne le Conferenze episcopali non è contenuto nel decreto
Christus Dominus, istitutivo delle conferenze stesse, ma nella costitu-
zione dogmatica Lumen gentium 8 :
«Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi fondate
dagli Apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in mol-
ti gruppi, organicamente uniti, i quali, salva restando l’unità della fede e l’u-
nica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disci-
plina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale pro-
prio. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese Patriarcali, quasi matrici
della fede, ne hanno generate altre che sono come loro figlie, con le quali re-
stano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita
sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri. Questa varietà di
Chiese locali, fra loro concordi, dimostra con maggiore evidenza la cattoli-
cità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali possono
oggi portare un molteplice e fecondo contributo perché lo spirito collegiale
passi a concrete applicazioni».

L’importanza del testo nasce dal fatto che in esso il Concilio, nel
contesto della collegialità episcopale e in specie delle relazioni dei
vescovi in seno al Collegio episcopale, instaura una stretta compara-
zione e similitudine fra le Conferenze episcopali e l’istituzione pa-
triarcale.

L’evoluzione del testo 9


Il testo ha una sua chiara evoluzione, peraltro contemporanea
alla discussione sul testo del decreto Christus Dominus.

7
Dedicano peculiare attenzione a questo testo A. ANTÓN Le conferenze episcopali..., cit., pp. 103-119;
O. ROUSSEAU, Divina autem Providentia... Histoire d’une phrase de Vatican II, in AA.VV., Ecclesia a Spi-
ritu Sancto edocta. Mélanges théologiques. Hommage à Mgr. G. Philips, Gembloux 1970, pp. 283-289.
8
LG 23d è definito il «testo che costituisce l’ispirazione originaria delle conferenze episcopali» (Natu-
ra teologica delle conferenze episcopali [gruppo di lingua spagnola], in AA.VV., Natura e futuro..., cit.,
pp. 247). Fa una certa impressione non trovarne la citazione né diretta né indiretta nell’Instrumentum
laboris sullo status teologico e giuridico delle Conferenze episcopali elaborato dalla Congregazione per
i Vescovi. Sul rapporto fra i due documenti conciliari, in particolare in merito alla dottrina della colle-
gialità, cf, per esempio, A. ANTÓN, Le conferenze episcopali..., cit., pp. 101-103.
9
Per l’evoluzione del testo si può vedere Constitutionis Dogmaticae Lumen Gentium Synopsis historica,
a cura di Giuseppe Alberigo - Franca Magistretti, Bologna 1975, ad locum; Constitutio dogmatica de Ec-
clesia Lumen Gentium, a cura di Francisco Gil Hellín, Città del Vaticano 1995, ad locum.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 437

Gli stadi dell’evoluzione sono quattro.


1°. Nel primo Schema (della Commissione preparatoria, no-
vembre 1962) l’accenno alle missioni e al dovere missionario (che
poi si introdurranno al termine del numero dedicato al rapporto fra
il vescovo singolo e la Chiesa universale) è sviluppato in un capitolo
apposito del documento, senza alcun nesso con il nostro testo.
2°. Nel secondo Schema (novembre 1962) all’accenno sulle
missioni e al dovere missionario (ormai trasferito nel nostro nume-
ro) viene aggiunto un brevissimo passaggio sulle relazioni di aiuto
dei singoli vescovi con le diocesi vicine:
«Infine i Vescovi, nella universale comunione della carità, offrano volentieri
un fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più vicine, con l’istitu-
zione, dove sia necessario, delle Conferenze episcopali».

Qui le Conferenze episcopali erano viste come organismi utili


all’aiuto fraterno per le altre diocesi.
3°. Nel terzo Schema (prima metà del 1963) il breve passaggio
si arricchisce, acquistando autonomia il cenno alle Conferenze epi-
scopali:
«Infine i Vescovi, nella universale comunione della carità, offrano volentieri
un fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più indigenti e alle più
vicine, seguendo in questo il venerando esempio della Chiesa antica. Perché lo
spirito collegiale passi a concrete applicazioni le Conferenze episcopali possono
portare un molteplice e fecondo contributo».

Le aggiunte e le variazioni più significative riguardano il riferi-


mento esplicito e autonomo alla collegialità delle Conferenze episco-
pali, nonché il richiamo alla prassi istituzionale della Chiesa primitiva.
4°. Senza mutare praticamente alcunché del testo precedente,
fra l’accenno all’aiuto fra Chiese vicine e quello esplicito alle Confe-
renze episcopali
«si aggiunge una nuova pericope sulla unione fra più diocesi in un gruppo,
organicamente costituito, per indicare il fatto storico della peculiare relazio-
ne fra Chiese, che hanno un’origine comune, da cui nasce la stretta unione
tra i Vescovi di quelle Chiese, sotto forma di Patriarcato, com’è avvenuto an-
ticamente soprattutto in Oriente» 10.

10
Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II [=AS], Città del Vaticano 1970-1978, III/I, p. 249. L’i-
spirazione immediata del testo introdotto è dovuta a un testo proposto da mons. Zoghby per un’inser-
zione da porre loco propitiori (cf AS II/II, p. 615). Il testo in realtà era già una rielaborazione di un altro
438 G. Paolo Montini

L’accenno alle Conferenze episcopali è perciò introdotto da una


espressione di analogia: «Simili ratione» perché
«si compara al fenomeno storico dei Patriarcati la forma odierna delle Confe-
renze episcopali, che, alla luce della collegialità episcopale, permette di mo-
strare con più chiarezza la sua indole e la sua importanza teologiche» 11.

«La locuzione simili ratione significa che le Conferenze episcopali hanno la


medesima ragione d’essere delle diverse forme storiche di raggruppamenti
di Chiese particolari, ossia quella di realizzare, in modo veramente cattolico,
l’unità nella diversità» 12.

Il significato
Come la stessa evoluzione ha indicato, il testo di LG 23d ha len-
tamente lasciato la prospettiva delle Conferenze episcopali come
gruppi di vescovi che manifestano la propria sollecitudine per la
Chiesa universale e i rapporti interni al Collegio episcopale nell’aiuto
reciproco fra le diocesi da loro rette, per introdurre una prospettiva
in cui le Conferenze episcopali sono l’espressione a livello di vescovi
della comunione (o meglio, del legame) esistente fra le Chiese stes-
se particolari.
A una prospettiva “personalistica” e perciò collegiale, si è sosti-
tuita una prospettiva istituzionale e perciò più vasta dello stesso pun-
to di vista collegiale 13.

testo preparato da p. Johannes Hoeck, abate di Scheyern e abate preside della Congregazione benedet-
tina bavarese, per la Commissione delle Chiese Orientali. Esso però concerneva i soli Patriarcati. Sul-
l’analogia con le Conferenze episcopali erano già intervenuti in Aula il card. Bea (AS II/IV, pp. 481-485)
e mons. D. Bellido (ibid., II/V, p. 84). Rahner aveva esposto poco prima le sue riflessioni sul paralleli-
smo fra gli antichi raggruppamenti di Chiese e i moderni, costituiti dalle Chiese di una nazione o di
una regione, rappresentati dalla rispettiva Conferenza episcopale, in un articolo (cf Sulle conferenze epi-
scopali, in ID., Nuovi Saggi I, Roma 1968, pp. 591-622).
11
AS III/I, p. 249. Il brano sui Patriarcati, previsto in un primo momento alla fine del secondo para-
grafo del numero 23 (dopo la citazione di san Basilio), fu trasposto, su proposta di mons. Philips, alla fi-
ne del numero, rendendo perciò necessario il raccordo con l’accenno alle Conferenze episcopali «par
deux mots presque magiques - simili modo» (O. ROUSSEAU, Divina autem Providentia..., cit., p. 288; cf pu-
re ibid., nota 11).
12
FR. GUILLEMETTE, Théologie des conférences épiscopales. Une herméneutique de Vatican II, Montréal-
Paris 1994, p. 191.
13
«Le Conferenze episcopali realizzano la collegialità per il fatto che questa non è altro che la traduzio-
ne, sul piano dei ministeri ordinati, della comunione fra le Chiese (particolari), che si realizza secondo
le esigenze della cattolicità» (Fr. GUILLEMETTE, Théologie des conférences..., cit., p. 232). Cf l’insistenza
sul punto di partenza dato dalla concezione della Chiesa come communio Ecclesiarum in A. ANTÓN, Lo
statuto teologico delle conferenze episcopali, in AA.VV., Natura e futuro..., cit., pp. 201-229; ID., Chiesa lo-
cale/regionale: Riflessione sistematica, in AA.VV., Chiese locali e cattolicità. Atti del Colloquio internazio-
nale di Salamanca (2-7 aprile 1991), a cura di H. Legrand - J. Manzanares - A. García y García, Bolo-
gna 1994, pp. 581-603; J. FAMERÉE, Au fondement des conférences épiscopales: la “communio ecclesiarum”,
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 439

«Il Vaticano II ha introdotto qui il principio di analogia, non solo tra i raggrup-
pamenti delle Chiese antiche e quelli delle Chiese moderne, ma anche tra l’i-
stituzione dei sinodi e dei concili particolari, che furono l’organo tramite il
quale essi funzionavano, e quella delle conferenze episcopali come strumento
di azione valido per le Chiese moderne. Possiamo, quindi, affermare che la
conferenza episcopale è contemporaneamente un coetus episcoporum e un
coetus Ecclesiarum» 14.

In tal modo i Patriarcati divengono non del tutto indirettamente


come l’analogatum princeps delle Conferenze episcopali, rendendo
queste ultime più strutture costituzionali della Chiesa, che strumenti
o organismi di attività pastorale per i nostri giorni.
Si comprende in questo senso la preoccupazione di Paolo VI
che suggerirà proprio l’aggiunta «[salva restando l’unità della fede] e
dell’unica costituzione divina della Chiesa universale» 15, quasi a con-
fermare indirettamente l’incidenza costituzionale dei Patriarcati e,
simili ratione, delle Conferenze episcopali.

Riprova
L’analogia tra Sinodi patriarcali e Conferenze episcopali non sta
solo nel testo dottrinale della Costituzione dogmatica Lumen gen-
tium appena considerato, ma si può trovare a un tempo suffragata e
giustificata nei documenti postconciliari che in ambito disciplinare
hanno confermato la similitudine.
Ciò accade soprattutto là dove i documenti, volendo indirizzarsi
alla Chiesa universale, individuano nei Sinodi patriarcali gli omolo-
ghi cui attribuire le competenze che vengono riconosciute o affidate
alle Conferenze episcopali 16, fino a distinguere i territori a secondo

in «Revue théologique de Louvain» 23 (1992) 343-354. Tutto questo, tra l’altro, rende comprensibili in
ambito ortodosso le Conferenze episcopali, in quanto la collegialità di cui sarebbero espressione non
sarebbe intesa in senso universalistico (cf J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopali..., cit., pp. 404-405).
14
A. ANTÓN, Le conferenze episcopali..., cit., p. 114.
15
Cf U. BETTI, La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dom-
matica Lumen gentium, Roma 1984, p. 299.
16
Cf CD 35, 5:«Il promuovere tale coordinamento [tra i vari istituti religiosi e il clero diocesano] spetta
alla Sede Apostolica per tutta la Chiesa, ai sacri pastori nelle loro singole diocesi, e infine ai sinodi
patriarcali e alle conferenze episcopali nel loro territorio». Cf poi PAOLO VI, motu proprio Ecclesiae
Sanctae, 6 agosto 1966, I, 2: «Spetterà ai Sinodi patriarcali e alle Conferenze episcopali [...] stabilire or-
dinanze ed emettere norme per i vescovi, per ottenere un’opportuna distribuzione del clero...». Nella
seconda parte il testo imporrà la costituzione presso le Conferenze episcopali di una commissione, di-
menticando che anche i Sinodi patriarcali erano destinatari della norma ed evidenziando in tal modo
440 G. Paolo Montini

che siano organizzati secondo le Conferenze episcopali o secondo i


Sinodi patriarcali 17.
Senza contare il frequente parallelismo nell’attribuzione di com-
petenze alle due istituzioni da parte dei due Codici di diritto canoni-
co 18, nonché la collocazione nel Codice di diritto canonico delle Con-
ferenze episcopali (capitolo IV) nel titolo II: I raggruppamenti di
Chiese particolari.
Tutto ciò farà in modo che gli stessi canonisti ed ecclesiologi po-
tessero sviluppare l’affermazione dell’analogia fra le due istituzioni,
soprattutto vedendo nelle Conferenze episcopali la ripresa in Occi-
dente della pratica della collegialità, che in Oriente sarebbe sempre
rimasta in vigore per il tramite dell’istituzione del Sinodo patriarca-
le 19, nonché nei Patriarcati il modello per le Conferenze episcopali 20.

che le Conferenze episcopali ne erano i destinatari originari, cui si è aggiunta la menzione del loro
omologo, cioè il Sinodo patriarcale. Cf pure ibid., I, 5 (norme sui beni patrimoniali); I, 8 (norme sulla
remunerazione dei chierici); I, 43 (suggerimenti per i direttori pastorali emanandi dalla Sede Apostoli-
ca). Cf SACRA CONGREGAZIONE DELLA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, istruzione Dispensationis matrimonii, 7
marzo 1972, II.c: «I Sinodi patriarcali e le Conferenze episcopali godono della facoltà di stabilire norme
esecutorie più ampie...». Cf SACRA CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, decreto Orientalium Reli-
giosorum, 27 giugno 1972, 9: «...fino alla somma proposta dal Sinodo patriarcale o dalla Conferenza epi-
scopale nazionale o regionale e approvata dalla Sede Apostolica». Cf SACRA CONGREGAZIONE PER I RELI-
GIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI-SACRA CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, note direttive Mutuae Relationes, 14
maggio 1978, 60: dopo aver richiamato il ministero congiunto dei vescovi nelle Conferenze episcopali,
si aggiunge:«Nello stesso modo [similiter] esercitano il loro ministero, per il proprio rito, i Sinodi pa-
triarcali». Coerentemente nei nn. 62 e 63 Sinodi patriarcali e Conferenze episcopali saranno considerati
omologhi (cf n. 62 pariterque). Cf per la medesima equiparazione PONTIFICIO CONSIGLIO PER LE COMUNI-
CAZIONI SOCIALI, istruzione pastorale Communio et progressio, 23 maggio 1971, 4; ID., istruzione pasto-
rale Aetatis novae, 22 febbraio 1992, 24; CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, istruzione Con la so-
lennità, 7 giugno 1987, 29. Opera nella medesima direzione la collocazione delle istituzioni interessate
nell’Annuario Pontificio (cf, per esempio, Annuario Pontificio 1996, pp. 1088-1107).
17
Cf, per esempio, SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI-SACRA CONGREGAZIONE
PER I VESCOVI, note direttive Mutuae Relationes, 14 maggio 1978, 53b: dopo aver citato letteralmente un
passaggio del motu proprio Ecclesiae Sanctae, in cui ci si riferiva all’ordinario del luogo e alle Conferen-
ze episcopali, il testo aggiunge tra lineette: «o, secondo i luoghi [iuxta loca], dal sinodo patriarcale» (il
corsivo è nostro).
18
Cf, a solo titolo d’esempio, le competenze in materia di communicatio in sacris nel canone 844 §§ 4-5
e nel canone 671 §§ 4-5 CCEO, come pure le competenze in materia economica nel canone 1292 e nel
canone 1036 CCEO.
19
Cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., p. 208. Non si dovrebbe comunque tralasciare di notare
che pure in Oriente la permanenza dell’istituzione sinodale (patriarcale) non è stata lineare in tutta la
tradizione (cf, per esempio, E. CORECCO, Sinodalità, in Nuovo Dizionario di Teologia, Alba 1977,
pp. 1479-1483).
20
Cf O. ROUSSEAU, Divina autem Providentia..., cit., p. 288. Un paragone analogo potrebbe essere in-
staurato, in campo ecumenico, con le Chiese autocefale dell’Ortodossia: «Ces conférences épiscopales
ont l’avantage de conférer à une Église d’un même territoire une personnalité propre, proche mutatis mu-
tandis de celle d’une Église autocéphale» (C.J. DUMONT, Conférences épiscopales et autocéphalie des Égli-
ses. Obstacles à la convergence de deux formes de structure, in «Istina» 30 [1985] 132). In questo contesto
il paragone più pertinente potrebbe essere allora fra struttura ecclesiale soggiacente a una Conferenza
episcopale e Chiesa sui iuris.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 441

Le molteplici istituzioni sinodali delle Chiese orientali


Per chi appartenga alla Chiesa latina non è facile orientarsi fra
le istituzioni collegiali delle Chiese orientali, previste dal diritto vi-
gente 21.
La nostra scelta cade sul Sinodo patriarcale 22 (o, più corretta-
mente, Sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale), per il fatto che
esso è la più adeguata manifestazione storica, teologica e canonica
della Chiesa patriarcale.
Di profilo diverso sono
– il Sinodo permanente (cf cann. 115-121 CCEO). È organismo
della Curia patriarcale e consta del Patriarca e di quattro vescovi de-
signati per un quinquennio: tre eletti dal Sinodo patriarcale, di cui
due vescovi eparchiali, e uno nominato dal Patriarca (cf can. 115
CCEO). È, in pratica, un consiglio qualificato del Patriarca;
– l’Assemblea patriarcale (cf cann. 140-145 CCEO). È organismo
consultivo equivalente suppergiù al Sinodo diocesano nella Chiesa
latina;
– il Consiglio dei Gerarchi (cf cann. 164-171 CCEO). È organi-
smo equivalente al Sinodo patriarcale per le Chiese sui iuris che non
sono patriarcali, ma sono costituite sotto altra forma canonica, quale
quella di Chiesa metropolitana;
– l’Assemblea dei Gerarchi di più Chiese sui iuris (cf can. 322
CCEO). È l’organismo “perfettamente parallelo” delle Conferenze e-
piscopali nelle Chiese orientali 23. Raggruppa infatti
«tutti i Patriarchi, i Metropoliti delle Chiese metropolitane sui iuris, i Vescovi
eparchiali e, se gli statuti lo comportano, anche tutti gli altri Gerarchi del
luogo delle diverse Chiese sui iuris, anche della Chiesa latina, che esercita-
no la loro potestà nella stessa nazione o regione»(can. 322 CCEO).

21
Per un primo orientamento cf D. SALACHAS, Istituzioni di diritto canonico delle Chiese cattoliche orien-
tali. Strutture ecclesiali nel CCEO, Roma-Bologna 1993; G. NEDUNGATT, Sinodalità nelle chiese cattoliche
orientali secondo il nuovo codice, in «Concilium» 28 (1992) 796-817; É. EID, La sinodalità nella tradizio-
ne orientale. Relazione presentata al VII Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto
canonico (Parigi, Facoltà di diritto canonico, 21-28 settembre 1980), in AA.VV., La Sinodalità nell’ordi-
namento canonico. Materiali a uso degli studenti raccolti da M. Ghisalberti e G. Mori, Padova 1991,
pp. 59-84; M. BROGI, Strutture delle Chiese Orientali sui iuris secondo il CEEO, in «Apollinaris» 65
(1992) 299-311.
22
A esso è equiparato il Sinodo delle Chiese arcivescovili maggiori (cf can. 152 CCEO).
23
Il parallelismo è perfetto a livello istituzionale, non già reale. Infatti l’Assemblea dei Gerarchi non
possiede propriamente le potestà legislative delle Conferenze episcopali (cf can. 322 § 2 CCEO), bensì
tutta la funzione animatrice e coordinatrice delle Conferenze episcopali, come descritte soprattutto in
CD 37-38.
442 G. Paolo Montini

L’Assemblea deve radunarsi in tempi stabiliti,


«affinché in uno scambio luminoso di prudenza ed esperienza e mediante un
confronto di pareri nasca una santa cospirazione di forze per il bene comune
delle Chiese, con cui favorire l’unità di azione, aiutare le attività comuni, pro-
muovere più speditamente il bene della religione e inoltre osservare più effi-
cacemente la disciplina ecclesiastica» (can. 322 CCEO).

La presenza in Oriente di questa istituzione, del tutto parallela


alle Conferenze episcopali in Occidente, rende avvertiti della moder-
nità di questa ultima istituzione nonché della sua novità pastorale a
base nazionale o regionale. Non è però a questo livello che si situa il
nostro confronto che, prendendo a paragone delle Conferenze epi-
scopali il Sinodo patriarcale, vuole piuttosto intuire la possibile traiet-
toria futura delle Conferenze episcopali dalla considerazione del loro
analogatum princeps.

Il Sinodo patriarcale e la Conferenza episcopale


Il confronto fra le due istituzioni avverrà non tanto da un punto
di vista complessivo (storico, sociologico, canonico) quanto piuttosto
considerando gli elementi-chiave della odierna problematica sulle
Conferenze episcopali.

I membri
Sono membri del Sinodo patriarcale «tutti e solo i Vescovi ordi-
nati della medesima Chiesa patriarcale, dovunque siano costituiti»
(can. 102 § 1 CCEO).
Essi sono anzitutto tutti i vescovi eparchiali, eletti e ordinati, che
si trovano entro i confini del Patriarcato. Sono pure membri i vescovi
eparchiali, che si trovano fuori dei confini del Patriarcato, come pure
i vescovi titolari (emeriti, che non reggono una Chiesa eparchiale
ecc.): costoro però potrebbero vedersi coartato il diritto di voto
deliberativo dal diritto particolare, eccetto per quanto riguarda l’e-
lezione del Patriarca e dei vescovi nel Sinodo (cf can. 102 § 2 CCEO).

Sono membri della Conferenza episcopale tutti i vescovi dioce-


sani del territorio e quelli che nel diritto sono loro equiparati nonché
i vescovi coadiutori. Sono pure membri i vescovi ausiliari e infine i
vescovi titolari che esercitino nel territorio uno speciale incarico loro
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 443

affidato dalla Sede Apostolica o dalla Conferenza episcopale (cf can.


450 § 1): costoro però potrebbero vedersi coartato dagli statuti della
Conferenza episcopale il diritto di voto deliberativo, ciò che senz’al-
tro avviene nella votazione per l’elaborazione o la modifica degli sta-
tuti della medesima Conferenza episcopale (cf can. 454 § 2).

Il confronto fra i due istituti fa emergere la chiara connotazione


episcopale del Sinodo patriarcale, in cui non vi sono assolutamente
membri non-vescovi quanto a Ordinazione sacra, mentre le Confe-
renze episcopali mantengono senza alcun imbarazzo o discriminazio-
ne una (a volte consistente) presenza di membri non-vescovi.
Il Sinodo inoltre evidenzia una forte volontà di inclusione di tut-
ti i vescovi del territorio, anzi dell’intera Chiesa patriarcale, mentre
le Conferenze episcopali manifestano la chiara volontà esclusoria nei
confronti dei vescovi titolari che non svolgano un incarico pastorale
determinato (cf i vescovi emeriti) nonché una volontà discriminatri-
ce nei confronti dei vescovi membri, ma non a capo di una Chiesa
particolare (vescovi ausiliari) 24.
Quest’ultimo tratto, d’altro canto, accentua la significazione del-
la Conferenza episcopale come manifestazione della comunione fra
le Chiese 25.

Il presidente
Il Sinodo patriarcale ha come presidente il Patriarca, «che pre-
siede alla sua Chiesa patriarcale come padre e capo» (can. 55 CCEO).
Pur senza aver voluto chiarificare definitivamente se sia superiore il
Patriarca o il Sinodo patriarcale 26, appare chiaramente dal Codice dei
Canoni delle Chiese Orientali la potestà del Patriarca:

24
A differenza del Codice di diritto canonico, il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali prevede che
tutti i membri del Sinodo patriarcale partecipino con il voto alla decisione di escludere dal voto delibe-
rativo alcuni vescovi (emeriti, ausiliari, titolari): cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., p. 219.
25
Ciò è d’altronde coerente con «l’attuale diritto canonico ortodosso [che] stabilisce che solo i vescovi
diocesani prendano parte ai sinodi sia permanenti sia straordinari. Se le conferenze episcopali corri-
spondono ai sinodi ortodossi, come ritengo che sia [...] non devono essere considerate come riunioni
di vescovi, ma come riunioni di chiese attraverso i loro vescovi» (J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopa-
li..., cit., pp. 402-403).
26
Anche se il vigente Codice dei Canoni delle Chiese Orientali sembra giunto ad affermare la superio-
rità del Sinodo sul Patriarca, molti sostengono che ci si troverebbe di fronte a un’innovazione non coe-
rente né con la tradizione né con la concezione ortodossa (cf J. HAJJAR, I sinodi patriarcali nel nuovo
Codice canonico orientale, in «Concilium» 26 [1990] 559-568). La scelta fatta nel nuovo Codice comun-
que avvicinerebbe di più i Sinodi patriarcali alle Conferenze episcopali, togliendo o smussando uno dei
444 G. Paolo Montini

«Vescovo cui compete, a norma del diritto approvato dalla suprema autorità
della Chiesa, la potestà su tutti i vescovi, non esclusi i metropoliti, e sugli al-
tri fedeli della Chiesa, cui presiede» (can. 56 CCEO).

L’esercizio è variamente regolato, prevedendo a volte il consen-


so del Sinodo, a volte il concorso del medesimo, a volte l’azione indi-
viduale (cf soprattutto cann. 78-101 CCEO).

La Conferenza episcopale elegge il proprio presidente (cf can.


452 § 1), cui spetta almeno di presiedere alle assemblee plenarie del-
la conferenza e al consiglio permanente (cf can. 452 § 2) 27.
È vero che, se gli statuti lo prevedessero, potrebbe anche esse-
re eletto a vita oppure essere eletto per il tramite della designazione
di una sede, in modo che chi regga quella Chiesa particolare sia ipso
facto Presidente della Conferenza episcopale 28.
È vero però anche che il can. 455, riservando esclusivamente
all’assemblea plenaria i poteri legislativo ed esecutivo o amministra-
tivo, e impedendo che «il presidente possa agire validamente a nome
di tutti i vescovi, senza che tutti e singoli non abbiano dato il loro
consenso» (cf § 4), nonché lo spirito della legislazione 29, automatica-
mente delimitano drasticamente i poteri e la figura del presidente.

Il confronto pone in evidenza il diverso spessore ecclesiale attri-


buito alla struttura ecclesiale soggiacente: nel primo caso si può evi-
dentemente parlare di una struttura intermedia 30, poiché possiede
una struttura personale permanente in senso vero e proprio; nell’al-
tro caso non è possibile per la necessaria e naturale frammentarietà
dell’azione dell’assemblea plenaria.

due principali motivi di dissimilitudine (l’altro consisterebbe nell’ambito ultranazionale dei Sinodi) (cf
G. GRESHAKE, “Zwischeninstanzen” zwischen Papst und Ortsbischöfen. Notwendige Voraussetzung für die
Verwirklichung der Kirche als “communio ecclesiarum”, in AA.VV., Die Bischofskonferenz. Theologischer
und juristischer Status, herausgegeben von H. Müller - H. J. Pottmeyer, Düsseldorf 1989, p. 100).
27
Sui poteri del Presidente delle Conferenze episcopali cf R.J. CASTILLO LARA, De Episcoporum Confe-
rentiarum Praesidentia, in «Communicationes» 21 (1989) 96-97 (in lingua italiana in «L’Osservatore Ro-
mano», 10 marzo 1989, p. 5).
28
Il legame fra chi presiede e una sede stabile è di grande importanza istituzionale, in quanto appare
maggiormente la comunione fra Chiese soggiacente all’assemblea episcopale. Per il Patriarca la sede è
stabile (cf can. 57 § 3 CCEO). Cf J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze episcopali..., cit., p. 406.
29
Fa eccezione l’interpretazione autentica che ritiene escluso dal voto passivo per l’elezione del presi-
dente della Conferenza episcopale il vescovo ausiliare (cf AAS 81 [1989] 388).
30
Cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., pp. 220-221.
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 445

La competenza
Il Sinodo patriarcale ha la competenza esclusiva di fare leggi per
l’intera Chiesa patriarcale (cf can. 110 § 1 CCEO). L’unico limite a
questa competenza generale è quello implicito della congruità o com-
patibilità (o forse sarebbe più corretto dire, della non-contrarietà) con
il diritto comune, cioè con «le leggi e le legittime consuetudini della
Chiesa universale, come pure con le leggi e le legittime consuetudini
comuni a tutte le Chiese Orientali» (can. 1493 § 1 CCEO).
Il Sinodo possiede pure la superiore competenza giudiziaria ed
«è il tribunale superiore entro i confini del territorio della Chiesa pa-
triarcale» (can. 1062 § 1 CCEO; cf pure can. 110 § 2 CCEO). Pur do-
vendo costituire al suo interno un tribunale stabile, è comunque es-
so stesso tribunale di appello in alcune cause (cf can. 1062 §§ 2-4
CCEO).
Il Sinodo patriarcale possiede infine la potestà esecutiva o am-
ministrativa, limitata però ad alcuni casi specifici:
– elezione del Patriarca;
– elezione dei vescovi;
– elezione dei candidati a vescovi eparchiali, vescovi coadiutori
e vescovi ausiliari al di fuori dei confini del Patriarcato;
– atti amministrativi affidati dal Patriarca;
– atti amministrativi riservati dal diritto al Sinodo stesso;
– consenso, previsto dal diritto, per atti determinati.

