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QUADERNI

DI DIRITTO
ECCLESIALE

ANNO 1995

EDITRICE ÀNCORA MILANO


QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
3 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO VIII
6 Presbiterio e Consiglio presbiterale N. 1 - GENNAIO 1995
nelle fonti conciliari della disciplina canonica
di Giangiacomo Sarzi Sartori DIREZIONE ONORARIA

48 Le funzioni del Consiglio presbiterale Jean Beyer, S.I.


di Mauro Rivella DIREZIONE E REDAZIONE
61 Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti, Francesco Coccopalmerio
rappresentante di un presbiterio Paolo Bianchi - Massimo Calvi
di Mario Marchesi Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
Silvia Recchi - Carlo Redaelli
72 Gli statuti del Consiglio presbiterale
Mauro Rivella
di Paolo Bianchi
Giangiacomo Sarzi Sartori
94 Il diritto di voce attiva e passiva Gianni Trevisan
nell’elezione del Consiglio presbiterale. Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
Il caso dei presbiteri appartenenti
alla prelatura personale Opus Dei SEGRETERIA DI REDAZIONE
di Carlo Redaelli G. Paolo Montini
Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
103 Comunione e comunicazione Tel. (030) 37.121
tra Consiglio presbiterale diocesano,
presbiterio diocesano e diocesi PROPRIETÀ
di G. Paolo Montini Istituto Pavoniano Artigianelli
111 Commento a un canone Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Le chiavi dell’Archivio di Curia (can. 487)
di Gianni Trevisan AMMINISTRAZIONE
118 Norme circa la raccolta di offerte Editrice Àncora
per necessità particolari Via G.B. Niccolini, 8
Commenti alle delibere CEI 20154 Milano
di Massimo Calvi Tel. (02) 3360.8941
128 La normativa STAMPA
del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium Grafiche Pavoniane
sulla vita consacrata Istituto Pavoniano Artigianelli
di Marco Brogi Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

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3

Editoriale

«La comunione gerarchica tra il vescovo e il suo presbiterio, fon-


data sull’unicità del sacerdozio ministeriale e della missione, si mani-
festa in qualche modo istituzionalmente e si risolve a bene della dioce-
si per mezzo del Consiglio presbiterale.
Questo Consiglio, che è per sua natura diocesano e deve costituir-
si in ciascuna diocesi, è “un Consiglio o senato di sacerdoti, rappresen-
tanti il presbiterio, per poter aiutare efficacemente il vescovo nel go-
verno della diocesi”.
Per mezzo di questo Consiglio i presbiteri riconoscono di integrar-
si a vicenda nel servizio dell’unica e medesima missione della Chiesa;
così si incrementa la fraternità del presbiterio e il reciproco colloquio o
dialogo tra il vescovo e i presbiteri».
Questa prima, efficace descrizione dell’essenziale natura e iden-
tità del Consiglio presbiterale e delle sue fondamentali funzioni, pre-
sa dal Direttorio pastorale dei Vescovi Ecclesiae imago (22 febbraio
1973, n. 203a) – il quale valorizza i principali testi conciliari e post-
conciliari sullo stesso tema – evidenzia già chiaramente l’importanza
nella vita diocesana di questo organismo, di cui la parte monografica
del presente fascicolo di Quaderni di Diritto Ecclesiale si occupa.
L’indubbio rilievo che questo “Consiglio” ha nella Chiesa particolare
si riferisce sia alla promozione e alla crescita dei rapporti tra i presbi-
teri, che devono instaurarsi all’insegna della fraternità e dell’unità
della missione pastorale, sia alla tutela e allo sviluppo adeguato e
corretto delle strette relazioni che intercorrono tra il vescovo ed i
presbiteri della diocesi per attuare una vera e proficua corresponsa-
bilità ecclesiale a servizio del popolo cristiano.
Per approfondire la portata di questo organismo diocesano di
primaria importanza, in questo numero si è pensato di dedicare una
4 Editoriale

certa attenzione – a partire anche dalle problematiche concrete in


cui si trovano oggi i Consigli presbiterali – sia alla dottrina sia alla di-
sciplina ecclesiale che ne definisce la natura, le funzioni e la necessa-
ria strumentazione normativa, che può garantirne l’azione pratica a
servizio del presbiterio e della Chiesa particolare.
L’importanza del Consiglio presbiterale viene anzitutto rintrac-
ciata nell’esame delle principali fonti conciliari della disciplina cano-
nica rinnovata (Sarzi Sartori). Alcuni testi del Vaticano II, infatti, pur
senza diffondersi nella presentazione di questo organismo diocesa-
no, offrono tutti gli elementi dottrinali essenziali per comprenderne
la natura e le finalità specifiche. L’analisi di alcuni testi fondamentali,
tenendo in considerazione la loro storia e l’evoluzione interna dei la-
vori conciliari, rivela aspetti decisivi per la valorizzazione del concet-
to e della realtà del presbiterio, del Consiglio presbiterale e dell’in-
scindibile unità tra vescovo e presbiteri.
Operari sequitur esse: chiarificando la natura, emergono più effi-
cacemente anche le funzioni proprie di questo “organismo di comu-
nione”; funzioni che non si possono restringere soltanto a quelle che
si trovano elencate nel Codice in maniera dettagliata, ma che si de-
vono riferire più ampiamente a tutti «gli affari di maggiore importan-
za» o, come afferma il Concilio, ai «problemi che riguardano le ne-
cessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi» (PO 7a) e tutto
ciò che si lega al rapporto tra vescovo e presbiterio “nel governo del-
la diocesi” e che devono essere affrontati insieme dal vescovo e dai
sacerdoti rappresentanti del presbiterio (Rivella).
È quindi necessario studiare e recepire il senso del Consiglio
presbiterale come gruppo di sacerdoti, rappresentante di un presbi-
terio, considerando attentamente la valenza dei termini usati e dei
concetti trasmessi dalla normativa canonica: in essa si parla di coetus
(= gruppo); si richiama la realtà del “presbiterio rappresentato”; si
punta sul valore e sull’efficacia della “rappresentanza”. E proprio su
questo punto, spesso trascurato dalla letteratura, è bene affrontare
alcune questioni concrete non sempre risolte in modo chiaro nella
prassi (Marchesi).
Un aspetto significativo per la vita e l’attività dei Consigli presbi-
terali è quello che riguarda la stesura e l’applicazione dei loro statuti
(Bianchi). Per questo occorre conoscere con esattezza che cosa è e
che cosa dev’essere uno statuto secondo la disciplina codiciale post-
conciliare e secondo le normative previste dalla Conferenza Episcopa-
le Italiana in merito, e vederne le principali applicazioni concrete per
Editoriale 5

rendere efficace l’azione del Consiglio presbiterale e promuoverne


l’organica vitalità a vantaggio del clero e di tutto il popolo cristiano.
Un tema e un problema particolari sono rappresentati dalla par-
tecipazione (con voce attiva e passiva) di sacerdoti extradiocesani
presenti in diocesi al Consiglio presbiterale (Redaelli).
Infine – e si tratta di un argomento alquanto attuale nell’odierna
problematica – è utile riflettere sul punto della comunione e della co-
municazione tra Consiglio presbiterale, presbiterio diocesano e dio-
cesi (Montini), per evitare che il Consiglio si isoli e lavori soltanto al
suo interno, esaurendo in se stesso le proprie funzioni e la produzio-
ne del proprio impegnativo lavoro, ma affinché entri in dialogo con
la realtà viva della Chiesa particolare.
Nella seconda parte del fascicolo viene anzitutto commentato il
canone 487 (Trevisan), affrontando sia la normativa sulla custodia
dell’archivio della Curia diocesana sia le ragioni della medesima sia
le nuove applicazioni del canone in un contesto sempre più informa-
tizzato.
Viene quindi presa in esame la normativa prodotta recentemen-
te dalla Conferenza Episcopale Italiana in tema di collette (Calvi).
Alla conoscenza della vita consacrata è dedicato, infine, un arti-
colo in cui si esamina la normativa canonica del Codice dei Canoni
delle Chiese Orientali (Brogi).
6

Presbiterio e Consiglio presbiterale


nelle fonti conciliari della disciplina canonica
di Giangiacomo Sarzi Sartori

Trattando della Struttura interna delle Chiese particolari (Tito-


lo III del Libro II), il Codice di diritto canonico dedica un capitolo – il
terzo: cann. 495-502 – al Consiglio presbiterale e delinea i tratti giuri-
dici di questo organismo diocesano abbinando a questa trattazione
quella sul Collegio dei consultori.
Il primo canone riguardante questo importante Consiglio per la
vita del presbiterio e, quindi, per l’intera diocesi, riferisce sostanzial-
mente tutta la dottrina che motiva e sorregge la sua esistenza e la
sua attività. Il can. 495, infatti, sintetizza i vari contributi che, pur con
evidente sobrietà, sono stati offerti dai documenti del Vaticano II e
da interventi disciplinari successivi – necessari per una corretta ap-
plicazione del Concilio – fino al nuovo Codice, presentandoci una es-
senziale configurazione del Consiglio presbiterale, della sua natura e
delle sue funzioni.
Il Concilio non si è particolarmente diffuso nella descrizione di
questo organismo, pur chiedendone espressamente la costituzione
in ogni diocesi, quando afferma che:

«vi sia – nel modo più confacente alle circostanze e ai bisogni di oggi, nella
forma e secondo norme giuridiche da stabilire – una commissione o senato
di sacerdoti in rappresentanza del presbiterio, il quale con i suoi consigli
possa aiutare efficacemente il vescovo nel governo della diocesi» (PO 7a).

Tuttavia, alcuni testi conciliari, pur non parlando del Consiglio


presbiterale in maniera precisa e “tecnicamente” rilevante, sono fon-
ti preziose ed essenziali per la sua comprensione profonda quale
strumento di comunione e di corresponsabilità ecclesiale nel rappor-
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 7

to tra vescovo e presbiteri e nella relazione tra gli stessi preti che vi-
vono e operano nella medesima Chiesa particolare.
I numeri 7 e 8 del decreto Presbyterorum ordinis (PO) sono la
fonte primaria della disciplina canonica circa il Consiglio presbitera-
le poiché presentano la visione d’insieme più completa e le ragioni
teologiche, spirituali e pastorali che sostengono l’esistenza di questo
organismo e la disciplina che lo regola.
A questi riferimenti fondamentali vanno aggiunti alcuni altri: il
numero 28 di Lumen gentium (LG), unico testo in cui si tratta dei
preti nella costituzione dogmatica sulla Chiesa; i numeri 27 e 28 di
Christus Dominus (CD), all’interno del capitolo riguardante «I coope-
ratori del vescovo diocesano nell’ufficio pastorale»; infine, i numeri
19, 20 e 39 di Ad gentes (AG), in cui, trattando delle Chiese particola-
ri, il decreto sull’attività missionaria si sofferma a precisare il compi-
to proprio del presbiterio diocesano.
Non va dimenticato, poi, che il primo documento postconciliare
che prescrive la costituzione del Consiglio presbiterale è il motu pro-
prio Ecclesiae sanctae (ES) di papa Paolo VI (6 agosto 1966) 1. Altri
due testi inerenti a questo Consiglio promanarono dalla Sacra Con-
gregazione per il Clero: il 15 gennaio 1969 veniva inviata dal dicaste-
ro della Santa Sede una lettera ai presidenti delle Conferenze Episco-
pali per chiedere la trasmissione di informazioni e osservazioni sulle
prime esperienze di questo organismo nuovo, e l’anno successivo
(11 aprile 1970) il Cardinale prefetto della stessa Congregazione in-
viava una lettera circolare ai presidenti delle Conferenze Episcopali
con la quale, in dieci punti e tre conclusioni, si trattavano alcune que-
stioni fondamentali a proposito del Consiglio presbiterale. Proprio in
questa lettera, intitolata Presbyteri sacra (PS), per la prima volta, si
dice che solo a questo Consiglio spetta il titolo e l’ufficio di Senatus
Episcopi 2.
Il Direttorio pastorale dei Vescovi Ecclesiae imago (22 febbraio
1973) (EI) nel capitolo riservato ai «Collaboratori del vescovo nell’uf-
ficio pastorale» colloca il Consiglio presbiterale tra le persone e le isti-
tuzioni che direttamente cooperano con il vescovo diocesano e sotto-
linea due punti alquanto significativi: il primo è la dichiarazione circa
questo Consiglio come manifestazione istituzionale della comunione

1
Si veda la prima parte contenente le norme per l’applicazione dei decreti Christus Dominus e Presby-
terorum ordinis, n. 15, in Enchiridion Vaticanum (EV) 2, nn. 782-785.
2
EV 3, nn. 2449-2479, si veda in particolare il n. 10.
8 Giangiacomo Sarzi Sartori

gerarchica tra il vescovo e il suo presbiterio 3; il secondo è l’afferma-


zione secondo cui il Consiglio presbiterale «supera gli altri organi si-
mili tanto per la sua natura quanto per il suo modo di procedere» 4.
Anche il documento finale del Sinodo dei Vescovi del 1971, Ul-
timis temporibus (30 novembre 1971), affrontando l’argomento del
sacerdozio ministeriale, nella parte dedicata a «I Presbiteri nella co-
munione ecclesiale», si sofferma sul tema della «Relazione tra i pre-
sbiteri e il vescovo» e sulle «Relazioni dei presbiteri tra di loro». In
quel testo si riservano due passaggi al senso e soprattutto all’opera e
allo stile di lavoro del Consiglio presbiterale e, ispirandosi al numero
7 di PO, si auspica anche la possibilità di
«trovare nuove forme di comunione gerarchica tra i vescovi e i presbiteri attra-
verso cui raggiungere una più ampia possibilità di mutuo contatto tra le Chiese
locali...» 5.

La dottrina del Concilio, fonte della disciplina canonica


Il fondamento teologico del Consiglio presbiterale va rintraccia-
to anzitutto nell’unità tra presbiteri e vescovo che, pur nella differen-
za di grado, è basata sulla comunione sacramentale tra di loro. Oltre
ad affermare la sacramentalità dell’ordinazione presbiterale – per la
quale, con l’unzione dello Spirito Santo, i presbiteri sono marcati da
uno speciale carattere (PO 2c; cann. 1008; 1009) – il Concilio dichia-
ra che l’ordinazione conferisce ai preti i tre munera – la «funzione di
istruire, santificare e governare il popolo di Dio» (PO 7a; AG 39a) –
e, insieme alla missione che ricevono dal vescovo, la partecipazione
al sacerdozio di Cristo (PO 10a) e alla missione apostolica (PO 1;
2b.d; 10a). I vescovi e i presbiteri partecipano, dunque, dello stesso
e unico sacerdozio e ministero di Cristo (CD 15a), per cui la stessa
unità di consacrazione e missione esige la comunione gerarchica dei
presbiteri con l’ordine dei vescovi (PO 7a). Data la loro partecipazio-
ne al munus del ministero episcopale mediante il sacramento del-
l’Ordine e la missione canonica (PO 2b; 7b), in virtù dell’ordine e del

3
«La comunione gerarchica tra il vescovo e il suo presbiterio, fondata sull’unicità del sacerdozio mini-
steriale e della missione, si manifesta in qualche modo istituzionalmente e si risolve a bene della diocesi
per mezzo del Consiglio presbiterale... Per mezzo di questo Consiglio i presbiteri riconoscono di inte-
grarsi a vicenda nel servizio dell’unica e medesima missione della Chiesa; così si incrementa la frater-
nità del presbiterio e il reciproco colloquio o dialogo tra il vescovo e i presbiteri», in EV 4, n. 2280.
4
EV 4, n. 2282.
5
EV 4, n. 1221-1230, si vedano particolarmente i nn. 1226-1227.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 9

ministero i preti sono associati al corpo episcopale e ne sono i colla-


boratori (LG 28b; PO 7a; CD 15a). Nell’esercizio della loro potestà –
non possedendo l’apice del sacerdozio – essi dipendono dai vescovi
(LG 28a) e vivono in una profonda unità tra di loro e con il vescovo
che presiede la Chiesa particolare. Pur non parlando di “collegio”, ri-
guardo ai presbiteri i testi conciliari sottolineano infatti la realtà e
l’impegno della comunione sacerdotale (LG 41c); parlano del presbi-
terio che formano insieme al vescovo (LG 28b; PO 7a) e, in modo
specifico si afferma che in virtù della sacra ordinazione e della mis-
sione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità (LG
28c; PO 8a). L’essere cooperatori dell’ordine episcopale (PO 2b) per
la comunione sacramentale e gerarchica, rende i presbiteri necessa-
ri aiuti e consiglieri nel ministero pastorale dei vescovi, per cui vi è
uno stretto e qualificante rapporto tra presbiterio e vescovo; una
realtà di cui il Vaticano II rimarca con evidenza la nota dell’unità (LG
28b; CD 28a; AG 19c) e insieme quella della distinzione (LG 28a; PO
8a; AG 20c). Ma per il fatto che tutti quelli che sono istituiti nel sa-
cerdozio ministeriale – cioè i vescovi e i presbiteri – esercitano, sia
pure in diverso grado, l’unico ministero di Cristo trasmesso dagli a-
postoli (PO 2b.d; 10a), la stessa fraternità e comunione sacramentali
dovranno tradursi nella vita pratica in una vera cooperazione e corre-
sponsabilità nel governo pastorale della Chiesa.
La struttura del presbiterato, dunque, rimanda alla interrelazio-
ne esistente tra presbiterato ed episcopato nel rapporto di coopera-
zione e dipendenza dei preti dall’ordine episcopale e tra i presbite-
ri stessi nell’ordine presbiterale e nel presbiterio diocesano. Questa
communio nel ministero episcopale e presbiterale appare come una
accentuazione direttamente voluta dal Concilio e, pur nella diversifi-
cazione dei ruoli, diventa corresponsabilità nella guida, nell’animazio-
ne e nel coordinamento della vita ecclesiale da far convergere verso
l’unità. L’unità tra vescovi e preti è, in tal modo, comunione sacerdota-
le e gerarchica; nel sacramento e nel ministero; nella fede e nella vita;
si concretizza nello stile di dedicazione di sé alla Chiesa particolare e
di coerente condivisione pastorale. Da qui il richiamo all’unità del
presbiterio da tradurre nei termini di effettiva corresponsabilità, di
partecipazione, di solidarietà e di sostegno reciproco nell’attività pa-
storale: in essa si deve esprimere il presbiterio come unione dei preti
con il vescovo non solo per motivi di spiritualità sacerdotale o di effi-
cenza ministeriale, ma anzitutto per la logica comunionale che sostie-
ne tutta la vita, la struttura e il ministero della Chiesa.
10 Giangiacomo Sarzi Sartori

La dottrina che motiva e sorregge l’istituzione del Consiglio


presbiterale è, dunque, esposta in pochi ed essenziali testi del Vatica-
no II, ma a nessuno può sfuggire la ricchezza del loro contenuto a
volte anche soltanto abbozzato e quindi bisognoso di ulteriori ap-
profondimenti. Tuttavia, i documenti del Concilio sono il frutto di un
lungo cammino di riflessione e di confronto; il risultato finale di un
iter storico e di un’evoluzione dottrinale, la cui conoscenza giova
molto alla comprensione dei testi conclusivi, alla loro interpretazione
e anche alla loro adeguata valorizzazione nella vita ecclesiale.
Questo vale anche per i documenti in cui si tratta del ministero
e della vita dei preti nelle relazioni che intercorrono tra di loro e con
il vescovo, e specialmente il decreto Presbyterorum ordinis, voluto
dai Padri conciliari come testo a sé stante soltanto dopo aver preso
coscienza della necessità di un’attenzione maggiore da parte del
Concilio verso i preti, e i riferimenti al ministero presbiterale presen-
ti nella costituzione sulla Chiesa Lumen gentium. È interessante, a
questo proposito, considerare l’evoluzione storico-dottrinale che si è
verificata in seno ai lavori conciliari sul tema del rapporto tra vescovi
e presbiteri e su quello dell’unione fraterna e della cooperazione tra
gli stessi preti, perché dentro queste prospettive acquista significato
e spessore anche il tema dell’ordine presbiterale e del presbiterio
diocesano e quindi si rivela in tutta la sua importanza quell’organi-
smo di comunione tra il clero e con il vescovo che il Concilio ha vo-
luto fosse costituito nelle singole Chiese particolari e cioè il Consi-
glio presbiterale. Rintracciare questa “evoluzione” dei testi significa
anche scoprire il senso di certe scelte conciliari, il valore di alcuni
elementi dottrinali e, quindi, anche la portata di una normativa certa-
mente nuova presente nell’attuale Codice di diritto canonico 6.

I presbiteri e le relazioni ecclesiali (LG 28)


Già nel primo periodo del Concilio, durante la discussione che
si tenne dal 1° al 7 dicembre 1962 in sei congregazioni generali circa

6
Cf J. BEYER, Dal Concilio al Codice. Il nuovo Codice e le istanze del Concilio Vaticano II, Bologna 1984,
particolarmente le pagine 15-22; ID., De consilio presbyterali adnotationes, in Periodica 60 (1971) 29-101;
G. GHIRLANDA, Episcopato e presbiterato nella “Lumen Gentium”, in Communio 59 (1981) 41-68; G. RAM-
BALDI, Fraternitas sacramentalis et Presbyterium in Decreto “Presbyterorum Ordinis” n. 8, in Periodica 57
(1968) 331-350; M. MARCHESI, Consiglio presbiterale diocesano, Brescia 1972; G.G. SARZI SARTORI, Il mi-
nistero dei presbiteri. Ricerca sul Vaticano II quale fonte di disciplina ecclesiale, (tesi dottorale discussa
presso la Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Gregoriana), Roma 1989 e l’estratto
pubblicato con lo stesso titolo a Mantova nel 1993.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 11

lo schema preparatorio sulla Chiesa, alcuni accesi interventi lamen-


tavano la mancanza di indicazioni di rilievo e la carenza di profondità
sulla natura del sacerdozio ministeriale, sui presbiteri in genere e
sul loro ministero in particolare, sui rapporti tra il vescovo e i sacer-
doti nella loro qualità di cooperatori dell’ordine episcopale parteci-
pando, insieme ai vescovi, dell’unico sacerdozio di Cristo 7. Qualcuno
riportava l’impressione che i preti fossero del tutto trascurati dallo
schema e riferiva l’amarezza diffusa per una mancanza di interesse
verso la missione importante e spesso misconosciuta dei preti e spe-
cialmente dei parroci e perciò chiedeva che venisse invece mostrato
il vincolo che lega i preti al vescovo; che si affrontasse il tema del
presbyterium; che si dicesse come i presbiteri formano un “collegio”
insieme al vescovo; che si affermasse che l’obbedienza, l’amore e la
cooperazione che li unisce al vescovo vengono dallo stesso sacra-
mento e non da un mero fatto giuridico, poiché tutto ciò sarebbe sta-
to di grande giovamento al rinnovarsi della Chiesa 8. Il rifacimento
dello schema De Ecclesia portò anche ad un primo testo sui presbite-
ri, la cui trattazione era congiunta con quella sui diaconi (De presby-
teris et diaconis, nel capitolo: «De constitutione hierarchica Ecclesiae
et in specie de episcopatu») 9, e voleva mostrare più attentamente la
connessione tra l’episcopato e il presbiterato. Ma il testo era impo-
stato tutto sulla figura e sul ministero del vescovo e sull’episcopato
come supremo grado del sacramento dell’ordine e lo stesso dibatti-
to, tenutosi dal 30 settembre al 31 ottobre 1963 in ventidue congre-
gazioni generali, si concentrò sulla questione della collegialità epi-
scopale 10 e, sia pure con minore intensità, sul tema del diaconato e
della sua restaurazione. Alcuni Padri rilevarono ancora la brevità del
testo conciliare sui preti, quasi si trattasse di un tema di secondaria
importanza o che non vi fossero problemi da approfondire al riguar-
do. Al contrario, gli intervenuti ribadirono l’importanza del ministe-

7
Tra gli interventi che richiamarono le carenze del documento circa la trattazione sul sacerdozio e
sulle relazioni tra vescovi e presbiteri, ricordiamo quello del cardinale A. Bea, in Acta Synodalia Sacro-
sancti Concilii Vaticani Secundi (AcSyn), Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1970-1978, I-IV,
p. 130; dell’arcivescovo di Cambrai (Francia) E. Guerry, in ibid., p. 240; del vescovo di Gravia-Irsina
(Italia) G. Vairo, in ibid., p. 130; del vescovo di Sarba dei Maroniti (Libano) M. Doumith, in ibid., pp.
255-256.
8
Si vedano le osservazioni del cardinale di Sevilla (Spagna) J. Bueno Y Monreal, in ibid., p. 131 e del-
l’arcivescovo di Versailles (Francia) A. Renard, in ibid., pp. 344-346.
9
Cf AcSyn II-I, 215 ss.
10
Cf G. GHIRLANDA, “Hierarchica communio”. Significato della formula nella “Lumen Gentium”, Roma
1980. Si vedano le pp. 230-279; 321-347.
12 Giangiacomo Sarzi Sartori

ro dei presbiteri come collaboratori dei vescovi e la necessità di stu-


diare più seriamente il loro posto e la loro funzione nella struttura
gerarchica della Chiesa, considerando i vantaggi di una certa “colle-
gialità sacerdotale” nell’ambito delle singole diocesi, ricordando che,
in forza del sacerdozio unico e partecipato, vescovo e presbiteri for-
mano il presbyterium in cui si è uniti come tra padri e figli e come tra
fratelli nella preghiera e nell’apostolato a servizio del popolo di Dio
che è la Chiesa 11. In base a ciò si chiedeva che venisse ridata al pre-
sbyterium l’importanza che ha nella cooperazione attiva al munus pa-
storale del vescovo.
Dunque, la movimentata discussione sul secondo progetto del
De Ecclesia mostra che l’accento fu principalmente posto sulla figura
del vescovo e le questioni ad esso collegate e sulla rivalutazione dei
laici e delle loro funzioni dentro la Chiesa e nel mondo. Quelle del
presbiterato e del diaconato apparivano quasi come funzioni subal-
terne sulle quali non si rivolse in maniera sufficiente l’impegno del
Concilio, provocando scoraggiamento e crisi di identità sempre più
rilevanti tra il clero. Tuttavia, prendeva corpo l’idea di riproporre il
presbyterium quale realtà di comunione e cooperazione che unisce
preti e vescovo nella Chiesa locale insieme all’esigenza di approfon-
dire il tema del presbiterato agganciandolo al discorso più ampio cir-
ca il mistero e la missione della Chiesa.
Nella seconda redazione dello schema conciliare il testo sui
preti costituiva, finalmente, da solo il paragrafo 28 («De presbyteris
eorumque relatione ad Christum, ad episcopos, ad presbyterium et ad
populum christianum») 12 del capitolo III il cui contenuto – soprattut-
to nella parte riguardante l’episcopato – costituiva uno dei punti più
difficili e discussi del Concilio. In questa nuova elaborazione si ri-

11
Si possono ricordare gli interventi scritti e orali del vescovo di Salford (Gran Bretagna) G. Beck, in
AcSyn II-II, pp. 268-269; del vescovo coadiutore di Cadiz (Spagna) A. Anoveros Ataun, in ibid., pp. 348-
351; dell’arcivescovo di Armagh (Irlanda) W. Conway, in ibid., pp. 354-355; dell’arcivescovo di Durban
(Sudafrica) D. Hurley, in ibid., pp. 364-366; del vescovo ausiliare di Fulda (Germania) E. Schick che
parlava anche a nome dei vescovi scandinavi, in ibid., pp. 418-419; del vescovo di Versailles (Francia) A.
Renard, in ibid., pp. 418-419; del vescovo ausiliare di Zadar (Jugoslavia) M. Oblak, in ibid., pp. 520-521;
del vescovo di Limoges (Francia) L. Rastouil, in AcSyn II-III, pp. 10-13; del vescovo di S. Isidro (Argenti-
na) M. Aguirre, in AcSyn II-II, p. 659; del vescovo di Pontremoli (Italia) I. Fenocchio, in ibid., pp. 740-
741; del vescovo di Bergamo (Italia) C. Gaddi, in ibid., p. 747; del vescovo di Coutances (Francia) L.I.
Guyot, in ibid., pp. 772-774; del vescovo di Tournai (Belgio) C.M. Himmer, in ibid., pp. 786-787; del ve-
scovo coadiutore di Angoulême (Francia) R. Kérautret che parlava a nome di molti vescovi francesi e di
altre regioni, in ibid., pp. 788-789; del vescovo di Eisenstadt (Austria) S. Laszlo, in ibid., pp. 796-797; del-
l’arcivescovo di Cape Town (Sudafrica) McCann, in ibid., pp. 810-811; del vescovo di Ales-Terralba (Ita-
lia) A. Tedde, in ibid., p. 889.
12
Cf AcSyn III-I, pp. 225-227.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 13

spondeva alle richieste dei Padri sia quanto al contenuto, sia quanto
alla collocazione della materia nell’insieme dello schema e si descri-
vevano le varie relazioni ecclesiali che coinvolgono i presbiteri con
un forte richiamo alla necessità che il corpo sacerdotale operi in
unione di sforzi e di intenti. L’ultima revisione portò al testo definiti-
vo della costituzione dogmatica; si basò sull’esame dei “modi” e
comportò alcune correzioni, trasposizioni e perfezionamenti che re-
sero il discorso più preciso e meglio articolato.

I presbiteri, il vescovo e la missione ecclesiale (LG 28b)


Il paragrafo si caratterizza per una significativa concretezza nel-
l’esame del rapporto e dei vincoli che legano reciprocamente vesco-
vo e presbiteri nella Chiesa particolare. Incomincia con una sorta di
definizione dei presbiteri presa da fonti liturgiche – il Pontificale Ro-
mano – che ebbe fortuna nel Concilio e fu più volte ripresa 13 come
elemento ovvio e come un dato acquisito; come descrizione che ren-
deva adeguatamente comprensibile la relazione vescovo-preti: «Pre-
sbyteri, Ordinis Episcopalis providi cooperatores...». Il termine coope-
ratores fu sempre presente nelle diverse redazioni dello schema,
mentre l’espressione completa entra con la prima redazione concilia-
re. Con la seconda redazione si aggiungono altre qualificazioni
(«eiusque complementum et organum») sino a quella che si trova nel-
la stesura definitiva: «eiusque adiutorium et organum [...] unum pre-
sbyterium cum suo Episcopo constituunt...», in cui si cambiò il termi-
ne complementum sostituendolo con adiutorium perché sembrava
non adattarsi adeguatamente 14. L’idea più volte ribadita della coope-
razione che i presbiteri prestano al loro vescovo e all’ordine dei ve-
scovi, è riaffermata in funzione del ristabilimento del presbyterium in
tutto il suo valore e in vista del ritrovamento delle rispettive posizio-
ni, distinte ma coordinate, dell’episcopato da una parte e del pre-
sbyterium dall’altra. Il coordinamento è dato dal fatto che i presbiteri,
assieme al loro vescovo, costituiscono un unico presbiterio («unum
presbyterium cum suo Episcopo constituunt») e rendono presente il
vescovo a cui sono uniti con animo fiducioso e grande, nelle singole

13
Oltre a LG 28b, cf anche: AG 39a; PO 2b; 12a; CD 15a; 28a.
14
Cf modus 208, in AcSyn III-VIII, p. 99.
14 Giangiacomo Sarzi Sartori

e locali comunità di fedeli 15 sia pure aggiungendo l’avverbio quo-


dammodo, il cui significato non è facilmente esplicabile. Inoltre, i
preti condividono, seppur in parte, le funzioni del vescovo santifican-
do e governando la porzione del gregge loro affidata, rendendo visi-
bile nella loro sede la Chiesa universale e lavorando per l’edificazio-
ne di tutto il Corpo di Cristo 16. In quanto “aiuto e organo” dell’ordine
episcopale, il presbitero esercita parecchie funzioni a servizio del po-
polo di Dio («ad populum Dei inserviendum vocati»), ma tutte trova-
no un loro compendio nella fondamentale posizione di “rendere pre-
sente” il vescovo nelle comunità locali unite attraverso la Chiesa par-
ticolare a tutta la Chiesa. In realtà, se con il vescovo i preti formano
un unico presbiterio e un unico corpo sacerdotale, sebbene destina-
to a uffici diversi, partecipano anche all’ampiezza della missione epi-
scopale che è per il bene di tutta la Chiesa 17.
Successivamente il numero 28 di LG considera in modo più e-
splicito i rapporti dei sacerdoti con il loro vescovo e fra di loro utiliz-
zando una sola parola che riassume emblematicamente tutto questo
tema, quella di presbyterium, termine che appartiene alla tradizione
più antica – come testimoniano le fonti patristiche citate in nota dal
testo conciliare – e che lentamente aveva perduto il suo rilievo favo-
rendo un certo individualismo nel clero e nel ministero pastorale. La
riscoperta della collegialità episcopale e l’accresciuta coscienza della
solidarietà nell’opera missionaria, hanno senz’altro condotto alla ri-
valorizzazione del presbyterium non soltanto per una questione di uti-
lità pratica o per il condizionamento proveniente dalle difficili circo-
stanze in cui oggi si opera. L’unità tra vescovo e preti in un unico
presbiterio si inserisce, invece, in un ordine normale e necessario ed
esprime una complementarità reale che li unisce per lo svolgimento
della loro missione e richiede una piena comunione. Poiché il vesco-
vo è membro del collegio episcopale, risalta il fatto che la coopera-
zione con lui da parte dei presbiteri, dà all’attività pastorale una di-
mensione propriamente ecclesiale e universale in modo che, pur

15
«In singulis localibus fidelium congregationibus Episcopum, quocum fidenti et magno animo conso-
ciantur, quodammodo praesentem reddunt...».
16
«... eiusque munera et sua sollicitudine pro parte suscipiunt et cura cotidiana exercent... portionem
gregis dominici sibi addictam sanctificant et regunt, Ecclesiam universalem in suo loco visibilem faciunt
et in aedificando toto corpore Christi validam operam afferunt».
17
«Propter hanc in sacerdotio et missione participationem... corpori igitur Episcoporum, ratione ordinis
et ministerii, omnes sacerdotes... cooptantur et bono totius Ecclesiae pro sua vocatione et gratia inser-
viunt...».
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 15

operando in un luogo determinato o in ambiti limitati, il prete è asso-


ciato all’opera comune di edificazione della Chiesa intera. Questa so-
lidarietà viene dalla realtà stessa del sacerdozio condiviso dai due or-
dini gerarchici: come i vescovi partecipano alla grazia e alla missione
propria del collegio episcopale nella sua interezza, centrato attorno
al vescovo di Roma, successore di Pietro, e sotto la sua guida («cum
Petro et sub Petro»), così i presbiteri sono associati al vescovo in ma-
niera stretta e necessaria, anche se per loro non si può parlare pro-
priamente di un “collegio” in senso tecnico almeno rimanendo nelle
intenzioni di questo articolo del De Ecclesia 18. D’altro canto la distin-
zione dei ruoli resta intatta e l’inalterata autorità del vescovo è richia-
mata insistentemente in questo paragrafo. Se, infatti, i preti sono in
unità col vescovo («cum suo Episcopo»), è anche vero che esercitano
parecchie funzioni condividendo i munera episcopali, sempre sotto
l’autorità del vescovo: «Qui sub auctoritate Episcopi portionem gregis
dominici sibi addictam sanctificant et regunt...». Inoltre, se viene af-
fermata l’unità sacramentale e ministeriale che li vincola, è anche ri-
chiamato il fatto che proprio per questo la loro subordinazione è ri-
conoscimento della paternità del vescovo nei loro riguardi e della ri-
spettosa obbedienza che a lui devono («... presbyteri Episcopum vere
patrem suum agnoscant eique reverenter oboediant»). A questa rela-
zione di obbedienza e di fiducia che si deve instaurare con il vesco-
vo, risponde, però, un atteggiamento di affetto paterno e amicale:
«Episcopus vero sacerdotes cooperatores suos ut filios et amicos con-
sideret» 19.
Nella prospettiva pastorale che caratterizzò il Vaticano II, il deli-
cato problema dei rapporti tra vescovo e preti non fu studiato princi-
palmente per giungere a conclusioni di tipo dottrinale. Pur partendo
dal suo fondamento teologico, il tema fu considerato prevalentemen-
te nella sua valenza esistenziale, appunto perché si volle trattare l’ar-
gomento avendo presente la finalità tipicamente pastorale delle rela-
zioni tra i ministri sacri. In tal modo, la comunione tra vescovo e pre-
sbiteri, che congiunge cooperazione e obbedienza, si innesta nella
comunità del popolo di Dio e ad essa si riferisce, per realizzare la
missione di salvezza. Non bisogna, quindi, dimenticare che la descri-
zione di questo stile di obbedienza si ispira all’idea ferma della co-

18
Cf Relatio de n. 28, in AcSyn III-I, p. 258.
19
Oltre a LG 28b, cf anche PO 7 dove si parla invece di fratres.
16 Giangiacomo Sarzi Sartori

munione tra il ministero del vescovo e quello dei preti e che tale ob-
bedienza assume un’intonazione tutta particolare per il presbitero in
quanto si attua nell’ambito dello stesso ministero gerarchico ed è fi-
nalizzata – come anche l’autorità del vescovo – alla crescita della co-
munione e della comunità ecclesiale. Vescovo e preti, quindi, vivono
il loro servizio e la loro autorità in forma coordinata e diversificata,
ma ultimamente prestano obbedienza alle esigenze del disegno salvi-
fico circa la Chiesa e la sua missione. Ecco perché nel testo conciliare
il tema dell’obbedienza, nel rapporto tra presbiteri e vescovo, è colle-
gato a quello della Chiesa locale, e cioè delle comunità dei fedeli in
cui, sotto l’autorità episcopale («sub auctoritate») e non propriamen-
te nomine eius – come si ricorda nella relazione sullo schema del
1964 20 – i preti esercitano l’ufficio pastorale rendendo presente il ve-
scovo e condividendo in parte le sue funzioni e la sua sollecitudine.

I rapporti dei presbiteri tra loro (LG 28c)


Al fronte ineludibile del rapporto reciproco fra presbiteri nel
primo schema di costituzione del 1963 21 si dedicava soltanto un ac-
cenno, ma già nel testo della seconda redazione conciliare 22 – rima-
sta pressoché inalterata anche nella terza e ultima stesura – a questo
punto si riservava un’attenzione che fu accolta come un elemento in-
teressante e qualificante i lavori del Vaticano II. Per quanto concerne
le relazioni fra preti la costituzione parla, infatti, di un’intima frater-
nità, cioè di un fondamentale atteggiamento di fraternità che lega
realmente i presbiteri in forza dell’ordinazione e della missione che
li accomuna: «Vi communis sacrae ordinationis et missionis Presbyte-
ri omnes inter se intima fraternitate nectuntur...». Si sottolinea, poi,
che questa unità fraterna deve trovare attuazioni concrete, circa le
quali il testo offre solo qualche orientamento, e che deve indirizzarsi
a livello personale e comunitario ricercando comunione di vita, di la-
voro e di carità ed esprimendosi in una pastorale comune che favori-
sca tutte le forme di effettiva cooperazione sul piano spirituale e su
quello operativo. Il capoverso sembra troppo breve e sbrigativo per
la tematica che propone e che può essere direttamente consequen-
ziale a quel concetto di presbyterium di cui già si era parlato. Tutta-

20
Relatio de n. 28, in AcSyn III-I, p. 258.
21
Cf AcSyn II-I, p. 234.
22
Cf AcSyn III-I, p. 227.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 17

via, nei limiti di questo esiguo testo si nota l’intenzione di indicare


che la fraternità sacerdotale non nasce semplicemente dal sentimen-
to o da elementi di carattere pratico o di natura psicologica, sebbene
anch’essi rivestano una loro importanza, ma che è fondata su motiva-
zioni che hanno una più profonda solidità. La fraternità sacerdotale
deriva dal dono della vocazione e dalla grazia dell’ordinazione che
configura a Cristo; da un mandato pastorale che rende i preti parte-
cipi della missione di Cristo e della Chiesa. La comunione fra preti,
dunque, si basa su ragioni oggettive, su un legame ontologico che
ha la sua radice nel sacerdozio di Cristo e che poi diviene assimila-
zione soggettiva e cammino personale, presa di coscienza coerente
del rapporto comunionale – già esistente, ma che deve diventare co-
sciente ed effettivo – tra coloro che sono chiamati al medesimo ser-
vizio, sino a dar luogo non solo a fraternità umana e spirituale, ma
soprattutto a “fraternità ministeriale” e a convincente corresponsabi-
lità pastorale nell’unico presbiterio diocesano.

La rilevanza di Presbyterorum ordinis


nel cammino conciliare
Lo studio sul ministero e la vita dei presbiteri nell’evoluzione
del cammino conciliare mostra come la conclusione di questo itine-
rario storico-dottrinale e, quindi, il frutto maturo di tutta la riflessio-
ne del Vaticano II su questo tema, si raccolga nel decreto Presbytero-
rum ordinis 23. Il testo del decreto è passato attraverso sette redazio-
ni diverse fino a quella votata e approvata dai padri conciliari il 7
dicembre 1965. Il documento conobbe una storia lunga e complessa;
subì e affrontò diverse traversie nelle varie fasi della sua redazione.
Ma ciò che colpisce – e contrasta con gli ostacoli e le difficoltà inizia-

23
Le problematiche inerenti alla vita e al ministero dei preti e presenti soprattutto in altri due docu-
menti conciliari, la costituzione Lumen gentium e il decreto Ad gentes, vanno dunque lette alla luce di
PO. Questo testo che rappresenta la maturazione del Concilio su questo tema, come dimostra la storia
del Vaticano II e la lunga e travagliata vicenda della redazione dei documenti conciliari con il dibatti-
mento circa i problemi affrontati, il confronto fra posizioni differenti, la valorizzazione dei vari apporti:
quelli dei Padri, delle commissioni e degli esperti che a livelli diversi hanno contribuito alla laboriosa
formazione dei testi del Concilio. Cf J. FRISQUE, Le décret “Presbyterorum Ordinis”. Histoire et commen-
taire, in AA.VV., Les prêtres. Formation, ministère et vie, sous la direction de J. FRISQUE et Y. CONGAR,
coll. Unam Sanctam 68, Paris 1968, pp. 123-185; R. WASSELYNCK, Les Prêtres. Elaboration du dècret de
Vatican II. Histoire et genèse des textes conciliaires, Paris 1968, e vari contributi pubblicati in: A. FAVALE
(a cura di), I sacerdoti nello spirito del Vaticano II, Torino-Leumann 1968 e in G. BARAUNA (a cura di),
La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla costituzione dommatica “Lumen Gentium”, Fi-
renze 1965.
18 Giangiacomo Sarzi Sartori

li – è la rapidità e la determinazione con le quali nell’ultima sessione,


in meno di due mesi, il Concilio ha messo a punto un testo di notevo-
le valore sia per la forma sia per l’impostazione e i contenuti che ha
saputo trasmettere. L’appello emblematico e un po’ angosciato del
primo intervento nell’aula conciliare circa lo schema di decreto sui
presbiteri, il 13 ottobre 1964: «Domando uno schema nuovo che ri-
sponda all’attesa dei miei preti» 24, fu accolto ed esaudito. L’analisi
delle diverse tappe di questa difficile elaborazione è illuminante e
proficua perché mostra come, sul ministero presbiterale, il Concilio
sia arrivato a darci una nozione e delle indicazioni che – pur non
esaustive e bisognose di ulteriori chiarimenti – sono più profonde e
più ampie di quanto non sembri o sia stato comunemente recepito 25.
Il suo pensiero, infatti, ricollega il ministero, da un lato alla sor-
gente: il Cristo, sacerdote e pastore, dall’altro alla missione di salvez-
za che Gesù ha affidato ai suoi apostoli nella Chiesa, e attraverso di
loro, ai vescovi e ai presbiteri, sacerdoti e pastori della nuova allean-
za. In questa visione tutto prende una luce nuova e trasformante. Il
presbitero non appare soltanto come un “uomo di Chiesa” che cerca
di adempiere nel modo migliore delle funzioni ecclesiastiche o dei ri-
ti esteriori, ma è sostanzialmente un “inviato”, depositario di un man-
dato divino. La sua identità è esprimibile con la formula “vocazione-
consacrazione-missione”. Il servizio pastorale, a cui il prete si dispo-
ne interamente, è servizio alla missione di Gesù-Salvatore nella
Chiesa e nel mondo. In tal modo, si manifesta ai presbiteri il senso
profondo della loro ordinazione; il cammino della propria santifica-
zione; il valore e l’ampiezza del loro lavoro ministeriale in unità con
l’ordine dei vescovi e per ogni prete nella communio col proprio ve-
scovo diocesano; nella fraternità con gli altri sacerdoti del presbite-
rio e con tutto il popolo cristiano.

24
Fu l’intervento del cardinale A.G. MEYER arcivescovo di Chicago (U.S.A.): cf AcSyn III-IV, pp. 244-245.
25
Alcuni giorni prima della sua promulgazione fu posta esplicitamente alla commissione la domanda
circa il tipo di documento che si doveva pubblicare: 47 Padri chiesero che fosse denominato “costitu-
zione” e non “decreto”, perché il carattere dottrinale dello schema e la sua importanza esigevano che
venisse presentato con maggior rilievo rispetto ad altri testi prodotti dal Concilio. La domanda rivelava
la consapevolezza diffusa circa il valore e il peso di PO che si stava per approvare e anche circa l’esi-
genza che riguardo ai preti si dovesse emanare un testo di rilevante impegno dottrinale e pastorale che
si occupasse più accuratamente dei loro problemi, della loro collocazione nella Chiesa e del loro speci-
fico ministero. Lo si mantenne come “decreto” perché, pur trattandosi di un’esposizione dottrinale sulla
natura del presbiterato, il documento concerneva soprattutto l’esercizio pastorale del ministero e l’ordi-
namento (ratio) della vita sacerdotale. Inoltre, la dottrina sul presbiterato era già stata esposta in LG,
insieme a quella sull’episcopato. Quindi era giusto denominare come “decreti” i due successivi testi sui
preti e sull’ufficio pastorale dei vescovi (CD), cf Modi generales 1, in AcSyn IV-VII, p. 114.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 19

Lo “schema” iniziale (I sessione del Concilio)


La prima sessione del Vaticano II (ottobre-dicembre 1962) non
ebbe assolutamente il tempo di occuparsi dei problemi che riguarda-
vano i preti. Il Concilio studiò e mise a punto la riforma liturgica e si
trovò a confronto con gli schemi De Ecclesia e De Revelatione che
generalmente non piacquero e, quindi, furono accolti senza alcun en-
tusiasmo. Come per ogni altro schema, il punto di partenza del de-
creto va ricercato nelle richieste fatte pervenire a Roma nella fase
preparatoria da quanti furono interpellati per volere di papa Giovan-
ni XXIII. Tra le propositiones che compendiavano quelle richieste,
768 toccavano il problema del clero in genere sotto il profilo giuridi-
co-disciplinare e ascetico-pastorale 26. L’esame dei problemi inerenti
alla vita ecclesiastica venne affidato alla «Commissione per la disci-
plina del clero e del popolo cristiano», presieduta dal cardinale P. Ci-
riaci, a cui fu assegnata anche lo studio di temi quali: la distribuzione
del clero, l’inamovibilità dei parroci, l’abito ecclesiastico e i benefici
ecclesiastici. La commissione suddivise il lavoro tra 20 sottocommis-
sioni ed elaborò 17 schemi di decreti discussi poi dalla commissione
centrale nelle sessioni del novembre 1961 e del febbraio, maggio e
giugno 1962. Alcuni di questi schemi riguardavano direttamente il
clero a proposito di questi temi: obblighi dei parroci; doveri dei par-
roci circa la cura delle anime; provvisione, unione e divisione delle
parrocchie; promozione di ex ministri cattolici agli ordini sacri; l’abi-
to ecclesiastico e la tonsura; santità di vita del clero; uffici, benefici
ecclesiastici e amministrazione dei beni; distribuzione del clero. Do-
po la decisione di ridurre drasticamente la materia da proporre al
Concilio, si stabilì che parte del contenuto degli schemi sugli obbli-
ghi dei parroci fosse demandata alla commissione per la revisione
del Codice e il resto venisse inserito in un Manuale Parochorum. Il
materiale relativo alla provvisione, unione e divisione delle parroc-
chie, venne conglobato, dopo vari ritocchi, nello schema sui vescovi
e il governo delle diocesi. Lo schema concernente l’abito ecclesiasti-
co e la tonsura, dopo l’esame della commissione centrale del 14 no-
vembre 1961, non comparve più tra i lavori preparatori perché – così
si disse – di tali questioni non occorreva che si occupasse il Concilio.

26
Cf Acta et Documenta Concilio Oecumenico Vaticano Secundo apparando, Typis Polyglottis Vaticanis,
Città del Vaticano 1960-1969, I-II Appendix I, pp. 255-335. A proposito dei chierici “in specie”, cf ibid.,
pp. 336-586. Circa il ministero dei parroci, dei vicari parrocchiali e del clero cosiddetto “ausiliario”, e
del tema della cura delle anime, cf ibid., pp. 532-586.
20 Giangiacomo Sarzi Sartori

Cinque giorni prima che finisse la sessione iniziale del Vaticano II, la
commissione De disciplina cleri et populi christiani tenne, malgrado
tutto, la sua prima riunione plenaria fissando il proprio calendario ed
esaminando i quattro schemi preparati dalle commissioni preconci-
liari con la collaborazione della Curia Romana. Lo schema circa «Le
associazioni dei fedeli» fu rinviato alla commissione dei laici e gli al-
tri tre («La santità di vita dei chierici»; «Gli uffici e benefici dei chie-
rici»; «La ripartizione del clero») furono considerati come altrettanti
capitoli di un unico documento. Su questo trittico i membri della
commissione lavorarono tre mesi (dicembre 1962 - febbraio 1963)
raccogliendo ben 360 osservazioni e note e sistemando i vari punti di
vista. Quattro sottocommissioni, formate da otto membri delegati e
da venti esperti, si divisero l’impegnativo lavoro prima di riunirsi e
mettere a punto un primo testo, quello che sarebbe stato lo schema
«De Clericis». Il 9 marzo 1963 questo schema fu trasmesso alla com-
missione di coordinamento del Concilio e fu approvato il 25 marzo.
Un mese dopo Giovanni XXIII lo inviò ai vescovi. Il testo comprende-
va 43 numeri o paragrafi in tre capitoli: De vitae sacerdotalis perfec-
tione; De studio et scientia pastorali; De recto usu bonorum e un’esor-
tazione sulla distribuzione del clero. Questi quattro punti particolari
si trovano anche nelle stesure successive con modificazioni più o
meno rilevanti; ma questa scelta iniziale è indicatrice sia del genere
di preoccupazioni verso i preti suscitate dal Concilio nella sua prima
sessione, sia dello spirito che in quel momento presiedeva alla reda-
zione di un testo sui preti. Non si era ancora consapevoli del fatto
che l’esercizio del ministero presbiterale poneva problemi di fondo
che implicavano un approfondimento della dottrina e un legame al-
l’obiettivo pastorale che il Papa stesso aveva fissato per il Vaticano II.

L’elaborazione del decreto dalla II sessione conciliare


Nell’estate 1963 si raccolsero 464 animadversiones inviate da
237 Padri, successivamente esaminate ancora dalle quattro sotto-
commissioni dopo l’inizio dei lavori della seconda sessione concilia-
re che papa Paolo VI aveva solennemente aperto il 29 settembre. In
base alle risposte alle singole osservazioni e con l’introduzione degli
emendamenti opportuni proposti nelle riunioni plenarie del novem-
bre 1963, i 43 numeri del De Clericis corretti e rimaneggiati divenne-
ro un testo di 39 articoli sotto un nuovo titolo: De Sacerdotibus. Lo
schema constava di un proemio, tre capitoli e una esortazione di cui
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 21

la lunga relazione accompagnatoria spiegava le ragioni 27. Ma il testo


nuovo non poté essere presentato all’assemblea perché il dibattito
sul De Ecclesia aveva occupato un tempo più lungo del previsto. Nel
frattempo, il Concilio prendeva coscienza che molti preti erano ram-
maricati constatando che il tema del ministero sacerdotale era consi-
derato come secondario rispetto ad altri, come si trattasse di un ar-
gomento di cui si sarebbe parlato più tardi..., avendone il tempo. Per
contrastare questo diffuso malessere fu lanciata l’idea di far votare,
senza più attendere, un Messaggio del Concilio a tutti i preti del mon-
do, per mostrare come la missione presbiterale fosse legata a quella
episcopale e rimarcare con particolari accenti l’idea del presbyterium
diocesano. Non possiamo qui addentrarci nella storia alquanto inte-
ressante e travagliata di questo Messaggio e della eco che si creò at-
torno a esso 28; basti ricordare che dopo varie vicissitudini il segreta-
rio generale P. Felici, il 2 dicembre 1963, comunicava che per diver-
se ragioni la realizzazione del progetto veniva rinviata allo scopo di
perfezionare la dichiarazione in base ai suggerimenti ricevuti. Ci fu
grande delusione, ma la decisione si rivelò saggia, perché ci si rese
conto in modo più consapevole che i problemi dottrinali circa il pre-
sbiterato nella Chiesa non erano così semplici come si riteneva e che
anche sul piano pastorale era urgente considerare in maniera seria
la situazione esistente. Chiudendo il secondo periodo del Concilio lo
stesso Paolo VI ritornò su questo sfortunato progetto e affidò ai ve-
scovi che tornavano nelle loro diocesi l’idea che l’assise ecumenica
non aveva portato a compimento.
Il testo del De Sacerdotibus doveva essere inviato ai padri all’ini-
zio del 1964, ma un provvedimento generale del Concilio aveva deci-
so che, per accelerare i lavori, si distinguessero due tipi di testi: gli
uni sarebbero state vere e proprie esposizioni sulle tematiche di
maggior consistenza; gli altri sarebbero stati ridotti a dei principi, a
una semplice serie di proposizioni (schema propositionum), per la
cui approvazione si sarebbe seguita una procedura di voto molto più
rapida. Anche lo schema sui preti fu così ridotto a una decina di pro-
posizioni che non occorreva discutere, ma bastava votare in blocco
perché non contenevano che alcuni principi generali sui quali si sa-

27
De recognitione schematis De Clericis seu de primigenia redatione schematis De Sacerdotibus, in Ac-
Syn III-IV, pp. 854-881.
28
Cf A. WENGER, Vatican II. Chronique de la deuxième session, Paris 1964, pp. 200-210; G. CAPRILE, Il
Concilio Vaticano II, vol. III, Roma 1968, pp. 399-400; 405-406.
22 Giangiacomo Sarzi Sartori

rebbe dovuto trovare celermente il consenso dell’assemblea. Il 17


aprile 1964 apparve la nuova edizione del De sacerdotibus in forma di
proposizioni unitamente a un resoconto dei diversi passaggi cono-
sciuti dal testo, ma l’invio ai padri di questa prima stesura delle pro-
positiones sui preti sollevò un gran numero di proteste per la drastica
riduzione a cui lo schema era stato sottoposto e per la poca attenzio-
ne che il Concilio sembrava dedicare ai diretti collaboratori dei ve-
scovi. In realtà, si era già compiuto un evidente mutamento di pro-
spettiva. Nel primo schema la riflessione sul presbiterato risaltava
immediatamente per una lettura troppo individualista in cui il prete
era considerato per se stesso, come un cristiano che deve tendere
più di ogni altro alla santità ed era visto nel contesto di un ministero
quasi solamente cultuale; invece con lo schema di proposizioni si co-
minciava a considerare la vita del presbitero nel suo rapporto essen-
ziale con il ministero e la missione apostolica, e a situare il suo servi-
zio in un contesto reale e secondo indicazioni meno distaccate e
astratte. Inoltre, proprio in queste proposizioni si comincia a mettere
in evidenza il vincolo di carità fraterna che sussiste tra i preti e si
tende a considerare l’obbedienza in un’ottica di corresponsabilità
che deve superare, cioè, l’esecuzione pura e semplice degli ordini ri-
cevuti dai superiori. Questo schema di proposizioni non fu sottopo-
sto alla discussione conciliare perché dopo una prima analisi fu pre-
disposta una stesura nuova, più ricca da un punto di vista dottrinale.
Agli inizi di ottobre del 1964 la commissione presentò un testo rima-
neggiato anche con l’introduzione di nuove proposizioni e tematiche
dal titolo: Schema propositionum De vita et ministerio sacerdotali.
Una delle novità rilevanti di questo testo consiste nell’inserimento di
un maggior richiamo alla fraternità sacerdotale e nell’esortazione ai
vescovi ad avere una dedizione premurosa per il bene spirituale e
corporale dei loro sacerdoti («... ex obligatione iustitiae respondendi
ad amorem filialem et completam unionem cum Episcopo quae presby-
teris exiguntur») 29: questo punto diventa un paragrafo a sé stante (nu-
mero 4: «Sacerdotum inter se confraternitas»). Una seconda impor-
tante affermazione contenuta nel numero 7 («Sacerdotum sollicitudo
omnium ecclesiarum») riguarda il senso della partecipazione dei pre-
ti alla sollecitudine per tutte le Chiese e al desiderio apostolico di
promuoverne il bene in quanto cooperatori dell’ordine episcopale

29
Relatio de singulis propositionibus. De propositione n. 4, in AcSyn III-IV, p. 228.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 23

(«sunt cooperatores ordinis episcopalis»). Il tema della collegialità di-


scusso animatamente intorno al decreto sull’ufficio pastorale dei ve-
scovi aveva avuto qui una sua diretta conseguenza. L’ostacolo che
aveva fatto incespicare il famoso Messaggio ai preti sembrava rimos-
so e, nei testi come nei dibattimenti, ormai ci si impegnava più sere-
namente sul tema e sull’espressione di presbyterium che l’episcopato
francese aveva tanto sostenuto 30. Il primo esame dell’assemblea con-
ciliare su uno schema dedicato ai preti si iniziò il 13 ottobre 1964 e
dopo quattro giorni di dibattito il testo venne respinto chiedendone
una profonda rielaborazione. Il 12 novembre già veniva presentato
un testo nuovo ed emendato, frutto delle osservazioni orali e scritte
pervenute alla commissione e di un lavoro intenso ed accurato che
tenne conto di ben 445 proposte giunte ai redattori. Lo schema ela-
borato – il quarto – si intitolava: De ministerio et vita presbyterorum e
in esso si trovavano già i principali lineamenti del decreto attuale (ol-
tre al Proemio, completamente nuovo, mostrava la divisione in due
parti: Il ministero dei presbiteri, numeri 1-11; La vita dei presbiteri,
numeri 12-20). Fu consegnato ai vescovi il 20 novembre 1964, prima
che lasciassero Roma il giorno seguente a causa della anticipata fine
della sessione conciliare decisa per permettere a numerosi Padri di
partecipare al Congresso Eucaristico di Bombay, dove si recava an-
che papa Paolo VI. Il cambiamento del titolo e lo spirito del docu-
mento erano il segno di un maggior chiarimento nel pensiero e di
una attenzione specifica nella proposta verso i presbiteri, uniti al ve-
scovo e insieme a lui partecipi dello stesso sacerdozio di Cristo. La
Relatio generalis sulla prima parte del testo, dedicata all’esposizione
della natura del presbiterato e della sua missione nella Chiesa, mise
fortemente in luce, tra l’altro, la stretta e necessaria relazione tra ve-
scovo e presbiterio e i rapporti di fraternità e cooperazione tra i
preti 31. Lo schema, tuttavia, non fu oggetto di discussione in aula e
servì solo come preparazione di un testo corretto da presentare al

30
Cf Relatio del vescovo Marty con cui fu presentato lo schema nella centesima congregazione gene-
rale, in AcSyn III-IV, p. 242; la cronaca circa la discussione in aula sul problema della collegialità e del
presbyterium, in G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II. Secondo Periodo (1963-1964), vol. III, Roma 1966.
31
«... Hoc fundamento doctrinali innixi, describimus arctas relationes ac necessariam unitatem quae
Episcopos inter et Presbyterium intercedunt, nec non confraternitatem qua Presbyteri invicem devinciun-
tur et cooperationem, quae in omnibus quidem, sed praesertim in labore pastorali, propter communem
participationem in sacerdotio Christi et in communitate missionis ac responsabilitatis Presbyterii, inter
omnes Presbyteros vigere habet», in AcSyn IV-IV, pp. 830-832.
24 Giangiacomo Sarzi Sartori

pubblico dibattimento. Entro il mese di gennaio del 1965 dovevano


essere raccolte le animadversiones scritte, ma le proposte continua-
rono ad affluire fino ad aprile: si raggiunse il numero di 523 osserva-
zioni da parte di oltre 200 Padri di 30 nazioni diverse; ma furono
chiesti interventi anche da parte di molti periti e di alcuni parroci.
Nel corso della quarta ed ultima sessione del Concilio lo Schema de-
creti – il quinto – venne presentato in aula per la discussione del 13
ottobre 1965. Si trattò senza dubbio della fase più costruttiva per la
storia del decreto non più perché si doveva mettere in questione il
testo proposto, ma perché il Concilio aveva già parzialmente votato,
se non già promulgato sia la costituzione sulla Chiesa (LG 29 ottobre
1964), sia il decreto sulla missione pastorale dei vescovi (CD 28 otto-
bre 1965), mentre stava ancora lavorando attorno al decreto sull’atti-
vità missionaria (AG) che sarebbe stato promulgato assieme a PO.
La teologia sul sacerdozio, quindi, si era precisata, aveva compiuto
un certo cammino di maturazione di cui il decreto sui preti poteva
beneficiare, precisando meglio il discorso in base ai grandi orienta-
menti dottrinali e pastorali che provenivano dalla riflessione sulla
Chiesa e sul sacerdozio cristiano sviluppatasi nel Concilio.
Il dibattito si chiuse il 16 ottobre, ma alla commissione rimane-
va ancora l’onere di emendare il testo prima di proporre il documen-
to al voto decisivo, capitolo per capitolo. L’équipe ebbe un nuovo pe-
riodo di intenso lavoro fino al 31 ottobre. Le proposte di migliora-
mento del testo riguardavano soprattutto la sua forma e meno il
contenuto perché ormai acquisito dalla quasi totalità dei Padri, salvo
qualche punto che avrebbe avuto ancora bisogno di precisazioni co-
me la questione del coetus presbyterorum. La revisione produsse una
nuova redazione dello Schema decreti – si trattava della sesta stesura
del documento – che fu consegnata il 9 novembre del 1965 e che
presentava una diversa organizzazione della materia, un ordine più
logico e un progetto più organico nella concatenazione delle diverse
parti. In tutte le votazioni il testo ricevette il consenso richiesto, ma
tutte le parti dello schema raccolsero anche un numero ragguarde-
vole di placet iuxta modum. Il numero più elevato di voti negativi si
riferiva ai numeri 8 e 9 che trattavano dell’unione fraterna e della
cooperazione tra i preti e dei rapporti tra preti e laici, mentre per i
numeri sulle questioni fondamentali circa la natura del sacerdozio
ministeriale (n. 2), il ministero proprio dei preti e le sue funzioni (nn.
4, 5 e 6), e la relazione tra preti e vescovo (n. 7) la votazione rivelò
un altissimo consenso. La sostanza del testo non poteva più essere
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 25

modificata, ma dopo l’esame dei Modi 32 fu predisposta quella che poi


divenne la formulazione definitiva del decreto PO con le debite giu-
stificazioni per ogni osservazione ritenuta o respinta dalla commis-
sione. Completato il 23 novembre – era la settima edizione – il testo,
accompagnato dalla expensio modorum, fu affidato ai Padri e ritornò
in aula il 2 dicembre per essere presentato dal relatore, l’arcivescovo
F. Marty, e venire definitivamente ratificato dall’assemblea conciliare
prima con suffragazioni parziali e poi con la votazione globale dello
schema nel suo insieme. Su 2.257 votanti, 2.243 si espressero a favo-
re e 11 contro; i voti nulli furono 3. Lo schema, approvato in sede di
Congregazione generale, durante l’ultima sessione pubblica – quella
conclusiva del concilio Vaticano II – il 7 dicembre 1965 veniva appro-
vato in forma solenne dai Padri conciliari e promulgato da Paolo VI
col titolo: «De Presbyterorum ministerio et vita» 33 o, più notoriamen-
te, secondo le sue prime parole: Presbyterorum ordinis.

Le relazioni tra il vescovo e i presbiteri (PO 7)


Nei testi redatti anteriormenente allo schema del novembre
1964, l’idea stessa della relazione tra vescovo e presbiteri e, a fortio-
ri il vocabolario presente nel decreto finale, erano completamente
assenti. Non si parlava di “relazioni” o di “rapporti” né di “presbite-
rio”; il vescovo veniva normalmente chiamato “ordinario”. Si era
molto lontani, cioè, dall’atmosfera e dai contenuti del testo definitivo
del 1965. Nei primi due schemi (il De Clericis presentato nell’aprile
del 1963, e il De Sacerdotibus del novembre dello stesso anno) 34 gli
elementi evocati circa il legame dei presbiteri con il loro vescovo ri-
guardano solo richiami formali e, quando lo schema fu ridotto in
proposizioni (marzo 1964) 35, secondo un orientamento del Concilio
successivamente smentito, si fecero sparire tutte le tracce di un di-
scorso che riguardasse questa tematica tranne qualche fugace inci-
so. Nella presentazione fatta dal vescovo Marty nell’aula conciliare,

32
I suffragi placet iuxta modum furono 2.198; 5.671 “modi” furono presentati dai Padri come interpel-
lanze di emendamento relative a diversi punti dello schema; in totale se ne registrarono ben 9.430.
33
I risultati furono i seguenti: votanti 2.394; voti favorevoli 2.390; voti contrari 4. Il titolo fu ritoccato al-
l’ultimo momento, latinitatis causa, cf modus 4, in AcSyn IV-VII, p. 115.
34
Schema decreti De Clericis, in AcSyn III-IV, pp. 825-845; Schema decreti De sacerdotibus, in ibid.,
pp. 846-849.
35
Schema propositionum De vita et ministerio sacerdotali, in ibid., pp. 225-232.
26 Giangiacomo Sarzi Sartori

si trova un accenno a questo tema quando parla dei presbiteri che


operano sub ductu episcopi 36, e si riscontrano tre riferimenti nel te-
sto: nella seconda proposizione, dove si dice che i preti sono «cum
Episcopo coniuncti» 37; nella quarta in cui si legge: «ut partem cum
Episcopis habeant» 38, e nella quinta dove si parla di «intimam co-
niunctionem cum Episcopis servantes» 39 che i preti devono mantene-
re. Nel secondo schema di proposizioni (De vita et ministerio sacer-
dotali, ottobre 1964), nel numero riguardante la conformazione della
vita sacerdotale al Vangelo, si può scorgere una frase sull’obbedien-
za del presbitero che contiene un germe promettente per ciò che ri-
guarda l’esplicita fondazione dell’obbedienza e quindi del rapporto
col vescovo perché il tema è collegato alla partecipazione del presbi-
tero alla missione episcopale 40.
La stessa commissione conciliare ebbe modo di precisare che
in questo paragrafo si era insistito sulla necessaria unione col vesco-
vo e sull’obbedienza particolare che i presbiteri devono prestargli
come elementi che non si possono appoggiare soltanto sul potere e
sulla giurisdizione proprie del servizio episcopale, ma anche sulla
paternità spirituale che il vescovo ha assunto ed esercita e che è con-
ferita agli stessi presbiteri attraverso il sacramento dell’ordine, come
partecipazione alla missione episcopale 41. In tal modo si veniva in-
contro alle esigenze espresse da alcuni Padri conciliari francesi e so-
prattutto dai Padri di lingua tedesca e scandinava che nelle loro os-
servazioni insistevano sull’unità tra vescovo e presbiteri: un’unità nel
sacerdozio e nel ministero che permette di integrare in maniera ar-
monica cooperazione e dipendenza; fraternità e sincera obbedienza
nelle comuni responsabilità pastorali. Il dibattito dell’ottobre 1964 e
qualche intervento particolarmente vivace sottolinearono talune dif-
ficoltà nell’accoglimento del testo e chiesero che fosse superata la
prospettiva un poco rigida, immobile e giuridica – spesso aggravata
da un tono paternalistico da parte dei vescovi e da un certo “infantili-

36
Relatio circa rationem qua schema elaboratum est, in AcSyn III-IV, p. 850.
37
Ibid., p. 846 (numero 3 dello schema).
38
Ibid., p. 847 (numero 4 dello schema).
39
Ibid., pp. 847-848 (numero 5 dello schema).
40
Si trova questa affermazione: «Providi ordinis episcopalis cooperatores, unum sacerdotium et mini-
sterium Christi cum Episcopis et sub eorum ductu repraesentantes et exercentes, eisdem sincero amoris et
oboedientiae spiritu adhaereant, nec tantum quae praecipiuntur, sed etiam quae commendantur, gene-
roso animo adimpleant...», in AcSyn III-IV, pp. 226-227.
41
Cf Relatio de singulis propositionibus. De propositione n. 2, in ibid., pp. 235-236.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 27

smo” da parte dei presbiteri, abituale fino ad allora – nel delineare il


tipo di relazioni rispondente allo schema “autorità-obbedienza”, sen-
za alcuna motivazione di carattere teologico-dottrinale. Alcune inte-
ressanti animadversiones misero in luce che il rapporto tra vescovi e
presbiteri, fondato sicuramente su elementi di carattere sacramenta-
le e giuridico, ha bisogno anche di una vera maturità umana e di un
autentico equilibrio personale. Si tratta di superare uno stile di rela-
zione che scade nel formalismo e puntare su un “rapporto adulto” di
reale corresponsabilità.
Sebbene integri le poche righe dello schema precedente, il nu-
mero sulle relazioni tra vescovi e presbiterio dello schema prodotto
nel novembre del 1964, si può considerare radicalmente nuovo 42. Il
testo si presenta come prolungamento concreto della dottrina ine-
rente alla natura del presbiterato, all’esercizio delle tre funzioni sa-
cerdotali, alla scienza sacra e all’arte pastorale esposta fino a quel
punto dallo stesso schema. Non si deve, peraltro, dimenticare che
questo testo fu redatto proprio dopo il dibattito del settembre 1964
sul documento circa l’ufficio pastorale dei vescovi – il futuro decreto
Christus Dominus – dove si era affrontata, per un necessario chiari-
mento, la nozione di presbyterium 43. Il testo era molto più esteso ri-
spetto a quello che abbiamo ora, ma comprendeva due sviluppi circa
l’obbedienza e la missione universale del presbitero che, nel docu-
mento successivo, sarebbero stati trasferiti rispettivamente ai nume-
ri riguardanti l’obbedienza e il problema della distribuzione del cle-
ro. Eccettuate le revisioni apportate al testo per esigenze puramente
formali, le correzioni si concentrarono attorno ad alcune questioni
decisive: la prima si interroga sul tipo di unità che lega i presbiteri al
loro vescovo, al collegio episcopale o all’ordine dei vescovi; la secon-
da affronta il tema dell’unità di consacrazione e missione che esige
la hierarchica communio; la terza si riferisce alla relazione tra vesco-
vo e presbiterio come relazione di autorità e di dialogo; la quarta
vuole delineare ciò che si intende per coetus o senatus come organi-
smo che si deve istituire in ogni diocesi.