La competenza delle Conferenze episcopali è limitata, in ambito


legislativo, a quattro settori:
– materie in cui lo abbia disposto il diritto universale;
– materie in cui lo abbia stabilito un mandato speciale della Se-
de Apostolica;
– materie in cui lo abbia richiesto la Conferenza episcopale e lo
abbia stabilito un mandato speciale della Sede Apostolica;
– materie in cui lo abbia disposto o stabilito un accordo pattizio.
Nei medesimi ambiti la Conferenza episcopale sembra possa
esercitare la competenza esecutiva o amministrativa 31.
Non consta una potestà giudiziaria della Conferenza episcopale.

31
Cf alcuni accenni in G.P. MONTINI, Valore e contenuti della Istruzione della CEI in materia ammini-
strativa. La trasparenza nella amministrazione dei beni temporali della Chiesa, in «Quaderni di diritto
ecclesiale» 7 (1994) 236-250, soprattutto pp. 239-243.
446 G. Paolo Montini

Il confronto fra le competenze fa emergere la clausola generale


di cui gode in ambito legislativo il Sinodo, mentre la Conferenza epi-
scopale si trova chiaramente delimitata nella sua sfera legislativa: là
vi è competenza su tutto quanto non è contrario al diritto comune;
qui vi è competenza su tutto ciò che è positivamente concesso.
Al Sinodo inoltre è riconosciuto tutto lo spettro della potestà ec-
clesiastica di regime (legislativa, esecutiva o amministrativa e giudi-
ziaria) tipica dell’ambito pastorale nella sua completezza, mentre le
Conferenze episcopali appaiono dotate esplicitamente solo di una
parte di potestà legislativa, che denota più direttamente una compe-
tenza direi quasi provvisoria.
Al Sinodo è riconosciuta la rilevantissima potestà di elezione agli
uffici maggiori, mentre le Conferenze episcopali nella designazione
dei vescovi possono solo proporre alla Sede Apostolica un elenco di
nominativi (cf can. 377 § 2) ed essere consultate nel loro presidente
in vista della terna da proporre alla Sede Apostolica (cf can. 377 § 3).

Le assemblee
Il Sinodo patriarcale è assemblea che si convoca all’occorrenza,
ossia principalmente quando «si devono trattare degli affari che ap-
partengono alla esclusiva competenza del Sinodo, oppure per esegui-
re i quali è richiesto il consenso dello stesso Sinodo» (can. 106 § 1, 1°
CCEO). La sua attività assembleare è pertanto occasionale, né muta
tale situazione la discrezionalità, pur limitata (col consenso del Sino-
do permanente), del Patriarca di convocare il Sinodo quando «lo ritie-
ne necessario» (can. 106 § 1, 2° CCEO), e il medesimo diritto di e-
sigerne la convocazione da almeno un terzo dei membri (cf can. 106
§ 1, 3° CCEO).
Solo il diritto particolare può rendere più stabile l’assemblea si-
nodale prevedendo la sua celebrazione periodica, perfino annuale (cf
can. 106 § 2 CCEO).
Le assemblee plenarie delle Conferenze episcopali, al contrario,
devono essere celebrate almeno una volta all’anno (cf can. 453), anzi
anche più volte se lo richiedano speciali circostanze (cf ibidem). Tut-
ta la materia sarà regolata dagli statuti, che prevederanno la periodi-
cità delle assemblee.
Il confronto fra le due normative fa emergere la permanenza
delle Conferenze episcopali (cf esplicitamente can. 447), in contrasto
Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali 447

con il Sinodo patriarcale, strutturalmente frammentario e saltuario


nella sua attualizzazione, anche se in ciò compensato dalla presenza
della forte continuità del Patriarca.

Il controllo della Sede Apostolica 32


Al Sinodo patriarcale incombe il dovere di «inviare al più presto
al Romano Pontefice gli atti relativi alle leggi e alle decisioni» (can.
111 § 3 CCEO) 33. Il Sinodo procederà alla promulgazione e alla pub-
blicazione nei modi dal medesimo stabiliti (cf can. 111 § 1 CCEO),
senza attendere alcun intervento della Sede Apostolica 34. L’invio de-
gli atti non significa di per sé richiesta di recognitio o approvazione.
I decreti delle Conferenze episcopali «non ottengono forza ob-
bligante se non vengono legittimamente promulgati, dopo essere
stati riveduti (recognita) dalla Sede Apostolica» (can. 455 § 2).
Il confronto fa emergere una diversa attuazione del primato del
Romano Pontefice. Nel primo caso si presume che il Sinodo patriarca-
le abbia proceduto nella comunione e l’invio degli atti al Romano Pon-
tefice significa solo il riconoscimento e l’attuazione dell’«inalienabile
diritto del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi» (OE 9).
Nell’altro caso si vuole verificare volta per volta la comunione della de-
cisione presa nella Conferenza episcopale, operando un controllo pre-
ventivo e discriminante per la validità della legge particolare.

Conclusione
Pur essendo giusto osservare che, alla fine, le differenze fra Si-
nodo patriarcale e Conferenza episcopale sono maggiori delle analo-
gie 35, non per questo il confronto è sterile.
Il Sinodo patriarcale appare come la meta di una possibile evo-
luzione storica dell’istituzione Conferenza episcopale, una meta già

32
Questo aspetto distanzia comunque le Conferenze episcopali dai sinodi ortodossi, «presieduti da pri-
mati che sono indipendenti l’uno dall’altro: è il sistema dell’autocefalia» (J.D. ZIZIOULAS, Le conferenze
episcopali..., cit., p. 406).
33
Per la approvazione o la modificazione degli statuti non è neppure richiesta la trasmissione alla Sede
Apostolica (cf can. 113 CCEO): cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., p. 220.
34
Nel caso del Consiglio dei Gerarchi «la promulgazione di leggi e norme non può validamente avve-
nire, prima che il metropolita abbia ricevuto il riscontro scritto della Sede Apostolica circa il ricevimen-
to degli atti» (can. 167 § 2). Così lo stesso Consiglio dovrà trasmettere alla Sede Apostolica i propri sta-
tuti (cf can. 171).
35
Cf P. PALLATH, The Synod of Bishops..., cit., pp. 208. 228.
448 G. Paolo Montini

storicamente raggiunta e sperimentata e, pertanto, concretamente


rappresentabile.
Ciò non significa però alcun automatismo o accelerazione nel-
l’interpretazione, comprensione o evoluzione delle Conferenze epi-
scopali 36. Devono infatti prima verificarsi due precise condizioni pre-
vie, strettamente connesse fra di loro:
– la divina Providentia, ossia le condizioni storiche che rendano
possibile e realizzabile l’evoluzione stessa. Il testo del Concilio più
volte citato (LG 23d) rifiuta di riferire direttamente a Cristo e al suo
Spirito il sorgere delle Chiese patriarcali, ritenendolo frutto piuttosto
di «plura mere historica elementa», cioè di più fatti storici contingen-
ti 37. La divina Provvidenza dovrà essere attesa e, una volta giunta, ri-
conosciuta come tale. Ciò è ben lungi da programmazioni affrettate
e spesso considerate a tavolino;
– le necessità pastorali concrete, che richiedano un’evoluzione
delle Conferenze episcopali, soprattutto nella linea dell’inculturazio-
ne ossia di una nuova articolazione del rapporto fra uniformità e di-
versità nella Chiesa. Tale considerazione non potrà prescindere da
un lato dalla fede e dalla costituzione divina della Chiesa, che preve-
dono il ministero petrino; da un altro lato dalla competenza della
competenza che appartiene ex natura sua al medesimo ministero pe-
trino nell’articolazione delle competenze centrali e periferiche; da un
ultimo lato dalla concorde e condivisa equilibrazione delle unifor-
mità e delle diversità compatibili, per non cadere nell’uniformismo e
nel frammentarismo.
Il Sinodo patriarcale è una via tracciata che le Conferenze episco-
pali hanno di fronte a sé. Non è né una realtà né una necessità. La sto-
ria (anche della Chiesa) è il campo della libertà, non delle ripetizioni.
Il Sinodo patriarcale è un parametro di giudizio e di evoluzione
delle Conferenze episcopali, che dovranno maturare nella propria
realtà giuridica, sociale ed ecclesiale.
G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia

36
L’istituzione oggi di patriarcati «sarebbe artificiale e anacronistica» (G. PHILIPS, La Chiesa e il suo
mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium, Milano
1975, p. 277). Si dovrebbe poi considerare il fatto che le Conferenze episcopali si sono evolute all’inter-
no precisamente di un unico e medesimo patriarcato, quello appunto latino o romano, sotto la giurisdi-
zione del Romano Pontefice, quale Patriarca dell’Occidente.
37
Cf modus 143, in AS III/VIII, p. 85.
449
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 449-475
La produzione normativa
della Conferenza episcopale italiana
di Massimo Calvi

Nata ufficialmente nel 1954, quando la Congregazione Concisto-


riale ne approvò gli statuti, la Conferenza episcopale italiana (CEI) ha
svolto una intensa attività riguardante aspetti fondamentali della vita
della Chiesa in Italia, quali l’evangelizzazione, la catechesi, la riforma
liturgica e la presenza dei cattolici nella società, assumendo così un
ruolo importante dal punto di vista pastorale.
Questo ruolo si è ulteriormente sviluppato per l’apporto del
concilio Vaticano II, con la sua dottrina sulla collegialità episcopale e,
soprattutto, per l’entrata in vigore del nuovo Codice di diritto canoni-
co che ha riconosciuto e attribuito alle Conferenze episcopali una
precisa competenza nell’ambito della produzione normativa.

Condizioni e limiti dell’esercizio della potestà legislativa da par-


te delle Conferenze episcopali sono fissati dal Codice.
Esse possono emanare decreti generali, che sono propriamente
leggi (cf can. 29), solamente nelle materie in cui lo abbia disposto il
diritto universale, oppure lo stabilisca un mandato speciale della Se-
de Apostolica, conferito sia motu proprio che su richiesta della confe-
renza stessa (cf can. 455 § 1). Tali decreti generali, perché siano
emanati validamente, devono essere espressi nella riunione plenaria
almeno mediante i due terzi dei voti dei presuli che appartengono al-
la conferenza con voto deliberativo, e non ottengono forza obbligan-
te se non vengono promulgati dopo aver ottenuto la necessaria reco-
gnitio della Sede Apostolica (cf can. 455 § 2).
Nei casi in cui né il diritto universale né il mandato della Sede
Apostolica abbiano concesso la necessaria potestà alla Conferenza e-
piscopale, questa o il suo presidente non possono agire validamente
450 Massimo Calvi

in nome di tutti i vescovi, a meno che tutti e singoli i vescovi non ab-
biano dato il loro consenso (cf can. 455 § 4).

«Tra le funzioni pastorali che i vescovi italiani attuano congiuntamente nella


conferenza episcopale, vi è anche quella legislativa, attribuita alla competen-
za della conferenza medesima dal Codice di diritto canonico e dalle disposi-
zioni concordatarie. Il suo esercizio ha prodotto un corpo di norme ormai
notevolmente sviluppato, che regola in forma impegnativa alcuni ambiti del-
le relazioni comunitarie, con efficacia per tutte le Chiese che sono nel terri-
torio nazionale» 1.

Infatti, la produzione normativa della CEI, a partire dal 1983-


1984, si è prevalentemente raggruppata attorno a due ambiti partico-
larmente importanti per la vita della Chiesa in Italia : l’attuazione del
Codice, per quelle norme che prevedono la possibilità o la necessità
di un intervento integrativo delle Conferenze episcopali, e l’attuazio-
ne degli Accordi di revisione concordataria.
In questi ambiti l’attività legislativa della CEI, pur presentandosi
con una certa organicità, talvolta ha avuto bisogno di ripetuti inter-
venti prima di acquisire una certa stabilità. Si pensi, per esempio, al-
l’importante settore del sostentamento del clero: in seguito alla revi-
sione concordataria la CEI, con notevole sforzo e impegno, ha dato
vita a un sistema radicalmente innovativo, emanando un insieme di
norme vasto, articolato, sistematico e complesso. Tuttavia, negli an-
ni successivi, per dare maggiore efficacia alla normativa e renderla
più rispondente alle reali esigenze ecclesiali, i vescovi sono interve-
nuti frequentemente introducendo alcune modifiche alle delibere a-
dottate soltanto qualche tempo prima.

Scopo del presente articolo, non è quello di presentare in modo


dettagliato, sistematico e completo i contenuti del diritto comple-
mentare italiano, ma soltanto quello di prospettare un quadro di sin-
tesi per il periodo 1983-1995, evidenziando gli ambiti effettivamente
normati dalla CEI e le questioni ancora aperte o taciute 2.

1
CEI, documento pastorale Comunione, comunità e disciplina ecclesiale, 1° gennaio 1989, n. 58 (ECEI
4, n. 1400).
2
Una presentazione chiara, completa e sistematica dei contenuti della normativa CEI emanata fino al
1991 si trova in M. MARCHESI, Diritto canonico complementare italiano, Bologna 1992.
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 451

Attuazione del Codice di diritto canonico


«La legislazione particolare affidata dal codice alle conferenze episcopali è
l’espressione della sollecitudine apostolica per le Chiese particolari che for-
mano la conferenza; ma è soprattutto la prestazione di un vero servizio nei
riguardi del popolo di Dio, servizio che si realizza in definitiva con la deter-
minazione della disciplina, che deve essere uno strumento efficace del rin-
novamento e della vita ecclesiale, grazie al suo adattamento alle situazioni lo-
cali concrete» 3.

Con queste espressioni la Segreteria di Stato, pochi mesi dopo


la pubblicazione del nuovo Codice e prima della sua entrata in vigo-
re 4, si rivolgeva alle Conferenze episcopali per sottolineare l’urgenza
di provvedere quanto prima alla emanazione delle norme attuative
del Codice, invitandole nel contempo a emanare opportune norme
transitorie per evitare dannosi vuoti legislativi.
Per l’assolvimento di tale compito la CEI si è particolarmente
impegnata in tre assemblee: la XXII, straordinaria, Roma 19-23 set-
tembre 1983; la XXIII, ordinaria, Roma 7-11 maggio 1984; la XXIV,
straordinaria, Roma 22-26 ottobre 1984. Nel complesso, in questo
primo periodo sono state emanate 38 delibere. Le prime 16 sono en-
trate in vigore il 23 gennaio 1983, le delibere dalla 17 alla 20 sono en-
trate in vigore il 6 ottobre 1984; le rimanenti, dalla 17 alla 38, sono di-
venute obbliganti il 18 maggio 1985.
A queste tre assemblee, quasi interamente dedicate alla norma-
tiva per l’attuazione del Codice, si sono aggiunti altri interventi nor-
mativi adottati in riunioni successive, ai quali faremo cenno di volta
in volta. Si tratta in genere di quelle materie che, per la loro comples-
sità e delicatezza, esigevano uno studio più approfondito e la predi-
sposizione di documenti più articolati e ampi, oppure delle materie
connesse alla revisione concordataria .
L’elenco di tali questioni è riportato nella delibera I e nella deli-
bera II, di carattere non normativo 5.
In appendice alla lettera sopra citata, per agevolare il compito
delle singole conferenze, venivano riportati due elenchi di carattere in-
dicativo: il primo riguardante i casi nei quali il Codice prevede la possi-

3
SEGRETERIA DI STATO, lettera Certaines conferences ai presidenti delle Conferenze episcopali circa la
pubblicazione delle norme complementari, 8 novembre 1983 (EV 9, n. 532).
4
Il Codice di diritto canonico è stato promulgato il 25 gennaio 1983 ed è entrato in vigore il 27 novem-
bre 1983, prima domenica di Avvento.
5
Cf ECEI 3, nn. 2299-2300.
452 Massimo Calvi

bilità di un intervento normativo da parte delle Conferenze episcopali;


il secondo riguardante i casi in cui il Codice stabilisce la necessità di
una normativa complementare emanata dalla medesima conferenza,
qualora questa non vi avesse già provveduto, oppure le norme vigenti
fossero contrarie ai canoni del nuovo Codice. I due elenchi, con alcu-
ne aggiunte, hanno costituito il punto di riferimento principale per l’at-
tività legislativa della CEI nel periodo 1983-1984, attività volta ad attua-
re le indicazioni contenute nel Codice di diritto canonico.
Nella presentazione della legislazione vigente seguiamo l’ordi-
ne sistematico dei libri del Codice, e non quello strettamente crono-
logico.

Libro II

Can. 230 § 1 - Età e qualità degli aspiranti


ai ministeri di lettore e di accolito
La CEI ha adottato al riguardo una delibera, la n. 21, che fissa
l’età a 25 anni e che si limita a elencare le doti fondamentali richieste
ai candidati 6, rinviando l’approfondimento della materia a una apposi-
ta nota da predisporsi in futuro, ma che ancora non è stata pubblicata.

Cann. 236 e 276 § 2, 3° - Diaconi permanenti:


formazione e celebrazione della liturgia delle ore
Sulla materia abbiamo due delibere.
La n. 1 che impone ai diaconi permanenti l’obbligo della recita
quotidiana di Lodi, Vespri e Compieta 7 e la n. 32 8 con la quale la
Conferenza episcopale ripropone gli orientamenti e le norme conte-
nute nel documento La restaurazione del diaconato permanente in
Italia del 1971, provvedendo che i candidati abbiano prima ricevuto
ed esercitato i ministeri stabili di lettore e di accolito, a norma del
motu proprio Ad pascendum.
Nella medesima assemblea nella quale fu adottata la delibera
32, la CEI indicava la materia della formazione dei diaconi perma-

6
Cf delibera n. 21 (ECEI 3, n. 2276).
7
Cf delibera n. 1 (ECEI 3, n. 1589).
8
Cf delibera n. 32 (ECEI 3, n. 2287).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 453

nenti tra quelle per le quali si proponeva di intervenire successiva-


mente in maniera più articolata e completa con un apposito docu-
mento. A ciò la Conferenza episcopale ha provveduto con la pubbli-
cazione del documento I diaconi permanenti nella Chiesa in Italia.
Orientamenti e norme 9, a motivo del quale si deve ritenere superata
e decaduta la citata delibera 32 e il documento del 1971 al quale essa
rinviava. La delibera n. 1, invece, è stata fatta propria dal più recente
testo pastorale e normativo.
Il nuovo documento, dopo un primo capitolo dedicato agli a-
spetti dottrinali relativi al diaconato permanente nel mistero e nella
missione della Chiesa, affronta il tema del discernimento vocaziona-
le (cap. II), della formazione spirituale, teologica e pastorale del can-
didato (cap. III), dell’esercizio del ministero (cap. IV) e della forma-
zione permanente (cap. V) 10.

Can. 242 - “Ratio” per la formazione sacerdotale


La norma codiciale vuole che
«in ogni nazione vi sia una Ratio di formazione sacerdotale, emanata dalla
Conferenza Episcopale sulla base delle norme fissate dalla suprema autorità
della Chiesa e approvata dalla Santa Sede, adattabile alle nuove situazioni
con una nuova approvazione della Santa Sede»,

nella quale siano definiti i principi essenziali e le norme generali del-


la formazione seminaristica.
Con la delibera n. 33 11 la CEI ha inteso riconfermare, salvo il di-
sposto del can. 1032 § 1, la validità del documento per la formazione
dei candidati al sacerdozio nei seminari maggiori La formazione dei
presbiteri nella Chiesa italiana (1980), unitamente al complementare
documento Regolamento degli studi teologici nei seminari maggiori
d’Italia (1984) 12.
Alcuni contenuti di questi documenti sono stati ulteriormente
proposti all’attenzione delle comunità ecclesiali in una lettera della

9
Cf ECEI 5, nn. 1835 ss. Il documento, approvato dalla XXXVI Assemblea generale, è entrato in vigore
il 1° luglio 1993.
10
Per l’approfondimento dei contenuti normativi del documento si veda M. CALVI, Il diaconato perma-
nente in Italia. Commenti alle delibere CEI, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 7 (1994) 201-211.
11
Cf delibera n. 33 (ECEI 3, n. 2288).
12
Per i due documenti si veda rispettivamente ECEI 3, nn. 189 ss e nn. 1738 ss.
454 Massimo Calvi

Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la cultura e la


scuola, nel giugno del 1989 13.

Can. 284 - Abito per il clero


La delibera n. 2 14 ha stabilito per i chierici italiani, quando sono
in pubblico, l’obbligo di indossare l’abito talare o il clergyman.

Cann. 312 § 1 e 320 § 2 - Associazioni pubbliche


a carattere nazionale
Il Codice affida alle Conferenze episcopali la responsabilità cir-
ca l’erezione e la soppressione delle associazioni pubbliche a caratte-
re nazionale.
La CEI è intervenuta sulla materia identificando gli organi della
conferenza stessa ai quali attribuire specifiche competenze:
«Gli organi della Conferenza episcopale italiana competenti per l’erezione e
la soppressione delle associazioni pubbliche di fedeli a carattere nazionale...
sono:
– la presidenza, per l’istruttoria della pratica;
– il consiglio permanente, per le decisioni in merito» 15.

Unitamente a tale norma, con la citata delibera I di carattere


non normativo, si rinviò la materia anche a un ulteriore approfondi-
mento.
Al tema delle associazioni di fedeli è dedicato un intero capitolo
della Istruzione in materia amministrativa del 1992 16.

Can. 377 § 2 - Elenco dei candidati all’episcopato


In materia abbiamo la delibera n. 3:
«L’elenco dei sacerdoti diocesani e religiosi ritenuti degni di candidatura al-
l’episcopato, fermo restando il diritto di ogni singolo vescovo, sia redatto e
trasmesso alla Santa Sede dalle conferenze episcopali regionali» 17.

13
Cf ECEI 4, nn. 1804 ss.
14
Cf delibera n. 2 (ECEI 3, n. 1590).
15
Delibera n. 23 (ECEI 3, n. 2278).
16
Cf CEI, Istruzione in materia amministrativa, 1° aprile 1992 (ECEI 5, nn. 865-882).
17
Delibera n. 3 (ECEI 3, n. 1591).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 455

Al riguardo si fa notare che


«nel canone non si fa alcun accenno alle conferenze episcopali regionali. Per
sé l’unico atto a cui era chiamata la conferenza episcopale era quello di valu-
tare se le circostanze legate alla situazione italiana erano tali da consigliare
che fosse la stessa conferenza nazionale a compilare l’elenco; invece è stata
fatta una scelta che, così come suona, si presenta al di fuori della legge, per
effettuare la quale occorreva un mandato speciale. È questo uno dei casi li-
mite: in senso stretto la delibera non poteva esser approvata» 18.

Can. 496 - Statuti del consiglio presbiterale


Ogni consiglio presbiterale deve avere statuti propri, approva-
ti dal vescovo diocesano, attese le norme date dalla Conferenza epi-
scopale.
Tuttavia la CEI, con la delibera n. 19 19, ha deciso di non dare
norme di riferimento in materia, ritenendo sufficiente quanto dispo-
sto dal Codice e soprattutto considerando non ancora del tutto chiu-
sa la fase sperimentale per molti consigli presbiterali in Italia.
Si noti che durante i lavori della XXIII assemblea generale (7 -11
maggio 1984) fu distribuita ai vescovi una sintesi della legislazione ca-
nonica sulla materia, compilata per comodità degli ordinari diocesani,
che però non fu oggetto di delibera dell’assemblea 20.

Can. 502 - Collegio dei consultori - capitolo della cattedrale


In forza della delibera n. 4 «i munera attribuiti dal Codice di di-
ritto canonico al collegio dei consultori non sono demandati al capi-
tolo cattedrale e restano pertanto assegnati allo stesso collegio dei
consultori» 21.

Can. 522 - Nomina di parroci “ad tempus”


Pur affermando il valore della stabilità dell’ufficio parrocchiale,
il CIC attribuisce al vescovo diocesano la facoltà di nominare parroci
a tempo determinato, purché ciò sia stato ammesso dalla Conferen-
za episcopale.

18
M. MARCHESI, Diritto canonico complementare..., cit., p. 48.
19
Delibera n. 19 (ECEI 3, n. 1979).
20
CEI, Sintesi della legislazione canonica del CIC 1983 relativa ai consigli presbiterali (ECEI 3, nn.
1636 ss).
21
Delibera n. 4 (ECEI 3, n. 1592).
456 Massimo Calvi

La CEI, ha ritenuto conveniente cogliere tale opportunità e ha


legiferato in materia con due interventi. In un primo tempo, con la
delibera n. 5, si è limitata a dare ai vescovi diocesani la facoltà di no-
minare parroci a tempo determinato; successivamente, con la delibe-
ra n. 17, ha stabilito che le nomine dei parroci «ad certum tempus»
hanno la durata di 9 anni 22. Dal tenore del canone si evince che la
nomina, in via ordinaria, deve ritenersi a tempo indeterminato. Nel
caso un vescovo volesse dare alla nomina il limite dei 9 anni, deve in-
dicarlo esplicitamente nel decreto.

Can. 535 § 1 - Libri parrocchiali


Oltre ai registri parrocchiali del battesimo, dei matrimoni e dei
defunti, imposti per diritto universale, il Codice concede alla Confe-
renza episcopale o al vescovo diocesano la facoltà di imporre l’obbli-
go di altri libri.
Con la delibera n. 6, l’episcopato italiano ha ritenuto di dover
aggiungere quali registri obbligatori quello delle cresime, dell’ammi-
nistrazione dei beni e dei legati. In realtà, gli ultimi due sono già so-
stanzialmente previsti dai canoni relativi alla amministrazione dei be-
ni ecclesiastici.
Con la delibera successiva, la n. 7 23, ci si è limitati a raccoman-
dare che in ogni archivio parrocchiale vi siano anche il registro dello
stato d’anime, delle prime comunioni e della cronaca parrocchiale.

Can. 583 - Sostentamento dei parroci emeriti


La questione rientra nell’ambito di quella impegnativa opera fat-
ta dalla CEI per rinnovare radicalmente tutto il sistema di sostenta-
mento del clero in Italia. Ne tratteremo in seguito.