42
Schema decreti De ministerio et vita presbyterorum, n. 7, in AcSyn, IV-IV, pp. 840-843.
43
Nei giorni 18, 21-23 settembre 1964 gli interventi dei Padri nel pubblico dibattito che si tenne in ben
quattro congregazioni generali sullo schema De pastorali episcoporum munere in Ecclesia furono qua-
si esclusivamente incentrati attorno al tema vescovo-presbiterio, cf G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II,
vol. IV, Roma 1965, pp. 28-40.
28 Giangiacomo Sarzi Sartori

I presbiteri uniti all’ordine dei vescovi


Nel corso del dibattito tenutosi nell’ottobre 1964, emerse vigo-
rosamente l’intervento dell’arcivescovo di Alep dei Maroniti (Siria)
F. Ayoub che parlò con franchezza a favore della rivalorizzazione del
presbyterium, la cui realtà avrebbe dovuto poco a poco creare un
nuovo spirito e una diversa modalità nelle relazioni tra il vescovo e il
clero della diocesi 44. Questo Padre mise in rilievo l’unione organica
che lega i sacerdoti al vescovo in quella struttura comunitaria e ge-
rarchica costituita dal presbyterium: i sacerdoti formano col vescovo
una comunità di vita, condividono le medesime sollecitudini e spe-
ranze; la loro unione trova il suo fondamento nell’Eucaristia, cioè in
Cristo che li raduna nello stesso corpo, nello stesso sacrificio, nello
stesso amore, nel medesimo spirito evangelico e missionario. In que-
sta luce assumono significato anche le responsabilità proprie del pre-
sbitero.
Con lui un gran numero di Padri conciliari formulò lo stesso vo-
to e nelle osservazioni inviate alla commissione, richiese che la ne-
cessità di strette relazioni (arctae relationes) tra vescovo e presbiteri
fosse esposta con maggiore ampiezza e con giustificata insistenza in
maniera tale che queste “relazioni” risultassero teologicamente fon-
date e quindi non più presentate semplicisticamente in base allo
schema “superiore-inferiore” – estremamente riduttivo e difficilmen-
te accettabile – ma in riferimento all’unità che deriva dal comune sa-
cerdozio e dalla comune missione. Così, in effetti, dichiara il testo
dello schema:

«Presbyteri omnes unum sacerdotium et ministerium Christi cum Episcopis et


sub eorum ductu ita repraesentant, ut ipsa unitas missionis omnino requirat
omnimodam eorum unitatem cum Collegio Episcoporum, cuius providi coope-
ratores facti sunt» 45.

Ma le proposizioni inserite nel documento del novembre 1964


provocarono una serie di reazioni assai lucide e schiette che portaro-
no al mutamento della formula «cum Collegio Episcoporum». Nello
schema successivo, infatti, si trasformò in quella di «cum Episcopo-
rum Ordine», sostenuta da una lunga giustificazione da parte della

44
Cf AcSyn III-IV, pp. 256-257.
45
AcSyn IV-IV, p. 840.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 29

commissione 46 con la quale si precisa che la nuova espressione uti-


lizza una formula della liturgia romana per l’ordinazione dei presbite-
ri e che si ritiene di dover mantenere questa formula generale in
quanto non è possibile negare l’unità di tutti i presbiteri con tutto
l’ordine dei vescovi. Non si può sostenere che con l’ordinazione il
presbitero diventi cooperatore soltanto del proprio vescovo, altri-
menti non si giustificherebbero né l’ordinazione dei preti religiosi né
il passaggio di un prete a un’altra diocesi. Questa stessa idea veniva
riespressa dalla relazione che presentava ufficialmente lo schema
«De ministerio et vita presbyterorum. Textus recognitus» 47 e nella qua-
le il vescovo Marty spiegava come, partendo dalla dottrina esposta
nella costituzione sulla Chiesa, la commissione, presupponendo quel
solido fondamento, nella elaborazione del testo avesse presentato i
suoi contenuti essenziali ponendoli in una luce più chiara. Per que-
sto venne descritta la missione pastorale del presbitero come essen-
zialmente congiunta con la missione apostolica che Cristo affidò in
modo peculiare agli apostoli e alla quale essi partecipano per l’edifi-
cazione della Chiesa e in forza dell’ordinazione sacerdotale con la
quale sono configurati speciali modo a Cristo. Questa missione pasto-
rale si pone per se stessa (ex se ipsa) con un’ampiezza universale
che ha le stesse dimensioni della missione della Chiesa, come risulta
anche dalla celebrazione dell’Eucaristia. Pertanto, tale missione col-
loca pienamente il presbitero nell’unità della comunione ecclesiale
così da renderlo cooperatore dell’ordine episcopale. Assieme agli al-
tri presbiteri, poi, egli forma il presbiterio del vescovo (Presbyterium
Episcopi). La missione pastorale del presbitero, quindi, come si sot-
tolinea nel quinto schema di decreto, viene esercitata «in persona
Christi et Ecclesiae» 48.
Le ultime due redazioni del testo (novembre-dicembre 1965)
non apportarono alcun’altra modificazione in riferimento a questo te-
ma al di fuori della notifica riguardante la concelebrazione eucaristi-
ca come segno e momento culminante dell’unità del vescovo e del
suo presbiterio (cf PO 7a).

46
Relationes de singulis numeris. De numero 6 (C), in AcSyn IV-IV, p. 381.
47
Cf ibid., pp. 389-392.
48
«Presbyteri omnes unum idemque Christi sacerdotium et ministerium per Episcopos et sub eorum auc-
toritate ita participant, ut ipsa unitas missionis requirat omnimodam eorum unitatem cum Episcoporum
Ordine, cuius cooperatores facti sunt», ibid., p. 346.
30 Giangiacomo Sarzi Sartori

L’unità di consacrazione e missione e la communio hierarchica


Una delle novità che presenta la redazione del sesto schema
sulla descrizione dei rapporti che intercorrono tra vescovo e presbi-
terio è l’introduzione di un’espressione che ebbe grande rilievo nel-
l’evoluzione del pensiero conciliare. Si dice, infatti:
«Presbyteri omnes, una cum Episcopis, unum idemque sacerdotium et ministe-
rium Christi ita participant ut ipsa unitas consecrationis missionisque requi-
rat hierarchicam eorum communionem cum Ordine Episcoporum» 49.

Questa frase resta uguale anche nella stesura definitiva del de-
creto con l’unica aggiunta di una nota che rimanda al testo di LG 28
laddove, pur non essendo utilizzata la formula hierarchica communio,
si parla delle relazioni tra vescovi e presbiteri in termini di coopera-
zione e collaborazione («providi cooperatores eiusque adiutorium et
organum») e di unità («unum presbyterium cum suo Episcopo consti-
tuunt [...] magno animo consociantur»: LG 28b), ma senza l’evidente
forza dell’espressione usata nel decreto Presbyterorum ordinis.
Considerando la storia del testo, appare il progresso che si è
compiuto, passando da uno schema all’altro, nell’approfondimento e
nella specificazione circa il rapporto che lega vescovi e presbiteri e,
di conseguenza, nell’uso di un vocabolario sempre più calcolato.
Già nella fase iniziale dei primi tre schemi si nota un certo cam-
mino. Nel primo schema si parla di «vinculum unitatis» 50 tra l’ordina-
rio e i suoi cooperatori; nel secondo schema si scopre una maggiore
insistenza su tale unità e cambia la terminologia poiché si preferisce
parlare di «intimam coniunctionem cum Episcopis servantes» 51, men-
tre trattando della santità con cui adempiere i propri uffici, di passag-
gio si annota che i presbiteri sono «cum Episcopo coniuncti» 52. Nel
terzo schema, poi, si dedica un nuovo spazio a questo tema e si co-
mincia a parlare della necessaria unione tra vescovi e presbiteri, che
esige la partecipazione alla missione episcopale e dell’«unum sacer-
dotium et ministerium Christi» che insieme esercitano 53. Si utilizza
poi una terminologia più incisiva («eisdem sincero amoris et oboe-

49
AcSyn IV-VI, p. 356.
50
Cf numero 22 dello schema, in AcSyn III-IV, p. 835.
51
Cf numero 5 dello schema, in ibid., p. 848.
52
Cf numero 3 dello schema, in ibid., p. 846.
53
Cf numero 2 dello schema, in ibid., p. 227.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 31

dientiae spiritu adhaereant») 54 e, per la prima volta, appare il termi-


ne communio («necnon filialem cum Episcopo communionem requi-
rat») 55. Il primo dibattito conciliare non mise in evidenza un parti-
colare interesse circa la determinazione più accurata del tipo di
rapporto che deve esistere tra vescovi e preti anche se molti parlaro-
no – sia pure un po’ astrattamente – dell’unità che deve caratterizza-
re tale rapporto. Vi furono, invece, alcuni interventi che diedero un
contributo positivo per l’elaborazione del testo successivo soffer-
mandosi soprattutto sulla realtà della partecipazione alla missione di
Cristo e del vescovo da parte dei preti. Nel quarto schema, infatti, si
nota lo sforzo di delineare meglio la collocazione ecclesiale del pre-
sbitero («positio Presbyterii in Ecclesia Hierarchica») 56 e, inoltre, si
comincia a parlare dell’incorporazione alla missione episcopale («u-
nitas missionis [...] participat de ipsa universali amplitudine missio-
nis a Christo Apostolis concreditae») 57 grazie alla partecipazione dei
presbiteri all’unico sacerdozio di Cristo. Per la prima volta se ne par-
la nei termini di consacrazione e missione 58. Su questo tema, tra le os-
servazioni che proponevano dei mutamenti nel testo, una in partico-
lare è stata accolta e riteniamo che sia di fondamentale rilievo per-
ché viene a puntualizzare ciò che sino ad ora non era stato chiarito:
la modalità, cioè, secondo la quale il ministero del presitero entra nel
suo concreto esercizio. Alcuni interventi scritti 59 precisarono che
non si poteva dire che la sola ordinazione conferisse la partecipazio-
ne alla missione episcopale da parte del presbitero, poiché si richie-
deva anche una giurisdizione. Quindi, la missio non è data formal-
mente e immediatamente attraverso il sacramento, il quale, invece,
conferisce la potestas Ordinis. Nel quinto schema, dunque, si legge:
«Quae sacerdotalis oboedientia speciali ratione fundatur in ipsa participatio-
ne ministerii episcopalis, quae Presbyteris per Sacramentum Ordinis et mis-
sionem canonicam confertur» 60.

54
L. cit.
55
L. cit.
56
Relationes de singulis numeris. De numero 1, in AcSyn IV-IV, p. 864.
57
Cf n. 7 dello schema, in ibid., pp. 840-843.
58
«Quae initiatio ut quaedam incorporatio missioni episcopali, ope specialis participationis sacerdotii
Christi, describi potest. Sicut enim, vi consecrationis suae Episcopi personae Christi Capitis sacramentali-
ter configurantur, eodem quamvis subordinato modo, Presbyteri, inquantum providi cooperatores Ordinis
Episcopalis, eidem Christo Capiti consecrantur», n. 1 dello schema, in ibid., pp. 834-835.
59
Ci riferiamo particolarmente a quelli del vescovo di Northampton (Gran Bretagna) T.L. Parker, e
dell’arcivescovo di Eracleopoli Maggiore P. Philippe, in ibid., pp. 945 e 950.
60
Numero 6 dello schema quinto, in ibid., p. 348 e Relationes de singulis numeris. De numero 6 (K), in
ibid., p. 382.
32 Giangiacomo Sarzi Sartori

Questa inserzione non verrà più mutata e apparirà nel testo fi-
nale del decreto (PO 7b) con la sola aggiunta di un inciso («Quae sa-
cerdotalis oboedientia, cooperationis spiritu perfusa, speciali ratione
fundatur...») introdotto nel sesto schema 61. Inoltre, rispondendo a un
modus 62 col quale si diceva che la missio canonica applica soltanto
quella potestas ministeriale che è già data dall’ordinazione sacerdota-
le, la commissione ribadisce il suo pensiero ritenendo sufficiente ciò
che era stato già detto nel testo. Tuttavia, nel documento si afferma
che la partecipazione al ministero episcopale deriva insieme dai due
elementi del sacramento dell’ordine e della missione canonica e,
spiegando quell’affermzione, si dice che, mentre la partecipazione
del presbitero (radicalis participatio) al ministero episcopale viene
conferita attraverso il sacramento dell’ordine, il suo esercizio si attua
attraverso la missio canonica. Permane, quindi, una certa ambiguità
di pensiero all’interno del Concilio e del gruppo di chi più diretta-
mente ha lavorato per la rielaborazione del documento.
Circa il punto riguardante la natura del rapporto tra vescovo e
presbiterio notiamo, invece, l’insistenza del quinto schema nel ri-
chiamare in vari momenti l’unità di consacrazione e missione, mal-
grado non si pervenga ancora ad esprimere questa relazione con
una formula sintetica. La sintesi non maturò nonostante fosse già
emerso l’uso dell’espressione communio hierarchica nelle osserva-
zioni dei Padri e fosse stato chiarito come l’ordinazione configuri al
sacerdozio di Cristo rendendo capaci di partecipare alla missione e-
piscopale, ma non consista anzitutto nell’incorporazione a questa
missio. Il testo, dunque, afferma: «... ipsa unitas missionis requirat
omnimodam eorum unitatem cum Episcoporum Ordine, cuius coope-
ratores facti sunt» 63.
Il dibattito verificatosi dopo questo schema mise in luce posizio-
ni molto diverse tra i Padri conciliari. Una prima linea è costituita da
coloro che considerano il sacramento dell’Ordine come la sorgente
della strettissima unione che lega vescovi e presbiteri e quindi l’o-
rigine di ogni potestà, per cui nel rito stesso dell’ordinazione sareb-
be inclusa la missio e, quindi, vi è una dipendenza sacramentale dal
vescovo che deve essere conciliata con la libertà personale del pre-

61
Cf numero 7 dello schema, in AcSyn IV-VI, p. 357 e Relationes de singulis numeris. De numero 7 (H),
in ibid., p. 395.
62
Modus 94, in AcSyn IV-VII, p. 160.
63
Cf numero 6 dello schema quinto, in AcSyn IV-IV, p. 346.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 33

sbitero. Una seconda linea di pensiero insiste apertamente sul con-


cetto di communio hierarchica come chiave per la comprensione cor-
retta del rapporto vescovo-preti e come sintesi dei diversi elementi
che caratterizzano tale relazione. Anzitutto si afferma che tra vesco-
vo e presbiteri vi è una comunione che li congiunge nella stessa or-
dinazione e missione, nello stesso sacerdozio e ministero; ma è una
comunione che si qualifica come hierarchica, perché ai presbiteri è
stata data per essere esercitata in aiuto dell’ordine episcopale e sotto
la sua autorità e, quindi, la comunione nello stesso sacramento e mi-
nistero di Cristo è in grado diverso. In secondo luogo c’è chi parla di
una partecipazione alla missione salvifica di Cristo come vera comu-
nione col ministero e i munera dei vescovi, conferita con l’ordinazio-
ne in modo partecipato e subordinato, e capace, inoltre, di inserire il
presbitero nella communio hierarchica col collegio dei vescovi e il
suo capo, e con gli altri membri del presbiterio. Per esercitare mini-
sterium e munera, però, si esige la missio canonica. Una terza posi-
zione, infine, è assunta da coloro che tendono a distinguere due di-
versi ambiti attraverso cui considerare il rapporto vescovi-preti: quel-
lo teologico e quello della disciplina canonica. In base alla teologia,
l’ordine dei presbiteri si colloca in aiuto e cooperazione dell’ordine
episcopale, per cui il presbitero partecipa, attraverso l’ordinazione
sacerdotale, in grado subordinato e, cioè, in communione hierarchi-
ca, alla missione universale del collegio dei vescovi. I munera sacer-
dotalia non possono essere esercitati se non in questa comunione,
ma la missio conferita nell’ordinazione è «ex se universalis». Secondo
il diritto, poi, la missio canonica e la communio hierarchica di ogni
presbitero col collegio dei vescovi si ottiene attraverso la comunione
col proprio vescovo, per cui è necessario che ogni prete sia ascritto o
incardinato in una Chiesa particolare. Per cui, “canonicamente” e
non “teologicamente”, il presbitero partecipa al ministero del suo ve-
scovo, che pure ha ricevuto una missione divina e universale nella
consacrazione e che poi è stata circoscritta in una determinata Chie-
sa, attraverso la missione canonica. Quindi, secondo questa linea di
pensiero, la missio canonica non aggiunge nulla in ordine ai ministe-
ri ricevuti nell’ordinazione, ma soltanto fa in modo che la potestà sa-
cerdotale sia libera per il suo concreto esercizio.
L’inizio del n. 7 del sesto schema 64 sembra aver chiarito la que-
stione, anche se nella relazione generale del vescovo Marty non si
64
AcSyn IV-VI, p. 356.
34 Giangiacomo Sarzi Sartori

accenna neppure alla communio hierarchica, nonostante che la for-


mula rappresenti una delle novità evidenti di questo schema 65. Sicura-
mente la commissione non volle più ridiscutere questa espressione
evitando più volte l’ostacolo in risposta ad alcuni “modi” che richiede-
vano soprattutto una maggiore insistenza sulla dipendenza dei presbi-
teri dai vescovi. In queste richieste si faceva notare che i munera e i
ministeria non sono esercitabili se non nella communio hierarchica,
la quale caratterizza nella sua origine la partecipazione alla missione
episcopale. Ma la commissione affermò che questi discorsi trovavano
già una risposta sufficiente nel testo e più precisamente erano conte-
nuti nelle parole usate: communio hierarchica appunto!

La relazione vescovi-presbiteri e il dialogo


I testi anteriori allo schema del novembre 1964 erano fortemen-
te avari di riferimenti circa il tema del dialogo nel rapporto tra vesco-
vi e preti. D’altra parte la questione dell’autorità e del suo esercizio,
dal punto di vista teorico non procurava grandi problemi né circa il
suo fondamento – che neppure successivamente sarebbe stato mes-
so in questione – né circa la sua forma tradizionale che esigeva una
subordinazione rigorosa, accolta comunque con minore o maggiore
passività e comprensione.
I prodromi di una nuova problematica apparvero quando un
certo numero di Padri conciliari, per far fronte al duplice atteggia-
mento dell’autoritarismo da una parte e del paternalismo dall’altra,
domandò che si promuovesse lo spirito del dialogo (spiritum dialo-
gi) fra vescovo e presbiteri: un dialogo che avrebbe dovuto realizzar-
si in un contesto di filiale libertà e di comune responsabilità pastora-
le 66. Alcuni interventi significativi per la loro incisività ebbero un in-
flusso diretto sull’evoluzione del testo. Infatti, lo schema nuovo del
novembre 1964 indica con insistenza la maniera con cui i vescovi
debbono considerare i loro presbiteri e li invita a riconoscere che
questi sono di vero aiuto ai vescovi e loro consiglieri nell’ufficio di
insegnamento, di santificazione e di governo, e che devono essere
visti come amici da ascoltare volentieri, coscienti che l’episcopato è

65
Relatio generalis, in ibid., pp. 341-344.
66
A proposito del quarto schema questa emergenza è riferita in Relationes de singulis numeris. De nu-
mero 7, in AcSyn IV-IV, p. 866.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 35

incapace, senza loro, di compiere la sua stessa missione 67. L’accento


ormai è posto, nello stesso tempo, sulla subordinazione e sull’asso-
ciazione amicale e confidente dei presbiteri alla missione episcopale.
Tuttavia, la redazione dello schema successivo (ottobre 1965) 68 sem-
brò insufficiente ad alcuni Padri che, sottolineandone le lacune, re-
clamarono un più esteso sviluppo e una più approfondita presenta-
zione della tematica; altri, invece erano scontenti perché la giudica-
vano troppo aperta e, a loro volta, desideravano una più esplicita
spiegazione circa l’obbedienza dei presbiteri. Così, nelle ultime due
redazioni dello schema 69, il testo traduce in maniera assai forte la
funzione dell’autorità in stato di dialogo, pur non sottraendo nulla al-
lo spirito e all’impegno preciso di obbedienza. Il n. 15 di PO, poi, trat-
terà ancor più ampiamente di tale “spirito” dal punto di vista dei pre-
sbiteri e delle peculiari esigenze della loro spiritualità. Segnaliamo,
tuttavia, che all’ultimo momento nel testo definitivo, accanto al ter-
mine amicos, fu introdotto quello di fratres (PO 7a), insistentemente
chiesto da molti Padri, perché la comunione esistente tra vescovi e
presbiteri nel sacerdozio di Cristo è il fondamento di una fraternità
che dev’essere manifesta e di cui anche il decreto, almeno una volta,
vuole evidenziare la portata 70.

Il “senato” dei presbiteri


La costituzione del Consiglio presbiterale quale organismo dio-
cesano che dovrebbe permettere di realizzare, quasi istituzionalmen-
te, il dialogo o comunque favorirlo con adeguati mezzi, è senza dub-
bio uno degli effetti direttamente provenienti dal decreto Presbytero-
rum ordinis e uno degli elementi più celermente recepiti nella fase
postconciliare.
È molto interessante seguire da vicino la genesi di quest’idea e
di questa scelta considerandone il cammino verso una più chiara de-
lineazione, pur non presentandosi come un iter senza rischi e senza
difficoltà. Si deve notare, anche su questo punto, che tutto cominciò

67
«Episcopi illos habeant ut veros adiutores in ministerio et ut consiliarios in munere docendi, sanctifi-
candi et regendi populum Dei... Propter hanc ergo in sacerdotio Christi participationem Episcopi sacerdo-
tes suos ut amicos considerent... et sine quorum adiutorio missionem Apostolis eorumque successoribus
concreditam nullo modo adimplere possunt», in ibid., pp. 840-841.
68
Cf lo schema quinto, in ibid., pp. 336 ss.
69
Cf lo schema sesto, in AcSyn IV-VI, pp. 356-358; PO 7a-b.
70
Cf modus 79, in AcSyn IV-VII, p. 156.
36 Giangiacomo Sarzi Sartori

nel novembre 1964. Infatti, dopo aver detto che a causa della parteci-
pazione al sacerdozio di Cristo – comune ai preti e ai vescovi – que-
sti debbono reputare i loro presbiteri come amici, il testo del quarto
schema prosegue affermando:
«... pretiosa constituunt spiritualem coronam Episcoporum, ac habendi sunt
veluti consilium et curia seu senatus Ecclesiae, quos Episcopi libenter au-
diant et compresbyteros appellant, et sine quorum adiutorio missionem Aposto-
lis eorumque successoribus concreditam nullo modo adimplere possunt. Ut hoc
vero aptiori quam nunc viget modo ad praxim reducatur, instituendus est, for-
ma a iure determinanda, coetus dioecesanus, constans selectis presbyteris to-
tum Presbyterium repraesentantibus, quem Episcopus semper audiat in re-
bus maioris momenti pro regimine dioeceseos» 71.

Una nota precisava che questo coetus di preti differiva dal Con-
siglio pastorale di cui si parlava nello schema sull’ufficio pastorale
dei vescovi (CD 27e) e nel quale si ritrovano preti e laici con il preci-
so fine di dedicarsi «ad pastoralia opera» 72. Simultaneamente la com-
missione conciliare commentò questo punto dello schema riferendo
che era stata chiesta la creazione di un coetus di presbiteri scelti fra
coloro che esercitano ministeri differenti perché possa agire in mo-
do più adatto rispetto ai Capitoli delle cattedrali e ai Consultori e in
qualità di assessoratus Episcopi con l’impegno di prestare il proprio
aiuto nel governo diocesano («assessoratus Episcopi eumque adiuva-
re in regimine dioecesis») 73. Si diceva, inoltre, che veniva lasciata alla
commissione per la revisione del Codice di diritto canonico la que-
stione giuridica relativa alla costituzione di tale coetus.
La spiegazione non fu unanimemente accolta e fra il novembre
del 1964 e l’ottobre del 1965 fu avanzata la proposta di una nuova re-
dazione. Alcuni Padri contrattaccarono e con le loro osservazioni
misero, in qualche modo, in causa l’innovazione che questo coetus
rappresentava; altri ponevano difficoltà e suscitavano esigenze di cau-
tela intravedendo una inopportuna “democratizzazione” nella con-
duzione delle diocesi soprattutto in certe situazioni concrete; altri an-
cora, pur concordando con la proposta fatta nello schema, chiesero
che si coordinasse meglio quanto già esisteva ed era previsto quale
organismo di aiuto al vescovo come, per esempio, il Sinodo diocesa-

71
AcSyn IV-IV, p. 841.
72
Ibid., n. 20, p. 862.
73
Relationes de singulis numeris. De numero 7, in ibid., p. 866.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 37

no; infine, qualcuno lamentava il moltiplicarsi degli enti che il vesco-


vo “deve” sentire e interrogare per le sue decisioni.
In conseguenza di tutto ciò, in seno alla commissione accadde
qualcosa di strano: sembra, infatti, di riscontrare qualche esitazione
che fa pensare a un cambiamento di posizioni, quasi si volesse torna-
re al punto di partenza. Questi tentennamenti, probabilmente, stan-
no in qualche misura all’origine delle confusioni che si sono verifica-
te successivamente quando si è trattato di realizzare questo coetus
seu senatus nelle diocesi, perché solo faticosamente si riuscì a collo-
care in modo adeguato questo nuovo strumento di comunione eccle-
siale in rapporto agli altri organismi già istituiti.
Di fatto, il testo proposto nel quinto schema è comunque più va-
go di quello precedente, anche perché vengono soppressi i termini
consilium, curia seu senatus:
«Ut vero id ad effectum deducatur, habetur, aptiore quam nunc viget mo-
do, forma ac normis iure determinandis, coetus sacerdotum, Presbyterium re-
praesentantium, qui Episcopum in regimine dioeceseos efficaciter adiuvare
possit» 74.

Questo nuovo testo, a detta della commissione, fu approntato per


far meglio comprendere che non si trattava di creare un nuovo coetus
diocesano, bensì di perfezionare e completare quello già esistente nel
diritto 75. Inoltre, si manteneva l’espressione «Presbyterium repraesen-
tantes» senza volere, con questo, determinare la forma concreta di
cooptazione che verrà, invece, esaminata dalla commissione di revi-
sione del Codice di diritto canonico come, del resto, sarà per tutti gli
aspetti particolari da portare in fase di applicazione concreta 76.
Il dibattito che seguì nell’ottobre 1965, fece registrare nuove
reazioni e proposte: le une a favore della reintroduzione del termine
senatus già usato da Ignazio d’Antiochia e che nel Codice (can. 391
§ 1) si trovava applicato ai Capitoli delle cattedrali, la cui riforma era
richiesta nello schema sesto 77; le altre, invece, chiedevano che
l’obiettivo e l’incarico di tale assemblea di presbiteri fossero ulterior-
mente precisati tenendo presente che quest’organismo di preti esi-

74
Ibid., p. 347.
75
Il termine senatus dal Codice di diritto canonico del 1917 era applicato al Capitolo della cattedrale, cf
c. 391.
76
Relationes de singulis numeris. De numero 6 (H), in AcSyn IV-IV, pp. 381-382.
77
Cf lo schema sesto numero 7 (F), in AcSyn IV-VI, p. 357.
38 Giangiacomo Sarzi Sartori

ste solo per aiutare il vescovo con il suo consiglio evitando, cioè, il
pericolo che si pensi a un governo collegiale. Ciononostante il termi-
ne senatus fu rimesso nel testo e rimase anche l’espressione «presby-
terium repraesentantium» 78 che pure trovò, come abbiamo visto, de-
gli oppositori. Nei “modi” ricevuti fino all’ultima revisione si può an-
cora leggere l’osservazione che il termine “rappresentanti” designa,
nelle lingue moderne, un organismo democratico formato da mem-
bri eletti dalla comunità e perciò occorre che sia evitato in ambito
ecclesiale. Si domandava, perciò, che venisse cancellato dal testo il
termine senatus per non cadere nel rischio di intenderlo come un
parlamento e nell’errore di concepire la Chiesa come una “società
democratica” 79.
Malgrado questi timori, la realtà del nuovo organismo si man-
tenne per esprimere la volontà del Concilio di presentare i rapporti
tra vescovo e presbiteri in modo che da parte dei vescovi maturasse
verso i preti un atteggiamento davvero costruttivo – come afferma il
numero 7 di PO: «... cum eis colloquantur de iis quae ad necessitates
operis pastoralis et ad bonum dioecesis spectant» –; e da parte dei pre-
sbiteri si mostrasse una vera corresponsabilità attraverso il Consi-
glio dei loro rappresentanti, alla fine definito come
«coetus seu senatus sacerdotum, Presbyterium repraesentantium, qui Episco-
pum in regimine dioeceseos suis consiliis efficaciter adiuvare possit» (PO 7a).

Unione fraterna e cooperazione tra i presbiteri (PO 8)


Nella vita sacerdotale e nell’attività ministeriale non possono
sfuggire le ripercussioni del numero di Presbyterorum ordinis riser-
vato al rapporto di fraterna unità e cooperazione tra i preti. Si sa, an-
zi, che qui si trovano preziose indicazioni conciliari relative a nume-
rosi punti sull’esperienza di vita dei presbiteri, oltre che sullo stile e
l’impostazione della pastorale diocesana. Ci sembra perciò vantag-
gioso chiarificare alcuni dei temi affrontati in questo articolo del de-
creto per non diluire in generiche considerazioni l’apporto della di-
scussione sul testo conciliare e per meglio valutare l’importanza di
questa tematica in riferimento alla realtà del presbiterio e del Consi-
glio presbiterale.

78
L. cit.
79
Cf modus 84, in AcSyn IV-VII, pp. 157-158.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 39

Nello schema di proposizioni dell’ottobre 1964 il tema veniva


trattato nel suo insieme con insufficiente profondità 80 e la domanda
più diffusa da parte dei Padri, come sappiamo dalla storia del decre-
to, fu quella di un rifacimento completo di tutta l’esposizione. Pro-
prio in riferimento a quel testo riduttivo e inadeguato alcuni inter-
venti osservarono come il tema della cooperazione tra i sacerdoti
non avesse sufficiente rilievo e perciò si auspicava che si tenesse in
maggior considerazione questo aspetto del ministero presbiterale
anche in ordine alla necessità di una pianificazione pastorale laddove
i problemi sono di comune interesse. Infatti, la fraternità presbitera-
le nasce e si sviluppa costruttivamente grazie allo stesso ministero e
alla stessa attività pastorale e non è soltanto di tipo ascetico-morale.
Tuttavia, non si poteva dimenticare che l’unità fra i presbiteri ha una
fonte sacramentale e, quindi, un’origine più profonda e una prove-
nienza più determinante rispetto al comune lavoro a cui essi sono
chiamati: vi è, infatti, un legame ontologico che costituisce il fonda-
mento fermissimo di questa fraternità e amicizia.

Ordine presbiterale e presbiterio


Il quarto schema di decreto affermava testualmente:
«Sicut Episcopi per consecrationem in Ordine seu Collegio Episcopali et pro-
prie apostolico, ita Presbyteri per Ordinationem in Ordine Presbyteratus, qui
ab Ordine Episcoporum essentialiter dependet, constituuntur» 81.

L’affermazione suscitò numerose richieste. Si voleva una preci-


sazione perché il parallelismo tra l’ordine presbiterale e l’ordine epi-
scopale presentato in questa proposizione sembrava troppo accen-
tuato. Sicché, beneficiando delle puntualizzazioni apportate nel frat-
tempo alla nozione di presbyterium nel corso della discussione sul
testo di LG 28b 82, quella forte dichiarazione sarà in seguito alquanto
mitigata. Alcune osservazioni dei Padri furono accolte dalla commis-

80
«Episcopis bonum corporale et spirituale cooperatorum suorum pro viribus cordi sit. Singulis autem
Presbyteri confratribus suis uniantur vinculo caritatis, orationis, cooperationis atque animi relaxationis.
Auxilium humanum et spirituale libenter ferant erga confratres, erga illos praesertim hodie saepius plus
quam par est operibus oneratos, et sic ‘mandatum novum’ sollicite servantes, fidelibus suis exemplo sint
verae fraternitatis christianae. Quae etiam Sacrosancta Synodus instanter commendat ut, quam maxime
fieri possit, vitam communem sacerdotes instaurent», schema terzo, in AcSyn III-IV, p. 228.
81
Numero 8, in AcSyn IV-IV, p. 843.
82
Anche sulla discussione circa CD 11a; 15a; 28a.
40 Giangiacomo Sarzi Sartori

sione e segnatamente quelle che aiutavano a comprendere i termini


usati e a chiarirne il contenuto in vista di un loro uso corretto. In tal
modo risulta evidente che il legame tra collegio dei vescovi e comu-
nità dei presbiteri è trattato in modo abbastanza confuso e artificiale,
perché Ordo e Collegium non sono realtà identiche in tutti i loro
aspetti; né si può pensare di dover comprendere l’ordine presbitera-
le allo stesso modo dell’ordine episcopale, in quanto i due ordini non
vanno considerati sullo stesso piano. La commissione, in ragione
delle numerose osservazioni fatte, giungeva alla decisione di modifi-
care le prime frasi del testo per evitare indebite confusioni: si distin-
se tra ordine del presbiterato, nel quale tutti i presbiteri sono costitui-
ti attraverso l’ordinazione, e il presbiterio che i preti formano con il
proprio vescovo e sotto la sua autorità nella Chiesa particolare 83.
Nel quinto schema, dunque, l’articolo che stiamo esaminando
cominciava con una nuova espressione:

«Presbyteri per ordinationem in Ordine Presbyteratus constituti, specialiter in


unaquaque dioecesi sub Episcopo proprio unum Presbyterium efformant» 84.

Il documento successivo modificò ancora il testo, sia pure leg-


germente, sottolineando l’aspetto di “servizio” alla Chiesa particola-
re 85; nell’ultima redazione il testo fu ulteriormente arricchito per il
contributo di un modus, mentre la posizione della commissione si
rafforzò grazie alla reiezione di un’osservazione che avrebbe reintro-
dotto la primitiva confusione. Nel primo caso si voleva evidenziare il
fatto che i presbiteri, costituiti nello stesso ordine del presbiterato,
sono legati fra loro da un’intima fraternità sacramentale; nel secondo
caso si chiedeva di aggiungere che i preti formano un solo presbite-
rio al modo di un corpo o di un collegio («ad modum corporis seu col-
legii»). La risposta fu negativa proprio per evitare l’impressione di
una equivalenza fra Collegio dei vescovi, che è di diritto divino, e
presbiterio diocesano 86. Il testo definitivo, quindi, presenta la se-
guente redazione:

83
Cf Relationes de singulis numeris. De numero 7 (A), in ibid., p. 382.
84
Numero 7, in ibid., p. 349.
85
«Presbyteri per ordinationem in Ordine Presbyteratus constituti, specialiter in dioecesi cuius servitio
sub Episcopo proprio addicuntur unum Presbyterium efformant», schema sesto, n. 8, in AcSyn IV-VI,
p. 358.
86
Cf modus 101, in ibid., p. 162.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 41

«Presbyteri, per ordinationem in Ordine Presbyteratus constituti, omnes inter


se intima fraternitate sacramentali nectuntur; specialiter autem, in dioecesi
cuius servitio sub Episcopo proprio addicuntur, unum Presbyterium effor-
mant» (PO 8a).

Unità di missione e diversità di ministeri


Osservando le quattro redazioni del testo che sviluppa il tema
della diversità dei ministeri esercitati dai presbiteri, si nota subito il
variare della collocazione di questo punto nei vari schemi di decreto.
Nel quarto e nel quinto schema si trova dopo l’evocazione dei “segni
liturgici” che manifestano il legame di fraternità fra tutti i presbiteri;
ma a partire dal sesto schema di decreto la struttura del discorso
cambia in maniera significativa. In primo luogo si parla dell’ordine
presbiterale e del presbiterio; in secondo luogo si evocano i diversi
ministeri; e, infine, si presentano i segni reali di unità nella diversità.
Le osservazioni critiche al testo di partenza (novembre 1964) 87
provocarono una nuova redazione del paragrafo che risultò più so-
bria e più chiara. Le richieste toccavano due punti che effettivamen-
te necessitavano di maggior precisione e, alla fine, si ottennero que-
sti risultati: trattando dei presbiteri ci si riferiva sia ai diocesani, sia
ai religiosi 88; trattando del loro servizio si evitava l’inopportuna e-
spressione che parlava di un ministero «più indiretto o straordina-
rio» («magis indirecto vel extraordinario») – riguardo, ad esempio, ai
preti insegnanti – e contro la quale erano insorti alcuni Padri conci-
liari 89. Il testo dell’ottobre 1965 tenne conto di queste sottolineature
e si presentò modificato 90, ma per la redazione dello schema succes-
sivo la commissione prestò attenzione a tre fattori suggeriti dalle os-
servazioni pervenute. I Padri desideravano che, senza riprodurre l’e-
spressione infausta riferita a un ministero indiretto o straordinario,

87
Si affermava così: «...Quapropter magni momenti est ut omnes presbyteri sese invicem adiuvent ut
semper cooperatores sint veritatis. Quae cooperatio inter omnes omnino presbyteros se extendat oportet,
tum si in eadem forma ministerii, v.g. paroecialis vel apostolatus laicorum laborent, tum si in ministerio
magis indirecto vel extraordinario, ut in scholis, in institutionibus pervestigationis scientificae, in offici-
nis, in operibus caritatis aliisve sane multis id genus actuositatis speciebus de consensu auctoritatis com-
petentis exercendis, sese impendere debeant», Schema quarto, numero 8, in AcSyn IV-IV, p. 844.
88
Cf Relationes de singulis numeris. De numero 7 (D), in ibid., p. 382.
89
Cf Relationes de singulis numeris. De numero 7 (E), in l. cit.
90
Ecco il passaggio modificato al n. 7 dello schema quinto: «Quapropter magni momenti est ut omnes
Presbyteri, sive dioecesani sive religiosi, sese invicem adiuvent, ut semper cooperatores sint veritatis.
Quae cooperatio inter omnes presbyteros vigeat oportet, sive ministerium exercent in paroecia sive illud
implent in ceteris inceptis, uti in operibus laicorum apostolatus, in scholis, in institutis pervestigationis
scientificae, in officinis, in operibus caritatis aliisque id genus», in AcSyn IV-IV, pp. 349-350.
42 Giangiacomo Sarzi Sartori

si ritornasse al documento dell’anno precedente (schema quarto)


perché sembrava più esplicito rispetto all’ultimo schema. In secondo
luogo domandavano che venissero riconosciute espressamente cer-
te opere di apostolato moderno, per le quali si suggeriva di usare
l’espressione “sovra-parrocchiali”. Da ultimo si richiedeva l’amplia-
mento del discorso concernente l’aspetto della condizione sacerdota-
le attuale 91. Questi elementi si trovano inseriti nella redazione dello
schema del novembre 1965, dove appare esplicitamente anche l’inci-
so sul lavoro manuale dei preti:
«Ex diversis enim officiis quibus, sub Episcopo duce et moderatore, mancipan-
tur, unum efficitur sacerdotale pro hominibus ministerium. Ad idem enim
opus ut cooperentur mittuntur omnes Presbyteri, sive ministerium paroeciale
vel supraparoeciale exerceant, sive scientiae investigandae aut tradendae ope-
ram conferant, sive etiam manibus laborent, ipsorum operariorum sortem
probante Auctoritate participantes, sive tandem alia opera apostolica adim-
pleant. Ad unum omnes quidem conspirant, ad aedificationem nempe Corpo-
ris Christi, quae nostris praesertim temporibus, multiplicia officia necnon no-
vas accomodationes requirit» 92.

Come si può notare, accanto a coloro che lavorano manualmen-


te, la commissione mostra attenzione e fiducia verso l’apostolato e-
sercitato dai presbiteri che operano negli ambienti della ricerca
scientifica in senso ampio, offrendone anche un’argomentazione teo-
logica in appoggio. A quanti proposero un emendamento con cui si
voleva cancellare l’espressione «sive scientiae investigandae aut tra-
dendae operam conferant» per essere sostituita con le parole «sive
scientiae sacrae investigandae», si rispose che sembrava poco conve-
niente enumerare tutte le attività di ricerca scientifica fra i ministeri
sacerdotali e che parrebbero talvolta sussistere elementi pericolosi
in questa attività, soprattutto per gli uomini che non approfondisco-
no la scienza sacra. Tuttavia, il lavoro che spinge a cercare la verità
in tutti i campi della ricerca è un servizio compiuto per gli uomini, at-
traverso il quale è aumentata la gloria di Dio tra di essi 93.

91
Queste richieste riecheggiano in alcuni interventi di autorevoli Padri che si preoccupano di portare
l’attenzione del Concilio su punti specifici da chiarire e da precisare: soprattutto il problema del rappor-
to preti-mondo contemporaneo e dell’ideazione di nuovi metodi pastorali per fronteggiare le nuove dif-
ficoltà che incontra l’apostolato. Si mossero in questa linea le osservazioni dei cardinali L. Suenes di
Utrecht (Olanda) cf AcSyn IV-IV, p. 786; L. Rugambwa di Bukoba (Tanzania), in ibid., pp. 14-15 e R. Sil-
va Henriquez di Santiago (Cile), in ibid., pp. 217-220; del vescovo B. Foley di Lancaster (Gran Breta-
gna), in ibid., pp. 189-191, e dell’arcivescovo di Cracovia (Polonia) K. Wojtyla, in ibid., p. 519.
92
Cf numero 8 dello schema sesto, in AcSyn IV-VI, p. 358.
93
Cf modus 104, in AcSyn IV-VII, p. 162.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 43

Ci si rende conto che l’inserzione nel decreto di questo riferi-


mento è stata compiuta nel novembre 1965 anche se, a livello di os-
servazioni critiche inviate alla commissione, niente lasciava prevede-
re un appello preciso in questa direzione. Molto probabilmente fu in
seno alla stessa commissione che nacque l’integrazione, la quale de-
ve aver avuto un’enorme risonanza. A dire il vero il delicato proble-
ma dei preti-operai era stato evocato nel dibattito in aula dei giorni
13-16 ottobre 1965, ma, attenendosi ai testi, la sorpresa è totale per-
ché la vaghezza delle formule utilizzate negli schemi quarto e quinto
lasciava intendere che questa forma di apostolato dovesse essere
realizzata fra le altre. Resta il pensiero che nell’ultima fase (fine no-
vembre 1965) le reazioni fossero numerose, vivaci e spesso raggrup-
panti un gran numero di Padri i quali domandavano che l’ipotesi di
un lavoro manuale per i preti e della sua realizzazione fossero stret-
tamente sottomesse al giudizio e all’autorità episcopale 94; che i preti
che si dedicavano a questo ministero speciale potessero esercitarvi
le diverse funzioni presbiterali 95 e, infine – come voleva un gruppo di
368 Padri – che fosse cancellato per intero l’inciso in questione 96.
In una delle più lunghe e articolate risposte per l’esame dei
“modi” la commissione espose il suo punto di vista affermando anzi-
tutto che il testo proposto nel sesto schema era già stato approvato
dalla congregazione generale dei Padri e nonostante questo molti lo
sostenevano e lo confermavano, altri lo respingevano e altri ancora
lo approvavano pur domandando integrazioni perché qualcosa non
andasse a detrimento dei preti stessi. Si rispose negativamente a chi
chiedeva di inserire la formula «iussu et iudicio Episcopi» al posto di
«probante auctoritate» perché non si riteneva opportuno che i vesco-
vi d’autorità decidessero e inviassero preti non disponibili a compie-
re una missione tanto difficile. A chi osservava come il Concilio non
potesse pretendere di sanzionare in maniera definitiva un preciso
modo di esercitare il ministero o di condurre la vita sacerdotale i cui
risultati non si potevano ancora valutare – anche se fino a quel mo-
mento erano stati piuttosto negativi – si rispose che, nonostante tutti
i ministeri presbiterali richiedessero il mandato (missio) e l’approva-
zione del vescovo, soltanto per questo speciale apostolato si diceva
probante auctoritate sapendo che, quando l’autorità approva, dà an-

94
Cf modus 106a, in ibid., p. 163.
95
Cf modus 106d, firmato da 69 Padri, in l. cit.
96
Cf modus 106c, in l. cit.
44 Giangiacomo Sarzi Sartori

che le norme per evitare gli eventuali pericoli. Questo apostolato, in-
fatti, è praticato in molti paesi sia nella Chiesa latina sia in quella
orientale e il Concilio non poteva ignorare tale forma di ministero.
Per soddisfare queste richieste furono, tuttavia, introdotte alcune va-
rianti nel testo che poi sarà definitivo:
«sive etiam manibus laborent, ipsorum operariorum, ubi id probante quidem
competenti Auctoritate expedire videatur, sortem participantes...» (PO 8a).

Infine, a chi domandava l’introduzione di alcune parole che ri-


cordassero di aver sempre presente le esigenze proprie del ministe-
ro sacerdotale, si rispose che di ciò già si era trattato in numerosi
punti dello schema: ad esempio, al numero 3 97.

Espressioni liturgiche e realizzazioni concrete


della fraternità sacerdotale
Sino alla penultima redazione del documento (lo schema se-
sto) 98 non si fece riferimento che alla imposizione delle mani di tutto
il clero presente durante l’ordinazione presbiterale come segno litur-
gico massimamente espressivo dei vincoli di fraternità che legano i
preti fra di loro. Per l’ultima redazione, invece, si tenne conto delle
domande di quanti vedevano nella concelebrazione dell’Eucaristia
una manifestazione eminente della fraternità sacerdotale 99.
Il quarto e il quinto schema affermavano che tutti i sacerdoti in-
sieme e ognuno di essi, sono uniti ai loro confratelli in modo da dare
ai fedeli l’esempio di quell’unità che Cristo ha voluto per tutta la sua
Chiesa: «... atque ita fidelibus dent exemplum illius unitatis quam Chri-
stus voluit...» 100. L’indicazione del “dare l’esempio” – dal tono un po’
retorico – nei documenti successivi si trasformò in una espressione
più teologicamente fondata e rivelatrice di segni quasi sacramentali.
Si dice, infatti, che la carità, la preghiera e le varie forme di coopera-
zione tra il clero, manifestano da se stesse l’unità dei presbiteri:
«Singuli ergo Presbyteri cum confratribus suis uniuntur vinculo caritatis, ora-
tionis et omnimodo cooperationis, atque ita manifestatur illa unitas quam
Christus voluit» 101.

97
Cf risposta al modus 106, in ibid., pp. 163-164.
98
Cf numero 8 dello schema in, AcSyn IV-VI, p. 358.
99
Cf modus 115, avanzato da 17 Padri conciliari, in AcSyn IV-VII, p. 165.
100
Numero 8 dello schema quarto e il n. 7 dello schema quinto, in AcSyn IV-IV, p. 349.
101
Numero 8b dello schema sesto, in AcSyn IV-VI, p. 359 e PO 8a.
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 45

A questa formulazione è soggiacente l’intenzione della commis-


sione di sostenere che l’unità presbiterale è finalizzata alla testimo-
nianza da offrire ai fedeli, ma soprattutto è causata dalla partecipa-
zione alla stessa missione divina nel presbiterio 102.
Per quanto riguarda le realizzazioni concrete dell’aiuto vicende-
vole, il testo definitivo del decreto offre direttamente il pensiero già
scritto nel novembre 1964 (quarto schema) perché la sostanza del
discorso resta inalterata. Si deve soltanto notare che nel quinto sche-
ma appare l’enumerazione delle “situazioni sacerdotali” che richie-
dono una più stretta sollecitudine 103.
Nel contesto delle realizzazioni concrete dei segni di mutua so-
lidarietà fra il clero, va ricordato anche l’atteggiamento verso i preti
che vivono in particolari difficoltà. Questo elemento figurava già nel
quarto schema dove si suggeriva, in nome della fraternità e della co-
munione nel sacerdozio, di mostrare misericordia e molta carità ver-
so coloro che «in quibusdam defecerunt» 104. Nel documento del no-
vembre 1965 appare la preoccupazione di prevenire le defezioni con
un aiuto fraterno e tempestivo che favorisca un equilibrato discerni-
mento verso coloro che vivono condizioni personali difficili 105. L’ulti-
mo testo, poi, risponderà affermativamente a una richiesta 106 che vo-
leva fosse soppresso il termine “misericordia” a proposito di coloro
che fossero caduti in qualche mancanza perché sembrava avere un
tono di pura compassione. Si preferiva parlare dell’amore generoso e
comprensivo e della preghiera che aiutano a trattare questi presbite-
ri come autentici fratelli e amici:
«Illos autem qui in quibusdam defecerunt fraterna caritate atque magno ani-
mo semper prosequantur, pro ipsis instantes preces Deo effundant eisque conti-
nuo sese praebeant ut revera fratres et amicos» (PO 8d).

102
«Agitur in hoc numero de caritate fraterna et cooperatione inter Presbyteros, quae sane requiruntur
non solum quia ceteris fidelibus debent esse exemplum unitatis, sed etiam propter participationem eius-
dem divinae missionis in Presbyterio», in AcSyn IV-IV, p. 866.
103
«Spiritu fraterno ducti, Presbyteri hospitalitatem ne obliviscantur (Hebr. 13, 1-2), colant beneficien-
tiam et communionem bonorum (Hebr. 13, 16), praesertim solliciti eorum qui sunt aegroti, afflicti, labo-
ribus nimis onerati, solitari, e patria exules, necnon eorum qui persecutionem patiuntur (Mt. 5, 10).
Etiam ad relaxandum animum libenter conveniant, memores verborum quibus ipse Dominus Apostolos
defatigatos misericorditer invitabat: “Venite seorsum in desertum locum, et requiescite pusillum” (Mc.
16,31)», numero 7 (G) schema quinto, in AcSyn IV-IV, p. 350.
104
Numero 8 dello schema, in ibid., p. 845.
105
«... eos qui difficultatibus in fide aliisve virtutibus laborant; eis fraternum praebeat auxilium, etiam
tempestive et discrete eos monendo», n.8 (E) del sesto schema, in AcSyn IV-VI, p. 361.
106
Cf modus 134, in AcSyn IV-VII, p. 169.
46 Giangiacomo Sarzi Sartori

Conclusione
L’origine e la progressiva elaborazione dei testi conciliari sino
alla loro definitiva revisione e pubblicazione, tenendo conto dei di-
battiti a cui hanno dato luogo e della successione degli eventi, fanno
emergere anche gli orientamenti e i presupposti necessari che deter-
minarono la costituzione del Consiglio presbiterale.
Gli elementi di dottrina e, quindi anche di disciplina, che il Vati-
cano II ci ha trasmesso, ancora oggi definiscono la sua natura eccle-
siale e sostengono la sua concreta attività, sempre alla ricerca di una
realizzazione adeguata degli scopi e delle finalità per cui è stato volu-
to dal Concilio come uno dei più espressivi organismi della comunio-
ne ecclesiale nella vita diocesana.
Il Codice di diritto canonico ha ripreso quell’insegnamento e
nella sua altrettanto lunga e laboriosa vicenda redazionale ha messo
a frutto il lavoro conciliare offrendo alla Chiesa una normativa che
valorizza e promuove sia il rapporto tra i presbiteri e il vescovo nella
Chiesa particolare, sia le relazioni tra gli stessi presbiteri chiamati a
unità, fraternità e corresponsabilità nella vita sacerdotale e nel mini-
stero pastorale a servizio della loro diocesi, delle comunità cristiane
locali e, ultimamente, della Chiesa tutta in comunione con l’ordine
episcopale.
Nel momento in cui gli organismi ecclesiali di partecipazione –
compreso il Consiglio presbiterale – sembrano conoscere un certo
affaticamento e quindi una fase di nuova ricerca di identità e di preci-
sazione delle proprie funzioni, l’esigenza di riprendere il Concilio, di
studiare l’evoluzione della sua dottrina e di rintracciare le indicazioni
operative che ne sono derivate, porta certamente frutti significativi.
Si tratta di una necessità presupposta anche da uno studio serio e
proficuo della normativa canonica vigente. Il Codice è conciliare nel-
la misura in cui quanti lo studiano, lo applicano e lo vivono hanno e
conservano lo spirito del Concilio, lasciandosi portare, tuttavia, non
da velleitarie ed emotive considerazioni personali su ciò che si ritie-
ne sia il Vaticano II, bensì inserendosi in quel sorprendente movi-
mento di cui sempre vive la Chiesa: un movimento che ha origine
nell’opera dello Spirito e che a tutti chiede di riconoscersi in una vita
ecclesiale aperta e fattiva; ricca di carismi, ministeri e ordini di per-
sone; ma anche improntata a piena fedeltà alla comunione che la co-
stituisce. Concilio e Codice, dunque, si richiamano e si illuminano
reciprocamente anche su un punto specifico qual è il tema del pre-
Presbiterio e Consiglio presbiterale nelle fonti conciliari della disciplina canonica 47

sbiterio e del Consiglio presbiterale, per trarre dalla loro applicazio-


ne nella vita pratica della Chiesa quei frutti che si attendono per l’og-
gi. Come bene dichiara la costituzione Sacrae disciplinae leges, il Co-
dice, ovvero il principale documento legislativo della Chiesa, vuole
riflettere il Vaticano II e inserirne la dottrina nella vita. Il suo fine è
proprio quello di
«creare tale ordine nella società ecclesiale che, assegnando il primato all’a-
more, alla grazia e ai carismi, renda più agevole nello stesso tempo il loro or-
ganico sviluppo nella vita sia della società ecclesiale sia anche delle singole
persone che ad essa appartengono» 107.

Ebbene, l’ordine e lo sviluppo organico delle comunità e dei sin-


goli, cui accenna il Pontefice nel documento con cui promulgò il Co-
dice, favorito da «quel carattere di complementarità che il Codice
presenta in relazione all’insegnamento del concilio Vaticano II», tro-
vano nei presbiteri, nel loro servizio apostolico, nella loro unità fra-
terna e responsabile col vescovo nel presbiterio diocesano, un punto
nevralgico e un riferimento insostituibile. Questo per l’importanza
che riveste la loro presenza nella Chiesa e anche per le provocazioni
cui è oggi sottoposta la loro missione pastorale soprattutto in ordine
ai grandi temi della corresponsabilità ecclesiale; dell’azione pastora-
le genuinamente evangelizzatrice; della congiunzione tra lavoro mi-
nisteriale e santificazione personale secondo la loro specifica moda-
lità; del mutuo scambio che si genera da un lato tra gli stessi presbi-
teri e con il loro vescovo, dall’altro con le molteplici espressioni del
laicato e delle sue aggregazioni e della vita consacrata. Su queste
problematiche sembra sempre più necessario indagare seguendo
l’evoluzione e le indicazioni, ancora vivamente preziose, che dal Con-
cilio hanno condotto fino al nuovo Codice perché ne traggano van-
taggio la ricerca di una identità più consapevole da parte dei presbi-
teri e l’esercizio più sicuro e appassionato del loro stesso ministero
pastorale sostenuto e avvalorato anche dagli organismi ecclesiali
previsti, tra cui eccelle il Consiglio presbiterale.
GIANGIACOMO SARZI SARTORI
Piazza Sordello, 15
46100 Mantova

107
EV 9, n. 509.
48

Le funzioni del Consiglio presbiterale


di Mauro Rivella

Il Codice di diritto canonico presenta in modo assai sintetico le


funzioni del Consiglio presbiterale, limitandosi a dire che:
«spetta al Consiglio presbiterale coadiuvare il vescovo nel governo della dio-
cesi a norma del diritto, affinché venga promosso nel modo più efficace il
bene pastorale della porzione di popolo di Dio a lui affidata» (can. 495 § 1);

e che:
«il Consiglio presbiterale ha solamente voto consultivo; il vescovo diocesano
lo ascolti negli affari di maggiore importanza, ma ha bisogno del suo con-
senso solo nei casi espressamente previsti dal diritto» (can. 500 § 2).

Troviamo poi nel corso nel Codice l’indicazione di alcuni casi in


cui il vescovo diocesano è tenuto, prima di porre un proprio atto di
governo, a sentire il Consiglio presbiterale, e di altri, nei quali il Co-
dice prevede che il predetto Consiglio designi alcuni a far parte di al-
tri organismi ecclesiali.
Prima di entrare in tale casistica, ci sembra però utile riflettere
sulla natura del Consiglio presbiterale stesso: se infatti operari se-
quitur esse, è evidente che dall’approfondimento della sua essenza
potremo desumere – al di là delle specificazioni della normativa posi-
tiva – in che consistano i suoi scopi. A questo fine potremo attingere
alla ricca legislazione postconciliare in materia, nonché ai verbali dei
lavori di preparazione del nuovo Codice.
Le funzioni del Consiglio presbiterale 49

Dalla natura ai compiti


La definizione in forma descrittiva del Consiglio presbiterale,
contenuta nel can. 495 § 1 («gruppo di sacerdoti che, rappresentando
il presbiterio, sia come il senato del vescovo»), risale – come è noto – a
Presbyterorum ordinis n. 7a, ma solo dalla legislazione postconciliare,
non senza qualche incertezza e mediante un processo di progressiva
chiarificazione, tale organismo è stato delineato in maniera sufficien-
temente precisa e univoca. Al testo del concilio Vaticano II è invece
indubbiamente ascrivibile l’individuazione della ragione teologica che
giustifica l’esistenza del nostro Consiglio: dal momento che presbiteri
e vescovi partecipano nella comunione gerarchica allo stesso e unico
sacerdozio e ministero di Cristo, «i vescovi hanno [nei presbiteri] dei
necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di
istruire, santificare e governare il popolo di Dio» (PO 7a). Questa pro-
spettiva ecclesiologica, che non confonde i ruoli ma li coordina all’in-
terno e per il bene del popolo di Dio, che tutti quanti sono chiamati a
servire, esige di essere attuata anche attraverso mediazioni istituzio-
nali: fra esse il Consiglio presbiterale, che è obbligatorio in tutte le
diocesi e ha carattere permanente, è la più importante.
«Il fine e il compito del Consiglio presbiterale provengono necessariamente
dalla comunione gerarchica tra il vescovo e i sacerdoti e in qualche modo la
manifestano istituzionalmente» 1.

Proprio perché esprime la corresponsabilità del presbiterio nel


governo della diocesi, non contrapponendosi o condizionando, ma
piuttosto sostenendo in spirito di comunione il diritto del vescovo ad
avere l’ultima parola e a decidere legiferando, è immediatamente
chiaro che non è possibile ridurre l’ambito delle funzioni del Consi-
glio presbiterale alle non molte questioni per le quali il Codice di di-
ritto canonico prevede che sia obbligatoriamente consultato, ma si
rende necessario dare rilievo allo spettro assai vasto degli «affari di
maggiore importanza» nella vita della diocesi, per i quali il vescovo è
ugualmente tenuto, per una ragione prima ancora teologica che giu-
ridico-positiva, a consultare il suo senato. Possiamo anzi dire che i ca-
si per i quali è espressamente prevista la consultazione non sono che
concretizzazioni su punti di particolare rilevanza del dovere fonda-

1
S. CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Lettera circolare Presbyteri sacra, 11 aprile 1970, 5, in EV 3, n. 2455.
50 Mauro Rivella

mentale del vescovo di ascoltare il proprio presbiterio, a cui corri-


sponde specularmente il diritto del Consiglio, che rappresenta il pre-
biterio, di manifestare il proprio pensiero su ciò che riguarda il bene
della Chiesa particolare. Se anzi, per assurdo, la normativa canonica
non prevedesse alcuna specificazione concreta, il diritto-dovere re-
sterebbe intatto e richiederebbe ugualmente di essere attuato a van-
taggio della Chiesa.
I documenti magisteriali successivi al Vaticano II hanno anche
precisato che cosa debba intendersi per “rappresentanza del presbi-
terio” e per “senato del vescovo”.
Da una parte è oggi chiaro che il Consiglio presbiterale non co-
stituisce un organismo per la trattazione dei problemi di categoria dei
presbiteri, tanto meno nella prospettiva di un rivendicazionismo sin-
dacale. D’altra parte lo speciale legame sacramentale esistente fra il
vescovo e il suo presbiterio giustifica il fatto che al Consiglio presbite-
rale sia attribuito in modo esclusivo il titolo di senato del vescovo, trat-
tandosi della sede istituzionale a cui questi attinge in modo prioritario
per elaborare le scelte di governo. Si tratta di un vero mutamento
prospettico rispetto al Codice del 1917, che connetteva tale titolo e
funzione al Capitolo cattedrale. Quest’organismo, per sua natura, sta-
va di fronte al vescovo, in un rapporto di marcata alterità. Il Consiglio
presbiterale invece non si dà se non nel dialogo comunionale con il
vescovo. Ciò esige un’accresciuta maturità da entrambe le parti: toc-
ca al vescovo valorizzare appieno il contributo del Consiglio, senza ar-
roccarsi nella strenua difesa delle proprie prerogative; al Consiglio,
superare la tentazione di contrapporsi frontalmente al vescovo.
Bisogna ancora notare come la natura stessa teologico-comu-
nionale di questo istituto renda impossibile imbrigliarne le compe-
tenze in un elenco assolutamente esaustivo:
«Il Consiglio presbiterale, che è per sua natura diocesano, è una forma di
manifestazione istituzionalizzata della fraternità esistente tra i sacerdoti, fon-
data sul sacramento dell’Ordine. L’attività di tale Consiglio non può essere
pienamente definita dalla legge; la sua efficacia dipende soprattutto dallo
sforzo ripetuto di ascoltare le opinioni di tutti, per giungere al consenso col
vescovo, al quale spetta di prendere la decisione finale. Se tutto ciò vien fatto
con la massima sincerità e umiltà, superando qualsiasi unilateralità, si può
giungere facilmente a provvedere rettamente al bene comune» 2.

2
SINODO DEI VESCOVI, Documento Ultimis temporibus, 30 novembre 1971, II, 1, in EV 4, n. 1126.
Le funzioni del Consiglio presbiterale 51

Negli anni vivaci della sperimentazione e dell’attuazione del


Vaticano II non fu difficile cogliere l’utilità del Consiglio presbiterale,
come fu detto dalla stessa Congregazione per il Clero, riassumendo
alcune risposte provenienti dagli episcopati:
«Per mezzo di tali Consigli diviene più facile il contatto con i sacerdoti; si co-
noscono meglio i loro pareri e i loro desideri; si possono ottenere più accura-
te informazioni sullo stato della diocesi; si possono scambiare più facilmente
le varie esperienze; le necessità dei pastori e del popolo di Dio vengono più
evidenziate; le iniziative di apostolato adattate alle odierne contingenze ven-
gono prese con coerenza; infine attraverso un comune lavoro, le difficoltà
possono essere adeguatamente risolte o almeno meglio studiate» 3.

All’interno del medesimo documento vaticano, preparato al fi-


ne di esplicitare le più sintetiche disposizioni del Motu proprio ponti-
ficio Ecclesiae sanctae 4, troviamo una buona descrizione, tuttora vali-
da, delle principali competenze del nostro organismo:
«Il Consiglio presbiterale è competente ad assistere il vescovo nel governo
della diocesi. Per cui vengono trattate dal Consiglio le questioni più impor-
tanti che si riferiscono alla santificazione dei fedeli, alla dottrina e, in genere,
al governo della diocesi, sempreché il vescovo ne proponga o almeno ne am-
metta la trattazione. Nel proporre o nell’ammettere una questione il vescovo
curerà che siano rispettate le leggi universali della Chiesa. Il Consiglio, in
quanto rappresenta tutto il presbiterio della diocesi, è istituito per promuo-
vere il bene della diocesi stessa. Possono perciò essere trattate dal Consiglio
tutte le questioni, e non solo quelle che riguardano la vita dei sacerdoti, in
quanto si riferiscono al ministero sacerdotale che i sacerdoti stessi svolgono
in favore della comunità ecclesiastica. È in genere compito del Consiglio
suggerire le norme eventuali da emanare e proporre le questioni di princi-
pio; non quello di trattare le questioni che per loro natura esigono discrezio-
ne nel modo di procedere, come avviene per esempio nella designazione de-
gli uffici» 5.

Gli «affari di maggiore importanza»


L’impostazione da noi adottata esige che, prima di affrontare
nel dettaglio i casi per cui il Codice di diritto canonico prevede e-

3
Presbyteri sacra, 5, in EV 3, n. 2456.
4
Così si esprimeva al n. 15 § 1 della prima parte, il motu proprio di PAOLO VI Ecclesiae sanctae, del 6
agosto 1966 (in EV 2, n. 782): «In ogni diocesi sia istituito nel modo e nelle forme fissate dal vescovo,
un Consiglio presbiterale, cioè un gruppo o senato di sacerdoti, rappresentanti il presbiterio, che possa
efficacemente aiutare con i suoi consigli il vescovo nel governo della diocesi. In questo Consiglio, il ve-
scovo ascolterà i suoi sacerdoti, si intratterrà con essi su ciò che riguarda le necessità dell’opera pasto-
rale e il bene della diocesi».
5
Presbyteri sacra, 8, in EV 3, nn. 2462-2464.
52 Mauro Rivella

spressamente la consultazione del Consiglio presbiterale, si chiari-


sca che cosa debba intendersi per affari di maggiore importanza, per
i quali il vescovo è ugualmente tenuto ad ascoltare il Consiglio. Tale
espressione, contenuta nel can. 500 § 2, è di facile comprensione in-
tuitiva, ma necessita di qualche precisazione, per evitare che un’in-
terpretazione troppo vaga finisca per vanificarla nella pratica.
Possono esserci di aiuto, almeno a livello esemplificativo, due
testi magisteriali, dove si fa lo sforzo di indicare quali ambiti della vi-
ta di una diocesi non possono essere sottratti alla riflessione del
Consiglio presbiterale. Il primo è tratto dal Direttorio per il ministero
pastorale dei Vescovi “Ecclesiae imago”, pubblicato dalla Congregazio-
ne per i Vescovi il 22 febbraio 1973:
«Il Consiglio presbiterale tratta le questioni di maggiore importanza riguar-
danti sia la santificazione personale, la scienza sacra e le altre necessità dei
presbiteri, sia la santificazione e l’istruzione religiosa dei fedeli, sia il gover-
no della diocesi in genere, come pure i temi del ministero sacerdotale che i
presbiteri svolgono a favore della comunità ecclesiastica. Spetta ad esso, tra
l’altro, ricercare gli obiettivi chiari e distintamente definiti dell’esercizio dei
vari ministeri della diocesi, proporre le questioni più urgenti, indicare i me-
todi operativi, aiutare tutto ciò che lo Spirito suole suscitare per mezzo dei
singoli e dei gruppi, favorire la vita spirituale, onde più facilmente si possa
raggiungere la necessaria unità. Deve infine trattare della perequazione dei
beni per il sostentamento del clero, nonché dell’erezione, soppressione o in-
novazione delle parrocchie» 6.

Il secondo testo appartiene al diritto canonico complementare,


di competenza delle Conferenze episcopali. Si tratta delle determina-
zioni assunte dalla Conferenza episcopale di Malta, in applicazione
del can. 496. Ovviamente hanno per gli altri Paesi un valore pura-
mente esemplificativo:
«Al Consiglio presbiterale spetta il dovere di consigliare il vescovo su mate-
rie di maggiore importanza per la vita della diocesi che vengono proposte
dallo stesso vescovo per la considerazione del Consiglio presbiterale, spe-
cialmente su materie che riguardano l’insegnamento della fede cristiana; la
santificazione dei fedeli; il governo pastorale e l’amministrazione della dioce-
si. [...] Oltre ai casi previsti dal diritto universale, è conveniente che si ascol-
ti il Consiglio presbiterale anche: a) prima dell’approvazione di un piano pa-
storale diocesano; b) prima di indire una missione o altra attività pastorale
straordinaria su livello diocesano; c) sulla cura pastorale degli emigranti;
d) su tutto quello che riguarda la vita e il ministero del clero, specialmente

6
n. 203b, in EV 4, n. 2281.
Le funzioni del Consiglio presbiterale 53

per quel che riguarda la santità del clero, la sua formazione, la rimunerazio-
ne e la previdenza sociale» 7.

Le due autorevoli esemplificazioni qui addotte ci convincono di


come non sia superflua, né debba essere data troppo facilmente per
scontata, una riflessione specifica su questo punto da parte degli
stessi Consigli presbiterali, eventualmente all’inizio del mandato
consiliare o in occasione della revisione degli statuti.

Le determinazioni del diritto universale


Il Codice di diritto canonico prevede poi sette casi in cui il Con-
siglio presbiterale deve essere consultato dal vescovo diocesano:
– prima che questi decida di indire il Sinodo (can. 461 § 1): si
tratta di una norma nuova, dal momento che nel Codice del 1917 la
celebrazione doveva avvenire per diritto comune ogni dieci anni;
– per l’erezione, la soppressione o la modifica in modo rilevante
delle parrocchie (can. 515 § 2): questa norma è desunta dal n. 21 § 3
della prima parte del motu proprio Ecclesiae sanctae;
–- quando si tratti di stabilire le norme circa la destinazione del-
le offerte ricevute dai fedeli in occasione dello svolgimento di qual-
che incarico parrocchiale e di provvedere alla remunerazione dei sa-
cerdoti che svolgono tale incarico (can. 531): anche questa norma
deriva da Ecclesiae sanctae, parte prima, n. 8;
– in merito all’opportunità di costituire in ciascuna parrocchia
della diocesi il Consiglio pastorale (can. 536 § 1): questa disposizio-
ne, come le successive, non ha corrispettivo nella legislazione preco-
diciale;
– per la costruzione di nuove chiese (can. 1215 § 2);
– per la riduzione a uso profano non indecoroso di una chiesa
(can. 1222 § 2);
– prima di imporre alle persone giuridiche pubbliche soggette
al suo governo un contributo per le necessità della diocesi; o alle al-

7
J.T. MARTIN DE AGAR, Legislazione delle Conferenze episcopali complementare al C.I.C., Giuffrè, Milano
1990, p. 407. Vorremmo ancora citare un testo, tratto dal Direttorio per il ministero e la vita dei presbite-
ri, edito il 31 gennaio 1994 dalla Congregazione per il Clero. Trattando della formazione permanente, il
n. 89 stabilisce che: «il vescovo, pur svolgendo un ruolo insostituibile e indelegabile, saprà chiedere la
collaborazione del Consiglio presbiterale il quale, per la sua natura e le sue finalità, sembra organismo
idoneo a coadiuvarlo specialmente per quanto riguarda, ad esempio, l’elaborazione del piano di forma-
zione».
54 Mauro Rivella

tre persone fisiche e giuridiche, in caso di grave necessità, una tassa


straordinaria e moderata (can. 1263).
A questi casi si deve aggiungere l’obbligo di sentire il Consiglio
presbiterale prima di decidere se dare luogo a regolari riunioni do-
menicali senza la celebrazione dell’Eucaristia 8.
La legislazione italiana (art. 33 della Legge 20 maggio 1985,
n. 222) stabilisce inoltre che il vescovo diocesano debba sentire il
Consiglio prima di stabilire la remunerazione che i sacerdoti ricevo-
no dagli enti ecclesiastici presso i quali esercitano il ministero.
La consultazione del Consiglio presbiterale nei casi sopra indi-
cati è obbligatoria e costituisce la condizione necessaria, a norma del
can. 127 § 1, 2°, perché il vescovo possa porre validamente l’atto.
Ovviamente, trattandosi di una consultazione, questi non è tenuto a
seguire l’orientamento della maggioranza, e potrà discostarsi da es-
so se lo ritenga necessario. Si discute fra i canonisti se il vescovo
possa dispensarsi dall’osservanza di quest’obbligo, dal momento che
il can. 87 § 1 gli attribuisce la facoltà di dispensare dalle leggi disci-
plinari anche universali e il can. 91 concede che possa esercitare tale
facoltà anche verso se stesso. Quanti propendono per il no, ritengo-
no che la dispensa non sia possibile, perché verterebbe su una di-
sposizione di legge che definisce gli elementi costitutivi essenziali di
un atto giuridico: da essa, a norma del can. 86, non c’è dispensa.
Quanti invece rispondono di sì, pensano che il principio della legge
costitutiva non possa applicarsi al nostro caso, dal momento che la
decisione successiva alla consultazione in oggetto resta sotto la pie-
na e unica responsabilità del vescovo. Egli potrebbe pertanto dispen-
sarsi, a condizione che il bene spirituale dei fedeli, quale giusta cau-
sa, lo esiga: si tratterebbe di un caso assai improbabile, ma non im-
possibile, almeno in teoria.
Il Codice prevede ancora casi in cui i membri di altri organismi
ecclesiali debbono essere eletti dal Consiglio presbiterale o scelti al
suo interno:
– il Consiglio presbiterale deve inviare due suoi membri, de-
signati collegialmente, al Concilio provinciale, con voto consultivo
(can. 443 § 5): nel Codice precedente, tale diritto competeva al Capi-

8
La norma si ricava dal n. 24 del Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza del presbitero
“Christi Ecclesia”, pubblicato dalla Congregazione per il Culto Divino il 2 giugno 1988: EV 11, n. 738.
Le funzioni del Consiglio presbiterale 55

tolo cattedrale; ora spetta in misura uguale al suddetto Capitolo, al


Consiglio presbiterale e a quello pastorale diocesano;
– tutti i suoi membri devono essere chiamati e hanno il dovere
di partecipare con voto consultivo al Sinodo diocesano (can. 463 § 1,
4°): anche questa competenza era riservata dal Codice del 1917 al
Capitolo cattedrale;
– al suo interno, il vescovo diocesano sceglie liberamente da sei
a dodici sacerdoti che costituiranno il Collegio dei consultori (can.
502 § 1): si tratta di un organismo di nuova istituzione;
– deve costituire su proposta del vescovo diocesano un gruppo
di parroci, tra i quali questi sceglierà i due con cui discutere la rimo-
zione o il trasferimento di un parroco (cann. 1742 § 1; 1750): in pre-
cedenza il vescovo era tenuto a sentire due esaminatori sinodali o
due parroci consultori.
In Italia compete pure al Consiglio presbiterale la designazione
di almeno un terzo dei membri del Consiglio di amministrazione e di
uno dei revisori dei conti dell’Istituto diocesano per il sostentamento
del clero 9.

Dall’esame globale delle competenze espressamente attribuite


dal nuovo Codice al Consiglio presbiterale emerge l’impressione di
una certa asistematicità: talora si sono semplicemente trasferite le fun-
zioni attribuite nel 1917 al Capitolo cattedrale, che allora fungeva da
“senato del vescovo”. In altri casi si è ribadito quanto già disposto dal-
la legislazione postconciliare. Altre statuizioni sono del tutto nuove.

Consiglio presbiterale con voto di consenso?


Il can. 500 § 2, dopo aver fissato come norma generale che il
Consiglio presbiterale ha solamente voto consultivo, precisa che il
vescovo diocesano ha bisogno del suo consenso solo nei casi espres-
samente definiti dal diritto. L’attuale formulazione codiciale costitui-
sce il punto di arrivo di una discussione assai vivace che percorse le
fasi di elaborazione del nuovo Codice. Il dibattito si accese fra quanti
intendevano valorizzare il contributo decisionale del Consiglio pre-
sbiterale e quanti volevano difendere la piena libertà del vescovo di
governare e legiferare nella propria diocesi. In particolare si discus-

9
Decreto del Presidente della C.E.I. del 20 luglio 1985, in ECEI 3, n. 2819 ss.
56 Mauro Rivella

se se la concessione del voto di consenso dovesse derivare dalle sole


disposizioni del diritto universale, oppure potesse essere stabilita
dalle Conferenze episcopali e dal singolo vescovo diocesano.
Nello Schema diffuso nel 1977, si prevedeva che il Consiglio
presbiterale godesse solo di voto consultivo, ma si ammetteva che il
voto deliberativo potesse venire a esso attribuito dal diritto universa-
le o anche dallo stesso vescovo diocesano, in casi eccezionali definiti
dalla Conferenza episcopale 10. Alla base di questa formulazione c’era
la Lettera della Congregazione per il Clero Presbyteri sacra, un testo
che – come abbiamo già notato – non ha valore di legge, ma intende
esplicitare la legislazione postconciliare 11.
La concessione del voto deliberativo al Consiglio presbiterale fu
messa in discussione nei successivi lavori preparatori, dominati dalla
preoccupazione di «evitare accuratamente qualsiasi pericolo di de-
mocratizzazione» 12. Senza negarla in maniera assoluta, prevalse l’i-
dea di restringere al solo diritto universale la facoltà di stabilire casi
in cui il vescovo diocesano sia legato al consenso del Consiglio pre-
sbiterale, escludendo che tale determinazione possa venire dalla
Conferenza episcopale o dal singolo vescovo 13. Il testo così formu-
lato fu inserito nello schema diffuso nel 1980. Nella successiva con-
sultazione, un Padre chiese che fosse reintrodotta la possibilità del
singolo vescovo di concedere tale facoltà in casi espressi; un altro
suggerì similmente che tale facoltà fosse attribuita alle Conferenze e-
piscopali. Tali richieste furono respinte dalla Segreteria, in quanto
giudicate contrastanti con lo spirito di Presbyterorum ordinis e di Ec-
clesiae sanctae 14. Nonostante il giudizio della Commissione prepara-
toria, il testo definitivo del can. 500 § 2 è stato ulteriormente modifi-

10
Can. 314 § 1: «Consilium presbyterale gaudet voto consultivo tantum: audiendum vero est in causis
quae iure universali expresse determinantur aut quae, iudicio ipsius Episcopi dioecesani, regimen genera-
le dioecesis respiciunt; unius autem Episcopi dioecesani est causas dirimere et decisiones ferre». § 2: «In
causis tamen, in quibus Consilio presbyterali votum deliberativum concesserit sive ius universale sive, in
casibus exceptionalibus ab Episcoporum Conferentia definitis, ipse Episcopus dioecesanus, idem Episcopus
ut decisiones ferat consensu eget eiusdem Consilii».
11
Così al n. 9: «Il Consiglio presbiterale è un organo consultivo peculiare. È detto consultivo perché
non possiede voto deliberativo; per cui non può emettere decisioni che obblighino il vescovo, a meno
che il diritto universale della Chiesa abbia provveduto in modo diverso o il vescovo in singoli casi abbia
ritenuto opportuno attribuire al Consiglio voce deliberativa» (EV 3, n. 2465).
12
Verbale della seduta del 16 aprile 1980, in Communicationes 13 (1981) 128.
13
Ibid., 133. Così suona il testo modificato: «Consilium presbyterale gaudet voto tantum consultivo; Epi-
scopus dioecesanus illud audire debet vel etiam eius consensu eget solummodo in casibus iure expresse
definitis».
14
Cf PONTIFICIA COMMISSIO C.I.C. RECOGNOSCENDO, Relatio complectens synthesim animadversionum...,
Città del Vaticano 1981, ad c. 420, p. 117.
Le funzioni del Consiglio presbiterale 57

cato dal sommo legislatore, non solo inserendo il dovere del vescovo
diocesano di sentire il Consiglio presbiterale per gli affari di maggio-
re importanza, ma anche mantenendo aperta la possibilità che “il di-
ritto” stabilisca casi in cui il vescovo è legato al consenso del Consi-
glio presbiterale. Dal momento che non è stato codificato il parere
della Commissione preparatoria, si può affermare che il Codice vi-
gente permette al vescovo diocesano di determinare i casi in cui le
sue decisioni siano vincolate al consenso del Consiglio presbitera-
le 15. Ciò non dovrebbe valere per le Conferenze episcopali, a meno
che esse, a norma del can. 455 § 1, abbiano ottenuto il mandato spe-
ciale dalla Sede Apostolica.
Di fatto né nel Codice né nella legislazione universale si danno
casi in cui si vincoli la decisione del vescovo diocesano al consenso
del Consiglio presbiterale. Per altro viene da chiedersi se una tale
concessione da parte del vescovo stesso sarebbe prudente: siamo
portati a pensare che un approfondimento serio della nozione di cor-
responsabilità renda meglio ragione delle differenze specifiche dei
ruoli all’interno della comunione ecclesiale, evitando ambigui cedi-
menti al parlamentarismo politico.

Il rapporto con gli altri organismi diocesani


di corresponsabilità
Per quanto ognuno degli organismi diocesani di corresponsa-
bilità sia autonomo ed eserciti le sue funzioni secondo le disposizioni
del diritto, è evidente che l’obiettivo comune di giovare alla vita della
Chiesa particolare esige che le diverse attività e competenze siano a-
deguatamente coordinate. Un discorso analogo potrebbe essere svi-
luppato circa i rapporti fra il Consiglio presbiterale, i vicari del vesco-
vo e la Curia diocesana: lo tralasciamo, dando per scontato che a essi
si provveda anzitutto inserendo quali membri di diritto nel Consiglio

15
Così interpreta anche l’art. 6 della Sintesi della legislazione del CIC 1983 relativa ai Consigli presbite-
rali, diffusa dalla Segreteria generale della Conferenza Episcopale Italiana il 7-11 maggio 1984: «Il Con-
siglio presbiterale ha voto consultivo e, a norma del c. 127, dev’essere ascoltato dal vescovo nei casi
previsti dal diritto universale. Gli statuti particolari potranno aggiungere altre fattispecie nelle quali è ri-
chiesto il voto consultivo, o eventualmente, anche il voto deliberativo del Consiglio presbiterale» (ECEI
3, n. 1641). Il can. 269 § 2 del Codice dei canoni delle Chiese orientali stabilisce che il vescovo «ha biso-
gno del consenso del Consiglio presbiterale soltanto nei casi espressamente determinati dal diritto co-
mune, fermo restando il diritto del Patriarca, nei riguardi dell’eparchia che egli governa, di chiedere
soltanto il parere del Consiglio presbiterale anche in questi casi».
58 Mauro Rivella

presbiterale quanti sono chiamati in forza dell’ufficio a particolari


responsabilità nell’ambito della potestà esecutiva.
Il legame fra il Consiglio presbiterale e il Sinodo diocesano non
si esaurisce nel fatto che tutti i membri del primo sono chiamati a far
parte del secondo, ma si motiva più radicalmente con la centralità
che il Sinodo assume nella definizione del progetto pastorale della
diocesi e nella preparazione di una normativa anche giuridicamente
vincolante. È ovvio pensare che il Consiglio presbiterale, accanto al
Consiglio pastorale diocesano, costituisca la sede in cui matura l’esi-
genza di indire il Sinodo. Toccherà parimenti al nostro organismo
declinare nel tempo successivo alla celebrazione gli orientamenti e-
mersi nella discussione sinodale e trasformati in norma con l’appro-
vazione del vescovo. Anche se non si può sospendere del tutto l’atti-
vità del Consiglio presbiterale durante le varie fasi sinodali, se non
altro perché deve sbrigare le competenze consultive espressamente
affidategli dal Codice, è logico pensare che il ritmo delle sessioni si
allenti, al fine di permettere di concentrare le energie sull’assise si-
nodale.
Più delicato è il rapporto con il Consiglio pastorale diocesano,
per evitare il rischio di conflitti di competenza o l’impressione da
parte dei membri di quest’ultimo organismo di costituire una realtà
di secondo piano rispetto all’unico senato del vescovo. A questi ri-
schi si potrà ovviare inserendo quali membri di diritto in entrambi
gli organismi alcuni sacerdoti che rivestono uffici particolarmente
significativi nella diocesi; precisando nel contempo con estrema
chiarezza sin dall’inizio di ciascun mandato quali contributi di studio,
valutazione e proposta il vescovo intenda chiedere al Consiglio pa-
storale. Potrebbe anche essere utile, in circostanze particolari, quali
la preparazione di un convegno diocesano o nazionale, suggerire ai
due organismi di esprimersi in maniera parallela sul medesimo tema
e metterne in comune i risultati.
Con il Collegio dei consultori e il Consiglio diocesano per gli affa-
ri economici il rapporto è più tecnico, vista la natura e le caratteristi-
che di tali organismi. È necessario innanzitutto notare che, per quan-
to i membri del Collegio dei consultori debbano essere scelti dal ve-
scovo all’interno del Consiglio presbiterale, i due organismi sono del
tutto autonomi e vivono di vita propria: i consultori infatti permango-
no in carica nel Collegio quand’anche fosse terminato il loro ufficio
di membri del Consiglio presbiterale. Bisogna ancora ricordare che,
a norma del can. 501 § 2, il Collegio dei consultori, a differenza del
Le funzioni del Consiglio presbiterale 59

Consiglio presbiterale, rimane in funzione anche in caso di vacanza


della sede episcopale, assumendo anzi in sé i compiti ordinariamen-
te attribuiti al Consiglio presbiterale.
Il caso contemplato dal can. 1263 (imposizione di un tributo per
le necessità della diocesi) è l’unico in cui il Codice preveda che il ve-
scovo diocesano debba consultare sia il Consiglio presbiterale sia
quello per gli affari economici: la ragione della singolare disposizio-
ne sta nel carattere particolare della decisione, che esige la conver-
genza di una valutazione prudenziale di ordine pastorale (di compe-
tenza del Consiglio presbiterale) e di una più strettamente tecnico-
economica (affidata al Consiglio per gli affari economici).

Per un’effettiva promozione del Consiglio presbiterale oggi


Ci si permetta in conclusione una notazione che nasce anche
dall’esperienza diretta, purtroppo largamente condivisa: all’oggettiva
chiarificazione della natura e dei compiti del Consiglio presbiterale,
frutto della progressiva elaborazione della legislazione postconcilia-
re e delle precisazioni normative contenute nel nuovo Codice, non
sembra corrispondere un’effettiva valorizzazione, nella prassi pasto-
rale delle nostre diocesi, di tale organismo. È forte la tentazione del-
la disaffezione, con il conseguente rischio di ridurre le sessioni del
Consiglio presbiterale a poco più del disbrigo degli adempimenti im-
posti dalla legge, smarrendone così il profondo significato comunio-
nale, con grave danno per la vita della Chiesa particolare. A testimo-
nianza di questo disagio basti citare i rilievi emersi già nel 1985, in
occasione del Convegno ecclesiale di Loreto. Un’apposita commis-
sione, denominata La partecipazione nella Chiesa: forme istituzionali
e stili di condivisione, prevedeva espressamente un approfondimento
sulla natura e il ruolo del Consiglio presbiterale: si ebbero quasi cen-
to interventi, ma uno solo fu dedicato in modo dettagliato al nostro
organismo. Tale fatto venne rimarcato nella sintesi dei lavori:
«Nonostante la presenza di numerosi sacerdoti nella discussione, non si è
quasi parlato dei Consigli presbiterali. Valutando questo fatto si è ritenuto do-
verlo proporre all’attenzione generale. In effetti non sembra si possa dire che
per i Consigli presbiterali vada tutto bene e non esistano problemi e, quin-
di, occorre chiedersi quale significato si debba dare a questa “rimozione”» 16.

16
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini. Atti del 2° Con-
vegno ecclesiale - Loreto, 9-13 aprile 1985, A.V.E., Roma 1985, p. 325.
60 Mauro Rivella

È evidente che solo un serio riesame delle motivazioni profon-


de che soggiacciono al Consiglio presbiterale può condurre alla rivi-
talizzazione delle sue funzioni. In questo senso, potrebbe forse gio-
vare un intervento della Conferenza episcopale, anche mediante una
effettiva utilizzazione della possibilità offerta dal can. 496, che preve-
de che essa dia norme a cui i singoli Consigli debbono attenersi nel
predisporre i propri statuti.
La posta in gioco è alta: l’attuazione convinta e non solo formali-
stica delle strutture istituzionali che rendono possibile l’esercizio
della corresponsabilità costituisce un punto nodale per l’effettiva tra-
duzione operativa delle grandi istanze comunionali del concilio Vati-
cano II. Sciupare queste occasioni, per pigrizia o pavidità, sarebbe
per tutti, vescovi e presbiteri, una grave responsabilità di cui rendere
conto davanti al Signore e alla sua Chiesa.

MAURO RIVELLA
via Lanfranchi, 10
10131 Torino
61

Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti,


rappresentante di un presbiterio
di Mario Marchesi

La descrizione della “natura” del Consiglio presbiterale com-


prende l’analisi di tutti i diversi elementi contenuti nella definizione
di questo organismo, così come viene presentata dal can. 495.
Per operare una scelta, mi limiterò ai seguenti tre punti: una
breve considerazione sul termine coetus, un richiamo al presbiterio
da cui provengono i sacerdoti membri del Consiglio presbiterale e
qualche puntualizzazione sulla natura della rappresentanza di cui so-
no investiti.

Coetus
Il can. 495 presenta una sorta di definizione del Consiglio pre-
sbiterale, che si traduce in una descrizione realistica. Esso è
«un gruppo di sacerdoti che, rappresentando il presbiterio, sia come il sena-
to del vescovo, con il compito di coadiuvare il vescovo nel governo della dio-
cesi, a norma del diritto, affinché sia promosso, il più efficacemente possibi-
le, il bene pastorale della porzione di popolo di Dio a lui affidata».

Il Consiglio presbiterale non viene designato come “collegio”,


ma semplicemente come coetus (gruppo), a differenza di quanto, al
contrario, si afferma a proposito del Collegio dei consultori, nel
can. 502, e del Capitolo dei canonici, nel can. 503. Questa diversità
terminologica non è, tuttavia, suffragata da motivazioni sostanziali
che siano sufficientemente giustificanti. Infatti non è possibile trova-
re una qualche differenza di sostanza per cui quello dei consultori è
chiamato “collegio”, mentre quello presbiterale coetus. È vero che i
membri del Collegio dei consultori sono tutti nominati dal vescovo,
62 Mario Marchesi

anche se il gruppo da cui sceglierli è già predeterminato, ed è anche


vero che lo stesso Collegio dei consultori non decade quando la sede
diventa vacante e che il Consiglio presbiterale, invece, cessa di esi-
stere; ma le stesse caratteristiche sono presenti anche nel Consiglio
degli affari economici della diocesi, eppure esso non viene chiamato
collegio.
Anche i membri del Consiglio presbiterale hanno tutti, come
avviene in un collegio, la stessa posizione di uguaglianza in ordine al-
la convocazione, all’attività, ai pareri; inoltre, le decisioni, quando ri-
chieste secondo le norme canoniche, possono essere formulate solo
in modo collegiale: il parere del Consiglio, ad esempio, in ordine al-
l’erezione di una parrocchia, è quello espresso a norma del diritto
dal consiglio legittimamente convocato.

Presbiterio rappresentato
1) Non indugio sulla discussione intorno alla “identità” del pre-
sbiterio diocesano, anche se è fuori di dubbio che l’identificazione
teologicamente fondata dei componenti “naturali” del presbiterio di
una struttura ecclesiale, quali sono quelle individuate dal can. 368 in-
tegrate dalla Prelatura personale e dall’Ordinariato militare (o Vica-
riato castrense) 1, costituisce la base per una formulazione più preci-
sa in ordine all’organismo che deve prestare aiuto al vescovo nel go-
verno della sua diocesi.
Mi fermo soltanto al dato di fatto, fissato nell’attuale legislazio-
ne, che prevede, con il can. 498, la determinazione un corpus sacer-
dotale, costitutivo dei soggetti chiamati a eleggere o a essere eletti
in un Consiglio presbiterale. È questo canone che ci fa individuare
con sufficiente chiarezza, pur con la necessità di qualche precisazio-
ne, a quale “presbiterio” facciamo riferimento.
Il presbiterio elettivo (o che sceglie i suoi rappresentanti), che
si può ricostruire dalla normativa codiciale, ha un carattere pratico e
tiene soprattutto presente la finalità specifica attribuita al Consiglio
presbiterale. Esso risulta così composto:
a) da tutti «i sacerdoti secolari incardinati nella diocesi»;
b) dai «sacerdoti secolari non incardinati nella diocesi e i sacer-
doti membri di un istituto religioso o di una società di vita apostolica,

1
Cf GIOVANNI PAOLO II, cost. ap. Ut sit, del 28 novembre 1982, in AAS 75 (1983) 423-425 e cost. ap. Spi-
rituali militum cura, del 21 aprile 1986, in AAS 78 (1986) 481-486.
Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti, rappresentante di un presbiterio 63

i quali, dimorando nella diocesi, esercitano in suo favore qualche uf-


ficio»;
c) da «altri sacerdoti che abbiano nella diocesi il domicilio o il
quasi domicilio», se così è previsto negli statuti.
Questa disposizione legislativa ci permette di ricavare il princi-
pio per determinare l’elemento essenziale e indispensabile perché
un presbitero possa far parte del presbiterio elettivo di un Consiglio
presbiterale diocesano: si tratta del vincolo di unità (comunione ge-
rarchica) con il vescovo della diocesi. Il presbiterio elettivo di una
diocesi, quindi, è costituito dai presbiteri che hanno una qualche re-
lazione con il vescovo della stessa o in forza dell’incardinazione o in
forza di uno specifico incarico, comunque esso venga conferito, o in
forza di una disposizione particolare, statutaria, che costituisca il
punto di contatto tra un presbitero e il vescovo diocesano.
L’analisi più approfondita del canone, inoltre, conduce a ritene-
re che un ulteriore elemento determinante (o specificativo) perché
un presbitero goda di voto attivo o passivo in ordine alle elezioni, è
che esso abbia, personalmente, un mandato specifico (o licenza o
permesso, esplicito o implicito) a servizio della diocesi.
Gli altri elementi intercorrenti: residenza, domicilio, quasi-do-
micilio, incardinazione come dato a sé stante, vita consacrata, sono
condicio iuris, che conferiscono eventualmente una capacità giuridi-
ca, ma che, per se stessi, non danno una capacità di agire.
2) Qualcuno ritiene che, per quanto riguarda i sacerdoti secolari,
l’unico elemento richiesto sarebbe l’incardinazione e, pertanto, non
dovrebbe essere necessario fare riferimento a un servizio. A sostegno
di questa tesi si richiama il dettato letterale del canone e si cita quanto
riportato in Communicationes 13 (1981) 130 e 14 (1982) 216 2.

2
È opportuno riportare i due testi. «1. Ius electionis tum activum tum passivum ad Consilium presbyte-
rale constituendum habent: 1° omnes sacerdotes saeculares in dioecesi incardinati qui insimul aut in ea-
dem domicilium aut quasi-domicilium habent, aut in bonum dioecesis officium aliquod adimplent; 2° sa-
cerdotes saeculares in dioecesi non incardinati, necnon sacerdotes sodales alicuius Instituti vitae consecra-
tae, qui in dioecesi domicilium aut quasi-domicilium habent et ibidem officium aliquod in bonum
dioecesis exercent. 2. Quatenus statuta id provideant idem ius electionis conferri potest aliis sacerdotibus
qui domicilium aut quasi-domicilium in dioecesi habent aut officium aliquod in bonum dioecesis exer-
cent». 1, n. 1: Mons. Segretario propone di sopprimere «qui insimul... adimplent». Concordano tutti,
perché è sufficiente che i sacerdoti siano incardinati per avere diritto al voto. 1, n. 2: Mons. Segretario
propone di sopprimere «domicilium... et ibidem» e «in bonum dioecesis». Lo stesso propone di aggiun-
gere dopo «officium aliquod» le parole «ab Episcopo dioecesano collatum». Concordano tutti, meno il Re-
latore e un Consultore, che non credono sia sufficiente avere un ufficio in diocesi per godere del diritto
di voto per il Consiglio presbiterale, se non hanno contemporaneamente il domicilio in diocesi. 2:
Mons. Segretario, tenendo conto degli emendamenti fatti al 1, propone di sopprimere «aut officium...
exercent». Concordano tutti (p. 130).
64 Mario Marchesi

Non sembra che questi richiami intacchino la validità di quanto


sopra affermato, anzi ne sono proprio una conferma, sia per una con-
siderazione di carattere generale sia per alcuni dati di fatto.
È vero che il canone, per i sacerdoti secolari, espressamente,
non fa riferimento all’esercizio di un ufficio. Ma la disposizione non
può essere valutata da sola, prescindendo dal resto della normativa
codiciale. Il can. 17 ci insegna che «le leggi ecclesiastiche sono da in-
tendersi nel significato proprio delle parole, considerato nel testo e
nel contesto...»; cioè una legge va interpretata in armonia con le altre
esistenti ed eventualmente con il sistema dello stesso Codice, consi-
derato come un tutt’uno organicamente strutturato.
Non va infatti trascurato che l’istituto dell’incardinazione ha una
sua connotazione giuridica specifica. Le norme del Codice che rego-
larizzano tale istituto mostrano con evidenza che, nella linea della
normalità giuridica, non si dà separazione tra incardinazione e servi-
zio. Il can. 266 § l, affermando esplicitamente che

«uno diviene chierico con l’ordinazione diaconale e viene incardinato nel-


la Chiesa particolare o nella Prelatura personale al cui servizio è stato am-
messo» 3,

stabilisce, senza equivoci, che l’incardinazione ha una ordinazione


connaturale al servizio, il quale deve essere presente o come dato di
fatto, o come situazione soggettiva per sé possibile di essere concre-
tizzata ad acta, o come rapportato in maniera tale a un presbitero
che questi può ricevere il titolo di emerito 4.

«1... Saltem sequentes fiant emendationes: in 1, 1), addantur verba “... incardinati, nisi in alia commoren-
tur”... Animadversio recipienda non videtur, quia:... sacerdotes saeculares extra dioecesim habitualiter de-
gentes ordinarie non eligentur ut sint membra Consilii presbyteralis, sed non debent propter hoc iure suo
privari. 2. Dicatur in 1,2): “... sodales alicuius Instituti vitae consecratae aut Societatis vitae apostolicae
in dioecesi commorantes et laborem apostolicum cum Episcopi beneplacito exercentes” (alter Pater).
R. Propositio recipitur iuxta modum, ita ut 1, 2) ita emendatur: “... qui in dioecesi commorantes, in eiu-
sdem bonum aliquod officium exercent”. 3. Dicatur in 1:
“Qui habent ius electionis tum activum tum passivum ad Consilium presbyterale constituendum a statutis
determinandi sunt, attentis normis ab Episcoporum Conferentia prolatis”, quia sic vitatur abusus, ex. gr.,
ut eligantur sacerdotes qui illegitime extra dioecesim degunt, vel ut ius electionis habeant qui minsterium
dereliquerunt (Pater quidam). R. Animadversio admitti non posse videtur, quia nimium locum arbitrio
relinqueretur. Per se, qui sunt incardinati ius habent electionis, attamen, si illegitime absunt vel ministe-
rium non exercent, Episcopus dioecesanus potest hoc ius ipsis auferre. Nihilominus, adiungi possunt forsi-
tan verba “ad normam statutorum”, quae aequivalent ad praescriptum can. 312 schematis praecedentis”
(pp. 216-217).
3
Si vedano anche il can. 269 e il Rito dell’Ordinazione.
4
Cf can. 185.
Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti, rappresentante di un presbiterio 65

Per sé, la ragione giustificante dell’incardinazione è la necessità


o l’utilità della Chiesa 5. L’incardinazione non ha completezza di signi-
ficato se non coimplica nel soggetto il suo essere ordinato al servi-
zio. L’incardinazione serve per individuare il soggetto atto a dare
una missio canonica, cioè a concretizzare il servizio di un presbitero,
e a far sì che non esistano «chierici acefali o girovaghi» (can. 265) 6.
Secondo quanto si desume anche dalla risposta al n. 3 di cui in
Communicationes (pp. 216-217), riportata precedentemente in nota,
l’incardinazione è certamente la “radice” della capacità giuridica in
ordine al diritto attivo e passivo di voto, ma perché non si determini-
no situazione giuridiche patologiche, al fine di salvaguardare la ra-
zionalità della norma, la medesima incardinazione deve avere un
nesso giuridico con il servizio per generare una possibilità di agire.
Per una comprensione giuridicamente precisa della disposizio-
ne del can. 498 § 1, 1°, si può tener presente che, mentre in presenza
di un presbitero che abbia un servizio ministeriale a favore della dio-
cesi, o comunque affidato dal vescovo della stessa, si può essere cer-
ti che egli goda del diritto attivo e passivo in ordine alle elezioni per
un Consiglio presbiterale, la stessa cosa non è sempre vera per i pre-
sbiteri che presentino un legame con la diocesi costituito semplice-
mente dall’istituto giuridico dell’incardinazione.
3) I casi in cui l’incardinazione può sussistere da sola senza la
“possibilità” che, stante la situazione, sia compresente ancora un rap-
porto giuridico con l’ufficio o con il vescovo che abbia la facoltà di
conferirlo, sono quelli derivanti da:
a) una sentenza o un decreto con cui si infligge la pena della
scomunica;
b) un atto di incardinazione, come puro fatto formale, come pu-
ro supporto giuridico per un presbitero destinato costitutivamente a
essere soggetto a un superiore diverso dal vescovo incardinante e ad
avere uffici non dipendenti dallo stesso vescovo.
Consideriamoli brevemente.
a) Prendiamo ad esempio il can. 1364. Esso dice che «l’aposta-
ta, l’eretico e lo scismatico incorrono nella scomunica latae senten-
5
Cf oltre al can. 266 anche i cann. 269-271.
6
«Causa cooptandi fideles in ordinem clericorum est necessitas vel utilitas Ecclesiae, non privata devotio,
minus etiam privatum commodus. Porro, cum turpe sit clerico otiari et pericolosum ex incertis eleemosynis
vivere, iam ab initiis Ecclesiae sancitum est ne ordinarentur nisi qui, tamquam utiles ministri, certo titulo
vel ecclesiae ascriberentur...» (A.VERMEERSCH - J. CREUSEN, Epitome Iuris Canonici, 1924, t. I, p. 134).
66 Mario Marchesi

tiae...». Tale scomunica può essere dichiarata a norma di legge. Allo


scomunicato, secondo il can. 1331 § 1, 3° è fatto divieto «di esercita-
re funzioni in uffici e ministeri o incarichi ecclesiastici qualsiasi, o di
porre atti di governo». Un chierico che si trovasse in simile situazio-
ne, cioè con una scomunica dichiarata, può anche non essere ancora
dimesso dallo stato clericale e, quindi, risultare ancora incardinato in
diocesi senza nessun rapporto possibile, fino a quando perdura lo
stato in atto, con un servizio ministeriale. Questo sacerdote, giuridi-
camente ancora incardinato, ha il diritto attivo e passivo in ordine al-
le elezioni?
Si può concludere con facilità che non può essere soggetto pas-
sivo, in quanto non è nella possibilità giuridica di esercitare un qual-
siasi ufficio e, di conseguenza e tanto meno, quello di membro di un
Consiglio presbiterale.
Altrettanto chiara, inoltre, è anche la sua esclusione dal diritto
attivo di elezione. Infatti è il can. 171 § 1, 3° a stabilire che «sono ina-
bili a dare il voto» – in ordine alla elezione per un ufficio – «... chi è
legato dalla pena della scomunica sia per sentenza giudiziale sia per
decreto con il quale la pena viene inflitta o dichiarata».
Pertanto, ci troviamo di fronte a un caso emblematico a confer-
ma dell’affermazione che la sola incardinazione non è elemento giu-
ridico sufficiente per fondare l’agire giuridico nel nostro caso.

b) La seconda fattispecie presenta qualche complessità in più.


Si tratta dei presbiteri appartenenti a quelle società di vita apostolica
o istituti secolari oppure aggregati alle cosiddette associazioni di
presbiteri, che richiedono l’incardinazione in una diocesi, ma che,
sia giuridicamente che di fatto, restano totalmente sganciati dal ve-
scovo della stessa diocesi quanto all’esercizio del loro ministero sa-
cerdotale, dipendendo totalmente dall’ordinario proprio o dal mode-
ratore dell’associazione.
Trascurando alcune particolarità legate alle singole situazioni,
prendiamo come riferimento soltanto il caso del presbitero che con
la diocesi incardinante abbia un rapporto limitato al puro fatto giuri-
dico dell’incardinazione. Quale posizione giuridica gli può essere ri-
conosciuta in ordine alle elezioni per il Consiglio presbiterale della
medesima diocesi, sulla base delle norme attuali?
Se si prendesse alla lettera la disposizione del can. 498 § 1, 1°,
si dovrebbe rispondere che a questo presbitero va riconosciuto sia il
diritto attivo che il diritto passivo.
Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti, rappresentante di un presbiterio 67

Ma, se si tiene conto di quanto nello stesso canone si esige per i


sacerdoti membri di un istituto religioso o di una società di vita a-
postolica, per i quali si esige che esercitino in favore della diocesi un
qualche ufficio, si deve concludere che anche i sacerdoti di cui sopra,
senza un servizio concreto, non possono essere portatori di un diritto
di agire. Infatti, la situazione “di fatto” di questi presbiteri è analoga a
quella di coloro che sono incardinati in un istituto religioso o in una
società di vita apostolica che incardini. La loro incardinazione in una
diocesi è, in pratica, una pura fictio iuris, perché non genera nel pre-
sbitero quei vincoli giuridici con l’autorità incardinante che, per sé,
l’istituto dell’incardinazione intende normalmente stabilire.
A ciò si può aggiungere, almeno per l’aspetto passivo del diritto
di elezione, che anche la finalità intrinseca alla funzione di un Consi-
glio presbiterale – coadiuvare al governo della diocesi – rende mani-
festamente inidoneo a tale collaborazione chi con il vescovo non ha
nessun rapporto, al di là della fictio della incardinazione, né di diritto
né di fatto.
Una conferma indiretta può essere ricavata anche dal n. 26 del
Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, dove si dice:
«... I presbiteri, poi, incardinati in una diocesi, ma per il servizio di qualche
movimento ecclesiale approvato dalla competente autorità ecclesiastica, sia-
no consapevoli di essere membri del presbiterio della diocesi in cui svolgono
il loro ministero e di dover sinceramente collaborare con esso».

4) Per completare il quadro, vi sono ancora due casi tipici che


meritano qualche considerazione.
Il primo è quello dei presbiteri diocesani che abitualmente eser-
citano il proprio ministero presso una diocesi diversa da quella di in-
cardinazione. Si deve osservare che questi sacerdoti sono in posizio-
ne giuridica diversa rispetto a quelli dei due casi precedentemente
considerati. Infatti essi, come presbiteri, non sono collegati al pro-
prio vescovo solo dal fatto dell’incardinazione, ma anche da un rap-
porto di subordinazione diretta e da un suo mandato o da una sua
licenza o da un suo permesso a esercitare un ufficio, pur se il desti-
natario del ministero non è direttamente la diocesi in cui sono incar-
dinati. Per cui in tali presbiteri noi troviamo presenti sia l’incardina-
zione, sia il vincolo con l’autorità del vescovo sia l’esercizio di un mi-
nistero.
Il secondo caso è quello dei presbiteri secolari incardinati in
diocesi e che, di fatto, sono “senza servizio”, pur dimorando nella
68 Mario Marchesi

propria diocesi oppure vivendo fuori. Anche questi presbiteri sono in


una posizione giuridica particolare. Innanzitutto essi sono nella si-
tuazione personale di poter ricevere un diretto comando da parte del
proprio vescovo e, quindi, nella possibilità di ricevere un servizio.
Qualora per disobbedienza o negligenza non volessero assumersi un
incarico, allora al vescovo è riconosciuta la facoltà di esautorarli, a
norma di legge, dall’esercizio del diritto attivo e passivo di elezione.
Questa facoltà concessa al vescovo, secondo il suggerimento conte-
nuto nella risposta riportata da Communicationes, è una dimostrazio-
ne diretta della connessione, percepita anche dagli esperti che stava-
no elaborando le norme codiciali, tra l’incardinazione e l’esercizio di
un ufficio perché entri in gioco il diritto di agire in ordine alle elezio-
ni. Certo fino a quando la condicio iuris, in simili casi, risulta ancora
giuridicamente libera e perciò possibile di essere portata ad acta
con il conferimento di un ufficio da parte del vescovo, il presbitero
non può essere privato del suo diritto 7.

5) Come ultima annotazione, si può rilevare che, in base alla


norma del Codice, diventa teoricamente possibile che un presbitero
faccia parte di più presbitèri elettivi e anche di più Consigli presbite-
rali. Infatti, egli diventa membro del presbiterio elettivo di tutte le
diocesi in cui esercita un ufficio, in collegamento con il vescovo dio-
cesano della stessa.

La rappresentanza
Il Consiglio presbiterale ha diretto riferimento sia al vescovo
diocesano sia a tutti i presbiteri della diocesi. Esso diventa organo
rappresentativo del presbiterio diocesano.
Il concetto di rappresentanza è entrato nella norma con qualche
difficoltà, perché ritenuto ambiguo, in quanto potrebbe richiamare
atteggiamenti di contrasto, o comunque di contrapposizione, tra i
presbiteri e il vescovo.
È fuori di dubbio che l’applicazione del contenuto della rappre-
sentanza al Consiglio presbiterale ha bisogno di qualche precisazio-
ne per essere correttamente intesa.

7
È appena il caso di richiamare che non costituiscono particolare problema i sacerdoti quiescenti. La
soluzione è ricavabile dal can. 185 già citato.
Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti, rappresentante di un presbiterio 69

La dottrina civilistica conosce la rappresentanza volontaria,


quella legale, quella organica e quella politica.
Sono certamente da escludersi, per il nostro caso, le prime tre,
poiché esse fanno riferimento rispettivamente a una persona fisica,
a una persona giuridica e a un organo che rappresenta un ente giu-
ridico, e il Consiglio presbiterale non rientra in nessuna di queste
“figure”.
Resta quindi la rappresentanza politica, che è propriamente
quella di coloro che hanno titolo per esercitare un potere in forza di
un mandato, ottenuto per elezione da parte del soggetto che detiene
la base del potere stesso. La rappresentanza politica è una delega,
nel senso che coloro che la ricevono non hanno in sé la potestà vera
e propria, ma viene loro demandato l’esercizio puro e semplice di
una potestà che si trova in modo nativo e completo in un altro sog-
getto, il popolo. Per alcuni autori tale rappresentanza non creerebbe
alcun vincolo giuridico tra rappresentato e rappresentante; per altri,
invece, avrebbe anche una certa rilevanza giuridica 8.
Anche se alcuni elementi della rappresentanza politica si posso-
no intravedere nel Consiglio presbiterale, tuttavia vi sono ragioni
che rendono alquanto limitato il rapporto tra la medesima rappre-
sentanza e quella dei membri del Consiglio.
Infatti, occorre tener presente la realtà teologica della Chiesa. Il
soggetto della piena sovranità, nella Chiesa, non è il popolo (come
realtà sociologica di base), ma Gesù Cristo stesso; inoltre il metodo
di trasmissione dei cosiddetti poteri non è l’elezione fatta dai compo-
nenti della comunità.
È vero che qualche analogia con la rappresentanza politica esi-
ste. Tutti i presbiteri sono costituiti, in forza dell’Ordine sacro e della
missione, «necessari collaboratori e consiglieri [dei vescovi] nel po-
polo di Dio» (PO 7) 9, per cui essi divengono portatori di un certo po-
tere di partecipare, in qualche modo e sotto l’autorità del vescovo, al
governo della diocesi. Nulla vieta, e le circostanze talvolta possono
anche consigliarlo, che il depositario di questo potere lo conceda a
un altro che diviene così suo “rappresentante politico”. In tal caso
potremmo dire che vi è una trasmissione di esercizio dei poteri: i
singoli sacerdoti, nelle forme stabilite dall’autorità della Chiesa, con-

8
Cf M. MARCHESI, Consiglio presbiterale diocesano, Brescia 1972, pp. 248-264.
9
Cf anche CD 28, 1; LG 28, 2; PO 1.2.5.7.
70 Mario Marchesi

cedono un certo uso concreto della loro facoltà ad altri, per garantir-
ne l’efficacia o perché non vi è concretamente altra possibilità del
suo esercizio.
Questa qualità di “rappresentanza politica” avrebbe una applica-
bilità al Consiglio presbiterale se i suoi membri fossero tutti eletti di-
rettamente dal presbiterio (come realtà sociologica di base). Ma sap-
piamo che il Consiglio è un gruppo di sacerdoti, dei quali solo una
parte è eletta direttamente. Eppure è tutto il Consiglio che deve rap-
presentare il presbiterio diocesano.
Pertanto la rappresentanza del Consiglio presbiterale è sui ge-
neris: esso è costituito, dalla legge della Chiesa, oggettivamente co-
me rappresentante del presbiterio. Ciò significa che tutti i membri,
sia quelli eletti, sia quelli di diritto o nominati dal vescovo sono chia-
mati a esprimere in atti di rilevanza giuridica (consultazioni, pareri,
elezioni ecc.) la partecipazione dei presbiteri della diocesi al gover-
no della stessa. La qualifica assunta dai membri nominati o di diritto
è sempre quella di rappresentante del presbiterio (non del vescovo),
perché restano sempre presbiteri senza nessun’altra facoltà specifica
in ordine al Consiglio e al presbiterio.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
AA.VV., I consigli presbiterali e pastorali in Italia, ED, Napoli 1979.
ARRIETA J.I., El régimen juridico de los Consejos presbiteral y pastoral, in Ius Canoni-
cum 21 (1981) 567-605.
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(1984) 783-793.
CARZANIGA G., Il consiglio presbiterale diocesano, in Orientamenti Pastorali 31
(1983) 76-79.
CATTANEO A., Il Presbiterio della Chiesa particolare, Giuffrè, Milano 1993.
DANEELS F., De dioecesanis corresponsabilitatis organis, in Periodica 74 (1985)
301-324.
GARCÍA MARTIN I., El Consejo de mision en las circumscriptiones ecclesiasticas de
mision aun no erigidas en diocesis, in Commentarium pro religiosis et missionariis
66 (1985) 307-324.
GIANNINI F., La Chiesa particolare e gli organismi di partecipazione, in Il nuovo co-
dice di diritto canonico. Novità, motivazione e significato, PUL, Roma, pp. 178-191.
GIULIANI G., Il consiglio presbiterale e il consiglio pastorale del nuovo codex, in Giu-
stizia e servizio, D’Auria, Napoli 1984, pp. 159-171.
Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti, rappresentante di un presbiterio 71

INCITTI G., Il Consiglio presbiterale, P.U. Lateranense (tesi di laurea) 1994.


MARCHESI M., Consiglio presbiterale diocesano, Morcelliana, Brescia 1972.
MARTINEZ SISTACH L., El Colegio de Consultores en el nuevo Codigo, in Revista
Española de Derecho Canónico 39 (1983) 291-305.

MARIO MARCHESI
via Marchetti Selvaggiani, 22
00165 Roma
72

Gli statuti del Consiglio presbiterale


di Paolo Bianchi

Il can. 496 del Codice di diritto canonico per la Chiesa latina


prescrive che il Consiglio presbiterale abbia un proprio statuto (pro-
pria statuta), che deve essere approvato dal vescovo diocesano e che
deve tener conto delle norme date in merito dalla Conferenza epi-
scopale. Il can. 265 del Codex canonum Ecclesiarum orientalium pre-
vede analogamente la presenza per il Consiglio presbiterale di un
proprio statuto, che deve essere approvato dal vescovo eparchiale
(l’equivalente del vescovo diocesano latino) e che deve tener conto
sia delle norme del diritto comune alle Chiese orientali cattoliche sia
del diritto proprio di ogni Chiesa cosiddetta sui iuris.
Ma che cosa sono questi “statuti”? Cosa devono contenere? Co-
me il diritto comune è giunto a prevederli? Qual è la loro importanza
per un retto e fruttuoso funzionamento di un Consiglio presbiterale?
A queste domande si cercherà di rispondere per gradi, dan-
do per presupposto tutto quanto i precedenti articoli hanno trattato
su storia, natura, funzioni del Consiglio presbiterale. Solo si inten-
de richiamare – a modo di premessa – che l’ancora relativamente re-
cente istituzione di detti Consigli (sono infatti una istituzione nata
dal concilio ecumenico Vaticano II) fa sì non vi sia ancora un patri-
monio di esperienza (e soprattutto una riflessione su di essa) del tut-
to consolidato.

Lo statuto
Per statuto (o statuti, come usuale in latino dove si usa abitual-
mente il neutro plurale) deve intendersi quell’ordinamento giuridico
stabilito per un insieme di cose o di persone che ne definisce il fine,
la costituzione, il regime e le modalità di azione (cf can. 94 § 1).
Gli statuti del Consiglio presbiterale 73

Evidentemente il Consiglio presbiterale è un insieme di perso-


ne, definendolo lo stesso Codice di diritto canonico come coetus sa-
cerdotum avente funzione definibile come di senatus Episcopi. Esso è
quindi un insieme di persone particolari: dei sacerdoti; aventi una
funzione pure determinata.
Esso non è tuttavia persona giuridica – sia pubblica sia privata –
in quanto non è istituita come tale dall’ordinamento positivo comune
o da una speciale concessione dell’autorità (cf can. 113 § 2 e can. 114
§ 1). In analogia però con la descrizione delle persone giuridiche fat-
ta dal Codice, si può dire che il Consiglio presbiterale è un insieme
di persone collegiale, in quanto perviene alle proprie deliberazioni
nel perseguimento del proprio fine istituzionale («aiutare il vescovo
nel governo della diocesi»: can. 495 § 1) attraverso un’azione colle-
giale, ossia per mezzo della formazione – alle condizioni previste dal
diritto – di un parere che può essere considerato parere del Consi-
glio e non solo di suoi singoli componenti (cf cann. 115 § 2; 127 § 1 e
500 § 2). Anche a un insieme di persone non dotato di personalità
giuridica va riconosciuto titolo ad avere un proprio statuto 1.
All’osservanza di uno statuto sono tenuti esclusivamente coloro
che fanno parte di quell’insieme di persone per cui lo statuto stesso
è dato (cf can. 94 § 2). Laddove poi un determinato statuto sia costi-
tuito in forza del potere legislativo e come tale promulgato, esso è
sottoposto al regime giuridico previsto per le leggi ecclesiastiche
propriamente dette (cf can. 94 § 3).
Correlato al concetto di statuto, almeno da un punto di vista fun-
zionale 2, è il concetto di “regolamento” (ordines), costituito appunto
da quelle regole che debbono essere osservate nelle assemblee di
persone dai partecipanti alle stesse. Norme che stabiliscono la costi-
tuzione di dette assemblee; che ne regolamentano la conduzione e il
modo di trattare le questioni all’ordine del giorno (cf can. 95).
Come vedremo nell’esposizione seguente, gli “statuti” di cui
tratta la normativa comune per i Consigli presbiterali partecipano
delle caratteristiche di entrambi gli istituti appena richiamati. Anche

1
Cf MARCUZZI P.G., Statuti e regolamenti, in Apollinaris 60 (1987) 537, che contesta la opposta afferma-
zione di DE PAOLIS V. - MONTAN A., Il libro Primo del Codice di Diritto Canonico (cann. 1-95), in AA.VV.,
Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I, Roma 1986, p. 325.
2
Al punto che alcuni Autori lo considerano come la esplicitazione e l’applicazione pratica di norme sta-
tutarie: per esempio PINTO P.V., Commento al Codice di diritto canonico, Roma 1985, p. 59 e – seppure
con puntuali distinzioni – URRUTIA F.J., Regolamento, in Nuovo dizionario di diritto canonico, Frascati
1993, p. 899. Cf anche BETTETINI A., “Statuti” e “regolamenti” nel Codice di diritto canonico, in Il Diritto
Ecclesiastico, 1994, I, 3-15.
74 Paolo Bianchi

per questo, nella prassi, non è data una omogeneità né contenutisti-


ca né terminologica in merito. Contenutisticamente alcuni statuti si
presentano come piuttosto comprensivi di aspetti anche minutamen-
te regolamentari; altri invece rimandano a separati regolamenti a-
spetti specifici: quali a esempio il meccanismo elettorale dei membri
eletti dalla “base”, ovvero le norme di funzionamento delle sessioni
del Consiglio. Dal punto di vista terminologico, alcuni assumono
senz’altro il nome di “regolamento”, lasciando cadere il termine “sta-
tuto”, comunemente usato sia nella normativa postconciliare sia nel
Codice vigente.
Ci si trova, in altre parole, di fronte a una situazione complessa
e varia, da un punto di vista sia teorico sia pratico.
Per attrezzarci alla valutazione – e, ancora prima, alla compren-
sione – della problematica relativa agli statuti dei Consigli presbite-
rali, appare opportuna una quadruplice ricognizione: quella relativa
alla normativa postconciliare in merito; quella relativa al lavoro di co-
dificazione; quella relativa al frutto diretto di tale lavoro, ossia la nor-
mativa comune vigente, reperibile nel Codice di diritto canonico; in-
fine, quella relativa alla eventuale normativa prodotta dalla Conferen-
za episcopale.

La normativa postconciliare
sugli statuti dei Consigli presbiterali
Nei passi conciliari che possono essere considerati come “fon-
dativi” dei Consigli presbiterali (LG 28; CD 27 e 28; PO 7) l’assise
ecumenica non è entrata, come appare intuitivamente logico, a dare
alcuna indicazione di carattere statutario o regolamentare circa que-
sti nuovi istituti canonici.
Indicazioni importanti su tali aspetti possono trovarsi invece
nella normativa postconciliare, precedente alla promulgazione del
Codice del 1983 e contemporanea ai lavori della sua redazione. Si de-
ve prestare attenzione che l’espressione “normativa” non è del tutto
adeguata a definire la produzione postconciliare in materia, in quan-
to essa contempla espressioni diverse dal punto di vista sia delle fon-
ti di provenienza delle dette indicazioni, sia delle modalità formali
della loro espressione.

a) Il motu proprio Ecclesiae sanctae di Paolo VI, del 6 agosto


1966, nella parte I, al n. 17 § 1, prevedeva che le Conferenze episco-
Gli statuti del Consiglio presbiterale 75

pali dessero delle norme di carattere generale sulla competenza, sul


funzionamento e sul coordinamento dei Consigli diocesani, fra i qua-
li deve essere naturalmente compreso il Consiglio presbiterale (cf
EV 2, n. 792).
b) Diverse indicazioni circa la materia degli “statuti” dei Consi-
gli presbiterali erano contenute in una lettera circolare dell’11 aprile
1970, intitolata Presbyteri sacra, e inviata dall’allora S. Congregatio
pro Clericis a tutti i Presidenti delle Conferenze episcopali.
In primo luogo si suggeriva che fossero gli stessi statuti dei
Consigli presbiterali a precisare le modalità di elezione dei membri
eletti al Consiglio stesso (cf n. 7, nt. 18: EV 3, n. 2459).
In secondo luogo si dava l’indicazione che fosse lo stesso Consi-
glio presbiterale a preparare i propri statuti, che avrebbero dovuto
essere poi approvati dal vescovo diocesano per ottenere efficacia
giuridica (cf conclusione I, b: EV 3, n. 2473).
In terzo luogo si chiedeva che le Conferenze episcopali propo-
nessero norme sulle procedure da seguire nell’attività del Consiglio
presbiterale; sulla periodicità delle sue sessioni; sulla cooperazio-
ne con gli altri organi consultivi della diocesi; sui rapporti da intrat-
tenere fra il Consiglio presbiterale e gli altri sacerdoti della diocesi
(cf conclusione IIb: EV 3, n. 2474). Sulla base di tali norme “propo-
ste” avrebbero dovuto essere successivamente redatti gli statuti dei
Consigli.
c) Il Direttorio del 22 febbraio 1973 della S. Congregazione dei
Vescovi Ecclesiae imago, avente a tema il ministero pastorale dei ve-
scovi, tornava sul tema dei Consigli presbiterali, dando indicazioni
anche in merito ai loro statuti. Al n. 203d (cf EV 4, n. 2283) si stabili-
va che gli statuti dovessero garantire una congrua rappresentanza
del presbiterio diocesano in rapporto al tipo di ministero, alle diver-
se zone della diocesi, all’età o generazioni dei presbiteri.
Quanto alla redazione degli statuti, è chiaro per il Direttorio
che essi debbono essere stesi dal Consiglio presbiterale stesso, te-
nendo conto delle indicazioni in merito sia della Santa Sede sia della
propria Conferenza episcopale. Al vescovo diocesano è attribuito il
dovere di curare che il Consiglio elabori i propri statuti e il diritto di
approvarli, dopo la loro elaborazione definitiva.
d) Successiva all’entrata in vigore del Codice del 1983 per la
Chiesa latina è infine la costituzione apostolica Spirituali militum cu-
76 Paolo Bianchi

ra del 21 aprile 1986, con la quale Giovanni Paolo II dava una com-
pleta regolamentazione della cura pastorale dei militari. Al n. VI, 5
della Costituzione si stabiliva che, nella formulazione degli statuti
del Consiglio presbiterale dell’Ordinariato militare, si debba tener
conto delle norme date in merito dalla Conferenza episcopale del ter-
ritorio su cui l’Ordinariato stesso insiste (cf EV 10, n. 361).

Il lavoro di codificazione
Di questo interessante lavoro si deve considerare solo quanto
attiene direttamente al tema degli statuti del Consiglio presbiterale.
Non si tratta quindi di effettuare una completa ricostruzione del la-
voro della codificazione latina in merito a questi Consigli. È interes-
sante rilevare comunque che questo lavoro si svolse per così dire in
contemporanea con le prime esperienze di realizzazione dei Consigli
presbiterali, per cui nei verbali e nelle relazioni sui lavori della Com-
missione incaricata di stendere le norme si possono intravedere le
problematiche che quelle prime esperienze hanno suscitato.
Ordinando cronologicamente quanto è dato reperire in merito
agli statuti dei Consigli presbiterali (è noto infatti che la rivista Com-
municationes non ha pubblicato gli esiti dei lavori delle commissioni
sempre in parallelo al loro svolgersi), si possono evidenziare le se-
guenti risultanze.
a) Le prime indicazioni in tema di statuti si trovano nel verbale
che sintetizza i lavori del gruppo di studio De sacra hierarchia svolti-
si nelle riunioni tenute nei giorni 2-9 febbraio 1970 3.
Si affronta il problema di cosa gli statuti dovranno determinare
in tema di composizione del Consiglio presbiterale. Si conviene, in
merito, di non lasciare alla sola determinazione degli statuti la propor-
zione fra i membri eletti, quelli cosiddetti “nati” e quelli liberamente
nominati dal vescovo. In vista di una certa uniformità di composizione
fra Consigli presbiterali di diocesi diverse si ritiene che lo stesso Co-
dice debba prevedere una norma di carattere generale in merito. Per
questo si stabilisce nel progetto di legge che la maggior parte dei
membri sia elettiva (secondo le modalità di elezione che gli statuti de-
termineranno); pure agli statuti si demanda la determinazione di chi
debbano essere i membri nati del Consiglio presbiterale (71).

3
Cf Communicationes 24 (1992) 70-79 e 88-90 il progetto di canoni che venne redatto.
Gli statuti del Consiglio presbiterale 77

Sempre in tema di composizione del Consiglio, si lascia agli sta-


tuti la possibilità di prevedere che, fra coloro che hanno lo ius eligen-
di (attivo e passivo), possano essere compresi quei presbiteri che ab-
biano in diocesi il domicilio o il quasi domicilio senza avervi però un
ufficio; o, al contrario, che svolgano un ufficio per il bene della dioce-
si senza avervi però il domicilio o il quasi domicilio (72-74).
Ancora in tema di composizione del Consiglio presbiterale, si
lasciano agli statuti sia la determinazione dei criteri per garantire la
rappresentanza delle diverse zone della diocesi, dei diversi ministeri
esercitati dai presbiteri, delle diverse età di essi; sia quella del nume-
ro dei membri del Consiglio presbiterale, col limite che esso non si
trasformi in un’assemblea plenaria del clero (74-75).
Quanto alla redazione degli statuti, non viene espresso, nel pro-
getto di norma elaborato, chi debba effettuarla. Si prevede solo che
essi debbano essere approvati dal vescovo e che debbano essere for-
mulati con attenzione alle norme date in merito dalla Conferenza epi-
scopale (75).
Ancora agli statuti viene demandato di determinare la durata
del Consiglio presbiterale, con la garanzia però di un rinnovamento
almeno parziale di esso ogni cinque anni (75). Così pure agli statuti
si lascia la determinazione dei criteri e delle procedure per la sostitu-
zione di un membro che venisse a perdere per qualsiasi ragione il ti-
tolo di sua appartenenza al Consiglio presbiterale (76).
Infine, in merito al funzionamento della assemblea consiliare, si
prevede che siano gli statuti a determinare la quota di membri ri-
chiesta per la convocazione straordinaria del Consiglio a istanza dei
sui membri, col limite che tale quota non possa essere inferiore ad
un terzo dei membri del Consiglio (77).

b) Il gruppo di studio De sacra hierarchia riprese l’analisi dei


canoni formulati nella sessione di lavoro dei giorni 5-10 ottobre
1970, quindi cronologicamente assai vicino alla discussione appena
considerata 4.
Circa gli statuti del Consiglio presbiterale, questa nuova ripresa
della materia non apporta modifiche, se non laddove prevede che le
Conferenze episcopali possano determinare con propria norma alcu-

4
Cf Communicationes 24 (1992) 95-97 e 121-123 il progetto di canoni come modificato in tali sessioni di
lavoro.
78 Paolo Bianchi

ni membri da considerarsi “nati” all’interno dei Consigli presbiterali


delle diocesi comprese nella loro giurisdizione (96).

c) Nella relazione sui lavori della Commissione deputata a pre-


disporre le norme relative ai Consigli presbiterali, apparsa in Com-
municationes 5 (1973) 229-230, viene fatto il punto di quanto elabora-
to nelle precedenti sessioni di lavoro, sintetizzando, anche in materia
di statuti, quanto previsto nel progetto di normativa fino ad allora
elaborato. Si tratta di quanto previsto dalle due sessioni di lavoro del
febbraio e ottobre 1970, già poco sopra analizzate.

d) Il gruppo di studio De sacra hierarchia tornò ad analizzare


nel merito le norme previste per i Consigli presbiterali nelle riunioni
tenute nei giorni 15-19 dicembre 1975 5. Quanto agli statuti nulla di
nuovo viene previsto per la loro redazione, ribadendosi la necessità
del riferimento alle norme previste dalla Conferenza episcopale e
della approvazione del vescovo (124).
Quanto alla rappresentanza del presbiterio diocesano nel Consi-
glio presbiterale, che gli statuti debbono garantire con le loro nor-
me, si aboliscono sia l’espressa riserva alla Conferenza episcopale di
designare alcuni membri “nati” del Consiglio che gli statuti dovreb-
bero obbligatoriamente riprendere (si osserva infatti che c’è già una
norma di carattere generale, per cui gli statuti devono riferirsi alle
eventuali disposizioni della Conferenza episcopale: 125); sia il crite-
rio dell’età dei presbiteri stessi, ribadendo invece quelli del tipo di
ministero svolto e delle zone della diocesi (127), al fine di garantire
la rappresentatività del Consiglio.
Pure si sopprimono le norme previste nel progetto del nuovo
Codice in tema di decadenza di un membro del Consiglio e di sua
sostituzione; in tema di numero minimo di convocazioni annuali; in
tema di criteri per la convocazione straordinaria del Consiglio pre-
sbiterale anche a richiesta dei membri: disposizioni tutte che vengo-
no rinviate agli statuti, scegliendosi nella legge generale l’orienta-
mento di non dare alcuna disposizione in merito (131).

e) Nei giorni 16 e 17 aprile 1980 il Gruppo di consultori ormai


denominato De populo Dei affrontò una nuova analisi del progetto

5
Cf Communicationes 25 (1993) 122-132 e 147-149 le norme progettate frutto della discussione.
Gli statuti del Consiglio presbiterale 79

normativo relativo ai Consigli presbiterali alla luce delle osservazio-


ni pervenute dalla ampia consultazione (tutti i vescovi, i dicasteri del-
la Curia Romana, le università e le facoltà ecclesiastiche, l’unione dei
superiori generali degli istituti di vita consacrata) avvenuta con invio
nel corso del 1977 dello schema di canoni previsti. Il verbale dei la-
vori si trova in Communicationes 13 (1981) 128-135.
In merito agli statuti si precisa che essi debbono essere appro-
bata e non solo probata da parte del vescovo (129). Nessuna modifi-
ca sostanziale viene invece stabilita quanto alla loro redazione, che
deve sempre essere effettuata tenendo conto delle norme date in
merito dalla Conferenza episcopale.
Le attribuzioni allo statuto in materia di composizione del Con-
siglio presbiterale non vengono mutate in rapporto alle norme già
previste se non che viene soppressa la possibilità di prevedere lo ius
electionis attivo e passivo per i sacerdoti che svolgano un ufficio a fa-
vore della diocesi senza avervi il domicilio o quasi domicilio; mentre
rimane la possibilità che gli statuti stessi prevedano il conferimento
di detto ius electionis a presbiteri aventi domicilio o quasi domicilio
in diocesi, senza però esercitare in essa alcun ufficio di rilievo dioce-
sano (130). È però a questo proposito da precisare che, nella mede-
sima discussione, si era già modificata una norma di carattere gene-
rale che rende ragione della appena esposta modifica. Nel determi-
nare le condizioni per cui spetta a sacerdoti non incardinati nella
diocesi o a membri di istituti religiosi o di società di vita apostolica lo
ius electionis al Consiglio presbiterale, si propone che esso spetti a
coloro che, svolgendo un servizio a favore della diocesi, siano in es-
sa “commoranti” (commorantes), senza che si richieda espressamen-
te il domicilio o il quasi domicilio.
Immutato rimane il progetto di norma che attribuisce agli statu-
ti di prevedere una modalità di elezione che garantisca la rappresen-
tanza dei diversi ministeri esercitati dai presbiteri e delle diverse zo-
ne della diocesi (130).
Così pure immutato rimane il progetto di norma per cui spetta
agli statuti determinare la durata del Consiglio presbiterale, salvo il
principio del suo rinnovo almeno parziale ogni cinque anni (134).

f) Nei giorni 20-28 ottobre 1981 si svolse nell’Aula del Sinodo


dei vescovi una riunione plenaria dei membri della Commissione
Pontificia per la redazione del nuovo Codice di diritto canonico. In
seguito, venne predisposta una Relazione contenente la sintesi delle
80 Paolo Bianchi

osservazioni dei Padri della Commissione e delle risposte date ad es-


se dalla Segreteria della stessa 6.
Positivamente, in merito agli statuti del Consiglio, si offre un
criterio che essi dovranno rispettare nel precisare la composizione
dello stesso: ossia che la quota di membri elettivi dovrà aggirarsi at-
torno alla metà dei membri complessivi (215-216).
Si prevede la possibilità – poi non attuata – che nella norma co-
diciale che conferisce a tutti i presbiteri incardinati in diocesi il dirit-
to attivo e passivo di elezione si faccia riferimento a ulteriori precisa-
zioni degli statuti. Tale possibilità venne ipotizzata da un Padre della
Plenaria, timoroso di abusi, quali l’elezione di sacerdoti che fossero
illegittimamente assenti dalla diocesi o avessero lasciato il ministero
(216-217). Si comprende anche la non attuazione di tale possibilità in
quanto è nei poteri generali del vescovo privare dell’esercizio di un
tale diritto i presbiteri che si trovassero in tali condizioni.
Non si ammettono, invece, le proposte per cui lo statuto do-
vrebbe contemplare – nel garantire la rappresentatività del Consiglio
in rapporto al presbiterio diocesano – il già soppresso criterio del-
l’età dei presbiteri (217); per cui lo stesso statuto del Consiglio pre-
sbiterale dovrebbe determinare durata e numero dei membri del
Collegio dei consultori (218): si tratta infatti di due organismi distinti
e indipendenti.

La normativa vigente
Alla luce dell’approfondimento fatto circa la materia degli statuti
del Consiglio presbiterale nei lavori di preparazione del Codice si
può meglio comprendere quanto circa essi prevede il Codice effetti-
vamente promulgato il 25 gennaio 1983 ed entrato in vigore il 27 no-
vembre dello stesso anno.
Sintetizzando la disciplina data in merito dalla legge generale
della Chiesa, si deve riscontrare quanto segue.

In primo luogo il precetto che impone a ogni Consiglio presbi-


terale di avere un proprio statuto, che deve tener conto delle norme
date in merito dalla Conferenza episcopale e che deve essere appro-
vato dal vescovo diocesano (can. 496).

6
Cf per la materia relativa ai Consigli presbiterali: Communicationes 14 (1982) 214-218.
Gli statuti del Consiglio presbiterale 81

Quanto alla composizione del Consiglio, lo statuto deve deter-


minare i membri cosiddetti nati, ossia coloro che vi debbono fare
parte in ragione dell’ufficio (can. 497, 2°) e garantire – attraverso un
adeguato meccanismo di elezione – che i membri appunto eletti rap-
presentino effettivamente il presbiterio in ragione soprattutto dei di-
versi ministeri svolti e delle zone della diocesi (can. 499).
Nel prevedere il rapporto fra le diverse componenti del Consi-
glio presbiterale, lo statuto dovrà rispettare la norma generale per
cui circa una metà dei membri complessivi sia liberamente eletta dal
presbiterio (can. 497, 1°).
Quanto alla determinazione di coloro che hanno lo ius eligendi,
allo statuto è lasciato solo di prevedere eventualmente la possibili-
tà di conferire detto diritto a sacerdoti che, pur non essendo incar-
dinati nella diocesi e non svolgendo in essa alcun ufficio nell’interes-
se della diocesi stessa, vi abbiano il domicilio o il quasi domicilio
(can. 498 § 2).
Allo statuto è assegnato il compito di determinare il tempo di
durata del Consiglio presbiterale, col vincolo di prevedere un suo
rinnovamento almeno parziale ogni cinque anni (can. 501 § 1).
Come si può facilmente constatare, la norma codiciale prevede,
quindi, circa lo statuto del Consiglio presbiterale una disposizione
relativa alla sua stessa elaborazione: prescrivendo che essa deve av-
venire in riferimento alle norme emanate dalla Conferenza episcopa-
le (del tutto implicito è il riferimento alle norme del diritto comune)
e che si compie con la sua approvazione da parte del vescovo.
Prevede poi delle norme che attribuiscono allo statuto compe-
tenze concernenti per così dire la realtà in sé del Consiglio presbite-
rale, sia in relazione alla sua composizione, sia in relazione alla sua
durata nel tempo.
Prevede infine l’attribuzione allo statuto di una competenza,
seppure molto limitata come appare del resto logico, nel determina-
re una eventuale (di fatto comunque assai limitata) estensione dello
ius electionis a soggetti che non ne sono titolari per norma di caratte-
re generale.
Nulla espressamente il Codice stabilisce, in riferimento allo sta-
tuto, circa il funzionamento del Consiglio presbiterale, dando solo in
merito una norma generale che attribuisce al vescovo il diritto di
convocazione, di presidenza, di fissazione dell’ordine del giorno
(can. 500 § 1) e di divulgare i pareri espressi dal Consiglio stesso
(can. 500 § 3).
82 Paolo Bianchi

Quanto al fine e alla competenza specifica del Consiglio presbi-


terale pure la normativa generale non opera alcun rinvio allo statuto,
determinando essa stessa il fine dell’istituto (can. 495 § 1) e fissando-
ne la competenza (can. 500 § 2) con un rinvio da un lato alla discre-
zione del vescovo (gli «affari di maggiore importanza per la diocesi»
sui quali dovrebbe ascoltare il Consiglio presbiterale), dall’altro ge-
nericamente al “diritto”. È da discutere se con tale espressione si
debba intendere una norma avente valore propriamente di legge, al
di fuori quindi delle competenze statutarie, ovvero anche una previ-
sione dello statuto, sempre naturalmente approvato dal vescovo.
Prima di riprendere tale normativa da un punto di vista critico,
si deve compiere l’ultimo riscontro già previsto in vista di una rico-
gnizione completa della materia.