Libro III

Cann. 772 § 2 e 831 § 2 - Uso dei mass-media


I canoni citati chiedono che, sia per ciò che riguarda la presenta-
zione della dottrina cristiana mediante la radio o la televisione, sia per

22
Cf delibera n. 5 (ECEI 3, n. 1593) e delibera n. 17 (ECEI 3, n. 1977).
23
Cf delibere nn. 6 e 7 (ECEI 3, nn. 1594-1595).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 457

ciò che attiene alla lecita partecipazione di chierici e religiosi a tra-


smissioni che trattino questioni attinenti la dottrina cattolica o la mo-
rale, sia la Conferenza episcopale a emanare una normativa adeguata.
Nonostante la rilevanza di questi mezzi e la delicatezza del loro
uso, la CEI, in fase di attuazione del Codice, ha deciso di non pro-
nunciarsi 24, ma di affidare ai propri organi interni il compito di ap-
profondire lo studio del tema, in vista di una possibile pubblicazione
di una nota o di un documento che non è ancora apparso.
L’esperienza di questi ultimi anni, nei quali si è progressiva-
mente assistito a un accentuarsi, spesso eccessivo e talvolta inoppor-
tuno, della presenza di chierici e religiosi a trasmissioni televisive o
radiofoniche di tutti i generi, fa pensare che, seppur difficile e al-
quanto delicato, un intervento chiarificatore in materia, potrebbe for-
se garantire una maggiore tutela dell’immagine della Chiesa italiana.

Can. 755 § 2 - Ecumenismo


Il Codice non prevede necessariamente interventi normativi in
materia. Ammette semplicemente la possibilità che i singoli vescovi
e, a norma del diritto, le Conferenze episcopali, diano norme atte a
promuovere l’ecumenismo, qualora le diverse circostanze lo esigano
o lo consiglino.
Il tema figura tra quelli sui quali la CEI non ha inteso emanare
norme immediatamente, rinviandone la eventuale trattazione a un
periodo successivo con la già citata delibera I, di carattere non nor-
mativo.
Nel 1990 è stata pubblicata una nota del Segretariato per l’ecu-
menismo e il dialogo che non contiene elementi normativi, ma nella
terza parte offre alcuni orientamenti di carattere pastorale 25.

Can. 766 - Ammissione dei laici alla predicazione


Su ciò interviene la delibera n. 22:
«I laici, alle condizioni previste dal can. 766 del Codice di diritto canonico e
salvo quanto stabilito dal can. 767, §1, possono essere ammessi a predicare
nelle chiese e negli oratori quando:

24
Cf delibera I, di carattere non normativo (ECEI 3, n. 2299).
25
SEGRETARIATO PER L’ECUMENISMO E IL DIALOGO, nota pastorale La formazione ecumenica nella Chiesa
particolare, 2 febbraio 1990 (ECEI 4, nn. 2187-2231).
458 Massimo Calvi

– presentino come requisiti necessari: l’ortodossia di fede, la preparazione


teologico-spirituale, l’esemplarità di vita a livello personale e comunitario, la
capacità della comunicazione;
– abbiano ricevuto il mandato dall’ordinario del luogo» 26.

Tale deliberazione pare debba ritenersi transitoria dal momento


che, nel contesto della stessa assemblea, la questione della predica-
zione dei laici è stata annoverata tra quelle affidate dall’episcopato a
un ulteriore approfondimento e studio da parte degli organi prepo-
sti. Tale intenzione, che appare chiaramente dalla già citata delibe-
ra I di carattere non normativo, non ha ancora trovato compimento.

Can. 804 § 1 - Scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica


Il can. 804 pone sotto l’autorità della Chiesa l’istruzione e l’edu-
cazione religiosa cattolica che viene impartita in qualunque scuola o
viene procurata per mezzo dei vari strumenti di comunicazione so-
ciale, affidando alla Conferenza episcopale il compito di emanare
norme in materia.
La CEI, con la delibera n. 36 27 ha riconfermato le indicazioni
contenute nel documento approvato un anno e mezzo prima: La
scuola cattolica, oggi, in Italia 28.

Can. 823 - Vigilanza su scritti e mezzi di comunicazione sociale


Il canone riguarda il dovere di vigilare affinché non si rechi dan-
no alla fede e ai costumi dei fedeli con gli scritti e i mezzi di comuni-
cazione sociale, dovere che compete ai vescovi sia singolarmente che
riuniti nei concili particolari o nelle Conferenze episcopali.
La CEI ha regolato la materia precisando che
«è demandato alla presidenza della Conferenza [...] il compito di provvedere
alla vigilanza circa gli scritti e l’uso dei mezzi di comunicazione sociale [...]
nei casi in cui si manifesti una esigenza di carattere nazionale, fatta sempre
salva la responsabilità dei vescovi competenti singolarmente o riuniti nei
concili particolari» 29.

26
Delibera n. 22 (ECEI 3, n. 2277).
27
Delibera n. 36 (ECEI 3, n. 2291).
28
COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, documento pastorale La scuola cattolica, oggi,
in Italia, 25 agosto 1983 (ECEI 3, nn. 1418-1512).
29
Delibera n. 24 (ECEI 3, n. 2279).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 459

Can. 825 §§ 1-2 - Libri della Sacra Scrittura


La delibera 25 attribuisce alla presidenza della conferenza stes-
sa la competenza circa l’approvazione dell’edizione e della traduzio-
ne dei libri della Sacra Scrittura e per la concessione della licenza
per le traduzioni interconfessionali 30.

Can. 830 § 1 - Elenco dei censori


Il compito di redigere un elenco di censori che siano a disposi-
zione delle curie diocesane per il giudizio sui libri, con la delibera n.
26 è stato demandato alla presidenza della CEI, la quale lo deve sot-
toporre all’approvazione del consiglio episcopale permanente 31.

Libro IV

Can. 838 § 3 - Libri liturgici


Tra i compiti delle Conferenze episcopali in campo liturgico, vi
è quello della preparazione delle versioni dei libri liturgici nelle lin-
gue correnti, previa autorizzazione della Santa Sede.
Al proposito i vescovi italiani hanno emanato una delibera alla
quale è allegato l’elenco dei libri liturgici editi a cura della stessa CEI
e approvati dalla Santa Sede, fino alla data del 15 novembre 1984 32.
La norma prevede che
«fermo restando il valore ufficiale delle traduzioni dei libri liturgici finora
pubblicate [...] le nuove edizioni ufficiali in lingua italiana [...] saranno cura-
te dagli organi competenti della conferenza [...] i quali provvederanno a inse-
rire gli adattamenti che, previsti dalle edizioni tipiche latine e da altre istru-
zioni della Santa Sede, siano ritenuti opportuni per la situazione liturgico-pa-
storale italiana» 33.

Can. 844 - Amministrazione dei sacramenti ai non cattolici


Con la già citata delibera I di carattere non normativo, l’episco-
pato italiano ha rinviato la trattazione della materia, affidandone lo
studio agli appositi organi della conferenza.

30
Cf delibera n. 25 (ECEI 3, n. 2280).
31
Cf delibera n. 26 (ECEI 3, n. 2281).
32
Cf Allegato alla delibera n. 28 (ECEI 3, n. 2295).
33
Delibera n. 28 (ECEI 3, n. 2283).
460 Massimo Calvi

Anche il già citato documento del 1990 La formazione ecumeni-


ca, pur accennando a problemi relativi alla communicatio in sacris,
non entra nel merito del problema né presenta elementi normativi.

Can. 854 - Modo di amministrare il battesimo


Il Codice afferma la possibilità di amministrare il battesimo sia
per immersione che per infusione, senza esprimere una scelta prefe-
renziale e lasciando alle singole Conferenze episcopali il compito di
dare disposizioni in materia.
La CEI, invece, con la delibera n. 29 ha fatto una scelta in parte
restrittiva, stabilendo che «nel rito romano si mantenga di preferen-
za la tradizione di conferire il battesimo per infusione». Il rito per im-
mersione è consentito «solo con l’autorizzazione del vescovo, e nel-
l’osservanza delle istruzioni che la Conferenza episcopale italiana
pubblicherà nelle prossime edizioni ufficiali del rito del battesimo» 34.
La nuova edizione di tale rito non è ancora stata pubblicata.

Can. 877 § 3 - Registrazione del battesimo di figli adottivi


Il caso dei figli adottivi si configura come una situazione parti-
colarmente delicata. Da una parte il CIC (cf can.110) stabilisce che i
figli adottati a norma della legge civile devono essere ritenuti figli di
colui o di coloro che li hanno adottati. In tale materia poi, spesso la
legislazione civile, come quella italiana, impone l’assoluto riserbo:
anche gli ufficiali di stato civile non possono rilasciare atti o certifica-
ti che consentano di scoprire l’eventuale adozione. D’altra parte la
paternità e la maternità naturale possono essere giuridicamente rile-
vanti, in campo canonico, per esempio nel caso di impedimento di
consanguineità. Per questi motivi il diritto universale affida alla Con-
ferenza episcopale (cf can. 877 § 3) l’onere di stabilire norme ade-
guate circa l’opportunità di indicare nell’atto di battesimo gli elemen-
ti riguardanti l’avvenuta adozione.
La CEI in questa materia ha emanato la delibera n. 18 che, per
certi versi, appare impropria perché riguarda un oggetto in parte di-
verso da quello indicato dal Codice. Infatti il can. 877 § 3 riguarda la
registrazione del battesimo sull’apposito libro; la delibera, invece,
tratta del rilascio dei relativi certificati:

34
Delibera n. 29 (ECEI 3, n. 2284).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 461

«Atteso quanto prescritto dal Codice di diritto canonico circa l’adozione e


circa la relativa registrazione nell’atto di battesimo dei figli adottivi e salvo i
casi nei quali il diritto comune o la conferenza episcopale (CEI) esigano la
trascrizione integrale degli elementi contenuti nel registro dei battesimi –
per esempio, rilascio di copie dell’atto di battesimo per uso matrimonio – l’at-
testato di battesimo deve essere rilasciato con la sola indicazione del nuovo
cognome dell’adottato, omettendo ogni riferimento alla paternità e maternità
naturale e all’avvenuta adozione» 35.

Si noti che l’inciso contenuto nella citata delibera è da conside-


rarsi ormai superato dal decreto generale sul matrimonio, di cui par-
leremo in seguito, con il quale la CEI dispone che le annotazioni rile-
vanti al fine della valida o lecita celebrazione del matrimonio e quelle
relative all’adozione, eventualmente contenute nell’atto di battesimo,
devono essere trasmesse d’ufficio e in busta chiusa al parroco che
conduce l’istruttoria matrimoniale 36.

Can. 891 - Età della cresima


La norma codiciale mentre dispone che la cresima sia conferita
all’incirca all’età della discrezione, cioè dopo il compimento del setti-
mo anno (cf can. 97 § 2), lascia alla Conferenza episcopale la possibi-
lità di determinare un’altra età.
Come è noto la scelta dell’età della cresima è strettamente lega-
ta al problema dell’ordine dei sacramenti della iniziazione cristiana, il
cui vertice dovrebbe essere costituito dal sacramento dell’eucaristia.
I vescovi italiani, dopo un ampio confronto, hanno confermato
la prassi ormai abbastanza consolidata in Italia che pone l’ammini-
strazione della confermazione dopo la ricezione dell’eucaristia, stabi-
lendo che «l’età da richiedere per il conferimento della cresima è
quella dei 12 anni circa» 37.

Can. 964 § 2 - Sede per le confessioni


Sulla materia ha deliberato la XXIV assemblea generale straor-
dinaria, stabilendo che
«la celebrazione abituale del sacramento della penitenza, fatto salvo il dispo-
sto del can. 964, § 2 del Codice di diritto canonico circa la garanzia di sedi

35
Delibera n. 18 (ECEI 3, n. 1978).
36
Cf CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico, 5 novembre 1990 (ECEI 4, n. 2621).
37
Delibera n. 8 (ECEI 3, n. 1596).
462 Massimo Calvi

confessionali con grata fissa, è consentita in altre sedi, purché siano assicu-
rate le seguenti condizioni:
– le sedi siano situate in luogo proprio (chiesa, oratorio o loro pertinenze);
– siano decorose e consentano la retta celebrazione del sacramento» 38.

Can. 1031 § 3 - Età per il presbiterato e per il diaconato permanente


Il Codice conferisce alla Conferenza episcopale il diritto di sta-
bilire una norma in cui si richieda un’età più avanzata, rispetto ai 25
anni, per il presbiterato e il diaconato permanente.
La CEI non ha ritenuto di dover usufruire di tale opportunità.

Cann. 1062 § 1; 1067; 1083 § 2; 1126; 1127 § 2 - Matrimonio


Sulla materia matrimoniale, durante il primo periodo dell’attua-
zione del Codice, vi furono diverse delibere:
– la n. 9, con la quale la CEI rinuncia a dare norme circa la pro-
messa di matrimonio;
– la n. 10, secondo la quale «per la lecita celebrazione del matri-
monio l’età dei nubendi è di 18 anni. Resta riservata ad apposita
“istruzione pastorale” della CEI l’indicazione di criteri comuni di va-
lutazione di età inferiore secondo le varie situazioni»;
– la n. 31, nella quale la Conferenza episcopale in via transitoria,
in attesa della definizione della normativa concordataria e della pub-
blicazione dell’apposita nota ancora allo studio, stabilisce che, per le
materie di cui ai canoni 1067; 1121 § 1; 1126; 1127 § 2, continuino a
essere applicate le disposizioni fino ad allora vigenti 39.
A queste si aggiunge la delibera I non normativa, che elenca le
questioni matrimoniali insieme a quelle da approfondire con ulterio-
re studio da parte degli organi della stessa CEI.
Frutto di tale impegno è il decreto generale sul matrimonio ca-
nonico 40, entrato in vigore il 17 febbraio del 1991, di cui parleremo in
seguito, nel quale tutta la materia è stata ripresa in modo organico e
approfondito.

38
Delibera n. 30 (ECEI 3, n. 2285).
39
Cf delibere nn. 9 e 10 (ECEI 3, nn. 1597 e 1598); delibera n. 31 (ECEI 3, n. 2286).
40
Cf CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico (ECEI 4, n. 2610-2684).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 463

Can. 1120 - Rito del matrimonio


Il canone 1120 attribuisce alla Conferenza episcopale la compe-
tenza in ordine alla redazione di un proprio rito per la celebrazione
del matrimonio, adeguato agli usi del luogo.
La CEI, che pure ha rinviato alcuni aspetti della materia matri-
moniale a un ulteriore approfondimento, non ha deliberato nulla cir-
ca il rito sacramentale, manifestando in ciò l’intenzione di non usu-
fruire, almeno per ora, della possibilità offerta dal diritto universale.

Cann. 1231 e 1232 - Santuari nazionali


Il Codice prevede che un santuario perché possa dirsi naziona-
le, si veda conferita tale qualifica dalla Conferenza episcopale, la qua-
le è pure competente in ordine all’approvazione degli statuti.
Deliberando in materia la CEI ha attribuito tale competenza al
consiglio episcopale permanente. L’istruttoria della pratica è invece
affidata alla presidenza della stessa conferenza 41.

Can. 1236 - Mensa dell’altare fisso


A norma del citato canone, secondo l’uso tradizionale della
Chiesa, la mensa dell’altare fisso deve essere di pietra e per di più di
una pietra naturale intera. È pero lasciato al giudizio della Conferen-
za episcopale indicare un’altra materia solida e decorosa.
A questo proposito la CEI ha approvato una delibera nella quale
non si specifica quali altri materiali siano da considerarsi decorosi e
degni. Alla possibilità di usare altre materie degne, solide e ben lavo-
rate, aggiunge che può essere fatto solo con il permesso dell’ordina-
rio del luogo e sentite le commissioni diocesane per la liturgia e per
l’arte sacra 42.
Anche nella nota pastorale sulla progettazione delle nuove chie-
se non si dice nulla di più 43.

41
Cf delibera n. 34 (ECEI 3, n. 2289).
42
Cf delibera n. 35 (ECEI 3, n. 2290).
43
COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, nota pastorale La progettazione di nuove chiese, 18 febbraio
1993 (ECEI 5, n. 1343).
464 Massimo Calvi

Can. 1246 - Giorni festivi


Insieme al giorno di domenica in cui si celebra il mistero pa-
squale, devono essere osservati i giorni del Natale, dell’Epifania, del-
l’Ascensione e del santissimo Corpo e Sangue del Signore, della san-
ta Madre di Dio Maria, della sua Immacolata Concezione e Assun-
zione, di san Giuseppe, dei santi apostoli Pietro e Paolo, e infine di
tutti i Santi.
La Conferenza episcopale ha però la possibilità, previa autoriz-
zazione della Sede Apostolica, di abolire o trasferire alla domenica
alcuni giorni festivi di precetto.
Avendo attinenza con la materia concordataria che allora era
ancora in via di definizione, la CEI ha rinviato eventuali deliberazioni
in merito con la delibera II, di carattere non normativo 44.

Can. 1251 e 1253 - Astinenza e digiuno


La normativa codiciale dà facoltà alla Conferenza episcopale di
intervenire con ulteriori precisazioni sulla materia dell’astinenza e il
digiuno.
Pur proponendosi di approfondire in seguito la questione, la
CEI è inizialmente intervenuta confermando precedenti disposizioni:
«Fino a quando non siano date ulteriori determinazioni a norma dei cann.
1251 e 1253 del Codice di diritto canonico, per l’osservanza del digiuno e
dell’astinenza rimangono in vigore nella Chiesa italiana le disposizioni ema-
nate dalla Conferenza episcopale italiana il 27 luglio 1966, fermo restando
quanto stabilito dal can. 97 dello stesso codice circa la maggiore età» 45.

Il documento cui si fa riferimento nel testo contiene norme ap-


plicative della costituzione apostolica Paenitemini che erano state
proposte e approvate durante i lavori della I assemblea generale 46.
Secondo il proposito espresso, la CEI ha nuovamente affrontato
l’intera materia con la nota pastorale Il senso cristiano del digiuno e
dell’astinenza 47 che, in alcune parti, ha un preciso valore normativo.

44
Cf delibera II, di carattere non normativo, adottata il 18 aprile 1985 (ECEI 3, n. 2300).
45
Delibera n. 27 (ECEI 3, n. 2282).
46
CEI, norme L’applicazione della costituzione apostolica “Paenitemini”, 23 giugno 1966 (ECEI 1, nn.
744-752).
47
CEI, nota pastorale Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, 4 ottobre 1994 (ECEI 5, nn. 2337-
2377).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 465

In particolare, nel decreto di promulgazione si precisa che


«ai fini della più precisa identificazione degli elementi costitutivi il corpo nor-
mativo spettante alle competenze della Conferenza episcopale italiana, resta
inteso che le disposizioni normative contenute nel n. 13 del presente docu-
mento saranno da intendere come Delibera CEI n. 59».

Dopo una introduzione circa il valore della penitenza nel nostro


tempo, il documento si articola nel seguente modo: I. Il digiuno e l’a-
stinenza nell’esperienza storica della Chiesa; II. Il digiuno e l’astinen-
za nella vita attuale della Chiesa; III Disposizioni normative e orien-
tamenti pastorali.

Libro V

Cann. 1262 e 1272 - Sostegno economico dei fedeli


e sistema beneficiale
Con la già citata delibera II di carattere non normativo la CEI
ha preso atto di non poter regolare queste materie perché ancora
non si era giunti alla ratifica degli accordi di revisione concordataria
né erano state emanate le previste norme applicative.
Rinviamo la descrizione della normativa vigente in materia al
successivo capitolo dedicato agli interventi normativi connessi alla
revisione concordataria, ricordando che sul tema specifico del soste-
gno economico alla Chiesa la CEI ha pubblicato un apposito docu-
mento pastorale 48.

Can. 1265 § 2 - Questue


Il § 2 del can. 1265 ammette la possibilità che le Conferenze epi-
scopali diano disposizioni in materia di questua, alle quali si dovran-
no attenere anche coloro che per istituzione sono detti mendicanti.
Per la sua attinenza con gli accordi concordatari la CEI, in un
primo tempo, con la citata delibera II di carattere non normativo, ha
rimandato la questione.
Successivamente, però, una volta portati a termine gli adempi-
menti concordatari, ha affrontato l’argomento determinando quali
giornate siano da considerarsi di colletta e quali di sola sensibilizza-

48
CEI, documento Sovvenire alle necessità della Chiesa. Corresponsabilità e partecipazione dei fedeli, 14
novembre 1988 (ECEI 4, nn. 1231-1305).
466 Massimo Calvi

zione, come ci si debba comportare per l’utilizzo delle offerte raccol-


te e dando norme circa le richieste di denaro e le pubbliche sotto-
scrizioni. Tali norme sono entrate in vigore il 24 ottobre 1993 49.

Cann. 1277, 1292 § 1 e 1297 - Determinazioni


in materia amministrativa
Circa gli atti di straordinaria amministrazione diversi da quelli
previsti dai cann. 1291, 1295 e 1297, i contratti e in specie le aliena-
zioni, e la locazione dei beni ecclesiastici, la CEI è intervenuta con
una prima serie di delibere, la n. 20, la n. 37 e la n. 38, adottate negli
anni 1984 e 1985. In seguito però, nel 1990, la Conferenza episcopale
ha ripreso la normativa modificandola e semplificandola 50.
Tutta la materia riguardante il libro V del Codice è stata poi og-
getto di una apposita Istruzione in materia amministrativa che ha af-
frontato in modo ampio e articolato il settore tanto delicato dell’am-
ministrazione dei beni ecclesiastici.
Proprio per la sua natura di istruzione il documento non ha ca-
rattere normativo, anche se, a norma dello statuto CEI, a essa «ogni
vescovo si atterrà in vista dell’unità e del bene comune, a meno che
ragioni a suo giudizio gravi ne dissuadano l’adozione nella propria
diocesi» 51. Il testo tratta i seguenti argomenti: I. Le fonti del diritto
amministrativo-patrimoniale; II. Gli enti e i beni ecclesiastici; III. La
potestà esecutiva del vescovo nell’amministrazione dei beni ecclesia-
stici; IV. Le fonti di sovvenzione nella Chiesa; V. L’amministrazione
ordinaria e straordinaria; VI. L’ente diocesi; VII. L’ente parrocchia;
VIIII. Luoghi di culto; IX. Le associazioni di fedeli; X. Le fondazioni.

Libro VII

Can. 1421 § 2 - Giudice laico


Il Codice demanda alla Conferenza episcopale la facoltà di per-
mettere che un laico assuma l’ufficio di giudice ecclesiastico nella
formazione di un collegio giudicante di tre membri.

49
Cf delibera n. 59 Norme circa la raccolta di offerte per le necessità particolari (ECEI 5, nn. 1941-
1942). La delibera è stata oggetto di commento in M. CALVI, Norme circa la raccolta di offerte per neces-
sità particolari, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 8 (1995) 118-127.
50
Le nuove delibere 20, 37 e 38 sono entrate in vigore il 1° ottobre 1990 (ECEI 4, nn. 2471-2477).
51
Istruzione in materia amministrativa, 1° aprile 1992 (ECEI 5, nn. 710-889).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 467

Con la delibera n. 12 l’episcopato italiano ha ammesso tale pos-


sibilità purché il laico sia in possesso dei requisiti voluti dalla norma-
tiva canonica 52.

Cann. 1424; 1425 §§ 1 e 4; 1428 - Giudice unico


Il § 4 del can. 1425 concede alla Conferenza episcopale la fa-
coltà di permettere che il vescovo diocesano affidi la causa a un uni-
co giudice chierico, nel caso vi fosse l’impossibilità di costituire il
collegio giudicante e fintantoché una tale impossibilità persista. Si
tratta di cause contenziose in primo grado, escluso quelle di caratte-
re matrimoniale e penale, e quelle circa la validità della ordinazione.
Con la delibera n. 13 53 è stata ammessa tale possibilità.

Can. 1714 - Transazione, compromesso e giudizio arbitrale


Per la transazione, il compromesso e il giudizio arbitrale il Codi-
ce stabilisce che si osservino le norme prescelte dalle parti, oppure,
se le parti non abbiano scelto, la legge fatta dalla Conferenza episco-
pale, se vi sia, o la legge civile vigente.
Con la delibera n. 14 la CEI ha rinunciato a emanare una nor-
mativa propria rinviando le parti alle disposizioni civili 54.

Can. 1733 § 2 - Ufficio diocesano per la composizione delle liti


Per ricercare e suggerire eque soluzioni e composizioni di e-
ventuali controversie, il canone ammette la possibilità che la Confe-
renza episcopale costituisca appositi uffici, emanando opportune
norme che ne regolino il funzionamento.
I vescovi italiani hanno ritenuto opportuno rinunciare a tale
possibilità:
«La conferenza almeno per ora non costituisce alcun ufficio o consiglio sta-
bile per l’equa soluzione delle controversie sorte a motivo dei ricorsi contro
i decreti amministrativi e lascia la ricerca di strumenti per la composizione
delle controversie alla sperimentazione dei singoli vescovi» 55.

52
Cf delibera n. 12 (ECEI 3, n. 1600).
53
Cf delibera n. 13 (ECEI 3, n. 1601).
54
Cf delibera n. 14 (ECEI 3, n. 1602).
55
Delibera n. 15 (ECEI 3, n. 1603).
468 Massimo Calvi

Applicazione dell’Accordo di revisione concordataria


Il 18 febbraio 1984 è stato siglato l’Accordo di revisione del con-
cordato lateranense tra la Santa Sede e lo Stato italiano, nel quale,
soprattutto per gli aspetti applicativi, si riconosce come interlocutore
nei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, la Conferenza episcopale.
Poiché le norme concordatarie hanno rilevanza anche nell’or-
dinamento canonico, sono diventate fonte di un particolare diritto
complementare che è stato progressivamente elaborato soprattutto
intorno a due principali tematiche: l’insegnamento della religione
cattolica nella scuola pubblica e gli enti e i beni ecclesiastici.

Insegnamento della religione cattolica


Non è possibile qui, e del resto esula dallo scopo dell’articolo,
presentare in modo analitico i contenuti della normativa CEI in que-
sto ambito. Ci limitiamo a offrire un quadro sintetico della materia,
indicando le fonti normative più rilevanti alle quali fare riferimento.
Le principali deliberazioni per quanto riguarda l’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole pubbliche sono state prese dalla
CEI in tre assemblee generali: la XXVI, straordinaria, 24-27 febbraio
1986; la XXVIII, ordinaria, 18-22 maggio 1987; la XXXII, ordinaria, 14-
18 maggio 1990.
Una prima serie di delibere è entrata in vigore il 5 settembre
1986 e riflette i contenuti dell’Intesa intervenuta tra il Ministro della
pubblica istruzione e il Presidente della CEI, stipulata il 14 dicembre
1985 56:
– delibera n. 39: Procedura per la definizione e ridefinizione dei
programmi di insegnamento della religione cattolica nelle scuole pub-
bliche;
– delibera n. 40: Nulla osta e approvazione dei libri di testo per
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole;
– delibera n. 41: Criteri di disciplina ecclesiastica per il ricono-
scimento e per la revoca della idoneità all’insegnamento della religio-
ne cattolica nelle scuole pubbliche;

56
MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Intesa fra autorità scolastica e Confe-
renza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, 14 dicembre
1985 (ECEI 3, nn. 2924-2945).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 469

– delibera n. 42: Criteri per il riconoscimento degli istituti di


scienze religiose abilitati a rilasciare i titoli di qualificazione per gli
insegnanti di religione 57;
– delibera n. 42 bis (30 dicembre 1987): Incarico dell’insegna-
mento di religione cattolica nella scuola materna ed elementare a reli-
giosi o religiose in possesso di qualificazione riconosciuta dalla CEI 58.

Come è noto, diversamente da altre materie, quella dell’inse-


gnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche suscitò vi-
vaci scontri all’interno dell’opinione pubblica italiana.
A motivo di ciò il Governo italiano, nel dicembre del 1987, chie-
se di modificare l’Intesa firmata nel 1985. Così, nel 1990, si giunse a
una nuova Intesa tra il Ministro della pubblica istruzione e il Presi-
dente della CEI.
In seguito alle modifiche apportate alla materia, le due Parti
hanno redatto un testo coordinato delle Intese 59.

Per quanto riguarda i programmi per l’insegnamento della reli-


gione cattolica nelle scuole dei diversi gradi ci limitiamo a indicare
quando sono stati pubblicati: per le scuole materne, nel giugno 1986;
per le elementari, nel maggio 1987; per le medie inferiori e le medie
superiori, nel luglio 1987 60.