Le norme della Conferenza episcopale


Occorre subito dire che la Conferenza Episcopale Italiana, nes-
suna norma integrativa di quelle comuni avendo assunto in materia
di Consigli presbiterali, nessuna disposizione ha pure conseguente-
mente assunto circa lo statuto degli stessi o che si debba tenere in
conto nella elaborazione dello statuto stesso.
Volendo considerare un po’ più analiticamente la materia e va-
gliando l’attività della Conferenza episcopale dalla sua istituzione alla
promulgazione del Codice del 1983 si trova un solo riferimento allo
statuto dei Consigli presbiterali. Nel documento dell’Episcopato ita-
liano, Il sacerdozio ministeriale, del 22 luglio 1971, che rappresentava
il contributo della Conferenza episcopale ai lavori della III Assem-
blea Generale del Sinodo dei vescovi, al n. 33 si segnalava l’avverti-
ta esigenza di uno statuto-tipo per i Consigli presbiterali (ECEI 1,
n. 3824).
Successivamente alla promulgazione e all’entrata in vigore del
Codice, nella riunione del maggio del 1984, la Segreteria Generale
della Conferenza Episcopale approntò una sintesi della legislazio-
ne del Codice da poco in vigore sui Consigli presbiterali (cf ECEI 3,
n. 1636-1645). Essa non fu oggetto di alcuna delibera, e resta solo
uno strumento compilato ad uso e per comodità degli ordinari dioce-
sani. In essa si riassume tutta la legislazione del Codice in merito ai
Consigli presbiterali; nell’art. 6, 2°, però, si segnala che gli statuti de-
gli stessi possono stabilire altre fattispecie (rispetto a quelle già fis-
Gli statuti del Consiglio presbiterale 83

sate dal Codice) nelle quali sia richiesto il voto, consultivo o delibe-
rativo, del Consiglio.
La XXIII Assemblea generale della CEI, in data 6 settembre
1984, ha assunto poi una delibera (la n. 19, in ECEI 3, n. 1979), con
la quale si dichiara sufficiente la normativa data dal Codice in mate-
ria di Consigli presbiterali, lasciando alla valutazione delle singole
diocesi (ossia, in pratica, agli statuti dei Consigli medesimi) lo stabi-
lire eventuali ulteriori prescrizioni in merito. Tale astensione dal da-
re disposizioni positive viene definito da un esperto del diritto della
Conferenza episcopale una “non delibera” in quanto formalmente es-
sa è diritto complementare per le diocesi italiane, ma sostanzialmen-
te la disposizione è priva di reale nuovo contenuto normativo 7.

Ripresa critica di alcune questioni


Sulla scorta di quanto precisato circa il concetto canonico di
statuto (e di regolamento) e di quanto considerato sulla vigente nor-
mativa in merito ai Consigli presbiterali – sia nel dettato positivo del-
la stessa sia nei suoi presupposti ideali e di elaborazione – possiamo
riprendere alcune questioni relative allo statuto del Consiglio presbi-
terale.

1. Una prima questione da affrontare concerne la redazione


stessa dello statuto (e le sue eventuali modifiche).
Se il vescovo diocesano deve approvare lo statuto del suo Con-
siglio presbiterale, chi lo deve predisporre e sottoporre alla sua ap-
provazione?
Le norme vigenti nulla dicono espressamente in merito. Dalla
analisi del lavoro di redazione del testo del Codice pure vengono po-
che indicazioni dirette.
Sviluppando però l’analogia più sopra affermata fra quell’insie-
me collegiale di persone che è il Consiglio presbiterale e le persone
giuridiche propriamente dette; anche tenendo conto delle indicazio-
ni della Lettera circolare Presbyteri sacra della Congregazione del
Clero e del Direttorio Ecclesiae imago della Congregazione dei Ve-
scovi (sopra richiamate ai passi pertinenti e riportate come fonti del
can. 496 dalla edizione del Codice a cura della Pontificia Commissio-

7
Cf MARCHESI M., Diritto canonico complementare italiano, Bologna 1992, pp. 70-71.
84 Paolo Bianchi

ne – ora Consiglio – per la sua interpretazione): si deve affermare


che è lo stesso Consiglio presbiterale che deve provvedere a darsi
un proprio statuto. La redazione dello stesso sarà quindi il primo atto
che un Consiglio presbiterale dovrà porre a seguito della sua prima
costituzione, munendosi di un regolamento provvisorio per il buon
funzionamento della sua fase per così dire costituente.
Quanto all’approvazione da parte del vescovo si deve dire che
essa è un atto della sua potestà di governo esecutiva, “amministrati-
va”, alle regole per l’esercizio della quale sarà dunque sottoposta.
Quanto alle forme di tale approvazione, in coerenza con la sua
natura, appare logico che la forma normale di tale atto sia quella di un
decreto. Non si può ipotizzare si tratti di quell’atto amministrativo sin-
golare denominato “rescritto”, in quanto l’eventuale richiesta di ap-
provazione dello statuto fatta dal Consiglio presbiterale non può esse-
re certo intesa come la richiesta di un privilegio, di una dispensa o di
una grazia (elementi oggettivi costitutivi del concetto di rescritto a
norma del can. 59 § 1) e nemmeno come quella di una semplice licen-
za (can. 59 § 2). L’approvazione è un atto del vescovo diocesa-
no – quindi con esclusione di altri Ordinari aventi in diocesi potestà di
governo esecutiva (cf cann. 496 e 134 § 3) – con il quale, verificata la
non contrarietà al diritto comune dello statuto del Consiglio presbite-
rale e la non manifesta contrarietà delle sue disposizioni al persegui-
mento del bene della diocesi (cf can. 501 § 3) – conferisce allo stesso
forza di diritto oggettivo per coloro che ne sono tenuti all’osservanza.
Si deve pertanto ritenere che un Consiglio presbiterale che pre-
senti al proprio vescovo diocesano uno statuto non contrario al dirit-
to comune e non manifestamente deviante rispetto alla propria fina-
lità istituzionale abbia titolo a vederselo approvato.
Tornando alle forme dell’approvazione da parte del vescovo, so-
lo in via eccezionale, quando uno statuto verrà approvato con un atto
legislativo e in forza di questo specifico potere – come nel caso della
promulgazione di un Sinodo diocesano (cf can. 466) – lo statuto del
Consiglio presbiterale in esso eventualmente compreso avrà valore
di legge diocesana, ai sensi del can. 94 § 3.
Quanto infine a eventuali modifiche di uno statuto, si deve logi-
camente ritenere che il meccanismo debba rispecchiare quello prin-
cipale della sua creazione e, quindi, che spetti allo stesso Consiglio
presbiterale proporle mentre al vescovo diocesano spetti di appro-
varle. Per evitare – pur consentendo una certa elasticità di adatta-
mento – troppa variabilità negli statuti, alcuni di essi opportunamen-
Gli statuti del Consiglio presbiterale 85

te prevedono già fra le loro norme la necessità di una maggioranza


qualificata per la approvazione di modifiche statutarie da parte del
Consiglio presbiterale stesso.
2. Una seconda questione che merita una ripresa critica è quel-
la relativa ai contenuti di uno statuto di Consiglio presbiterale.
Per una considerazione analitica di tale questione è utile segui-
re l’elencazione dei contenuti di uno statuto così come reperibile nel
dettato del can. 94 § 1 che ne definisce il concetto tecnico.
a) Per quanto concerne il fine globale del Consiglio presbitera-
le si deve ritenere che lo statuto non possa che assumere quello pre-
visto dalla legge generale: l’aiuto del vescovo diocesano, secondo le
disposizioni del diritto, nel governo della diocesi per il perseguimen-
to del bene pastorale della stessa (cf can. 494 § 1).
Per quanto concerne poi le competenze specifiche in cui il Con-
siglio presbiterale fornisce il proprio aiuto al vescovo, è noto come
alcune di esse, per quanto riguarda la sua funzione più propria – os-
sia quella consultiva – siano fissate dal Codice stesso. Lo statuto può
richiamarle per comodità dei consiglieri. È noto pure che – pur pre-
vedendo in linea generale che in alcuni affari il vescovo possa abbi-
sognare del consenso del Consiglio presbiterale (can. 500 § 2) – il di-
ritto comune non ha previsto alcuna attuazione normativa di questa
possibilità.
Ragionando con logica strettamente giuridica, si potrebbe esse-
re portati a desumere, dal testo della norma, che un vescovo diocesa-
no – per sé tenuto a sentire il proprio Consiglio presbiterale negli af-
fari di maggiore importanza per la pastorale diocesana (cf ancora il
can. 500 § 2) – possa accettare, tramite l’approvazione di norme statu-
tarie, di determinare in via generale altri casi in cui sia espressamen-
te prevista da parte sua la richiesta di un parere o addirittura di un
consenso del Consiglio presbiterale. Una tale soluzione, però, appare
piuttosto inopportuna rappresentando, da un lato, un’occasione di ec-
cessiva burocratizzazione dei processi decisionali diocesani; dall’al-
tro, potendosi provvedere all’esigenza di una maggior collegialità nel-
la guida della diocesi con la retta valorizzazione del principio della
consultività ecclesiale (cf in proposito quanto nell’articolo di Rivella).
b) Quanto alla “costituzione” del Consiglio presbiterale lo statu-
to deve preoccuparsi di dare attuazione, in rapporto alla realtà della
diocesi, alle regole generali stabilite dai cann. 497 e 499, ossia stabili-
86 Paolo Bianchi

re quali titolari di uffici (di interesse diocesano) debbano essere pre-


visti come membri di diritto; determinare il numero dei membri di li-
bera nomina da parte del vescovo; stabilire delle modalità di elezio-
ne – per la circa metà dei membri complessivi e che devono essere
indicati da parte del presbiterio – che salvaguardino la rappresentati-
vità dello stesso soprattutto in rapporto ai parametri delle diverse
forme di ministero e delle diverse zone della diocesi.
Con la sua approvazione il vescovo mostrerà di accogliere que-
ste determinazioni, anche quelle che circoscrivono il suo diritto di li-
bera nomina di un certo numero di membri.
Il meccanismo elettorale a garanzia della rappresentatività dei
membri eletti dal presbiterio deve evidentemente tener conto delle
dimensioni della diocesi e del numero del suo clero. Può raggiunge-
re di conseguenza gradi diversi di complessità. Lo statuto deve sicu-
ramente riportare i criteri di garanzia della detta rappresentatività,
fermo il principio che ciascun consigliere rappresenta tutto il presbi-
terio e risponde essenzialmente alla propria coscienza (cf can. 127
§ 3), senza vincolo formale di mandato in rapporto alla realtà che di
fatto ha concorso alla di lui nomina.
Meno opportuno è forse che lo statuto riporti integralmente le
norme che presiedono al concreto svolgimento della elezione (per
esempio costituzione dei collegi, organi di controllo della regolarità
della elezione stessa, turni secondo cui essa si svolge), che possono
essere rinviate a un apposito e separato regolamento.
Sempre quanto alla costituzione del Consiglio presbiterale, lo
statuto dovrà prendere la decisione se dare attuazione o meno alla
possibilità prevista dal can. 498 § 2, ossia conferire lo ius electionis a
quei presbiteri non incardinati in diocesi che tuttavia abbiano nella
stessa il domicilio o il quasi domicilio, pur senza svolgere un ufficio
in favore della diocesi. Gli altri titolari di questo diritto elettorale (at-
tivo e passivo) sono già identificati in modo prescrittivo dalla norma
generale (can. 498 § 1).
Alla costituzione del Consiglio presbiterale appartiene anche la
determinazione del tempo della sua durata: per questo lo statuto do-
vrà provvedere in merito, ai sensi del can. 501 § 1 e nel rispetto della
indicazione ivi contenuta, ossia la previsione del rinnovo almeno par-
ziale del Consiglio ogni quinquennio.

c) Il can. 94 § 1 prevede che uno statuto debba stabilire anche


le regole generali relative alla conduzione (regimen) dell’insieme di
Gli statuti del Consiglio presbiterale 87

persone per cui è dato. Lo statuto del Consiglio presbiterale non po-
trà che applicare anche a sé questa prescrizione normativa.
Quanto alla presidenza del Consiglio, vi sono norme assai chia-
re, già previste dal diritto comune. La presidenza del Consiglio pre-
sbiterale spetta al vescovo, cui pure spetta convocare il Consiglio, fis-
sare l’ordine del giorno, deliberare circa la pubblicazione delle con-
clusioni assunte dal Consiglio sui temi trattati (cf can. 500 §§ 1 e 3).
Lo statuto, quindi, riguardo alla presidenza del Consiglio pre-
sbiterale, non potrà che dare attuazione più minuta di queste norme
della legge canonica generale: per esempio regolamentando la reda-
zione di fatto dell’ordine del giorno anche per quanto attiene alla rac-
colta delle proposte di argomenti da parte dei consiglieri; ovvero sta-
bilendo a chi spetti la presidenza di una sessione (o di parte di essa)
in caso di impossibilità del vescovo di provvedervi personalmente.
Alla conduzione del Consiglio presbiterale lo statuto può anche
provvedere dando vita a organi o uffici interni al Consiglio e che ab-
biano specifiche responsabilità in ordine al suo retto e fruttuoso fun-
zionamento.
Per esempio, il Segretario del Consiglio, investito di responsabi-
lità soprattutto di carattere formale, ma assai utili per il retto sviluppo
dell’attività del Consiglio stesso, quali: la redazione di fatto e l’invio
delle convocazioni e dell’ordine del giorno; la custodia dell’elenco ag-
giornato dei membri del Consiglio; la raccolta e la registrazione delle
presenze dei membri alle sessioni e delle giustificazioni degli assenti;
la cura della redazione del verbale delle sessioni; la tenuta dell’archi-
vio del Consiglio; il ricevimento delle proposte di argomenti da tratta-
re o di eventuali interpellanze da presentare al vescovo.
Altri organismi possono essere previsti dallo statuto in ordine al
buon funzionamento del Consiglio presbiterale. La loro opportunità
si rapporta anche alle dimensioni numeriche del Consiglio stesso.
Così, per esempio, si può prevedere, un Consiglio di presidenza
o una Giunta (comprendenti anche il Segretario) che possono esse-
re di aiuto al vescovo nel vagliare le proposte di argomenti da porre
all’ordine del giorno e in genere coordinare l’attività del Consiglio,
seguendo, per esempio, i lavori delle eventuali commissioni per la
preparazione di qualche sessione, ovvero tenendo i contatti con un
analogo organismo del Consiglio pastorale diocesano per l’eventuale
trattazione coordinata di argomenti di interesse comune.
In alcuni statuti di Consigli presbiterali è prevista anche la figu-
ra di uno o più moderatori, generalmente eletti dall’assemblea consi-
88 Paolo Bianchi

liare, che – salva la presidenza del vescovo diocesano – moderano di


fatto i lavori del Consiglio nel corso delle sessioni, dando e togliendo
la parola, dirigendo le votazioni, introducendo gli argomenti all’ordi-
ne del giorno.
Fra gli organismi interni al Consiglio presbiterale lo statuto può
prevedere pure delle Commissioni: alcune di carattere permanente,
come può essere, per esempio, una Commissione per l’interpretazio-
ne dello statuto medesimo; altre, più frequentemente, temporanee,
per esempio deputate (dal Consiglio stesso, per elezione) alla prepa-
razione di un argomento di particolare importanza e complessità po-
sto all’ordine del giorno in una successiva riunione. Tali commissio-
ni scadono con l’esaurimento del loro mandato: nell’esempio da ulti-
mo fatto, con la presentazione al Consiglio del frutto del loro lavoro
(raccolta di dati, analisi di un problema, proposta di pareri da dare in
merito al vescovo) in vista della discussione consiliare.

d) Uno statuto deve prevedere anche le modalità di azione del-


l’insieme di persone per cui è dato. Nel caso del Consiglio presbitera-
le tali modalità di azione concernono essenzialmente la formazione
del parere da dare al vescovo circa le questioni su cui è stato consul-
tato. Il Consiglio presbiterale è infatti un organo essenzialmente con-
sultivo, che suggerisce al vescovo linee di azione in rapporto al bene
pastorale della diocesi soprattutto negli affari di maggiore importan-
za. Le modalità della sua azione ruotano quindi attorno alla formazio-
ne del parere consiliare. In conseguenza di ciò, lo statuto dovrà rego-
lamentare tutto quanto conduce a questo scopo precipuo dell’attività
del Consiglio: dalle modalità di convocazione delle sessioni con tem-
pestiva notifica dell’ordine del giorno; alla preparazione di merito del-
le stesse, avvalendosi, per esempio, delle sopraddette Commissioni
temporanee; alle modalità di svolgimento del dibattito; al meccani-
smo di espressione vera e propria del parere del consiglio.
A questo ultimo proposito lo statuto dovrà essere molto preciso
nel regolamentare le votazioni, prevedendo, ad esempio, quando es-
se debbano avvenire a scrutinio segreto ovvero palese; quale tipo di
maggioranza sia richiesto nei singoli casi; quale tipo di interventi (di-
chiarazioni di voto; proposte di modifiche ecc.) e con che limiti siano
consentiti ai membri del Consiglio quando un determinato parere da
dare al vescovo sia posto in votazione.
Questa regolamentazione di carattere tecnico ha una grande
importanza perché il Consiglio giunga a esprimere in modo formale
Gli statuti del Consiglio presbiterale 89

e riconoscibile i suoi suggerimenti al vescovo in forma non ambigua


ed effettivamente riflettendo il parere del Consiglio così come forma-
tosi nel dibattito interno allo stesso.
3. Soprattutto le osservazioni appena svolte in tema di modalità
di azione del Consiglio presbiterale, in quanto oggetto che lo statuto
di esso deve prevedere e regolamentare, possono far sorgere un’ul-
teriore questione.
La materia di cui sopra ai punti c) e d) è propriamente pertinen-
te a uno statuto ovvero piuttosto a un regolamento?
È difficile rispondere in modo categorico. Anche la prassi – co-
me si è accennato all’inizio di questo articolo – mostra di risentire di
questa difficoltà, presentando statuti molto analitici; statuti più sinte-
tici corredati da un regolamento; documenti chiamati senz’altro re-
golamenti, senza l’uso della parola “statuto”.
Il Codice di diritto canonico chiama invero statuto il documento
che deve reggere la disciplina del Consiglio presbiterale. È vero
però che – anche se ne determina positivamente o vi fa rinvio per al-
cuni aspetti – poco o nulla dice su altri (per esempio il funzionamen-
to interno dell’assemblea consiliare); pure è vero che non proibisce
espressamente la redazione di documenti accompagnatori e applica-
tivi dello statuto.
In ragione di ciò, si deve dire che è senz’altro possibile che gli
aspetti più minutamente regolamentari (per esempio circa lo svolgi-
mento del dibattito assembleare; circa la attività delle Commissioni
temporanee) siano demandati a un regolamento, da considerarsi ac-
canto allo statuto quale suo necessario complemento.
Se ciò è possibile, non si deve però ritenere strettamente neces-
sario. Del resto, per alcuni aspetti, fra i concetti di statuto e di regola-
mento così come descritti dal Codice canonico ci sono indubbie affi-
nità quanto a costituzione dell’assemblea, a moderazione dei suoi la-
vori, alla trattazione delle questioni da affrontarsi (cf cann. 94 § 1 e
95 § 1).
Il rinvio a un regolamento può essere più opportuno – come già
accennato – soprattutto nel caso di aspetti tecnici di rara applicazio-
ne, come il meccanismo elettorale della costituzione della quota elet-
tiva dei membri da parte del presbiterio, per fare un esempio.
4. Già si è accennato alla funzione del Segretario del Consiglio
presbiterale. A completamento di quanto si è già detto può essere
utile affrontare un’ulteriore problematica.
90 Paolo Bianchi

Chi deve nominare il Segretario? Deve essere egli scelto fra i


membri del Consiglio o no?
Quanto alla nomina del Segretario appare logico che tale scelta
spetti al vescovo. Quella del Segretario è infatti un’attività di caratte-
re eminentemente tecnico e la nomina da parte del vescovo sembra
garantire maggiormente che, nella scelta, prevalga la valutazione di
tale specifica competenza. Inoltre, seppure il Segretario è Segretario
del Consiglio presbiterale, è vero che – nella materia attinente detto
Consiglio – egli ha un rapporto di collaborazione particolare col ve-
scovo, per esempio nella fissazione dell’ordine del giorno, soprattut-
to laddove non vi siano organismi intermedi quali Giunte o Consigli
di presidenza. Appare, quindi, anche per ciò logico che sia il vescovo
a designare il titolare di questa funzione.
Anche la prassi comune sembra percorrere sostanzialmente
questa linea, come almeno si riscontra dagli statuti di Consigli a co-
noscenza dell’Autore.
Meno categorica è la risposta alla questione se il Segretario
debba o meno essere membro del Consiglio presbiterale. Anche la
prassi sembra su questo punto più diversificata.
Nessuna indicazione deriva in merito dalla normativa positiva o
dai lavori di sua elaborazione, né dalle altre fonti sopra analizzate.
Se la funzione eminentemente tecnica del Segretario deve esse-
re chiaramente distinta dal ruolo di membro del Consiglio presbite-
rale, tuttavia non si ravvisa una formale controindicazione a che il
Segretario sia scelto fra i membri del Consiglio.
In tal caso spetterà soprattutto al Consigliere Segretario garan-
tire – tramite il corretto rispetto delle funzioni di servizio tecnico, co-
me Segretario, al funzionamento del Consiglio – di non travalicare ri-
spetto ad esse avvalendosene per influire indebitamente sulle deci-
sioni di merito del Consiglio stesso.
Qualsiasi scelta si assuma in merito alle questioni accennate, lo
statuto ne dovrà recare esplicita menzione.

5. Un’ultima questione che deve essere affrontata è quella rela-


tiva alla pubblicità delle risultanze dei lavori del Consiglio presbitera-
le, in rapporto alla diocesi e in modo speciale al presbiterio.
La norma del Codice stabilisce che spetta al vescovo divulgare
quanto stabilito dal Consiglio nell’esercizio della sua funzione di da-
re allo stesso vescovo pareri o consensi (can. 500 § 3).
Gli statuti del Consiglio presbiterale 91

La decisione del vescovo sembra quindi riguardare esplicita-


mente le espressioni formali del Consiglio presbiterale nel dare pa-
reri o consensi. Sulla pubblicizzazione di essi il vescovo ha un’au-
torità discrezionale di controllo.
Come da logica, tale autorità si estende ai dibattiti che hanno
portato a tali espressioni formali del Consiglio presbiterale.
Come esercita il vescovo questa responsabilità? Pochi statuti of-
frono previsioni in merito. Dalle poche reperite si deve dedurre che i
vescovi interessati hanno inteso dare ordinariamente pubblicità alle
deliberazioni del Consiglio presbiterale e ai dibattiti in esso svolti.
Ciò approvando degli statuti dove si prevedono esplicitamente forme
di comunicazione da applicarsi a cura di organi del Consiglio presbi-
terale stesso: per esempio la pubblicazione del verbale delle sessioni
(steso a cura del Segretario) sulla rivista diocesana; ovvero altre for-
me di comunicazione almeno degli argomenti trattati e dei pareri da-
ti dal Consiglio su stampa diocesana a cura sempre del Segretario o
di altri organi del Consiglio stesso (per esempio la Giunta).
Tale scelta deve ritenersi coerente con lo spirito che deve infor-
mare i rapporti fra vescovo e presbiterio e fra presbiteri consiglieri e
il presbiterio stesso. Essa favorisce infatti comunicazione, trasmis-
sione di idee, coinvolgimento sulle questioni pastorali di interesse
diocesano.
Laddove circostanze particolari richiedessero maggiore discre-
zione, il vescovo può chiedere ai Consiglieri riservatezza sulle que-
stioni trattate ovvero derogare (in forza del can. 500 § 3) a norme
statutarie che prevedano le dette forme di comunicazione degli esiti
del lavoro del Consiglio.
Un aspetto che gli statuti debbono pure regolamentare e che ri-
guarda la pubblicità dei lavori del Consiglio presbiterale concerne l’a-
pertura o meno delle sue sessioni alla partecipazione, almeno come
uditori senza diritto di parola, di non membri del Consiglio stesso.
Anche qui la prassi è molto varia. Alcuni statuti prevedono sen-
z’altro la chiusura delle sessioni, senza alcun diritto di assistenza alle
stesse; alcuni altri prevedono questo regime generale, ma contem-
plano espressamente la possibilità che il vescovo stabilisca delle ec-
cezioni caso per caso; altri statuti dichiarano pubbliche le sessioni
(in diversi casi con la logica restrizione ai presbiteri aventi lo ius
electionis al Consiglio) ma senza diritto di parola per gli intervenuti;
altri infine, riaffermando la pubblicità delle sessioni, prevedono la
possibilità per il vescovo di stabilire un’eccezione, in rapporto so-
92 Paolo Bianchi

prattutto agli argomenti trattati, che possono richiedere una dovero-


sa riservatezza.
Come si può notare, la prassi è estremamente varia in merito, an-
che in diocesi vicine o appartenenti alla stessa Regione ecclesiastica.
Quale soluzione appare più opportuna? Evidentemente, ogni so-
luzione fra quelle elencate rispecchia la situazione diocesana e com-
porterebbe – per essere rettamente valutata – la conoscenza della si-
tuazione stessa. Non si intende quindi censurare alcuna soluzione li-
beramente assunta.
Su di un piano generale, e in analogia con l’indicazione data po-
co sopra circa la pubblicizzazione delle risultanze dei lavori del Con-
siglio presbiterale, appare coerente con l’intenzione che ha portato
alla costituzione dei Consigli presbiterali – ossia quella di favorire
l’esercizio del dialogo pastorale fra il vescovo e i presbiteri e fra i
presbiteri stessi – prevedere l’apertura alle sessioni del Consiglio
per i presbiteri aventi lo ius electionis al Consiglio stesso, senza dirit-
to di parola e salvo diversa decisione del vescovo, in ragione di argo-
menti che comportino particolare riservatezza.
Tale soluzione non sembra possa portare alcun disturbo diretto
ai lavori del Consiglio, mentre potrebbe favorire una ancora più ca-
pillare informazione sul suo lavoro fra il clero. Alla obiezione che
tale norma si risolverebbe in pratica (anche in ragione dei limiti lo-
gicamente imposti agli eventuali partecipanti quanto alle possibilità
di intervento) nell’affermazione di un principio, con verosimile sua
scarsa utilizzazione, si può rispondere che si tratterebbe comunque
di un principio coerente con l’intenzione conciliare e codificatrice nel
creare e nel perseguire la promozione (anche attraverso norme giu-
ridiche) dei Consigli presbiterali.

6. Da ultimo appare possibile indicare una attenzione metodo-


logica che qui non percorriamo, ma che potrebbe avere – per analo-
gia – rilievo per approfondire eventuali questioni complesse del tema
trattato. Quello di riferirsi – appunto per analogia – a quanto previsto
per istituzioni in qualche modo assimilabili ai Consigli presbiterali,
quali la Conferenza episcopale, il Sinodo dei vescovi, il Capitolo della
cattedrale, per ricercare, nelle loro disposizioni statutarie l’ispirazio-
ne per la soluzione di eventuali problemi consimili.
Gli statuti del Consiglio presbiterale 93

Conclusione
Queste note hanno cercato di illustrare la ragione della prescri-
zione normativa della necessità di uno statuto per il Consiglio presbi-
terale.
Dalla ricognizione fatta emerge l’importanza di uno statuto ben
calibrato e pensato, soprattutto al fine di garantire l’effettiva rappre-
sentanza del presbiterio nel Consiglio presbiterale e l’efficacia dei
suoi lavori nel perseguimento del proprio fine istituzionale: essere di
aiuto al vescovo negli affari di maggiore importanza pastorale per la
diocesi, con il consiglio e – ove previsto – col consenso.
È chiaro però che anche lo statuto meglio congegnato non avrà
efficacia se non sarà osservato – da tutti coloro che vi sono tenuti –
con lo spirito “giusto”: quello del rispetto della motivata opinione al-
trui; quello della coscienza dei propri limiti, sia quanto a esperienza
sia quanto a funzione; sia – soprattutto – quello della ricerca del be-
ne comune pastorale della diocesi, al di là delle proprie simpatie o
convincimenti soggettivi.
PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
94

Il diritto di voce attiva e passiva


nell’elezione del Consiglio presbiterale.
Il caso dei presbiteri appartenenti
alla prelatura personale Opus Dei
di Carlo Redaelli

In questo breve contributo si intende esaminare quanto dispo-


sto nel can. 498 del Codice di diritto canonico a proposito del diritto
di voce attiva e passiva dei presbiteri per l’elezione del Consiglio pre-
sbiterale in ciascuna diocesi.
Si trascrive per comodità il testo della disposizione codiciale:
Ǥ 1. Hanno diritto attivo e passivo di elezione in ordine alla costituzione del
Consiglio presbiterale:
1° tutti i sacerdoti secolari incardinati nella diocesi;
2° i sacerdoti secolari non incardinati nella diocesi e i sacerdoti membri di
un istituto religioso o di una società di vita apostolica i quali, dimorando nel-
la diocesi, esercitano in suo favore qualche ufficio [officium].
§ 2. Per quanto gli statuti lo prevedono, lo stesso diritto di elezione può esse-
re conferito ad altri sacerdoti che abbiano nella diocesi il domicilio o il quasi-
domicilio».

Come si evince chiaramente dal testo, il can. 498 distingue nei


suoi due paragrafi due categorie di presbiteri: quelli che hanno dirit-
to, per lo stesso Codice, di voce attiva e passiva nelle elezioni per la
costituzione del Consiglio presbiterale (§ 1) e quelli che possono ave-
re tale diritto per concessione degli statuti (§ 2).

I presbiteri che hanno di diritto voce attiva e passiva


nella designazione del Consiglio presbiterale
Circa questa prima categoria, mentre non c’è alcuna difficoltà a
identificare i presbiteri incardinati in diocesi, stante le chiare norme
che lo stesso Codice dà in materia di incardinazione (cf cann. 265-
272), potrebbe, invece, sorgere qualche dubbio circa i presbiteri se-
Il diritto di voce attiva e passiva nell’elezione del Consiglio presbiterale 95

colari non incardinati in diocesi e i presbiteri appartenenti a un isti-


tuto religioso o a una società di vita apostolica, che «dimorando in
diocesi, esercitano in suo favore qualche ufficio»: quali sono questi
presbiteri?
Sono anzitutto i presbiteri che dimorano in diocesi (in dioecesi
commorantes): anche se qui, diversamente dal paragrafo secondo
dello stesso canone, non si parla di domicilio o di quasi-domicilio, si
tratta evidentemente non di una dimora passeggera, ma di una dimo-
ra che si prolunga di fatto o almeno intenzionalmente nel tempo (tre
mesi viene richiesto dal can. 102 § 2 per il quasi-domicilio).
Tali presbiteri non solo risiedono in diocesi – fatto che identifi-
ca anche quelli di cui parla il paragrafo secondo –, ma «esercitano in
suo favore qualche ufficio». Come interpretare tale espressione? L’u-
so del termine officium offre già una prima risposta. Va rilevato che
si tratta di un termine tecnico e non generico: controllando tutti i
luoghi in cui questo vocabolo è utilizzato nel Codice (si può fare age-
volmente con l’Index verborum di X. Ochoa) si nota, infatti, che esso
significa o dovere o, più spesso, ufficio, nel senso del can. 145, cioè di
«un incarico costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ec-
clesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale». Nel canone in que-
stione si tratta quindi non dei presbiteri che svolgono in diocesi
un’attività qualsiasi, sia pure significativa da un punto di vista eccle-
siale, ma solo di quelli che sono titolari di un vero e proprio ufficio e
non di un semplice incarico transeunte.
Occorre poi capire che cosa si intenda con la locuzione «in suo
favore» (in eiusdem bonum), riferita a diocesi. Va esclusa un’inter-
pretazione troppo larga: è vero, infatti, che l’esercizio di qualsiasi uf-
ficio ecclesiale è, più o meno direttamente, a favore della Chiesa,
compresa quella particolare, ma evidentemente il legislatore intende
in questo caso riferirsi a tutti quegli uffici finalizzati direttamente alla
diocesi e in qualche maniera collegati direttamente con essa. Così,
ad esempio, un religioso titolare dell’ufficio di docente in una scuola
cattolica del proprio istituto fa certamente del bene ai fedeli della
diocesi in cui si trova, in particolare ai giovani che frequentano la
scuola e alle loro famiglie, ma non si può dire che esercita un ufficio
immediatamente a favore della diocesi e collegato con essa. Diverso
è il caso del religioso – per stare nel mondo della scuola – che venis-
se incaricato dal vescovo di occuparsi della pastorale studentesca in
diocesi o in parte di essa: in questo caso si tratterebbe di un vero e
proprio ufficio organicamente inserito nella pastorale diocesana.
96 Carlo Redaelli

Se vale quanto qui sostenuto, si può concludere che non rien-


trano nella previsione di questo paragrafo, e quindi non godono di
diritto di voce attiva e passiva nella designazione del Consiglio pre-
sbiterale, sia quei presbiteri che pur dimorando in diocesi e pur svol-
gendo una qualche attività a suo favore non sono titolari di un uffi-
cio, sia quelli che esercitano un ufficio, ma non ricollegabile organi-
camente con la pastorale diocesana.
Ci si può domandare: per essere sicuri di essere davanti a un uf-
ficio esercitato a favore della diocesi si può utilizzare come criterio
discriminante la presenza o meno di una nomina da parte del vesco-
vo diocesano? Il criterio, in linea di principio, è certamente valido,
perché si basa sulla previsione generale del can. 157:
«Se non è stabilito esplicitamente altro dal diritto, spetta al vescovo diocesa-
no provvedere con libero conferimento agli uffici ecclesiastici nella propria
Chiesa particolare».

Se si passano in rassegna tutti i possibili uffici diocesani previsti


dal Codice, si scopre che per la totalità di essi si ripete la necessità
della nomina da parte del vescovo (magari senza libero conferimen-
to, se ad esempio esiste un diritto di presentazione), con esclusione
dei cappellani per i quali si parla di «Ordinario di luogo» (cf can. 565).
Si può quindi affermare che il riferimento alla nomina da parte del
vescovo o, comunque, da parte dell’ordinario diocesano, identifica
con chiarezza i presbiteri descritti nel can. 498 § 1, n. 2°. Tale riferi-
mento è esclusivo? Se si interpreta la norma nel contesto del Codice,
così come si è cercato di fare, prendendo quindi in senso proprio il
termine ufficio e tenendo presente il can. 157 e le altre disposizioni
relative agli uffici presenti in diocesi, bisognerebbe rispondere di sì.
Se, però, si presta attenzione al lavoro di redazione del Codice – per
quanto possa legittimamente essere utilizzato come aiuto per l’inter-
pretazione del testo vigente – allora occorre essere più sfumati. Dal-
la Relatio, che presenta le osservazioni fatte allo schema del 1980
con le risposte date dalla Segreteria e dai consultori, emerge che l’at-
tuale dettato del paragrafo che si sta esaminando nasce come rispo-
sta a una richiesta di un Padre che chiedeva di modificare l’esplicito
riferimento a un ufficio conferito dal vescovo diocesano 1, contenuto
nello schema del 1980, in un più generico rinvio al beneplacito del ve-

1
«Sacerdotes [...] qui in dioecesi officium aliquod ab Episcopo dioecesano collatum exercent».
Il diritto di voce attiva e passiva nell’elezione del Consiglio presbiterale 97

scovo 2. Di fatto il suggerimento venne recepito – ed è il testo attua-


le – togliendo ogni riferimento al vescovo ed esplicitando la finalità
diocesana dell’ufficio. Si può quindi concludere che rientrano nella
categoria dei presbiteri descritti nel can. 498 § 1, 2° certamente tutti
i presbiteri che hanno un ufficio conferito dal vescovo, ma anche
quelli che esercitano un ufficio a favore della diocesi, cioè diretta-
mente e organicamente connesso alla sua vita pastorale, anche sen-
za una nomina del vescovo.
In concreto come individuare questi uffici? Almeno in Italia c’è
una possibilità pratica molto efficace: utilizzare il criterio dell’inseri-
mento nel sistema di sostentamento del clero. Come è noto, infatti, ti-
tolo per tale inserimento, secondo quanto disposto dal can. 1274 § 1 e
dall’art. 24 delle Norme circa gli enti e i beni ecclesiastici in Italia 3 è
costituito dal «servizio a favore della diocesi» – si noti l’espressione
simile a quella del can. 498 –, che è stato esemplificato in tutte le di-
verse possibilità presenti attualmente nelle diocesi italiane dalla Con-
ferenza episcopale italiana nell’art. 1 della delibera n. 58 (Testo unico
delle disposizioni di attuazione delle norme relative al sostentamento
del clero che svolge servizio a favore delle diocesi) del 1° agosto 1991.

I presbiteri che possono avere voce attiva e passiva


nella designazione del Consiglio presbiterale
La seconda categoria di presbiteri, presentata al § 2 del canone
in questione, è costituita da coloro che, non essendo incardinati in
diocesi, né essendo titolari di un ufficio diocesano, possono avere o
non avere diritto di voce attiva e passiva in riferimento all’elezione
del Consiglio presbiterale secondo le disposizioni degli statuti locali.
Tale norma costituisce una discriminazione nei loro confronti?
Non pare. Anzi sembra sensato che chi vive un particolare rapporto
con il vescovo e la diocesi, come quello rappresentato dall’incardina-
zione o dalla titolarità di un ufficio diocesano, sia dotato per legge
(ipso iure) del diritto di voce attiva e passiva, diversamente dai pre-
sbiteri che non hanno questo specifico legame con il vescovo e la
diocesi, quali ad esempio i presbiteri religiosi impegnati in opere di
apostolato promosse dal proprio istituto e non configurabili come

2
«.... in dioecesi commorantes et laborem apostolicum cum Episcopi beneplacito exercentes»; cf Commu-
nicationes 14 (1982) 216.
3
Nell’ordinamento italiano è la Legge 20 maggio 1985, n. 222.
98 Carlo Redaelli

diocesane. Evidentemente, come già sopra si affermava, non si nega


il valore che queste attività hanno per la diocesi, ma il legame con
essa e con il vescovo è molto meno significativo di quello proprio di
chi è incardinato in quella Chiesa particolare o esercita in essa un uf-
ficio diocesano.
Sarà però buona cosa, tenendo conto che il Consiglio presbite-
rale è immagine dell’intero presbiterio della diocesi a cui tutti i pre-
sbiteri in qualche modo appartengono secondo l’insegnamento con-
ciliare 4, che gli statuti prevedano l’inserimento nel Consiglio presbi-
terale di alcuni rappresentanti di presbiteri residenti in diocesi che
non svolgono un ufficio o un incarico diocesano. Non sembra invece
opportuno, anche se pienamente legittimo, estendere a tutti i presbi-
teri residenti in diocesi il diritto di elezione. Tale scelta, infatti, non
terrebbe conto del particolare legame con la diocesi e il vescovo dei
presbiteri incardinati o esercitanti un ufficio diocesano, fatto che li
pone in una situazione diversa da quella degli altri presbiteri. In con-
creto, sembra meglio prevedere la presenza in Consiglio, oltre che
dei membri eletti, di quelli di diritto e di quelli scelti direttamente dal
vescovo (cf can. 497), anche di presbiteri religiosi designati da loro
organismi di coordinamento e di presbiteri nominati direttamente
dal vescovo, con l’intento però di completare la rappresentanza pre-
sbiterale in riferimento a presbiteri secolari residenti in diocesi.

Il caso dei presbiteri appartenenti


alla prelatura personale Opus Dei
La questione si è posta a partire da un’affermazione, contenuta
nella Dichiarazione della S. Congregazione per i Vescovi del 23 ago-
sto 1982 Praelaturae personales concernente il diritto di voce attiva e
passiva dei membri della prelatura Opus Dei nei Consigli presbiterali.
Anche in questo caso è utile trascrivere il testo:
«II. La prelatura Opus Dei è una struttura giurisdizionale secolare e, quindi:
a) i chierici in essa incardinati appartengono a tutti gli effetti, secondo le di-
sposizioni del diritto generale e di quello proprio della Prelatura, al clero se-

4
«Tutti i presbiteri, sia diocesani, sia religiosi, in unione con il Vescovo partecipano all’unico sacerdo-
zio di Cristo» sostiene il decreto conciliare Christus Dominus al n. 28. Lo stesso decreto, inoltre, dopo
aver affermato che i sacerdoti diocesani «costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il
Vescovo è il padre» (n. 28), aggiunge che i religiosi, in quanto partecipi della cura delle anime e del-
l’apostolato sotto l’autorità dei sacri pastori «sono da considerarsi in un certo qual vero modo come ap-
partenenti al clero della diocesi» (n. 34).
Il diritto di voce attiva e passiva nell’elezione del Consiglio presbiterale 99

colare; essi, pertanto, coltivano rapporti di stretta unità con i sacerdoti seco-
lari delle chiese locali e, per quanto riguarda la costituzione dei Consigli pre-
sbiterali, godono di voce attiva e passiva; b) i laici incorporati nella Prelatura
non ...» 5.

Il problema che si pone di fronte a questo testo è il seguente: le


disposizioni della Dichiarazione derogano alla norma generale del
Codice – che sopra si è cercato di esporre – o devono essere inter-
pretate alla luce di essa? Due sono gli aspetti da considerare: a) la
data di promulgazione e di entrata in vigore della Dichiarazione in
rapporto con la data di promulgazione e di entrata in vigore del Co-
dice attuale; b) la natura giuridica della stessa Dichiarazione.
Quanto al primo aspetto la risposta è facile: se la Dichiarazione
è precedente all’entrata in vigore del Codice (n.b.: entrata in vigore,
cioè il 27 novembre 1983, e non la promulgazione del CIC, cioè il 25
gennaio 1983) essa potrebbe essere stata abrogata, ammesso che
avesse avuto valore di legge, dal Codice stesso in forza e alle condi-
zioni del can. 6; altrimenti, sempre dando per certo il suo valore di
legge, essa potrebbe derogare alle disposizioni del Codice, in forza e
alle condizioni del can. 20. La Dichiarazione ha avuto vigenza prima
o dopo l’entrata in vigore del Codice? Sia che si consideri la data ap-
posta in calce alla stessa (23 agosto 1982), sia che si consideri più
correttamente la data del numero di Acta Apostolicae Sedis in cui è
stata pubblicata (2 maggio 1983) o la data di entrata in vigore (cf
can. 9 del CIC/17 e can. 8 del CIC/83), cioè dopo tre mesi (2 agosto
1983), la Dichiarazione risulta essere precedente al Codice. Non può
quindi derogare al Codice e anzi, se venisse accertata la ricorrenza
delle condizioni previste dal can. 6, essa dovrebbe essere considera-
ta abrogata.
Circa la natura giuridica della Dichiarazione, sembra chiaro che
essa non possa essere ritenuta una norma, ma, appunto come dice il
nome, un’illustrazione, una presentazione della configurazione giuri-
dica dell’Opus Dei delineata da precise fonti normative diverse dalla
Dichiarazione. Che sia così lo si deduce da almeno due affermazioni
specifiche:
– della costituzione apostolica Ut sit, datata 28 novembre 1982,
con cui l’Opus Dei è stata eretta in prelatura personale, che al pun-
to II afferma:

5
Per il testo della Dichiarazione cf EV 8, nn. 276-287.
100 Carlo Redaelli

«La Prelatura è retta dalle norme del diritto generale e di questa costituzio-
ne, oltre che dai propri statuti, che sono denominati “Codice di diritto parti-
colare dell’Opus Dei”» 6.

La Dichiarazione non viene quindi nominata tra le norme che


reggono la Prelatura (e, si noti, pare venire indicata una gerarchia
delle norme: anzitutto vale il diritto universale);

– della stessa Dichiarazione, che introduce la parte dove sono


contenute le affermazioni che ci interessano, con queste parole:
«Come risulta dalle norme con cui la Santa Sede regola le strutture della
prelatura e la sua attività nel dovuto rispetto dei legittimi diritti dei vescovi
diocesani, le principali note caratteristiche della prelatura che viene eretta
sono le seguenti...».

È quindi evidente la natura esplicativa e non normativa della


Dichiarazione.
È interessante notare che cosa affermano, circa il tema che ci
interessa, i due testi che effettivamente presentano la normativa spe-
ciale per la Prelatura. Mentre la costituzione apostolica tace sulla
questione, gli Statuti – il cosiddetto Codex iuris particularis Operis
Dei 7 – hanno un’interessante e, salvo errore, unica annotazione al-
l’art. 40:
«Se, in ragione dell’ufficio ecclesiastico o della personale competenza, questi
sacerdoti [quelli incardinati nella Prelatura] sono invitati al Consiglio presbi-
terale o a qualche organismo diocesano, per quanto possibile devono parte-
ciparvi, con la preventiva licenza del Prelato dell’Opus Dei o del suo Vica-
rio» 8.

Si noti che si parla di essere chiamati a partecipare al Consiglio


presbiterale o a un altro organismo diocesano in forza dell’ufficio ec-
clesiastico o della competenza personale. Non si afferma, quindi, di-
versamente da come potrebbe sembrar sostenere la Dichiarazione,
che i presbiteri dell’Opus Dei godono di voce attiva e passiva nell’ele-

6
Per il testo della Costituzione apostolica cf EV 8, nn. 462-471.
7
È ora pubblicato in appendice al volume di DE FUENMAYOR A. - GOMEZ-IGLESIAS V. - ILLANES J.L., L’iti-
nerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Milano 1991.
8
«Si, ratione officii ecclesiastici vel personalis competentiae, hi sacerdotes ad Consilium presbyterale
aliaque organa dioecesana invitantur, pro posse participare debent, praehabita tamen licentia Praelati
Operis Dei vel eius Vicarii».
Il diritto di voce attiva e passiva nell’elezione del Consiglio presbiterale 101

zione del Consiglio presbiterale, ma che essi possono esservi chia-


mati a partecipare – e la loro accettazione è subordinata alla licenza
del loro superiore competente – «in forza di un ufficio ecclesiastico»,
e ciò è perfettamente conforme alla disposizione del diritto universa-
le contenuta nel can. 498 § 1 (come più sopra è stato illustrato) 9, o
«in forza della loro personale competenza», evidentemente ricono-
sciuta dal vescovo diocesano che li chiama a partecipare al Consiglio
presbiterale o ad altro organismo diocesano.
A questo punto appare chiaro il senso della frase della Dichia-
razione relativa ai Consigli presbiterali: essa non dà, né può dare,
stante la natura del documento, una nuova disposizione rispetto a
quelle contenute nelle effettive fonti normative della Prelatura, ma,
nell’intento di illustrare la nuova figura giuridica della prelatura per-
sonale, la S. Congregazione per i Vescovi si sente in dovere di pre-
cisare, a fronte di possibili dubbi, che la prelatura ha una natura
secolare e che, di conseguenza, i sacerdoti incardinati in essa sono
secolari a tutti gli effetti, compresa quindi – e sembra evidente l’in-
tenzione di fare un esempio tra i tanti – la possibilità di partecipare
con voce attiva e passiva alla formazione dei Consigli presbiterali.
Naturalmente, e dovrebbe essere ormai chiaro, alle condizioni previ-
ste dal diritto universale, che non è derogato, né potrebbe esserlo
dalla Dichiarazione, oltre che alle condizioni del diritto proprio della
Prelatura.
Alla luce di queste considerazioni si può quindi concludere che
i presbiteri incardinati nella Prelatura hanno necessariamente diritto
di voce attiva e passiva in riferimento alle elezioni del Consiglio pre-
sbiterale solo se titolari di un ufficio diocesano; altrimenti possono
avere tale diritto solo se loro concesso dagli statuti del Consiglio.
Non è sufficiente, quindi, la loro legittima e anche apprezzata pre-
senza in diocesi per far scattare a loro favore il diritto in questione.
Risolta così la questione dell’interpretazione di quanto afferma-
to dalla Dichiarazione, occorre precisare che anche per i presbiteri
della Prelatura residenti in diocesi, come per gli altri presbiteri seco-
lari extradiocesani, si pone l’opportunità di prevedere una forma di
presenza nel Consiglio presbiterale, utilizzando una delle due forme
sopra indicate: la previsione – da inserire negli stessi statuti del Con-

9
Si osservi che, stando agli Statuti della Prelatura, la nomina a un ufficio diocesano da parte dell’Ordi-
nario diocesano esige l’approvazione del Prelato (cf art. 51 § 1).
102 Carlo Redaelli

siglio – che uno o più presbiteri vengano designati direttamente da-


gli organi competenti della Prelatura o la possibilità che il vescovo
inserisca nel numero dei presbiteri da lui direttamente nominati an-
che uno o più rappresentanti della Prelatura.

CARLO REDAELLI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
103

Comunione e comunicazione
tra Consiglio presbiterale diocesano,
presbiterio diocesano e diocesi
di G. Paolo Montini

Lo scopo di questa breve nota è di rendere avvertiti del pericolo


esistente che il Consiglio presbiterale diocesano risulti un organi-
smo staccato dalla realtà del presbiterio diocesano e della diocesi in
generale, e, nel limite del possibile, proporre alcuni strumenti per
un collegamento vitale fra presbiterio diocesano, diocesi e Consiglio
presbiterale diocesano 1.
È evidente infatti che il Consiglio presbiterale, nonostante la
sua dichiarata natura rappresentativa del presbiterio (cf can. 495 § 1)
e la sua sostanziale composizione tramite elezione (cf can. 497, 1°),
non è nella concretissima realtà pastorale della diocesi preservato
dalla possibilità di divenire un organismo che opera, discute, consi-
glia senza poter in realtà comunicare con il presbiterio diocesano e
la diocesi 2. La forma giuridica non produce in se stessa e da sé sola
la realtà che significa. Tanto più che il Consiglio presbiterale, come
pure gli altri organismi di comunione, sono nati per il servizio e per
favorire uno stile di comunione e di fraternità globale nella Chiesa
locale 3.

1
Il tema non è particolarmente trattato né negli statuti né negli studi sugli organismi di comunione.
Una certa attenzione ed una buona documentazione si può trovare, ad esempio, in Consigli presbiterali
e consigli diocesani, Roma 1969 (cf soprattutto pp. 40-42; 46-48; 51-54; 111-164; 259-266).
2
Cf ad esempio BEYER J., De consilio presbyterii adnotationes, in Periodica 60 (1971) 85-87. Si potrebbe
qui ricordare il Capitolo della Cattedrale il quale, pur sorto e mantenutosi come istanza collegiale pre-
sbiterale nei confronti del vescovo diocesano e di ambiti variegati del suo ministero sacro, non ha potu-
to evitare che nel corso dei secoli si oscurasse e si perdesse nella Chiesa locale la coscienza della sua
giustificazione teologica e del suo fondamento nella esistenza del presbiterio diocesano.
3
Cf ad esempio SEGRETERIA DEL COMITATO NAZIONALE PREPARATORIO DEL II CONVEGNO ECCLESIALE, “Ri-
conciliazione cristiana e comunità degli uomini”, Insieme per un cammino di riconciliazione, (22 feb-
braio 1985), III, 15, 70.
104 G. Paolo Montini

Anzi non si può nascondere che la crisi che attraversano gli or-
ganismi di partecipazione e di comunione nella Chiesa trovi spesso
la sua origine e la sua manifestazione a un tempo nell’isolamento dei
consigli dalla vita diocesana, dalla Curia diocesana, dai luoghi e dai
tempi delle decisioni pastorali e dalla vita concreta delle parrocchie
e dei presbiteri 4.
A tale riguardo uno dei compiti che le Conferenze episcopali so-
no chiamate ad assolvere (cf can. 496) è precisamente quello di pro-
porre norme che regolino «la cooperazione [del Consiglio presbite-
rale diocesano] con gli altri organismi consultivi» e favoriscano «i
rapporti del Consiglio con tutti i sacerdoti della diocesi» 5.
Il percorso che si propone consta di tre tappe e intende suggeri-
re le attenzioni per rendere il Consiglio presbiterale diocesano dialo-
gante con il presbiterio diocesano, con la Curia diocesana e con la
diocesi, complessivamente presa. Considera anzitutto la composizio-
ne propria che sia maggiormente in grado di inserirsi nella vita dio-
cesana; vede poi il duplice movimento fondamentale: dalla diocesi al
Consiglio e dal Consiglio alla diocesi.

La composizione del Consiglio presbiterale diocesano


La prima condizione per realizzare un legame vitale fra Con-
siglio presbiterale diocesano e diocesi consiste nel curare che la
composizione del Consiglio non solo risponda al requisito formale
che «circa la metà venga liberamente eletta dagli stessi sacerdoti»
(can. 497, 1°), ma che nella composizione del Consiglio venga ripro-

4
Non si può assolutamente opporre a tale difficoltà constatata la notazione che il Consiglio presbitera-
le diocesano esaurisce la sua funzione nell’azione del consigliare che svolge nei confronti del vescovo
diocesano. Tale azione non coinvolgerebbe in sé alcuna pubblicità né l’esigenza di altri rapporti istitu-
zionali che non siano quelli diretti, immediati e personali con il vescovo diocesano in persona.
Tale impostazione scorda almeno due elementi: il primo riguarda il fatto che il consiglio da rivolgere al
vescovo diocesano attiene al «coadiuvare nel governo della diocesi» (can. 495); l’altro riguarda il fatto
che il Consiglio presbiterale diocesano è rappresentanza giuridica del presbiterio diocesano e pertanto
le funzioni del primo vanno interpretate alla luce dello spessore teologico ed ecclesiologico del secondo.
5
SACRA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Lettera circolare Presbyteri sacra (11 aprile 1970), conclusiones II,
b. Cf pure PAOLO VI, motu proprio Ecclesiae sanctae (6 agosto 1966), I, 17 § 1; SACRA CONGREGAZIONE
PER I VESCOVI, direttorio Ecclesiae imago (22 febbraio 1973), n. 203 d-e.
La Conferenza episcopale italiana non ha dato norme al riguardo «tenuto conto della fase sperimentale
di non pochi Consigli presbiterali in Italia», «lasciando a una opportuna valutazione delle singole dioce-
si ulteriori prescrizioni anche secondo gli eventuali orientamenti delle conferenze episcopali regionali»
(delibera n. 19 [6 settembre 1984], in Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana [1984] 204).
Anche se la massima parte delle Conferenze episcopali ha legiferato in questo ambito, non sembra che
abbia posto particolare attenzione al tema indicato dalla Lettera circolare (cf MARTIN DE AGAR JOSÉ T.,
Legislazione delle Conferenze episcopali complementare al C.I.C., Milano 1990, passim).
Comunione e comunicazione tra Consiglio presbiterale diocesano, presbiterio diocesano e diocesi 105

posta in scala ridotta e con la maggiore fedeltà possibile anche l’intera


articolazione strutturale e pastorale del presbiterio diocesano (cf an-
che can. 499). Non si tratta infatti di comporre un organismo rappre-
sentativo di una categoria di persone all’interno della diocesi, quasi
al modo di una rappresentanza sindacale per la tutela di interessi di
parte, quanto piuttosto di rappresentare la diocesi nel suo corpo sa-
cerdotale.
Potrebbe essere significativo a questo riguardo l’inserzione nel
Consiglio presbiterale diocesano dei Vicari foranei 6, che possiedono
già in se stessi un forte spessore rappresentativo del clero diocesa-
no, dell’attività e della responsabilità pastorale diocesana nonché del
territorio diocesano. L’antica prassi di elezione dei Vicari foranei e la
esplicita previsione normativa del Codice (cf can. 553 § 2: «A meno
che il diritto particolare non stabilisca diversamente»), permettono
che la designazione dei Vicari foranei sia stabilita in una diocesi per
elezione dei sacerdoti (residenti, residenti e attivi pastoralmente) di
una Vicaria foranea, lasciando al vescovo diocesano la competenza
di conferma dell’elezione (cf can. 179). Questa ipotesi porterebbe da
un lato alla osservanza della rappresentatività sostanziale per elezio-
ne, richiesta dal can. 497, 1°; dall’altro all’inserimento nel Consiglio
presbiterale diocesano di presbiteri che a un tempo rappresentino i
presbiteri e possiedano responsabilità pastorali omogenee ed estese
a tutta la diocesi.
A un criterio analogo (che perciò è conferma di quanto sopra)
risponde la previsione che il Codice fa di un gruppo di sacerdoti del
Consiglio presbiterale diocesano membri di diritto, ossia membra
nata, «tali cioè che appartengano al Consiglio per l’ufficio loro affida-
to» (can. 497, 2°).
In tal modo entrano a far parte del Consiglio i principali respon-
sabili della Curia diocesana e più in generale dell’elaborazione e del-
la esecuzione della prassi pastorale diocesana. Anzi si potrebbe ipo-
tizzare l’invito a partecipare alle assemblee del Consiglio (con o sen-
za diritto di parola) di tutti i sacerdoti responsabili di uffici della
Curia diocesana.
La strutturazione della compagine consiliare in Commissioni o
gruppi di studio porta normalmente a un proficuo raccordo del Con-
siglio presbiterale diocesano con la diocesi, soprattutto quando a

6
Cf a tale specifico riguardo MONTINI G.P., I Vicari foranei, in Quaderni di diritto ecclesiale 4 (1991)
376-389.
106 G. Paolo Montini

queste Commissioni sia affidata in collaborazione con la segreteria


la preparazione del tema da trattare; quando queste Commissioni
possano cooptare per singole questioni anche sacerdoti che non ap-
partengano al Consiglio presbiterale.

Dalla diocesi al Consiglio


Il movimento dalla diocesi al Consiglio si rileva soprattutto nella
scelta dei temi da porre alla trattazione del Consiglio 7. Ancorché sia
chiaro che spetta al vescovo diocesano «determinare le questioni
che dovranno essere trattate in Consiglio, come pure accettare quel-
le proposte dai membri» (can. 500 § 1), è altrettanto evidente che il
vescovo diocesano dovrà in questo delicato compito essere coadiu-
vato da un eventuale Consiglio di presidenza, a norma degli statuti,
ma poi più in concreto dall’intero Consiglio presbiterale diocesano e
più in generale dalla diocesi intera. Quanto più infatti gli argomenti
posti in discussione corrispondono a reali, vissuti e attuali problemi
pastorali diocesani, tanto più i lavori delle assemblee del Consiglio
presbiterale divengono partecipate ed efficaci.
Si dovrà in modo particolare far sì che i temi, prima di approda-
re in Consiglio possano essere affrontati a livelli inferiori e che le
conclusioni di tali momenti possano confluire nelle Assemblee del
Consiglio presbiterale.
Si potrà ottenere questo importante risultato, per esempio, co-
municando all’inizio dell’anno pastorale non solo le date delle assem-
blee, ma pure i temi che in esse verranno affrontati; prevedendo che
i membri del Consiglio presbiterale (soprattutto coloro che sono
“espressi” da strutture diocesane come, per esempio, i Vicari foranei
di cui sopra) ricevano per tempo il materiale di illustrazione del-
l’o.d.g. e possano discuterne all’interno della realtà di cui sono e-
spressione (cf ad esempio nelle riunioni presbiterali della Vicaria fo-
ranea); stabilendo un congruo tempo nelle assemblee del Consiglio
presbiterale in cui i membri possano riferire, con il proprio parere
personale, anzi prima del medesimo, i frutti delle riflessioni svolte in
precedenza a livelli inferiori.

7
Non si può dimenticare comunque l’importanza di un regolamento efficace per la designazione dei
membri del Consiglio presbiterale e la responsabilità dei sacerdoti di eleggere i presbiteri più “rappre-
sentativi” per il Consiglio. L’istituzione dipende in gran parte dalle persone che sono chiamate a farne
parte.
Comunione e comunicazione tra Consiglio presbiterale diocesano, presbiterio diocesano e diocesi 107

A volte i temi posti in discussione potranno provenire da assem-


blee del Consiglio pastorale diocesano, per un esame e una proposta
attuativa più incisiva nella struttura pastorale diocesana 8; da Com-
missioni o Consulte diocesane, che intendono dare maggiore autore-
volezza e slancio attuativo a loro testi o proposte pastorali.
Saranno poi da educare fedeli (chierici, ma anche laici) a quel
principio, consueto e generale della vita e dell’ordinamento della
Chiesa, secondo cui possono rivolgersi direttamente per iscritto al
Consiglio presbiterale diocesano sia per suggerire questioni da trat-
tare, sia per rivolgere interpellanze. Lo statuto del Consiglio dovrà
prevedere un procedimento per valutare tali domande e richieste, e
per darvi risposta.
Non appare altrettanto felice un’apertura indiscriminata delle
assemblee del Consiglio presbiterale diocesano alla partecipazione
di sacerdoti che non ne fanno parte. Ne potrebbe scapitare la libertà
di intervento dei membri.

Dal Consiglio alla diocesi


La prima attenzione da avere è a una corretta e puntuale infor-
mazione circa i pareri espressi, le decisioni prese e le discussioni av-
venute nelle assemblee del Consiglio presbiterale diocesano. Ogni
divulgazione di informazioni su quanto è stato trattato in Consiglio
soggiace al permesso del vescovo diocesano (cf can. 500 § 3), ma si
deve tener conto di una prassi diocesana che conosce gradi diversi
di permesso del medesimo vescovo (fino alla presunzione del per-
messo) a seconda dell’oggetto della trattazione in Consiglio.
Al fine di informazione diocesana il Verbale delle Assemblee non
è solo uno strumento da riporre in archivio per memoria di quanto è
avvenuto, ma una fonte di conoscenza da divulgare il più possibile.
Ha bisogno del permesso del vescovo diocesano per essere divulga-
to al di fuori dei membri del Consiglio, cui spetta di diritto senz’altro
almeno l’ascolto della lettura previa all’Assemblea seguente per la ri-
tuale approvazione, a norma degli statuti del Consiglio stesso.

8
Pur nella complessiva difficoltà a definire e delimitare le competenze dei due consigli diocesani –
presbiterale e pastorale – (cf ad esempio CATTANEO A., Il presbiterio della Chiesa particolare. Questioni
canonistiche ed ecclesiologiche nei documenti del magistero e nel dibattito postconciliare, Milano 1993, pp.
66-69), il movimento logico dei temi pastorali da trattare appare dal Consiglio pastorale (ove l’elabora-
zione è più a livello propositivo ed “euristico”) al Consiglio presbiterale (ove si ha l’attuazione nel-
l’aspetto di governo della diocesi). Non è perspicua la ragione di un movimento opposto.
108 G. Paolo Montini

Sarà invece proficuo che il Verbale sia pubblicato con il permes-


so del vescovo diocesano sulla rivista ufficiale della diocesi, cui ogni
parrocchia è abbonata, in modo tale da costituire una fonte cui ogni
sacerdote può accedere comodamente.
Tale prassi non dovrebbe trovare ostacolo nella riservatezza che
alcuni argomenti esigono di per se stessi e che non pochi statuti di
Consigli presbiterali recepiscono: non è infatti compito del Consiglio
«trattare le questioni che per loro natura esigono discrezione nel mo-
do di procedere, come avviene nella designazione degli offici» 9.
Per i fedeli e per una conoscenza più rapida e incisiva da parte
dei sacerdoti, si potrebbe ipotizzare una informazione schematica ed
essenziale sulla stampa diocesana e, nel caso di argomenti organica-
mente discussi oppure di comunicati ufficiali oppure di prese di posi-
zione, anche sulla stampa di livello provinciale o nazionale.
L’informazione ampia e metodica ha un grande rilievo in
quanto non solo avvicina il Consiglio presbiterale diocesano alla dio-
cesi e lo fa sentire come un’istanza di partecipazione, ma soprattutto
permette di prendere visione della sensibilità del presbiterio in meri-
to ad alcuni argomenti. Per fedeli e pastori il momento attuale della
Chiesa richiede un animo pastorale sensibile a proposte, suggestioni
e iniziative, più che a rigide direttive schematizzate e generalizzate;
richiede un animo pastorale sensibile a convergenze di comunione,
prima ancora che su norme diocesane tipizzate, su uno stile di fare
pastorale e di accostare i problemi pastorali: per questo l’informazio-
ne su un tema oggetto di riflessione in Consiglio; su un relatore che
l’ha affrontato; sugli orientamenti principali della discussione e sullo
spirito che l’ha animata; sulle conclusioni ancorché provvisorie che il
vescovo diocesano ha tratto, riveste un ruolo decisivo nella crescita
del presbiterio e dell’intera comunità diocesana. Il che può essere vi-
sto come la dimensione più genuina e autentica della qualifica consul-
tiva dell’attività del Consiglio presbiterale diocesano (cf can. 500 § 2).
Di alcuni argomenti si dovrebbe poi prevedere un’attuazione
più puntuale e precisa; certo in molti casi a opera del vescovo dioce-
sano, che chieda un parere per una decisione sua propria, nella cui

9
SACRA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Lettera circolare Presbyteri sacra, n. 8c. La stessa indicazione dei
singoli interventi (per esteso o riassunti) e dei nomi degli intervenuti rende il Verbale maggiormente
fedele e oggetto di interesse e di verifica nel presbiterio stesso. Solo ragioni eccezionali potrebbero im-
porre riservatezza su quanto trattato in Consiglio.
Comunione e comunicazione tra Consiglio presbiterale diocesano, presbiterio diocesano e diocesi 109

formulazione poi dovrà o almeno potrà utilmente apparire la menzio-


ne della previa consultazione del Consiglio presbiterale.
In molti altri l’attuazione di quanto il Consiglio ha trattato appa-
re o potrebbe apparire più vaga. Questo perché, certo, non si richie-
de che su ogni argomento l’assemblea del Consiglio giunga alla vota-
zione o formalizzazione di una mozione o di un documento. Potreb-
be essere qui utile individuare un’istanza diocesana che si trova in
un ambito più vicino all’attuazione e che potrebbe raccogliere le indi-
cazioni del Consiglio per una loro valorizzazione pratica. Laddove vi
sia il Consiglio di Curia, che raccoglie coloro che sono deputati all’e-
secuzione dell’azione pastorale del vescovo diocesano, potrebbe es-
sere appannaggio di questo organismo tener conto, entro i limiti del-
la propria competenza ordinaria, delle trattazioni del Consiglio pre-
sbiterale diocesano.
Per tali difficoltà applicative ed esecutive appare di grande uti-
lità la previsione di una verifica o controllo del destino di quanto di-
scusso in Consiglio, in quanto la caduta come lettera morta di o.d.g.
discussi, isola notevolmente il Consiglio che potrebbe di conseguen-
za apparire un organismo inutile.
Su alcuni argomenti, posti legittimamente all’o.d.g., il Consiglio
presbiterale diocesano potrebbe poi esprimere un proprio parere at-
traverso un comunicato ufficiale, una nota, una dichiarazione, un
messaggio, un appello che coinvolga la responsabilità del Consiglio
stesso. Se il vescovo diocesano ne approvasse la pubblicazione, il
Consiglio presbiterale si esprimerebbe senza che venga coinvolta
l’autorità e responsabilità del vescovo diocesano 10. Questa forma a-
gendi potrebbe anche divenire prassi per quelle questioni che, poste
all’o.d.g., sono state sufficientemente discusse, ma che non appaiono
comunque mature per una decisione pastorale formale del vescovo
diocesano. Si potrebbero esprimere sotto forma di Raccomandazio-
ni, la cui pubblicazione è dal vescovo diocesano approvata e la cui
applicazione appare soggetta più a indirizzi e a sperimentazioni che a
normativa obbligante.

10
Tale attività del Consiglio presbiterale diocesano potrebbe apparire “autonoma” rispetto al vescovo
diocesano e perciò debordare dalla competenza del Consiglio. La difficoltà potrebbe risolversi dal lato
pratico ricordando che il Consiglio manifesta nel caso il “suo” pensiero solo se e dopo che il vescovo
diocesano ne ha preso visione e ne ha approvato la pubblicazione; dal lato teorico ricordando sia che lo
stesso Codice in un caso almeno prevede un atto giuridico del Consiglio, su proposta del vescovo dio-
cesano (cf c. 1742 § 1), sia che la questione dottrinale circa la compatibilità fra funzione del Consiglio
presbiterale e presidenza dello stesso non pare tuttora risolta definitivamente.
110 G. Paolo Montini

Conclusione
Già l’allora Sacra Congregazione per il Clero aveva potuto rile-
vare la molteplice utilità dei Consigli presbiterali diocesani:
«Per mezzo di tali consigli diviene più facile il contatto con i sacerdoti; si co-
noscono meglio i loro pareri e i loro desideri; si possono ottenere più accura-
te informazioni sullo stato della diocesi; si possono scambiare più facilmente
le varie esperienze; le necessità dei pastori e del popolo di Dio vengono più
evidenziate; le iniziative di apostolato adattate alle odierne contingenze ven-
gono prese con coerenza; infine, attraverso un comune lavoro, le difficoltà
possono essere adeguatamente risolte o almeno meglio studiate» 11.

Si tratta soprattutto di rilevare la natura istituzionale del Consi-


glio presbiterale diocesano, legato più che alla esclusiva persona del
vescovo diocesano, con lui, tramite lui e sotto di lui alla missione del-
la Chiesa particolare e pertanto a tutti gli organismi che nella Chiesa
particolare sono deputati a questo 12, nonché in modo vitale a tutti i
presbiteri della diocesi, anzi a tutti i fedeli della Chiesa locale.

G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia

11
SACRA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Lettera circolare Presbyteri sacra, n. 5.
12
Nei documenti normativi si trovano alcuni accenni, benché non frequenti, a legami istituzionali tra
Consiglio presbiterale diocesano ed altri organismi diocesani: cf ad esempio SACRA CONGREGAZIONE PER
I VESCOVI, direttorio Ecclesiae imago, n. 178a.
111

Commento a un canone
Le chiavi dell’Archivio di Curia (can. 487)
di Gianni Trevisan

«§ 1. L’Archivio deve rimanere chiuso e ne abbiano la chiave solo il vescovo


e il cancelliere; a nessuno è lecito entrarvi se non con licenza del vescovo
oppure, contemporaneamente, del Moderatore della curia e del cancelliere.
§ 2. È diritto degli interessati ottenere, personalmente o mediante un procu-
ratore, copia autentica manoscritta o fotostatica dei documenti che per loro
natura sono pubblici e che riguardano lo stato della propria persona».

Il can. 487 tratta direttamente dell’Archivio comune di Curia,


dove sono conservati e ordinati gli atti curiali (cf can. 482 § 1), «gli
strumenti e le scritture che riguardano le questioni spirituali e tem-
porali della diocesi» (can. 486 § 2). Non riguarda, invece, come pre-
cisa il can. 489 § 1, l’Archivio segreto di curia, accessibile solo al ve-
scovo e contenente documenti particolarmente riservati, né l’archi-
vio storico (can. 491 § 2), dove sono conservati documenti di valore
storico, ma che non hanno più riferimento a persone ancora viventi e
ai quali possono avere accesso gli studiosi 1.
Il canone prescrive che l’Archivio sia chiuso, cioè inaccessibile
alle persone non autorizzate, e che la chiave sia custodita dal vesco-
vo e dal cancelliere.
Il vescovo può accedere liberamente all’Archivio, perché tutti i
documenti lo riguardano direttamente; egli può autorizzare l’ingres-
so, anche mediante apposito regolamento, a quelle persone che di-
mostrino di avere ragioni valide per farlo, come, per esempio, gli ope-
ratori di curia, che hanno bisogno per il loro lavoro di consultare le
pratiche archiviate. Va ricordato che coloro che svolgono qualche uf-
ficio di curia devono «osservare il segreto nei limiti e secondo le mo-

1
Cf PASQUINELLI O., I lineamenti della disciplina canonica sugli archivi ecclesiastici, in Quaderni di di-
ritto ecclesiale 3 (1994) 368-372.
112 Gianni Trevisan

dalità determinate dal diritto o dal vescovo» (can. 471, 2°). Il Codice
stesso, incaricandolo di custodire la chiave, autorizza il cancelliere ad
avere libero accesso all’Archivio in qualità di Segretario di curia.
L’accesso di altre persone, per ricerche storiche o indagini stati-
stiche, e soprattutto l’asportazione dei documenti vanno attentamente
valutate dal vescovo diocesano, oppure insieme dal Moderatore della
curia e dal cancelliere, e decisamente respinti qualora l’utilizzo dei
dati possa compromettere gli scopi per i quali sono custoditi con ri-
servatezza, soprattutto in considerazione del fatto che le persone inte-
ressate sono ancora viventi. Nel dare il consenso alla consultazione
va anche considerato l’utilizzo che si intende fare dei dati raccolti. È
comunque da escludere un permesso generale per entrare e curiosa-
re in ogni cartella o documento, permettendo invece nel caso concre-
to di consultare il materiale richiesto fuori del locale dell’archivio.
In ogni caso sembra buona norma escludere tassativamente
dall’accedere all’Archivio comune di Curia chi non ha motivi inerenti
al suo ufficio.

Perché la chiusura a chiave


Il Codice prescrive che la chiusura dell’Archivio sia efficace e
per questo richiede che sia effettuata con la chiave, che è certamen-
te un mezzo idoneo per garantirne l’inaccessibilità, anche se, in linea
teorica, non è mezzo assolutamente sicuro; un ladro o un malinten-
zionato saprebbe come entrare anche se la porta è chiusa a chiave.
La chiave è un mezzo per garantire all’Archivio l’inaccessibilità, che,
tuttavia, va perseguita anche con altri mezzi adatti.
La chiusura a chiave è giustificata dal fatto che nell’Archivio so-
no conservate testimonianze importanti per la vita diocesana; si po-
trebbe fare un parallelo con la custodia dell’Eucaristia, pure da tene-
re nel Tabernacolo ben chiuso a chiave (can. 938 § 5). La scomparsa
di un documento, di un fascicolo o di un registro, anche se non com-
porta immediate conseguenze, lascia comunque una lacuna che ren-
derà nel futuro più difficile ricostruire la storia. Per questo minore è
il numero delle persone che possono accedere all’Archivio, minori
saranno le possibilità di perdere dei documenti, asportati magari in
buona fede.
Inoltre non va trascurato il fatto che l’accesso di poche persone
consente di conservare con ordine le carte, permettendone una ve-
loce localizzazione da parte di chi deve ritrovarle.
Le chiavi dell’Archivio di Curia (can. 487) 113

Ma la ragione più importante sta certamente nel non permette-


re a estranei di entrare e consultare documenti per loro natura riser-
vati. Gli Archivi di Curia infatti, dovendo conservare tutta la docu-
mentazione, contengono informazioni su persone che non sono di
pubblico dominio e che per questo non devono essere conosciute né
divulgate. Per questo il canone che stiamo commentando non rico-
nosce un diritto di accedere neppure per consultare documenti che
riguardano la propria persona; c’è solo il diritto, secondo il paragrafo
2°, di ottenere da parte di chi è interessato, copia autentica di quegli
atti che per loro natura sono pubblici. La norma intende tutelare il
diritto di ogni persona alla buona fama e alla riservatezza: «Non è le-
cito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui uno gode,
o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità»
(can. 220).

Sistemi moderni di conser vazione dei documenti


Una prima lettura del canone fa venire in mente un archivio for-
mato da una o più grandi sale, dove sugli scaffali sono custoditi ben
ordinati i registri e le cartelle con i documenti.
In questi ultimi anni si stanno facendo strada nuovi metodi di
conservazione dei documenti attraverso i computer; la Conferenza
Episcopale Italiana ha sperimentato e sta attuando in diverse diocesi
un sistema di catalogazione e di conservazione degli atti curiali tra-
mite computer. Non è mia intenzione valutare tale soluzione, che pe-
raltro ritengo valida soprattutto in prospettiva di un ulteriore svilup-
po futuro, ma vorrei riflettere da un punto di vista giuridico sulle
nuove problematiche e sulle conseguenti nuove attenzioni da avere
per una gestione computerizzata, anche se manca quasi del tutto una
legislazione specifica in materia.
Non è difficile prevedere che accanto alla conservazione carta-
cea dei documenti si adotteranno le nuove forme di archiviazione ot-
tica 2, soprattutto per i vantaggi che offrono: il risparmio di spazio ne-
gli archivi, una miglior possibilità di inventario, una maggior velocità
di ricerca delle informazioni e, non da ultimo, la facilità con cui si

2
Uso genericamente l’espressione “conservazione su supporto ottico” per indicare tutti quei sistemi
(dischetti, disco fisso, nastro, CD-ROM ecc) che collegati al computer permettono l’archiviazione delle
informazioni.
114 Gianni Trevisan

possono avere più copie dei dati per conservarli in differenti luoghi
sicuri 3.
Si continuerà comunque a conservare i documenti cartacei non
solo per una certo legame “affettivo” con questo strumento in uso da
tanti secoli, o perché l’attuale legislazione canonica non dà ancora
piena validità legale ad archivi computerizzati, ma soprattutto perché
gli attuali strumenti informatici per l’archiviazione ottica non hanno
raggiunto una uniformità che garantisca per il futuro.
Fra cento anni infatti il CD-ROM sul quale sono registrati i dati
sarà probabilmente ancora integro, ma dato lo sviluppo attuale, chi
può garantire che il lettore di CD-ROM sarà in grado di leggerlo?
Inoltre il programma di scrittura dei testi sarà in grado di riprodurre
il documento come è stato stampato nell’originale?
Senza continuare in queste previsioni per il futuro, è comunque
certo che non è sufficiente conservare il computer in luogo sicuro e
chiuso a chiave... Un’analisi dello strumento computer chiede di ave-
re maggiori avvertenze se si vogliono applicare i principi del can. 487.
Gli strumenti tecnologici che si trovano sul mercato permetto-
no di catalogare e conservare per un tempo indeterminato i docu-
menti a condizione però che lo strumento informatico adottato sia di
qualità: come nessuno ritiene di poter conservare un archivio carta-
ceo in una sala umida e su degli scaffali tarlati, così pure non si pos-
sono conservare dati su computer non affidabili, oppure omettere le
semplici avvertenze per un utilizzo corretto.
A questo proposito un’altra attenzione da avere, comune a tutti i
sistemi informatici, soprattutto i più semplici, riguarda i cosiddetti
“virus”, programmini che si nascondono in altri programmi e che si
diffondono con i dischetti o le reti informatiche e possono “infetta-
re”, cioè cancellare o alterare i dati conservati: questo capita anche
quando il dischetto proviene da un amico o da un istituto serio di ri-
cerche.
La soluzione più semplice e certamente efficace – oltre a quella
di non fidarsi mai dei dischetti che si inseriscono nel computer – è di
fare periodicamente copia dei dati e conservarla in un luogo sicuro;
questo mette al riparo anche da danni irreparabili che possono capi-
tare accidentalmente (ma che capitano... purtroppo!). Chiudere a

3
La legge 537 del 24 dicembre 1993, art. 2, comma 15 stabilisce la possibilità di conservare ed esibire
documenti, per finalità amministrative e probatorie, solo su supporto ottico.
Le chiavi dell’Archivio di Curia (can. 487) 115

chiave esige quindi di considerare attentamente come impedire an-


che ai “virus” di entrare.
Nel computer non è difficile, con i programmi attualmente in
commercio, poter chiudere elettronicamente l’accesso ai dati archi-
viati; se poi i computer sono collegati in rete, permettendo il collega-
mento dei diversi uffici di Curia e la raccolta dati in un unico archi-
vio centrale, è possibile impedire, tramite apposite parole chiave,
che utenti non autorizzati possano venire a conoscenza di documenti
riservati e di competenza di altri uffici. L’unica avvertenza è quella di
non scrivere in bella evidenza la parola chiave...
Una terza considerazione riguarda direttamente il disposto del
can. 487, che indica il vescovo e il cancelliere, comunque gli operato-
ri della curia diocesana, come coloro che devono avere esclusiva-
mente la chiave: indirettamente si afferma che essi devono essere
“proprietari” esclusivi delle informazioni e messi in grado di dispor-
ne liberamente.
L’attuale sistema di vendita dei programmi per computer, ma
soprattutto di assistenza per i problemi che sorgono e per un corret-
to utilizzo, potrebbe generare in taluni casi una dipendenza significa-
tiva con il produttore; ci si affida completamente ai tecnici della ditta,
senza i quali non si è in grado di eseguire alcuna operazione, perché
ad esempio non offrono una manualistica adeguata per poter inter-
venire indipendentemente dal produttore.
In altri casi poi le forme di vendita dei programmi non consento-
no all’utente finale di accedere a tutte le funzioni del programma, per-
mettendo solo alla società produttrice di essere l’“amministratore del
sistema”; ci si espone in questo caso al rischio di non poter nemmeno
verificare se la ditta fornitrice utilizza i dati inseriti nell’archivio.
Questo può avvenire soprattutto oggi quando cresce sempre
più la complessità dei sistemi utilizzati (pensiamo per esempio al col-
legamento in rete dei computer per una gestione centralizzata dei
dati), richiedendo da parte dell’utente una conoscenza tecnica che la
ditta fornitrice non è sempre disposta a dare, giustificandosi con i
probabili disastri che un intervento sprovveduto dell’utente potreb-
be causare.
Si deve ovviare a quelle forme che impediscono di “avere la
chiave”, non tanto rifiutando in blocco il computer, ma aumentando
la conoscenza tecnica dello strumento informatico, evitando di ac-
quistare prodotti non interamente sotto il controllo della curia e co-
munque affidandosi a ditte serie e sicure.
116 Gianni Trevisan

Un quarto rischio di non chiudere a chiave l’archivio compute-


rizzato è il collegarlo direttamente in una rete di dati a cui si può ac-
cedere tramite modem anche dal di fuori della curia. Qualcuno pro-
spetta la possibilità di collegamenti informatici fra gli archivi parroc-
chiali, diocesani e centrali. Tale possibilità, se prevede lo scambio di
rassegna stampa, di articoli di giornale, di esperienze pastorali, di
documenti già pubblicati, è certamente utile; con il modem è possibi-
le accedere tramite telefono a una banca dati per chiedere un artico-
lo che interessa oppure lasciare un messaggio.
Ben diverso è invece il caso in cui l’Archivio di Curia preveda
un utilizzo come banca dati alla quale una parrocchia o una persona
estranea possa liberamente collegarsi come utente e richiedere per
esempio un certificato di battesimo e quindi avere accesso alle infor-
mazioni senza alcun controllo: in tale caso non solo si violerebbe la
riservatezza di molti dati che in curia sono conservati, ma i respon-
sabili dell’Archivio perderebbero il controllo dell’accesso alle infor-
mazioni. Anche se potrebbe sembrare meno funzionale, i rischi a cui
si espone l’Archivio sarebbero notevoli e comunque si utilizzerebbe
un sistema che, non prevedendo una previa autorizzazione del ve-
scovo o del Moderatore di curia insieme al cancelliere per entrare a
consultare, è in aperta violazione al disposto del can. 487.

Conclusione
Come abbiamo visto, il can. 487 prescrive che le informazioni
dell’Archivio di curia siano disponibili direttamente al vescovo, al
cancelliere e agli altri operatori di curia secondo il loro particolare
settore di attività. Ad altri è consentito accedere solo eccezionalmen-
te e con il consenso del vescovo o insieme del cancelliere e del mo-
deratore di curia. A chi è interessato è possibile avere copia autenti-
ca, quindi vistata dal cancelliere, dei documenti pubblici. Ci deve es-
sere un controllo non solo su chi accede all’Archivio, ma anche sulle
informazioni che vengono date.
Tali principi devono essere rispettati anche qualora venga utiliz-
zato un sistema computerizzato per la catalogazione e la conserva-
zione dei dati.
Allo stato attuale sembra che particolare attenzione vada pre-
stata nella difesa dai cosiddetti “virus”, nell’acquisto di sistemi infor-
matici e programmi che permettano all’utilizzatore di continuare ad
avere il controllo esclusivo delle informazioni archiviate e nel non
Le chiavi dell’Archivio di Curia (can. 487) 117

collegare l’archivio a reti esterne come banca dati. Solo così si pos-
sono trarre gli indubbi vantaggi che si presentano nell’archiviazione
computerizzata, che richiede di scegliere le soluzioni tecniche più a-
deguate, anche se più costose e meno semplicistiche, e andare verso
il nuovo senza compromettere i valori difesi nei secoli trascorsi.

GIANNI TREVISAN
Via S. Pietro, 19
32100 BELLUNO
118

Norme circa la raccolta di offerte


per necessità particolari
Commenti alle delibere CEI
di Massimo Calvi

L’opportunità di una più chiara e dettagliata regolamentazione a


livello nazionale, della raccolta di offerte per particolari necessità e,
soprattutto, per l’indizione e la celebrazione di “Giornate” universali
o nazionali aventi carattere di colletta per scopi specifici, era emersa
con evidenza già molto tempo fa.
Lo testimonia autorevolmente la delibera II, non normativa, con
la quale la XXIV Assemblea Generale della CEI (ottobre 1984) rinviò
a un successivo intervento, insieme ad altri adempimenti, anche la
determinazione delle norme relative a questa materia (cf Notiziario
CEI [1985] 62).
Nei quasi dieci anni trascorsi da quel primo intervento, la que-
stione fu posta altre volte all’attenzione dell’episcopato italiano, sia in
relazione a un piano di riorganizzazione delle varie Giornate annuali
(Consiglio Permanente del 7 febbraio 1973 e dell’8 maggio 1974) sia,
in modo più generale, in occasione della pubblicazione del documen-
to pastorale Sovvenire alle necessità della Chiesa, approvato dalla
XXX Assemblea generale del 24 - 27 ottobre 1988. Anche nella Istru-
zione in materia amministrativa del 1990 vi è un accenno alla com-
petenza della CEI in questa materia (cf n. 28).
Tuttavia si è dovuto attendere il 1993 per avere da parte dell’e-
piscopato nazionale una presa di posizione normativa su tali questioni
(cf delibera n. 59, in Notiziario CEI 8 [1993] 264-267, che di seguito
pubblichiamo nella sua parte dispositiva). Il ritardo può forse essere
imputato sia a una certa complessità della materia che alla difficoltà
di trovare orientamenti comuni in un ambito delicato della vita eccle-
siale nazionale.
Con la citata deliberazione del maggio 1993, entrata in vigore il 3
settembre dello stesso anno, dopo aver avuto la necessaria recognitio
Norme circa la raccolta di offerte per necessità particolari 119

della Santa Sede, l’episcopato italiano ha finalmente assolto a un pre-


ciso compito affidatogli dal Codice di diritto canonico (cf cann. 1262 e
1265 § 2) e, soprattutto, ha risposto a una crescente necessità di chia-
rezza in materia.

La delibera n. 59
Norme circa la raccolta di offerte per necessità particolari
«1. Ferme restando le collette stabilite dalla Santa Sede per le necessità della
Chiesa universale le collette a carattere nazionale sono indette dall’Assem-
blea Generale dei Vescovi o, in caso di urgenze, dalla Presidenza della Con-
ferenza Episcopale.
2. Nelle giornate destinate per le collette a carattere universale o nazionale
le somme di denaro raccolte nelle chiese, sia parrocchiali sia non parroc-
chiali, e negli oratori, compresi quelli dei membri degli istituti di vita consa-
crata e delle società di vita apostolica, sono destinate alla finalità stabilita.
Quando la colletta è a carattere nazionale la chiesa o l’oratorio possono trat-
tenere, purché se ne dia avviso ai fedeli, una somma pari, di norma, alla rac-
colta effettuata in una domenica ordinaria.
3. Nelle giornate dedicate alla sensibilizzazione su particolari problemi a ca-
rattere universale o nazionale, indette dagli organi di cui al n. 1, non si fa
nessuna colletta specifica.
4. Ciascun Vescovo e le Conferenze Episcopali Regionali possono indire col-
lette per iniziative che interessano la Diocesi o tutta la Regione ecclesiastica.
I Vescovi per la propria Diocesi, le Conferenze Episcopali Regionali per cia-
scuna Regione ecclesiastica stabiliscono, sulle offerte raccolte, la parte da
destinarsi alle necessità della parrocchia o della chiesa o dell’oratorio.
5.1 Tutte le richieste di denaro e le pubbliche sottoscrizioni promosse da
persone private, sia fisiche che giuridiche, chierici, membri degli istituti di
vita consacrata e delle società di vita apostolica, associazioni, gruppi, movi-
menti, comitati, per scopi pii o caritativi, richiedono il permesso scritto del
proprio Ordinario e di quello del luogo in cui si effettua la raccolta. Si richie-
de inoltre il permesso scritto:
– della Conferenza Episcopale Regionale, se la raccolta si effettua in più dio-
cesi della stessa Regione ecclesiastica;
– della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, sentito il parere del
Consiglio Episcopale Permanente, se la raccolta è a carattere nazionale.
I religiosi mendicanti, nell’esercizio del diritto che solo ad essi è riconosciu-
to dal can. 1265 § 1, sono tenuti, al di fuori della diocesi del loro domicilio, a
chiedere licenza scritta all’Ordinario del luogo in cui effettuano la questua e
ad osservarne le disposizioni.
5.2 Spetta al Vescovo diocesano vigilare sul retto e decoroso esercizio di
ogni raccolta di denaro da chiunque effettuata».
120 Massimo Calvi

Le giornate di colletta
L’esperienza pastorale ci dice che, nell’arco di un anno liturgico,
le giornate dedicate a intenzioni particolari sono numerose e molto
diverse tra loro.

Quanto alla loro tipologia possiamo innanzitutto individuare una


duplice distinzione.
La prima diversificazione è tra le giornate che prevedono una
colletta e quelle che non hanno uno scopo immediatamente caritativo.
La delibera n. 59 si occupa esclusivamente delle prime, lascian-
do sullo sfondo le giornate volte alla sensibilizzazione dei fedeli su
particolari problemi di ordine ecclesiale o civile. A proposito di que-
ste ultime, la delibera al n. 4 ricorda semplicemente che in tali gior-
nate non si fa nessuna colletta specifica.
Una seconda diversificazione avviene all’interno delle giornate
di colletta. Esse assumono la qualificazione di giornate universali,
nazionali o locali (diocesane o regionali), in ragione della loro esten-
sione territoriale e dell’autorità ecclesiale cui è riconosciuta la com-
petenza di indirle (cf n. 1).
Competente a indire le giornate nazionali in Italia è unicamente
l’Assemblea Generale dei Vescovi e, solo in caso di urgenza, la Presi-
denza della Conferenza Episcopale.

L’individuazione dei soggetti tenuti all’obbligo di effettuare le col-


lette universali legittimamente indette viene fatta nel n. 2 della deli-
bera utilizzando come punto di riferimento oggettivo i luoghi di cul-
to. Vengono esplicitamente ricordate le chiese, sia parrocchiali che
non parrocchiali, e gli oratori, compresi quelli dei membri degli isti-
tuti di vita consacrata e delle società di vita apostolica.
Praticamente sono tenuti all’obbligo di aderire a tali iniziative
caritative tutti i luoghi di culto nei quali si celebra la liturgia con il
concorso dei fedeli, escluse le sole cappelle private.

La delibera offre anche un chiarimento circa la ripartizione del-


le offerte raccolte nei giorni di colletta: ogni chiesa o oratorio può
trattenere per sé una somma pari, di norma, alla raccolta effettuata
in una domenica ordinaria.
Disposizioni in materia erano attese da tempo sia per creare
una prassi uniforme, sia per evitare possibili abusi o fastidiosi incon-
venienti.
Norme circa la raccolta di offerte per necessità particolari 121

Si noti che:
– si tratta della concessione di una possibilità, non di un obbligo;
– nel caso si voglia usufruire di tale opportunità i responsabili
del luogo di culto devono informarne i fedeli 1;
– la quota che può essere trattenuta è pari non alla media delle
offerte annuali, ma alla somma che di solito viene raccolta nelle do-
meniche del tempo ordinario;
– infine si deve tenere presente che la delibera riconosce tale
possibilità unicamente per le giornate nazionali, cioè quelle per le
quali la CEI ha competenza normativa. Per eventuali disposizioni si-
mili relative alle giornate di carattere universale o locale ci si deve ri-
ferire alla normativa emanata dalla S. Sede o dalla competente auto-
rità ecclesiale (cf n. 4) 2.

Alla determinazione del calendario delle collette e delle giorna-


te di sensibilizzazione la CEI ha provveduto durante il Consiglio Per-
manente del 24 - 27 gennaio 1994 (cf Notiziario CEI [1994] 83-84).

A proposito di tale calendario sembra doveroso segnalare la


mancanza di chiarezza in ordine al valore giuridico delle indicazioni
in esso contenute.
A una attenta lettura, infatti, si evidenziano due incongruenze
che inducono a ritenere che il calendario abbia un valore puramente
indicativo.
Una prima perplessità sorge dal fatto che, nella prima parte del
testo, vengono elencate soltanto tre giornate caritative a carattere
universale obbligatorie:
– ultima domenica del mese di giugno: per la carità del Papa;
– penultima domenica di ottobre: per le missioni 3;

1
Tale informazione ha come scopo quello di garantire il rispetto della volontà degli offerenti e delle in-
tenzioni caritative dei fedeli. Lo scopo può essere adeguatamente raggiunto sia attraverso chiare spie-
gazioni date al momento della questua, sia tramite l’utilizzo di strumenti adeguati (per esempio apposi-
te buste o cassette per offerte).
2
A questo proposito si possono citare, come esempio, i Nuovi Statuti delle Pontificie Opere Missiona-
rie (26 giugno 1980). Al n. 12, trattando della Giornata Missionaria Mondiale, organizzata dalla Pontifi-
cia Opera per la Propagazione della fede, si legge il seguente suggerimento: «Affinché il mese di otto-
bre fornisca ai cristiani l’occasione di dare una dimensione universale alla loro cooperazione missio-
naria, i vescovi sono invitati a chiedere ai responsabili delle opere cattoliche e ai fedeli di rinunciare,
in questo periodo, alle collette a carattere particolare».
3
Nella indicazione della data della giornata missionaria mondiale è intervenuto un errore che è sta-
to poi corretto dal Consiglio Permanente della CEI nel successivo numero del Notiziario (1994) 123.
122 Massimo Calvi

– Venerdì Santo o altro giorno determinato dal vescovo diocesa-


no: per le opere della Terra Santa.
Ora è evidente che la competenza in ordine a tali giornate spet-
ta alla Santa Sede (cf anche delibera 59, n. 1) e non alla CEI.
Si pensi, per esempio, alla giornata universale per l’Infanzia
Missionaria, che generalmente viene celebrata il 6 gennaio di ogni
anno in concomitanza con la solennità dell’Epifania del Signore.
Tale giornata non è prevista dal calendario della CEI.
È dunque da ritenersi abrogata, in Italia? Oppure accorpata con
la giornata missionaria mondiale?
Alla domanda mi sembra si debba rispondere negativamente
perché, come abbiamo già detto, la competenza in materia è della
Santa Sede.
Al riguardo può forse essere utile ricordare quanto affermato
nel n. 20 dei Nuovi statuti delle Pontificie opere missionarie (1980):
«L’opera (della Santa Infanzia), tenendo conto delle situazioni locali, organiz-
za ogni anno una giornata universale, durante la quale si dovrà attirare l’at-
tenzione dei fanciulli alle necessità spirituali e materiali dei bambini di tutto
il mondo; si dovranno incoraggiare ad aiutarli con le preghiere, i sacrifici, le
offerte, spronandoli a scoprire il volto di Gesù Cristo. Attirando l’attenzione
sui bisogni dei fanciulli materialmente più poveri, non si dimenticherà di in-
dicare le ricchezze dei loro valori spirituali. Aprendosi gli uni agli altri, i fan-
ciulli impareranno a conoscersi, ad amarsi come fratelli e ad arricchirsi
scambievolmente».

Una ulteriore perplessità sorge in ordine alle giornate nazionali


di colletta.
Infatti, mentre nella delibera in questione, al n. 1, si indica come
organismo competente in materia l’Assemblea Generale dei vescovi
(salvo i casi di particolare urgenza), il calendario CEI è stato predi-
sposto e determinato dal Consiglio Permanente, e ciò senza che ap-
paia una esplicita delega dell’Assemblea Generale (cf Statuti CEI,
art. 23).

Il calendario CEI contiene poi un elenco delle giornate di sensi-


bilizzazione, quelle che, a norma del n. 3 della nostra delibera, non
prevedono una specifica colletta.
Pur non essendo oggetto esplicito della delibera 59, riteniamo
opportuno riportare anche questa parte del testo elaborato dal Con-
siglio Permanente della CEI.
Norme circa la raccolta di offerte per necessità particolari 123

Esso prevede le seguenti giornate di sensibilizzazione:


– 1° gennaio: giornata mondiale della pace;
– 17 gennaio: giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del
dialogo tra cattolici ed ebrei;
– domenica tra il 18 e il 25 gennaio: giornata mondiale dell’unità
della Chiesa;
– 11 febbraio: giornata mondiale del malato;
– prima domenica di febbraio: giornata nazionale per la vita;
– quarta domenica di Pasqua: giornata mondiale delle vocazioni;
– seconda domenica di ottobre: giornata mondiale delle comu-
nicazioni sociali;
– prima domenica di novembre dopo la Solennità dei Santi e la
Commemorazione dei Defunti: giornata nazionale di sensibilizzazio-
ne per il sostentamento del clero e per il sostegno economico della
Chiesa;
– seconda domenica di novembre: giornata nazionale del rin-
graziamento;
– domenica variabile: giornata del quotidiano cattolico.

Anche qui si impongono domande che richiederebbero un ulte-


riore chiarimento:
– un tempo era prevista la giornata per i malati di lebbra (dome-
nica ordinaria di fine gennaio): si deve ritenere abolita e accorpata a
quella più generale del malato (11 febbraio)?
– Qual è la sorte della giornata delle comunità claustrali femmi-
nili, giornata di colletta con una connotazione di tipo universale, det-
ta anche pro orantibus (21 novembre)?

Un discorso a parte meritano le giornate nazionali destinate alla


sensibilizzazione dei fedeli circa le nuove forme di sostegno alla
Chiesa introdotte dalla revisione degli Accordi concordatari.
Pur essendo prevista una sola giornata, in realtà se ne celebra-
no ancora due. Una obbligatoria, a novembre, principalmente finaliz-
zata al sostentamento dei sacerdoti (offerte deducibili), l’altra, nel
periodo fine aprile-maggio, destinata alla promozione del sostegno
economico alla Chiesa Italiana in genere (8 per mille).
La giornata di novembre, pur non essendo propriamente di col-
letta, tuttavia vede la mobilitazione di molte parrocchie per la raccol-
ta di offerte da destinarsi all’Istituto Centrale per il sostentamento
del clero.
124 Massimo Calvi

Infine è da osservare che, probabilmente, l’introduzione delle


nuove forme di sostegno volute dal Concordato, consente alla Chie-
sa Italiana di rispondere con questi fondi ad alcune delle necessità
un tempo affrontate con la celebrazione di specifiche giornate con
scopi caritativi.

Al nutrito elenco di giornate di colletta e di sensibilizzazione,


universali o nazionali, vanno aggiunte quelle di carattere locale: in
Lombardia, ad esempio, quasi tutte le diocesi effettuano la colletta
per il seminario; alcune hanno una giornata per il sostegno della
Chiesa locale; una, la diocesi di Milano, prevede una giornata di col-
letta per la costruzione delle nuove chiese.

Sottoscrizioni e questue
La seconda parte della delibera n. 59 riguarda una materia molto
più ampia perché, come enuncia il n. 5.1, intende regolare «tutte le ri-
chieste di denaro e le pubbliche sottoscrizioni» che siano promosse
da persone o istituzioni ecclesiastiche, «per scopi pii o caritativi».
La delibera trova perfetta corrispondenza nei principi normativi
fissati dal can. 1265.

L’elenco dei soggetti tenuti alla presente normativa è molto va-


sto: persone private, sia fisiche che giuridiche, chierici, membri de-
gli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica, associa-
zioni, gruppi, movimenti e comitati.
Per quanto riguarda le persone giuridiche ricordiamo che il
CIC definisce come pubbliche, siano esse insiemi di persone o di co-
se, quelle che «vengono costituite dalla competente autorità ecclesia-
stica perché, entro i fini ad esse prestabiliti, a nome della Chiesa
compiano, a norma delle disposizioni del diritto, il proprio compito
loro affidato in vista del bene pubblico; tutte le altre persone giu-
ridiche sono private».
Sono dunque da ritenersi non soggette alla presente normativa
le persone giuridiche pubbliche, come ad esempio la parrocchia
(can. 515 § 3) e il seminario (can. 238 § 1). Si può pensare che que-
ste siano esentate dalle limitazioni stabilite dalla delibera perché il
diritto ecclesiale già prevede per loro strumenti stabili di controllo e
di vigilanza sulle offerte e sui bilanci (consigli per gli affari economi-
ci, presentazione dei bilanci all’Ordinario ecc).
Norme circa la raccolta di offerte per necessità particolari 125

Devono, invece, sottostare alle norme imposte dalla delibera


non solo tutte le persone fisiche, compresi i chierici e i membri di isti-
tuti di vita consacrata o delle società di vita apostolica, ma anche tutte
le associazioni, gruppi, movimenti e comitati. Questi ultimi soggetti
elencati, non essendo esplicitate nel testo speciali determinazioni che
li qualifichino, devono essere intesi in senso molto ampio: qualsiasi
gruppo, movimento, associazione o comitato che abbia riferimento al-
la realtà ecclesiale, se intende promuovere iniziative pie o di carità de-
ve ottenere il permesso scritto dell’autorità ecclesiale competente:
– l’Ordinario, se l’iniziativa è a livello diocesano;
– la Conferenza Episcopale Regionale, se è a livello interdioce-
sano;
– la Presidenza della CEI, se è a livello nazionale.

Non poche difficoltà insorgono per comitati, gruppi e associazio-


ni che hanno ottenuto un riconoscimento nell’ambito civile, ma non
in quello canonico, il più delle volte proprio per garantirsi la possibi-
lità di agire senza alcuna restrizione da parte dell’autorità ecclesiale.
Le norme sopra indicate non intendono in alcun modo coartare
la libertà dei fedeli nell’esercizio della solidarietà.
Esse rispondono, invece, a un preciso intento educativo, ricor-
dato anche dai nostri vescovi:
«La Chiesa ha sempre riconosciuto largo spazio alla libertà dei fedeli nell’o-
rientare le loro offerte in favore di diverse finalità ecclesiali e intende rispet-
tare con scrupolo le specifiche intenzioni da loro indicate quando non con-
trastino con il bene comune. Occorre però nello stesso tempo educare i fe-
deli a rispettare un ordine nella finalizzazione dei loro apporti» 4.

Alla luce di quanto sopra affermato possiamo tentare di esplici-


tare gli scopi della presente normativa:
– regolamentare la richiesta di denaro e le iniziative di carità in
modo tale che a motivo di una eccessiva frequenza, non diventino di-
seducative per la comunità ecclesiale;
– evitare un dannoso sovrapporsi di iniziative caritative tra loro
concorrenti o anche complementari;
– garantire che gli scopi della colletta siano veramente degni e
meritevoli di attenzione da parte delle comunità cristiane;

4
CEI, Sovvenire alle necessità della Chiesa, n. 13.
126 Massimo Calvi

– individuare una scala delle priorità e delle urgenze nell’eserci-


zio della carità per impedire che finalità del tutto secondarie ottenga-
no il sostegno economico a scapito di altre veramente importanti;
– vigilare sulla correttezza delle modalità con le quali le richie-
ste di denaro vengono effettuate;
– curare che non si insinuino abusi in una materia tanto delica-
ta per la vita, la missione e la credibilità delle istituzioni ecclesiali.

A norma del can. 1265 § 2 la CEI con tale delibera offre una nor-
mativa chiara anche circa l’esercizio del diritto di questua da parte
dei religiosi mendicanti: al di fuori della diocesi del loro domicilio,
per esercitare tale diritto, necessitano della licenza scritta dell’Ordi-
nario del luogo e devono sottostare alle disposizioni date dallo stesso.

Osser vazioni conclusive


Non entriamo nel merito dei problemi più propriamente di ordi-
ne pastorale, relativi alla difficoltà di conciliare e di armonizzare i te-
mi propri delle giornate di sensibilizzazione e le iniziative di carità
con il calendario liturgico e, soprattutto, con la dignità preminente
della domenica, giorno del Signore.
Dopo aver ampiamente riconosciuto l’utilità e l’importanza di
questo testo normativo, accanto alle perplessità sopra espresse, pare
opportuno segnalare altre due lacune.
Innanzitutto pensiamo che la delibera avrebbe dovuto fare un
accenno esplicito al valore della trasparenza e ricordare il dovere di
dare ai fedeli un chiaro resoconto delle offerte e della loro destina-
zione. L’importanza di questo valore è stata autorevolmente espressa
nel citato documento Sovvenire alle necessità della Chiesa:
«A tutte le comunità, poi, deve essere dato conto, secondo le norme stabilite,
della gestione dei beni, dei redditi, delle offerte, per rispetto alle persone e
alle loro intenzioni, per garanzia di correttezza, di trasparenza e di puntualità
e per educare un autentico spirito di famiglia nelle stesse comunità cristiane.
Competenza degli operatori, trasparenza della gestione, ecclesialità di stile e
di metodo, coinvolgimento costante di tutta la comunità: sono questi i criteri,
e nello stesso tempo le garanzie, di una amministrazione davvero ecclesiale»
(n. 16).

Un richiamo esplicito al tema della trasparenza nel contesto del-


la delibera avrebbe potuto avere una efficace funzione educativa.
Norme circa la raccolta di offerte per necessità particolari 127

Infine riteniamo che sarebbe stato opportuno affrontare in mo-


do esplicito e chiaro anche la questione relativa alle mille forme di ri-
chiesta di denaro che oggi avvengono attraverso nuovi canali, in par-
ticolare la posta e la televisione. Oggi è quanto mai frequente essere
raggiunti da enti o gruppi di ispirazione ecclesiale o da comunità re-
ligiose che usano della posta come via ordinaria per effettuare collet-
te e queste per le finalità più disparate.
Non è poi così raro che, accanto a soggetti mossi dalle più nobi-
li intenzioni, se ne insinuino altri di non sempre provata virtù.
Tutto ciò può generare qualche imbarazzo da parte dei fedeli ai
quali non è dato alcuno strumento per verificare la bontà, la corret-
tezza della richiesta, l’identità ecclesiale del richiedente e l’utilizzo
delle offerte.

MASSIMO CALVI
Via Milano, 5
26100 Cremona
128

La normativa
del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium
sulla vita consacrata*
di Marco Brogi

Introduzione
Nel presentare ai Padri sinodali (25 ottobre 1990) il Codex Ca-
nonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO), papa Giovanni Paolo II ha
auspicato «ut in Facultatibus Juris Canonici idoneum provehatur stu-
dium comparativum amborum Codicum» e ha lodato le iniziative
«quae favent maiori cognitioni rerum omnium, ex quibus constat legi-
tima “in unum conspirans varietas” patrimonii ritualis Ecclesiae Ca-
tholicae» (cf Nuntia 16/30 [1990] 13).
Io non intendo esporre metodicamente la normativa sulla vita
consacrata, che ha moltissimi punti di contatto con quella latina, ma
mi limiterò a evidenziare alcune particolarità che mi sono parse ca-
ratteristiche.
La presente riflessione, a motivo del suo carattere espositivo e
specialmente per la vastità dell’argomento, si limita inoltre a presenta-
re la normativa del CCEO, senza approfondirla e senza indugiare nei
raffronti con il CIC, dandosi come certo che questa è già ben nota.

Dal motu proprio Postquam apostolicis litteris al CCEO

La normativa preconciliare
Le Chiese Orientali Cattoliche hanno avuto col CCEO la prima
codificazione di tutto il diritto a loro comune, ma già Pio XII aveva

* Testo rielaborato della relazione tenuta al XVIII Incontro di studio del Gruppo Italiano Docenti di Di-
ritto Canonico (Mendola, 1° - 5 luglio 1991).
La normativa del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium sulla vita consacrata 129

promulgato alcune parti del Codex Juris Canonici Orientalis 1, fra cui
i canoni De monachis ceterisque religiosis, promulgati col motu pro-
prio Postquam apostolicis litteris del 9 febbraio 1952 2.
Questi canoni riprendono, spesso letteralmente o quasi, i canoni
del CIC 1917, ma giova ricordare che questa somiglianza fu voluta da-
gli stessi consultori orientali, i quali avevano scelto il CIC come in-
strumentum laboris; i canoni del CICO non furono tuttavia redatti che
dopo un accurato vaglio dei canoni del CIC e un loro accurato con-
fronto con le tradizioni delle singole chiese orientali e con le fonti 3.
Nelle sue parti promulgate, il CICO era corredato dall’annota-
zione delle fonti 4; per quanto riguarda i canoni De monachis ceteris-
que religiosis, sono spesso citati i santi Basilio Magno, Teodoro Stu-
dita, Pacomio, Atanasio Athonita, Niceforo assieme agli antichi con-
cili, ma anche documenti della Santa Sede e sinodi orientali di questi
ultimi due o tre secoli, i quali spesso applicavano all’Oriente i princi-
pi della vita religiosa latina.
La legislazione del CICO, pur usando una propria terminologia,
è dunque molto vicina al CIC 1917, ma non mancano le particolarità,
innanzitutto per lo speciale rilievo dato alla vita monastica.
Monasteri e istituti religiosi, inoltre, non possono essere soltan-
to di diritto eparchiale (cioè diocesano) o pontificio, ma anche di di-
ritto patriarcale 5; d’altra parte l’autonomia di governo degli ordini re-
ligiosi clericali di diritto pontificio può essere più o meno estesa a se-
conda del fatto che l’Ordine goda o meno di esenzione pontificia. Vi
erano infatti Ordini semplicemente di diritto pontificio e altri di dirit-
to pontificio dotati di esenzione pontificia: le differenze, in concreto,
erano tuttavia molto ridotte.

1
Per il CICO cf [A. COUSSA], «Codificazione Canonica Orientale», Sacra Congregazione per la Chiesa
3
Orientale, in Oriente Cattolico - Cenni storici e statistiche, Città del Vaticano 1962 , pp. 35-61; D. FALTIN,
La Codificazione del Diritto Canonico Orientale, in La Sacra Congregazione per le Chiese Orientali nel
cinquantesimo della fondazione, 1917-1967, Roma 1969, pp. 121-137; M. BROGI, Codificazione del diritto
comune delle chiese orientali cattoliche, in Revista Española de Derecho Canónico 45 (1988) 10-15.
2
Per una loro presentazione sommaria, cf [C. COUSSA], Codificazione Canonica, cit., pp. 51 s; per una
ampio commento cf C. PUJOL, De Religiosis orientalibus ad normam vigentis iuris, Roma 1957, con bi-
bliografia alle pp. XV-XVII.
3
Le osservazioni dei componenti della Commissione dei Delegati Orientali sono state stampate, «pro
manuscripto», con diversi numeri di protocollo; ce n’è una raccolta rilegata presso la Biblioteca della
Congregazione per le Chiese Orientali, Città del Vaticano.
4
I quattro motu proprio di Pio XII promulgano varie parti del CICO con lettere apostoliche «adnotatio-
nibus fontium auctae cura Pontificii Consilii Codici Juris Canonici Orientalis redigendo».
5
Ordini e congregazioni possono infatti essere di diritto patriarcale; quanto ai monasteri, essi possono
dipendere direttamente dal patriarca, se questi è ricorso al momento dell’erezione all’istituto dello stau-
ropegio.
130 Marco Brogi

Documenti conciliari
Taccio dei documenti conciliari, poiché è ovvio che quelli che
riguardano la vita religiosa, e in particolare il capitolo sesto di Lu-
men gentium e il decreto Perfectae caritatis, interessano ugualmente
tanto gli orientali che i latini.

Documenti postconciliari
Alcuni documenti postconciliari sono stati destinati alla Chiesa
universale, e riguardano tanto i latini che gli orientali, mentre alcuni
altri, emanati dalla Congregazione per le Chiese Orientali, riguarda-
no soltanto i secondi. Qui c’interessano i documenti relativi alla vita
religiosa.

a. Documenti comuni ai religiosi sia orientali che latini


Cito in primo luogo il motu proprio Ecclesiae sanctae, del 6 ago-
sto 1965, la cui seconda parte detta le norme che debbono regolare
il processo di aggiornamento della legislazione degli istituti religiosi,
e il rescritto pontificio Cum admotae, del 6 novembre 1964, con il
quale venivano concesse particolari facoltà ai superiori maggiori de-
gli istituti clericali di diritto pontificio.

b. Norme riguardanti i soli religiosi orientali


Il 27 giugno 1972 la Congregazione Orientale emanò il decreto
Orientalium religiosorum 6, che applica ai religiosi orientali le norme
di alcuni documenti riguardanti i religiosi latini, e in particolare quel-
le del decreto Religionum laicalium, del 31 maggio 1966, e della
Istruzione Renovationis causam, del 6 gennaio 1969.

Il nuovo Codice
Il CCEO consta di 30 titoli, con un totale di 1546 canoni7; il Ti-
tulus XII tratta «De monachis ceterisque religiosis et de sodalibus

6
Cf AAS 64 (1972) 738-743.
7
Cf AAS 82 (1990) 1061-1353; i canoni sono preceduti dalla costituzione apostolica Sacri canones
(pp. 1033-1044) e dalla Praefatio (pp. 1047-1060) e seguiti dall’Index (pp. 1355-1363); cf M. BROGI, Codi-
ficazione del diritto comune, cit., pp. 15-30; ID., Le Chiese sui iuris nel Codex Canonum Ecclesiarum
Orientalium, in Revista Española de Derecho Canónico 48 (1991) 525-527.
La normativa del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium sulla vita consacrata 131

aliorum institutorum vitae consecratae» (cann. 410-572) e ha quattro


capitoli: «De monachis ceterisque religiosis» (cann. 410-553); «De
societatibus vitae communis ad instar religiosorum» (cann. 554-562);
«De institutis saecularibus» (cann. 563-569); «De aliis formis vitae
consecratae atque de societatibus vitae apostolicae» (cann. 570-572).
Appare subito la parte preponderante riservata alla vita religio-
sa e l’esame del primo capitolo evidenzia il rilievo che in essa as-
sume il monachesimo: dopo 23 canoni generali, ne vengono 71 che
disciplinano la vita dei monasteri, mentre gli altri 50, dedicati agli Or-
dini e congregazioni, contengono numerosi rinvii a quel primo ca-
pitolo.
La vita monastica, oltre a essere la più antica e veneranda, rima-
ne così, nel Codice, come concreto punto di riferimento per ogni al-
tra forma di vita religiosa 8.

Definizione dello stato religioso


L’intero Titolo «De monachis» si apre con una definizione de-
scrittiva dello stato religioso 9.
Il Codice orientale ha così mantenuto vari elementi della legi-
slazione precedente 10, arricchendoli con concetti della Lumen gen-
tium 11.
Dalla descrizione emergono questi elementi, alcuni dei quali so-
no di carattere maggiormente giuridico, e altri invece sociali o spiri-
tuali; io li enumero, così come appaiono nel canone: stabilità, vita co-
mune, necessità dell’approvazione da parte dell’autorità ecclesiasti-
ca, sequela Christi, azione dello Spirito Santo, nuova consacrazione

8
Cf B. BASILE, Le nouveau Droit des Moines et des Religieux, Kaslik - Liban 1993; D.-M. JAEGER, Obser-
vations on Religious in Oriental Code, in J. CHIRAMEL - K. BHARANIKULANGARA (a cura), The Code of Ca-
nons of the Eastern Churches - A study and Interpretation, Alwaye 1992, pp. 152-180; ID., Alcuni Appunti
sui Religiosi nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in K. BHARANIKULANGARA (a cura), Il Diritto
Canonico Orientale nell’ordinamento ecclesiale, Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, pp. 164-187;
C. PUJOL, La vita religiosa orientale - commento al Codice di Diritto Canonico Orientale (canoni 410-
572), Roma 1994; D. SALACHAS, La vita monastica e religiosa nel Codex Canonum Ecclesiarum Orienta-
lium, in Euntes Docete 48 (1995) 85-135.
9
«Status religiosus est stabilis in communi vivendi modus in aliquo instituto ab Ecclesiam approbato,
quo christifideles Christum, Magistrum et Exemplum Sanctitatis, sub actione Spiritus Sancti pressius se-
quentes novo ac speciali titulo consecrantur per vota publica oboedientiae, castitatis et paupertatis sub le-
gitimo Superiore ad normam statutorum servandam, saeculo renuntiant ac totaliter se devovent caritatis
perfectioni assequendae in servitium Regni Dei pro Ecclesiae aedificatione et mundi salute utpote signa
coelestem gloriam praenuntiantia» (c. 410).
10
Cf CIC 1917 c. 487; motu proprio Postquam apostolicis litteris c. 1.
11
Cf LG 44; PC 6.
132 Marco Brogi

tramite i tre voti, rinunzia al secolo, dedicazione all’acquisto della


perfezione della carità.
L’estensione dell’argomento del presente studio, che deve ab-
bracciare l’intero Titolo XII, mi impedisce di sostare su questa defini-
zione, i cui elementi meriterebbero di essere ampliamente sviluppati.

Forme e livelli giuridici della vita religiosa


Le forme della vita religiosa in Oriente sono le stesse di quella
latina, mentre i livelli giuridici sono tre, inserendosene uno tra i due
comuni alla Chiesa latina.

Forme della vita religiosa


Le forme della vita religiosa sono dunque uguali a quelle lati-
ne (vita monastica, ordini e congregazioni) ma, come si è detto, il
CCEO pone in rilievo la prima, cioè quella monastica (cann. 433-503).
Non vi è nel Codice una definizione della vita monastica, ma
soltanto una descrizione del monastero (can. 433 § 1): esso è una ca-
sa religiosa «in qua sodales ad evangelicam perfectionem tendunt, ser-
vatis regulis et traditionibus vitae monasticae». La vita monastica è
dunque caratterizzata dalla sua fedeltà alle antiche regole.
La vita eremitica, alla quale il CIC dedica il can. 603, non è rico-
nosciuta dal CCEO come forma autonoma di consacrazione, ma, in
conformità con la tradizione orientale 12, essa è accolta come partico-
lare aspetto della vita monastica (cann. 481-485): «Eremita est sodalis
monasterii sui iuris, qui in coelestium contemplatione se totum collo-
cat et ab hominibus mundoque ex toto segregatur» (can. 481).
Seguono le altre due forme di vita religiosa, gli ordini e le con-
gregazioni (cann. 504-553). Il primo di questi canoni distingue le due
forme paragonandone le rispettive professioni con quella monastica:
«Ordo est societas ab auctoritate competenti ecclesiastica erecta, in
qua sodales, etsi non sunt monachi, professionem emittunt, quae pro-
fessioni monasticae aequiparatur» (§ 1); nella congregazione «soda-
les professionem emittunt cum tribus votis publicis oboedientiae, casti-
tatis et paupertatis, quae tamen professioni monasticae non aequipa-
ratur, sed propriam vim habet ad normam iuris» (§ 2).

12
Cf C. PUJOL, De Religiosis..., cit., pp. 26; 30 s.
La normativa del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium sulla vita consacrata 133

Anche negli altri canoni, ogni qualvolta si incontra una normati-


va già esposta riguardo ai monaci, vi è un rinvio a quel diritto.

Livelli giuridici dei monasteri e degli istituti religiosi (cann. 434; 505)
Essi sono tre (cann. 412-417): di diritto eparchiale (monasteri e
congregazioni), di diritto patriarcale (ordini e congregazioni), di di-
ritto pontificio (monasteri, ordini e congregazioni).
Per quanto concerne i monasteri, essi possono dipendere diret-
tamente dal patriarca, se questi ricorre al particolare istituto dello
stauropegio 13.
Gli effetti giuridici di ciascuno di questi livelli sono noti, ma
il CCEO riconosce al patriarca alcune particolari facoltà nei confron-
ti degli istituti di diritto pontificio (cf per esempio cann. 544 § 1;
549 § 2, 1°).

Stabilità della vita religiosa


La professione religiosa è per natura sua perpetua, e il religio-
so, anche quando emette una professione temporanea, la emette con
l’intenzione di rinnovarla e confermarla infine in modo definitivo,
tendendo egli sin dall’inizio a «una consacrazione perpetua».
Il CCEO da parte sua mostra chiaramente la propria riluttanza
ad ammettere lo scioglimento degli impegni assunti con la professio-
ne religiosa.

Professione monastica
In conformità con le antiche tradizioni, la professione monasti-
ca è soltanto perpetua; il noviziato dura tre anni, e al suo termine il
novizio emette la professione solenne (cf cann. 458; 462 § 1).
Il CCEO innovando rispetto all’antica disciplina, conservata an-
che nei canoni promulgati dal Pio XII 14, introduce tuttavia la possibi-
lità di una professione monastica temporanea, simile a quella degli
ordini e delle congregazioni religiose 15.

13
Cf ibid., pp. 19 s; 61; 429-433.
14
Cf motu proprio Postquam apostolicis litteris, cc. 88 § 1, 2°; 108; C. PUJOL, De Religiosis..., cit., pp. 290;
328-331.
15
«Ea quae iure communi de professione temporaria praescribuntur, valent etiam de monasteriis, in qui-
bus talis professio [...] praemittitur» (c. 465); si tenga presente che è questo l’unico caso in cui i canoni
«De monachis» rinviano a quelli relativi agli ordini e congregazioni e non viceversa.
134 Marco Brogi

Passaggio da un istituto religioso a un altro


La professione religiosa non consiste nei soli tre voti di obbe-
dienza, castità e povertà, ma in un atto di consacrazione, con il quale
il profitente si impegna a vivere da religioso in un determinato mo-
nastero, ovvero ordine o congregazione.
Contrastano pertanto con la stabilità della vita religiosa non so-
lo l’abbandono di questo stato, ma anche il cambiamento di monaste-
ro o di istituto, per cui il CCEO esige che anche quest’ultimo sia
sempre sancito dall’autorità ecclesiastica competente, cioè, a secon-
da del relativo livello giuridico, dalla Sede Apostolica, dal patriarca, o
dal vescovo eparchiale.
L’unica eccezione è data dal passaggio da un monastero a un al-
tro all’interno della medesima confederazione: in questo caso basta
il permesso del Presidente della confederazione e l’incorporazione
nel monastero ad quem è immediata.
Negli altri casi, l’incorporazione al nuovo monastero può essere
variamente dilazionata (cf cann. 487 s).
Quando un monaco passa a un ordine o congregazione, o un al-
tro religioso cambia d’istituto, il passaggio deve essere sempre auto-
rizzato dall’autorità ecclesiastica, inoltre il religioso dovrà fare alme-
no sei mesi di noviziato (cf cann. 544 s).
Le altre condizioni e modalità sono comuni a quanto prescrive a
riguardo il CIC.

Indulto d’esclaustrazione
Il diritto comune orientale non riconosce ai superiori religiosi la
facoltà di concedere l’esclaustrazione (cf CIC can. 686): la concessio-
ne dell’indulto è sempre riservata all’autorità ecclesiastica (cf cann.
489-491 e 548).

Uscita volontaria e dimissione


La disciplina di questi due istituti è comune a quella latina (cf
cann. 492-496; 546 s; 509); il CCEO riserva tuttavia alla Sede Aposto-
lica la concessione dell’indulto ai monaci di qualunque livello giuridi-
co (cf can. 492) e ai membri di ordini religiosi di diritto tanto pontifi-
cio che patriarcale (cf can. 549 § 2) ma, in compenso, riconosce a
questo riguardo ai patriarchi particolari facoltà in favore dei membri
delle congregazioni religiose di diritto pontificio.
La normativa del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium sulla vita consacrata 135

Quanto alla disciplina relativa alla dimissione di un religioso (cf


cann. 497-503; 551-553), si noti che la norma del canone latino che fa-
cilita in un certo senso il ritorno del religioso nella sua comunità
(CIC can. 690) non ha alcun riscontro nel CCEO, quasi a significare
una certa diffidenza verso colui che dopo aver rinunziato alla vita re-
ligiosa (o esserne stato respinto) alla fine del noviziato o addirittura
da professo, chiede di esservi nuovamente ammesso (cf cann. 493;
546 § 2).

Società di vita comune «ad instar religiosorum»


Il motu proprio Postquam apostolicis litteris trattava di queste
società ai cc. 224-231, staccandosi lievemente dal CIC 1917 (cann.
673-681) sia nel titolo che nella normativa.
È nota la trasformazione dei cann. dal CIC 1917 alla formulazio-
ne definitiva dei cann. 731-746 del CIC 1983 e alla loro nuova colloca-
zione nel Codice; il CCEO ha invece preferito e ha conservato questi
istituti nel titolo «De monachis... et de sodalibus aliorum institutorum
vitae consecratae», ponendoli in un capitolo a sé stante, il cap. II: «De
societatibus vitae communis ad instar religiosorum», cann. 554-562
(cf CIC can. 731 § 2).
I membri di queste società, «ad effectus canonicos quod attinet»,
sono paragonati ai religiosi e anche la disciplina che regge dette so-
cietà è parallela a quella dei religiosi.
Il CCEO fino all’ultimo suo schema (1989) aveva invece taciuto
delle società di vita apostolica: esse sono infatti poche in Oriente,
probabilmente non più di tre o quattro, ed era inteso che si dovesse-
ro reggere a norma dei canoni riguardanti le associazioni (CCEO,
cann. 573-583); invece, il testo promulgato ricorda queste società
nell’ultimo canone del Titolo XII, il can. 572, ricalcato sul CIC c. 731
§ 1. Il canone rinvia al diritto particolare della propria chiesa sui iuris
oppure determinato dalla Sede Apostolica.

Gli istituti secolari


Questa nuova forma di vita consacrata non è molto conosciuta
in Oriente, dove viene facilmente assimilata alla vita religiosa, ma sta
prendendo consistenza presso alcune comunità della diaspora.
Il CCEO dedica loro il terzo capitolo del Titolo XII, che racchiu-
de in pochi canoni una normativa di carattere generale e rimette
136 Marco Brogi

ogni specificazione al diritto particolare di ciascuna chiesa sui iuris


(cann. 563-569).

Altre forme di vita consacrata


Dopo aver elencato le varie forme di vita consacrata, da quella
monastica agli istituti secolari, il CCEO ricorda al can. 570 altre for-
me di vita consacrata, rimettendone la determinazione al diritto par-
ticolare.
Vengono in primo luogo citati gli asceti, «qui vitam eremiticam
imitantur», e che possono appartenere o meno a istituti di vita consa-
crata (cf cann. 481-485 già ricordati in questo articolo, e CIC can.
603). Sono poi citate, nello stesso canone, le vergini e le vedove con-
sacrate «seorsum in saeculo castitatem professione publica profitentes».
Il CCEO lascia infine aperta la porta a nuove forme di vita consa-
crata, con il can. 571 che riprende con qualche modifica CIC can. 605.
Ho già trattato dell’ultimo canone, can. 572, che riguarda le so-
cietà di vita apostolica.

8. Rapporto privilegiato con la propria chiesa sui iuris


Tra le particolarità del CCEO non se ne può tralasciare una
che, se è mal compresa, può far pensare a una grave limitazione del-
le libertà individuali, e cioè la costante necessità di un particolare
permesso della Sede Apostolica per l’ammissione di un fedele in un
monastero, ordine o congregazione di altre chiese sui iuris (cf cann.
451, 487 § 4; 517 § 2; 544 § 4; 559 § 1).
La spiegazione di questa restrizione va cercata nel desiderio
della Sede Apostolica di veder fiorire le chiese orientali cattoliche,
anche tramite le varie forme di consacrazione; il fatto che alcuni
membri di una chiesa sui iuris, volendosi consacrare, ne escano, in-
fligge alla medesima una doppia perdita. Essi infatti non solo negano
alla propria chiesa l’arricchimento di una loro consacrazione, ma ad-
dirittura le sottraggono il bene della loro partecipazione alla vita ec-
clesiale, una partecipazione che, a motivo stesso della loro vocazione
allo stato religioso, si suppone almeno potenzialmente molto attiva e
impegnata 16.

16
Cf M. BROGI, Ammissione di candidati di rito orientale in Istituti Religosi Latini, in Antonianum 54
(1979) 701-732.
La normativa del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium sulla vita consacrata 137

Conclusione
Come le varie forme di vita consacrata sono riconducibili a co-
muni origini, così sostanzialmente comune è la disciplina che le ri-
guarda, tanto in Oriente che in Occidente.
Vi sono tuttavia alcune differenze, più o meno notevoli, e que-
ste sono dovute a legittime variazioni di ottica, proprie delle singole
tradizioni, e a queste ho cercato di dare rilievo nel presente articolo,
tacendo invece degli elementi comuni ai due codici, CIC e CCEO,
perché noti ai cultori del diritto.

MARCO BROGI
Via Merulana, 124/B
00185 ROMA
Hanno collaborato a questo numero:

DON GIANGIACOMO SARZI SARTORI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Mantova

DON MAURO RIVELLA


Responsabile della sezione canonistica dell’Avvocatura arcivescovile di Torino

MONS. MARIO MARCHESI


Aiutante di Studio della Congregazione per il Clero

DON PAOLO BIANCHI


Vicario giudiziale aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo

DON CARLO REDAELLI


Avvocato generale della Curia arcivescovile di Milano

DON GIAN PAOLO MONTINI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Brescia

DON GIANNI TREVISAN


Cancelliere della Curia diocesana di Belluno - Feltre

DON MASSIMO CALVI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Cremona

PADRE MARCO BROGI, o.f.m.


Sotto-Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

Pagina senza testo


QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
141 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO VIII
143 Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata N. 2 - APRILE 1995
2-29 ottobre 1994
di Jean Beyer DIREZIONE ONORARIA

154 La consacrazione mediante Jean Beyer, S.I.


i consigli evangelici nel dibattito sinodale DIREZIONE E REDAZIONE
di Silvia Recchi Francesco Coccopalmerio
165 Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici Paolo Bianchi - Massimo Calvi
nel Sinodo sulla vita consacrata Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
di Heidi Böhler Silvia Recchi - Carlo Redaelli
Mauro Rivella
176 Il Sinodo sulla vita consacrata:
Giangiacomo Sarzi Sartori
un’opportunità per gli istituti secolari Gianni Trevisan
di Tiziano Vanzetto Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
193 Commento a un canone
Il rapporto fra Codice di diritto canonico SEGRETERIA DI REDAZIONE
e diritto liturgico (can. 2) G. Paolo Montini
di Mauro Rivella Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
Tel. (030) 37.121
201 Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio
X. L’incapacità a consentire (can. 1095, 1° e 2°) PROPRIETÀ
di Paolo Bianchi Istituto Pavoniano Artigianelli
228 Il diritto canonico dalla A alla Z Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Glossa
di G. Paolo Montini AMMINISTRAZIONE
Editrice Àncora
Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Tel. (02) 3360.8941

STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

ABBONAMENTI PER IL 1995


Italia: L. 20.000
Estero: L. 27.000
Via Aerea L. 37.000
Un fascicolo: L. 7.000
Fascicoli arretrati: L. 14.000
C/C Postale n. 31522204
intestato a: Editrice Àncora
Autorizzazione del Tribunale di
Milano n. 752 del 13.11.1987
Nulla osta alla stampa:
Milano, 12-6-1995, don Franco Pizzagalli Spedizione in abbonamento
Imprimatur: Milano 14-6-1995, Angelo Mascheroni P.V.G. postale/50% - Milano
141

Editoriale

Non è possibile affermare che il Sinodo dei vescovi su La Vita


consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo si sia concluso.
Non è possibile pertanto parlare di bilancio o dare giudizi definitivi.
Si è piuttosto celebrata e conclusa l’Assemblea Generale Ordi-
naria del Sinodo dei vescovi. La conclusione, al contrario, del Sinodo
sulla tematica della vita consacrata si potrà avere solo se e quando,
secondo la prassi instaurata recentemente e il voto espresso dai Pa-
dri sinodali, il Santo Padre pubblicherà l’Esortazione Apostolica post-
sinodale e verranno poste in atto quelle iniziative che, eventualmen-
te, nel medesimo documento pontificio si indicheranno.
Si deve comunque riconoscere che, nel frattempo, un valutazio-
ne del Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata è pur possibile. Non
già perché si possiedano tutti gli elementi formalmente richiesti,
quanto piuttosto per il fatto che una notevole mole di documenti e di
interventi, pur senza contare le propositiones (coperte da segreto),
sono stati resi disponibili.
Non si può d’altronde dimenticare la natura e le finalità dei Si-
nodi in generale e di questo Sinodo sulla vita consacrata, in partico-
lare, destinati cioè non tanto alla (proposta di) innovazione, quanto
piuttosto alla promozione di una sensibilità comune e diffusa in ordi-
ne a temi di rilevanza ecclesiale generale.
Così il Relatore Generale, card. George Basil Hume, nella Rela-
tio ante disceptationem enucleava gli obiettivi del Sinodo stesso: «[...]
far capire, apprezzare e accogliere dalla Chiesa tutta e in particolare
dai suoi pastori la vita consacrata come è voluta dal Padre, suscitata
nelle sue molteplici forme dallo Spirito, per rendere visibili i tratti
più caratteristici della vita e della missione di Cristo [...] promuovere
142 Editoriale

la vita consacrata nella sua autenticità teologale, ecclesiale, apostolica


e missionaria, con un ritorno alle sorgenti di grazia dalle quali proma-
na, nel confronto con le sfide e le attese del mondo contemporaneo
[...] facilitare la sua espansione qualitativa e quantitativa» (I, 5).
I Quaderni intendono pertanto con questo fascicolo intervenire
in questo momento di pausa dopo la celebrazione dell’Assemblea si-
nodale e in attesa del documento pontificio, allo scopo di puntualiz-
zare il cammino sinora svolto, chiarificare le posizioni espresse e
preparare in tal modo le ulteriori tappe di riflessione e attuazione.
Dopo una valutazione generale dei lavori del Sinodo (Beyer), ci
si sofferma sull’apporto dato dall’Assise sinodale in merito alla com-
prensione della “speciale” consacrazione che accomuna i membri de-
gli istituti di vita consacrata (Recchi) e dei consigli evangelici (Böh-
ler), nonché in merito alla considerazione di quella forma recente di
consacrazione costituita dagli Istituti secolari (Vanzetto).

Nella seconda parte del fascicolo si affronta anzitutto il cano-


ne 2 (Rivella). Nel commento a questo canone, che intende chiarire
il rapporto fra Codice di diritto canonico e norme liturgiche vigenti
al momento della sua promulgazione, viene trattato in modo più ge-
nerale della relazione fra diritto e liturgia.
Si continua poi nell’esame dei capi di nullità matrimoniale, al fi-
ne di offrire ai pastori d’anime una guida semplice e sicura per la lo-
ro opera di discernimento e di consiglio in ambito matrimoniale
(Bianchi). Si affronta in questo fascicolo il canone 1095, 1°-2°, ine-
rente alla mancanza di sufficiente uso di ragione e alla grave man-
canza di discrezione di giudizio.
Si riprende infine il dizionario delle principali voci che hanno at-
tinenza in modo particolare alla scienza e alla metodologia del diritto
(Montini). Il termine glossa, con i suoi paralleli in altri ambiti del sa-
pere sia teologico sia giuridico sia profano, permette di ricostruire
non solo un modo, storicamente datato, di accostarsi al testo norma-
tivo per interpretarlo, ma più in generale di riflettere sul rapporto ne-
cessario fra scienza canonica e altre scienze, o meglio, fra metodolo-
gia canonica e metodologia scientifica in genere.
143

Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata


2-29 ottobre 1994
di Jean Beyer

Valutazione di questo Sinodo


Il periodo postsinodale che stiamo percorrendo, è certamente il
momento più adatto per fare delle valutazioni. Tra gli stessi parteci-
panti al Sinodo ci si interroga sul suo successo, e si sentono già delle
voci pessimistiche, le quali sostengono, fra le altre cose, che non ci
si poteva aspettare troppo, vista l’ampiezza dell’argomento in que-
stione. Non si poteva tuttavia ridurre l’oggetto di questo Sinodo a un
solo aspetto della vita consacrata. D’altra parte i partecipanti, e in
primo luogo gran parte dei vescovi, visto l’immenso carico di lavoro
che portano sulle loro spalle, non potevano nemmeno essere suffi-
cientemente informati per trattare questa materia.
A rileggere tutto ciò che è stato detto sul Sinodo, infatti, si con-
stata che un grande numero di partecipanti non era affatto specializ-
zato nella materia. Numerosi vescovi certamente erano religiosi o
membri di istituti religiosi, ma pochi erano informati sull’insieme
della vita consacrata. Come vescovi erano più preoccupati dell’aiuto
che possono loro garantire i religiosi e dell’utilità pastorale che, per
essere assicurata, dovrebbe essere meglio inserita nella pastorale
della loro diocesi. Tuttavia in questa “pastorale di insieme” il lavoro
degli istituti religiosi raramente viene preso in considerazione.
Una mancanza di informazione generale riguardo ai differenti
stati di vita consacrata va rilevata in tutta la Chiesa. Quanti conosco-
no gli istituti secolari, comprendono la discrezione della loro presen-
za e l’impatto della loro influenza apostolica?
Inoltre erano assenti, come mi faceva notare recentemente un
Superiore generale, illustri esperti in materia. E si trattava di nomi
144 Jean Beyer

ben conosciuti! Leggendo comunque le pubblicazioni delle Unioni


dei Superiori, non si può certamente non notare un forte ascendente
di questi ultimi sulla scelta degli esperti.
A prescindere dalle suddette considerazioni, un cardinale si è
chiesto come possa un’assemblea di circa trecentocinquanta perso-
ne fare teologia. Soprattutto se non si tratta di argomenti di sua com-
petenza, anche se nella vita consacrata, per essere informati, non ba-
sta essere teologi. Il diritto particolare e la storia della vita consacra-
ta, come pure lo studio delle diverse spiritualità che incarnano gli
istituti approvati, avrebbero dato un apporto decisivo. Certi punti es-
senziali necessitavano sin dall’inizio, dalla preparazione di questo Si-
nodo, di chiarimenti. Questi punti non sono stati sufficientemente
proposti, cioè spiegati, chiariti.