Da ultimo, sebbene non abbia carattere normativo, segnaliamo


la pubblicazione della nota pastorale della CEI Insegnare religione
cattolica oggi, del 19 maggio 1991 61.

57
La numerazione originaria delle presenti delibere era dall’1 al 4 (ECEI 4, nn. 312-315).
58
Cf ECEI 4, nn. 958-960.
59
MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Testo coordinato delle Intese 14.12.
1985 e 13.6.1990 tra autorità scolastica e Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religio-
ne cattolica nelle scuole pubbliche (ECEI 4, nn. 2391-2412).
60
MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Specifiche e autonome attività educati-
ve in ordine all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche materne, 10 giugno 1986
(ECEI 4, nn. 225-231); MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Programma delle
specifiche e autonome attività educative in ordine all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole
pubbliche elementari, 4 maggio 1987 (ECEI 4, nn. 718-743); MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESI-
DENTE DELLA CEI, Programma di insegnamento della religione cattolica nella scuola media, 15 luglio
1987 (ECEI 4, nn. 796-824); MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE E PRESIDENTE DELLA CEI, Programma
di insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria superiore, 15 luglio 1987 (ECEI 4, nn.
825-853).
61
Cf ECEI 4, nn. 141-223.
470 Massimo Calvi

Sostentamento del clero


Uno dei settori nei quali l’Accordo di revisione concordataria ha
avuto la maggiore portata innovativa è stato sicuramente quello rela-
tivo agli enti e i beni ecclesiastici, in particolare per il superamento
del sistema beneficio-congrua, sostituito dal nuovo sistema di so-
stentamento del clero.
Con la nuova normativa concordataria la Chiesa italiana si è
lasciata alle spalle il secolare sistema beneficiale e ha rinunciato al-
l’apporto economico-finanziario diretto dello Stato, per affidarsi alla
maturità dei cittadini e dei fedeli attraverso una nuova modalità che
è stata chiamata di “autofinanziamento della Chiesa agevolato dallo
Stato”.
Alla luce dei voti fatti dal concilio Vaticano II, seguendo e ap-
profondendo le scarne indicazioni contenute nel Codice, la Chiesa
italiana ha elaborato, non senza notevoli fatiche e qualche resistenza,
un sistema con il quale garantire al proprio clero una remunerazione
più equa.

Si è trattato di uno sforzo notevole che ha lungamente impegna-


to l’episcopato italiano chiamato più volte, nel corso delle proprie con-
vocazioni, a pronunciarsi su norme in attuazione delle materie deman-
date dalle disposizioni sugli enti e i beni ecclesiastici in Italia e per il
sostentamento del clero in servizio delle diocesi. In particolare tale
produzione normativa ha occupato la CEI nelle seguenti assemblee
generali: la XXVI, straordinaria, 24-27 febbraio 1986; la XXVII, ordi-
naria, 19-23 maggio 1986; la XXVIII, ordinaria, 18-22 maggio 1987;
la XXIX, ordinaria, 2-6 maggio 1988; la XXXII, ordinaria, 14-18 maggio
1990; la XXXIV, ordinaria, 6-10 maggio 1991; la XXXVII, ordinaria,
10-14 maggio 1993.

Elenchiamo le principali norme e disposizioni emanate in mate-


ria di sostentamento del clero:
– 20 luglio 1985: Approvazione dello statuto dell’ICSC 62;
– 20 luglio 1985: Approvazione delle norme per la prima desi-
gnazione dei rappresentanti del clero negli organi amministrativi del-
l’ICSC 63;

62
Cf ECEI 3, n. 2705.
63
Cf ECEI 3, n. 2706.
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 471

– 20 luglio 1985: Approvazione statuto e norme per la designa-


zione dei rappresentanti del clero negli organi amministrativi di ID-
SC e IISC 64;
– 30 dicembre 1986: Promulgazione delle seguenti delibere:
* n. 43: Criteri per la determinazione della remunerazione do-
vuta ai sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi
* n. 44: Proventi derivanti dall’esercizio del ministero da com-
putare ai fini della determinazione della remunerazione
* n. 45: Individuazione dei sacerdoti che svolgono servizio a
favore della diocesi
* n. 46: Determinazione del servizio svolto in favore della dio-
cesi
* n. 47: Criteri per la determinazione della remunerazione do-
vuta dagli enti ecclesiastici ai sacerdoti del cui ministero si av-
valgono
* n. 48: Individuazione dei sacerdoti aventi diritto alla remu-
nerazione negli anni 1987, 1988 e 1989
* n. 49: Competenza della riunione dei presidenti delle Confe-
renze episcopali regionali e della presidenza della Conferenza
episcopale italiana per ulteriori determinazioni
* n. 50: Criteri per l’individuazione e l’assegnazione a diocesi,
parrocchie e capitoli non soppressi di beni non redditizi ap-
partenenti agli istituti diocesani per il sostentamento del cle-
ro. Allegato alla delibera n. 50: Orientamenti per i vescovi dio-
cesani in ordine ai provvedimenti di cui all’art. 29, comma
quarto, delle Norme (cosiddetti ritrasferimenti)
* n. 51: Costituzione dell’organo di composizione di eventuali
controversie tra sacerdoti e istituti diocesani per il sostenta-
mento del clero
* n. 52: Costituzione dell’organo di composizione di eventuali
controversie tra sacerdoti e istituti interdiocesani di sostenta-
mento del clero 65;
– 30 dicembre 1987: Promulgazione delle modifiche o integra-
zioni alle delibere 43, 44 e 47 e di tre nuove delibere:
* n. 53: Estensione del nuovo sistema di sostentamento a tutti
i sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi

64
Cf ECEI 3, nn. 2750-2751.
65
Cf delibere nn. 43-52 delle assemblee generali XXVI e XXVII (ECEI 4, nn. 414-475).
472 Massimo Calvi

* n. 54: Avvio delle funzioni previdenziali integrative e autono-


me in favore del clero italiano
* n. 55: Interventi per assicurare la corretta attuazione delle
delibere CEI in materia di sostentamento del clero 66;
– 30 dicembre 1988: Integrazioni o modifiche delle delibere 45,
47, 53, 54 67;
– 21 settembre 1990: Integrazioni o modifiche delle delibere 43,
47, 49, 51, 52 e nuova delibera n. 57 Definizione dei criteri e delle
procedure per la ripartizione e l’assegnazione della somma destinata
alla Chiesa Cattolica ex art. 47 delle Norme sugli enti e i beni eccle-
siastici (c. d. 8 per mille) 68;
– 1° agosto 1991: Delibera n. 58 Testo unico delle disposizioni
di attuazione delle norme relative al sostentamento del clero che
svolge servizio in favore delle diocesi 69.
Come si può facilmente notare dal susseguirsi degli interventi
sulla materia e, soprattutto, dalle numerose modifiche di volta in vol-
ta apportate, la normativa CEI al riguardo è abbastanza complessa.
Le continue modifiche, che comunque non hanno toccato la sostan-
za della impostazione, sono la testimonianza che, trattandosi di un si-
stema radicalmente innovativo, i vescovi italiani, nei primi tempi,
hanno dovuto disporsi a un continuo e progressivo aggiustamento
della legislazione per renderla sempre più e sempre meglio rispon-
dente alle reali situazioni della Chiesa italiana.
Poiché la lunga serie di correzioni e integrazioni rischiava di
rendere difficile la consultazione della normativa e la chiarezza della
stessa, con la delibera n. 58 si è voluto offrire uno strumento per una
più facile, immediata e certa consultazione della materia redigendo il
Testo unico che non abroga le precedenti deliberazioni ma le riassu-
me e le presenta in modo organico e completo.
Non si deve poi dimenticare che il nuovo sostentamento del cle-
ro e le norme a esso collegate sono entrate anche nella trattazione
fatta dalla Istruzione in materia amministrativa.
Dopo la pubblicazione del Testo unico i vescovi sono ulterior-
mente intervenuti sulla materia approvando una Modifica all’art. 3

66
Cf ECEI 4, nn. 943-954.
67
Cf ECEI 4, nn. 1334-1342.
68
Cf ECEI 4, nn. 2480-2497.
69
Cf ECEI 5, nn. 396-433.
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 473

del Testo unico 70 e poi delle Modifiche delle Determinazioni relative


agli interventi in favore dei sacerdoti “Fidei donum” previste dalla de-
libera CEI n. 58, art.1, par. 4 71.

A quanto sopra descritto si devono poi aggiungere i numerosi


interventi che si sono susseguiti per precisare e definire, di volta in
volta, materie strettamente connesse al sostentamento del clero,
quali la determinazione annuale del valore monetario del punto, e la
ripartizione e l’assegnazione delle quote dell’8 per mille.
In particolare ricordiamo poi alcune determinazioni strettamen-
te connesse alla materia di cui stiamo trattando:
– nel maggio 1989: Determinazioni relative agli interventi in fa-
vore dei sacerdoti “Fidei donum” previsti dalla delibera CEI n. 45, § 2
e altre Determinazioni relative allo svolgimento delle funzioni previ-
denziali integrative e autonome in favore dei vescovi emeriti e dei sa-
cerdoti inabili 72;
– nel settembre 1990: Determinazioni concernenti la gestione
dei flussi finanziari agevolati per il sostegno alla Chiesa cattolica in
Italia in esecuzione della delibera CEI n. 57, e in allegato il testo delle
Norme per i finanziamenti della CEI per la nuova edilizia di culto 73.

Altre materie
Insieme all’insegnamento della religione e al sostentamento del
clero, vi sono altre materie che hanno attinenza o legami alla norma-
tiva concordataria. Il campo delle cosiddette “materie miste” è infatti
molto ampio: matrimonio concordatario, assistenza religiosa negli
ospedali e alle forze armate, beni culturali ecclesiastici.
Qui ci limitiamo a segnalare due interventi della CEI in campi
diversi da quelli finora presentati :

70
Cf ECEI 5, n. 1943.
71
Cf ECEI 5, nn. 2846-2852.
72
Cf ECEI 4, nn. 1643-1661. Il 25 maggio 1995 fu approvata anche una Modifica delle Determinazioni
relative agli interventi in favore dei sacerdoti “Fidei donum” previste dalla delibera CEI n. 58, art. 1, § 4,
approvate dalla XXXI assemblea generale della CEI (ECEI 5, nn. 2846-2852).
73
Cf ECEI 4, nn. 2503-2517. Alla materia relativa all’edilizia di culto furono apportate modifiche nel
maggio 1993 (ECEI 5, n. 1728); nel maggio 1995 furono adottate delle Determinazioni a modifica del
numero 2, lettera a, delle “Determinazioni” approvate dalla XXXII assemblea generale della CEI, in ese-
cuzione della delibera CEI n. 57 (ECEI 5, n. 2822) e la Modifica dell’Allegato alle determinazioni sulla
gestione dei flussi finanziari agevolati (ECEI 5, nn. 2823-2831), cui è annesso il Regolamento applicativo
delle Norme per i finanziamenti della CEI per la nuova edilizia di culto (ECEI 5, nn. 2832-2845).
474 Massimo Calvi

– 4 aprile 1991: Promulgazione dell’Intesa con il Ministro dell’in-


terno circa l’assistenza spirituale al personale della Polizia di Stato 74;
– 9 dicembre 1992: Pubblicazione di orientamenti circa i beni
culturali della Chiesa in Italia 75;
– 13 settembre 1996: Intesa con il Ministro dei beni culturali cir-
ca i beni culturali ecclesiastici 76.

Normativa in altre materie


Sebbene l’attività normativa della CEI sia stata originata soprat-
tutto dall’attuazione del Codice e dell’Accordo di revisione concorda-
taria, non sono mancati interventi in altre materie che presentiamo
in forma quanto mai sintetica:
– delibera n. 56 circa l’introduzione dell’uso di distribuire la
santa comunione sulla mano dei fedeli. La norma è accompagnata da
una istruzione che oltre ad approfondire la questione dal punto di vi-
sta dottrinale e catechistico, offre precisazioni circa il modo corretto
di distribuire e di ricevere la santa comunione sulla mano 77;
– modifiche alle delibere nn. 20, 37 e 41 riguardanti l’ammini-
strazione dei beni ecclesiastici 78;
– decreto generale sul matrimonio entrato in vigore il 17 feb-
braio 1991, prima domenica di quaresima 79.

A proposito di quest’ultimo testo vale la pena sottolinearne l’im-


portanza, non solo perché è stata la sola volta nella quale la CEI si è
vista attribuire specifiche competenze attraverso il mandato speciale
della Santa Sede, ma anche e soprattutto per i contenuti:

74
MINISTRO DELL’INTERNO E PRESIDENTE DELLA CEI, Intesa fra l’autorità statale e la Conferenza episcopa-
le italiana per l’assistenza spirituale al personale della Polizia di Stato, 21 dicembre 1990 (ECEI 5, nn.
72-87). Il testo della presente Intesa è stato promulgato all’interno dell’ordinamento canonico il 4 aprile
1991 con Decreto del presidente della Conferenza (ECEI 5, n. 71).
75
CEI, Documento I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti, 9 dicembre 1992 (ECEI 5, nn.
1214-1283). Come è specificato dal decreto di pubblicazione si tratta di orientamenti cui «ogni vescovo
si atterrà in vista dell’unità e del bene comune a meno che ragioni a suo giudizio gravi ne dissuadano
l’adozione nella propria diocesi» (Statuto, art. 18). Il presente documento si propone di integrare le
Norme per la tutela e la conservazione del patrimonio storico-artistico della Chiesa in Italia, approvate il
14 giugno 1974 (cf ECEI 2, nn. 1319 ss), in prospettiva di disposizioni normative che le sostituiscano.
76
MINISTRO DEI BENI CULTURALI E PRESIDENTE CEI, Intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interes-
se religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche, in «Il Regno/Documenti» 41 (1996) 606-607.
77
Cf ECEI 4, nn. 1845 e 1846-1869.
78
Cf ECEI 4, nn. 2471-2476.
79
CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico, 5 novembre 1990 (ECEI 4, nn. 2613-2684).
La produzione normativa della Conferenza episcopale italiana 475

– obbligo di celebrare il matrimonio canonico con effetti civili;


– preparazione al matrimonio canonico con effetti civili e atti da
premettere alla sua celebrazione;
– effetti civili del matrimonio canonico;
– celebrazione del matrimonio canonico e trascrizione per gli
effetti civili;
– casi particolari;
– separazione coniugale;
– cause di nullità matrimoniale;
– dispensa da matrimonio rato e non consumato 80.

Per concludere
Dopo questa sintetica e, per certi versi, frammentaria e superfi-
ciale presentazione dell’attività normativa della CEI negli anni 1983-
1995, mi sembra si possa concludere osservando che il Codice di di-
ritto canonico, insieme all’Accordo di revisione del concordato han-
no offerto all’episcopato italiano una importante opportunità: quella
di esercitare con una certa intensità la potestà normativa che gli è ri-
conosciuta dall’ordinamento canonico.
Sappiamo quanto sia delicato il rapporto e soprattutto l’equili-
brio tra la potestà propria di ogni singolo vescovo e la competenza di
una Conferenza episcopale.
Tuttavia l’esperienza italiana di questi anni, pur mettendo in
guardia dal pericolo di limitare indebitamente lo spazio di libertà e
di autodeterminazione dei singoli vescovi, mostra con tutta evidenza
l’importanza e la necessità che in alcune materie può e deve assume-
re una legislazione unitaria e organica per il bene delle Chiese parti-
colari che vivono in un determinato Paese.

MASSIMO CALVI
Via Milano, 5
26100 Cremona

80
Cf ECEI 4, nn. 2610-2684.
476
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 476-482
Commento a un canone
«La celebrazione eucaristica
venga compiuta nel luogo sacro»
(can. 932 § 1)
di Giuliano Brugnotto

A taluni pastori, e talvolta anche a fedeli laici impegnati in atti-


vità pastorali soprattutto se catechetico-formative, sarà accaduto di
dover scegliere un luogo per la celebrazione dell’Eucaristia o perché
la chiesa o l’oratorio non si potevano frequentare o per motivi di al-
tro genere. Non sembri inutile la lettura della normativa in vigore e
dei criteri di scelta che essa suggerisce.
Il dettato del canone circa il luogo della celebrazione eucaristica
è chiaro, pertanto ci si limiterà a esplicitare quanto si intuisce fin da
una prima lettura del testo, che così stabilisce:
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro, a meno che in
un caso particolare la necessità non richieda altro; nel qual caso la celebra-
zione deve essere compiuta in un luogo decoroso» (can. 932 § 1).

La norma, valida per la chiesa latina 1, considera il «luogo sacro»


come ordinario ma subito afferma che vi può essere un «caso partico-
lare» di necessità che rende opportuna la celebrazione fuori di esso e,
in questo caso, detta la condizione del «luogo decoroso» (honesto).
Prima di offrire una spiegazione dei termini sarà utile ricordare
il retroterra legislativo ecclesiale sul quale si fonda sia la regola sia
l’eccezione.

Le fonti della norma


Alcune prescrizioni circa il luogo della celebrazione eucaristica
si possono reperire nel Decreto di Graziano. Esse riguardano l’obbli-

1
Non esiste un canone parallelo nel CCEO. Soltanto si dice: «Il sacerdote cattolico può celebrare la Di-
vina Liturgia sull’altare di qualsiasi chiesa cattolica» (can. 705 § 1).
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1) 477

go di celebrare le messe solenni nel luogo consacrato dal vescovo o


da lui indicato 2, oppure, in termini più generali, di celebrare soltanto
in quei luoghi che il proprio vescovo o il vescovo regolarmente ordi-
nato avesse previsto 3. Si sottolinea così la competenza della Chiesa,
affidata ai vescovi, sul luogo della celebrazione eucaristica, indice
pure della cura nei riguardi del mistero celebrato.
Il concilio di Trento 4, dopo aver ammonito coloro che accettano
offerte esose per la celebrazione della messa, ricorda ai vescovi che
debbono vigilare affinché sia vietato a qualsiasi prete a loro scono-
sciuto, oppure vagabondo, di celebrare. Il motivo è la riverenza da ri-
servare a questo sacramento per cui si ritiene doveroso anche non
tollerare che sia celebrato il santo sacrificio al di fuori dei luoghi de-
stinati al culto (chiese e oratori), come le case private. Il luogo stes-
so potrebbe tuttavia non essere di qualità sufficiente per una reale ri-
verenza verso la celebrazione eucaristica e infatti il Tridentino insi-
ste sull’atteggiamento di chi partecipa – “modesto e composto” dice
testualmente –, indice di una presenza devota della mente e del cuo-
re. Forse si può dire che la chiesa o l’oratorio erano ritenuti come
luoghi maggiormente capaci di far crescere una simile disposizione
interiore per il loro carattere di “luoghi sacri”.
Il CIC 1917, raccogliendo la prassi fino ad allora in vigore, pre-
scriveva l’obbligo di celebrare su di un altare consacrato, o in una
chiesa, o in un oratorio (purché sia consacrato o benedetto), a meno
che non si disponesse del privilegio di celebrare su di un altare por-
tatile, privilegio concesso per indulto dalla Sede Apostolica 5. Per una
causa giusta e ragionevole si poteva chiedere la licenza all’ordinario
del luogo o al superiore maggiore di celebrare fuori del luogo sacro;
la licenza veniva concessa «per modum actus».
La competenza del proprio vescovo o superiore sul luogo della
celebrazione eucaristica si ripresenta quindi nella raccolta codiciale
fino a quando nella revisione del Codice scompare sia l’indulto per
ottenere il privilegio di celebrare su di un altare portatile sia la licen-
za da richiedere al superiore. Al padre consultore che, ritenendo ec-
cessivamente permissiva la prassi promossa dalla proposizione del

2
D. 1.12 de consecratione.
3
D. 1.14 de consecratione.
4
Si veda il Decretum De observandis et vitandis in celebratione missarum del concilio di Trento, sessio-
ne XXII (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1991, pp. 736-737).
5
Cf can. 822 §§ 1-2 CIC 1917.
478 Giuliano Brugnotto

nuovo canone, chiedeva l’inserimento dell’espressione «con il con-


senso dell’ordinario» si rispose che l’aggiunta avrebbe reso la mate-
ria eccessivamente complicata. Piuttosto si è pensato di aggiungere
la precisazione «in un caso particolare» per offrire la possibilità di
celebrare abitualmente l’Eucaristia fuori del luogo sacro qualora lo
richiedesse una particolare necessità 6.
Seguendo l’attuale normativa si potrà concludere che la Chiesa
rivendica certo la possibilità di determinare il luogo della celebrazio-
ne eucaristica ma non ritiene che sia necessario ricorrere al superio-
re per valutare la situazione di necessità per cui si possa celebrare in
un altro luogo. La valutazione viene lasciata al singolo sacerdote ce-
lebrante che dovrà conoscere la legge ecclesiale per non incorrere
in leggerezze ed essere in grado di discernere le situazioni.

La norma generale e il “caso particolare”


Luogo ordinario della celebrazione della santa Messa è quello
sacro. L’Introduzione al Messale Romano concorda con il canone pur
apparendo meno vincolante 7. Come afferma il can. 1205 «sono sacri
quei luoghi che vengono destinati al culto divino o alla sepoltura dei
fedeli mediante la dedicazione o la benedizione, a ciò prescritte dai
libri liturgici».
Si potranno considerare luoghi ordinari della celebrazione eu-
caristica le chiese dedicate o benedette, gli oratori e le cappelle be-
nedetti. Gli oratori e le cappelle private che non sono state benedet-
te, essendo d’obbligo soltanto la licenza dell’ordinario per la loro co-
stituzione 8, non rientrano, per sé, tra i luoghi sacri. Sono luoghi
questi destinati al culto divino e dalla loro costituzione vi è l’obbligo
che siano riservati esclusivamente a tale scopo (can. 1229), secondo
l’approvazione della competente autorità; le due condizioni sembra-

6
Cf «Communicationes» 15 (1983) 197. Secondo alcuni dal tenore del canone e dalle considerazioni
dei revisori si coglierebbe la necessità di ottenere il permesso dell’Ordinario per celebrare abitualmen-
te l’Eucaristia fuori del luogo sacro: cf E. DE LEÓN, Comentario, in: Comentario exégetico al Código de
Derecho Canónico, III, Navarra 1996, p. 667.
7
«Per la celebrazione dell’Eucaristia il popolo di Dio si riunisce di solito nella chiesa oppure, in man-
canza di questa, in un altro luogo che sia degno di così grande mistero. Quindi le chiese, o gli altri luo-
ghi, si prestino alla celebrazione delle azioni sacre e all’attiva partecipazione dei fedeli. Inoltre i luoghi
sacri e le cose che servono al culto siano davvero degne, belle, segni e simboli delle realtà celesti» (SA-
CRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Institutio generalis missalis romani, 26 marzo 1970, n. 253 [EV 3,
n. 2317]).
8
Cf cann. 1223 e 1229.
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1) 479

no sufficienti a considerarli “luoghi sacri”, quantunque sarà opportu-


no che vengano al più presto benedetti.
Un altro luogo che non sempre corrisponde a una chiesa od ora-
torio è il santuario che per essere tale abbisogna dell’approvazione da
parte dell’autorità competente (ordinario del luogo, Conferenza epi-
scopale, Santa Sede) come prescrivono i canoni 1230 e 1231. Il Codi-
ce invita a celebrarvi l’Eucaristia (can. 1234 § 1) e perciò sarà impor-
tante che l’altare sia consacrato e il luogo benedetto. Qualora non lo
fossero, l’autorità che ha approvato la costituzione del santuario potrà
essere garanzia della sacralità del luogo fino alla benedizione.
Infine, per ciò che riguarda i cimiteri, il Codice prescrive l’obbli-
go della benedizione, costituendoli così luoghi sacri. I cimiteri civili
dove non sia possibile riservare uno spazio particolare ai fedeli de-
funti, luoghi quindi privi di benedizione, non potranno essere consi-
derati dei “luoghi sacri” perché non c’è la garanzia, nemmeno da
parte dell’autorità ecclesiastica impossibilitata a farlo, che siano de-
stinati solamente al culto.
Perché restringere la celebrazione eucaristica al «luogo sacro»?
Il motivo di una tale scelta è il legame che si realizza tra il segno visi-
bile dato dalla chiesa-edificio-altare (più in generale, un luogo desti-
nato al culto) e la realtà cioè il tempio del corpo personale di Cristo
al quale è associato il corpo mistico che è la Chiesa. Bene afferma la
premessa della CEI al nuovo rito per la dedicazione della chiesa e
dell’altare:
«Al di là della sacralizzazione dello spazio materiale, propria delle religioni
naturalistiche, siamo stimolati a cogliere nel Cristo uomo-Dio la vera sacra-
lità che da lui si comunica a tutto il popolo santo e sacerdotale, battezzato e
crismato nello Spirito, unito nell’unica oblazione al sommo ed eterno sacer-
dote» 9.

Centrale, nel rito della dedicazione della Chiesa e dell’altare è la


celebrazione eucaristica, essendo «la parte più importante e più anti-
ca di tutto il rito» 10.
La normativa circa il luogo ordinario potrà sembrarci eccessiva-
mente rigorosa data la necessità che si presenta spesso oggi di cele-

9
COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Premesse alla versione italiana del rito della «Benedizione de-
gli oli» e della «Dedicazione della chiesa e dell’altare», 3 luglio 1980 (ECEI 3, n. 437).
10
SACRA CONGREGATIO PRO SACRAMENTIS ET CULTU DIVINO, Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, 29 mag-
gio 1977 (EV 6, n. 218; in nota si rinvia a una lettera di papa Vigilio [537-555]).
480 Giuliano Brugnotto

brare fuori del luogo sacro o per il radunarsi di tanta gente in deter-
minate occasioni o per la necessità pastorale di promuovere la forma-
zione e la spiritualità di un gruppo e di una parte della comunità cri-
stiana. Il canone, allargando le possibilità ed evitando di ricorrere al
superiore per la licenza, ha lo scopo di garantire ciò che l’Introduzio-
ne al Messale Romano sottolinea come motivo per l’oculatezza nella
scelta del luogo celebrativo. Esso si deve prestare a due qualità: in-
nanzitutto a ciò che la celebrazione stessa richiede nello svolgimento
dei riti come il raccoglimento, il silenzio, lo spazio; inoltre alla possibi-
lità da parte dei fedeli di partecipare attivamente all’Eucaristia.
Quando si può presentare un “caso particolare” che richieda
l’eccezione alla norma generale?
Una prima situazione si può desumere dalla concessione rila-
sciata, nel dopo Concilio, a gruppi particolari di celebrare l’Eucari-
stia per intensificare la vita cristiana. La facoltà venne concessa per
celebrare in un luogo sacro e con il permesso dell’ordinario anche
fuori da esso a certe condizioni 11. Questa situazione verrà allargata
in seguito a «particolari categorie di persone» e a «famiglie private»
sottolineando che si dovrà evitare il costituirsi di inutili privilegi o
chiesuole 12.
Una seconda esemplificazione si potrà reperire nel Direttorio
per le Messe con i fanciulli che, dopo aver indicato la chiesa come
«luogo primario», segnala la possibilità di ricorrere ad altri spazi ce-
lebrativi dove i fanciulli possano trovarsi maggiormente a loro agio
con una liturgia più adatta alla loro età 13.
Alcuni commentari includono tra i casi di necessità anche la
malattia, l’anzianità, la distanza da una chiesa oppure un vantaggio
pastorale.
Gli esempi sono soltanto indicativi e rendono ancor più chiaro
l’obiettivo della norma che è di natura pastorale nel senso di una du-
plice attenzione: alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia celebra-
ta e alle condizioni per una autentica partecipazione da parte dei fe-
deli. Il luogo ordinario sarà o la chiesa o l’oratorio perché costruiti
proprio a questo scopo; la norma generale sollecita pastore e fedeli a

11
SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Instructio Actio pastoralis, 15 maggio 1969, nn. 3-4 (EV 3, nn.
1163-1164).
12
SACRA CONGREGATIO PRO EPISCOPIS, Directorium Ecclesiae imago, 22 febbraio 1973, n. 85 (EV 4,
n. 2068).
13
SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Directorium Pueros baptizatos, 1° novembre 1973, n. 25 (EV
4, n. 2642).
«La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro» (can. 932 § 1) 481

officiare innanzitutto nel «luogo sacro» che, per sé, rende possibile
una celebrazione decorosa.
Secondo quanto affermato non sembra sufficiente che sia un
luogo formalmente sacro nel senso tecnico del termine a norma dei
cann. 1205-1213. Si potrebbe pure presentare la situazione, seppur
rara, di un oratorio (o chiesa) in tale stato di abbandono da rendere
necessario il ricorso a un luogo non sacro.

Il luogo «honesto»
L’unica indicazione offerta dal canone per scegliere un altro
luogo, diverso da quello sacro, è il decoro. Il termine latino honestus
indica pure onore, rispetto, dignità, nobiltà e bellezza. A questa indi-
cazione prettamente esteriore bisognerà subito aggiungere anche la
possibile partecipazione attiva dei fedeli all’Eucaristia, come affer-
mano i libri liturgici già ricordati.
Secondo il commentario di Navarra «espressamente si esclude il
dormitorio... e anche la sala da pranzo o il tavolo al quale si prendono
i cibi» perché luoghi «espressamente proibiti» 14 motivando la sua po-
sizione con documenti emanati precedentemente al Codice. Non si
tratta propriamente di norme liturgiche che cadrebbero sotto il se-
condo canone del Codice, bensì di una restrizione che le leggi prece-
denti richiederebbero sulla normativa attuale. Il legislatore con il can.
932 § 1 ha voluto riformare tutta la materia e ha pure tolto il divieto
assoluto previsto dal vecchio can. 822 § 4 di celebrare in camera, an-
che nei casi eccezionali, ma ciò non significa che quella norma abbia
perso il suo valore. Quindi si fa divieto di celebrare l’Eucaristia in dor-
mitorio, nella sala da pranzo e sul tavolo dove abitualmente si man-
gia. Non cade nel divieto l’abitazione di una persona inferma sia che
si tratti di un centro sanitario (ospedale o casa di riposo) come pure
di una casa privata, purché si celebri in un luogo adatto 15.

14
AA.VV., Codice di diritto canonico, II, Commentario edito dall’Università di Navarra - Istituto Martín
De Azpilcueta, Roma 1986, p. 674.
15
Cf CEI, Rituale dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Roma 1974, nn. 83 e 129. Si invita ad am-
ministrare l’Unzione e il Viatico durante la Messa anche in un luogo adatto fuori del luogo sacro; per
quest’ultima situazione il rituale prescrive che si ottenga il consenso dell’Ordinario, ma si tenga presen-
te che pur avendo ottenuto l’approvazione della Santa Sede insieme agli altri libri liturgici il 15/11/1984
la norma contrasta con il canone che stiamo commentando secondo il quale non è necessario il parere
dell’Ordinario; a nostro avviso si deve stare al canone. Si veda pure il commento di E. DE LEÓN, Comen-
tario, cit., p. 667.
482 Giuliano Brugnotto

Di natura diversa è, invece, la prassi di celebrare la Messa nella


casa del defunto. Non sembra ci sia qui una reale necessità quando
tutti possono spostarsi fino alla Chiesa come avviene del resto per il
funerale.
In molte comunità è invalsa l’abitudine di celebrare, soprattutto
nel periodo invernale, in una cappella diversa dalla chiesa per motivi
di risparmio energetico o di partecipazione dei fedeli. In questo caso
sarà importante che il luogo rimanga costantemente dedicato al cul-
to e ci si preoccupi di benedirlo secondo quanto prescrivono i libri li-
turgici.
Concludiamo affermando che il dovuto onore verso l’Eucaristia
e la possibilità di una viva partecipazione dei fedeli si realizza con
l’obbligo di celebrare in un luogo sacro e, qualora si dovesse cele-
brare altrove, di cercare un tavolo adatto e di usare sempre la tova-
glia e il corporale (can. 932 § 2). Da questa rivista si è ricordato in
passato che si tratta di un obbligo moralmente grave 16.

GIULIANO BRUGNOTTO
Piazzetta Benedetto XI, 2
31100 Treviso

16
F. J. URRUTIA, L’obbligo delle leggi della Chiesa, in «Quaderni di diritto ecclesiale» 1 (1988) 163.
483
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 483-494
Vita consecrata: le questioni aperte
“Istituti misti”
e nuove aggregazioni
di Gianfranco Ghirlanda

Problematica generale
Nel Sinodo sulla vita consacrata del 1994 è stata sollevata la
questione dei cosiddetti “Istituti misti”, in relazione a istituti religiosi
già esistenti, che alle origini non erano né clericali né laicali, ma che
in seguito, per varie ragioni, sono stati compresi sotto la categoria di
istituti clericali.
In considerazione delle risposte date alla Segreteria Generale
del Sinodo sulla base dei Lineamenta, due accenni agli “Istituti mi-
sti” si facevano già nell’Instrumentum laboris, al n. 32: per riafferma-
re «il valore, la completezza, l’importanza della vita religiosa laicale,
sia negli istituti laicali che in quelli clericali e misti»; per chiedere
che fosse «risolta la questione della partecipazione dei fratelli al go-
verno degli istituti clericali e misti, in modo che, nel rispetto della
propria natura e tradizione, sia regolata dalla legislazione dei singoli
istituti» 1.
La questione fondamentale è l’ammissione o meno dei fratelli al
governo di un istituto con esercizio di giurisdizione sui membri sa-
cerdoti.
Sorta la questione in relazione a questa problematica, appare
chiaro che “Istituto misto” nel Sinodo si intendeva nel senso di istitu-
to in cui sono presenti religiosi ordinati e religiosi non ordinati, non
nel senso di istituti che comprendano in sé uomini e donne. Comun-
que si tratta di una terminologia totalmente nuova, in quanto non
contemplata né dal CIC 1917 né dal CIC 1983.

1
Cf SEGRETERIA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e
nel mondo. Instrumentum laboris, Città del Vaticano 1994.
484 Gianfranco Ghirlanda

Nell’Instrumentum laboris, tuttavia, la questione, appena accen-


nata, poteva far sorgere equivoci con gravi conseguenze per l’iden-
tità degli istituti. Infatti non era affatto chiara la distinzione tra istituti
clericali, tali fin dalla loro origine e per espressa ispirazione dei fon-
datori, e istituti attualmente clericali, ma che non erano stati tali al-
l’origine 2.
Una chiarificazione è venuta, come vedremo, dall’Esortazione
apostolica postsinodale Vita consecrata [= VC] 3, ai nn. 60 e 61.
Comunque anche l’Esortazione considera il problema innanzi-
tutto nella prospettiva di un eventuale recupero dell’ispirazione origi-
naria da parte di istituti già esistenti, attualmente considerati clerica-
li, ed espressamente non dice niente riguardo a istituti futuri 4. Tutta-
via, la soluzione che sarà data alla questione, sulla base dello studio
che sta conducendo l’apposita Commissione istituita dalla Santa Se-
de, sarà utile anche per istituti di vita consacrata che dovessero sor-
gere con un’ispirazione né laicale né clericale.
Tale soluzione, poi, sarà utile anche per eventuali nuove forme
di vita consacrata o altre forme di aggregazione che stanno sorgen-
do un po’ in tutto il mondo, in modo particolare per alcune proble-
matiche che si presentano nei movimenti ecclesiali.

Alcune precisazioni di carattere generale


Nella problematica che stiamo affrontando non possiamo pre-
scindere da alcune precisazioni di carattere generale che troviamo
nel n. 60 dell’Esortazione.

2
Quest’ambiguità si riflette in alcuni interventi in Aula Sinodale, come quello di F. Pablo Basterrechea
F.S.C., Segretario generale dell’Unione dei Superiori Generali, il quale, parlando della presenza dei fra-
telli negli Istituti clericali, affermava: «Con la formazione teologica adeguata, deve sollecitarsi il giorno
in cui (i fratelli) parteciperanno più direttamente ai consigli e agli organi di decisione della loro comu-
nità e in cui potranno anche accedere alle funzioni di governo del loro Istituto a tutti i livelli» («L’Osser-
vatore Romano», La vita Consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, pp. 38-39). La questione
non è da porsi sul piano della formazione teologica o meno, ma, come farà Giovanni Paolo II nell’E-
sortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, su quello della natura sacerdotale o meno dell’I-
stituto.
3
AAS 88 (1996) 377-486.
4
La questione nel Sinodo è stata sollevata specialmente riguardo all’Ordine Francescano Frati Minori
e all’Ordine Francescano Frati Minori Cappuccini, facendo un riferimento generico ad altri istituti che
potrebbero anche rientrare nella categoria di “misti” (cf mons. A. Trinidade, Arcivescovo di Lahore;
H. Schalück, O.F.M., Ministro Generale O.F.M.; F.R. Carraro, O.F.M. Cap.; I. Feaver, O.F.M. Cap., Sup.
Prov. Canada Centr.; F.J. Friant, S.G., Sup. Gen. Fratelli Istr. crist. S. Gabriele, ibid., pp. 64.72.104-
105.106.150-151). In alcuni di questi interventi, tuttavia, era chiara la distinzione tra istituti clericali per
i quali il presbiterato è parte essenziale del carisma dell’istituto e quelli che sono aperti indistintamente
al clero e ai laici (cf H. Schalück, O.F.M., Ministro Generale O.F.M., ibid., p. 72).
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 485

Una prima è di carattere terminologico e fu già proposta dal Si-


nodo 5. È quella di sostituire la dicitura «Istituti laicali» con quella di
«Istituti religiosi di fratelli», «al fine di evitare ogni ambiguità e confu-
sione con l’indole secolare dei fedeli laici» 6, che evidentemente non
appartiene a tali istituti, proprio per essere religiosi, anche se i loro
membri spesso svolgono attività e servizi comuni con i fedeli laici.
Infatti, sulla base di PC 10a e del can. 588 § 1, si ribadisce:
«Secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, la vita consacrata per natura
sua non è né laicale né clericale, e per questo la “consacrazione laicale”, tan-
to maschile quanto femminile, costituisce uno stato in sé completo di profes-
sione dei consigli evangelici. Essa perciò ha, sia per la persona che per la
Chiesa, un valore proprio, indipendentemente dal ministero sacro» 7.

L’essenza della consacrazione, infatti, consiste nella professione


dei consigli evangelici:
«Le persone consacrate, che abbracciano i consigli evangelici, ricevono una
nuova e speciale consacrazione che, senza essere sacramentale 8, le impegna a fa-
re propria – nel celibato, nella povertà e nell’obbedienza – la forma di vita pra-
ticata personalmente da Gesù, e da Lui proposta ai discepoli» (VC 31; cf pu-
re 14).

Dato che la consacrazione negli istituti religiosi è vissuta nella


vita fraterna in comune, secondo Giovanni Paolo II, chiamare i reli-
giosi non sacerdoti “fratelli”, anziché “laici”, esprime anche una loro
funzione specifica all’interno degli istituti di cui sono membri e in re-
lazione alla Chiesa e al mondo intero. Essi
«ricordano efficacemente agli stessi religiosi sacerdoti la fondamentale di-
mensione di fraternità in Cristo, da vivere fra di loro e con ogni uomo e don-
na, e a tutti proclamano la parola del Signore: “E voi siete tutti fratelli” (Mt
23, 8)» 9.

5
Cf propositio 8. Tutte le propositiones sono state pubblicate in «Il Regno/Documenti» 39 (1994) 662-
673.
6
Viene qui fatto riferimento a LG 31. La questione non si pone per gli istituti di donne che ovviamente
sempre sono stati appellati “Istituti femminili” e non “Istituti laicali”.
7
Corsivo nel testo.
8
Corsivo nostro.
9
Giovanni Paolo II riprende qui la sua riflessione svolta sui religiosi fratelli nella catechesi del merco-
ledì 22 febbraio 1995, dove menziona san Francesco «come esempio della santità di una vita religiosa
“laicale”», in quanto in lui era ancora vivo l’ideale di una vita consacrata senza sacerdozio, anche se ac-
cettò di essere in seguito ordinato diacono (cf «L’Osservatore Romano», 25 febbraio 1995).
486 Gianfranco Ghirlanda

Altra affermazione importante di carattere dottrinale e pratico è


quella secondo cui alcuni dei servizi che i fratelli svolgono dentro e
fuori la comunità «si possono considerare ministeri ecclesiali, affidati
dalla legittima autorità»10. Infatti, un ministero è un servizio, in astrat-
to configurato nella Chiesa, che viene liberamente assunto da una
persona, in modo stabile e pubblico, per mezzo di un atto di conferi-
mento da parte di un superiore ecclesiastico a nome della Chiesa.
Un religioso, con la professione, insieme all’assunzione dei con-
sigli evangelici in un determinato istituto, si impegna liberamente e
stabilmente a svolgere a nome della Chiesa quei servizi che sono
previsti nelle Costituzioni, approvate dall’autorità ecclesiastica (cf
can. 675 § 3).
Queste affermazioni generali valgono per gli istituti religiosi sia
laicali sia clericali sia “misti”.

Gli istituti per loro natura sacerdotali


Prima di affrontare la problematica degli “Istituti misti”, una
considerazione previa dev’essere fatta riguardo agli istituti in cui il
ministero sacro è costitutivo del carisma stesso e ne determina l’in-
dole, il fine, lo spirito clericali, nei quali, tuttavia sono presenti come
membri anche dei fratelli.
Considerando la vocazione dei fratelli in questi istituti in modo
distinto rispetto agli istituti chiamati “laicali” nel Codice e agli “Istitu-
ti misti”, Giovanni Paolo II, riferendosi al can. 588 § 2, specifica:

«Diversa è la vocazione dei fratelli in quegli Istituti che sono detti “clericali”
perché, secondo il progetto del fondatore oppure in forza di una legittima
tradizione, prevedono l’esercizio dell’Ordine sacro, sono governati da chieri-
ci e come tali sono riconosciuti dall’autorità della Chiesa. In questi istituti il
ministero sacro è costitutivo del carisma stesso e ne determina l’indole, il fine,
lo spirito. La presenza dei fratelli costituisce una partecipazione differenziata
alla missione dell’Istituto, con servizi svolti sia all’interno delle comunità che

10
Quest’affermazione trova chiaro fondamento in PC 8a e 10a. Nel primo testo si afferma che negli
istituti votati all’apostolato, senza distinguere tra clericali e laicali, «l’azione apostolica e caritativa rien-
tra nella natura stessa della vita religiosa in quanto costituisce un ministero santo e un’opera di carità
che sono stati loro affidati dalla Chiesa e devono essere esercitati in suo nome». Nel secondo testo, do-
ve si parla degli istituti laicali, tra le loro varie attività pastorali si menzionano in modo specifico l’educa-
zione della gioventù e l’assistenza degli infermi e in modo generale ci si riferisce ad “altri ministeri”.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 487

nelle opere apostoliche, in collaborazione (“auxilium praestando”) con coloro


che esercitano il ministero sacerdotale» 11 (VC 60).

Questi istituti, pur avendo come membri anche dei fratelli, non
si possono in alcun modo dire “Istituti misti” nel senso sopra inteso,
in quanto in essi il sacerdozio è costitutivo del carisma e solo esso lo
esprime in pienezza, quindi determina l’indole, il fine e la spiritualità
dell’istituto. Il sacerdozio in questi istituti non è qualcosa che si ag-
giunge alla vocazione religiosa, ma la esprime in modo pieno.
L’istituto clericale, allora, è sacerdotale nella sua natura e nella
sua missione. È evidente che in pienezza tale natura viene realizzata
e tale missione viene svolta solo dai membri sacerdoti dell’istituto.
Tuttavia uno stesso carisma può essere partecipato in modalità di-
verse, quindi anche secondo gradi diversi, per cui, Giovanni Paolo II
nella sua Esortazione afferma che la presenza di fratelli
«costituisce una partecipazione differenziata alla missione dell’Istituto, con
servizi sia all’interno che nelle opere apostoliche, in collaborazione (“auxi-
lium praestando”) con coloro che esercitano il ministero sacerdotale».

È attraverso tale aiuto («auxilium») che i fratelli in questi istitu-


ti partecipano alla natura sacerdotale della missione degli istituti
stessi e la loro presenza è necessaria alla vita dell’istituto, in quanto
senza di essa i sacerdoti non potrebbero ben adempiere la loro stes-
sa missione. È in questa articolazione, vissuta nella comunione fra-
terna, come partecipazione differenziata allo stesso carisma, che l’i-
stituto può adempiere la sua missione nella Chiesa, secondo gli in-
tendimenti del fondatore, confermati dalla Chiesa.
Su questo si fonda il fatto che in questi istituti di natura intrinse-
camente sacerdotale, possano accedere al servizio del Superiorato
solo i sacerdoti: il Superiore deve incarnare ed esprimere in pienez-
za il carisma e la missione dell’istituto.
Questo principio Giovanni Paolo II lo afferma anche riguardo
agli istituti religiosi di fratelli, dove se alcuni membri assumono gli
ordini sacri per il servizio sacerdotale della comunità religiosa, ciò
non deve di per sé comportare il loro accesso alla carica di Superio-
re. Anzi questo viene scoraggiato, in quanto la carica di Superiore,
dice Giovanni Paolo II, «riflette in modo speciale la natura dell’Istitu-
to stesso» (VC 60).

11
Corsivo nostro.
488 Gianfranco Ghirlanda

La partecipazione o meno dei religiosi fratelli ai consigli dei su-


periori negli istituti clericali, dipenderà dall’indole particolare di cia-
scun istituto e quindi sarà determinata dal diritto proprio 12.
Comunque, la differenza di obblighi e di diritti tra i membri de-
gli istituti, sia in quelli per loro natura sacerdotali, ma che compren-
dono anche dei fratelli, sia in quelli di fratelli, in cui ci siano alcuni
membri sacerdoti, indica che una differente vocazione e partecipa-
zione al carisma dev’essere attuata sulla base di una comunione fra-
terna che trova il suo alimento nella carità e nella consapevolezza
della complementarità delle diverse vocazioni per il raggiungimento
di un unico fine (cf VC 42). Tale comunione fraterna nella carità sarà
possibile solo se le comunità e gli istituti nel loro insieme si libere-
ranno da una mentalità secolarizzata sia discriminatoria sia egalitaria
rivendicatrice.

Gli “Istituti misti”


Per quello che riguarda gli “Istituti misti”, la propositio 10 del Si-
nodo così si esprimeva:
«Per rafforzare la dignità e l’identità della vita religiosa maschile, si ricono-
sca pubblicamente l’esistenza di istituti misti, cioè quelli in cui, secondo l’in-
tenzione del fondatore, sono uguali sia i religiosi chierici sia i non chierici
“in pari misura e con uguali diritti e obblighi, eccettuati quelli che derivano
dall’ordine sacro”» (PC 15) 13.

12
Dei “conversi” o “cooperatori” il Concilio tratta in PC 15b, sulla vita comune, dove si dice: «Allo sco-
po poi di rendere più intimo il vincolo di fraternità fra i religiosi, coloro che sono chiamati conversi,
cooperatori o con altro nome, siano strettamente congiunti alla vita e alle opere della comunità». Che
qui si tratti degli istituti clericali, rimane chiaro dal contesto; infatti subito dopo si parla degli istituti
femminili, quindi dei monasteri e degli istituti maschili «non meramente laicali», quelli che vengono
ora detti «Istituti misti», per i quali soltanto si parla di uguali diritti e doveri tra membri ordinati e non
ordinati, eccetto quelli che scaturiscono dall’ordine sacro. Questo testo, quindi, non può essere invoca-
to per sostenere che i “conversi” o “cooperatori”, negli istituti per loro natura fondazionale clericali,
possono accedere alla carica di superiore e partecipare al Capitolo generale. Infatti fu respinta, con la
motivazione che era sufficiente quanto previsto nel testo, la richiesta di un Padre conciliare, che chie-
deva che i “conversi” non fossero esclusi dal voto attivo nelle votazioni né da ogni partecipazione nei
Capitoli e nei Consigli dei superiori (cf modus 227, in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Vaticani II,
IV/III, pp. 566-567). Inoltre il motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6 agosto 1966 (II, 27), in applicazione
di PC 15b, disponeva: «I capitoli generali e le sinassi cercheranno il modo in forza del quale i membri
chiamati conversi, cooperatori, o con altro nome, possano ottenere per gradi il diritto di voto attivo in
determinati atti della comunità e nelle elezioni e anche di voto passivo per certi incarichi; in questo mo-
do avverrà veramente che siano più strettamente uniti alla vita e alle attività della comunità e che i sa-
cerdoti possano dedicarsi più liberamente ai propri ministeri» (AAS 58 [1966] 780). Come si vede qui la
questione riguarda la vita della comunità locale, non si menziona espressamente la funzione di superio-
re, e la definizione del ruolo dei fratelli è in relazione ai ministeri svolti dai sacerdoti.
13
Corsivo nel testo.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 489

Si propone inoltre che, quando è richiesto dai capitoli generali, i


compiti di governo rimangano aperti a tutti senza discriminazione.
In considerazione di questo, nel n. 61 dell’Esortazione viene
detto:
«Alcuni Istituti religiosi, che nel progetto originario del fondatore si confi-
guravano come fraternità, nelle quali tutti i membri – sacerdoti e non sacer-
doti – erano considerati uguali tra di loro, col passare del tempo hanno acqui-
stato una diversa fisionomia. Occorre che questi Istituti, chiamati “misti”, va-
lutino, sulla base dell’approfondimento del proprio carisma fondazionale, se sia
opportuno e possibile tornare all’ispirazione originaria» 14.

Inoltre si dichiara che per «esaminare e risolvere i problemi


connessi con questa materia è stata istituita un’apposita Commissio-
ne, le cui conclusioni sono da attendere, per fare poi le opportune
scelte secondo quanto sarà autorevolmente disposto».
È da notare innanzitutto che ufficialmente viene riconosciuta la
categoria di “Istituto misto”. Un istituto è definito misto sulla base
del riferimento al progetto originario del fondatore. Questo riferi-
mento è fondamentale, in quanto non sembrava affatto convincente
la ragione data nella propositio 10, quella di rafforzare la dignità e l’i-
dentità propria della vita religiosa maschile. Infatti, la dignità e l’iden-
tità propria della vita religiosa maschile, come di ogni vita consacra-
ta, sta, come detto sopra, nella professione dei consigli evangelici e
non nell’accedere all’ufficio di superiore oppure no.
Il presupposto del riconoscimento della categoria di “Istituti mi-
sti” da parte del Papa si trova nel can. 588 §§ 2-3, dove il criterio di
identificazione di un istituto come clericale o laicale non è dato dalla
proporzione numerica dei membri, come era nel Codice del 1917
(can. 488, 4°), né di per sé da chi ricopre la carica di superiore, ma è
dato dal carisma di fondazione. Questo è importante perché un isti-
tuto non si può dire misto semplicemente per il fatto che comprende
in sé membri non ordinati oltre quelli ordinati o viceversa, ma solo
se secondo il carisma originario, quanto alla missione che è chiama-
to a svolgere nella Chiesa, è da considerarsi né clericale né laicale e
per questo i membri, sacerdoti e no, sono da considerarsi uguali con
pari obblighi e diritti, eccetto quelli derivanti, per loro natura, dall’or-
dine sacro.

14
Corsivo nostro.
490 Gianfranco Ghirlanda

Dato che tra i diritti è da comprendersi anche quello alla voce


attiva e passiva nell’elezione alla carica di superiore, con la rispon-
dente capacità giuridica a ricoprirne l’ufficio, la questione è allo stu-
dio della Santa Sede per risolvere i problemi connessi con questo.
Tre ci sembrano essere i problemi fondamentali da risolvere.

Un primo problema per gli istituti, in origine né laicali né cleri-


cali, o non del tutto laicali (cf PC 15c), che hanno subito lungo la sto-
ria un certo processo di “clericalizzazione”, è quello di appurare se
esso sia stato dovuto a una “legittima tradizione”, come menziona il
can. 588 § 2, cioè non in contraddizione con l’ispirazione originaria
del fondatore e implicita in essa, oppure solo per fattori condizionan-
ti esterni, che hanno portato a un allontanamento dal carisma fonda-
zionale.
La soluzione a questo problema verrà dai risultati di uno
spassionato approfondimento del carisma da parte degli istituti inte-
ressati, condotto nella ricerca della volontà di Dio e non sotto l’in-
flusso di spinte democratizzanti, e dalla valutazione che ne farà l’au-
torità ecclesiastica competente 15.

Un secondo problema è se ai superiori non ordinati, in contra-


sto con l’attuale formulazione del can. 596 § 2 – secondo il quale solo
negli istituti religiosi clericali di diritto pontificio i superiori e i Capi-
toli godono della potestà ecclesiastica di governo, tanto per il foro
esterno quanto per quello interno – può essere conferita la potestà
di giurisdizione in base al can. 129 § 2, che riconosce ai laici la capa-
cità di esercitare tale potestà a norma del diritto.
Questo problema coinvolge quello della natura della potestà e-
sercitata negli istituti religiosi in genere, di cui ai cann. 596 §§ 1 e 3;
617 e 618, che va risolto all’interno del problema più ampio della natu-
ra e dell’origine della potestà di giurisdizione nella Chiesa. Non pos-
siamo entrare in questa seconda complessa problematica, ma qualco-
sa circa la potestà negli istituti religiosi in genere la dobbiamo dire.
Nel CIC 1983 scompare completamente la nozione di potestà
dominativa, che si trovava nel can. 501 § 1 CIC 1917. Non si può du-
bitare che secondo il nuovo Codice in tutti gli istituti di vita consa-

15
Da quanto veniva detto alla fine della propositio 10 sembrava che la decisione si dovesse lasciare uni-
camente ai Capitoli, senza tener conto che anche in riferimento ai singoli istituti la questione ha una
portata di carattere ecclesiale più ampia.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 491

crata, anche in quelli che non sono religiosi clericali di diritto pontifi-
cio, la potestà di cui, a norma dei cann. 596 § 1; 617 e 618, godono
sia i Capitoli che i Superiori è una potestà ecclesiastica pubblica 16.
Poiché, secondo il can. 596 § 3, in buona parte si applicano a tale po-
testà i canoni riguardanti la potestà di governo ecclesiastico o di giu-
risdizione (cann. 131; 133; 137-144), si deve dire che essa è radical-
mente della stessa natura della potestà di governo o di giurisdizione,
anche se dal can. 596 § 2 questa venga tecnicamente riconosciuta so-
lo agli istituti religiosi clericali di diritto pontificio, sia per il foro e-
sterno che per quello interno.
Essendo una potestà pubblica, che i superiori anche non sacer-
doti ricevono da Dio mediante il ministero della Chiesa (can. 618) 17,
esercitata in un istituto pubblico per fini pubblici, non può essere
considerata una potestà di natura radicalmente differente da quella
di governo o giurisdizione. Allora si deve seriamente considerare il
fatto che, se i laici possono esercitare, in base al can. 129 § 2, la pote-
stà di giurisdizione, ricoprendo vari uffici ecclesiastici 18, non si vede
perché non lo possano i superiori laici negli istituti o laicali o misti,
anche se non nella stessa misura che i superiori degli istituti clericali
di diritto pontificio 19.
Questa problematica è connessa con un’altra: se i superiori
maggiori, chierici o laici, degli “Istituti misti” possano essere consi-
derati Ordinari con tutte le facoltà connesse, in quanto, a norma del
can. 134 § 1, sono Ordinari solo i superiori maggiori degli istituti reli-
giosi di diritto pontificio clericali 20.
Questi ultimi sono Ordinari perché fanno parte della struttura
della gerarchia ecclesiastica, quindi in una certa misura equiparati ai
vescovi entro il loro ambito, a due titoli: 1) in virtù sacerdozio che

16
Cf quanto veniva dichiarato nella Relatio della Plenaria del 1981 («Communicationes» 15 [1983] 64).
Quanto andiamo dicendo vale anche per le Società di vita apostolica: il can. 734 richiama i cann. 617-633.
17
Nelle Note direttive Mutuae relationes, date congiuntamente il 14 maggio 1978 dalla Congregazione
per i religiosi e gli istituti secolari e dalla Congregazione per i vescovi, al n. 13 si diceva che l’autorità dei
superiori «procede dallo Spirito del Signore in connessione con la sacra Gerarchia, che ha canonicamen-
te eretto l’istituto e autenticamente approvato la sua specifica missione» (AAS 70 [1978] 481). L’E-
sortazione apostolica Vita consecrata, al n. 92, ribadisce che l’autorità dei superiori è ricevuta da Dio.
18
Secondo il CIC 1983 i laici possono ricevere uffici che comportano o possono comportare in vario
grado l’esercizio della potestà di governo o ordinaria o delegata (cann. 1421 § 2; 1428 § 2; 1437 § 1; 482
§ 1; 483; 494; 517 § 2).
19
Per un approfondimento della questione cf G. GHIRLANDA, De natura, origine et exercitio potestatis re-
giminis iuxta novum Codicem, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 74 (1985) 109-134; 143-149.
20
Sono considerati Ordinari anche i Moderatori delle Società di vita apostolica di diritto pontificio cle-
ricali (can. 134 § 1), alle quali viene applicato il can. 596 § 2 (can. 732).
492 Gianfranco Ghirlanda

hanno ricevuto; 2) per l’approvazione pontificia dell’istituto, di cui


elemento intrinsecamente costitutivo del carisma e determinante
l’indole, il fine e lo spirito è proprio l’esercizio del ministero sacerdo-
tale. Per questo non sembra che i superiori degli “Istituti misti” pos-
sano essere considerati Ordinari, neppure i superiori sacerdoti, per-
ché mancherebbe loro il secondo titolo di appartenenza alla struttu-
ra della gerarchia ecclesiastica.
È infine da considerare se, riconosciuta la possibilità ai religiosi
laici di ricoprire negli “Istituti misti” la carica di superiore maggiore
con una partecipazione nella potestà di governo, ma non come Ordi-
nari, sia opportuno conferire loro tutte le facoltà che sono proprie
degli Ordinari a norma del can. 134 § 1, specialmente in istituti in cui
sia presente un grande numero di membri ordinati. Infatti alcuni si
chiedono se sia opportuno che l’attività pastorale dei religiosi sacer-
doti, specialmente in istituti in cui sono in un gran numero, sia inte-
ramente diretta da superiori non sacerdoti. Ci si chiede, allora, se
negli “Istituti misti” in cui grande è il numero dei sacerdoti e quindi
l’attività pastorale sacerdotale ha di fatto una grande rilevanza e in-
flusso ecclesiale, almeno il superiore generale non dovrebbe essere
sempre un sacerdote.
Come si vede la soluzione della problematica aperta dagli “Isti-
tuti misti” è complessa, ma le soluzioni che saranno date potranno
essere utili non solo per istituti di antica fondazione che forse potran-
no ritrovare la loro ispirazione originaria, ma anche per futuri “Istitu-
ti misti” o per altre aggregazioni di vita evangelica, che si proponga-
no come nuove forme di vita consacrata o no.