Gli stati di vita nella Chiesa


La posizione dottrinale riguardo agli stati di vita nella Chiesa è
tuttora legata alla terna classica: clero, religiosi, laici. Non ci si è an-
cora liberati da essa. Anche il Concilio Vaticano II non vi è riuscito,
anzi! Basta vedere la descrizione del laico, al n. 31 della Lumen gen-
tium e le dichiarazioni d’altronde polemiche riguardo alla costituzio-
ne gerarchica della Chiesa. Per non svuotare la vita consacrata – de-
finita “religiosa” al cap. VI della Lumen gentium – vi si afferma che
essa appartiene senza alcun dubbio, inconcusse, alla santità della
Chiesa: «Così come gli altri ordini di persone [...] tutti sono chiamati
alla santità del proprio stato di vita» (LG 43b.d).
Il termine “religioso”, pur se sostituito nel Sinodo con il termi-
ne “consacrato”, non cambia affatto le mentalità. A leggere certi testi
che parlano della vita consacrata, si pensa alla vita religiosa, la sola
ben conosciuta...
Statisticamente, i religiosi sono ancora assai numerosi. A com-
pararli con i membri degli istituti secolari, la loro preponderanza è
schiacciante. Quanto alle società di vita apostolica, chiamate anche
«società di vita comune senza voti, che imitano la vita religiosa», la
maggioranza di esse si riconosce come una forma di vita consacrata
adattata all’azione apostolica. Società che d’altronde furono necessa-
rie per evitare la clausura, imposta senza distinzioni alle donne, a co-
loro che volevano essere religiose, ma allo stesso tempo libere dalla
clausura claustrale.
Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata 2-29 ottobre 1994 145

Oggi si constata, come si dice, una mancanza di vocazioni. È ve-


ro ciò? Il contrario sembra affermarsi in numerosi movimenti o co-
munità nuove, che attirano i giovani, per la propria vitalità spirituale
e apostolica, al punto che in questi movimenti si formano gruppi di
vita monastica e forme di vita eremitica.
Le Conferenze dei vescovi, da quanto risulta, hanno avuto degli
atteggiamenti assai differenti per quanto concerne la preparazione
dei lavori sinodali. Alcune hanno discusso per vedere come rispon-
dere ai questionari proposti e anche come superarli. Altre hanno affi-
dato questo lavoro a un gruppo di vescovi; altre ancora a un gruppo
di esperti. Si comprende che – a partire da queste situazioni diffe-
renti – la preparazione di un Sinodo è troppo debole, quasi nulla. È
vero che il numero più limitato dei membri di certe Conferenze epi-
scopali non ha aiutato il lavoro preparatorio: mancanza di informa-
zione, contatti difficili con i differenti tipi di vita consacrata, attenzio-
ne fissata sulle questioni pastorali di una diocesi o di un paese o di
un continente in difficoltà.
Anche i mass media, d’altronde, non hanno molto favorito una
buona informazione sui lavori del Sinodo, incentrando i propri servi-
zi quasi esclusivamente sulla questione della donna. Ora ci si chiede
se l’Esortazione postsinodale allargherà la parte dottrinale, così co-
me si sarebbe auspicato, aprendosi anche alle nuove prospettive del-
la vita consacrata nella Chiesa.
Malgrado le sue difficoltà e lacune, questo Sinodo può suscitare
una presa di coscienza di quello che è la vita consacrata, il suo posto
e la sua influenza nella Chiesa e nel mondo.

I testi preparatori del IX Sinodo ordinario


Come è avvenuto per gli ultimi Sinodi, anche quello sulla vita
consacrata è stato preparato da un primo documento, che cercava di
esporre i differenti aspetti dell’oggetto scelto come tema sinodale. I
Lineamenta, documento edito il 24 novembre 1992, hanno suscitato
numerose risposte, non solo da parte di organismi ufficiali, ma an-
che da gruppi di fedeli, che hanno inviato alla segreteria del Sinodo
le loro riflessioni e osservazioni.
I Lineamenta facevano già prevedere l’ampiezza dell’argomento
da trattare, i problemi che esso poneva o che voleva mettere in rilie-
vo. Se questo documento ha suscitato numerose reazioni, lo deve al-
l’ampiezza del tema e alla necessità che fosse più centrato sull’essen-
146 Jean Beyer

ziale. Certe ripetizioni hanno reso difficile la lettura. Esso era volu-
minoso: settanta pagine di formato grande, per l’edizione latina.
L’Instrumentum laboris è stato strutturato meglio. Esso ha tenu-
to conto delle osservazioni che centravano l’essenziale: la consacra-
zione di vita per mezzo dei consigli evangelici. Esso è ancora più
voluminoso dei Lineamenta, fatto che conferma, una volta di più,
l’ampiezza dell’oggetto affrontato da questo Sinodo. L’edizione lati-
na, dello stesso formato dei Lineamenta, conta 158 pagine.
L’Instrumentum laboris ha conosciuto più redazioni. Una prima
si basava sul lavoro di esperti, i quali vi hanno condensato le prime
osservazioni fatte. Una seconda venne redatta da alcuni esperti e poi
studiata dai vescovi della segreteria generale, per arrivare infine a
una terza redazione, che fu inviata ai membri del Sinodo: vescovi,
uditori, esperti. Il documento ha costituito l’ordine del giorno da se-
guire durante il lavoro del Sinodo. Se questo documento, redatto tar-
di – ufficialmente pubblicato il 20 maggio 1994 – fosse stato studiato
di più, esso avrebbe permesso una partecipazione dei Padri più atti-
va e più ordinata al Sinodo stesso.
L’esperienza del IX Sinodo mostra come una discussione seria
necessiti di un progetto conciso, ben formulato e preciso... vicino al-
le realtà da prendere in considerazione. Ogni questione al Sinodo
avrebbe dovuto essere trattata al momento giusto, senza dover sele-
zionare di nuovo gli interventi di coloro che prendevano la parola.
Inoltre le risposte alle osservazioni scritte restano spesso sco-
nosciute ai membri del Sinodo. La prassi delle risposte scritte non
sarebbe da evitare? Alla fine si può dire del Sinodo che più che uno
studio dottrinale e una riflessione pastorale, esso sia stato un’espe-
rienza che chiama in causa l’attività e l’organizzazione del Sinodo co-
me tale e quella della segreteria generale.

La ricerca sinodale
Importante e apprezzata è stata la Relatio ante disceptationem,
pronunciata dal card. Hume, O.S.B. Tanto l’esposizione ben struttu-
rata, quanto lo stile del testo, le hanno dato un grande valore. Tutta-
via, come si è osservato, questa Relatio non ha avuto influenza suffi-
ciente sugli interventi dei Padri sinodali che sono seguiti.
La Relatio era stata fatta sulla base dell’Instrumentum laboris.
Essa ne aumentava il valore per la sua precisione e la sua struttura,
proponendo ai Padri sinodali un triplice obiettivo.
Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata 2-29 ottobre 1994 147

Il primo consiste nel mettere in evidenza la responsabilità del


Collegio episcopale nei confronti della vita consacrata. La vita consa-
crata concerne direttamente la missione dei vescovi. Da ciò bisogna
concludere che i vescovi devono conoscere, comprendere e apprez-
zare la vita consacrata, non solo per ciò che essa fa, ma prima di tut-
to per ciò che essa è. È tutto un programma! Più concretamente si
tratta, per i vescovi diocesani, di assistere e proteggere la vita consa-
crata sotto le sue diverse forme, di discernere i nuovi carismi che si
presentano loro e di inserire la vita consacrata nell’azione pastorale.
Questa accoglienza della vita consacrata è indispensabile per rende-
re dinamica la vita della Chiesa.
Il secondo obiettivo proposto dal Relatore consiste nel promuo-
vere la vita consacrata nella sua autenticità. La vita consacrata è un
dono multiforme dello Spirito. Essa costituisce uno “stato” o “ordine
di persone” distinto dai laici e dai ministri sacri. Si deve anche dire,
al riguardo, che si tratta di diversi “stati” o “ordini di persone” che
vanno meglio collocati nella Chiesa. Queste persone troppo a lungo
si sono riunite sotto delle denominazioni astratte, frutto di una teolo-
gia speculativa medievale. Si è arrivati a parlare di “religiosi”, si parla
oggi di “vita consacrata”...
La vita consacrata è di origine carismatica. Bisognerà un giorno
chiarire meglio questo punto. Come tale, questa vita non è un cari-
sma, essa implica numerosi carismi... Le forme di vita consacrata vi-
vono degli aspetti particolari della vita del Cristo nella pratica effetti-
va dei tre consigli evangelici e, come tali, esse appartengono essen-
zialmente alla vita e alla santità della Chiesa. Esse comportano una
consacrazione nuova e particolare in rapporto al battesimo, anche se
questa consacrazione non avviene tramite un sacramento. Ma non
bisogna forse dire che essa si celebra sempre nell’Eucaristia? Non è
forse essenzialmente un atto d’amore? E non supera come tale gli al-
tri sacramenti?
Il terzo obiettivo proposto dal Relatore concerneva le esigenze
poste ai vescovi e alla vita consacrata. Le esigenze poste ai vescovi
erano le seguenti:
– comprendere e fare comprendere la vita consacrata al popo-
lo di Dio, il suo posto e la sua funzione secondo la varietà dei suoi ca-
rismi;
– trovare i mezzi adatti per far fronte a queste responsabilità e-
piscopali, rispettando l’autonomia degli istituti di vita consacrata e le
diverse forme di questa;
148 Jean Beyer

– divenire propulsori della vita consacrata e intervenire per eli-


minare tutto ciò che le fa perdere la sua natura e la sua funzione nel-
la Chiesa.
A queste esigenze affidate alla responsabilità dei vescovi, si ag-
giungono quelle affidate alla vita consacrata, ai suoi responsabili e fi-
nalmente ai suoi membri. Molti di questi punti sono segnalati dalla
Relatio: rinnovamento della vita spirituale, autenticità della vita fra-
terna, unione intima tra consacrazione-missione-vita fraterna, posi-
zione della donna nella Chiesa. A queste esigenze si aggiunge quella
di una nuova evangelizzazione, quella del confronto tra cultura estra-
nea e valori della vita consacrata e del Vangelo; infine la visibilità del-
la testimonianza dei religiosi in un mondo secolarizzato e quella di
segni distintivi esteriori. Vanno ancora sottolineati i rapporti tra le di-
verse vocazioni nella Chiesa: fedeli cristiani, clero diocesano, istituti
di vita consacrata. Resta poi la questione della diminuzione di voca-
zioni, fatto che concerne soprattutto gli istituti religiosi e le società
di vita comune votate all’azione apostolica.

Gli inter venti dei membri del Sinodo


La discussione generale, che ha avuto luogo dal 3 al 14 ottobre
1994, ha conosciuto circa 270 interventi. Vi si notano ripetizioni, va-
rie prospettive, ma anche l’apprezzamento dell’Instrumentum labo-
ris, del quale si sono riconosciuti un po’ alla volta il valore e la porta-
ta. I vescovi delle missioni e dell’Europa dell’Est apprezzano molto
questa ricerca; i vescovi dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti e
dell’America del Sud mettono in luce le difficoltà specifiche che com-
porta la vita religiosa nelle loro varie nazioni.
La Relatio post disceptationem, presentata ugualmente dal card.
Hume, mostra, sia nello stile che nel contenuto, la difficoltà che ha
conosciuto il Sinodo, di studiare tale soggetto e di approfondirlo. A
vedere i temi affrontati in aula e sintetizzati nella Relatio, non si può
che constatare che la materia trattata nel Sinodo era assai estesa, for-
se troppo, e dunque non ha potuto godere dell’approfondimento de-
siderato.
Dopo questa Relatio hanno avuto luogo, dal 15 al 18 ottobre
1994, le riunioni in quattordici Circuli minores, in sei diverse lingue.
È seguita in aula, il 19 ottobre, la presentazione del rapporto di cia-
scun Circulus minor; dal 20 al 22 ottobre ha avuto luogo la prepara-
zione delle Propositiones; dal 22 al 23 la loro unificazione in un testo
Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata 2-29 ottobre 1994 149

unico, presentato in aula il 24 ottobre. Il 24 e 25 ottobre i Circuli mi-


nores hanno suggerito eventuali correzioni, il 26 e 27 queste ultime
sono state valutate, accettate o respinte. Ciò ha permesso la redazio-
ne del testo definitivo, approvato il 28 ottobre 1994. Tra le 56 propo-
sizioni, 24 riguardano la vita consacrata in se stessa, 7 la vita consa-
crata nella comunione ecclesiale, 12 la missione, 5 le vocazioni e la
formazione.
Quanto al Messaggio diretto alla Chiesa intera, esso ha avuto
una redazione indipendente, fortemente rielaborata, che non è stata
molto apprezzata dai membri del Sinodo. Questo prova una volta di
più la mancanza di sintesi e l’ampiezza delle materie trattate in que-
sto IX Sinodo ordinario.

La riflessione sinodale
Le Propositiones costituiranno, come è avvenuto per altri Sinodi,
l’oggetto di una Esortazione postsinodale, testo conclusivo, che sarà
redatto dagli esperti e riveduto dai vescovi eletti al Sinodo come
membri della segreteria generale. Il Papa poi approverà la redazione
finale di questo documento.
L’Esortazione postsinodale meriterà un’attenzione speciale. Es-
sa completerà lo sforzo del Sinodo in una sintesi utile alla vita ec-
clesiale.
Sinodo ed Esortazione avrebbero assai più effetto se il loro con-
tenuto costituisse l’oggetto di lettere pastorali diocesane, che per-
mettessero ai cattolici di considerare la vita consacrata nella vita con-
creta della Chiesa e ai consacrati di vivere la missione che è loro pro-
pria. Le persone consacrate sono proporzionalmente poco numerose
nella Chiesa. Bisognerebbe tuttavia mettere in luce i doni multiformi
che costituiscono la vita consacrata, la sua ricchezza e varietà, il suo
adattamento e la sua influenza.

Il tema centrale del Sinodo


La vita consacrata va considerata in se stessa; se ne deve ap-
profondire la natura ecclesiologica. Essa ha, come punto di riferi-
mento, la consacrazione di Cristo al Padre nell’Amore, quell’Amore
che è il loro Spirito.
Fondata sul battesimo, la vita consacrata è il segno dell’inter-
vento di Dio che consacra la persona che egli chiama a nuovo titolo.
150 Jean Beyer

Essa si esprime attraverso il ministero della Chiesa, che la accoglie


come consacrazione che la persona fa di se stessa a Dio.
Questa vita consacrata è vissuta al seguito del Cristo (sequela
Christi), che essa vuole imitare “più da vicino” mediante la pratica
dei tre consigli evangelici. Essa si basa su di una profonda e autenti-
ca esperienza di Dio e forma uno stato stabile di vita, che appartiene
alla struttura fondamentale della Chiesa.
Se la vita consacrata è essenziale alla vita ecclesiale, se certe
delle sue forme sono contingenti, essa si perpetua grazie a dei cari-
smi diversi, profondi e nuovi. Questa vita, per sua natura, è “missio-
naria”, come annuncio del Vangelo, anche se pienamente ed esclusi-
vamente votata alla contemplazione. Questa testimonianza contem-
plativa mantiene tutto il proprio valore sia in terra di missione, sia
nei paesi scristianizzati.
Certe questioni costituiscono oggi un problema nella Chiesa.
Ne citiamo solo alcune, più specifiche e delicate.
Una più grande coscienza del carisma proprio degli istituti o
delle forme anche individuali di vita consacrata può causare tensioni
con i vescovi, anche se una tale coscienza dovrebbe suscitare un dia-
logo per poterle risolvere. È auspicabile una revisione del documen-
to Mutuae relationes del 1978. Ma è certo che essa sarebbe efficace?
Se da una parte si nota con soddisfazione un progresso nella ri-
flessione dottrinale che concerne la vita consacrata, il rinnovamento
postconciliare degli istituti religiosi ha avuto anche degli effetti ne-
gativi. Questi ultimi hanno impedito e tuttora impediscono l’aumento
di vocazioni. Questa diminuzione di vocazioni ha come conseguenza
un sovraccarico dei membri ancora validi e una mancanza di vitalità
negli istituti di vita attiva, i quali però, a volte, perdono anche la pro-
pria attrattiva per la formazione di piccole comunità e lo sviluppo di
un apostolato comune, fino a non avere più che un’attività personale
e dei contatti individuali.
Se la vita consacrata è riconosciuta come essenziale alla vita
della Chiesa, le sue forme storiche sono contingenti? Non tutte pos-
sono esserlo. Uno studio per valorizzare i carismi dimostra la forza
di certi carismi “tipo”, che hanno intimamente unito spirito e struttu-
re e restano essenziali.
Il Sinodo ha anche sottolineato certe situazioni proprie dell’epo-
ca nel quale esso si situa: il secolarismo nelle nazioni occidentali; la
mentalità democratica, che affievolisce sia l’obbedienza che la qua-
lità del governo; l’invasione dei mezzi di comunicazione, che turbano
Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata 2-29 ottobre 1994 151

la vita comunitaria, diminuendo il tempo della preghiera libera; ciò


attenta più di quanto si pensi alla vita interiore e agli atteggiamenti
morali delle persone che vi sono assoggettate.
Resta da considerare un punto affermato assai fortemente: l’e-
mancipazione della donna. Certo bisogna riconoscerle una posizione
ecclesiale più marcata, grazie a una formazione teologica più ap-
profondita, una migliore posizione nella vita ecclesiale come parteci-
pazione alle decisioni da prendere, alle direttive auspicabili, pur ri-
spettando le qualità e gli atteggiamenti che le sono propri e non de-
vono essere “maschili”.
Se il Sinodo è stato attento a questi aspetti della vita della Chie-
sa, non si può tuttavia dire che li abbia approfonditi.
Merita particolare attenzione un punto. Il Sinodo ha parlato del-
le “nuove comunità” e dei “movimenti ecclesiali”. Questi ultimi han-
no una grande vitalità, vivono un’ecclesialità ampia, che unisce molti
ordini di persone, comprendendo anche gli stessi religiosi, il che per
questi ultimi non avviene senza difficoltà. È auspicabile una commis-
sione interdicasteriale. Non si dovrebbe ritardarne la costituzione.
Bisognerà facilitarne l’azione come organo di discernimento, di ap-
provazione e di coordinamento nella Chiesa.
Vanno segnalati ancora tre punti. Prima di tutto il seguente: il
Sinodo non ha preso in considerazione l’«universalità della vita con-
sacrata», e il suo legame essenziale con il Papa. La visione dominan-
te al Sinodo è stata quella della Chiesa particolare; essa astrae dalla
Chiesa universale. La vita consacrata per mezzo dei carismi oltrepas-
sa il quadro diocesano e se essa si vuole dedicare alla vita diocesana,
lo fa in ogni Chiesa particolare che la chiama a collaborare. Non può
legarsi a una sola diocesi.
Un altro punto importante che va considerato, è l’attuale insta-
bilità nella vita consacrata, che si esprime con la mancanza di perse-
veranza. Si è parlato di un passaggio temporaneo alla vita monastica.
Un tale progetto non può collocarsi in questa instabilità. L’instabilità
attuale non è forse la stessa che conosce oggi anche la famiglia?
Infine un terzo punto. La vita consacrata comporta una nuova
consacrazione in rapporto a quella del battesimo. Questa consacra-
zione si colloca in una chiamata vocazionale, divina; essa si espri-
me in una risposta che è dono totale nell’amore. Questo dono si vi-
ve nell’Eucaristia, come lo si vive nell’offerta eterna del Verbo incar-
nato al Padre nello Spirito d’amore per la salvezza del mondo. In
questo senso sembra necessaria anche una riflessione teologica, che
152 Jean Beyer

non si è potuta fare al Sinodo. Essa si potrà esprimere nell’Esortazio-


ne postsinodale, che terrà meglio conto dei progressi dottrinali già
realizzati nel periodo conciliare e delle difficoltà che si pongono nel-
l’affermare che nella Chiesa non esiste che una realtà, quella della
vita battesimale!

Osser vazioni conclusive


Dopo questo IX Sinodo ordinario dei vescovi, ci si domanda tal-
volta: questo Sinodo è ancora un Sinodo di vescovi? Si è fatto osser-
vare il gran numero di partecipanti. Un’assemblea così numerosa
non può favorire dei cambiamenti profondi. Gli interventi in aula era-
no spesso personali e non si inserivano sufficientemente in ciò che
era stato detto o si sarebbe detto.
Il Sinodo era conosciuto come una consultazione di vescovi in
vista di un aiuto fraterno assicurato al Papa, in vista di un migliore
governo della Chiesa. Il Papa, all’inizio, poneva delle questioni con-
crete; chiedeva di studiarle; prendeva atto del risultato di questa ri-
flessione e della discussione che essa aveva suscitato. Il tutto veniva
riassunto in qualche pagina. Queste pagine devono essere pubblica-
te? Un po’ alla volta i Sinodi hanno conosciuto molte pubblicazioni.
Vengono infatti pubblicati i documenti preparatori, lo strumento di
lavoro, le esposizioni dei relatori, i riassunti degli interventi in aula,
l’esposto finale di questa prima parte del Sinodo. Seguono le discus-
sioni in gruppi linguistici, le Proposizioni che ne scaturiscono, la loro
approvazione nell’Assemblea generale. Queste proposizioni costitui-
ranno in parte l’oggetto di una Esortazione postsinodale, che am-
plierà l’aspetto dottrinale del dibattito sinodale e completerà gli inter-
venti, riprendendo il tutto in una sintesi, che è sempre più estesa. A
studiare le Esortazioni postsinodali si è colpiti spesso a vedere quan-
te proposizioni fatte e approvate dai Padri del Sinodo non siano né ri-
prese né commentate.
Un secondo aspetto del Sinodo concerne soprattutto una ricer-
ca dottrinale che deve seguire. La vita consacrata non è un obbligo
assunto sotto forma di professione di voto o di impegno già determi-
nati. Essa supera ogni statuto per ritrovarsi nel mistero dell’amore
trinitario, ove il Verbo fatto carne riceve tutto dal Padre e gli rimette
tutto nella filiazione d’amore, in una piena dipendenza che esprime
una totale povertà, espressione di un dono unico, dono che supera
ogni obbligo di castità perfetta. La vita consacrata sarà meglio com-
Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata 2-29 ottobre 1994 153

presa e vissuta, se essa si afferma come un dono reciproco di amore,


così come il Cristo lo vive nella Trinità divina.
Un terzo aspetto del Sinodo si apre sulla consacrazione propria a
ogni stato di vita. Il Concilio ha detto che i coniugi sono confortati e
«come consacrati» dal loro matrimonio (GS 4b); i sacerdoti, per la lo-
ro ordinazione, sono consacrati e chiamati a vivere in obbedienza sa-
cerdotale, in castità o verginità consacrata; essi sono invitati a vivere
in povertà volontaria, come lo sono d’altronde i vescovi (PO 15-17).
Persone coniugate si uniscono in comunità di vita e si impegnano a
vivere i consigli evangelici secondo il proprio stato. Non si possono
ignorare questi nuovi gruppi.
Il Sinodo dovrà necessariamente continuare con una riflessione
che porterà dei frutti, dei quali oggi non si può prevedere né deter-
minare l’ampiezza. Sarà un’apertura allargata alle dimensioni evan-
geliche della vita cristiana e al suo inserimento nelle relazioni trinita-
rie, ove essa si colloca sempre meglio e ove si chiarifica pienamente.

ELEMENTI DI BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Dizionario teologico della vita consacrata, Àncora, Milano 1994.


AA.VV., L’identità dei consacrati nella missione della Chiesa e il loro rapporto con il
mondo, Ed. Vaticana, 1994.
AA.VV., Punti fondamentali sulla vita consacrata, Roma 1994.
BEYER J., La Chiesa si interroga sulla vita consacrata, in Quaderni di diritto eccle-
siale 6 (1993) 363-387.
– La vita consacrata nella Chiesa e nel mondo, in Vita Consacrata 30 (1994) 159-180.
BÖHLER H., I consigli evangelici in prospettiva trinitaria, Torino 1994.
GALOT J., Vivere con Cristo. I fondamenti evangelici della vita consacrata, Àncora,
Milano 19902.
GHIRLANDA G., L’Instrumentum laboris per il sinodo sulla vita consacrata in Perio-
dica 83 (1994) 437-468.
RECCHI S., Consacrazione mediante i consigli evangelici, Àncora, Milano 1988.

J. BEYER S.I.
Piazza della Pilotta, 4
00187 ROMA
154

La consacrazione mediante
i consigli evangelici nel dibattito sinodale
di Silvia Recchi

«In vista della stesura dell’esortazione apostolica il sinodo chiede che siano
studiate la differenza e la relazione tra la consacrazione battesimale e la con-
sacrazione mediante la professione dei consigli evangelici, e che lo studio
comprenda anche un preciso esame degli elementi essenziali che costitui-
scono l’identità, la natura e il ruolo della vita religiosa nella Chiesa. Lo studio
si estenda anche ai diversi modi nella Chiesa (i tre ordini di persone o stati
di vita), agli elementi comuni e alle peculiarità di ciascuno di essi».

Questo il contenuto della terza propositio che i Padri sinodali


hanno espresso in vista della prossima Esortazione Apostolica di Gio-
vanni Paolo II. Dietro queste parole si delineano tutta l’attualità e l’im-
portanza di un dibattito che ha interessato la vita consacrata a partire
dall’evento conciliare, dibattito in cui il nuovo Codice di diritto cano-
nico è intervenuto con delle opzioni fondamentali. Dietro la propositio
si delineano anche le difficoltà inerenti ad alcuni nodi della teologia
della vita consacrata davanti a cui si sono trovati i Padri sinodali.

Il Codice: tappa importante di un lungo processo


È stato il Concilio Vaticano II ad aprire la strada al dibattito su
uno statuto teologico più approfondito in riferimento a quanti nella
Chiesa vivono la vita di professione dei consigli evangelici, a comin-
ciare dalla stessa evoluzione terminologica che ha portato a una di-
stinzione tra “vita religiosa” e “vita consacrata”. Sono note le ragioni
per cui il Concilio si è espresso in termini di “vita religiosa” piuttosto
che di “vita consacrata”. Non solo perché la vita religiosa, per ragioni
storiche indiscutibili, appariva ai più l’analogatum princeps di ogni
forma di vita di sequela di Cristo povero, casto, obbediente, ma so-
La consacrazione mediante i consigli evangelici nel dibattito sinodale 155

prattutto perché il termine “consacrazione” spostava il dibattito su


un piano più chiaramente teologico, dove la riflessione trovava non
poche difficoltà 1. Il Concilio innescava un processo di approfondi-
mento in proposito, attestandosi su alcune affermazioni fondamenta-
li: la professione dei consigli evangelici conferisce una consacrazio-
ne; quest’ultima rappresenta un “titolo nuovo”, come dice la Lumen
gentium o meglio è una “peculiare” consacrazione, come più chiara-
mente afferma il decreto Perfectae caritatis; tale consacrazione non
nasce da un nuovo sacramento, ma è radicata nel battesimo e lo e-
sprime con una maggiore pienezza e in relazione a esso si contraddi-
stingue per la forza della carità e per la rimozione degli impedimenti
alla carità.
Sulle varie interpretazioni e sulla diversità delle posizioni che
nel postconcilio hanno ravvivato il dibattito sulla “peculiare” consa-
crazione, esiste una nutrita letteratura. Gli Autori si sono divisi in di-
versi schieramenti, ognuno dei quali caratterizzato da una moltepli-
cità di sottolineature e di sfumature differenti nell’abbordare il pro-
blema 2.
Il magistero postconciliare mostra in merito una progressiva
maturazione dottrinale e un visibile approfondimento 3. Il “nuovo e
peculiare titolo” che caratterizza la vita dei consacrati viene inserito
in prospettive teologiche più ampie e profonde; la realtà da esso con-
figurata è messa in relazione a tutta l’attività salvifica della Trinità. Di
esso si afferma la dimensione esistenziale, dinamica, suscettibile di
approfondimento continuo in rapporto a una adesione sempre più to-
tale al Cristo. Se ne mette in luce la relazione con il carisma del Fon-
datore, come un dinamismo di profonda configurazione a quell’a-
spetto del mistero di Cristo da questo vissuto e trasmesso. Se ne
mette ancora in luce il legame peculiare con la natura sacramentale
della Chiesa nonché la sua dimensione apostolica 4. La “consacrazio-
ne” appare sempre più consapevolmente il concetto maggiormente
appropriato a esprimere quel centro unificante della grazia divina e

1
Cf in proposito S. RECCHI, Consacrazione mediante i consigli evangelici. Dal Concilio al Codice, Mila-
no 1988.
2
Cf ID., Linee per uno “status quaestionis”. La consacrazione mediante i consigli evangelici nella rifles-
sione teologica, in Vita Consacrata 23 (1987) 455-471.
3
Cf ID., Itinerario post-conciliare della vita religiosa, in Vita Consacrata 26 (1990) 736-745.
4
Cf B. SECONDIN, La consacrazione: frequenza, significati, prospettive, in L’identità dei consacrati nella
missione della Chiesa e il loro rapporto con il mondo (a cura dell’Istituto Claretiano), Libreria Editrice
Vaticana, 1994, 19.
156 Silvia Recchi

della risposta teologale di amore da parte dell’uomo che caratterizza


la vita secondo i consigli evangelici.
Infatti parlare di “consacrazione” per quanti professano i consi-
gli evangelici vuol dire soprattutto far riferimento a una realtà che
non è semplice cammino ascetico di perfezione cristiana, ma che è
un nuovo dono di grazia divina e un’inserzione più profonda nel mi-
stero pasquale di Cristo. «La consacrazione è alla base della vita reli-
giosa», dice il documento Elementi essenziali dell’insegnamento della
Chiesa sulla vita religiosa (n. 5); essa si definisce come un’alleanza,
«un patto di fedeltà e di amore reciproco, di comunione e missione,
stabilito per la gloria di Dio, la gioia della persona consacrata e la sal-
vezza del mondo». Una sintesi di particolare valore sarà rappresenta-
ta dall’esortazione apostolica Redemptionis donum. La coscienza di
appartenere a Dio, in Cristo, redentore e Sposo, dice il documento,
diventa nel religioso un sigillo che imprime nel suo cuore il marchio
della Sposa biblica (n. 8).
In tutta questa evoluzione una tappa particolarmente significati-
va è stata rappresentata dal Codice di diritto canonico. Il Codice ha
compiuto innanzitutto un passo che il Concilio non aveva fatto: ha
parlato ufficialmente di “vita consacrata” come di un genere dove più
specie sono possibili, ma dove l’elemento essenziale comune è e-
spresso dalla vita di professione dei consigli evangelici. L’aver adot-
tato in un documento ufficiale di tale rilevanza l’espressione “vita
consacrata” significava contribuire a operare delle opzioni: d’ora in
poi il concetto di “consacrazione” sarebbe stato fondamentale per
designare quanti nella Chiesa di Cristo avessero scelto la vita di pro-
fessione dei consigli evangelici. Questa scelta terminologica, come è
noto, non è stata senza difficoltà da parte dei redattori del Codice e
si è affermata nonostante le obiezioni di coloro che reputavano e-
quivoco e improprio parlare per antonomasia di “consacrati”, ri-
schiando di oscurare altre consacrazioni considerate più importanti
perché sacramentali 5.
Il Codice mostra come i consacrati, all’interno del popolo di
Dio, i cui membri hanno la stessa e medesima dignità sulla comune
base battesimale, rivestono uno status particolare. Questo status sup-
pone una distinzione tra la consacrazione data dal battesimo (e dalla
confermazione) e il “nuovo titolo”, giustificato sulla base di nuovi do-

5
Cf S. RECCHI, La natura della consacrazione mediante i consigli evangelici nel Codice, in Vita Consa-
crata 24 (1988) 740-755.
La consacrazione mediante i consigli evangelici nel dibattito sinodale 157

ni e carismi che rivolti in chiave personale con una vocazione specifi-


ca, consacrano colui che, chiamato, dà la sua adesione. Il processo di
consacrazione iniziato da Dio si compie nella risposta da parte del-
l’uomo che abbraccia la pratica effettiva e stabile dei consigli evange-
lici, accolta mediante il ministero della Chiesa. Quella realtà teologa-
le offre il concetto formale della consacrazione propria di tutte le for-
me di vita di sequela di Cristo mediante i consigli. Senza dubbio
perché si possa parlare di vita consacrata nel senso del Codice, cioè
di una vita pubblica e istituzionale nella Chiesa, ulteriori elementi so-
no necessari. Ma il nucleo è spiegato a partire dalla realtà teologale
della consacrazione intorno alla cui natura il Codice ovviamente, pur
insinuando delle opzioni, non dà risposte esplicite.

Il Sinodo
Il Sinodo sulla vita consacrata non poteva non riproporre l’attua-
lità di tali questioni e portare così all’attenzione di tutti quello che fi-
nora era stato un dibattito tra specialisti.
L’Instrumentum laboris (di seguito anche IL) introducendo in
maniera sistematica il dibattito sinodale sulla vita consacrata, faceva
cenno anche al problema concernente il suo statuto teologico. Esso
sottolinea la fondamentale dimensione cristocentrica della vita con-
sacrata, che si plasma sull’analogia di Colui che è il Consacrato per
eccellenza: il Figlio, consacrato e inviato dal Padre. Si tratta di una
unzione “interiore” a cui risponde il dono totale del Figlio che, con-
sacrato dal Padre, a sua volta si consacra al Padre e alla sua missio-
ne, offrendo tutto se stesso, per la salvezza degli uomini. L’Instru-
mentum laboris, citando il documento Elementi essenziali dell’inse-
gnamento della Chiesa sulla vita religiosa, afferma che l’espressione
più piena della consacrazione
«richiama l’impresa della Persona divina del Verbo sulla natura umana che
ha assunto, e invita a una risposta conforme a quella di Gesù: una dedizione
di se stesso a Dio secondo un modo che egli solo rende possibile e che testi-
monia la sua santità e il suo assoluto. Una tale consacrazione è un dono di
Dio: una grazia liberamente elargita»(IL 59).

Il passaggio ripreso dall’Instrumentum laboris sintetizza come


fondamentali i seguenti elementi: l’analogia con il Verbo, l’iniziativa
del Padre, la sua azione consacrante come carisma liberamente elar-
gito, la reciprocità dell’amore nella risposta del dono totale di sé.
158 Silvia Recchi

Nel paragrafo successivo viene considerato il rapporto tra la


consacrazione battesimale e la consacrazione mediante i consigli e-
vangelici: il battesimo e la cresima mettono il fedele in stato di dare
una risposta evangelica e filiale a imitazione di Cristo, rendendolo
capace di vivere pienamente le esigenze che sono quelle del discepo-
lo e della missione. La realtà di quanti professano i consigli evangeli-
ci comporta una consacrazione “speciale”, radicata nel battesimo
che essa esprime con una maggiore pienezza.
«La consacrazione comporta una grazia di scelta e un dono particolare dello
Spirito che prende possesso della persona, la configura al Cristo e la rende
capace di vivere secondo i consigli evangelici, nella linea del proprio cari-
sma; ma è anche, in risposta, un dono di sé, accettato e riconosciuto per
mezzo del ministero della Chiesa. [...] Nella sua essenza, il dono dei consigli
evangelici è una partecipazione alla verginità, alla povertà e all’obbedienza
del Cristo, o ancora una conformazione speciale al Cristo casto, povero e ob-
bediente che introduce alla sua maniera personale di vivere e di agire. [...]
Questo spiega perché la maniera di vivere di Gesù gli è assolutamente pro-
pria e perché colui che è chiamato a seguirla nella storia deve ricevere un
dono speciale che lo rende capace di assumerla come propria» (IL 50.51).

Questa sintesi presente nel testo dell’Instrumentum laboris e-


sprime il cammino di maturazione dottrinale che ha caratterizzato la
teologia della vita consacrata negli anni dopo il Concilio.
C’è un’azione divina che si esprime nella vocazione e nel cari-
sma con cui la persona viene consacrata; c’è una risposta personale
della persona investita dalla grazia; c’è un nuovo stato di vita nella se-
quela del Cristo povero, casto e obbediente e infine la missione che
da quella grazia sgorga e che si inserisce nell’adempimento dell’uni-
ca missione salvifica della Chiesa.
Il concetto di consacrazione per esprimere questa realtà appare
centrale. Alcuni Autori, proprio per sottolineare tale centralità, ne
mettono in luce l’analogia con le consacrazioni operate per mezzo
del battesimo e della confermazione, dell’ordine sacro e del matri-
monio 6. In questo senso essi parlano di varie dimensioni della stes-
sa realtà: una consacrazione divina, una consacrazione personale o
soggettiva, una consacrazione oggettiva e infine una consacrazione
funzionale 7. È esattamente questo schema a essere presente nella
Relazione introduttiva al Sinodo esposta dal card. Hume.

6
G. GHIRLANDA, L’Instrumentum laboris per il Sinodo sulla vita consacrata, in Periodica 83 (1994) 448-449.
7
Ibid., 450-451
La consacrazione mediante i consigli evangelici nel dibattito sinodale 159

L’importanza di una riflessione approfondita


La Relatio ante disceptationem del card. Hume nell’introdurre il
dibattito al Sinodo affronta dunque anche il problema della speciale
consacrazione concernente coloro che fanno professione dei consi-
gli evangelici. Al n. 13 si dice:
«Ci sono varie forme di consacrazione (cfr LG 44-45; PC 5). Il battesimo è la
consacrazione primaria e fondamentale (IL 41; 50) su cui si prolungano le
consacrazioni speciali o nuove, sia attraverso un sacramento (ordine sacro,
matrimonio e confermazione) o un rito ecclesiale speciale come per la pro-
fessione dei consigli evangelici. In ogni consacrazione ci sono quattro ele-
menti o dimensioni complementari e cosí in quella della vita consacrata:
– la consacrazione divina, data dalla vocazione e dall’intervento di Dio, san-
zionato da un rito ecclesiale;
– la consacrazione personale: è la risposta del chiamato che riconosce il do-
no e vi si impegna;
– la consacrazione oggettiva: è lo stato di vita derivante dal dono accettato;
– la consacrazione funzionale: è il munus, cioè il posto, la funzione o la mis-
sione della vita consacrata nella Chiesa» 8.

In questo modo la Relatio introduttiva esprime e giustifica l’uso


del termine “consacrazione” in riferimento a quanti nella Chiesa vi-
vono la professione dei consigli evangelici.
Sono molteplici gli interventi che nel Sinodo si sono riferiti al-
l’importanza di approfondire lo statuto teologico della vita consacra-
ta, ponendo un accento particolare sulle questioni dottrinali che defi-
niscono la sua identità nella Chiesa. Il card. Danneels ha posto in ter-
mini espliciti il problema:
«In primo luogo abbiamo il problema dell’identità della vita consacrata. Se lo
statuto del battezzato è il genere (genus), quale differenza specifica fa del
battezzato un consacrato? Infatti ai nostri giorni, accanto ai consacrati in sen-
so tradizionale della parola, si parla di laici consacrati, di vedovi e vedove
consacrate; esiste perfino una consacrazione dei divorziati abbandonati dal
loro coniuge. A forza di voler inglobare tutto nello stesso termine, ci si trova
nell’ambiguità più completa. Ci sono anche i concetti di carisma e di profeti-
smo. Cosa significano esattamente? C’è lo statuto della vita religiosa che vie-
ne o meno considerato come una specie di “terzo stato” nella Chiesa accanto
al clero e ai laici. Nei documenti si afferma chiaramente la superiorità ogget-
tiva della vita consacrata nella Chiesa rispetto alle altre condizioni di vita. A
chi è rivolto l’appello di Gesù all’assunzione dei consigli evangelici? A tutti i
discepoli oppure ad alcuni? i consacrati? Qual è insomma lo statuto ecclesiale

8
Cf G.B. HUME, Relatio ante disceptationem, in L’Osservatore Romano, 3 -4 ottobre 1994, n. 13, p. 11.
160 Silvia Recchi

e canonico dei voti privati fatti da una persona nelle mani del vescovo, senza
legame ad alcuna istituzione?» 9.

Il rapporto tra la vita cristiana in genere e la consacrazione reli-


giosa viene posto da varie parti con l’intento di evitare una visione
secondo la quale nella Chiesa vengono a esistere classi o persone
privilegiate. Preoccupazione questa che, come è noto, aveva condot-
to alcuni Padri conciliari a domandare che fosse evitato un capitolo
della Lumen gentium dedicato ai “Religiosi”, preferendo vedere que-
sti ultimi inseriti all’interno del capitolo sulla universale chiamata al-
la santità.
Secondo altri interventi, proprio il radicamento della vita reli-
giosa nella consacrazione battesimale ha incoraggiato nella vita ec-
clesiale un rapporto diverso delle persone consacrate con i loro fra-
telli e sorelle e scoraggiato al contempo una visione elitaria della vi-
ta consacrata 10. Il rapporto tra le consacrazioni sacramentali e la
consacrazione che definisce la vita di coloro che fanno professione
dei consigli evangelici è oggetto di varie considerazioni.
“La consacrazione fondamentale in sé è quella dei sacramenti, anzitutto
quella del battesimo, che non richiede alcun supplemento perché il cristiano
possa giungere alla perfezione della carità. Ogni altro tipo di consacrazione
può essere capito solo sulla base dei sacramenti dell’iniziazione cristiana e,
in modo analogico, in rapporto a quei sacramenti. La Chiesa si è già espres-
sa sulla natura di alcuni stati di vita che sono profondamente radicati nella
consacrazione battesimale e la esprimono con maggiore pienezza. Gli stati di
vita consacrata implicano al tempo stesso un rapporto specifico con Cristo,
con la Chiesa e con il mondo. Sulla base di questi dati relativamente chiari e
certi, si giunge alla nozione di “vita consacrata” in quanto dono di Dio, ma in
senso assoluto, senza alcuna predeterminazione. Si tratta di una nozione lar-
gamente utilizzata ma che, in quanto tale, finora non è mai stata definita pre-
cisamente dal magistero. Saremmo volentieri disposti a riconoscere che l’e-
spressione “vita consacrata”, in senso indeterminato, qualifica, semplice-
mente e come minimo, una vita donata a Dio nella sequela di Cristo nella
verginità e nel celibato per il Regno. Infatti LG 42 considera che tra questi
consigli (evangelici) c’è in primo luogo, quel dono prezioso della grazia fatto
dal Padre ad alcuni, di dedicarsi con maggiore facilità e senza divisioni di
cuore a Dio solo nella verginità e nel celibato” 11.

9
G. DANNEELS, Identità e questioni pastorali, in Il Regno - Documenti 39 (1994) 656.
10
Cf l’intervento di R.J. BARTHELET, vescovo titolare di Lamsorti (Canada), in L’Osservatore Romano, 8
ottobre 1994, p. 5.
11
Intervento di J. BONFILS, Vescovo di Viviers (Francia) a nome del Circolo francese “B”, in L’Osserva-
tore Romano, 21 ottobre 1994, p. 4.
La consacrazione mediante i consigli evangelici nel dibattito sinodale 161

In seno al dibattito sinodale viene esplicitata anche la necessità


di distinguere chiaramente ciò che costituisce il nucleo teologico
della realtà che determina la vita consacrata, dalla sua strutturazione
e organizzazione nella vita della Chiesa. Il primo aspetto appartiene
piuttosto alla vita teologale, mentre il secondo entra nel campo del
diritto canonico che ordina allora giuridicamente la vita consacrata 12.
Anche se i due aspetti non sono divisi né contrapposti, essi debbono
essere distinti. Una tale distinzione è necessaria per il discernimento
da operare nei confronti delle nuove forme di vita consacrata sulla
cui realtà il legislatore ecclesiastico, nel can. 605, ha lasciato una
porta aperta. A tale approfondimento inoltre – si afferma – costrin-
gono soprattutto le nuove comunità e le forme rinnovate di vita evan-
gelica: «Si tratta di quei problemi di frontiera che aiutano ad ap-
profondire la sostanza di una dottrina qui in particolare sulla natura
della “consacrazione”» 13.
«Il proprium della vita consacrata – sottolineano alcuni – non sta tanto nel
contenuto dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza e ancora
più ampiamente nel radicalismo della sequela Christi proposta a ogni cristia-
no, quanto nella modalità secondo cui vengono scelti e vissuti i consigli e il
radicalismo evangelici: da un lato i voti, o altri simili legami spirituali, e dal-
l’altro il loro riconoscimento e accoglienza da parte della Chiesa, special-
mente in un contesto liturgico (la benedizione). Ciò pone in luce il significa-
to essenziale e qualificante della vita consacrata: quello eminentemente teo-
centrico. Si tratta di una donazione totale di sé a Dio [...] Ma Dio non sta
unicamente al termine. Sta anche e innanzi tutto, al principio: dall’eternità
Dio si dona alla persona consacrata, ed è questo dono divino che rende pos-
sibile e nello stesso tempo esige il ridonarsi della persona consacrata» 14.

Che cosa è dunque la vita consacrata?, ci si chiede.


«Possiamo descriverla come la consacrazione radicale della persona umana
a Gesù Cristo e per mezzo di lui nello Spirito al Padre, fino al livello della re-
ciprocità affettiva. È una esperienza immediata di comunione con il Figlio di
Dio risorto, la cui caratteristica è l’alto livello di intersoggettività nell’amore,
in quanto la presenza dell’amato è all’interno dell’amante, è continua e va ol-
tre la mediazione corporea. Si esprime nel dialogo intimo costante e nell’in-

12
Cf l’intervento del Card. A. LORSCHEIDER, arcivescovo di Fortaleza (Brasile), in L’Osservatore Roma-
no, 7 ottobre 1994, p. 7.
13
Intervento del Card C.M. MARTINI, arcivescovo di Milano, in L’Osservatore Romano, 14 ottobre 1994,
p. 4.
14
Intervento di D. TETTAMANZI, all’epoca arcivescovo di Ancona-Osimo (Italia), Segretario generale
CEI, in L’Osservatore Romano, 15 ottobre 1994, p. 4.
162 Silvia Recchi

tenzionalità dell’amore capace di trasformare ogni azione in un segno di co-


munione con l’amato» 15.

Ulteriori aspetti in relazione al concetto di “consacrazione” so-


no quindi venuti in emergenza nel dibattito sinodale, quali per esem-
pio il suo legame profondo con la missione che da essa sgorga 16.
«La consacrazione mediante la professione dei consigli evangelici è una con-
sacrazione per la missione. Essa esprime le potenzialità della consacrazione
battesimale. Nella vita consacrata la missione ha la priorità e non è quindi
un’attività da aggiungere alla vita del consacrato...» 17.

Il Sinodo, come risulta, ha considerato fondamentale il bisogno


di approfondimento teologico dell’identità dei consacrati, affinché la
vita consacrata continui a prosperare come un canale di grazia tra-
sformante 18. L’augurio è stato quello di continuare una riflessione
proficua sui fondamenti teologici della vita consacrata 19. Ha afferma-
to il card. E. Casimir Szoka, Presidente della Prefettura degli affari
economici della Santa sede:
«Non credo che la mera ripetizione dei ben noti elementi centrali della vita
consacrata sia sufficiente. Ritengo che insistere su una teologia organica
della consacrazione e della vita consacrata possa portare i religiosi stessi a
una riflessione più profonda sul significato della loro vita e sulla loro identità
in seno alla Chiesa. Una chiara comprensione della consacrazione e dell’i-
dentità può portare a una migliore comprensione dell’importanza dei consi-
gli evangelici e della vita comunitaria» 20.

Alcune considerazioni
È indubbio che al Sinodo il concetto teologico-canonico di “con-
sacrazione” ha rappresentato uno degli elementi di riflessione più
centrali e importanti. Tale riflessione da una parte sembra consolida-

15
Cf intervento di L.P. MENDES DE ALMEIDA, arcivescovo di Mariana (Brasile) del 13 ottobre 1994, in Il
Regno - Documenti 39 (1994) 659.
16
Cf l’intervento del P. J.M. LASSO DE LA VEGA Y MIRANDA, Superiora Generale della Congregazione del
Santissimo Redentore, in L’Osservatore Romano, 7 ottobre 1994, p. 6.
17
Cf l’intervento di Sr. V.M. FINNEGAN, Superiora Generale delle Suore Carmelitane del Santissimo
Cuore di Los Angeles (USA) in L’Osservatore Romano, 13 ottobre 1994, p.10.
18
Cf l’intervento di P.G. BROWN, Presidente della Conferenza dei Superiori Maggiori USA, in L’Osser-
vatore Romano, 8 ottobre 1994, p. 7.
19
Cf anche l’intervento di P.M. AUGÉ, Preside dell’Istituto di Teologia della Vita Religiosa “Claretia-
num”, in L’Osservatore Romano, 13 ottobre 1994, p. 10.
20
L’Osservatore Romano, 16 ottobre 1994, p. 4.
La consacrazione mediante i consigli evangelici nel dibattito sinodale 163

re elementi acquisiti e dall’altra vuole stimolare a nuovi approfondi-


menti. Il Sinodo ha considerato comunque imprenscindibile il con-
cetto di consacrazione per quanti vivono la professione dei consigli
evangelici.
«Gesù Cristo è il primo consacrato e inviato – viene sintetizzato nel suo Mes-
saggio –. Ogni cristiano è consacrato da Dio nel Battesimo e nella Conferma-
zione ed è reso tempio dello Spirito Santo. Per la professione dei consigli
evangelici questa consacrazione fondata nel Battesimo e nella Confermazio-
ne, si fortifica in una forma peculiare. È una partecipazione profonda al mi-
stero pasquale di Cristo nella sua passione, morte e risurrezione salvifiche.
Il consacrato riceve quella grazia di unità per cui la consacrazione e la mis-
sione non sono due momenti di vita che si collocano uno accanto all’altro
senza relazione; piuttosto si implicano reciprocamente in profondità» 21.

Occorre aggiungere che, proprio in occasione del Sinodo, non


potevano non riemergere le difficoltà e le obiezioni in rapporto al
concetto di consacrazione che hanno caratterizzato la vasta letteratu-
ra in merito. Sono riaffiorate infatti le perplessità di quanti considera-
no tale opzione troppo “escludente” le altre forme di consacrazione e
che vedono il rischio di opporre la classe dei consacrati dal battesi-
mo e dalla confermazione ai “nuovi” consacrati 22. Sono emerse le
obiezioni di coloro che considerano troppo “essenzialista” una teolo-
gia della vita consacrata a partire dalla “consacrazione”, preferendo
optare per una teologia più articolata che recuperi maggiormente le
categorie di carisma, missione, sequela. O anche le obiezioni di colo-
ro che preferiscono lasciare alla vita consacrata uno “statuto aperto”,
che le permetta una continua creatività, un profetismo, un’audacia e
libertà da ogni schema.
Non sempre queste visioni si contrappongono, spesso esse si
integrano e completano a vicenda. Crediamo tuttavia che, perché il
Sinodo inneschi un meccanismo fecondo di riflessione, occorre evi-
tare il pericolo di non considerare che un lungo cammino è già stato
fatto e che molte domande poste in merito alla “consacrazione” di
chi vive la vita dei consigli non sono rimaste completamente senza
risposta e che lo stesso magistero della Chiesa in vari interventi ha
offerto orientamenti importanti. Non si tratta perciò di ricominciare
la riflessione da zero e vanificare quanto è maturato in questi anni.

21
L’Osservatore Romano, 29 ottobre 1994, p. 6.
22
Cf J. CASTAÑO, Riflessioni sulla terminologia della vita consacrata. Un “concetto” da chiarire, in Vita
Consacrata 30 (1994) 535 -443.
164 Silvia Recchi

Da parte nostra siamo convinti che la consacrazione come chia-


ve interpretativa di questo genere di vita ecclesiale ed evangelica, è
una delle acquisizioni che maggiormente hanno fatto progredire la
teologia della vita consacrata, mostrandone in profondità la natura e
la funzione ecclesiale. Non solo l’ha fatta progredire, ma proprio il
concetto di consacrazione ha permesso di operare una svolta fonda-
mentale, svincolando la “vita religiosa” da quella visione che la con-
cepiva come vita di perfezione morale, in cui era messo in luce il
cammino di ascesi da parte del fedele ed erano oscurate le dimensio-
ni carismatiche, teologali che fondavano e davano senso a quel cam-
mino. Il Vaticano II ha superato la visione dei precetti, della virtù di
religione, aprendo la prospettiva della vita consacrata a una realtà as-
sai più profonda, inserendola in una costituzione dogmatica sulla
Chiesa. Realtà che il Codice di diritto canonico ha saputo tradurre
con un linguaggio rinnovato e approfondito.
SILVIA RECCHI
Institut catholique
B.P. 11628 Yaoundé
Cameroun
165

Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici


nel Sinodo sulla vita consacrata
di Heidi Böhler

È chiaro che negli approfondimenti di questo Sinodo non si


poteva prescindere dalle realtà che costituiscono la stessa vita consa-
crata. Sin dai lavori preparatori, cioè nei Lineamenta e nell’Instru-
mentum laboris (di seguito anche IL), si può costatare la ferma inten-
zione di continuare le riflessioni a proposito della dottrina dei consi-
gli evangelici, sulla scia della riflessione conciliare, che – arricchita
dai documenti postconciliari – trovò nel Codice vigente forse ancora
maggiore chiarezza terminologica e respiro teologico e insieme ec-
clesiologico.

I Lineamenta
Ancora nei Lineamenta si dedica ai consigli evangelici non solo
un particolare titolo nella prima parte – riguardante natura e iden-
tità, e cioè gli elementi fondamentali della vita consacrata –, ma an-
cora prima di questo speciale titolo si riporta il can. 573 per definire
la vita consacrata, dicendo che si tratta di definizione teologica e ca-
nonica, che presenta gli elementi fondamentali della vita consacrata
nella Chiesa, alla luce della sintesi dottrinale della LG (cf Lineamen-
ta 5 a-b).
«La vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici è una for-
ma stabile di vita con la quale i fedeli seguendo Cristo più da vicino per l’a-
zione dello Spirito Santo, si danno totalmente a Dio amato sopra ogni cosa.
In tal modo, dedicandosi con nuovo e speciale titolo al suo onore, alla edifi-
cazione della Chiesa e alla salvezza del mondo, sono in grado di tendere alla
perfezione della carità nel servizio del Regno di Dio e, divenuti nella Chiesa
segno luminoso, preannunciano la gloria celeste» (can. 573 § 1).
166 Heidi Böhler

Il canone stabilisce infatti in questo suo primo paragrafo gli ele-


menti teologici ed ecclesiologici propri alla vita consacrata, concer-
nenti sempre strettamente la dottrina dei consigli evangelici: 1) la se-
quela di Cristo più da vicino; 2) l’azione dello Spirito Santo; 3) la con-
sacrazione totale a Dio; 4) la consacrazione all’edificazione della
Chiesa; 5) il nesso con la carità, in quanto per mezzo dei consigli
evangelici viene conseguita la perfezione della carità nel servizio del
Regno di Dio; 6) il segno escatologico. La rilevanza che in questo ca-
none i consigli acquistano invece per il diritto canonico consiste nel
fatto che essi sono mezzi costitutivi della consacrazione e forma sta-
bile di vita.
Nella stessa parte dei Lineamenta, sotto il titolo Vocazione, con-
sacrazione, missione, viene affermato:

«La vita consacrata ha in se stessa l’impronta trinitaria della vocazione divina


che viene dal Padre, si manifesta nella dedicazione a Dio sommamente ama-
to, si esprime nella risposta a Cristo Signore e Maestro che chiama alla sua
sequela, mediante la professione dei consigli evangelici di castità, povertà e
obbedienza, ed è retta dalla costante azione dello Spirito Santo che favorisce
l’accoglienza della chiamata, la fedeltà alla perfetta configurazione a Cristo e
alla totale donazione al suo servizio nella Chiesa» (Lineamenta 6a).

Si raccoglie così in una sintesi di particolare densità, che non si


riscontra nemmeno nella dottrina conciliare 1, il movimento trinitario
della chiamata alla professione dei consigli evangelici, la realizzazio-
ne della quale non è frutto di ascesi personale, ma si concretizza
giorno dopo giorno grazie alla costante azione dello Spirito Santo,
che favorisce la configurazione a Cristo e in Lui ci fa partecipi della
stessa vita trinitaria, in totale abbandono al Padre.
Ai nn. 7 e 8, concernenti più specificamente i consigli evange-
lici, dopo averne ribadito l’origine divina, si insiste ancora in questa
linea:

«Essi comportano la grazia della conformazione a Cristo, consacrato e invia-


to, ed esigono un amore personale e sponsale per Lui, come fondamento,
motivazione ultima, per poter vivere in comunione con il Signore e come
Lui, nella castità verginale, nella povertà volontaria e nella totale obbedienza
al Padre e al suo disegno di salvezza» (Lineamenta 7a).

1
La LG accenna al n. 47 a questo aspetto trinitario, ma non lo sviluppa in maniera così chiara.
Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici nel Sinodo sulla vita consacrata 167

Nella seguente presentazione dei singoli consigli, ci si limita a


riproporre esclusivamente la dottrina conciliare e postconciliare ri-
presa nei cann. 599-601 del CIC.
Al n. 8, invece, trova una nuova espressione la dimensione posi-
tiva dei consigli, in quanto vi si dice:
«La loro pratica, animata sempre da una profonda vita teologale di fede, spe-
ranza e carità, in una crescente tensione verso la perfezione dell’amore, por-
ta la persona alla maturità della vita in Cristo, favorisce la purificazione del
cuore e la libertà spirituale, rende i consacrati disponibili al servizio del Van-
gelo».

Essi ne manifestano il senso radicale e sono un “sì totale” all’a-


more di Dio e del prossimo e dimostrano nel nostro mondo il prima-
to dell’amore di Dio e del prossimo. È ancora in questo contesto che
– dopo aver ribadito l’origine divina dei consigli – si dice, precluden-
do qualsiasi visione restrittiva di essi, che i consigli «esigono la pro-
fessione integra del Vangelo» (Lineamenta 8b).
Nella seconda parte, dal titolo Varietà carismatica e pluralità di
Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, riportando
sempre chiaramente testi del Vaticano II, si parla dei consigli, in
quanto dono del Signore alla sua Chiesa e si afferma che spetta al-
l’autorità ecclesiastica la cura di interpretarli, di regolarne la pratica e
di stabilire, a partire da essi, forme stabili di vita (Lineamenta 15 a-b).
Di particolare interesse è nuovamente il n. 24, nel quale si tratta
di nuove forme di vita evangelica suscitate dallo Spirito Santo, fonda-
te sulla pratica dei consigli di castità, povertà e obbedienza, e li distin-
gue in due gruppi: a) vere e proprie forme di vita consacrata, rien-
tranti cioè nei quadri canonici già esistenti della vita consacrata o che,
come forme complementari nuove, con il discernimento dei vescovi
si avviano al riconoscimento canonico, che in quest’ultimo caso è di
competenza esclusiva della Sede Apostolica; b) alcune “comunità
nuove”, che si presentano con peculiarità simili alla vita consacrata,
ma in realtà non sono tali, o perché prive del riconoscimento canoni-
co, o perché incompatibili con le esigenze richieste per costituire una
forma di vita consacrata, nel caso della presenza degli sposati.
Lascia invece un po’ perplessi che si dica, poco più avanti:
«Vi sono, però, anche molti fedeli di Cristo che nei nostri tempi, individual-
mente o in forma associata, hanno abbracciato la verginità o il celibato, ed
anche la povertà volontaria e l’obbedienza, senza che tale impegno comporti
la professione pubblica dei consigli evangelici. Anche se queste forme non
168 Heidi Böhler

sono istituti di vita consacrata o a essa equiparati, arricchiscono la Chiesa


con la prassi della vita evangelica secondo i consigli» (Lineamenta 24c).

In questa asserzione, la vita consacrata sembra relegata ancora


una volta strettamente alla professione pubblica dei consigli (cf an-
che Lineamenta q. 1) 2.
Infine al n. 26, tra i Frutti di rinnovamento della vita consacra-
ta degli ultimi decenni, si annovera
«Una coscienza più lucida dei fondamenti evangelici e teologici della vita
consacrata, il suo senso cristologico, pneumatologico ed ecclesiale. Da qui de-
riva un rinnovamento della teologia della vita consacrata a partire dalle basi
bibliche della consacrazione e dei consigli evangelici in vista di un effettivo
rinnovamento della vita ed un maggiore discernimento dei valori».

Progresso che viene confermato come «giudizio positivo abba-


stanza convergente» anche nella prima parte dell’Instrumentum la-
boris (cf IL 22b).

L’Instrumentum laboris
Fatto maggiormente emergente nell’Instrumentum laboris è
che viene a cadere una chiara definizione della vita consacrata. Non
si riporta più, come nei Lineamenta, il can. 573 § 1 sopra citato, ma si
fa riferimento a esso, specificando dapprima che la terminologia “vi-
ta consacrata” è giudicata da alcuni «non del tutto adatta e talvolta di-
scriminante, quasi che gli altri cristiani non fossero radicalmente
“consacrati” con il battesimo» (IL 6c); precisando poi: «I termini
“consacrazione”, “vita consacrata” sono presi qui nel loro preciso
senso teologico, quale vita consacrata per mezzo dei consigli evange-
lici» (ibidem).
Altro fatto interessante è che, nel contesto delle nuove forme di
vita consacrata che la Chiesa riconosce, si definisce ora come deter-

2
Fattore che creò già serie difficoltà al riconoscimento degli istituti secolari, finché non si definì che
essi costituiscono «una vera e completa professione dei consigli evangelici nel secolo» (cf PF II;
PC 11). E anche per quanto riguarda la definizione della pubblicità nella professione dei consigli, essa
resta un problema ancora oggi discusso.
Comunque, anche nel testo in esame, non ci sembra di poter riscontrare una chiara distinzione tra isti-
tuti di vita consacrata – e dunque forme canonicamente erette –, vita consacrata, e infine professione
dei consigli evangelici, che però non costituisce vita consacrata. Si intuisce che la vita consacrata viene
vista di per sé solo negli istituti eretti (in fedeltà al Codice vigente), ma la si attribuisce già anche alle
forme avviate verso un riconoscimento come tale.
Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici nel Sinodo sulla vita consacrata 169

minante l’intervento dell’autorità ecclesiastica «nell’assunzione dei


consigli evangelici e quindi nella tutela e nella disciplina di essi» (IL
38c). In una precedente stesura del testo si affermava che tale inter-
vento era determinante «nella mediazione dell’atto di assunzione dei
consigli evangelici e quindi nella tutela e nella disciplina di essi». Pur
trattandosi di una differenza sottile, sembra più corretta la prima for-
mula, perché per quanto riguarda direttamente l’assunzione dei con-
sigli evangelici, non può essere determinante l’intervento della Chie-
sa, dal momento che è Dio che chiama l’uomo e lo abilita alla sua se-
quela nella via dei consigli evangelici. Si tratta di un processo, del
processo di un intimo dialogo tra Dio e l’uomo, tra Dio che chiama e
l’uomo che, se non fa morire l’invito di Dio in un monologo infinito,
rende viva la parola di Dio e si ritrova, nell’adesione all’amore di Dio,
inserito nello stesso circuito delle dimensioni di vita che intercorro-
no tra Padre, Figlio e Spirito Santo. È affidato invece alla Chiesa ciò
che è condensato molto bene nel can. 576: «interpretare i consigli e-
vangelici, regolarne la prassi con leggi, costituirne forme stabili di
vita mediante l’approvazione canonica». Entrambi i testi fanno e-
spresso riferimento a questo canone, pur considerando in verità solo
un suo particolare e – questo per quanto riguarda il testo definitivo –
in maniera non corretta.
Anche nell’Instrumentum laboris risulta evidente, sin dall’analisi
della vita consacrata nelle circostanze attuali, la dimensione positiva
dei consigli evangelici e la loro essenzialità per la vita consacrata:
«La vita consacrata, purificata anche da motivazioni ambigue che in altri
tempi potevano influire su questa scelta, offre alle inquietudini del cuore
umano la risposta libera e generosa che realizzano pienamente le persone
nella donazione a Dio attraverso i consigli evangelici, nella comunione e se-
quela del Maestro, nel quale si trova il germe di una nuova umanità più soli-
dale, più fraterna e più gioiosa. [...] La vita consacrata, come affermano mol-
ti, ha oggi l’audacia di porsi ancora per la professione dei consigli evangelici
come un grande progetto di Dio che offre ai fedeli di Cristo, uomini e donne
del nostro tempo, una pienezza di senso e di gioia, radicata nella parola e
nell’esempio stesso di Cristo» (IL 21b-c).

Anche nella parte propriamente dottrinale, dove si parla specifi-


camente dei consigli evangelici, viene sottolineata questa loro di-
mensione positiva:
«Nella sua essenza il dono dei consigli consiste nella partecipazione alla spe-
cifica verginità, povertà e obbedienza di Cristo ossia in una speciale confor-
mazione a Cristo casto, povero e obbediente. [...] La forma di vita di Gesù
170 Heidi Böhler

non è ricalcata sulle esigenze e sullo sviluppo dei dinamismi propri della
natura, ma direttamente sui valori del Regno e, quindi, sul superamento di
quei beni che nel piano ordinario del Creatore servono all’uomo per cresce-
re e svilupparsi. Egli non tende ad altro che ai beni del Regno dal quale è
preso» (IL 51b).

La trattazione del rapporto vocazione-consigli evangelici risulta


invece notevolmente impoverita, in quanto viene maggiormente in
rilievo la dimensione cristologica (cf IL 51a) e non più così chiara-
mente quell’impronta trinitaria (cf IL 51b), che era messa molto be-
ne in rilievo nei Lineamenta.
Nell’Instrumentum laboris troviamo invece ampliata la parte nel-
la quale si parla dei singoli consigli evangelici. Anche qui, però, non
riscontriamo apporti dottrinali di rilievo.
Si denota in generale, nella considerazione dei consigli evange-
lici dell’Instrumentum laboris, una certa non linearità; si possono
captare varie intuizioni di rilievo per la loro dottrina, senza che però
queste vengano conseguentemente sviluppate.
Ciò vale in particolare per la loro accentuazione trinitaria. Pur
facendo a più riprese riferimento alla Trinità, non viene focalizzato
che i consigli stessi costituiscono delle dimensioni trinitarie. Così al
n. 47 si afferma:
«La teologia della vita consacrata espressa dal Vaticano II e dai documenti
del Magistero posteriore ha evidenziato l’unità della vocazione, della consa-
crazione e della missione, in una esperienza di vita che porta il sigillo della
Trinità».

Impronta che però poi concretamente non viene letta nella vita
consacrata in se stessa, ma nella sua dimensione comunitaria:
«Per tutti la vita di comunità è un ideale e un cammino. Riflette il modello
trascendente della Trinità alla cui vita di unità Cristo vuol che siano configu-
rati i suoi discepoli. [...] I consigli evangelici, pur avendo una dimensione
strettamente personale, acquistano il loro autentico dinamismo divino e u-
mano nella comunione: la castità come maturità dei rapporti interpersonali,
la povertà come condivisione dei beni spirituali e materiali, l’obbedienza nel-
la libertà come convergenza e unità degli intenti e delle opere, sotto la guida
dell’autorità, esercitando il dinamismo e il discernimento comunitario in ciò
che è per la maggior gloria di Dio» (IL 56d-e).

Ciò non concorda con quanto detto al n. 55, nel contesto della
dimensione pasquale dei consigli evangelici, ove viene attribuita
Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici nel Sinodo sulla vita consacrata 171

chiaramente a essi un’impronta trinitaria intrinseca, nella loro di-


mensione verticale.
«I tre consigli evangelici esprimono la totalità dell’oblazione della persona,
ma comprendono anche altri aspetti che sono come l’espressione dell’unico
aspetto dell’atteggiamento filiale di Cristo nei confronti del Padre nel dinami-
smo dello Spirito Santo».

È evidente che questa dimensione verticale dei consigli si riflet-


te necessariamente su quella orizzontale, ma solo nella prima si può
sondare quale portata possano avere le dimensioni trinitarie nel rap-
porto interpersonale, nelle comunità di vita consacrata e nella stessa
compagine ecclesiale. E nel notare questa distinzione non si tratta di
semplice pedanteria, ma di una impostazione fondamentale che – se
tralasciata – toglie il senso all’esistenza propria degli eremiti e in
qualche modo anche degli istituti secolari.
Possiamo concludere che la diversa strutturazione, che in gene-
re ha migliorato il testo, ha portato invece, per quanto concerne i
consigli evangelici, a una maggiore dispersione della loro dottrina in
tutto il testo e così a minore chiarezza in materia.

L’Assemblea sinodale
Nell’Assemblea sinodale la dottrina dei consigli evangelici, in
pratica, non è stata presa in considerazione. Gli interventi al riguar-
do sono stati scarsissimi.
Nella Relatio ante disceptationem (di seguito anche RAD) del
card. Hume si afferma semplicemente che «in rapporto alle altre for-
me di sequela, propria a ogni vita cristiana, essa si specifica e si
esprime nella pratica dei consigli evangelici» (RAD 11). E poco più
avanti, quando si parla della ecclesialità della vita consacrata, viene
affermato: «Il dono della professione dei consigli evangelici è per la
santità sia di chi riceve tale dono che per la santità di tutta la Chiesa»
(RAD 12c).
Pur nella scarsità di riferimenti ai consigli evangelici, si può co-
munque intuire nuovamente meglio nella Relatio che nell’Instrumen-
tum laboris la dimensione trinitaria intrinseca a essi, quando si dice che
«lo stato dei consigli evangelici si pone e si comprende soprattutto nell’ordi-
ne della vita intrinseca della Chiesa, del suo mistero più profondo che con-
siste nella comunione con Dio, nell’imitazione di Cristo sotto l’azione dello
Spirito Santo» (ibidem).
172 Heidi Böhler

Gli interventi dei Padri e degli Auditores fanno riferimento ai


consigli evangelici quasi esclusivamente in relazione alla missione,
nel contesto delle altre Chiese cristiane e degli istituti secolari e – al-
meno per quanto riguarda questi ultimi – con massima precisione
terminologica e chiarezza dottrinale.
Riguardo alla testimonianza dei consigli evangelici, un primo in-
tervento è del vescovo di Bata della Guinea Equatoriale, il quale au-
spica che attraverso i consigli evangelici «di verginità castità e po-
vertà si attirino tutti gli uomini al Regno di Dio» e ammonisce in con-
clusione che la vita consacrata
«per avere senso ed essere essenzialmente ecclesiale per quanto attiene al
mistero e alla funzione della Chiesa nel contesto del piano di Dio, della Chie-
sa e del mondo di oggi, deve identificarsi nell’autentica sequela di Cristo, co-
sì come ce li presentano i Vangeli» 3.