Nuove forme di vita consacrate


e altre aggregazioni di vita evangelica
L’Esortazione tratta direttamente solo delle nuove forme di vita
consacrata, nei nn. 12 e 62; in obliquo di altre forme di aggregazione
di vita evangelica che si avvicinano agli istituti di vita consacrata, ma
che non possono o non vogliono rientrare sotto questa categoria.
Questo è comprensibile, in quanto, essendo la vita consacrata come è
canonicamente sancita nella Chiesa oggetto specifico dell’Esortazio-
ne, la considerazione di altre forme associative, anche se in qualche
modo analoghe, esula dalla sua considerazione.
Riprendendo per intero la propositio 13, Giovanni Paolo II af-
fronta la realtà del fiorire di nuove espressioni di vita consacrata.
“Istituti misti” e nuove aggregazioni 493

La Chiesa, attraverso i suoi Pastori è chiamata a un discerni-


mento. Riguardo all’approvazione di tali esperienze originali come
nuove forme di vita consacrata, l’Esortazione ribadisce il can. 605
del CIC e il can. 571 del CCEO, cioè che essa spetta solo alla Sede
Apostolica (VC 12), sebbene i vescovi nelle loro diocesi debbono
condurre il discernimento specifico circa i singoli gruppi che in esse
sorgessero, in ordine alla loro autenticità, secondo i criteri generali
ora dati nella stessa Esortazione e secondo quelli che saranno dati
dall’apposita Commissione creata a questo proposito (VC 62).
Nel discernimento da condurre viene dato un principio o crite-
rio fondamentale perché si possa parlare di una nuova forma di vita
consacrata: «I tratti specifici delle nuove comunità e forme di vita ri-
sultino fondati sopra gli elementi essenziali, teologici e canonici, che
sono propri della vita consacrata» (VC 62) 21. Il tratto specifico fonda-
mentale, che ha fatto sì che lungo la storia la vita consacrata, pur nel-
la multiforme varietà, abbia conservato l’unità di fondo, è «la chiama-
ta a seguire, nella ricerca della perfetta carità, Gesù vergine, povero
e obbediente» (VC 12).
Allora, perché queste comunità originali possano essere even-
tualmente approvate come nuove forme di vita consacrata, tutti i
membri debbono assumere, con un qualche vincolo sacro pubblico, i
tre consigli evangelici di castità nel celibato, di povertà e di obbe-
dienza. L’originalità di tali aggregazioni rispetto a quelle finora esi-
stenti consisterebbe nel fatto che nella loro unitarietà, talvolta con
rami differenziati di vita contemplativa, apostolica, secolare, sarebbe-
ro in genere composte da uomini e donne, da chierici e laici, impe-
gnati in un programma comune di vita evangelica e di servizio apo-
stolico, governate da chierici e da laici (cf VC 62). Si configurerebbe-
ro degli “Istituti misti” con senso più ampio di quello considerato nel
Sinodo e nell’Esortazione postsinodale: i laici non sarebbero solo uo-
mini, ma anche donne. I coniugi che partecipassero alla spiritualità e
alle attività di tali comunità eventualmente riconosciute come forma
di vita consacrata, dovrebbero essere considerati aggregati e non
membri a pieno diritto 22. Se, invece, tali gruppi volessero la piena in-

21
In nota si fa riferimento ai cann. 573 CIC e 410 CCEO.
22
Nel n. 62 dell’Esortazione viene fatta, dice il Papa, una «precisazione doverosa»: anche se altamente
apprezzabili nel loro intento, non possono essere compresi nella specifica categoria della vita consacra-
ta quei coniugi che in associazioni o movimenti ecclesiali confermassero anche con voto il dovere della
castità propria della vita coniugale e, senza trascurare i loro doveri verso i figli, professassero la po-
vertà e l’obbedienza.
494 Gianfranco Ghirlanda

tegrazione dei coniugati, la figura giuridica in cui rientrare sarebbe


quella di associazione di fedeli.
Inoltre, nel considerare le singole aggregazioni è da discernere
se il ministero sacro è costitutivo del carisma e determinante la loro
indole, fine e spirito, per cui l’attività dei laici, uomini e donne, sareb-
be da considerarsi complementare e ausiliaria del ministero sacerdo-
tale, oppure no. Nel primo caso, riguardo al governo tali istituti do-
vrebbero essere retti secondo il regime degli istituti clericali (can.
588 § 2); nel secondo, invece, il governo potrebbe essere assunto
indifferentemente da chierici o laici, secondo le soluzioni che saran-
no date per gli “Istituti misti”.

GIANFRANCO GHIRLANDA
Piazza della Pilotta, 4
00187 Roma
495
Quaderni
di diritto ecclesiale
9 (1996) 495-523
Il Pastore d’anime
e la nullità del matrimonio
XII. Il consenso condizionato
di Paolo Bianchi

In questa puntata della nostra Rubrica – che ormai si avvia ver-


so la sua fine – ci si deve occupare di una ipotesi piuttosto complessa
di nullità matrimoniale, quella del consenso sottoposto a una “condi-
zione”. La complessità della questione consiglia di rifuggire da tecni-
cismi e dalla considerazione di aspetti secondari della problematica,
limitandosi a una esposizione piana di quegli elementi di conoscen-
za, sul piano del diritto sostantivo e dei principi probatori, che posso-
no risultare utili per un primo approfondimento ai Pastori d’anime
che abbiano l’impressione di trovarsi davanti a un caso di nullità ma-
trimoniale di qualche fedele che si sia rivolto loro per consiglio e
guida spirituale.

Si procederà secondo lo schema espositivo ormai collaudato in


questa Rubrica.

Elementi di diritto sostantivo


1. È bene in primo luogo identificare subito cosa debba inten-
dersi con il termine di “condizione”, ovvero offrirne una definizione,
un concetto. È chiaro che, nel contesto in cui ci si trova, tale concetto
va compreso in riferimento al consenso coniugale, che costituisce
l’essenza, ovvero la “causa efficiente” del patto matrimoniale. In tale
contesto, per “condizione” deve intendersi la correlazione del consen-
so a una determinata circostanza (futura e incerta), dalla cui sussi-
stenza o meno chi presta il consenso intende far dipendere l’efficacia
giuridica di esso: o sospendendo detta efficacia sul piano dei rapporti
giuridici fino all’accertamento del verificarsi di quella circostanza, ov-
496 Paolo Bianchi

vero intendendo farla venir meno in correlazione all’accertamento di


quel medesimo verificarsi.

Per utilizzare – a ulteriore illustrazione del concetto di condizio-


ne nel campo del diritto matrimoniale canonico – una idea desunta
da alcuni autori dalla riflessione civilistica, si potrebbe descrivere il
fenomeno della condizione in questi termini: quello della volontà di
un soggetto che, desiderando porre un determinato atto giuridico
(in ipotesi: il consenso matrimoniale), si trovi di fronte per così dire
a una sorta di conflitto di interessi. Da un lato il soggetto intende
porre quell’atto e che esso produca gli effetti che l’ordinamento giu-
ridico gli attribuisce; dall’altro vuole farlo “solo se”, “a patto che”, vi
siano alcune circostanze particolari, non previste dall’ordinamento
come necessariamente correlate a quell’atto, ma a suo personale giu-
dizio di estrema importanza perché la posizione di quell’atto medesi-
mo sia giustificata e avvenga nelle condizioni ritenute ottimali, mas-
simamente opportune. Nel caso tali circostanze o condizioni non si
realizzino, il soggetto intende privare di efficacia l’atto prestato, ov-
vero revocare gli effetti che, alla stregua dell’ordinamento giuridico,
aveva accettato di attribuirvi.
Compreso in tal modo (forse meno formale e astratto e più facil-
mente correlabile alle esperienze e ai casi della vita concreta: gli e-
sempi nella terza parte dell’articolo opereranno espressamente tale
correlazione) il concetto di condizione, riesce più facile: sia evidenziar-
ne quello che può essere ritenuto il suo aspetto più proprio e più tipi-
co, sia distinguere questo fenomeno da altri che a esso sono solo simi-
li e che vanno invece differenziati a scanso di pericolose confusioni.
L’aspetto più tipico e più proprio del fenomeno della condizione
è il nesso che viene dal soggetto che la pone istituito fra l’oggetto
della condizione medesima (la circostanza determinata che si vuole
o non si vuole) e il consenso matrimoniale, sotto lo specifico profilo
della sua efficacia. È un nesso strettissimo, per cui – esprimendo la
cosa in modo figurato – si può dire che la condizione “tocchi” il con-
senso, “entri” nel consenso. Questo sussiste come atto della volontà
del soggetto e come tale non può essere annullato, cancellato (se-
condo il ragionevole principio classico per cui factum infectum fieri
nequit), tuttavia il soggetto intende per così dire “bloccarne” l’effica-
cia, la produzione dei suoi effetti propri, ovvero “interrompere” tale
produzione in rapporto al verificarsi o meno della circostanza che si
è “legata” appunto in forma condizionata al consenso.
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 497

In altre e più semplici parole: dalla circostanza oggetto della


condizione il soggetto fa dipendere il sorgere del legame matrimo-
niale (che è l’effetto proprio del consenso, pure prestato) ovvero il
permanere vincolato da quel medesimo legame.
Ciò consente, come anticipato, di distinguere la condizione vera
e propria da altre figure, riscontrabili nella realtà (dei rapporti umani
e quindi anche del diritto), e alla condizione solo similari. E la ragio-
ne di distinzione consiste proprio in quel nesso peculiare fra condizio-
ne ed efficacia del consenso che fino a qui si è cercato di illustrare e
che non sussiste nei fenomeni che alla condizione solo assomigliano.
Così, per esempio, deve distinguersi dalla condizione il cosid-
detto “presupposto” o “prerequisito”. In tal caso, infatti, la volontà di
una determinata circostanza (per esempio una certa qualità indivi-
duale della persona scelta come coniuge) non “entra” nel consenso,
pregiudicandone l’efficacia, ma solo rappresenta un movente, un
presupposto dello stesso, che viene prestato senza istituire un nesso
così stretto con quella determinata circostanza. Per illustrare la fatti-
specie con un esempio concreto: è mero prerequisito il caso della
donna che sposasse Tizio (anche) perché ha constatato che egli con-
divide i di lei ideali religiosi, sociali, politici. Tale valutazione del sog-
getto rappresenta solo un presupposto della scelta di Tizio come co-
niuge, non comportando per sé e necessariamente che il soggetto
intenda subordinare gli effetti del proprio consenso matrimoniale al-
la effettiva condivisione da parte di Tizio di detti valori.
Così, deve distinguersi la condizione dal “modo” od “onere”, os-
sia da un impegno che il soggetto ritiene assunto dall’altro contempo-
raneamente al consenso matrimoniale, che viene però prestato indi-
pendentemente (quanto alla sua efficacia) dalla sincerità di quella as-
sunzione di impegno e dalla sua esecuzione di fatto. Così, Sempronio
che sposasse Caia con l’accordo che ella lo aiuterà nell’esercizio della
di lui attività commerciale intende solo proporre un obbligo particola-
re alla comparte, senza che ciò necessariamente e di per sé pregiudi-
chi l’efficacia del consenso al matrimonio che si intende prestare.
Tale distinzioni, come è ovvio, non hanno rilievo solo speculati-
vo, bensì pratico, dal momento che l’ordinamento canonico solo alla
condizione collega la nullità del matrimonio.

2. Cercato di illustrare il concetto di condizione, in sé e tramite


la sua distinzione da altre fattispecie a esso solo simili, occorre ora
brevemente illustrare i tipi di condizione che possono verificarsi. Co-
498 Paolo Bianchi

me si vedrà, anche la normativa canonica prende in considerazione


queste possibili figure.

a) In primo luogo deve rammentarsi la condizione in senso pro-


prio, ovverosia la condizione cosiddetta de futuro, in quanto la circo-
stanza dedotta in condizione (ovverosia oggetto della stessa) è costi-
tuita da un fatto futuro e incerto. Questo tipo di condizione propria
normalmente ha effetto sospensivo degli effetti del consenso: il sog-
getto, in altre parole, presta sì l’atto di consenso matrimoniale, ma
intende sospendere il suo effettivo impegno nel legame matrimonia-
le fino a quando si sarà compiuto il fatto che egli pone appunto a
“condizione” del proprio matrimonio. Ciò è facile a comprendersi e a
immaginarsi in concreto quando il fatto futuro è un accadimento
puntuale: così per esempio, Tizio potrebbe sposare Caia intendendo
che il proprio impegno, ancorché esteriormente manifestato, scatti
effettivamente solo al momento della morte del padre di lei e dell’ac-
quisizione per successione da parte di Caia dei beni cui Tizio mira.
Quando l’oggetto della condizione è invece un fatto che, pur a-
vendo inizio in un istante puntuale, è destinato a perpetuarsi in un
tratto di tempo successivo, soprattutto laddove rappresenti una real-
tà non già desiderata bensì temuta da parte del soggetto che pone la
condizione, la condizione stessa può presentarsi in forma cosiddetta
“risolutiva” dell’impegno matrimoniale assunto. Così sarebbe il caso
di Sempronio che, sposando Marzia, intendesse rompere il legame
coniugale nel caso che, entro un tempo determinato, Marzia non gli
dia un erede.

A proposito di quanto appena detto, si debbono fare due impor-


tanti precisazioni.
La condizione in senso proprio per eccellenza deve essere con-
siderata non solo quella de futuro, ma ancor più precisamente quella
sospensiva degli effetti del consenso. A ben vedere infatti, la condi-
zione denominata “risolutiva” finisce per costituire nient’altro che
una ipotesi di simulazione del consenso, specificamente sotto forma
del rifiuto della irrevocabilità di quello e della indissolubilità del vin-
colo coniugale una volta costituito. Su ciò si dovrà tornare illustran-
do le condizioni che il Codice del 1917 chiamava contrarie alla so-
stanza del matrimonio.
Ancora, deve operarsi una precisazione in rapporto a quelle con-
dizioni de futuro che la dottrina e la giurisprudenza sogliono chiama-
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 499

re “potestative”. Esse fanno riferimento a un fatto futuro (normalmen-


te a una serie di fatti, sotto forma di atteggiamento, di comportamen-
to) che è sì incerto quanto alla sua verificazione, ma che sta nella di-
sponibilità, quanto a quella, del soggetto cui la condizione viene pro-
posta. Per esempio: il continuare in una attività che al soggetto che
pone la condizione risulta tanto gradita da legare a essa il proprio im-
pegno matrimoniale («Ti sposo a condizione che abiterai sempre
nella mia casa paterna e ti occuperai dei miei genitori anziani a mala-
ti»); ovvero l’astenersi stabilmente da un comportamento che il sog-
getto che pone la condizione ritiene deleterio, soprattutto in ordine
allo svolgimento della vita coniugale («Ti sposo a condizione che
non tornerai a drogarti; a condizione che non riprenderai a giocare
d’azzardo»).
Tale condizione cosiddetta potestativa è stata oggetto di un trat-
tamento particolare da parte della dottrina e della giurisprudenza,
che è bene subito illustrare. Tale trattamento deriva in sostanza dalla
considerazione dei problemi pratici e morali che conseguono dal do-
ver considerare “sospeso” il consenso matrimoniale indefinitamente
nel tempo e in dipendenza di un comportamento e di una decisione
altrui. Si pensi al grave inconveniente della prolungata difformità fra
la situazione sostanziale e quella formale in una materia di così gra-
ve rilievo quale quella dello stato di vita delle persone; ovvero al pro-
blema morale della illiceità dei rapporti coniugali intrattenuti dalle
parti in “pendenza” del consenso di uno dei due, ovvero quando le
parti non sono ancora sostanzialmente coniugi.
Per questo, dottrina e giurisprudenza avevano proceduto a co-
stituire una fictio iuris in forza della quale la cosiddetta “purificazio-
ne” della condizione (ossia la volontà del soggetto che la condizione
pone di produrre anche gli effetti del consenso prestato) veniva rap-
portata non già all’effettivo comportamento di colui nella cui “pote-
stà” stava l’adempimento della condizione (per esempio il continuare
ad assistere i genitori della comparte; ovvero l’astenersi dall’uso di
droghe), bensì alla sincerità dell’impegno di quest’ultimo, al momen-
to del consenso, di garantire l’adempimento della condizione propo-
stagli. Detta soluzione risolveva certo gli inconvenienti cui sopra si è
fatto cenno: infatti evitava che il consenso restasse sospeso quanto
alla sua efficacia dando subito vita al vincolo coniugale. Rimaneva
tuttavia una soluzione fortemente “artificiale” (appunto una fictio iu-
ris) spesso fortemente distante dalla effettiva realtà delle cose. Infat-
ti – per chiarire con un esempio – è ovvio che chi propone al proprio
500 Paolo Bianchi

futuro coniuge la condizione che non torni a drogarsi, non ha tanto e


solo di mira il fatto che quegli sia sincero al momento in cui gli pro-
mette che non lo farà più, quanto piuttosto ha di mira il fatto che il
coniuge scelto non torni in costanza di vita coniugale a fare uso di
droghe. Deve però dirsi che la giurisprudenza soprattutto si rendeva
ben conto dell’artificiosità di tale soluzione, riconoscendo che il ra-
gionamento proposto dovesse cedere di fronte alla realtà dei fatti, os-
sia alla prova che quanto inteso come oggetto della condizione fosse
non già la sincerità della eventuale promessa resa al momento del
consenso quanto piuttosto l’effettivo adempimento di quanto richie-
sto sotto forma di condizione.
Occorre da ultimo dire, a proposito della problematica appena
accennata, che la disciplina stabilita dalla Codificazione vigente (sia
latina che orientale) comporta il pratico superamento di essa: infatti
tale disciplina attribuisce efficacia invalidante il consenso a ogni con-
dizione de futuro, indipendentemente dal suo tipo e contenuto, quin-
di anche alla condizione chiamata “potestativa”.
b) L’ordinamento canonico prende in considerazione anche le
condizioni tradizionalmente chiamate “improprie”. Esse infatti non si
riferiscono a un fatto futuro e incerto, correlando al suo avveramento
la efficacia del consenso; bensì si riferiscono a un fatto passato o pre-
sente al momento del consenso (quindi a un fatto già verificatosi) ma
la cui esatta conoscenza sfugge a chi pone in merito una condizione.
Tradizionalmente, tali figure sono denominate condizioni de
praeterito (in quanto riferentesi a un evento passato) e de praesenti
(in quanto riferentesi a un evento presente rispetto al momento del
consenso).
In conseguenza della loro natura, l’influsso di questi tipi di con-
dizione sulla efficacia del consenso matrimoniale muta profonda-
mente rispetto alla condizione de futuro. È chiaro infatti che l’effica-
cia del consenso matrimoniale non potrà restare sospesa ovvero es-
sere eventualmente ritrattata: al contrario essa sarà subito reale o
meno a seconda della sussistenza o no del fatto dedotto in condizio-
ne. Solo – e anche per lo stesso soggetto che pone la condizione – ta-
le realtà oggettiva sfuggirà, quanto alla conoscenza, sino a che vi
sarà un notizia certa circa il fatto oggetto della condizione.
Per spiegarsi anche qui con degli esempi, si possono ipotizzare
i seguenti casi. La donna che dicesse al proprio fidanzato: «Ti sposo,
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 501

ma a condizione che non sia stato davvero tu a causare la morte di


mio padre»; ovvero l’uomo che dicesse alla propria fidanzata: «Ti
sposo, ma a condizione che il figlio che porti in grembo sia veramen-
te mio», sottoporrebbero il proprio consenso matrimoniale a una
condizione rispettivamente de praeterito e de praesenti.
Ora: l’essere stato o meno l’omicida del padre della fidanzata,
ovvero l’essere o meno la madre del figlio del proprio fidanzato sono
fatti in se stessi certi e oggettivi al momento in cui la condizione che
a essi si riferisce viene posta. Quindi, anche l’efficacia che si intende
dare al proprio consenso (e quindi anche la validità o meno del vin-
colo matrimoniale che ne deriva) sono pure fatti in se stessi certi e
oggettivi in quel medesimo momento. Essi sono incerti solo relativa-
mente; precisamente relativamente alla conoscenza di chi pone la
condizione e, normalmente, anche dei terzi. Più complesso sarebbe
il discorso – che non merita però qui di essere approfondito – circa
la certezza della conoscenza da parte di colui al quale la condizione
viene proposta. Infatti, egli stesso potrebbe trovarsi in merito in una
posizione di sostanziale incertezza, sia quanto alla realtà del fatto de-
dotto in condizione, sia quanto alla conseguente validità o meno del
vincolo matrimoniale; ma anche potrebbe trovarsi in una posizione
di sostanziale certezza, sapendo per esempio di essere stato il temu-
to omicida, ovvero conoscendo che la gravidanza in corso deriva in
realtà da una terza persona, diversa dal prossimo coniuge.
Questi esempi aiutano certo a comprendere la struttura logica
delle condizioni relative a un fatto presente o passato: il matrimonio
cui esse sono correlate è valido o meno a seconda che sussista o me-
no il fatto oggetto della condizione. E ciò – come è ovvio – dal mo-
mento puntuale della prestazione del consenso. Tuttavia, la cono-
scenza della eventuale invalidità (non si dimentichi che una volta
prestato il consenso il matrimonio deve presumersi valido e che è
quindi la sua invalidità e non già il contrario a dover essere dimostra-
ta) si potrà avere solo quando sia dimostrata con certezza morale la
situazione di fatto da cui la eventuale nullità originaria sia dipesa.
3. Ci si deve interrogare ora sul perché l’ordinamento canonico
attribuisca rilievo invalidante all’apposizione di condizioni al consen-
so matrimoniale. In altre parole, ci si deve interrogare sul fondamen-
to, sulla ratio di questa previsione normativa.
Tale domanda non è certo oziosa e puramente accademica. In-
fatti, se si tiene presente che altri ordinamenti giuridici (per esempio
502 Paolo Bianchi

quello italiano, come da art. 108 del Codice civile) non danno rilievo
alle condizioni eventualmente apposte al consenso matrimoniale, si
può facilmente comprendere come questa particolarità della discipli-
na matrimoniale canonica possa contribuire a porre in luce qualche
aspetto specifico di questa medesima disciplina.
Facendo riferimento in modo particolare all’ordinamento cano-
nico latino (ma più avanti si prenderà in esplicita considerazione an-
che la disciplina canonica orientale), si possono sviluppare in merito
le seguenti considerazioni.
L’attribuzione di rilievo invalidante il consenso matrimoniale al
fenomeno della condizione deve essere considerata una esigenza lo-
gica della natura “contrattuale” del patto matrimoniale. Tale afferma-
zione va bene intesa, onde evitare le sterili riduzioni della pubblicisti-
ca deteriore: essa non intende certo svalorizzare gli aspetti personali
del patto nuziale, assimilandolo per esempio a un negozio giuridico
di natura patrimoniale; bensì, alla luce della tradizione canonica, vuo-
le esprimere il ruolo di unica “causa efficiente” in senso proprio che
deve riconoscersi al consenso in funzione della produzione del vin-
colo matrimoniale. È proprio in vista di garantire la effettiva volontà
del soggetto che l’ordinamento canonico non ritiene di poter trascu-
rare una condizione eventualmente da esso apposta al proprio con-
senso. In altre e più semplici parole: l’ordinamento canonico, che ri-
tiene il matrimonio sorga dal consenso delle parti, ha coerentemente
interesse ad accertare cosa le parti abbiano effettivamente voluto.
Se una delle parti del patto coniugale ha inteso privare di sostanziale
efficacia il proprio esteriore consenso condizionandolo alla sussi-
stenza o meno di un determinato fatto, l’ordinamento non può che
prendere atto di ciò, né può presumere (pena una sua intrinseca con-
traddizione) di tenere in non cale o addirittura di supplire quella
mancanza sostanziale di volontà matrimoniale.
Così spiegate le cose, ci si può facilmente accorgere che l’attri-
buzione di rilievo (persino invalidante) alla condizione apposta al
consenso, non obbedisce a mere esigenze di natura logica, ovvero di
tecnica giuridica. Essa attinge a superiori principi di natura morale
che informano lo stesso ordinamento canonico, anche nella discipli-
na sostantiva dedicata al matrimonio. E ciò, in particolare, sotto un
duplice profilo.
In primo luogo quello del rispetto della libertà del contraente
nella propria autodeterminazione, soprattutto in ordine alla scelta
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 503

dello stato di vita. Tale principio è sancito fra i diritti comuni dei fe-
deli (cf can. 219) e trova riscontro nel riconoscimento, sul piano del-
la volontà matrimoniale, di quanto ciascuno dei contraenti ha effetti-
vamente voluto, persino attraverso la sottoposizione di tale volontà
manifestata a una condizione di efficacia.
In secondo luogo quello della sottolineatura (e, in parte, della
sanzione) di una certa dissonanza che non può non rilevarsi fra l’ap-
posizione di una condizione al proprio consenso e la “purezza” che
dovrebbe invece riscontrarsi nella donazione di sé all’altro nel matri-
monio. L’apporre infatti una condizione (sia che sospenda il costituir-
si effettivo del matrimonio; sia che si risolva nella possibilità di una
revoca del consenso; sia che ne subordini l’efficacia all’accertamen-
to della realtà di un fatto passato o presente) rende infatti meno pu-
ra, meno completa la donazione di sé che si realizza nel patto matri-
moniale.
Si noti, infine, che a ben vedere i due profili da ultimo segnalati
non possono essere considerati in reciproca contraddizione: all’eser-
cizio infatti della libertà individuale e al suo riconoscimento non può
infatti non corrispondere un equivalente riconoscimento della re-
sponsabilità dell’individuo in rapporto alle sue azioni e volizioni, so-
prattutto laddove esse coinvolgano – e in materie di altissimo rilie-
vo – terze persone e addirittura tutta la comunità ecclesiale.
4. Cercato di chiarire il “concetto” di condizione in relazione al
consenso matrimoniale; illustratane la possibile “tipologia”; adom-
brata la “ragionevolezza” della considerazione che vi dedica l’ordina-
mento matrimoniale canonico, occorre passare alla esposizione della
disciplina positiva che questo ordinamento detta per il consenso ma-
trimoniale condizionato. Seppure brevemente e con molta semplicità
si dovranno considerare: la disciplina del Codice del 1917; quella del
Codice latino vigente; quella delle Chiese orientali cattoliche.
a) La considerazione della disciplina stabilita nel CIC 1917 circa
il consenso matrimoniale condizionato è indispensabile sia per co-
gliere il contenuto della disciplina attuale del Codice latino vigente,
sia per evidenziare i mutamenti che in tale materia sono intervenuti
fra l’una e l’altra Codificazione.
La disciplina previgente è contenuta nel can. 1092 di quel Codi-
ce, disposizione piuttosto complessa che si apre con una premessa e
si dedica poi a regolamentare l’effetto giuridico di diversi tipi di con-
dizione.
504 Paolo Bianchi

La premessa di quel canone esprime un principio importante,


anche sul piano della prova: fa infatti capire che gli effetti giuridici
che vengono di seguito stabiliti debbono essere riferiti a una condi-
zione che sia «apposta e non revocata». Ovvero a una condizione
che, posta con atto volontario in un determinato momento preceden-
te alla manifestazione del consenso (quindi non necessariamente in
quel momento), non sia stata in seguito e prima della prestazione del
consenso ritrattata con un nuovo atto della volontà. Si considera
quindi sia che la volontà condizionante il consenso, una volta eserci-
tatasi, perseveri virtualmente a meno del sopravvenire di una vo-
lontà contraria; sia (da qui l’accenno al rilievo anche probatorio del
principio) che, una volta provata l’apposizione di una condizione,
quella perseveranza debba presumersi e il contrario non possa esse-
re presunto ma solo positivamente dimostrato.

Posta questa importante premessa, il Codice considera gli effetti


di alcuni tipi di condizione circa il consenso matrimoniale, dividendo
in quattro numeri l’esposizione: i primi tre dedicati alle condizioni de
futuro; il quarto dedicato alle condizioni de praeterito e de praesenti.

* Nel numero 1° si considerano gli effetti di alcune particolari


condizioni de futuro: precisamente quelle che, non contraddicendo la
“sostanza” del matrimonio (questo tipo di condizione è contemplato
nel numero 2° del canone), rientrano in una di queste tre categorie:
quella di una condizione necessaria (per esempio «Ti sposo a condi-
zione che domani sorga il sole»); quella di una condizione impossibi-
le («Ti sposo a condizione che domani non sorga il sole»); quella di
una condizione turpe («Ti sposo a condizione che sarai mia complice
in quella attività criminosa»). A questi tipi di condizione il CIC 1917
stabilisce di non attribuire alcun effetto sull’efficacia del consenso
matrimoniale, come se esse non fossero state apposte (pro non adie-
cta habeatur).
Non è difficile comprendere la ragione di tale previsione nor-
mativa. Per i due primi tipi di condizione considerati, quelle “neces-
sarie” e “impossibili”, si tratta di una ragione logica: non si può infatti
pensare che taluno abbia voluto seriamente condizionare il proprio
impegno a un qualcosa che o si realizzerà di certo ovvero non si rea-
lizzerà mai. In merito non ci può essere dubbio o incertezza e, logi-
camente, non c’è spazio per la seria apposizione di una condizione.
Per il terzo tipo di condizione, quella definita “turpe”, la ragione della
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 505

disciplina deve essere ritenuta invece di carattere morale: ripugna


infatti che il matrimonio sia così strettamente correlato a un pratico
patto scellerato fra i due contraenti, che si legano fra loro anche al fi-
ne di commettere azioni contrarie alla morale e/o alla legge.
A tale disposizione del CIC 1917 – pure comprensibile dal pun-
to di vista della logica comune e dell’esigenza di moralità che manife-
sta – non venne tuttavia risparmiata una critica, assai verosimilmente
alla base della sua attuale scomparsa: quella che nei casi contemplati
(seppure da ritenersi statisticamente di assai rara verificazione) l’or-
dinamento supplisse in pratica il consenso del soggetto, disattenden-
do la sua effettiva volontà e trascurando la condizione da quegli po-
sta. Tale “supplenza” rappresentava dal punto di vista sistematico
una incoerenza rispetto al principio cardine dell’ordinamento matri-
moniale canonico: quello della causalità unica del consenso persona-
le dei contraenti nella costituzione del matrimonio.

* Nel numero 2° del can. 1092 il CIC 1917 prende in considera-


zione un secondo tipo di condizioni de futuro, che, come anticipato,
definisce «contrarie alla sostanza del matrimonio» («contra matrimo-
nii substantiam»). Occorre chiarire cosa sia questa contrarietà alla
sostanza del matrimonio. Per “sostanza” del matrimonio deve inten-
dersi quel complesso di valori, giuridicamente rilevanti e protetti,
che corrispondono a quello che – secondo il linguaggio classico –
rappresenta l’essenza, le finalità istituzionali e le proprietà essenziali
dell’istituto matrimoniale.
Con una prospettazione non inapplicabile alla normativa del
1917, si deve dire che l’essenza del matrimonio consiste in una co-
munità di tutta la vita fra un uomo e una donna, il cui momento costi-
tutivo è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento.
Tale comunità di vita è istituzionalmente finalizzata alla generazione
e alla educazione della prole e al perfezionamento reciproco dei co-
niugi, da realizzarsi attraverso l’aiuto morale e materiale nelle even-
tualità dell’esistenza e nell’adempimento dei doveri dello stato matri-
moniale. Questo comporta poi un vincolo indissolubile ed esclusivo
fra i coniugi, nota quest’ultima che trova una sua particolare espres-
sione nel dovere della fedeltà coniugale. Tali contenuti rappresenta-
no (in maniera non essenzialmente difforme dalla legislazione oggi
vigente) la “sostanza” del matrimonio e a una condizione contraria a
tale “sostanza” o a qualche suo aspetto qualificante la codificazione
del 1917 attribuisce forza invalidante il consenso prestato. Né po-
506 Paolo Bianchi

trebbe essere diversamente, in quanto una tale volontà sarebbe in


tutto o in parte contraria al genuino progetto di matrimonio cristiano
e intrinsecamente contraddittoria con quanto dovrebbe essere un
autentico consenso coniugale.
E, infatti e a ben vedere, una tale condizione contra matrimonii
substantiam non è altro che una particolare fattispecie (caratterizzata
dalla forma appunto “condizionata”) di cosiddetta simulazione totale
o parziale del consenso matrimoniale, già di per se stessa rilevante ai
fini della validità del matrimonio. Per questa ragione una sua autono-
ma (rispetto alle simulazioni) previsione come causa di nullità del
consenso può ritenersi come non necessaria. Ciò sta alla base – uni-
tamente alla scelta della nuova disciplina complessiva in tema di con-
dizioni de futuro – del fatto che nella codificazione oggi vigente tale
figura delle condizioni «contrarie alla sostanza del matrimonio» non
sia ulteriormente contemplata.

* Nel numero 3° del can. 1092, il CIC 1917 prende in considera-


zione la condizione de futuro che definisce «lecita» e stabilisce che la
sua apposizione comporta la sospensione del «valore» del matrimo-
nio («valorem matrimonii suspendit»). Occorrono alcuni chiarimenti.
Cosa deve intendersi per condizione circa il futuro «lecita»?
Questo concetto non può essere contenutizzato se non in riferimen-
to agli altri tipi di condizione de futuro che sono già stati regolamen-
tati. Così, è da ritenersi «lecita» qualsiasi condizione che non sia ne-
cessaria, impossibile, turpe, contraria alla sostanza del matrimonio.
Cosa significa che l’apposizione di una tale tipo di condizione «so-
spende il valore del matrimonio»? E fino a quando lo sospende? Pro-
priamente detta espressione non significa che il consenso matrimonia-
le o il matrimonio siano invalidi; bensì propriamente significa che il
consenso, pur manifestato, è tuttavia volontariamente inefficace; e che
il matrimonio non si costituisce, per volontà di chi la condizione pone,
fino a che il fatto dedotto in condizione non si sia verificato.
Già questa semplice prospettazione mostra quanto complessa e
spinosa sia la problematica sollevata dalle condizioni cosiddette so-
spensive, soprattutto quando essa sia ulteriormente complicata dalla
presenza di quella forma particolare di esse denominata condizioni
«potestative». Tali condizioni sospensive creano incertezza nei rap-
porti giuridici, introducendo una discrepanza fra l’apparenza esterna
e la situazione sostanziale delle persone; e sollevano problemi mo-
rali, connessi ad esempio all’uso del matrimonio fino alla cosiddetta
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 507

“purificazione” della condizione, ovverosia all’avveramento del fatto


dedotto in condizione.
Già più sopra rilevata l’artificiosità della soluzione dottrinale e
giurisprudenziale escogitata per le condizioni «potestative», non rie-
sce a questo punto difficile comprendere la scelta che riscontreremo
operata dal Legislatore del 1983 per quanto concerne tutte le possi-
bili condizioni de futuro: ossia quella di attribuire a esse – indipen-
dentemente dal tipo e dagli effetti che per sé intenderebbero produr-
re sul consenso – forza invalidante il matrimonio. In tal modo: e si dà
effettivo riconoscimento alla volontà condizionante del soggetto; e si
ottiene fin dal momento della prestazione del consenso certezza cir-
ca lo stato delle persone e la validità o meno del loro matrimonio.

* Nel numero 4° del can. 1092, il CIC 1917 dispone in merito al


rilievo giuridico circa la validità del matrimonio delle condizioni co-
siddette improprie, ossia di quelle de praeterito e de praesenti.
Il precetto normativo ne accomuna gli effetti: il matrimonio sot-
toposto a questo tipo di condizione deve ritenersi valido o no a se-
conda del fatto che sussista o meno quanto posto a oggetto della
condizione. Per riprendere gli esempi già più sopra fatti: nel caso
della fidanzata che appone al proprio consenso la condizione che il fi-
danzato non sia stato l’uccisore del padre di lei (condizione de prae-
terito), il matrimonio sarà invalido qualora il fidanzato veramente lo
sia stato, valido invece se il fidanzato non sia stato l’autore di quella
uccisione; nel caso del fidanzato che appone al proprio consenso la
condizione che la fidanzata sia davvero madre di un figlio suo (condi-
zione de praesenti ), il matrimonio sarà invalido qualora la gravidanza
sia opera di un altro uomo, valido invece se derivi dal fidanzato che
pone la condizione.
Come già accennato, in questi tipi di condizione non c’è sospen-
sione né possibilità di revoca di consenso: il matrimonio viene imme-
diatamente e irrevocabilmente in essere o meno a seconda della sus-
sistenza o no dell’oggetto della condizione. Ciò sul piano oggettivo;
sul piano invece del fatto – precisamente sul piano della conoscenza
(per l’apponente la condizione così come per la comunità) della e-
ventuale invalidità dello specifico matrimonio – possono darsi mo-
menti o situazioni di incertezza, in dipendenza della non certa noti-
zia circa il fatto dedotto in condizione. L’eventuale processo canonico
in merito è l’ausilio offerto dall’ordinamento giuridico per raggiun-
gere, con forme e valore pubblici, tale certezza.
508 Paolo Bianchi

b) Il Codice latino oggi vigente (dal 27 novembre 1983) presen-


ta, al can. 1102, una disciplina in materia di condizione molto sempli-
ficata, sia nella forma sia nella sostanza. In parte si sono già colte,
nell’esposizione della disciplina previgente, le ragioni che hanno
condotto a tale modifica disciplinare. Occorre però ora esporre com-
piutamente le linee di tale disciplina.
Il can. 1102 non presenta più, come il suo corrispondente nel
CIC 1917, una premessa sviluppantesi in quattro numeri, bensì tre
paragrafi distinti. È scomparsa la premessa da cui doveva desumersi
la presunzione di perseveranza (quanto alla sostanza e quanto alla
prova) di una condizione posta e non revocata con nuovo atto di vo-
lontà. Ciò tuttavia non deve ritenersi una effettiva mutazione discipli-
nare in merito, dal momento che il principio enunciato rappresenta
una esigenza logica, confortata da dottrina e giurisprudenza, e che è
quindi non bisognosa, per operare, di una consacrazione normativa.

I tre paragrafi di cui si compone il can. 1102 sono dedicati: il pri-


mo alle condizioni de futuro; il secondo alle condizioni de praeterito
e de praesenti quanto alla loro disciplina sostanziale; il terzo alle re-
gole che rendono lecita l’apposizione al consenso di una condizione
relativa al passato o al presente. Già da un mero punto di vista quan-
titativo, si nota la rilevante semplificazione, soprattutto quanto allo
spazio dedicato alle condizioni de futuro. È necessario però passare
senza altri indugi all’analisi della disciplina positiva in merito.

* Il primo paragrafo del can. 1102 è dedicato dunque alle condi-


zioni “proprie”, ovvero de futuro. Esso formula un precetto oltremo-
do chiaro e semplice: «non è possibile contrarre validamente un ma-
trimonio sottoposto a condizione circa il futuro» («matrimonium sub
condicione de futuro valide contrahi nequit»).
A seguito di questa chiarissima disposizione si deve affermare
che, a partire dalla sua entrata in vigore, un matrimonio (evidente-
mente assoggettato alle regole del diritto positivo ecclesiastico: cf
cann. 11 e 1059) sottoposto a una condizione de futuro è per ciò stes-
so invalido. In altre parole, la invalidità di un tale matrimonio dipen-
de dal fatto stesso dell’apposizione di una condizione de futuro, indi-
pendentemente dal contenuto di essa e dagli effetti che il soggetto
intendeva correlarvi.
Tale nuova regola appare del tutto ragionevole. Anzitutto per-
ché elimina gli inconvenienti e i motivi di critica che apparivano dalla
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 509

previgente normativa: la incoerenza di una pratica “supplenza” della


efficacia del consenso da parte dell’ordinamento nel caso delle con-
dizioni necessarie, impossibili e turpi; la non stretta necessarietà del-
la previsione dell’effetto invalidante delle condizioni contra matrimo-
nii substantiam – in particolare di quelle cosiddette “risolutive” – in
quanto altro non rappresentano che una simulazione di consenso; la
complessità delle problematiche giuridiche e morali derivanti dal
concetto di “sospensione” della efficacia del consenso nelle condizio-
ni circa il futuro lecite, ancor più complicata nel caso delle condizioni
cosiddette “potestative”.
In secondo luogo, questa nuova regola appare ragionevole in
quanto appare rettamente corrispondere alle motivazioni per cui l’or-
dinamento canonico dà spazio al fenomeno del possibile condiziona-
mento del consenso matrimoniale, componendone le diverse esigen-
ze. Da un lato, infatti, l’ordinamento riconosce (e non supplisce) l’ef-
fettiva volontà del contraente che pone una condizione (cioè che il
matrimonio non si costituisca nella sostanza se non in presenza di
quel particolare fatto); dall’altro, contemporaneamente, sanziona –
con la generalizzata previsione di nullità – l’incoerenza di fondo che
si deve ravvisare fra il consenso coniugale, avente a oggetto il dono
di sé realizzantesi nel farsi carico dei diritti e doveri coniugali (cf
can. 1057 § 2) e l’apposizione di una condizione, che rende meno pu-
ro, meno integrale, meno – appunto – “incondizionato” tale dono in-
terpersonale.

* Il secondo paragrafo del can. 1102, disciplina invece gli effetti


delle condizioni cosiddette “improprie”, ovverosia de praeterito e de
praesenti.
In tale materia non deve invero registrarsi alcuna innovazione o
mutazione disciplinare. Infatti, in perfetta consonanza con quanto
stabilito nella previgente normativa, il Legislatore canonico stabili-
sce che il matrimonio sottoposto a tali tipi di condizione sia da rite-
nersi valido o meno a seguito della sussistenza o meno del fatto po-
sto a oggetto della condizione. Pertanto, in merito, non ci si può che
richiamare a quanto già osservato in sede di esposizione della disci-
plina del CIC 1917.

* Il terzo paragrafo del can. 1102 stabilisce infine – in questo ca-


so introducendo una regola non precedentemente codificata – che
per la lecita apposizione al consenso matrimoniale di una condizione
510 Paolo Bianchi

de praeterito o de praesenti occorre la licenza, e in forma scritta, del-


l’Ordinario del luogo.
Qual è la giustificazione di tale innovazione disciplinare? Essa
deve ravvisarsi nella necessità di ribadire la straordinarietà dell’appo-
sizione al consenso matrimoniale di condizioni, facendo intervenire
l’Ordinario con evidenti funzioni di controllo e (almeno implicitamen-
te) di scoraggiamento di quel fatto: l’Ordinario potrebbe infatti nega-
re la sua autorizzazione, ovvero contribuire anche con la sua autorità
a chiarire gli eventuali punti oscuri e dubbi che stanno alla base della
volontà di apporre una condizione al proprio consenso.
Indirettamente, tale previsione può rivestire un importante pe-
so probatorio nel caso di un giudizio (per esempio circa la validità
del matrimonio) che abbia a oggetto della prova (anche) l’apposizio-
ne di una condizione. È chiaro infatti che la licenza scritta dell’Ordi-
nario del luogo deve essere considerata un documento pubblico ec-
clesiastico (cf can. 1540 § 1) che fa prova di quanto in esso affermato
in modo diretto e principale (cf can. 1541): nel caso, proprio dell’ap-
posizione e del tipo di condizione.

c) Per quanto concerne infine la disciplina delle Chiese orientali


cattoliche, occorre segnalare che – in linea con la loro costante tradi-
zione disciplinare e a chiarimento di quanto già codificato da Pio XII
nel can. 83 del motu proprio Crebrae allatae del 22 febbraio 1949 – il
can. 826 del CCEO stabilisce che non può essere validamente cele-
brato un matrimonio sottoposto a condizione («Matrimonium sub
condicione valide celebrari non potest»).
Come emerge chiaramente dalla disposizione appena ricordata,
per le Chiese orientali cattoliche è invalido il matrimonio sottoposto
a qualsiasi tipo di condizione: non solo quelle relative al futuro ren-
dono eo ipso invalido il matrimonio (come è anche nella attuale disci-
plina latina), ma anche quelle relative al passato e al presente, indi-
pendentemente dalla sussistenza o meno del fatto posto a oggetto
della condizione.
Si ha quindi, quanto a questi ultimi due tipi di condizione (de
praeterito e de praesenti) una difformità fra le disposizioni normative
comuni delle due grandi tradizioni dell’unica Chiesa cattolica.
Ci si potrebbe chiedere se tale difformità rappresenti anche
una contraddizione fra i due sistemi normativi, inconciliabile sotto il
profilo logico-sistematico e solo giustificabile in base a ragioni di ca-
rattere storico, di tradizione disciplinare. Senza voler sminuire la di-
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 511

versità normativa, pare tuttavia possibile rendersi conto della non


contraddittorietà delle disposizioni all’esame. Infatti, comparando i
due sistemi normativi in merito al consenso matrimoniale condizio-
nato, ci si può rendere conto di una loro sostanziale coerenza.
In nessun caso i due sistemi suppliscono il consenso del con-
traente, disattendendo una sua volontà matrimoniale eventualmente
condizionata. Alla condizione in senso proprio (quella de futuro) en-
trambi i sistemi connettono immediatamente la nullità del matrimo-
nio. Alle condizioni in senso improprio, il CCEO pure connette im-
mediatamente la nullità del matrimonio; il CIC solo nel caso della
realtà del fatto cui il contraente ha inteso correlare quell’effetto.
Si può ipotizzare che questa difformità di disciplina (salvi i suoi
cardini di fondo: insupplibilità del consenso e conseguente impos-
sibilità di ritenere semplicemente come non posta la volontà condi-
zionata), esprima due sensibilità pur presenti in entrambi i sistemi
normativi e che ricevono, in questa materia, accentuazioni solo diffe-
renti, non già contraddittorie. In particolare, la normativa orientale
spingerebbe all’estremo la necessità della “purezza” del consenso
coniugale, sanzionando la nullità di ogni consenso sottoposto a con-
dizione, anche laddove essa sia “purificata” nei fatti; quella occiden-
tale o latina perseguirebbe l’analisi concreta del consenso, verifican-
do, almeno nel caso delle condizioni improprie (che non danno co-
me detto adito alle incertezze della sospensione o della revocabilità
del consenso), la corrispondenza o meno alla realtà della volontà
condizionata espressa dal contraente. Con tutte le avvertenze a pren-
dere con molta cautela modi di esprimersi (basati su slogan e frasi
un po’ a effetto) quali quello cui si farà qui eccezionalmente ricorso,
si potrebbe dire che le differenze evidenziate corrispondono alla sot-
tolineatura più “spirituale” (quella orientale) e a quella più “storico-
concreta” (quella occidentale) di un medesimo e sostanzialmente
coerente sistema disciplinare.

5. Passando – da ultimo – alla considerazione di alcuni principi


guida circa la prova del consenso condizionato, si deve ricordare
che, in se stessa considerata, l’apposizione di una condizione al con-
senso matrimoniale è da considerarsi un atto della volontà. Pertanto,
nella sua dimostrazione, ci si potrà avvalere – con le dovute differen-
ze o integrazioni – degli schemi probatori elaborati dalla giurispru-
denza per facilitare e guidare la ricostruzione di un atto volontario
da dimostrarsi in giudizio.
512 Paolo Bianchi

Ciò premesso, si possono sviluppare come segue i suggerimen-


ti in tema di prova.

a) Nel caso di condizioni de futuro in un matrimonio da giudicar-


si, quanto alla validità, secondo il diritto latino (can. 1102 § 1) ovvero
di qualsiasi tipo di condizione in un matrimonio da giudicarsi secon-
do il diritto orientale (can. 826 CCEO), l’unico oggetto della prova è il
fatto dell’apposizione della condizione: da esso discende infatti imme-
diatamente la nullità del matrimonio.
Secondo la indicazione richiamata poco sopra in premessa, di
tale fatto potrà acquisirsi la prova secondo una duplice via, che quasi
sempre sarà da percorrersi in parallelo.

* Così, l’apposizione di una condizione può provarsi per la via


cosiddetta diretta, a partire dall’affermazione in giudizio di chi asse-
risce di averla posta (soprattutto se credibile ai sensi dei cann. 1536
§ 2 e 1679); ma soprattutto attraverso la raccolta di testimonianze
che attestino della dichiarazione stragiudiziale circa la detta apposi-
zione, testimonianze tanto più significative quanto più numerose, cir-
costanziate e in sé coerenti, concordi con altre, vicine cronologica-
mente al momento della prestazione del consenso.

* Inoltre, l’apposizione di una condizione può provarsi per la via


cosiddetta indiretta, ossia indiziaria e circostanziale.
Fra gli indizi che concorrono alla prova indiretta della condizio-
ne due debbono essere segnalati come di particolare importanza:
l’apprezzamento (in positivo o in negativo) che il soggetto attribuisce
al fatto dedotto in condizione (il cosiddetto criterium aestimationis).
Esso rappresenta infatti un movente che rende credibile l’apposizione
di una condizione: risulta infatti più facile ritenere che abbia posto
una condizione circa un determinato fatto chi tale fatto desideri o
aborrisca in maniera particolare, piuttosto di chi non abbia per quel
fatto alcun particolare interesse. In altre parole: un forte movente
rende più credibile l’apposizione di una vera e propria condizione.
Altro indizio di particolare rilievo – che deve peraltro ascriversi
alla categoria dei moventi – è il dubbio circa il fatto dedotto in condi-
zione. L’apposizione di una condizione si comporrebbe infatti assai
difficilmente – da un punto di vista psicologico e, quindi, probatorio –
con una certezza (positiva o negativa che si voglia) circa quel fatto.
Se Tizio già conoscesse con certezza che un determinato fatto sussi-
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 513

ste o non sussiste, che senso avrebbe postularlo come condizione


del proprio consenso? Esso è un dato già acquisito nella sua esisten-
za o non esistenza e poco senso avrebbe per così dire risospingerlo
in quel contesto di incertezza che è invece quello tipico della condi-
zione. Così, quanto più forte sarà la prova di un dubbio soggettivo,
tanto più verosimile sarà il fatto che al consenso sia stata apposta
una condizione vera e propria. Ciò – evidentemente – sul piano della
prova e a partire dalla considerazione dell’id quod plerumque accidit
nella psicologia delle persone. Il dubbio, invece, non è nella sostanza
un elemento costitutivo del concetto giuridico di condizione e non
può essere pertanto richiesto come assolutamente necessario nella
dimostrazione di essa, anche se – come detto – ne sarà ordinaria-
mente un elemento indiziario importante.
Fra le circostanze di valore indiziario avrà invece particolare pe-
so il riscontro di come avrà agito (cosiddetto criterium reactionis) il
soggetto cui è attribuita l’apposizione della condizione al momento
dell’accertamento della non purificazione della medesima. In concre-
to: che il fatto desiderato non si è verificato o che si è verificato quel-
lo temuto. È chiaro che un atteggiamento remissivo e di perseveran-
za nella situazione coniugale è indizio contrario alla prova dell’appo-
sizione di una vera condizione; mentre un atteggiamento fortemente
reattivo e insofferente della situazione coniugale rappresenta invece
l’indizio dell’apposizione di una vera condizione, dalla cui verificazio-
ne cioè dipendeva sostanzialmente il proprio entrare o il proprio ri-
manere nel matrimonio.
b) Nel caso di matrimoni da giudicare, quanto alla validità, se-
condo la disciplina latina in tema di condizioni de praeterito ovvero
de praesenti (cf can. 1102 § 2), gli oggetti della prova sono due: sia
l’apposizione della condizione, sia la realtà o meno del fatto dedotto
in condizione. La nullità del matrimonio non dipende infatti in questo
caso dalla mera apposizione di una condizione al consenso, bensì
dalla non corrispondenza fra la condizione apposta e la realtà di
quanto ne è oggetto.
Per quanto concerne la prova del fatto dell’apposizione di una
condizione non ci si può che richiamare a quanto detto alla lettera
immediatamente precedente; solo aggiungendo che la eventuale esi-
stenza dell’originale o di una copia autentica della licenza scritta del-
l’Ordinario di cui al can. 1102 § 3 rappresenterà prova piena dell’ap-
posizione della condizione.
514 Paolo Bianchi

Per quanto concerne invece la prova del fatto dedotto in condi-


zione, ossia oggetto della condizione, i principi pratici della sua pro-
va discenderanno dalla natura del fatto medesimo: così la prova testi-
moniale, documentale, peritale, logico-presuntiva potranno integrar-
si e supplirsi a seconda della natura del fatto. Per stare agli esempi
già più volte richiamati, altre saranno le possibilità di prova (almeno
negativa, sotto forma di esclusione) di una paternità, altre quelle re-
lative alla dimostrazione della responsabilità di una uccisione.