Così l’arcivescovo di Ibadan (Nigeria), che constata nel suo


Paese un periodo turbolento per la vita consacrata, insiste particolar-
mente sui consigli evangelici 4. Altrettanto si fa nell’intervento del ve-
scovo di Diélbougou 5 (Burkina Faso) e della Superiora Generale del-
le Suore Ancelle della Beata Vergine Maria 6 (Zambia).
Mentre questi interventi, però, non entrano direttamente nelle
questioni dottrinali, pur toccandole evidentemente per l’inquadra-
mento della tematica, vi entra con molta perspicacia il Professor Tre-
salti 7 col proprio intervento, quando scinde la pratica dei consigli
evangelici dalle opere e afferma che la ricchezza dei valori evangeli-
ci viene potenziata dalla speciale consacrazione e dall’impegno della
vita secondo i consigli evangelici 8.
Per quanto riguarda poi gli interventi degli Auditores delle altre
Chiese cristiane, Hildegard-Lucia Cölln della Communität Casteller
Ring, sotto il titolo Le comunità religiose nel mondo luterano afferma:

3
A. SIMA NGUA, La testimonianza dei consigli evangelici per condurre gli uomini verso il Regno di Dio,
in L’Osservatore Romano 10 -11 ottobre 1994 p. 9.
4
Cf F. ALABA ADEOSIN JOB, La fedeltà ai consigli evangelici, in L’Osservatore Romano, 14 ottobre 1994, p. 6.
5
Cf J.-B. SOMÉ, Vita religiosa e consigli evangelici nel contesto africano, in Osservatore Romano, 10-11
ottobre 1994, p. 10.
6
Cf C. NAMALAMBO, I valori tradizionali nella formazione religiosa, in L’Osservatore Romano, 15 ottobre
1994, p. 5.
7
Presidente Generale dell’Istituto Cristo Re e Membro del Consiglio Esecutivo della Conferenza mon-
diale degli istituti secolari (CMIS).
8
Cf E. TRESALTI, Vocazione laicale e Istituti secolari, in L’Osservatore Romano, 8 0ttobre 1994, p. 6.
Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici nel Sinodo sulla vita consacrata 173

«Queste comunità ricercano nella vita secondo i consigli evangelici uno stile
di vita che renda liberi per Dio e per gli uomini. Il dono totale di sé avviene
nella professione dei voti. Le comunità, con tutte le loro diversità, sono luo-
ghi di vita spirituale vincolante, di fraternità vissuta, di vita e azione ecume-
nica e anche di servizio impegnato nella Chiesa e nel mondo» 9.

Come si può ben constatare non ci sono stati interventi dottri-


nali sui consigli evangelici nell’Assemblea sinodale. Interessante è
semplicemente constatare in generale la provenienza degli interven-
ti che ne fanno direttamente riferimento. E questa considerazione ha
determinato forse non poco il rilievo relativamente ampio che essi
trovano nel Messaggio del Sinodo, nel quale si parla dei consigli evan-
gelici sotto il titolo III, che fa riferimento all’indispensabilità della vi-
ta consacrata nella Chiesa, dando dapprima una certa qual definizio-
ne di quest’ultima.
«Coloro che abbracciano la vita consacrata sono attratti da Gesù e vogliono
vivere legati mediante i voti o altri vincoli sacri uniti più intimamente a Lui.
Con la verginità e il celibato vissuti in un amore disinteressato, rivelano che
Cristo, amato sopra ogni cosa, è l’eterno Sposo della Chiesa e, quindi, meta
e significato di ogni affetto e amore vero. Con la povertà scelta liberamente,
non soltanto testimoniano la loro solidarietà amorosa con i poveri e i disere-
dati, ma innanzitutto proclamano l’Assoluto di Dio, loro unica ricchezza. Con
l’obbedienza manifestano che sono posseduti da Gesù Cristo, e la loro esi-
stenza è totalmente orientata alla costruzione del Regno di Dio, e spinta per i
loro fratelli a partecipare, mediante il servizio e l’amore, a quella libertà che
è frutto del Cristo risorto» (Messaggio IIIc).

Nel paragrafo seguente viene messa in rilievo la dimensione pa-


squale dei consigli.
La cosa più sorprendente è forse notare che in questo testo i
consigli evangelici vengono rapportati persino alla cultura: «La vita-
lità dei consigli evangelici interpella una cultura in crisi dell’ultima
modernità e offre, a donne e uomini, vittime del disincanto, modelli
capaci di trasformare la loro vita» (Messaggio VIf).
Questo Messaggio, però, pur reinserendo nettamente i consigli
nel loro humus teologico e dedicando loro ampio spazio, non si con-
traddistingue per apporti dottrinali di rilievo.

9
H.-L. CÖLLN, Le comunità religiose nel mondo luterano, in L’Osservatore Romano, 15 ottobre 1994, p. 6.
174 Heidi Böhler

Le Proposizioni
Visto quanto fin qui detto, reca meraviglia che ai consigli e-
vangelici venga dedicata circa l’ottava parte delle Proposizioni sotto-
poste al Santo Padre e che esse presentino delle intuizioni dottrinali
che fanno ben sperare per quanto riguarda un ulteriore sviluppo in
materia.
Una prima, ampia trattazione la troviamo nella Propositio 3 con-
cernente l’indole e la natura della vita consacrata; ponendo come
presupposto dottrinale la dottrina conciliare e le definizioni di CIC e
CCEO, si invita a tenere in considerazione quanto segue:
«La consacrazione battesimale dei fedeli per una risposta più radicale si tra-
duce nella sequela di Cristo mediante la scelta dei consigli evangelici, per
mezzo di un certo vincolo sacro riconosciuto dalla Chiesa».

Anche questa asserzione però, rispetto ai consigli, non apporta


ancora alcuna novità di rilievo.
Si pone poi la castità come elemento «primario ed essenziale
della stessa vita consacrata» e relativamente ai consigli evangelici,
dei quali si affermano le radici bibliche, si considera necessario indi-
care l’aspetto ecclesiologico, escatologico e antropologico. Lascia un
po’ perplessi che queste radici bibliche vengano in seguito indicate
nella nota trinitaria della vocazione divina che la vita consacrata ha in
se stessa, mentre a fondamento cristologico e pneumatologico viene
detto che
«L’essenza della vita consacrata per mezzo dei consigli evangelici consiste
nella vita filiale nell’unico Figlio e imita più da vicino, in modo stabile e
radicale, la forma di vita secondo la quale lo stesso Cristo visse. Nel suo tota-
le sacrificio della croce, Cristo afferma l’assoluta trascendenza di Dio sopra
tutti i beni creati, vince il peccato nella sua carne e dona agli uomini la nuova
vita della resurrezione».

Proprio in questa affermazione si potrebbe individuare l’ele-


mento centrale e unificante della dottrina dei consigli evangelici, per-
ché i singoli consigli non sono altro che espressione determinante
dell’unico atteggiamento filiale di Cristo, nel quale essi non soltanto
trovano una loro impronta trinitaria, ma divengono espressione di
rapporto o comunione trinitaria e in questo stesso rapporto trinitario
i consigli evangelici trovano la massima espressione del loro fonda-
mento cristologico e pneumatologico, del loro aspetto ecclesiologi-
Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici nel Sinodo sulla vita consacrata 175

co, escatologico e antropologico. Sviluppando le riflessioni concer-


nenti i consigli evangelici in questo senso, si potrebbe arrivare a rile-
vanti progressi in materia.
Passando poi alla considerazione dei singoli consigli, parlando
della castità la si pone nuovamente nella Propositio 17 come «porta
della vita consacrata», dopo averla già indicata nella Propositio 3 co-
me «elemento primario ed essenziale della stessa vita consacrata».
Fattore che potrebbe risultare riduttivo, perché dovrebbe essere
proprio delle varietà carismatiche accentuare ora l’uno ora l’altro dei
tre consigli della triade classica.
In generale, però, anche in questa ampia trattazione dei singoli
consigli non si riscontrano novità di rilievo.

Conclusione
Non si può dire che nel complesso dei lavori di questo Sinodo
non si sia tenuta in giusta considerazione la dottrina dei consigli
evangeli, anche se bisogna constatare che non si sono compiuti par-
ticolari sforzi di approfondimento al riguardo. È dunque auspicabile
che si prosegua invece in questo senso, secondo le indicazioni, ma
forse soprattutto secondo le intuizioni contenute nelle proposizioni,
anche se forse di per sé si potrebbe già considerare un progresso in
materia l’affermazione, oggi tacita, dell’impronta trinitaria della vita
consacrata, vissuta nell’atteggiamento filiale dei consigli evangelici 10.

HEIDI BÖHLER
Via della Stazione, 2
00040 Castel Gandolfo
(Roma)

10
La tendenza in questo senso dei documenti postconciliari, ma anche di autori contemporanei è stata
ampiamente approfondita in un mio precedente studio dal titolo: I consigli evangelici in prospettiva tri-
nitaria, Milano 1993, 245 pp.
176

Il Sinodo sulla vita consacrata:


un’opportunità per gli istituti secolari
di Tiziano Vanzetto

«Per quanto concerne gli istituti secolari, il Sinodo ha rappresentato un’op-


portunità di mettere in evidenza in termini più esistenziali ed esperienziali
quanto già in dottrina e in diritto è da considerarsi acquisito».

Questa affermazione la troviamo in un recente articolo di E.


Tresalti, uditore al Sinodo dei Vescovi sulla vita consacrata 1. L’affer-
mazione esprime l’esperienza positiva fatta come partecipante al Si-
nodo a titolo di uditore, in qualità di rappresentante degli istituti se-
colari.
In questo articolo si cercherà di rendere ragione di questa op-
portunità, ripercorrendo le tappe che dai Lineamenta hanno portato
fino alla formulazione delle Propositiones. Più precisamente si cer-
cherà di vedere quali questioni sono state affrontate, quali risposte
sono state date e quali problemi rimangono eventualmente aperti a
proposito degli istituti secolari. Sembra evidente che agli istituti se-
colari interessa tutta la vasta problematica che riguarda la vita consa-
crata considerata nell’oggi della Chiesa e del mondo e nella sua natu-
ra (identità) di stato di vita ecclesiale; tuttavia, come per le altre for-
me di vita consacrata, anche per gli istituti secolari si sono riservate
alcune considerazioni specifiche. Su queste si vuole fermare l’atten-
zione. Pertanto si rimanda ad altri studi, in particolare a quelli pre-
senti in questo numero della nostra rivista, per l’approfondimento
degli scopi e delle problematiche generali del Sinodo.

1
E. TRESALTI, Esistono anche gli Istituti secolari, in Vita Consacrata 31 (1995) 97.
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 177

I Lineamenta 2
Dopo una introduzione il documento si articolava in tre parti e
una conclusione. Le parti erano così suddivise: I. Natura e identità
della vita consacrata; II. La vita consacrata nella Chiesa e nel mondo
di oggi; III. Missione della vita consacrata.
In maniera esplicita si fa riferimento agli istituti secolari nella
prima parte: al n. 16 dove si dice che gli istituti secolari sono «la no-
vità tipica del nostro secolo»; al n. 18 dove vengono annoverati tra le
forme di vita consacrata; al n. 22 dove vengono evidenziati gli ele-
menti peculiari degli istituti secolari. Questo numero si presenta
suddiviso in tre paragrafi:
a) si riprende, citandolo integralmente, il n. 11 dell Decreto
conciliare Perfectae caritatis, dove si insiste su tre elementi: consa-
crazione, apostolato e secolarità, la quale caratterizza la fisionomia
specifica dei primi due elementi;
b) si riconosce che esistono istituti secolari laicali e sacerdotali;
c) si approfondisce lo stato dei membri degli istituti secolari lai-
cali affermando che questi «restano laici, impegnati nei valori seco-
lari propri del laicato»; si vuole così riprendere i cann. 710 e 713
del CIC.
Al termine di questa prima parte agli istituti secolari viene indi-
rizzata la questione n. 9:
«In modo particolare come sono oggi presenti con i propri valori gli Istituti
secolari ? quali sono le opportunità e le difficoltà più rilevanti per la testimo-
nianza specifica della laicità consacrata dei membri degli istituti secolari nel-
la chiesa universale e nella chiesa locale?»

Su questo testo si sono fatte delle osservazioni, alcune delle


quali è doveroso riprendere:

1) Ci si lamenta di una certa carenza e povertà del documento


nel presentare la realtà degli istituti secolari (Oberti 3; Beyer 4). Som-
maruga lamenta il fatto che nei Lineamenta si citino solo i documen-

2
SINODO DEI VESCOVI – IX ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, La vita consacrata e la sua missione nella
Chiesa e nel mondo - Lineamenta, in L’0sservatore Romano, 21 novembre 1992, I-XVI e in Il Regno - Do-
cumenti 38 (1993) 73-91.
3
A. OBERTI, Gli Istituti secolari (Lineamenta nn. 18b, 22), in Vita Consacrata 29 (1993) 714-718.
4
J. BEYER, Gli aspetti “giuridici” della vita consacrata nei “Lineamenta”, in Vita Consacrata 29 (1993)
556 -570.
178 Tiziano Vanzetto

ti che si riferiscono ai religiosi e si ignorino quelli che si riferiscono


agli istituti secolari. Per esempio, al n. 2 dei Lineamenta si cita la
Evangelii nuntiandi al n. 69 e non si richiama il n. 70 rivolto agli isti-
tuti secolari 5. In generale viene notata una poca precisione nel lin-
guaggio, nel senso che l’espressione vita religiosa viene adoperata
indistintamente sia per parlare degli istituti religiosi sia per parlare
di tutti gli istituti di vita consacrata 6.
2) Viene sollevata la questione degli istituti secolari sacerdotali.
Secondo Oberti è una grave lacuna aver solo «registrato» la duplice
tipologia di istituti secolari, cioè quella laicale e quella sacerdotale.
La tipologia sacerdotale, secondo l’Autore, è una «pietra d’inciampo»
che impedisce la reale e piena comprensione «del carisma originario
di questa forma di vita consacrata» 7. Anche Beyer lamenta che agli
istituti sacerdotali si faccia solo un frettoloso cenno, mentre questa
realtà richiederebbe un approfondimento, poiché «essa è una ric-
chezza per la Chiesa e il clero diocesano» 8.
3) Ciò che, per Oberti, sembra assente in questo documento è
soprattutto «il senso di una vocazione, di un carisma e di una missio-
ne peculiari così come si sono manifestati e si manifestano nella
Chiesa per la testimonianza personale dei membri degli istituti seco-
lari». Per questo egli auspica che il Sinodo ponga in risalto questa
vocazione richiamando non solo il Concilio e il Codice, ma anche il
magistero di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, della terza Conferenza
dell’episcopato latino-americano di Puebla e quanto era stato detto al
n. 61 dell’Instrumentum laboris preparato per il VII Sinodo dei vesco-
vi sui laici 9.
Su questa stessa linea Beyer afferma che bisognerebbe definire
meglio le esigenze della vita consacrata secolare (discrezione, pa-
ziente attesa, inserzione nel mondo), così che quelli che non posso-
no rispondere a queste esigenze possano meglio trovare il loro posto

5
G. SOMMARUGA, I Lineamenta del Sinodo e gli Istituti secolari. Un vestito troppo stretto, in Testimoni 11
(15 giugno 1993) 18. Si poteva almeno citare il documento sugli istituti secolari inviato alle Conferenze
episcopali dopo la promulgazione del Codice: SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECO-
LARI, Informative document Since 1947 to episcopal conferences about secular institutes January 6, 1984,
in Informationes SCRIS 10 (1984)1, 77-103; versione italiana: in CMIS - Dialogo XII (1984) 61-63,
37-43.58-63; 97-104; e in EV 9, 566-604.
6
Il Truzzi auspica che si possa chiarire che consacrati non è uguale a religiosi, come ancora appare
dai Lineamenta (C. TRUZZI, Verso il Sinodo sulla vita consacrata, in Incontro - CIIS 3 [1994] 8-10).
7
A. OBERTI, Gli Istituti secolari..., cit., p. 716.
8
J. BEYER, Gli aspetti “giuridici”..., cit., p. 566.
9
A. OBERTI, Gli Istituti secolari..., cit., p. 717. Per quanto riguarda il citato Instrumentum laboris prepa-
rato per la VII Assemblea Generale del Sinodo dei vescovi, vedi EV 10 1710.
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 179

e una fisionomia più confacente a loro (vita comune visibile, aposto-


lato specializzato, presenza troppo affermata) 10.
In sintesi sembra che le questioni sollevate si possano riassu-
mere in questa esigenza: chiarire l’identità degli istituti secolari fa-
cendo emergere in maniera positiva la loro peculiarità e rispondendo
alla questione se e in che senso gli istituti secolari sacerdotali possa-
no essere annoverati nella forma di vita della secolarità consacrata 11.

Le risposte degli istituti secolari ai Lineamenta


Scopo dei Lineamenta era quello di promuovere una riflessione
in profondità sul tema, ottenere informazioni utili circa le vere ur-
genze pastorali, istituire o rinforzare le strutture di dialogo tra vesco-
vi e istituti di vita consacrata 12. Pertanto era giusto e doveroso aspet-
tarsi che gli istituti secolari dessero in questo senso il loro contribu-
to in vista della celebrazione del Sinodo.
L’Instrumentum laboris, al n. 3, afferma che i Lineamenta hanno
suscitato una vasta eco e il segno di interesse suscitato dal Sinodo vie-
ne dal grande e qualificato numero di risposte ufficiali pervenute alla
segreteria, tra cui quelle dalla Conferenza mondiale degli istituti seco-
lari (CMIS). Esaminando quanto è stato riportato dalla rivista di colle-
gamento Dialogo a cura della CMIS, nel periodo che segue la pubbli-
cazione dei Lineamenta, si scopre che in questa rivista non è stato
pubblicato alcun contributo specifico, né una sintesi delle risposte per-
venute, eccetto alcune riflessioni a cura della Conferenza nazionale bel-
ga degli istituti secolari francofoni 13. Questo testo, però, non contiene
altro che delle riflessioni molto generiche, anche se interessanti, che
non entrano nel vivo delle problematiche sollevate dai Lineamenta.
Interessante invece è il contributo offerto dagli istituti secolari
italiani e pubblicato nella loro rivista di collegamento Incontro 14. Il

10
J. BEYER, Gli aspetti “giuridici”...., cit., p. 566.
11
Si veda, per esempio, la voce Istituti Secolari nel Dizionario Teologico della Vita Consacrata, Àncora,
Milano 1994, p. 879, dove l’Autrice, M.T. CLESTA POLO, sostiene la necessità di uno studio specifico sulla
materia.
12
Dalla presentazione al documento di J.P. SCHOTTE, segretario generale.
13
CONFERENZA NAZIONALE BELGA DEGLI ISTITUTI SECOLARI FRANCOFONI, Riflessioni sui “Lineamenta” al
Sinodo ’94, in CMIS - Dialogo XXII (1994) 100, 17-21.
14
Risposte al questionario dei Lineamenta per il Sinodo dei Vescovi sulla vita consacrata, in Incontro -
CIIS 4 (1993) 37-49 (si tratta del documento preparato dalla Conferenza Italiana Istituti Secolari, appro-
vato dall’assemblea generale del 14 -16 maggio 1993 e spedito alla CMIS e alla Congregazione per la vi-
ta consacrata).
180 Tiziano Vanzetto

contributo si presenta molto articolato. Vi si affrontano tutte le que-


stioni poste dai Lineamenta nelle rispettive tre parti del documento,
fatta eccezione per quelle domande che riguardavano specificatamen-
te e solo gli istituti religiosi. Questo tentativo di dare una risposta a
tutto non si può che considerare in maniera positiva. Infatti tutti gli
aspetti riguardanti la vita consacrata, cioè la sua natura, la situazione
attuale, la sua dimensione ecclesiale e apostolica toccano in maniera
propria e specifica gli istituti secolari. Una relazione completa di que-
sto documento non è possibile nell’ambito del presente articolo, an-
che se sarebbe quanto mai interessante. Però si possono mettere in
evidenza alcune delle questioni che sembrano più interessanti.
1) Una prima questione concerne il linguaggio. A questo propo-
sito il documento fa le seguenti precisazioni che diventano anche ri-
chieste:
– si chiede che sia preferita l’espressione secolarità consacrata
anziché laicità consacrata e questo per rispetto agli istituti secolari
sacerdotali (q. 9, p. 42);
– si ritiene necessario che sia precisato che cosa si intende per
secolarità, descrivendo ciò che, per i membri di istituti secolari, è
comune ai laici e ai presbiteri, distinguendo da ciò che è specifico
(q. 35, p. 49);
– si sottolinea che l’espressione professione pubblica dei consigli
evangelici è specifica della vita religiosa «mentre per gli istituti seco-
lari si tratta di una consacrazione nota alla Chiesa, ma vissuta nella
secolarità» (q. 1, p. 37) 15.
2) Un’altra area di discussione concerne la natura e l’identità
specifica di questa forma di vita che è la secolarità consacrata. A tal
proposito si elencano gli elementi costitutivi e fra loro inseparabili
della secolarità consacrata:
– consacrazione e secolarità
– apostolato di testimonianza, di impegno nel sociale, di evange-
lizzazione
15
I cann. 712 e 723 usano il termine assumuntur - assumat, cioè assumere per indicare come i consigli
evangelici vengono scelti come impegno e stile di vita evangelico. Comunque le norme generali usano
il termine profiteri - professio, cioè professare - professione (cann. 207, par. 2; 573, par. 1 e 2; 574, par. 1)
indistintamente per tutte le forme di vita consacrata e questo non sembra costituisca problema. Altret-
tanto non dovrebbe costituire problema l’aggettivo pubblica quando è chiaro che ciò non si riferisce al-
la diffusa e aperta notorietà del fatto, quanto alla sua ufficiale cittadinanza nella Chiesa che accoglie e
riconosce l’assunzione dei consigli evangelici e l’impegno a viverli come parte della propria vita. L’In-
strumentum laboris al n. 33, riservato agli istituti secolari, esordirà usando proprio il termine professio-
ne: «I membri degli istituti secolari con la professione dei consigli evangelici...».
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 181

– fraternità senza comunità di vita che è vera comunione


– forma esterna di vita che non distingue dall’ambiente.
A questi elementi costitutivi vanno aggiunti i valori specifici che
sono: santificazione delle realtà temporali; immersione nella storia;
mediazione tra istanze dell’uomo e autentica religiosità.
Ciascuno dei punti elencati come elementi costitutivi solleva al-
trettante questioni oppure offre l’occasione di ribadire dei punti fermi.

3) Per quanto riguarda consacrazione e secolarità si ribadisce,


citando il can. 711, che i membri degli istituti secolari non cambiano
la loro condizione canonica di laici e chierici (q. 2 e q. 4, p. 39), ma
non si manca di sottolineare che c’è «difficoltà a capire l’opportunità
e la convenienza, per chi ha già la consacrazione presbiterale, di una
ulteriore consacrazione con i voti» (q. 1, p. 37) 16.

4) Le questioni relative all’azione apostolica toccano il plurali-


smo delle forme; ci sono cioè istituti secolari che prevedono che i lo-
ro membri vivano un apostolato nella diaspora con tutti i problemi
connessi con la formazione iniziale e permanente dei membri (q. 15,
p. 44), la riacculturazione del carisma (q. 13, p. 43), la sfida che pro-
viene dai mutamenti culturali (q. 16, p. 44-45) e ci sono istituti se-
colari che prevedono anche il sostegno di opere determinate (q. 2 e
q. 4, p. 40). Si tiene a sottolineare, però, che il fatto che queste opere
sono portate avanti nella laicità, competenza e professionalità per-
mette loro di non perdere la caratterizzazione «secolare» (ivi). Sulla
questione delle opere si fa anche un’affermazione importante:

«Più che opere “di Istituto” per gli Istituti secolari occorrono iniziative secola-
ri chiaramente specificate sul piano giuridico, organizzativo e funzionale dalle
esigenze di un servizio competente, efficace ed efficiente» (q. 24, p. 48).

16
Si deve però anche dare atto che a proposito degli istituti secolari sacerdotali la risposta alle qq. 2 e
4 specifica in maniera sufficientemente chiara questo argomento: «Una notazione particolare meritano
gli istituti secolari presbiterali i quali presentano come nota specifica la diocesanità (cf Pastores dabo
vobis, 81). I presbiteri che ne fanno parte, mediante i vincoli sacri si impegnano a vivere il proprio mini-
stero con radicalità evangelica. Ciò costituisce per essi una modalità del vivere la comune carità pasto-
rale (cf CIC 711) che caratterizza i ministri ordinati. Per i presbiteri l’appartenenza a un istituto secola-
re non soltanto non li estranea dal loro presbiterio diocesano, ma ve li inserisce con più serio impegno
e più cosciente responsabilità. Il sacerdote e il diacono chiamati a questa esperienza si sentono vincola-
ti a una maggiore unità con i confratelli, a un apostolato dinamico e missionario: guardano con simpatia
al mondo, redento e amato da Cristo, e rispettano la giusta autonomia delle realtà temporali» (Risposte
al questionario..., p. 39).
182 Tiziano Vanzetto

Sembra che questa affermazione si possa intendere anche nel


senso che l’istituto organizza delle iniziative secolari dando a queste
una struttura giuridica autonoma rispetto all’istituto. In questo senso
le iniziative possono essere gestite e portate avanti anche da persone
non consacrate o in collaborazione con loro o assumendole come di-
pendenti.

5) Il tema della fraternità è trattato nella risposta alla q. 3. Qui si


dice che c’è un pluralismo tra gli istituti secolari nel vivere concreta-
mente la dimensione comunitaria della vita consacrata. Ci sono, cioè,
istituti nei quali i membri vivono soli oppure in famiglia e ci sono isti-
tuti nei quali si prevedono forme di convivenza in comunità di vita
fraterna (cf can. 714). Comunque si ribadisce che, in qualsiasi forma
si viva, la dimensione comunitaria è sempre realizzata. È necessario
sottolineare come termina la risposta a questa questione:
«Caratteristica degli istituti secolari, invece, è la vita in “diaspora”. Anche in
questo caso la fraternità effettiva è determinata dalla comune condivisione
del carisma dell’istituto che si cementa nei rapporti con i responsabili istitu-
zionalmente richiesti e in incontri comunitari periodici. Ma con una certa
frequenza la fragilità dei centri logistici propri dell’istituto e la distanza geo-
grafica dei membri determinano difficoltà reali di incontro» (p. 41).

Pertanto se si deve cercare quale è la caratteristica degli istituti


secolari, questa è la vita in diaspora, e tale forma di vita è anche fon-
te di difficoltà. L’ammettere la difficoltà, però, non significa che la
forma non abbia in sé un valore e non debba essere mantenuta.

6) L’ultimo elemento che viene elencato come costitutivo della


secolarità consacrata è la «forma esterna di vita che non si distingue
dall’ambiente» (q. 2 e q. 4, p. 39). Questo aspetto richiama il proble-
ma del riserbo. In pratica, con il termine “riserbo” si vuole indicare
che i membri degli istituti secolari per poter essere pienamente laici
tra i laici e presbiteri tra i presbiteri vivono il loro impegno di testi-
monianza cristiana – di apostolato presbiterale e di fedeltà alla pro-
pria consacrazione – senza farsi riconoscere nel loro essere in vita
consacrata.
La questione è trattata, nel documento che si sta esaminando,
in un modo che rivela un certo disagio: da una parte si dice che il ri-
serbo è necessario perché garantisce «l’azione dei singoli nel socia-
le», dall’altra si aggiunge che «in ogni caso la questione del riserbo
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 183

non dovrebbe porsi nei rapporti con la comunità ecclesiale» (q. 3,


p. 41). Inoltre quando si passa a parlare del problema vocazionale si
dice che, oltre ai problemi generali comuni agli istituti religiosi, gli
istituti secolari
«non sono favoriti dal “riserbo” a far conoscere la propria posizione persona-
le, cosa che di fatto ostacola una conoscenza diffusa, all’interno e all’esterno
delle comunità ecclesiali della nostra specifica vocazione» (q. 14, p. 44) 17.

L’Instrumentum laboris 18
L’Instrumentum laboris, nella sua parte introduttiva, dopo aver
ricordato che attualmente si contano 165 istituti secolari nella Chie-
sa, di diritto pontificio o di diritto diocesano, clericali e laicali (n. 5),
fa una precisazione terminologica molto importante. Il documento
cioè afferma che, in conformità con il Codice di diritto canonico, si
deve usare l’espressione vita consacrata quando si intende parlare
della «vita consacrata per mezzo dei consigli evangelici» riconosciu-
ta dalla Chiesa come tale e comprendente sia gli istituti religiosi che
gli istituti secolari, le vergini e gli eremiti. Inoltre, il documento si
propone anche di offrire delle stimolazioni per ciascuna delle forme
di vita consacrata, e precisa: «Tale discorso specifico è rivendicato
soprattutto dalla natura, missione specifica degli istituti secolari che
hanno connotati tipicamente diversi per la loro indole secolare di vi-
ta e di apostolato» (n. 6). Quindi il discorso dovrà abbracciare tutte
le forme di vita consacrata ed essere nello stesso tempo attento a ciò
che le accomuna e a ciò che le caratterizza e diversifica.
Si deve dare atto che il documento è stato fedele a questo suo
proposito e annunciazione di metodo. Pertanto, nell’ottica degli isti-

17
In un recente articolo di C. Truzzi, il riserbo è chiamato l’elemento più enigmatico, oggetto di discus-
sioni e attenuazioni. Secondo l’Autore gli istituti che lo praticano non sembrano intenzionati a lasciarlo.
L’Autore lo giustifica come comandato dall’apostolato e questo non soltanto per un motivo tattico, ma
anche per un motivo più profondo: «Poiché viviamo in una cultura nella quale l’uomo è posto al centro
di tutto come valore indiscutibile, si vuole piuttosto mostrare, con l’azione e gli atteggiamenti, che
quanto ci viene da Cristo è bene per l’uomo come tale, indipendentemente per sé dai legami e dagli in-
teressi di chiesa; le scelte compiute dal membro di un istituto secolare si presentano come scelte che
un uomo e una donna fanno per convinzione personale, come qualcosa dunque che qualunque essere
umano è provocato a fare...» (C. TRUZZI, La consacrazione secolare: percorsi esistenziali, in Incontro -
CIIS 4 (1994) 12-16). Questa mi sembra una risposta al problema che offre una pista molto valida per
non perdere o anche sminuire quello che per molti istituti secolari è stata una caratteristica del loro ca-
risma.
18
SINODO DEI VESCOVI - IX ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, La vita consacrata e la sua missione nella
Chiesa e nel mondo – L’Instrumentum Laboris, in Il Regno - Documenti 39 (1994) 455-492.
184 Tiziano Vanzetto

tuti secolari l’Instrumentum laboris deve essere letto e considerato


non soltanto tutte quelle volte in cui fa esplicito riferimento agli isti-
tuti secolari, ma anche quando a essi si rivolge trattando aspetti che
riguardano la vita consacrata considerata per ciò che ha di comune e
di essenziale in tutte le sue forme.
Per i limiti di questo studio si considereranno solamente quelle
parti del documento che si rivolgono agli istituti secolari in maniera
esplicita e specifica.
A tal proposito va subito detto che l’Instrumentum laboris oltre
a dedicare agli istituti secolari il n. 33, nel contesto riguardante que-
stioni specifiche di alcune forme di vita, accenna esplicitamente a es-
si anche in altri numeri sparsi in tutte le parti del documento 19.
Ma ecco, in forma schematica, il contenuto del n. 33 dell’Instru-
mentum laboris:

Affermazioni di fondo
* I membri degli istituti secolari con la professione dei consigli
evangelici esprimono e realizzano la loro consacrazione nell’attività
apostolica «e come fermento si sforzano di permeare ogni realtà di
spirito evangelico». Pertanto:
– rendono presente Cristo e la dimensione secolare della Chie-
sa nel mondo,
– sono di esempio ai laici,
– a partire dalla loro stessa vita, vivono la consecratio mundi;
* vivono laici tra i laici, chierici tra i chierici senza distinzione;
* loro peculiarità: professare i consigli evangelici nel mondo se-
condo modalità proprie di ciascun carisma.

Istanze
* Valorizzare questa vocazione distinguendola da quella religio-
sa e laicale (tale istanza, però, deve essere armonizzata con l’affer-
mazione di fondo: «vivono... senza distinzione»);

19
Nella prima parte, La vita consacrata oggi, ai nn.11; 13; 17; 23. Nella seconda parte, La vita consacra-
ta nel mistero di Cristo e della Chiesa, ai nn. 44; 56; 57; 63. Nella terza parte, La vita consacrata nella co-
munione ecclesiale, ai nn. 69; 70; 79; 80. Nella quarta parte, La vita consacrata nella missione della Chie-
sa per il mondo, al n. 96 (ma tutta questa parte ha un particolare significato per gli istituti secolari, spe-
cie i nn. 103-110).
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 185

* elaborare una spiritualità specifica;


* favorire una formazione adeguata;
* lo stile di vita, dipendente da ciascun istituto, deve favorire la
comunione e la crescita vocazionale;
* chiarire la distinzione e lo specifico tra gli istituti secolari cle-
ricali e quelli laicali (cf nn. 69 e 70).

Difficoltà
* L’inserimento nella pastorale diocesana o parrocchiale, a mo-
tivo della discrezione che comporta la loro vocazione;
* l’azione come fermento in mezzo alla società, attraverso la
personale testimonianza.

In sintesi, sembra che l’esigenza di fondo raccolta dal documen-


to sia quella di trovare un’adeguata e completa descrizione-definizio-
ne della secolarità consacrata, una descrizione-definizione che renda
ragione della peculiare natura di questa forma di vita consacrata e
della varietà dei carismi in cui questa forma di vita si incarna nei di-
versi istituti. Ciò, però, deve avvenire cercando di eliminare ogni con-
fusione, come potrebbe sorgere in presenza di stili di vita che pratica-
mente ricalcano la forma di vita religiosa oppure, al contrario, quando
si esalta in maniera così radicale un elemento della secolarità consa-
crata, cioè l’essere laici tra i laici per esempio, lasciando in secondo
piano, se non sminuendo, il valore della consacrazione di vita. Oltre
alle enunciazioni di principio, e alle chiarificazioni terminologiche, la
via risolutiva si dovrà percorrere in una capacità di proporre, di assu-
mere e vivere i consigli evangelici in modo tale che esprimendo, per
chi li professa, la radicalità della consacrazione di vita siano fonte di
testimonianza della forza rinnovatrice del vangelo nel mondo contem-
poraneo (cf Instrumentum laboris, nn. 56 - 57; 80 e 96).
Inoltre, per quanto riguarda le difficoltà a cui il n. 33 del docu-
mento fa riferimento, ci si deve chiedere se tali difficoltà non siano
da affrontare non come problemi da risolvere nel senso che debba-
no essere eliminati, ma come conseguenze, da accettare, della con-
dizione in cui i membri degli istituti secolari sono posti dalla loro vo-
cazione.
Un altro punto di notevole valore è quello che tocca la realtà del-
la fraternità. Questo aspetto, per gli istituti secolari, è rilevante sia
perché tocca un aspetto che ha stretta attinenza con la natura specifi-
186 Tiziano Vanzetto

ca della secolarità consacrata, sia perché riguarda la vita interna degli


istituti e ha conseguenze sulla testimonianza che i membri sono chia-
mati a dare nella loro condizione. Questo aspetto è considerato dal-
l’Instrumentum laboris al n. 57 (cf anche n. 56) che è bene riportare:
«La dimensione di comunione fraterna è quindi costitutiva di ogni forma di
vita consacrata, in quanto questa è segno di quello che la Chiesa è nel suo
mistero.
Le modalità di attuazione concreta di tale dimensione, però, differiscono
profondamente tra le varie forme di vita consacrata e anche all’interno di
una stessa tipologia ...
I membri degli istituti secolari, pur non conducendo una vita in comune, la
esprimono, in un profondo legame con il proprio istituto o formando gruppi di
vita fraterna....
Nelle forme aggregative di vita consacrata, istituti religiosi, istituti secolari,
società di vita apostolica, seguire insieme ad altri Cristo povero, casto e ob-
bediente significa diventare esempio nella Chiesa e nel mondo, cioè fraterna
comunione apostolica che, in svariate forme secondo la propria natura e in-
dole, testimonia la fede, la carità e la speranza».

Si noti l’attenzione per gli istituti secolari. Si parla di comunione


fraterna, mentre si precisa che la vita in comune non è caratteristica
degli istituti secolari. Il valore apostolico e di testimonianza, infine,
non è riservato solo alle forme di vita in comune, ma è proprio della
vita fraterna e quindi ha un valore apostolico anche quando sia vissu-
to da membri di istituti secolari che vivono soli e dispersi.

I lavori del Sinodo 20


Come nota Matias Augé, nell’aula sinodale si è parlato poco de-
gli istituti secolari e se si vuole conoscere come il Sinodo si sia
espresso su questo tema si devono considerare soprattutto le Pro-
posizioni finali 21. Tuttavia è anche vero che gli uditori invitati a rap-
presentare gli istituti secolari hanno parlato. È dunque doveroso,
prima di passare alle Proposizioni finali considerare che cosa i Padri
sinodali hanno udito.
Gli uditori e le uditrici, membri di istituti secolari invitati al Si-
nodo, erano:

20
IX ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, La vita consacrata e la sua missione nel-
la Chiesa e nel mondo, in L’Osservatore Romano - Supplemento, 23 novembre 1994, 176 pp.
21
M. AUGÉ, Gli Istituti Secolari e il Sinodo sulla Vita Consacrata, in Incontro - CIIS 1 (1995) 8.
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 187

– Rev. Antonio Bravo, Responsabile Generale dell’Istituto du


Prado (Spagna)
– Sig. Prof. Emilio Tresalti, Presidente Generale dell’Istituto
Cristo Re
– Sig.na Lucia Alvear, dell’Istituto Fieles Siervas de Jesús, Pre-
sidente della CMIS e Presidente della Federación Colombiana de In-
stitutos Seculares
– Sig.na Audrey Butler, Responsabile Generale del Servite Secu-
lar Institute e membro del Consiglio Esecutivo della CMIS (cf L’Os-
servatore Romano, 27.8.94).

La prima a prendere la parola è Audrey Butler, il 4 ottobre, nella


4a Congregazione generale. L’intervenuta ha parlato sul tema: «Il fu-
turo degli istituti secolari». Quale futuro per gli istituti secolari? Co-
me nella storia sacra si è verificato che tutto dipende dalla volontà di
Dio e dalla fedeltà dei chiamati nel rispondere in maniera continua e
costante alla grazia divina, così sarà per gli istituti secolari se rimar-
ranno fedeli alle sacre Scritture e alle loro Costituzioni. Affinché
questa fedeltà sia possibile, la Butler richiama l’attenzione sul valore
e l’importanza della formazione iniziale e della formazione perma-
nente. La prima dovrà favorire la crescita della vita di fede e dare
una solida formazione circa le conseguenze della vita consacrata, la
conoscenza del proprio carisma, le esigenze dell’apostolato nel mon-
do. La seconda dovrà accrescere nei membri «la loro capacità di di-
scernere» nei problemi che sorgono, in ogni epoca, a livello culturale,
sociale e politico, alla luce del pensiero universale della Chiesa. Tale
formazione oltre a rendere l’azione apostolica dei membri più incisi-
va, saprà promuovere «rapporti autenticamente fraterni». Poiché l’in-
tervento non lo specifica, questa ultima espressione si può intendere
riferita sia alle relazioni all’interno dell’istituto sia a quelle che cia-
scun membro può costruire all’interno del proprio ambiente 22.

Il 6 ottobre, nella 7a Congregazione generale è intervenuto Emi-


lio Tresalti 23. Questo intervento sottolinea due aspetti: 1) il valore in
sé della vita consacrata; 2) la modalità specifica con cui gli istituti se-
colari vivono la loro missione. Il primo aspetto permette al Tresalti

22
IX ASSEMBLEA GENERALE, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, cit., pp. 37-38.
23
Ibid., p. 55. Questo intervento lo si può trovare maggiormente sviluppato in AA.VV., (a cura della C.I.
S.M. - U.S.M.I), Il Sinodo dei Vescovi sulla Vita Consacrata; Rogate, Roma 1994, pp. 57-64.
188 Tiziano Vanzetto

di comunicare questo messaggio: poiché la vita consacrata ha un va-


lore in sé nella Chiesa e incide sulla sua vita e sulla sua missione, al
di là dell’efficacia del contributo dato dalle opere (cita la Relatio ante
disceptationem, 4a), allora conseguenza diretta è che la realtà degli
istituti secolari ha un valore nella Chiesa anche se la loro presenza
non è apertamente visibile e l’efficacia apostolica dei membri non è
quantificabile. Passando al secondo punto dice:
«Per quanto concerne l’evangelizzazione: non è proprio degli Istituti Secolari
intervenire nella pastorale e nell’evangelizzazione diretta. I loro membri por-
teranno piuttosto la ricchezza dei valori evangelici... attraverso il loro impe-
gno competente nelle realtà temporali e attraverso la loro testimonianza di
vita vissuta secondo il Vangelo»

e questo lo faranno sia nei paesi di antica evangelizzazione come nei


paesi ancora da evangelizzare.

Durante la 14a Congregazione generale dell’11 ottobre interven-


gono Lucia Alvear e Antonio Bravo 24.
La prima ha richiamato, sintetizzandolo, quanto era riportato al
n. 33 dell’Instrumentum laboris. Ella ha affermato che questo n. 33
del documento esprime il sentire degli istituti secolari. Perciò la Al-
vear ha chiesto e auspicato che a partire dal Sinodo la vocazione
secolare venga maggiormente valorizzata, compresa nella sua speci-
ficità, considerata come partecipe dell’opera evangelizzatrice della
Chiesa.
Antonio Bravo è invece intervenuto sulla «particolare vocazione
degli istituti secolari clericali». Dopo aver richiamato da quali esigen-
ze sono nati questi istituti, cioè favorire la risposta alla chiamata alla
santità derivante dall’ordinazione e dall’esercizio del ministero, così
si esprime nel descrivere positivamente questa vocazione:
«In seno ai presbiteri diocesani, essi desiderano essere un servizio e un ri-
cordo permanente del fatto che la fecondità apostolica è vincolata alla seque-
la radicale di Cristo, presente nella sua Chiesa e tra i poveri. Le sfide del-
l’evangelizzazione richiedono sacerdoti profondamente evangelici».

L’intervento termina con due auspici entrambi indirizzati a chie-


dere maggiore conoscenza e reciproca stima tra chi vive questa vo-

24
IX ASSEMBLEA GENERALE, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, cit., p. 105.
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 189

cazione e i vescovi con il loro presbiterio. A commento si può ag-


giungere che per poter evitare il rischio che i sacerdoti diocesani
membri di un istituto secolare costituiscano un gruppo a parte o pa-
rallelo del presbiterio, è necessario che, da una parte, la vocazione sia
conosciuta come una ricchezza presente nella Chiesa e che, dall’altra,
i membri vivano in seno al presbiterio mantenendo il riserbo, per
quanto ciò possa essere possibile, sulla loro appartenenza all’istituto.

Le Proposizioni finali
Dedicata in maniera specifica agli istituti secolari è la proposi-
zione n. 11 che riportiamo nei suoi contenuti:
«a) Gli istituti secolari sono una forma particolare di vita consacrata. Con il
loro carattere proprio vogliono significare di voler vivere la consacrazione
nel mondo, e di vivere nel mondo in base a essa.
Il Sinodo propone che nel documento postsinodale sia spiegata più chiara-
mente e profondamente la vocazione negli istituti secolari laicali come forma
di vita consacrata, la cui fisionomia specifica consiste in una piena consacra-
zione a Dio non solo condotta in mezzo alle normali attività laicali, ma quasi
derivante da esse.
b) Gli istituti secolari clericali siano considerati di grande utilità. I vescovi
diano risposte precise e sostengano quelle dei presbiteri secolari che sento-
no la vocazione a seguire più da vicino Gesù Cristo nel suo amore per il
mondo, attraverso la pratica liberatrice dei consigli evangelici. I membri di
tali istituti vivano questa vocazione loro propria, servendo gli altri membri
del corpo presbiterale e nella complementarità con gli altri carismi.
c) Se si vuole che gli istituti secolari, che per loro natura godono di una cer-
ta discrezione, siano in grado di attrarre più facilmente nuove vocazioni, oc-
corre che il senso della loro vita e missione sia meglio conosciuto e che sia
promosso un frequente contatto tra i vescovi e coloro che guidano gli istituti
secolari».

Come si può vedere, il testo è composto di tre paragrafi: il para-


grafo A, dopo aver enunciato un principio acquisito, cioè «gli istituti
secolari sono istituti di vita consacrata» (can. 710), si dedica agli isti-
tuti secolari laicali; il paragrafo B parla degli istituti secolari clericali;
il paragrafo C parla degli istituti secolari in generale e affronta due
argomenti nella loro reciproca connessione: la discrezione e le vo-
cazioni.
Nella sua natura di proposta presentata dai Padri sinodali al
Santo Padre, questa propositio riassume bene quanto era stato pre-
sentato nell’Instrumentum laboris e negli interventi fatti in aula dai
rappresentanti degli istituti secolari.
190 Tiziano Vanzetto

Su quanto viene detto dei membri laici si può sottolineare come


emerga chiaramente che questi, rispetto agli altri fedeli laici, si carat-
terizzino per la loro piena consacrazione a Dio, consacrazione che,
vissuta nelle normali attività laicali, esalta in pienezza la vocazione
del laico cristiano impegnato nelle realtà temporali. Pertanto i mem-
bri laici non si distinguono dagli altri laici nella loro vita esterna.
Ciò che viene detto dei secolari consacrati chierici, suggerisce
come sia significativo per i sacerdoti diocesani assumere i consigli
evangelici e vivere il ministero ordinato abbracciando lo stato di vita
consacrata. Ma va posto anche in evidenza come i presbiteri secolari
non siano posti solamente in relazione al corpo presbiterale, ma an-
che in relazione al mondo, quel mondo che Dio tanto ha amato.
L’ultimo paragrafo, infine, risponde a una difficoltà spesso senti-
ta. La proposizione suggerisce che si può mantenere fede alla scelta
della discrezione o, in altri termini, del riserbo, e arrivare, nello stesso
tempo, a far conoscere nella Chiesa questa forma di vita consacrata.
Il compito di far conoscere la secolarità consacrata spetta a tutti colo-
ro che si interessano nella Chiesa del problema delle vocazioni. Ai
vescovi, inoltre, è raccomandato di tenere un frequente contatto con
coloro che guidano gli istituti secolari. Si noti come questa racco-
mandazione lasci salva l’esigenza della giusta discrezione dei singoli
membri, sia laici che presbiteri, anche nei confronti dei vescovi.
In conclusione, si può dire che il dibattito intercorso in occasio-
ne del Sinodo e nell’aula sinodale, come pure le proposizioni propo-
ste dai Padri sinodali al santo Padre, possono ritenersi una vera op-
portunità per gli istituti secolari. Tale opportunità non deve essere
considerata solo nel senso che è stata offerta a tutta la Chiesa l’occa-
sione per conoscere meglio la secolarità consacrata, ma deve essere
considerata anche motivo offerto agli stessi istituti secolari per com-
prendere meglio se stessi e il dono che essi sono chiamati a vivere.
Infatti, anche tra gli stessi istituti secolari è vivo il dibattito sulle ca-
ratteristiche della secolarità consacrata e, di fatto, esiste un certo
pluralismo che, pur nel rispetto dei diversi carismi, non manca di su-
scitare degli interrogativi sugli elementi fondamentali di questa for-
ma di vita consacrata.
Il Sinodo sulla vita consacrata: un’opportunità per gli istituti secolari 191

BIBLIOGRAFIA

BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
POLI G., 754 titoli a “servizio” del Sinodo, in Vita Consacrata 31 (1995) 3-51.

FONTI
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sua missione nella Chiesa e nel mondo - Lineamenta, in L’Osservatore Romano 21
novembre 1992, I-XVI e in Il Regno - Documenti 38 (1993) 73-91.
SINODO DEI VESCOVI - IX ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, La vita consacrata e la
sua missione nella Chiesa e nel mondo - Instrumentum Laboris, in Il Regno - Docu-
menti 39 (1994) 455-492.
IX ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, La vita consacrata e la
sua missione nella Chiesa e nel mondo, in L’Osservatore Romano - Supplemento 23
novembre 1994, 176 pp. (sono riportati, in sintesi, tutti gli interventi sinodali).
Messaggio del Sinodo, in L’Osservatore Romano, 29 ottobre 1994, pp. 1 e 6-7 e in
Supplemento 29 novembre 1994, pp. 163-165.

AUTORI
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Conferenza Italiana Istituti Secolari, approvato dall’assemblea generale del 14-16
maggio 1993 e spedito alla CMIS e alla Congregazione per la vita consacrata).
AA.VV., Vita Consacrata. 2. Consacrazione secolare, a cura della Commissione Mi-
sta Vescovi-Religiosi-Istituti Secolari della Conferenza Episcopale Italiana, Editrice
Elle Di Ci, Leumann (TO) 1994, 256 pp.
AA.VV., Sinodo sulla vita consacrata: in cerca d’identità, in Il Regno - Attualità 20
(1994) 636-649.
ALVEAR L., Il Sinodo: un evento di grazia e di comunione, in CMIS - Dialogo XII
(1995) 104, 3-5.
AUGÉ M., Gli Istituti Secolari e il Sinodo sulla Vita Consacrata, in Incontro - CIIS 1
(1995) 7-15.
BARTOLOZZI M., Quali attenzioni si richiedono alla Chiesa per gli I.S., in Incontro -
CIIS 4 (1994)17-21.
– Istituti secolari di fronte al Sinodo - Più presenti e vicini, in Testimoni 19 (15 nov.
1994) 12-13.
BEYER J., Gli aspetti “giuridici” della vita consacrata nei “Lineamenta”, in Vita Con-
sacrata 29 (1993) 556-570.
BIGNARDI P., Laicità e consacrazione: un dialogo possibile?, in Presenza Pastorale 6
(1994) 75-84.
BRAVO A., ALVEAR L., TRESALTI E., BUTLER A., La presenza degli Istituti secolari nel-
l’aula sinodale, in CMIS - Dialogo XXIII (1995) 6-10 (riporta gli interventi in aula).
192 Tiziano Vanzetto

CASTELLANO CERVERA J., Verso il Sinodo sulla vita consacrata in CMIS - Dialogo 96
(1993) 3-10.
CONFERENZA NAZIONALE BELGA DEGLI ISTITUTI SECOLARI FRANCOFONI, Riflessioni sui
“Lineamenta” al Sinodo’94, in CMIS - Dialogo XXII (1994) 100, 17-21.
MARIELLA M., Quali le nuove responsabilità dei G.I.S. alla luce del Sinodo sulla Vita
Consacrata, in Incontro - CIIS 1(1995)16-26.
MALASPINA M., La questione femminile negli Istituti Secolari in vista del Sinodo, in
Incontro - CIIS 4 (1994) 22-31.
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Religiose 2 (1993) 503-515.
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–, Gli Istituti secolari (Lineamenta nn. 18b, 22), in Vita Consacrata 29 (1993)
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SOMMARUGA G., I Lineamenta del Sinodo e gli Istituti secolari. Un vestito troppo
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TRESALTI E., Gli Istituti secolari. Attualità e futuro, in AA. VV., Il Sinodo dei Vescovi
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TRUZZI C., Verso il Sinodo sulla vita consacrata, in Incontro - CIIS 3 (1994) 8-10.
–, La consacrazione secolare: percorsi esistenziali, in Incontro - CIIS 4 (1994) 12-16.

TIZIANO VANZETTO
via S. Maria Assunta, 4 int. 2
35125 Padova
193

Commento a un canone
Il rapporto fra Codice di diritto canonico
e diritto liturgico (can. 2)
di Mauro Rivella

Il can. 2 fa parte dei primi sei canoni che, posti senza alcuna ti-
tolazione all’inizio del Libro I, risultano di fatto preliminari a tutto
quanto il Codice di diritto canonico, delimitandone il valore e l’ambi-
to di applicazione in rapporto alla normativa esistente al momento
della promulgazione.
Poiché il can. 2 del Codice vigente trova un esatto corrispon-
dente nel medesimo canone del Codice del 1917, può essere inte-
ressante cominciare l’analisi proprio con il raffronto sinottico dei
due testi 1:

CIC 1917 CIC 1983

«Il Codice, in maniera generale, non «Il Codice in maniera generale non de-
stabilisce alcunché circa i riti e le ce- finisce i riti, che sono da osservarsi nel
rimonie che i libri liturgici, approva- celebrare le azioni liturgiche;
ti dalla Chiesa Latina, dispongono di
osservare nella celebrazione del sacro-
santo sacrificio della Messa, nell’am-
ministrazione dei Sacramenti e dei Sa-
cramentali e nel compimento delle al-
tre azioni sacre. Di conseguenza tutte di conseguenza le leggi liturgiche fino-
le leggi liturgiche mantengono il loro ra vigenti mantengono il loro vigore, a
vigore, a meno che qualcuna di esse meno che qualcuna di esse non sia
sia espressamente corretta nel Co- contraria ai canoni del Codice».
dice».

1
Per completezza, riportiamo il testo del corrispondente can. 3 del Codice dei canoni delle Chiese
orientali: «Il Codice, anche se si riferisce spesso alle prescrizioni dei libri liturgici, in maniera generale
non stabilisce alcunché in materia liturgica; perciò queste prescrizioni devono essere osservate diligen-
temente, a meno che siano contrarie ai canoni del Codice».
194 Mauro Rivella

Proviamo a rispondere a due domande: come si spiega l’esclu-


sione programmatica della normativa rituale dal Codice e, più in ge-
nerale, quale rapporto esiste fra diritto canonico e diritto liturgico?

Uno sguardo al Codice del 1917


La ragione per cui i redattori del Codice del 1917 esclusero dal-
l’ambito della codificazione la normativa liturgica fu pratica piuttosto
che teologica. In linea di principio non si negava infatti la possibili-
tà – e anche l’utilità in ordine a una più chiara regolamentazione – di
riordinare sotto forma di canoni tutte le prescrizioni liturgiche legate
alla celebrazione del culto pubblico e all’amministrazione dei sacra-
menti, ma ci si rese facilmente conto che tale impresa sarebbe stata
praticamente irrealizzabile per la grande mole di disposizioni, rubri-
che e pronunciamenti della Congregazione dei riti: si pensi che la
raccolta autentica dei decreti della Congregazione fatta pubblicare
nel 1900 da Leone XIII ne comprendeva 4051, mentre i pronuncia-
menti divulgati fino al 1887 erano ben 5993 2.

Ci è pertanto chiaro il senso della norma del 1917: in linea ge-


nerale, non sono compresi nel Codice i riti e le cerimonie che i libri
liturgici approvati prescrivono di compiere nella celebrazione della
Messa, nell’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali e nel-
l’esercizio delle altre funzioni sacre. Tali prescrizioni conservano il
loro valore giuridico, a meno che siano espressamente corrette dal
Codice.
L’ambito non codificato è dunque quello dei riti e cerimonie: tra-
lasciando le lunghe discussioni fra i commentatori del tempo sull’e-
ventuale differenza fra le due espressioni (per alcuni si tratterebbe
di sinonimi, per altri i riti sarebbero le formule da recitarsi nel com-
pimento degli atti di culto pubblico, mentre le cerimonie indichereb-
bero le azioni da compiere), notiamo come la dottrina abbia riferito
l’esclusione alle sole leggi liturgiche propriamente dette, quelle cioè
che ineriscono alla modalità di realizzazione degli atti di culto, sono
contenute nelle rubriche dei libri liturgici e sono di competenza del-

2
Cf M. NOIROT, «Liturgique (droit)», in R. NAZ (a cura di), Dictionnaire de Droit Canonique, Paris
1957, VI, 535-594. Noirot cita un divertente aneddoto: Pio X, interrogato dal Maestro delle cerimonie
sull’eventualità di una codificazione liturgica, avrebbe risposto in tono un po’ infastidito: «Non ci man-
cherebbe altro!».
Il rapporto fra Codice di diritto canonico e diritto liturgico (can. 2) 195

la Congregazione dei riti. Sono invece ritenute oggetto ordinario di


trattazione all’interno del Codice le norme sulla disciplina del culto e
dei sacramenti.
L’edizione tipica del Rituale Romano del 1925 accolse alla lette-
ra nelle Premesse le disposizioni codiciali che modificavano la norma-
tiva liturgica sino ad allora vigente.

Il testo del can. 2 del Codice del 1983


A una semplice lettura, il testo del can. 2 del nuovo Codice non
differisce di molto da quello contenuto nel Codice precedente: oltre
a una certa semplificazione (è stata soppressa l’endiadi riti e cerimo-
nie, a favore di un generico riti; si è introdotta la categoria generale
di azioni liturgiche), merita di essere rilevato che, perché una norma
liturgica esistente decada, non si richiede più che sia espressamente
corretta da una nuova norma codiciale, ma è sufficiente che sia con-
traria al dettato del Codice.
Il canone non fa riferimento alle consuetudini in materia liturgi-
ca osservate al momento della promulgazione del Codice: esse risul-
tano pertanto regolate dal disposto del can. 5.

Un secondo livello di lettura è possibile attingendo alla mens di


quanti lavorarono direttamente alla preparazione del nuovo Codice.
Il gruppo dei consultori incaricato di rivedere i canoni sul culto divi-
no aveva stabilito fin dal 1973 alcuni criteri per elaborare una distin-
zione fra “norme liturgiche” e “norme canoniche”:
«1. Devono considerarsi liturgiche, e da rimettere al diritto liturgico, quelle
norme che si prefiggono principalmente di bene ordinare il culto divino; van-
no ritenute come canoniche, e da conservarsi nel Codice, quelle sole norme
che sono destinate alla difesa e alla promozione del buon ordine pubblico
della Chiesa;
2. Anche fra le norme che a ragione sono da ritenersi canoniche, sono da
conservarsi nel Codice solo quelle che devono essere determinate in modo
uniforme per la Chiesa universale, lasciando le altre al diritto particolare o
alle consuetudini locali;
3. Non sono da conservarsi i canoni che esprimono la dottrina teologica,
piuttosto che stabilire una norma giuridica, se non in quanto sembrino
necessari per una retta comprensione delle norme giuridiche» 3.

3
Communicationes 5 (1973) 42-43.
196 Mauro Rivella

La teoria è chiara, ma la sua applicazione non è sempre conse-


guente, anche perché è praticamente impossibile stabilire un confi-
ne netto fra norme che ordinano il culto e norme disciplinari. Posto
il principio che l’ordinamento canonico assume una materia liturgica
quando questa diventi rilevante in ordine al “bene comune” della co-
munità, la scelta di codificare o meno è legata in ultima analisi alla
decisione del legislatore. Così troviamo nel Codice attuale sette ca-
noni (924-930) radunati sotto il titolo riti e cerimonie della celebrazio-
ne eucaristica, mentre è scomparso il titolo dedicato alla “sacra sup-
pellettile” (cann. 1296-1306 del Codice del 1917).

Bisogna inoltre rilevare che chi ha lavorato alla revisione del


Codice si è trovato di fronte a una situazione e a una sensibilità ec-
clesiale in materia liturgica molto diversa da quella esistente all’ini-
zio del secolo: da una parte gli anni successivi al Vaticano II si sono
caratterizzati per una certa insofferenza alla prerogativa dell’autorità
ecclesiastica di “normare” l’attività liturgica, anche nelle sue dimen-
sioni prettamente sacramentali (basti pensare ad alcune forme e-
sasperate di spontaneismo, attuate in nome di una presunta creati-
vità liturgica, che si sono spinte sino all’improvvisazione della pre-
ghiera eucaristica nella Messa e alla confusione dei ruoli ministeriali
nelle celebrazioni); dall’altra, in positivo, la stagione postconciliare
ha portato al rinnovamento completo del Messale, della Liturgia del-
le ore e del Rituale, arricchiti da preziose premesse, in cui non solo
viene illustrato il fondamento teologico dei riti, ma si danno detta-
gliate norme sia liturgiche sia disciplinari, finalizzate a una buona re-
sa pastorale delle celebrazioni stesse. Come vedremo in seguito, la
riforma liturgica del Vaticano II ha profondamente condizionato, al
di là dell’intenzione stessa dei primi gruppi di consultori per la revi-
sione del Codice, lo spirito e la lettera dei nuovi canoni sulla liturgia
e sui sacramenti.
La diversa situazione di partenza ha anche caratterizzato in mo-
do originale le variazioni apportate ai libri liturgici in seguito al Co-
dice del 1983, promulgate dalla Congregazione per i sacramenti e il
culto divino 4. Esse toccano 76 diversi numeri delle Premesse, e vanno
da semplici aggiustamenti terminologici a vere e proprie innovazioni

4
S. CONGREGAZIONE PER I SACRAMENTI E IL CULTO DIVINO, Variazioni da introdurre nelle nuove edizioni
dei libri liturgici, 12 settembre 1983, in EV 9, nn. 394-408.
Il rapporto fra Codice di diritto canonico e diritto liturgico (can. 2) 197

nella disciplina. P.-M. Gy 5, all’interno delle variazioni che comporta-


no significative modifiche in campo liturgico e sacramentale, distin-
gue un piccolo numero di casi in cui il Codice ritorna alla disciplina
anteriore a quella adottata nei libri liturgici; un numero più ampio di
casi in cui la normativa codiciale è più avanzata o semplifica le
disposizioni precedenti; il caso particolare dell’assoluzione generale
senza confessione individuale previa; l’inserzione di prescrizioni ca-
noniche del tutto nuove.
Queste variazioni, al di là del giudizio di merito che si può espri-
mere su ciascuna di esse, sono dettate dalla necessità di armonizza-
re la normativa liturgica e quella canonica, e si fondano sul fatto che
l’autorità giuridica del Codice – «il principale documento legislativo
della Chiesa latina» 6 – è superiore a quella delle Premesse. Ciò non
toglie che anche le indicazioni disciplinari e celebrative contenute
nelle Premesse ai libri liturgici siano normativamente vincolanti: il ca-
rattere obbligante della disposizione non va semplicisticamente i-
dentificato con la natura del testo in cui è contenuto – quasi che solo
ciò che sta nel Codice sia legge e quanto troviamo nelle Premesse ab-
bia soltanto valore di orientamento o parenesi –, ma deve essere ve-
rificato caso per caso a partire anche dal tenore intrinseco della pre-
scrizione.
Si noti ancora che, mentre il Codice del 1917 ha portato alla mo-
difica letterale delle Premesse del Rituale Romano, i nuovi libri liturgi-
ci, frutto della riforma voluta dal Vaticano II, hanno fortemente con-
dizionato lo spirito e la lettera dei canoni del Libro IV, al punto da di-
ventarne, insieme ai testi conciliari, una delle fonti principali.
L’intersezione delle due fonti – libri liturgici e Codice canoni-
co – ci permette di ridimensionare i timori di quanti hanno visto nel-
la riproposizione dello strumento codiciale e nella presenza in esso
di una diffusa trattazione sugli argomenti liturgico-sacramentali una
minaccia e un subdolo rinnegamento della riforma voluta dal Vatica-
no II, ma anche di evitare l’approssimazione di chi ha letto le norme
codiciali ignorandone il retroterra e la complementarietà rispetto a
quanto stabilito nelle Premesse, così da maturarne una valutazione a-
prioristicamente negativa. Ciò non significa che la normativa del Co-

5
P.-M. GY, Les changements dans les Praenotanda des livres liturgiques à la suite du Code de droit cano-
nique, in Notitiae 19 (1983) 558-561.
6
L’espressione è del papa Giovanni Paolo II, nella Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, con
la quale è stato promulgato il nuovo Codice: cf EV 8, n. 627.
198 Mauro Rivella

dice in materia liturgica sia sotto ogni aspetto pienamente soddisfa-


cente, ma che riserve e critiche saranno giustificate se motivate ed
espresse su singoli punti e non sull’insieme dei testi.

Il rapporto peculiare fra liturgia e diritto


Possiamo quindi esprimere alcune considerazioni generali sul
diritto liturgico: in primo luogo è chiaro che non solo i canoni del
Codice, ma anche le disposizioni normative contenute nelle Premes-
se dei libri liturgici sono da considerarsi parte integrante e vincolan-
te della legge canonica. A esse si applicano i principi generali del di-
ritto contenuti nel Libro I sulla promulgazione e l’interpretazione
della legge, così come quelli sulla consuetudine e la dispensa. Un
conto infatti è parlare dell’assunzione in ambito canonico di una ma-
teria propriamente liturgica, un altro è fare riferimento all’obbligo,
derivante dalla legge canonica, di osservare la normativa liturgica: è
sufficiente ricordare qui il disposto del can. 846, che prevede che
nella celebrazione dei sacramenti si seguano fedelmente i libri litur-
gici approvati dalla competente autorità, vietando aggiunte, mutila-
zioni o adattamenti arbitrari.
Nel medesimo tempo molte leggi liturgiche sono da conside-
rarsi come non precettive o solo indicative, se non come soltanto de-
scrittive dei riti, o come facoltative, nel senso che permettono di sce-
gliere fra più possibilità. Queste molteplici alternative – che abbiamo
visto essere una delle ragioni di fondo della non codificazione del di-
ritto liturgico – richiedono una grande attenzione nella valutazione
del peso specifico della disposizione, al fine di poterne stabilire il
grado di precettività.
Tuttavia è la natura stessa del fatto liturgico a richiedere un ul-
teriore passo in avanti: una celebrazione liturgica è un’esperienza
che coinvolge la Chiesa in tutta la sua complessità e ricchezza, sia
perché è anzitutto evento di grazia, nel quale e con il quale Dio inter-
viene nella storia dell’umanità, sia perché raduna e manifesta la co-
munità nelle sue diverse espressioni ministeriali, chiamandola a da-
re visibilità alla fede professata nel dogma. Questi principi sono riba-
diti dal § 1 del can. 837, che riproduce fedelmente il n. 26 della
Costituzione conciliare Sacrosanctum concilium:
«Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa
stessa, che è “sacramento di unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato
Il rapporto fra Codice di diritto canonico e diritto liturgico (can. 2) 199

sotto la guida dei vescovi; perciò appartengono all’intero corpo della Chiesa,
lo manifestano e implicano; i singoli membri poi di esso vi sono coinvolti in
diverso modo, secondo la diversità degli stati, delle funzioni e dell’attuale
partecipazione».

La retta celebrazione liturgica in ultima analisi non è questione


di adempimento di rubriche estrinseche, e quindi mutabili e opinabi-
li, ma coinvolge e manifesta la vera fede, costruisce la comunione
della Chiesa, rende visibile la comunità cristiana nel mondo.
Per questo anche nel diritto liturgico ritroviamo il duplice livel-
lo che caratterizza l’intero diritto canonico:
– un diritto liturgico fondamentale che si radica nell’istituzione
divina, e che garantisce che l’azione liturgica celebrata sia azione di
Cristo e della sua Chiesa;
– un diritto liturgico positivo mediante il quale l’autorità eccle-
siastica regola l’azione liturgica, in una maniera che può variare a se-
conda dei tempi e dei luoghi, al fine di mettere in opera il diritto li-
turgico fondamentale.
Impostando così le cose e salvaguardando a livello teorico la di-
stinzione fra i due livelli, per quanto operativamente ci sia dato di
sperimentare il piano delle norme positive, ci rendiamo conto che la
normativa liturgica – contenuta sia nei libri liturgici sia nel Codice –
non è un elemento estrinseco che ricopre o addirittura corrompe il
genuino spirito della liturgia, ma la sua condizione di possibilità nella
concretezza della storia. La normativa liturgica, in quanto espressio-
ne di diritto positivo, cioè datato e situato, da una parte è soggetta a
possibili carenze ed errori, e pertanto non deve essere assolutizzata,
al punto di pensare che quanto è stato stabilito dall’autorità legittima
in uno specifico contesto storico sia assolutamente immutabile. Dal-
l’altra esige nei fedeli una cordiale accoglienza e obbedienza, perché
essa non è un sovrappiù alla relazione che la comunità credente e
orante stabilisce con il Signore mediante le celebrazioni liturgico-sa-
cramentali, ma la condizione del suo realizzarsi storico. Sarebbe per-
tanto fortemente riduttivo limitarsi all’osservanza dei requisiti esigiti
per la validità degli atti sacramentali, assumendo un atteggiamento
di disinvolta indulgenza nei confronti di quanto è richiesto per la li-
ceità, cioè è stabilito dalla legge ecclesiastica positiva, contenuta sia
nel Codice (per gli aspetti disciplinari) sia nelle premesse dei libri li-
turgici (per gli aspetti celebrativi). Non si tratta – è ovvio – di
ritornare al rubricismo, ma di comprendere che le leggi liturgiche
200 Mauro Rivella

fanno parte del processo stesso di mediazione della salvezza e che


tutti, assemblea, ministro e soggetto, siamo parti della Chiesa e sog-
getti alla sua legge 7.

MAURO RIVELLA
via Lanfranchi, 10
10131 Torino

7
Su questo tema, merita di essere riletta la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Vicesimus quintus an-
nus, a venticinque anni dalla promulgazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum concilium, 4 di-
cembre 1988, in EV 11, nn. 1567-1597, di cui costituisce un interessante commento lo studio di A. MON-
TAN, Validità e attuazione della norma liturgica, in Rivista di pastorale liturgica 27/157 (1989) 26-41.
201

Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio


X. L’incapacità a consentire (can. 1095, 1° e 2°).
di Paolo Bianchi

Nella nostra Rubrica in aiuto dei pastori d’anime e dei consulen-


ti delle coppie in insanabile difficoltà matrimoniale dobbiamo comin-
ciare a occuparci di una delle tematiche più attuali e delicate: quella
dell’incapacità psichica al matrimonio.
L’approfondimento di tale problematica ha visto in questi ultimi
decenni un concorrere di sforzi rilevantissimo: sono state emesse in
merito centinaia di decisioni rotali e ancora più numerosi sono stati
gli studi in merito: libri, articoli, lavori di ricerca nelle istituzioni ac-
cademiche. Addirittura – in certe nazioni – il motivo di nullità matri-
moniale per incapacità psichica è divenuto quasi l’esclusivo parame-
tro per la valutazione della validità di un matrimonio, producendo in
pratica la quasi scomparsa della considerazione di ogni altro possibi-
le motivo di nullità matrimoniale.
Per offrire un orientamento agli operatori pastorali che sia fede-
le alle indicazioni del Legislatore e alla giurisprudenza rotale, che –
sul piano delle decisioni giudiziarie – ha la funzione istituzionale di
conferire alla unitarietà della giurisprudenza canonica (cf la Costitu-
zione apostolica Pastor Bonus sulla Curia Romana, art. 126), si svi-
lupperà l’argomento secondo il metodo e lo stile solito di questa no-
stra Rubrica, rifuggendo dalla erudizione e dalle posizioni estreme, e
presentando invece quanto appare essere dottrina e prassi giurispru-
denziale assodata.