Guida per il consulente


Il Pastore d’anime che, di fronte alla narrazione del caso matri-
moniale di fedeli in grave difficoltà coniugale, sospettasse di potersi
trovare di fronte a un matrimonio nullo per condizione, potrebbe pru-
dentemente indagare secondo le seguenti linee di approfondimento.
1. Innanzitutto il consulente dovrebbe chiarirsi il concetto di
fondo espresso dalla persona che tratta con lui, chiedendole di ricor-
dare e di esprimere il meglio possibile cosa pensasse e cosa avesse
deciso al momento del matrimonio.
È infatti molto facile effettuare – pur in buona fede – ricostru-
zioni a posteriori, o denominare “condizione” quanto è in realtà figu-
ra solo similare ma essenzialmente diversa.
Il punto cardine da chiarire è se il soggetto facesse dipendere il
sorgere del proprio matrimonio ovvero il permanere dello stesso (e
del suo impegno verso di esso) da qualche fatto o circostanza parti-
colari.
2. Compreso il meglio possibile il concetto che la persona che
tratta con lui intende esprimere, il consulente dovrebbe insistere nel
chiederle se questo medesimo concetto le fosse già chiaro al mo-
mento delle nozze e in che termini.
Nel caso, dovrebbe poi indagare se, come, quando e a chi quel
concetto (meglio, quella volontà, dal momento che sottoporre il con-
senso a una condizione è un atto di volontà) fu espresso, nonché se
tali persone siano reperibili e disposte a testimoniare.
È chiaro che questa ricerca mira ad approfondire la possibilità
della prova diretta della condizione.
3. Sul piano della prova indiretta, il consulente dovrebbe invece
anzitutto approfondire la ragione, il perché nacque la volontà di sot-
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 515

toporre a condizione il proprio impegno matrimoniale. È, in altre pa-


role, la ricerca del movente, elemento di prova indiziaria dell’apposi-
zione di una condizione.
In particolare, il consulente dovrà indagare l’apprezzamento
che il soggetto aveva per il fatto dedotto in condizione, ricordando
che vi è un rapporto di proporzione diretta fra tale apprezzamento e
la verosimiglianza dell’apposizione della condizione.
Ancora, il consulente dovrà vagliare la presenza e l’intensità di
un eventuale dubbio circa il fatto dedotto in condizione: dal momento
che pure fra intensità del dubbio e verosimiglianza dell’apposizione di
una condizione vi è il medesimo rapporto di proporzione diretta.

4. Anche alcune circostanze precedenti le nozze (accuratamen-


te da distinguersi dai moventi) potrebbero avere valore probatorio
indiretto. È bene quindi che il consulente dedichi una prudente inda-
gine anche a esse.
Così, a modo di esempio, se vi siano state ricerche e insistenze
volte a superare lo stato di dubbio che si pone a base della condizione.
Ovvero se vi siano stati precedenti fidanzamenti o relazioni in-
terrotti proprio in ragione del fatto che si afferma essere l’oggetto
della condizione. Per esempio e per essere chiari: se una ragazza do-
vette rompere un precedente fidanzamento in quanto il fidanzato era
dedito alla droga, risulta maggiormente credibile che ella voglia – e
persino sotto condizione – sposare un ragazzo che non sia drogato.

5. Fra le circostanze che potrebbero definirsi “concomitanti” al-


le nozze, il consulente potrebbe indagare se, della eventuale volontà
condizionata, sia restata qualche traccia nella preparazione prossima
del matrimonio: soprattutto in sede di esame dei fidanzati o addirittu-
ra sotto forma di autorizzazione dell’Ordinario ai sensi del can. 1102
§ 3, in caso di condizioni relative al passato o al presente.

6. Infine, fra le circostanze successive alle nozze e con possibile


valore indiziario circa la prova dell’apposizione di una condizione, si
dovrebbero indagare: gli sforzi eventualmente fatti da chi avrebbe ap-
posto la condizione per scoprire la verità in merito (per le condizioni
de praeterito e de praesenti ), ovvero per conseguire l’oggetto deside-
rato o evitare quello temuto (per le condizioni de futuro); nonché la
reazione del soggetto una volta scoperta la verità, non conseguito
l’oggetto desiderato, ovvero posto in presenza di quello temuto.
516 Paolo Bianchi

Solo una volta conseguito un riscontro positivo – seppure inizia-


le – sui punti sopra indicati, il consulente (in caso di disaccordo insa-
nabile e di impossibilità di pensare a una convalidazione del matri-
monio) potrebbe introdurre il discorso della opportunità di una veri-
fica circa la validità del matrimonio lui sottoposto.

Esempi
Con l’usuale finalità illustrativa e “didattica” si offrono di segui-
to alcuni esempi, mettendo in luce l’insegnamento specifico che cia-
scuno di essi può fornire.

Primo esempio
Filippo è un giovane sottufficiale dell’esercito, pieno di zelo e
buona volontà, ma molto rigido nel suo modo di vedere e nel suo ca-
rattere. In occasione di una solennità cui partecipano anche familiari
dei militari conosce Maria, figlia di un suo superiore e alcuni anni
maggiore di lui: una ragazza molto attraente e più esperta di lui dal
punto di vista sentimentale. Subito si sentono reciprocamente attratti
e inizia fra di loro una relazione assai intensa, sotto tutti i profili, mol-
to coinvolgente per Filippo, che è in merito in pratica alla prima e-
sperienza.
In breve tempo i due pensano alle nozze. Filippo però, frequen-
tando la casa dei genitori di Maria – coi quali la ragazza coabita – si
rende conto del forte legame sussistente fra lei e i genitori; ne parla
alla ragazza e rimane preoccupato dal fatto che questa gli proponga
di andare a vivere appunto con i genitori di lei. Filippo ha stima di
quelle persone, ma teme una coabitazione che potrebbe rappresenta-
re una difficoltà in più per una nascente esperienza coniugale e vuo-
le evitare la imbarazzante situazione di andare a sistemarsi proprio
in casa di un suo superiore.
La discussione fra Filippo e Maria su questa questione raggiun-
ge punti di tensione piuttosto forti. Filippo prospetta la possibilità di
soprassedere al progetto matrimoniale e a questo punto Maria si di-
chiara disposta a rinunciare al progetto di continuare ad abitare coi
suoi e pronta a seguire Filippo in un loro domicilio coniugale indi-
pendente.
Qualcosa però ormai si è incrinato in Filippo, che si trova pieno
di sospetti e di incertezze nei confronti di Maria. Giunge a portarla
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 517

dal parroco della ragazza, il quale già stava curando la preparazione


prossima delle nozze, chiedendo al sacerdote di far giurare Maria di
essere disponibile a seguirlo, secondo i termini convenuti. Il sacer-
dote parla singolarmente anche con la ragazza; non esige da lei for-
malmente un giuramento, ma affronta con lei il problema, rappre-
sentandole i dubbi di Filippo e la serietà del proposito di lui di avere
un domicilio autonomo rispetto a quello dei genitori di lei (cose tutte
che il sacerdote confermerà in giudizio).
Filippo (peraltro convinto di un formale giuramento prestato da
Maria) non si persuade ancora e, trovato un domicilio coniugale in
un comune diverso da quello della residenza dei genitori di Maria,
chiede alla ragazza – maestra elementare – di fare richiesta di trasfe-
rimento nel comune dove è stata trovata la futura casa coniugale.
Maria assicura di aver fatto la richiesta di trasferimento.
Ci si avvicina alle nozze, ma Filippo non è tranquillo, anche per-
ché vede Maria piuttosto disinteressata nella preparazione della casa
coniugale, differendo l’acquisto dei mobili e giungendo alle nozze
avendo procurato solo qualche esiguo oggetto di arredamento. In
questo contesto, Filippo comincia a fare a Maria un discorso molto
chiaro: ossia che la sposa ma a condizione che sia sincero l’impegno
di lei a staccarsi dai genitori e a voler iniziare con lui una vita familia-
re del tutto autonoma da essi. Maria nuovamente e ripetutamente as-
sicura Filippo della sincerità del suo impegno.
Celebrate le nozze, il matrimonio naufraga in poche settimane.
Maria non si decide a iniziare la vita comune con Filippo, adducendo
scuse varie fra cui il sommario arredamento della casa, che lei stes-
sa aveva prima delle nozze trascurato e che nulla fa dopo di esse per
completare. Filippo, ulteriormente insospettito, si reca al Provvedito-
rato competente e riesce a sapere che la domanda di trasferimento
era stata sì proposta da Maria, ma dalla stessa rinunciata dopo solo
pochi giorni e all’insaputa di lui.
Questa fatto rappresenta per Filippo la fine del matrimonio:
nemmeno più accetta di incontrare e di vedere Maria. Questa cerca
di convincerlo a perdonarla, anche in modo un po’ melodrammatico,
presentandosi nella caserma dove Filippo presta servizio con una va-
ligia e affermando di essere pronta a iniziare la vita comune, ma Fi-
lippo, che più non si fida della ragazza, non accetta nemmeno di par-
lare con lei. Per lui tutto è ormai finito.
Il matrimonio di Filippo e Maria (celebrato in vigenza del CIC
1917 e per questo da giudicarsi, quanto alla validità, secondo quella
518 Paolo Bianchi

disciplina) è un chiaro esempio di condizione lecita de futuro e del ti-


po detto “potestativo”. Esso è quindi da valutarsi secondo il numero
3° del can. 1092 del CIC 1917.
Filippo sostiene di aver contratto le nozze a condizione che Ma-
ria fosse davvero e sinceramente disposta a iniziare una vita coniuga-
le autonoma con lui: il suo consenso sarebbe stato efficace solo di
fronte al sincero impegno di Maria. Nel caso l’oggetto della condizio-
ne posta da Filippo è non solo il fatto di una effettiva vita comune
con la moglie, ma la stessa sincerità di lei nel promettere di volerla
iniziare (vedi le insistenze di Filippo presso il parroco perché faces-
se giurare Maria e la domanda di trasferimento di lei, fatta proprio
per insistenza di Filippo). Per questo, nel caso specifico, risulta an-
che meno artificiosa che in altre occasioni la riconduzione del fatto
futuro e incerto (l’inizio e il perdurare di una autonoma vita comune
matrimoniale) alla sincerità della promessa resa di voler realizzare
quel comportamento.
La prova della condizione posta da Filippo fu raggiunta dal Tri-
bunale non tanto sulla base della via diretta (essendo assai poche le
persone che avevano sentito Filippo parlare di “condizione” in sen-
so proprio e ammettendo assai poco Maria nel giudizio medesimo,
preoccupata principalmente di non fare una troppo brutta figura),
quanto sulla base della via indiretta, ossia sulla base della prova logi-
ca, basata sugli indizi e sulle circostanze del caso. In questo senso fu-
rono decisivi: il carattere forte e rigido di Filippo; la sicura prova sia
della intensità della sua volontà prenuziale di non vivere coi genitori
di Maria ma con lei sola, sia dei suoi forti dubbi in merito; l’immedia-
tezza e irrevocabilità della sua reazione non appena resosi conto della
non sincerità della promessa di Maria e della non volontà di lei di ini-
ziare una vita comune da sposi così come pattuito prima delle nozze.
L’esempio – oltre a illustrare un caso di condizione de futuro po-
testativa – intende mettere in luce il peso probatorio degli elementi
indiretti di prova: soprattutto del movente (apprezzamento per una
determinata realtà e dubbi in merito) e della reazione di fronte al
non avveramento del fatto dedotto in condizione (rapido e conclusi-
vo disimpegno verso il matrimonio). Sono elementi il cui riscontro
rende oltremodo credibile che davvero il soggetto volesse dare effi-
cacia al consenso (ovvero si riservasse di revocarla) solo a determi-
nate condizioni.
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 519

Secondo esempio
Lucia è una buona ragazza di paese. Si innamora di Riccardo,
con il quale programma il matrimonio. Pochi giorni prima delle noz-
ze, giunge al parroco di Lucia una telefonata di Bruna, la quale affer-
ma di avere avuto un figlio da Riccardo. Il parroco convoca i giovani
per chiarire con loro la questione: Lucia e Riccardo dichiarano per
iscritto di aver rimosso ogni incertezza o possibile ombra tra loro e
di essere fermamente intenzionati a sposarsi.
I fatti di quei concitati giorni non sono invero chiarissimi: sia
per la mancata comparizione nel processo da parte di Riccardo; sia
per non poche contraddizioni fra la narrazione di Lucia e quelle dei
testi da lei stessa indotti. Pare comunque che Riccardo abbia assicu-
rato alla fidanzata di essere già da tempo “perseguitato” da Bruna,
frequentata in precedenza in una compagnia di giovani, e di avere
persino perciò sporto una denuncia a suo carico. Di fatto, appare, an-
che dalla narrazione dei testi di Lucia, che la ragazza ha creduto fer-
mamente al fidanzato, senza lasciarsi influenzare dagli inviti alla pre-
cauzione provenienti dai suoi stessi familiari.
Le nozze vengono celebrate e i due cominciano la vita comune.
Lucia lascia il lavoro e comincia a collaborare nell’esercizio commer-
ciale condotto da Riccardo e dai genitori di lui. Non sviluppandosi la
vita comune e l’attività lavorativa secondo le aspettative di Lucia –
nutrite invero anche dai piuttosto sproporzionati progetti di Riccar-
do – la ragazza finisce per lasciare il marito.
Lucia impugna quindi il matrimonio adducendo – fra l’altro –
che il suo accesso alle nozze sarebbe avvenuto sulla base della con-
dizione che fosse vera la smentita di Riccardo all’affermazione di
Bruna, ossia che egli non fosse il padre del bambino di Bruna.
Sotto questo profilo il matrimonio è quindi impugnato per una
condizione impropria: non è del tutto facile dire se debba essere consi-
derata una condizione de praeterito (che Riccardo non abbia in passato
avuto quel figlio da Bruna) ovvero de praesenti (che Riccardo non sia
il padre del figlio di Bruna), ma dal punto di vista pratico la questione
non rappresenta una soverchia difficoltà: sia perché identica è comun-
que la norma da applicare (il vigente can. 1102 § 2, dal momento che il
matrimonio venne celebrato già in vigenza della disciplina attuale); sia
perché i termini di fatto della questione sono chiari: Lucia sostiene di
aver voluto dare un consenso davvero efficace correlativamente alla
paternità o meno di Riccardo in rapporto al figlio di Bruna.
520 Paolo Bianchi

Nel caso presente gli oggetti propri della prova, i fatti principali
da dimostrare, sono dunque due: che Lucia abbia davvero apposto la
detta condizione; che Riccardo sia davvero il padre del figlio di Bruna.
La prova portata in merito da Lucia non è stata però tale da per-
suadere il Tribunale: essa è infatti molto debole sul primo punto e
del tutto inesistente sul secondo.
Che Lucia – riscontrata fra l’altro nemmeno del tutto limpida su
particolari importanti – abbia posto davvero una condizione non è di-
mostrato, né dalle incerte deposizioni dei suoi testi, né soprattutto
dai fatti. Ella si fidò ciecamente del fidanzato e si mostrò insensibile
ai dubbi che cercavano di instillarle i familiari; nessun pratico segui-
to diede all’incontro col parroco, al quale anzi ribadì per iscritto la
sua decisa volontà matrimoniale; nessuna seria garanzia chiese a
Riccardo (per esempio vedere copia della denuncia fatta; approfondi-
re con esami clinici l’affermazione di Bruna) prima delle nozze, né –
dopo di esse – si premurò di approfondire la questione. Solo quando
il matrimonio andò male per altre ragioni, Lucia riprese il discorso
della paternità da Bruna attribuita a Riccardo e introdusse quello di
una sua condizione apposta in merito. Per quanto però appena rias-
sunto, al Tribunale non apparve provata l’apposizione di una condi-
zione da parte di Lucia, ma al contrario quella di una assoluta adesio-
ne a Riccardo nonostante quanto era venuta a conoscere.
Che poi Riccardo sia il padre del bambino di Bruna è del tutto
indimostrato. Lucia dice di aver visto il piccolo all’epoca della separa-
zione e di averlo trovato molto somigliante al marito. Bruna viene a
deporre, dicendosi sicura che il bambino sia di Riccardo, ma senza
poter addurre elementi obiettivi a comprova e anzi dovendo ammet-
tere che, all’epoca del concepimento, ella intratteneva relazione inti-
ma anche con altri giovani (le informazioni raccolte dal Tribunale
confermarono che Bruna è una ragazza piuttosto “libera”). In man-
canza di altri seri elementi – anche indiziari – di prova, ritenere la pa-
ternità di Riccardo sarebbe del tutto irragionevole e arbitrario.
L’esempio vuol rendere avvertiti i consulenti a essere molto
guardinghi a ipotizzare nullità matrimoniali per l’apposizione di una
condizione, azzardandosi a fare tale ipotesi solo dopo una ricognizio-
ne – seppure certo ancora sommaria – della possibilità di dimostrare
i fatti basilari a fondamento della eventuale domanda giudiziale. Di-
versamente, orientare delle persone a una causa di nullità matrimo-
niale potrebbe costituire non già un aiuto loro dato, ma solo la pre-
messa per una nuova e dolorosa delusione.
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 521

Terzo esempio
Valeria è una ragazza molto giovane ma dalle idee molto chiare.
Studia e coadiuva i genitori in un’azienda familiare in un paese di
provincia. Andando appunto a scuola conosce Mirko, un giovane di
un paese vicino. È un ragazzo timido, sensibile, che risente di una
triste situazione familiare: i genitori si sono separati fra grandi con-
trasti e la madre si è dedicata con zelo ai Testimoni di Geova, attuan-
do un accesissimo proselitismo anche nei confronti del figlio.
Valeria e Mirko si frequentano, frequentandosi si innamorano
e, innamoratisi, passano a intrattenere intimità fisiche. Entrambi so-
no assai giovani e alle prime esperienze e ne sorge una gravidanza di
Valeria. La ragazza non si perde d’animo. Pensa subito al matrimonio
e ne parla ai genitori. Questi, pur dispiaciuti, non ne fanno un dram-
ma e si dispongono ad aiutare i due ragazzi, potendo provvedere per
loro sia una casa sia un lavoro sicuro nell’azienda familiare. Anche
Mirko sembra contento della prospettiva. Tutto viene predisposto
per le nozze e Valeria – minorenne ma assai matura – ottiene dal Tri-
bunale dei Minori l’autorizzazione a sposarsi.
Nel corso dei preparativi nuziali insorge però un problema: al-
cuni amici riferiscono a Valeria di aver visto Mirko praticare la cosid-
detta “sala del regno”, luogo delle riunioni dei Testimoni di Geova e
alla stessa Valeria non tornano i conti dei tempi riferitile da Mirko
per alcuni suoi spostamenti. Valeria che – nonostante l’età e il già
detto cedimento morale – è una ragazza dalle idee chiare e dai senti-
menti religiosi piuttosto solidi fa a Mirko, e non una sola volta, un di-
scorso molto esplicito: che gli vuole bene e che è contenta di sposar-
lo; che però non accetterebbe di sposare un appartenente a una fede
religiosa diversa, sia per meglio condividere gli aspetti importanti
della vita, sia in vista della educazione della attesa prole, che ella de-
sidera sia cattolica. Valeria dice chiaramente a Mirko di dire subito
se è o se intende diventare testimone di Geova: in tal caso, ella ter-
rebbe certo il bambino ma rinuncerebbe al matrimonio.
Mirko si affretta tutte le volte che Valeria va sul discorso a cerca-
re di rassicurare la ragazza: dice di essere sottoposto al proselitismo
della madre ma di non avere alcuna intenzione di aderire alla setta
dei Testimoni di Geova; alla domenica accompagna Valeria alla Mes-
sa; nessuna difficoltà solleva circa la preparazione religiosa alle noz-
ze, effettuata presso il parroco della ragazza. Valeria però non è sicu-
ra (anche perché le voci derivanti dagli amici si ripetono). Per questo
522 Paolo Bianchi

torna a fare a Mirko – anche in presenza dei propri familiari – il di-


scorso già sintetizzato. Negli ultimi giorni prima delle nozze a anche
alla vigilia delle stesse Valeria sviluppa con Mirko la seguente argo-
mentazione: «Guarda che io non voglio sposare un testimone di Geo-
va. Dimmi subito se lo sei o se lo vuoi diventare che lasciamo perdere
il matrimonio. Guarda poi che se, anche dopo sposati, scoprirò che tu
sei testimone di Geova o che lo vuoi diventare ti lascerò e manderò a
monte il matrimonio». Mirko le ripete le sue rassicurazioni.
Celebrate le nozze, già nel viaggio successivo Mirko si mostra
ampiamente provvisto di pubblicazioni dei Testimoni di Geova, so-
stenendo che non c’è nulla di male nel leggerle e cercando di per-
suadere anche Valeria a farlo. Nato il bambino cerca – invano – di
opporsi al battesimo cattolico e, nel giro di pochi mesi, al parroco di
Valeria cui la ragazza aveva chiesto aiuto conferma in pratica la sua
adesione alla setta, anzi manifesta l’intenzione di assumere impegni
sempre più stringenti in essa. A quel punto, con dispiacere ma con
grande decisione, Valeria mette in atto la sua minaccia e dice a
Mirko di andarsene, essendo venuto meno – come lo aveva del resto
preavvisato – l’impegno di lei nel matrimonio.
Valeria impugna quindi la validità del suo matrimonio. Fra i mo-
tivi di nullità invocati propone anche la condizione, da lei stessa ap-
posta, che Mirko non fosse e/o non avesse intenzione di diventare
testimone di Geova.
I fatti sono nel caso molto chiari e anche la posizione di Valeria
è ben rappresentata: sia dalle persone che ne hanno udite le parole,
sia dai fatti forse ancor più eloquenti delle parole stesse: i dubbi pre-
nuziali, le chiare manifestazioni di intenti a Mirko, la rapida e decisa
reazione di Valeria alla scoperta delle vere intenzioni del ragazzo.
Più difficile la qualificazione giuridica dei fatti medesimi. Si tratta di
una condizione de praesenti («Se sei testimone di Geova il mio con-
senso non è efficace»)? Si tratta di una condizione de futuro propria-
mente detta («Se diventerai testimone di Geova il mio consenso, nel
frattempo sospeso, mai avrà effetto») magari del tipo potestativo
(«Se già da ora hai intenzione di diventarlo e non è sincera la tua
promessa in merito il consenso che presto non è efficace»)? Si tratta
della compresenza di più tipi di condizione?
A ben vedere, al Tribunale è sembrato più facile (probatoria-
mente) ma anche più corrispondente alla realtà intendere quella po-
sta da Valeria a Mirko come una condizione contra matrimonii sub-
stantiam, precisamente come una volontà di eventuale scioglimento
Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio - XII. Il consenso condizionato 523

del legame nel caso della scoperta che egli fosse testimone di Geova
ovvero che lo volesse divenire. Si ricordino, del resto, le stesse paro-
le di Valeria: «Guarda poi che se, anche dopo sposati, scoprirò che tu
sei testimone di Geova o che lo vuoi diventare ti lascerò e manderò a
monte il matrimonio». Si tratta in pratica di una condizione “risoluti-
va”, che sarebbe per sé una forma di condizione de futuro, ma che si
risolve in pratica in una volontà escludente (seppure in via eventua-
le, appunto “condizionata”) della indissolubilità dell’impegno matri-
moniale. E di fatto, il Tribunale, ha deciso la causa per la esclusione
della indissolubilità da parte di Valeria (pure fra i capi all’esame), ri-
tenendo con questa pronuncia di aver già provveduto al punto della
condizione, quanto al merito riassorbito in quella.
L’esempio vuole rammentare sia la difficoltà di qualificare i fatti
riconducibili al fenomeno del consenso condizionato alla luce degli
schemi – necessariamente astratti e generalizzanti – della normativa;
sia la necessità di distinguere con cura il fenomeno condizione da al-
tre fattispecie solo simili ma in realtà a esso non riconducibili, sia
che esse non abbiano rilievo sulla validità del matrimonio, sia che lo
abbiano dovendo però più opportunamente essere qualificate alla
stregua di altre fattispecie di nullità matrimoniale previste dalla nor-
mativa canonica.

PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
Hanno collaborato a questo numero:

GIORGIO FELICIANI
Professore di Diritto Canonico e di Diritto Ecclesiastico presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università Cattolica di Milano

DON MAURO RIVELLA


Responsabile dell’avvocatura della Curia arcivescovile di Torino

DON GIAN PAOLO MONTINI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Brescia

DON MASSIMO CALVI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Cremona

DON GIULIANO BRUGNOTTO


Docente di Diritto Canonico nel Seminario di Treviso

PADRE GIANFRANCO GHIRLANDA


Decano della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana.

DON PAOLO BIANCHI


Vicario giudiziale aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo
524

INDICE DELL’ANNATA 1996

BIANCHI P. – Esempi di applicazione giurisprudenziale


del can. 1098 (dolo): casistica e problemi probatori (3) 357
– Il Pastore d’anime e la nullità del matrimonio:
XII. Il consenso condizionato (4) 495
– II. Note in materia di “forma straordinaria”
della celebrazione del matrimonio (2) 257
BRUGNOTTO G. – Commento a un canone.
«La celebrazione eucaristica venga compiuta
nel luogo sacro» (can. 932 § 1) (4) 476
CALVI M. – Il sacramento dell’Unzione degli infermi:
celebrazione e ministro (3) 272
– La produzione normativa
della Conferenza episcopale italiana (4) 449
CELEGHIN A. – Considerazioni a partire dal can. 868 § 1, 2°
ovvero «Genitori “pagani”, perché chiedete i sacramenti
per i votri figli?... volete farne dei “lapsi”?» (1) 76
COCCOPALMERIO F. – Le unità pastorali: motivi, valori e limiti (2) 135
FELICIANI G. – Le Conferenze episcopali (4) 400
GHIRLANDA G. – “Istituti misti” e nuove aggregazioni (4) 483
– La dimensione universale della Chiesa particolare (1) 6
HENDRIKS J. – I. La forma straordinaria del matrimonio (2) 239
MIRAGOLI E. – Commento a un canone.
La cremazione del corpo dei defunti (can. 1176 § 3) (3) 337
MONTAN A. – Unità pastorali: contributo per una definizione (2) 139
MONTINI G.P. – Alcune riflessioni sull’omnis potestas
del vescovo diocesano (1) 23
– Commento a un canone. Il momento della vacanza
di un ufficio conferito per un tempo determinato
o fino a una determinata età (can. 186) (2) 195
– Le Conferenze episcopali e i Sinodi delle Chiese orientali (4) 433
– L’unzione degli infermi e la communicatio in sacris (3) 321
MOSCONI M. – La pubblicazione di scritti
che espongono nuove apparizioni, rivelazioni, visioni,
profezie, miracoli o introducono nuove devozioni (3) 379
PAVANELLO P. – I presbiteri “fidei donum” speciale manifestazione
della comunione delle Chiese particolari tra loro
e con la Chiesa universale (1) 35
RECCHI S. – Gli istituti di vita consacrata:
segno dell’universalità della Chiesa particolare (1) 58
REDAELLI C. – I regolamenti del Collegio dei Consultori
e del Consiglio per gli affari economici della diocesi (1) 109
Indice dell’annata 1996 525

RIVELLA M. – Amministrazione e ricezione dei sacramenti


in pericolo di morte. Il viatico (3) 314
– Commento a un canone. Battezzare i bambini
in pericolo di morte anche contro la volontà dei genitori
(can. 868 § 2) (1) 66
– Decisioni e dichiarazioni delle Conferenze episcopali (4) 421
SARZI SARTORI G. – La cura pastorale della parrocchia
non affidata al sacerdote (2) 174
SIVIERO G.M. – Il Diritto pubblico ecclesiastico:
una disciplina canonistica tra passato e futuro. II (2) 209
TRESALTI E. – Gli istituti secolari: una vocazione per i nostri giorni (1) 103
TREVISAN G. – Forme di collaborazione interparrocchiali
secondo il Codice (2) 164
ZANETTI E. – A chi conferire il sacramento dell’Unzione degli infermi? (3) 295

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