Elementi di diritto sostantivo


Il matrimonio è, nel suo momento genetico, un “patto” (cf can.
1055 § 1), che la legislazione canonica definisce – con termine equi-
202 Paolo Bianchi

valente – anche “contratto” (cf can. 1055 § 2). Con tale espressione
la legge canonica non intende collocare un atto di tale importanza
esistenziale sul medesimo piano di ogni altro negozio contrattuale,
per esempio di natura patrimoniale – come è inteso il contratto in al-
cuni ordinamenti giuridici civili – bensì porre l’attenzione sul fatto
che il patto matrimoniale si realizza attraverso il concorrere delle vo-
lontà dei contraenti sul medesimo oggetto.
Così, con estrema chiarezza, la legge canonica afferma che il
matrimonio nasce, è prodotto dal consenso delle parti (cf can. 1057
§ 1), consenso che è efficace se espresso in forma legittima ed essen-
do posto da persone giuridicamente abili a prestarlo (ossia, in negati-
vo, non inabilitate da un cosiddetto impedimento matrimoniale). In al-
tre e più classiche parole, è il consenso la “causa efficiente” del matri-
monio. Secondo l’efficace formula latina: matrimonium facit partium
consensus: è il consenso delle parti che pone in essere il matrimonio.
La stessa legge definisce pure cosa il consenso sia. Esso non è
altro che l’atto di volontà di ciascuna delle parti, che si indirizza a
quella peculiare donazione di sé che si attua nell’assunzione dei dirit-
ti e doveri matrimoniali (cf can. 1057 § 2). Il riconoscimento alla
comparte – dal momento della prestazione del consenso – dei diritti
propri allo stato coniugale e l’assunzione nei confronti della compar-
te, della eventuale prole e della società – sempre dal momento della
prestazione del consenso – dei doveri propri dello stato coniugale
realizzano quella donazione di sé che è specifica del matrimonio e of-
frono a questa stessa “donazione” un significato giuridicamente pra-
ticabile ed eticamente sostenibile.
Da quanto fin qui detto, appare chiaro che il consenso, sotto un
profilo soggettivo, deve essere ritenuto un atto della volontà.
Tale facoltà, propria solo della persona, suppone l’intelligenza e
realizza la libertà. Quest’ultima, infatti, può realizzarsi solo in presen-
za di un atto che sia “umano”, ossia che sia riconoscibile come pro-
prio della persona e alla stessa imputabile per essere stato posto sul-
la base di una almeno sufficiente comprensione del suo significato e
di una pure almeno sufficiente libertà nell’eseguirlo.
Non bisogna dimenticare che la libertà dell’uomo è una libertà
“storica”, non assoluta, svincolata cioè da ogni condizionamento. Tut-
tavia, la visione cristiana dell’uomo, pur all’interno di questa storicizza-
zione della libertà, ha sempre riconosciuto e affermato una sostanzia-
le possibilità di libertà per la persona. E la libertà è funzionale all’in-
telligenza e alla volontà, ossia alla capacità di responsabilità morale.
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 203

Così, perché il consenso matrimoniale sia un atto propriamente


umano, e quindi in se stesso – in quanto atto psicologico – intrinse-
camente sufficiente, esso dovrà basarsi su di una sostanziale dispo-
nibilità e funzionalità, nel soggetto che lo presta, delle facoltà della
intelligenza e della volontà debitamente coordinate in quella com-
plessa operazione che è la decisione umana.
Di questo aspetto soggettivo del consenso si occupano i primi
due numeri del can. 1095, che quindi dobbiamo brevemente prende-
re in considerazione.
Deve essere anzitutto premesso che, se da un punto di vista for-
male il can. 1095 nel suo complesso rappresenta una novità nella le-
gislazione positiva canonica, esso è ritenuto comunemente esprime-
re un principio direttamente riferibile al diritto naturale: ossia una
norma direttamente scaturente dalla realtà stessa delle cose. In altre
parole, il can. 1095, da un punto di vista sostantivo, non farebbe altro
che esplicitare il duplice principio per cui il consenso matrimoniale
deve essere in se stesso sufficiente, sia come atto di volontà che si
dirige intenzionalmente verso il suo oggetto (cf can. 1095, 1° e 2°),
sia come atto di volontà che si dirige verso un oggetto per il con-
traente davvero possibile (cf can. 1095, 3°). In tale ultimo caso il con-
senso – per quanto in se stesso integro in quanto atto di volontà –
mancherebbe del suo oggetto, essendo quindi per lo meno ineffica-
ce sotto il profilo giuridico. Riprenderemo però in una prossima pun-
tata della nostra Rubrica quest’ultima prospettiva, limitandoci in
quella attuale all’incapacità propriamente consensuale.
Come appena detto, le fattispecie di incapacità matrimoniale
previste dal can. 1095, 1° e 2° sono norme solo formalmente nuove,
rappresentando nella sostanza la semplice esplicitazione di un princi-
pio di diritto naturale, per ciò stesso sempre vigente. Il Codice del
1917, infatti, non esplicitava formalmente i possibili casi di incapacità
psichica al matrimonio. Le norme sostantive da seguirsi in caso di
eventuale probanda incapacità erano desunte dalla definizione del
consenso che detta legge pure formulava, ovvero dai principi gene-
rali in materia di validità degli atti giuridici, ovvero ancora, per analo-
gia, dalle norme regolative della determinazione della imputabilità
penale, che il Codice del 1917 aveva in modo particolare approfondi-
to e riordinato con felice sistematica.
Nello sforzo di applicazione di queste norme, la giurisprudenza
e la dottrina di questi ultimi decenni hanno accuratamente indagato
e riflettuto, giungendo a formalizzare concetti (per esempio quello di
204 Paolo Bianchi

“discrezione di giudizio”) e presunzioni (per esempio in tema di co-


siddetti “lucidi intervalli” fra fasi acute di una malattia psichica), sui
quali dovremo tornare. Questo sforzo di indagine è stato favorito sia
dallo sviluppo di alcune discipline scientifiche autonome rispetto al
diritto, ma a esso complementari, quali lo studio della psiche umana,
sia nei suoi fenomeni fisiologici, sia in quelli patologici; sia dalla sen-
sibilità culturale in evoluzione, sicuramente assai attenta agli aspetti
soggettivi del vissuto personale.
Così, anche nel lavoro di revisione postconciliare dell’ordina-
mento positivo canonico non si sono giustamente potuti e voluti
ignorare i rinnovati elementi conoscitivi disponibili (anche, appunto,
in discipline al diritto complementari) e le dette riflessioni dottrinali
e giurisprudenziali di carattere più squisitamente giuridico.
In tal modo – sul versante soggettivo del consenso in quanto at-
to di volontà – il Legislatore è giunto a evidenziare due fattispecie di
possibile incapacità psichica al matrimonio: la carenza di un suffi-
ciente uso di ragione (cf can. 1095, 1°) e il difetto grave di discrezio-
ne di giudizio (cf can. 1095, 2°). Cosa significano esattamente queste
espressioni?
Non è del tutto agevole definirlo, almeno sotto un profilo forma-
le, soprattutto dal punto di vista del reperimento di una netta distin-
zione fra le due fattispecie. Ne è prova il fatto che non vi è ancora
una dottrina univoca in merito, bensì piuttosto spiegazioni diverse,
sia sotto il profilo del contenuto, sia sotto quello della loro forza per-
suasiva.
Così, per esempio, da parte di alcuni, si sostiene che il can.
1095, 1° si richiamerebbe a un principio di carattere generale, vale-
vole per tutti i negozi giuridici. Tale spiegazione, oltre all’inconve-
niente di dover ammettere che il Legislatore abbia voluto fare un’af-
fermazione ovvia e pleonastica, pare tenere poco in conto che la nor-
ma si riferisce a un uso di ragione che definisce “sufficiente”. Ma,
dobbiamo chiederci: “sufficiente” in rapporto a cosa? Evidentemente
in rapporto al matrimonio; e, più precisamente, ai diritti e doveri es-
senziali di esso che debbono essere oggetto del consenso. Esso do-
vrebbe trattarsi, in altre parole, di un atto psicologico proporzionato
alla gravità e ai contenuti della scelta matrimoniale. Ma, dobbiamo
allora chiederci di nuovo: quale la distinzione rispetto al concetto di
“discrezione di giudizio”, che essenzialmente consiste – come anco-
ra vedremo – anche della “proporzione” della valutazione critica del
soggetto rispetto agli obblighi del matrimonio?
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 205

Da scartare – nell’indagare tale differenza – sono le illustrazioni


che semplicemente fanno riferimento al tipo di patologia o di stato di
alterazione mentale indotto nel soggetto (per esempio: le psicosi
causano il difetto di cui al 1° numero; disturbi meno gravi, per esem-
pio alcune nevrosi, causano il difetto di cui al 2°), in quanto sempli-
cemente eludono l’aspetto giuridico-formale della questione. Così
appaiono da scartare le soluzioni che si rifanno a una ipotetica ripre-
sa di concetti già classici quali quello di amentia (mancanza totale di
ragione), ovvero di dementia (mancanza parziale della stessa).
Più convincenti appaiono le spiegazioni che si rifanno alla di-
stinzione fra capacità di comprensione astratta (1°) ed invece critica
(2°) dei diritti e doveri coniugali; ovvero che considerano, nel con-
cetto di discrezione di giudizio (2°) anche l’intervento della facoltà
volitiva del soggetto e la sua coordinazione con l’intelligenza, non in-
vece prese in considerazione nel 1° numero del canone; ovvero an-
cora quelle che – in un’ottica di considerazione unitaria del processo
decisionale umano – ritengono l’uso sufficiente di ragione un ele-
mento necessario, seppure non sufficiente, del più ampio concetto di
discrezione di giudizio, che rappresenterebbe per così dire l’unità di
misura più adeguata per valutare l’attitudine soggettiva al consenso
in quanto atto psicologico.
Di fatto, anche in giurisprudenza, appare che il concetto di di-
screzione di giudizio è quello ordinariamente utilizzato per la valuta-
zione della sufficienza intrinseca del consenso matrimoniale. Per far
dunque chiarezza occorre allora chiedersi: cosa deve intendersi con
l’espressione “discrezione di giudizio”?
Circa questa espressione si può attualmente contare su una suffi-
ciente unitarietà di comprensione sia in sede dottrinale che giurispru-
denziale. Discrezione di giudizio significa essenzialmente due cose.
In primo luogo: che l’atto di consenso deve potersi basare non
solo su di una comprensione astratta, nozionale, dei diritti e doveri
coniugali, bensì anche su di una loro valutazione critica, ossia su di
una almeno loro minimale valutazione pratica, sia in relazione al loro
contenuto obbligatorio (che non si esaurisce al momento del patto
nuziale, ma che si dipana nel futuro della vita coniugale), sia in rela-
zione all’attitudine del soggetto di farsi carico di quegli stessi obbli-
ghi. Certo non si potrà richiedere che diritti e doveri coniugali siano
valutati in tutti i loro risvolti e apprezzati in tutte le loro possibili
declinazioni nelle più diverse e futuribili contingenze della vita, ma
nemmeno ci si potrà accontentare di una valutazione che – sotto il
206 Paolo Bianchi

profilo di apprezzamento critico degli obblighi che si intendono as-


sumere – sia al di sotto di limiti minimali. Pur non dovendosi dimen-
ticare che il matrimonio è un diritto “naturale” della persona umana
e del battezzato (cf can. 1058) non si può nemmeno trascurare, come
efficacemente si esprimono alcuni Autori, che esso è un “contratto”
diverso e più impegnativo di altri pur rilevanti atti giuridici, quali l’ac-
quisto di un immobile o di un’autovettura, in ragione delle conse-
guenze morali ed esistenziali che esso comporta.
In secondo luogo, “discrezione di giudizio” significa una alme-
no minimale possibilità di libertà interiore, di autodeterminazione in
rapporto alla scelta dei diritti e doveri coniugali. Non già in quanto
altri costringano dall’esterno – fatto che, alle debite condizioni, po-
trebbe essere rilevante ai sensi del can. 1103 –, ma in quanto una
motivazione interna al soggetto sia talmente “abnorme”, “patologica”
(in senso qui piuttosto generale, non tanto e non solo clinico), da pri-
varlo sostanzialmente della libertà, per esempio facendolo determi-
nare a una scelta matrimoniale evidentemente irrazionale.
In conclusione si deve affermare che, per porre un atto di con-
senso matrimoniale, in se stesso sufficiente – tale da essere vero at-
to umano, giuridicamente imputabile alla persona che lo pone – il
soggetto deve essere dotato di un uso di ragione sufficiente che gli
consenta di cogliere in astratto i diritti e doveri matrimoniali. Non
solo: egli deve essere anche fornito di una sufficiente capacità critica
per valutare dal punto di vista pratico, seppure minimale, quegli stes-
si diritti e – infine – di una sostanziale capacità di autodeterminazio-
ne verso di essi.
A questo punto, il lettore attento non potrà che chiedersi: ma
quando l’uso di ragione non è “sufficiente”? quando la valutazione
critica è al di sotto del minimo richiesto? ovvero quando lo è la capa-
cità di autoderminazione? o quando – in una parola – l’eventuale di-
fetto di discrezione di giudizio è, come la legge richiede, “grave”?
A tali domande si deve rispondere in due fasi. Anzitutto da un
punto di vista più formale; in secondo luogo da punto di vista più pra-
tico. Come però si vedrà, i due livelli di risposta sono profondamente
integrati, essendo anzi il primo di essi la condizione essenziale per
orientarsi nel secondo.
Occorre spiegarsi. Cosa si intende per livello di risposta più for-
male? Si intende che occorre trovare dei criteri di carattere generale
atti a determinare la possibilità di valutare il grado di capacità psichi-
ca della persona in rapporto ai diritti e doveri matrimoniali. Tale ope-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 207

razione – di estrema delicatezza – dovrà essere condotta su di un


piano giuridico, con rigore metodologico, ed evidenziando dei criteri
generali (in questo senso “formali”) coerenti con i principi del siste-
ma giuridico stesso, che possano poi servire per la valutazione sul
piano più pratico, dove il soggetto deputato a formulare il giudizio
giuridico deve entrare in contatto coi fatti nella loro materialità e con
discipline scientifiche diverse dal diritto. Perché l’interpretazione dei
fatti sia corretta e perché il dialogo interdisciplinare sia utile, occor-
rerà in altre parole che il soggetto chiamato a giudicare abbia delle
linee-guida sicure, dei criteri oggettivi per salvaguardarsi il più possi-
bile dalla possibilità di errore, equivoco, arbitrio.
In modo ancora più semplice: per poter concludere che un certo
comportamento è un sintomo a comprova di uno stato di incapaci-
tà, ovvero per accogliere la interpretazione dei fatti resa da un certo
medico o esperto, occorrerà avere criteri di giudizio e di valutazione
che – non contraddicendo i principi del sistema matrimoniale canoni-
co – siano effettivamente utili per giungere a una decisione sostenibi-
le da ogni punto di vista: del metodo interdisciplinare, di logica giuri-
dica (non solo formale, ma di rispetto dei principi fondamentali del-
l’ordinamento), del rispetto sostanziale dei fatti e della verità.
Quali dunque possono essere i criteri formali, i principi giuridi-
ci per commisurare rettamente la capacità psichica dei contraenti
agli obblighi matrimoniali? Ponendo suggello a decenni di indagini
dottrinali e giurisprudenziali, lo stesso S. Pontefice ha recentemente
offerto un sostanziale contributo in merito, che offre un obiettivo
aiuto nel districarsi nella difficile risposta. Tale contributo deriva, in
modo particolare, da due autorevoli interventi del Pontefice: le Allo-
cuzioni alla Rota Romana per gli anni 1987 e 1988.
La nostra Rivista già se ne è occupata (cf L. GHIZZONI, Il matri-
monio fra psicologia e diritto canonico, in Quaderni di diritto ecclesia-
le 1 [1988] 118-125) e, in questa sede, appare opportuno soffermarci
a puntualizzare esclusivamente il valore giuridico di tali interventi,
nonché il criterio di fondo che essi offrono per la nostra questione.
Si potrebbe sostenere che tali Allocuzioni siano delle interpreta-
zioni “autentiche” della norma rappresentata dal can. 1095, anche se
sicuramente non possono essere ritenute una interpretazione resa
per modum legis ai sensi del can. 16 § 2, mancandone i requisiti for-
mali. Chi sostiene questa teoria reputa troppo poco ritenere le dette
Allocuzioni la semplice manifestazione della mens del Legislatore a
chiarimento di una norma formalmente chiara ma problematica nel-
208 Paolo Bianchi

la sua applicazione concreta; e ciò in ragione del fatto che – ai sensi


del can. 17 – la mens del Legislatore rappresenta di norma non già la
interpretazione stessa (come invece nel caso), bensì solo un criterio
di interpretazione che fa riferimento alla mentalità e allo stile di go-
verno del Legislatore medesimo.
In ogni caso – cioè al di là dell’esatta qualifica a esse attribuibile
– queste due Allocuzioni debbono essere intese come delle indica-
zioni autorevoli difficilmente preteribili nella applicazione del can.
1095. In esse il Pontefice dà dei principi canonici in una materia di
particolare importanza, che coinvolge questioni dottrinali (per esem-
pio il rispetto della dottrina cattolica sulla indissolubilità del matri-
monio), nonché il bene pubblico della comunità (per esempio sotto il
profilo della certezza dello stato di vita dei fedeli). A tali principi va
dunque prestato quell’ossequio dell’intelletto e della volontà che de-
ve tributarsi al Magistero cosiddetto ordinario (cf can. 752).
Non va inoltre sottovalutata anche la natura del destinatario cui
sono indirizzate le ricordate Allocuzioni. Essendo infatti da ricono-
scersi alla Rota Romana (come esplicitamente sottolinea anche la
costituzione apostolica sulla Curia romana Pastor Bonus, art. 126)
una funzione particolare di servizio alla unitarietà della giurispru-
denza canonica – attraverso una auctoritas rerum similiter iudica-
tarum che va ritenuta esemplare autorevole per i Tribunali locali –
è ragionevole pensare che un indirizzo del Pontefice a tale Tribuna-
le implicitamente superi il significato dell’occasione contingente in
cui è pronunciato, per rivolgersi invece più genericamente a tutti i
giudici e Tribunali della Chiesa. Del resto, tale valore generale è sta-
to in precedenza pacificamente riconosciuto ad analoghe Allocuzioni
nel dirimere delicate questioni giuridiche (basti pensare alla Allocu-
zione del 1942 di Pio XII sul concetto di “certezza morale”, ovvero a
quella di Paolo VI del 1976 sul valore “giuridico” dell’amore coniu-
gale); né la circostanza che un richiamo in esse contenuto possa ap-
parire particolarmente pressante per qualche parte della Chiesa to-
glie loro valore dottrinale o disciplinare per il resto della comunità
cristiana.
Sotto il profilo contenutistico, le due Allocuzioni contengono al-
cuni principi di merito importantissimi per definire il criterio giuridi-
co di valutazione dell’incapacità matrimoniale canonica. In primo luo-
go – come è chiaramente ribadito – il Papa invita accuratamente a
distinguere fra la difficoltà e l’autentica incapacità. Infatti: «solo la in-
capacità e non già la difficoltà a prestare il consenso o a realizzare
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 209

una vera comunità di vita e di amore rende nullo il matrimonio» (Al-


locuzione del 1987, n. 7, in AAS 79 [1987] 1457).
Ma dove sta il discrimine fra difficoltà e incapacità? Il Papa of-
fre a questo proposito un altro criterio che – seppure appunto di ca-
rattere generale e formale – orienta al reperimento del contenuto ef-
fettivo del principio sopra enunciato: «una vera incapacità è ipotizza-
bile solo in presenza di una seria forma di anomalia che, comunque
si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente le capacità di inten-
dere e/o di volere del contraente» (ibidem): sia, come è ovvio, nel
prestare il consenso; sia nel portare a effetto gli obblighi con esso
assunti.
In altre parole: solo una sostanziale disfunzionalità delle facoltà
connaturali alla persona – l’intelligenza e la volontà – potrà produrre
l’incapacità della persona stessa all’esercizio del suo diritto “natura-
le” al matrimonio. La privazione dell’esercizio di tale diritto in condi-
zioni che non integrino tale sostanziale limitazione delle facoltà “na-
turali” della persona sarà da considerarsi abusiva e non conforme al-
la realtà dei fatti.
Tale criterio offerto dal Pontefice richiede – per essere ben
compreso – che se ne ribadisca e sottolinei la intrinseca ratio. Essa
non è certo di carattere pratico – come per esempio certa stampa ha
commentato gli interventi del Papa che andiamo considerando – es-
sendo in tale ipotesi detta ratio da reperirsi nella necessità di “re-
stringere” l’applicabilità della ragione di nullità che si richiama alla
incapacità psichica, per correggere interpretazioni estensive verifica-
tesi in alcune regioni del mondo. Tale ratio va invece più corretta-
mente e profondamente colta sul piano della visione cristiana della
persona: chiamata a realizzare i propri ideali vocazionali anche in
mezzo a difficoltà e resistenze di diversa natura, anche psicologica e
inconscia, ma non necessariamente condizionanti in senso sostanzia-
le la libertà del soggetto. Appare chiaro – e le due Allocuzioni del
Papa alla Rota per gli anni 1987 e 1988 lo mettono apertamente in
luce – che il criterio di determinazione dell’incapacità psichica al
matrimonio è desunto dalla visione antropologica cristiana ed è fun-
zionale alla salvaguardia della libertà e della dignità della persona, in
contrasto con impostazioni deterministiche e, in ultima analisi, dere-
sponsabilizzanti sotto il profilo morale (cf Allocuzione del 1988, n. 5,
in AAS 80 [1988] 1181).
Alla luce di ciò si comprende come di incapacità in senso pro-
prio (in qualsiasi senso di cui se ne occupa il can. 1095: in quanto le
210 Paolo Bianchi

dette Allocuzioni non distinguono e in quanto la materia stessa non


autorizza distinzioni logicamente fondate) si potrà parlare soltanto in
presenza di una seria forma di “anomalia”. Come anche la giurispru-
denza rotale ha in modo sostanzialmente costante chiarito – sia pri-
ma che dopo le dette Allocuzioni del Pontefice – tale anomalia deve
reperirsi in una condizione “patologica” (seppure non in senso stret-
tamente clinico, come gli esempi che sotto analizzeremo chiariran-
no) del soggetto, non bastando a renderlo incapace di decidere o di
agire diversamente la semplice minore preparazione, l’abitudine sba-
gliata, il dato caratteriale, la poca prudenza e diligenza nel prendere
decisioni, un’educazione carente o l’altrui cattivo esempio.

Una volta precisato questo, possiamo dar corso alla seconda fa-
se della nostra risposta circa il quando l’uso di ragione non sia “suffi-
ciente” o il difetto di discrezione di giudizio sia “grave” (senza di-
menticare che il criterio formale di determinazione dell’incapacità
psichica avrà valore anche per quanto diremo in merito all’incapaci-
tà di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, ai sensi del
can. 1095, 3°). In pratica – si dovrà dire in conseguenza di quanto
già acquisito – quando una forma “patologica” sarà tale da intaccare
sostanzialmente le facoltà naturali dell’intelligenza e/o della volontà
della persona.
Quali sono però queste forme patologiche? La giurisprudenza,
in anni di accurato studio, ne ha individuate parecchie e di esse non
possiamo che ricordarne alcune, richiamando altresì alcuni principi
applicativi che appaiono emergere dalla considerazione attenta del
dato giurisprudenziale.
Possono rispondere ai criteri illustrati per l’incapacità consen-
suale alcune fra le sindromi “patologiche” maggiori in campo psichi-
co, quali le psicosi (per esempio schizofreniche o di tipo maniaco-de-
pressivo) se giunte nello stadio cosiddetto “qualificato”, ossia di ma-
lattia conclamata. In questo caso, anzi, si deve registrare una delle
poche (forse l’unica) presunzione di carattere generale che la giuri-
sprudenza ha formulato in merito alla prova dell’incapacità: dati epi-
sodi di psicosi in stadio conclamato precedentemente al consenso e
dati analoghi episodi successivi a esso, si deve presumere l’incapa-
cità, seppure il consenso venne prestato in uno stadio di apparente
recupero della salute: ossia in un cosiddetto “lucido intervallo”. Infat-
ti si deve ritenere, anche alla luce delle attuali conoscenze scientifi-
che, che in detta fase vi sia stato non già un recupero della salute
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 211

mentale, bensì la remissione dei sintomi più clamorosi della malat-


tia, per esempio tenuti sotto controllo da cure farmacologiche. La
presunzione contraria vale invece per tutti gli altri casi, anche per lo
stadio iniziale, “prodromico” di una stessa malattia psicotica: il sog-
getto va ritenuto capace a meno della prova positiva del fatto che la
malattia abbia già prodotto dissociazione intrapsichica nel soggetto,
anche se non ancora la comparsa di quei sintomi clamorosi che pos-
sono anche sfuggire all’osservazione delle persone comuni.
Anche “patologie” minori possono influire sulle capacità con-
sensuali, soprattutto sotto il profilo del difetto di discrezione di giudi-
zio. Così per esempio certe forme nevrotiche, ma a condizione che il
disturbo sia grave e relativo a quegli elementi che, essendo oggetto
del consenso matrimoniale, devono essere anche oggetto della ne-
cessaria valutazione critica: quindi, a esempio, nevrosi che comporti-
no gravi difficoltà nello svolgimento della vita sessuale. Allo stesso
modo, gravi nevrosi che si manifestino sotto forma di idee ossessive,
ovvero di gravi forme di angoscia, possono causare limitazione della
libertà interiore di cui pure si sostanzia la discrezione di giudizio.
Anche nel caso dei cosiddetti disordini della personalità si deve
presumere la capacità consensuale del soggetto, restando l’ipotesi
dell’incapacità piuttosto eccezionale. Tale eventualità è da correlarsi
con la gravità clinica del disturbo e con il suo nesso con qualcuno
dei diritti e doveri coniugali. Così per esempio le personalità cosid-
dette borderline del versante psicotico, caratterizzate da imprevedibi-
lità di comportamento, decisioni irrazionali, possibili sconfinamenti
in temporanei episodi psicotici con perdita del contatto con la realtà,
possono influire sulla valutazione critica del soggetto e sulle sue ca-
pacità di autodeterminazione.
La capacità consensuale può essere compromessa anche da fat-
ti che possono essere definiti “patologici” solo in senso improprio e
che derivano da fattori esogeni: per esempio intossicazioni da dro-
ghe o da sostanze alcooliche, sia acute che croniche, ovvero stati di
abnorme eterosuggestione, come alcuni casi – per la verità eccezio-
nali – di ipnosi o di suggestione medianica.
Quanto alle intossicazioni acute da alcool o da droghe, appare
evidente che la possibilità di giudizio circa la capacità del soggetto
dipenderà dalla ricostruzione relativa al tipo di sostanza assunto, alla
quantità di essa, al tempo di assunzione rispetto alla celebrazione nu-
ziale, agli effetti causati sul comportamento del soggetto in occasio-
ne della celebrazione.
212 Paolo Bianchi

Quanto invece agli stati cronici di intossicazione, occorrerà va-


lutarne la gravità in rapporto ai più accreditati parametri scientifici
(esistono per esempio griglie di valutazione delle diverse fasi dell’al-
coolismo cronico, correlate anche agli effetti sull’intelletto e la vo-
lontà dello stesso), nonché al comportamento di fatto in relazione
agli obblighi matrimoniali, dovendosi desumere dalla eventuale inos-
servanza un indizio circa il grado della loro stessa valutazione criti-
ca. In particolare circa l’uso di “droghe” – premesso che occorrerà
vagliare caso per caso in quanto non sembra aver trovato conferma
la presunzione rigidamente proposta da alcune decisioni giudiziarie
per cui il tossicodipendente dovrebbe essere considerato sempre in-
capace – emerge piuttosto l’orientamento che considera la dipenden-
za abituale da droghe cosiddette pesanti come un rilevante indizio a
favore dell’incapacità. Non bisogna da ultimo dimenticare come spes-
so, alla base di alcoolismo e tossicodipendenza cronica, è dato reperi-
re strutture di personalità affette da consistenti disturbi, il cui ap-
profondimento non potrà essere trascurato nella valutazione delle
capacità consensuali del soggetto.

Una parola deve essere spesa circa la tematica della cosiddetta


“immaturità” che ha ottenuto negli ultimi decenni un grande svilup-
po, come dimostrano per esempio le numerosissime sentenze che si
sono dovute confrontare con questo problema, ovvero le ricerche
dottrinali che tentano un chiarimento teorico della questione. Tale
questione è infatti in se stessa assai complessa e oltremodo difficile
e ciò per una strutturale indeterminatezza dello stesso concetto di
immaturità. Infatti: se esso può indicare, da un lato, la sostanziale
inattitudine di un soggetto a un determinato compito (nel caso, la
prestazione del consenso matrimoniale e/o l’assunzione dei relativi
obblighi), d’altro lato, e forse ancora più spesso, esso segnala solo
una non completa, ottimale (ovvero: non ancora completa e ottimale)
disponibilità per il soggetto di tutte le proprie capacità psicologiche,
emotive, morali. In altre parole: non la di lui radicale inattitudine, ma
la semplice minore preparazione.
E ancora: il termine stesso di immaturità appare indicare realtà
diverse in diverse discipline: in quelle psicologiche, per esempio, e
concesso (come non tutti i tecnici riconoscono) che il concetto di
“immaturità” abbia una reale valenza scientifica, esso indica – per co-
sì dire e in rapporto allo stadio terminale, al punto di arrivo ideale
della maturazione del soggetto – qualsiasi mancanza che lo distanzia
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 213

da quel vertice; in quelle giuridiche, invece (o almeno nell’uso comu-


ne in diritto matrimoniale canonico), il termine “immaturità” vuole
intendere una situazione di incapacità radicale del soggetto all’atto
consensuale o alla vita matrimoniale: tanto è vero che si disquisisce
appunto di immaturità come situazione specifica alla base di una pos-
sibile incapacità matrimoniale.
Infine, difficoltà nella trattazione del tema dell’immaturità deri-
va dal fatto che non sempre risulta chiara o chiaramente applicata la
distinzione fra immaturità cosiddetta “psicologica” (che riguardereb-
be maggiormente le capacità logico-critiche del soggetto) e immatu-
rità cosiddetta “affettiva” (che concernerebbe maggiormente i senti-
menti e, quindi, la sfera della motivazione nel decidere e della coe-
renza nell’agire).
La giurisprudenza rotale prevalente ammette l’immaturità come
causa di incapacità matrimoniale rigorosamente in via di eccezione,
non già di regola, stabilendo il principio – giuridicamente preciso
seppure ancora assai formale – che rileva ai fini dell’incapacità del
soggetto solo quell’immaturità che integri le fattispecie legali del
grave difetto di discrezione o dell’incapacità di assumere gli obblighi
essenziali del matrimonio. In altre parole: non ogni forma di immatu-
rità personale, sia psicologica che affettiva, produce l’incapacità del
soggetto al matrimonio, ma solo quella che, eccezionalmente, attin-
ge un grado di particolare gravità.
Il problema diviene allora nuovamente quello di definire quan-
do una determinata situazione psichica anomala – nel caso quella ge-
nericamente descritta come “immaturità” – sia talmente “grave” da
essere possibile fonte di incapacità, sia al consenso, sia alla assunzio-
ne/compimento degli obblighi essenziali. Tale definizione non potrà
basarsi esclusivamente sulla rilevazione di “sintomi” immaturativi,
presenti nelle scelte e nei comportamenti del soggetto; rilevazione
magari scoordinata da un’indagine più approfondita e articolata delle
vicende di quello. E ciò perché, come ricorda ancora il S. Pontefice:
«non è infatti difficile cogliere nei contraenti aspetti infantili e conflittuali
che, in una simile impostazione, diventano inevitabilmente la “prova” della
loro anormalità, mentre forse si tratta di persone sostanzialmente normali,
ma con difficoltà che potevano essere superate» (Allocuzione del 1988, in
AAS 80 [1988] 1183).

Il criterio della “gravità” sarà invece quello di cogliere – in una


visione complessiva dei fatti di causa – le ragioni formali, strutturali
214 Paolo Bianchi

(ossia relative al piano della funzionalità delle facoltà “naturali” della


persona) che sole possono rendere ragione della sottrazione alla sua
libera determinazione di determinate decisioni e comportamenti. In
altre parole: i criteri per determinare in quali eccezionali occasioni
una forma di immaturità procuri incapacità matrimoniale non sono
diversi – né lo potrebbero essere – da quelli che debbono verificarsi
per ogni altra forma di incapacità psichica al matrimonio.
A comprova deve riportarsi non solo la bassa percentuale di de-
cisioni rotali che hanno riconosciuto stati di “immaturità” come cau-
sa di un’incapacità al matrimonio, ma anche il fatto che, in tali ecce-
zionali decisioni, non raramente la generica “diagnosi” di “immatu-
rità” appare precisarsi, in corso di causa, in categorie diagnostiche
più specifiche, soprattutto nell’ambito dei cosiddetti disordini della
personalità o di gravi nevrosi attinenti l’oggetto del consenso: a com-
prova, appunto, del fatto che la “gravità” da verificarsi è correlata al-
l’accertamento di una franca anomalia sostanzialmente lesiva delle
facoltà naturali del soggetto.

Per concludere la trattazione riservata al diritto sostantivo dob-


biamo effettuare qualche accenno alla tematica della prova di un
eventuale difetto involontario del consenso ai sensi del can. 1095, 1°
e 2°. Certamente infatti il lettore si sarà già più volte domandato: ma
come è possibile provare tutto quanto la norma, l’autorevole dottrina
e la giurisprudenza richiedono?
Sostanzialmente, la prova di un’incapacità può essere struttu-
rata attorno a un triplice accertamento. La ricostruzione dei fatti at-
tinenti i comportamenti del soggetto, in particolare quelli che han-
no avuto maggiore attinenza – cronologica o di merito – con la deci-
sione matrimoniale; la ricostruzione della eventuale “storia clinica”
del soggetto; l’approfondimento peritale delle sue condizioni psichi-
che. Tale triplice accertamento dovrà, come ovvio, adattarsi alle esi-
genze concrete del caso, anche con la possibile prevalenza di qualcu-
no dei tre tipi di accertamento indicato: è chiaro, per esempio, che
nel caso di una malattia psicotica con ricoveri pre e postnuziali la ri-
costruzione documentale della “storia clinica” del soggetto avrà un
peso determinanante, mentre in un caso di asserita intossicazione al-
coolica acuta poco senso avranno approfondimenti peritali, magari
ad anni di distanza dal fatto da ricostruire. In merito ai tre tipi di
approfondimento evidenziati, possiamo sinteticamente rilevare quan-
to segue.
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 215

Quanto ai fatti da ricostruirsi circa il comportamento del sog-


getto sarà opportuno ricordare che essi – collocandosi sul piano pro-
prio del lavoro e della responsabilità del giudice – dovranno essere
ricostruiti con particolare accuratezza. Infatti, come del resto la nor-
ma canonica chiaramente stabilisce, solo sulla base di fatti certi e de-
terminati è possibile trarre presunzioni e sviluppare deduzioni logi-
che (cf can. 1586). Tale ricostruzione è di grande importanza anche
in vista di fornire un materiale sicuro al Perito, per la sua interpreta-
zione tecnica. Infatti, è evidente che essa vedrà di non poco sminuito
il proprio valore laddove risultasse costruita su fatti – ritenuti magari
“sintomi” di un’anomalia rilevante – che si dimostrino non provati in
atti. Così, per esempio, non basterà che ci sia qualcuno disposto a ri-
ferire come teste che Tizio, supposto incapace, gli appariva “strano”.
Tale asserzione, infatti, resta una mera opinione, priva di rilievo pro-
batorio fin tanto che chi la formula non chiarisca in base a quali cri-
teri e, soprattutto, in base a quali dati di fatto egli la esprima.
Appare chiaro che tali fatti saranno di tanto maggior rilievo
quanto più saranno collocabili in prossimità cronologica al consenso
matrimoniale e quanto più avranno come oggetto qualcuno degli ob-
blighi matrimoniali. Infatti, sarebbe strano pensare di poter ritenere
qualcuno incapace di valutare con sufficiente uso di ragione tali obbli-
ghi, ovvero di avere gravemente mancato di discrezione di giudizio
verso di essi, laddove risulti per esempio che da parte sua i detti ob-
blighi siano stati osservati, magari anche per un tempo prolungato.
Poiché, come detto, l’incapacità anche consensuale al matrimo-
nio deve basarsi su di una anomalia sostanzialmente inabilitante le
facoltà naturali dell’intelletto e della volontà, occorrerà ricostruire la
cosiddetta “storia clinica” del soggetto, ossia la vicenda di eventuali
contatti con medici, istituzioni cliniche, cure, ricoveri. La mancanza
di una tale “storia clinica” (a meno dei casi, peraltro eccezionali, di
intossicazione acuta di sostanze psicotrope o di ancora più eccezio-
nali episodi di eterosuggestione) non sarà di norma un indizio a fa-
vore della probanda incapacità. Non si intende con ciò dire che la
mancanza di una vicenda clinica sia un ostacolo dirimente alla prova
dell’incapacità. Vi sono infatti alcuni disturbi di personalità, per e-
sempio, definiti dai tecnici “ego-sintonici”: ossia non disturbanti per
il soggetto ma solo per gli altri. In ragione di ciò il soggetto potrebbe
essere convinto di star perfettamente bene e di non avere bisogno di
cure mediche e quindi non ricorrervi se non perché costretto da al-
tri. Si intende invece dire che la mancanza di una storia clinica è, in
216 Paolo Bianchi

linea generale, e salvo prova del contrario, un indizio sfavorevole alla


prova del difetto consensuale. Un indizio, dacché il giudizio sull’e-
ventuale difetto di consenso è un giudizio di carattere giuridico che
non esaurisce nella ricostruzione del dato clinico l’analisi della sua
base di fatto. Il dato clinico è uno degli elementi che il giudice deve
prendere in considerazione.
Infine il terzo cardine della prova di una eventuale incapacità
consensuale sarà l’accertamento di tipo peritale, che il Codice di di-
ritto canonico prevede anche in specifico riferimento per le cause
matrimoniali (cf cann. 1574 e 1680). A questo proposito, è importan-
te ricordare brevemente che il Perito, nell’ordinamento processuale
canonico, è solo un consulente del giudice e che il giudice medesi-
mo resta libero nell’apprezzamento del parere peritale. Certo “libe-
ro” non in modo arbitrario, ovvero contrario alla ragione e alla giusti-
zia: il giudice, invece, dovrà fare una lettura critica degli elaborati
peritali (sia d’ufficio che di parte, ovvero ancora stragiudiziali) moti-
vando il proprio accoglimento o meno delle conclusioni del Perito
(cf can. 1579 § 2). Tale lettura critica non potrà basarsi ovviamente
su argomenti propri della disciplina del Perito (se il giudice ne fosse
già da solo padrone non avrebbe bisogno del Perito medesimo), ben-
sì su argomenti che la giurisprudenza ha già da tempo elaborato, per
esempio: la concordanza delle conclusioni e delle argomentazioni
del perito coi fatti di causa (cf can. 1579 § 1); la logica intrinseca del
lavoro Peritale; la metodologia utilizzata; l’essere o meno venuto a
contatto col peritando.
Nelle Allocuzioni già sopra richiamate, il Papa ha esplicitato un
ulteriore importantissimo criterio per la valutazione del lavoro peri-
tale: la verifica dei suoi cosiddetti “presupposti antropologici”, ovve-
ro la coerenza della sua visione di uomo con quella formulata dall’an-
tropologia cristiana che, per necessità conseguente, viene presuppo-
sta dall’ordinamento canonico. È chiaro infatti che un Perito che
partisse per la sua interpretazione dei fatti da una visione dell’uomo
fortemente difforme da quella cristiana (per esempio una visione de-
terministica e negante quasi a priori la libertà; ovvero una visione
che implicitamente restringesse l’esercizio del diritto al matrimonio
solo a individui particolarmenti dotati o atti a ottenerne l’esito otti-
male), offrirebbe al giudice una risposta non pertinente e inutile per
l’accertamento per il quale il Perito viene officiato.
È da ricordare infine – cosa che anche i consulenti delle coppie
in grave difficoltà coniugale dovranno tenere ben in conto per susci-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 217

tare la responsabile collaborazione di tutti gli interessati e per evita-


re di creare facili illusioni – che la ricostruzione della “storia clinica”
di un individuo e l’approfondimento di tipo peritale difficilmente pos-
sono essere espletati in modo utile senza la collaborazione franca
nella verità da parte di chi deve essere sottoposto a verifica della
propria capacità alla prestazione del consenso matrimoniale. Oggi-
giorno è infatti assai difficile che – anche per un giusto rispetto della
intimità personale e del segreto professionale – medici siano disposti
a deporre, ovvero Direzioni sanitarie siano disposte a rilasciare certi-
ficazioni o cartelle cliniche senza le debite autorizzazioni. Anche sul
piano delle perizie, poi, seppure una perizia sui soli atti è senza dub-
bio possibile, essa tuttavia può risultare poco persuasiva se il manca-
to contatto con l’interessato non sia supplito da sicura informazione
clinica già presente in atti.

Guida per il Consulente


Alla luce di quanto esposto sopra, il Consulente delle coppie in
grave difficoltà coniugale che si trovasse a ipotizzare un difetto invo-
lontario di consenso per mancanza di sufficiente uso di ragione o per
grave difetto di discrezione di giudizio, prima di prospettare una ta-
le soluzione all’eventuale insanabile naufragio coniugale, dovrebbe
sommariamente indagare sui punti seguenti.

1. Come sia andato il fidanzamento e, soprattutto, quali siano


state le cause delle eventuali difficoltà o rotture. Se esse furono do-
vute a stranezze, eccentricità, anomalie di comportamento del sup-
posto incapace e quali esse fossero.

2. Se la persona che si suppone incapace abbia avuto difficoltà


in qualche campo importante dell’esistenza: i rapporti familiari e con
le altre persone; lo studio o il lavoro; l’assolvimento dei propri obbli-
ghi sociali (per esempio il servizio di leva o il rispetto delle leggi e
delle regole del vivere civile).

3. Se la persona che si ipotizza incapace al consenso abbia avuto


una “storia clinica” in campo neuropsichico: se sia stato curato da
medici (e se sono reperibili e pronti a deporre); quali diagnosi siano
state formulate e a quali cure sia stato sottoposto; se tali cure fossero
ancora in atto al momento del consenso; se vi siano stati ricoveri pre-
218 Paolo Bianchi

nuziali: quando, dove, per quanto tempo, con quali possibilità di do-
cumentazione.

4. Come il soggetto parlasse prima delle nozze del prossimo


matrimonio e degli impegni coniugali: in particolare, se mostrasse in
merito posizioni eccentriche o sensibilmente immature. Se di tali po-
sizioni vi fu confronto con altre persone e quali capacità di ragiona-
mento e autocritica mostrasse in merito il soggetto.

5. Se il soggetto fosse convinto di sposarsi o se vi fu invece


qualche causa anomala che abbia spinto al matrimonio: per esempio
uno stato di gravidanza, gravi scrupoli, suggestione di altre persone.
Sarà molto importante cercare di ricostruire il meglio possibile il
“peso” soggettivo di tali situazioni esterne. Se infatti – da sole – non
possono integrare un vizio sostanziale della libertà interiore, è pur
vero che esse possono non poco influire su personalità particolar-
mente suggestionabili, labili e predisposte.

6. Se il soggetto avesse abitudini voluttuarie che influissero sul-


lo stato psichico, quali uso di droghe o di alcool. Quali sostanze fos-
sero assunte e con quale intensità. Se vi furono cure in merito e con
quale esito.

7. Come il soggetto si sia comportato nei preparativi nuziali e


nel giorno stesso delle nozze: se vi siano stati atti incongrui alle cir-
costanze, discorsi inopportuni, prese di posizione clamorose.

8. Come il soggetto abbia assolto i suoi doveri matrimoniali. In-


fatti, come già accennato, se non bisogna dimenticare che la capacità
di assolvere gli obblighi assunti costituisce un autonomo capo di nul-
lità per difetto dell’oggetto del consenso (cf can. 1095, 3°), tuttavia è
difficile pensare che chi non fosse in grado di valutare gli obblighi
del matrimonio e di autodeterminarsi verso di essi possa poi averli
osservati perfettamente magari per lungo tempo. Ci si dovrebbe
aspettare, più ragionevolmente, qualche mancanza anche nella loro
esecuzione.

9. Quale sia stata la eventuale “storia clinica” del soggetto dopo


la celebrazione delle nozze. Infatti, se è vero che la valutazione della
capacità consensuale è strettamente rapportatata al momento del
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 219

consenso, lo studio della evoluzione clinica dell’ipotizzato incapace


potrà portare non poca illustrazione delle sue effettive condizioni in
quel preciso momento.

10. Se il probando incapace sia disposto, nel caso della instaura-


zione di una causa canonica, a sottoporsi a perizie o, almeno, a libe-
rare dal segreto professionale medici o istituzioni che l’abbiano e-
ventualmente seguito.

Esempi
Alcuni esempi cercano conclusivamente di meglio illustrare,
con la finalità didattica tipica della nostra Rubrica, la complessa ma-
teria.

Primo esempio

Giulia era una ragazza di famiglia non credente, ella stessa non
battezzata. All’età di diciotto anni cominciò una vita autonoma dalla
famiglia, che peraltro non si era mai troppo occupata di lei. Senza sta-
bile lavoro, Giulia cominciò a convivere con un certo Ciro: si trattò di
una convivenza molto disordinata sotto il profilo morale (che non si
ritiene utile qui dettagliare), che finì a causa delle violenze subite dal-
la stessa Giulia.
Frequentando un ambiente “artistico” Giulia, che aveva interes-
se per le dette attività, conobbe un certo Pasquale, che usciva proprio
in quei giorni da un periodo di permanenza in una comunità di recu-
pero per tossicodipendenti, dove aveva cercato di disintossicarsi dalla
droga. Tale operazione era riuscita solo in parte: Pasquale infatti con-
tinuava nell’abuso di cosiddetti spinelli e di alcoolici. Non lavorava e
si era ritirato a vivere in un cascinale – forse sarebbe meglio dire in
una capanna – di campagna, messogli a disposizione dai genitori.
Giulia si mise a convivere con Pasquale. Vi fu una convivenza
prenuziale dei due durata circa tre anni. Si trattò invero di una espe-
rienza disastrosa: Pasquale non aveva interesse per Giulia come
compagna anche sotto il profilo sessuale; d’altro lato la maltrattava fi-
sicamente e la ragazza più di una volta si era allontanata dalla casci-
na, salvo poi farvi sempre ritorno. Anche la situazione economica
era oltremodo precaria: per iniziativa di Giulia i due avevano dato vi-
ta a una modestissima attività di produzione artistica di livello arti-
220 Paolo Bianchi

gianale; Pasquale però lavorava solo occasionalmente, dandosi a spi-


nelli e alcool e trascurando anche gli adempimenti amministrativi
correlati alla piccola attività.
In questi tre anni di convivenza prenuziale Giulia venne accosta-
ta da un sacerdote della zona. Volendo approfondire la conoscenza
della fede cristiana la ragazza si mise a studiare e a frequentare il det-
to sacerdote, fino al punto di domandare e di ricevere il battesimo. Ri-
cevuto tale sacramento ella – persona onesta e rigida fino allo scrupo-
lo – cominciò a pensare: «Sono cristiana; convivo senza matrimonio.
Devo togliermi da questa situazione immorale e, pertanto, devo spo-
sarmi». Nonostante i consigli del sacerdote che l’aveva iniziata alla fe-
de, Giulia non si rese conto che la soluzione ragionevole era inter-
rompere la fallimentare convivenza, ma si impuntò fino a ottenere di
sposarsi, nella sostanziale indifferenza di Pasquale per il fatto.
La vita matrimoniale fu la replica della convivenza. Forse il ma-
trimonio nemmeno venne consumato e la coabitazione durò soltanto
qualche mese, finendo a causa della fuga di Giulia di fronte ai cre-
scenti eccessi di violenza di Pasquale.
Promossa una causa canonica, oltre ai fatti sopra compendiati,
la stessa Giulia si sottopose a esami di carattere peritale. Si poté ac-
certare che – dietro la sua onestà e rigidezza, certo vissute da lei in
buona fede – vi era in realtà un grave disturbo di personalità, una or-
ganizzazione borderline della stessa, vicina e sul limite dello sconfi-
namento psicotico e della perdita del contatto di realtà. Tale organiz-
zazione rigida della personalità e le vicende del matrimonio e di co-
me esso era stato deciso resero convinto il Tribunale che Giulia
avesse gravemente difettato in discrezione di giudizio, se non dal
punto di vista della valutazione di qualcuno dei suoi diritti e doveri,
certo da quello della sua libertà interiore, facendole compiere la sua
struttura patologica di personalità una scelta apparentemente mora-
le, ma in realtà profondamente irrazionale e non libera.
Lo stesso Scrivente – a sentenza emessa – dovette faticare non
poche ore per convincere Giulia (e non sa se vi sia riuscito) che era
sbagliata la di lei conclusione: «Il Tribunale giustamente ha ricono-
sciuto che, sposandomi, ho commesso un atto immorale». Ancora a
causa finita Giulia non riusciva a distinguere che, avendone ricono-
sciuto il difetto di discrezione, il Tribunale non aveva sanzionato una
sua scelta immorale, anzi – semmai – l’aveva moralmente scagiona-
ta, riconoscendola incapace di sufficiente valutazione critica nella
propria scelta matrimoniale.
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 221

L’esempio non richiede commenti particolari se non che l’in-


capacità consensuale può sussistere con la migliore buona fede del
soggetto e che la coerenza fra fatti e ricostruzione peritale sono uno
dei migliori criteri per la verifica della fondatezza di un’ipotesi di in-
capacità.

Secondo esempio
Marco era educatore in una comunità per tossicodipendenti. A
sua volta e a suo tempo dipendente da eroina, aveva compiuto un
cammino in comunità che sembrava positivo. Per questo era stato
promosso, verso la fine del cammino di recupero, educatore degli al-
tri ospiti della comunità, incaricato di dar loro esempio di come si
potesse “uscire” dalla droga e di sorvegliarne il comportamento.
L’essere quasi al termine del cammino di recupero e i positivi
risultati che sembravano raggiunti consentì a Marco di avere mag-
giori spazi di libertà: in concreto, poteva allontanarsi dalla comunità
stessa per commissioni e piccoli servizi.
Fra le persone che frequentavano la comunità come volontarie
e simpatizzanti, Marco conobbe Francesca. Nacque una simpatia e
nacquero anche brevi incontri in comunità e in alcuni dei momenti
di assenza di Marco dalla comunità. Vi furono delle intimità e Fran-
cesca rimase incinta.
Si pensò dunque al matrimonio. Marco venne dimesso dalla co-
munità e disse a Francesca di esserlo stato per il fatto che – avendo
reso gravida la sua ragazza – aveva dato un cattivo esempio a tutti gli
altri ospiti, tradendo la fiducia a lui data come educatore. Disse a
Francesca di essere stato trattato malissimo dai responsabili della
comunità e non volle più avere a che fare con loro, non invitandoli al-
le nozze e dissuadendo Francesca dall’avere più a che fare con quel-
l’ambiente.
Marco trovò un modesto lavoro dipendente di consegne a do-
micilio e il matrimonio venne celebrato in tutta fretta e modestamen-
te. Francesca, orfana dei genitori, aveva già a disposizione la casa la-
sciatale dai suoi. Nella breve convivenza prenuziale ivi realizzata (fra
l’uscita dalla comunità e le nozze) e nei primi giorni di vita comune
matrimoniale, nulla di strano notò Francesca in Marco.
Esattamente quindici giorni dopo le nozze, Francesca utilizzò
l’automobile utilitaria di Marco per andare a far spese. Dal cassetto
del cruscotto mal richiuso, fuoriuscirono in una curva gli oggetti co-
222 Paolo Bianchi

munemente usati dai tossicodipendenti per iniettarsi le sostanze tos-


siche. Immediatamente Francesca contestò a Marco la sua scoperta:
egli cercò poco convincentemente di negare ma dovette poi – inter-
venuti anche amici e parenti della ragazza – ammettere che era tor-
nato all’uso di eroina già negli ultimi mesi di permanenza in comu-
nità di recupero, approfittando dei momenti di libertà di cui sopra
detto e riaccostato dalle vecchie compagnie. Ammise pure che il mo-
tivo per cui la comunità l’aveva allontanato non era tanto la gravidan-
za di Francesca, ma i sospetti sul suo ritorno alla droga, che Marco
aveva voluto non affrontare e chiarire, sapendo di non poter a lungo
resistere nella negazione. Ammise infine che nei pochi mesi prima
delle nozze, vivendo già fuori della comunità, egli era tornato all’uso
frequente di eroina per via endovenosa, procurandosi i soldi attraver-
so l’appropriazione di parte del denaro delle consegne e spendendo i
soldi derivanti dai regali in denaro che i parenti avevano fatto alle
giovane coppia. La situazione del conto corrente comune confermò i
prelievi di denaro. Amici pure confermarono richieste di prestiti po-
co plausibilmente giustificate.
Francesca fu assai decisa con Marco: disse che avrebbe potuto
riprendere la vita comune coniugale solo dopo che si fosse curato.
Marco accettò di entrare in una nuova comunità: dopo un giorno,
però, Marco si allontanò volontariamente dalla comunità, espatrian-
do e rendendosi a lungo irreperibile.
Promossa una causa da Francesca essa non ebbe esito positivo
per quanto concerne l’incapacità: infatti non fu possibile ricostruire
esattamente a quale livello di uso di droga fosse tornato Marco al
momento delle nozze e, per la non collaborazione di lui (la sua parte-
cipazione al giudizio si esaurì in una breve deposizione in cui ammi-
se i fatti, di nuovo poi espatriando con recapiti precari), non fu possi-
bile effettuare una perizia che indagasse la struttura della sua perso-
nalità. I dati circa l’uso di droga della prima comunità – dove era
inserito quando incontrò Francesca – risalivano a molti anni prima;
quelli della comunità in cui era rimasto un solo giorno, erano troppo
scarsi per essere decisivi. Nella sede della prima comunità, poi, non
era stato fatto un approfondimento psicologico su Marco, tale da
supplire la mancanza di perizia. Inoltre Marco – seppure egli aveva
ammesso di essere tornato da qualche tempo alla droga – non aveva,
all’epoca delle nozze, ancora dato vita a comportamenti particolar-
mente strani o tipici dei tossicodipendenti nelle fasi peggiori. Già tra-
sferitosi, uscito dalla comunità e prima delle nozze a casa di France-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 223

sca, ella stessa non aveva notato nulla fino a matrimonio celebrato e
fino alla fortuita drammatica scoperta.
Per quanto detto, risultò arduo riconoscere con certezza mora-
le il difetto di discrezione di giudizio di Marco, non potendo accerta-
re il livello del pur da lui ammesso e provato per testi uso di droga e
non potendo approfondire la struttura della personalità dello stesso.
La causa, peraltro, ebbe esito positivo per la causale di errore
doloso, essendosi riscontrati nel caso presenti gli elementi richiesti
dal can. 1098, come si può reperire anche in QDE 5 (1992) 224-226.
L’esempio intende sinteticamente illustrare come, in assenza di
valida documentazione tecnica e nell’impossibilità di accertamenti
peritali, anche casi apparentemente facili per l’inesperto possono ri-
servare notevoli difficoltà di prova permanendo magari nel contem-
po la possibilità della dimostrazione della sussistenza di un altro mo-
tivo di nullità matrimoniale.

Terzo esempio
Il fidanzamento di Cinzia e Pino non andò bene. Pino era molto
geloso e faceva discorsi strani alla fidanzata. La accusava di prestare
attenzione anche ad altri ragazzi e non si lasciava persuadere dalle
rassicurazioni di Cinzia. Ella stessa, a un certo punto, volle rompere
il fidanzamento, ma Pino tornò a cercarla e Cinzia riprese a frequen-
tarlo. Da questa frequentazione, scesa anche a intimità, Cinzia si
trovò gravida: nel piccolo paese di provincia la soluzione logica ap-
parve ai due e alle famiglie il matrimonio.
Avvicinandosi alle nozze il comportamento di Pino non mi-
gliorò: anzi la sua gelosia verso Cinzia divenne sempre più accentua-
ta. Pochi giorni prima del rito, rientrati a casa dei genitori di Cinzia
dopo essere stati assieme da parenti per il rituale omaggio dei con-
fetti, Pino, osservando gli stivali infangati della fidanzata (era d’inver-
no e c’era brutto tempo), le fece una scenata di gelosia accusandola
di essersi incontrata con un amante, mentre erano stati fino a quel
momento insieme, presso i detti parenti. Pur preoccupata, Cinzia
non si sentì a quel punto di rinunciare al progetto nuziale ormai di-
vulgato, come del resto la di lei gravidanza.
Qualche settimana prima del fatto appena narrato, Pino era sta-
to ricoverato in un ospedale della zona per dei malesseri. Il ricovero
era avvenuto in un reparto di medicina, ma già erano stati registati
in cartella (acquisita poi agli atti della causa) degli spunti di tipo deli-
224 Paolo Bianchi

rante del soggetto: vedeva gli altri “guardarlo male”, aveva il sospet-
to che lo deridessero e volessero fargli scherzi malevoli.
Celebrate le nozze, la situazione di Pino peggiorò in modo rapi-
dissimo: cominciò a maltrattare la moglie anche fisicamente, nono-
stante questa fosse ancora in gravidanza, muovendole accuse assur-
de, quali quella di nascondere la sua vera identità e di dedicarsi di
nascosto a lui al lavoro di “soubrette” televisiva. Anche nei rapporti
sociali e sul lavoro il comportamento di Pino ebbe un tracollo: ope-
raio in una piccola industria alimentare, egli presentò delle denunce
alle forze dell’ordine nelle quali sosteneva che gli venissero sommi-
nistrate sostanze velenose per nuocergli e «arrostirgli il cervello»,
come egli stesso si esprimeva. Il datore di lavoro dovette denunciar-
lo per calunnia, onde cautelare la fama della piccola attività impren-
ditoriale: il pretore sentenziò il non luogo a procedere per l’infermità
di mente di Pino al momento del fatto.
Continuando le violenze in famiglia, le denunce strampalate a
Carabinieri e Polizia, gli atteggiamenti anomali sul lavoro e interve-
nuti trattamenti sanitari obbligatori, Cinzia, che nel frattempo aveva
dato alla luce un bambino, si separò da Pino anche per difendere il
piccolo dalle intemperanze di lui. Anche dopo la separazione Pino
continuò a “perseguitare” Cinzia con la sua gelosia e con irrazionali
dispetti. Cominciò addirittura a murare con mattoni e cemento la
porta dell’appartamento di lei, venendo prelevato con trattamento sa-
nitario obbligatorio su segnalazione dei vicini di casa.
Si succedettero altri ricoveri con diagnosi sempre più chiara in
senso psicotico, con carattere paranoide. Anche in corso di causa Pi-
no ebbe modo di manifestare lo stato di degrado in cui l’aveva con-
dotto la malattia: comparve un paio di volte, mai nei giorni e negli
orari lui fissati, ribadendo le inverosimili denunce nei confronti di
Cinzia, arricchite di particolari sempre più irrealistici. Cinzia non era
ormai più una “soubrette”, ma il capo segreto di una banda criminale
che l’aveva anche sequestrato con un elicottero e portato in una loca-
lità misteriosa, dove era dedita a complotti internazionali con alcuni
gerarchi sopravvissuti del Terzo Reich.
Nella causa l’indisponibilità di Pino alla perizia, da lui motivata
con gli impegni di chirurgo negli USA (sic), fu ampiamente supplita
dall’abbondanza di materiale clinico di cui il Tribunale poté entrare in
possesso: in pratica, tutte le cartelle relative ai ricoveri di Pino, da
quello prenuziale ai molti succedutisi fin dai primi tempi dopo le noz-
ze. Anche le denunce e gli scritti farneticanti di Pino che egli lasciò pu-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 225

re al Tribunale furono materiale utile per il Perito, che diagnosticò una


psicosi paranoide già in stadio qualificato al momento del matrimonio,
anche se non ancora manifestatasi in tutti i suoi sintomi più clamorosi.
Sulla base della diagnosi peritale e dei fatti emersi in istruttoria
il Tribunale riconobbe il difetto di discrezione di Pino, incapace di
valutare criticamente i diritti e gli obblighi coniugali, per esempio
quello del rispetto della integrità fisica e morale del coniuge.
L’esempio, riprendendo quanto già più sopra osservato, intende
ribadire l’importanza dell’acquisizione della documentazione clinica
in cause di incapacità consensuale, documentazione che, se massic-
cia, chiara e univoca, come nel caso dello sfortunato Pino, può esse-
re elemento decisivo di prova, anche supplendo all’impossibilità di
visite peritali dirette.

Quarto esempio
Valerio ebbe una vita assai sfortunata, soprattutto all’epoca del
delicato passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza. I genitori, di mode-
ste condizioni ma che si volevano assai bene, morirono a distanza di
pochi anni, lasciando Valerio solo assieme a un fratello più piccolo.
Valerio venne per poco tempo internato in un Istituto e venne in se-
guito accolto da uno zio materno, coniugato e con famiglia. Lo zio e i
suoi familiari erano davvero affezionati a Valerio ed egli stesso deve
riconoscere di essersi sempre trovato bene con loro.
Seguito anche, in diverse epoche, dall’amicizia di alcuni sacer-
doti della zona, Valerio raggiunse un diploma e trovò un lavoro, di-
stinguendosi in esso per un rendimento positivo. Frequentando la
parrocchia del paese, dove visse assieme ad altri giovani i fermenti
anche ecclesiali degli anni ’70, Valerio, alle soglie della giovinezza,
conobbe Miriam, di qualche anno minore, con la quale iniziò un fi-
danzamento durato circa quattro anni. Nonostante qualche parere
contrario, per esempio quello della zia che lo ospitava e alla quale i
caratteri dei due fidanzati apparivano piuttosto difformi, Valerio e
Miriam celebrarono con solennità le loro nozze nel paese.
Circa sei anni durò la vita coniugale con momenti buoni e an-
che con difficoltà che portarono i due alla separazione, non senza ri-
pensamenti e perplessità, data la buona fede e la fondamentale edu-
cazione religiosa di entrambi.
Iniziata successivamente una convivenza con altra donna, Vale-
rio impugnò la validità del suo matrimonio accusando se stesso di di-
226 Paolo Bianchi

fetto di discrezione di giudizio in ragione di una sua presunta imma-


turità, derivante dalla triste esperienza familiare, assumendo di esse-
re giunto al matrimonio in una situazione conflittuale e in preda a va-
rie incertezze, nonché appoggiandosi a una relazione peritale che
avallava la sua tesi.
La istruttoria svolta ridimensionò sostanzialmente questa tesi di
Valerio: in primo luogo, i fatti che egli apportava a comprova della
stessa apparvero assai enfatizzati e riletti “a posteriori”. A fronte di
qualche parere circa il carattere di lui un po’ bizzoso e volubile, emer-
se che Valerio era un bravo ragazzo, in famiglia e sul lavoro; che si
era da anni positivamente adattato nella nuova famiglia degli zii. Non
trovò invece conferma che il fidanzamento avesse avuto particolari
contrasti, soprattutto, come sosteneva Valerio, coi genitori di Miriam:
la stessa, pur interessata alla causa, smentì la cosa, né altri la confer-
marono. Nemmeno trovarono riscontro i dubbi prenuziali che Valerio
affermava in causa di avere avuto: non solo nessuna conferma poté
essere portata ma, anzi, le persone allora più vicine al giovane ne sot-
tolinearono la sicurezza e la gioia nell’accostarsi al matrimonio. An-
che per i sei anni di vita coniugale nulla emerse che – indiziariamente
– avallasse la tesi di una mancata valutazione critica da parte di Vale-
rio degli obblighi coniugali. Nessuna grave violazione di essi emerse
come provata; anzi Valerio dovette ammettere che – di fronte alla di-
sponibilità di una conoscente a iniziare una relazione extraconiugale
– egli seppe resistere in osservanza degli impegni presi con Miriam.
La vita coniugale fallì invece per subentrati divergenti interessi e per
la stanchezza di Miriam nel seguire Valerio nelle attività di svago a lui
più gradite, quali le trasferte della squadra di calcio preferita.
In secondo luogo anche la prova tecnica risultò controprodu-
cente per la tesi di Valerio. La perizia pregiudiziale che accompagna-
va il libello perse molto del suo valore in quanto basata sostanzial-
mente sul racconto enfatizzato di Valerio, smentito dall’istruttoria te-
stimoniale. Il redattore della perizia, comunque, non giungeva al di
là di una diagnosi di immaturità in grado lieve o medio, con tratti
narcisistici della personalità.
In giudizio vennero eseguite due perizie di ufficio, entrambe su-
gli atti e sulla persona di Valerio. La prima, argomentando in modo
completo e in coerenza con quanto provato in atti, evitando pan-psi-
cologizzazioni a partire dall’assunzione acritica del racconto odierno
dell’attore, metteva in evidenza nella di lui personalità lievi tratti ne-
vrotici. In coerenza con i principi dell’antropologia cristiana (per
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 227

esempio non equivocando l’operatività dell’inconscio nella vita psi-


chica dell’uomo con un fenomeno necessariamente patologico), di-
chiarava assai tenui gli influssi di quanto accertato sulle capacità cri-
tiche del soggetto in genere.
Valerio, su suggerimento del suo avvocato, produceva una peri-
zia di parte che criticava la prima di ufficio. Essa lo faceva però in
modo incoerente: ammettendo la sostanziale conservazione delle ca-
pacità critiche di Valerio e spostando la valutazione del caso nella
prospettiva del can. 1095, 3°; peraltro ciò era fatto in modo assai fu-
moso in quanto ai criteri di riferimento, proponendo per esempio
quello della “funzionalità” della relazione matrimoniale. Tale perizia
era incoerente anche nella sua conclusione, non osando affermare la
incapacità psichica di Valerio (per nessuna delle ipotesi di cui al can.
1095), ma solo consigliando di ammettere una nuova perizia d’uffi-
cio, per maggiore tranquillità della coscienza di Valerio.
Tale nuova perizia d’ufficio era disposta e – al termine di un e-
sauriente esame sia degli atti che del periziato Valerio – essa confer-
mava i risultati della precedente perizia d’ufficio. I tratti della perso-
nalità di Valerio, accuratamente da distinguersi da disturbi di caratte-
re psichico, per nulla e mai hanno intaccato la sua intelligenza e la
sua volontà: né nel decidere né nel portare a effetto le sue decisioni.
Le esperienze dell’infanzia possono avere anche inciso su di lui, ma
non in modo sostanziale e privandolo della capacità di valutare le
proprie scelte e di onorare gli impegni presi.
L’esempio vuole rendere avvertito il consulente dal lasciarsi
suggestionare da casi particolarmente dolorosi (quali quelli relativi
alla infanzia di Valerio) e dagli stereotipi che spesso ne conseguono
(l’orfano che resta immaturo; il figlio unico che non sa rendersi auto-
nomo dai genitori; il ragazzo che è stato in collegio che resta un ri-
belle per tutta la vita...), ma di cercare di valutare l’andamento effetti-
vo dei fatti, chiedendo in merito a essi qualche iniziale esemplifica-
zione o riscontro. La stessa cautela si dovrà utilizzare di fronte a
pareri psicologici costruiti su racconti unilaterali, ovvero poco chiari
nelle loro prospettazioni cliniche ed, eventualmente, medicolegali.
Spingere a intraprendere una causa sulla base di resoconti non
verificati o di pareri psicologici unilaterali e vaghi porta spesso a de-
lusioni in sede di giudizio.
PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 MILANO
228

Il diritto canonico dalla A alla Z


di G. Paolo Montini

G. Glossa

Un fenomeno universale
Appartiene senz’altro all’universo della cultura dell’uomo com-
prendere e fare delle aggiunte a ciò che è tramandato. E questo av-
viene in ogni campo, anche in quello letterario. Basterebbe prendere
in mano i testi scolastici su cui anche gli studenti di oggi imparano,
per rinvenire nel testo e a lato appunti, note, riassunti, commenti o
anche più semplicemente sottolineature, segni e simboli. Il loro fine
principale è sia l’intelligenza del testo, in se stessa e in ordine allo
studio, alla assimilazione e memorizzazione, sia il completamento
del testo in base ad apporti provenienti da altre fonti.
Si ha qui il significato che potremmo chiamare comune di glos-
sa: una qualsiasi nota apposta a chiarificazione di un testo. In questo
senso il termine glossa si è trasformato lessicalmente in italiano an-
che in altri termini come chiosa e clausola.
In questo significato troviamo pertanto glosse a testi di gram-
matica, di medicina, di storia. A volte le glosse appaiono più impor-
tanti del testo, se sono state apposte da Autori insigni.
Non è però il termine glossa l’unico adoperato a spiegare questo
fenomeno complessivo. Si rinvengono molti altri termini con signifi-
cati uguali o affini: catena 1, excerptum 2, scholion 3, masora 4, postilla o
apostilla ecc.
1
«Est un terme bibliographique moderne, qui n’est répandu que depuis la Renaissance, pour désigner
une édition du texte de la Bible dans les marges de laquelle on a transcrit, en guise de commentaire
perpétuel, des citations des saints Pères» (P. BATIFFOL, Chaînes bibliques, in Dictionnaire de la Bible
Il diritto canonico dalla A alla Z 229

L’origine del termine glossa è antichissima e si riferisce a quel-


le parole (singole) che, in testi di solito poetici, non erano (ormai)
più comprensibili ai lettori, in quanto antiquate o di origine stranie-
ra 5. Tali parole esigevano una spiegazione attraverso una parola co-
nosciuta equivalente 6. Normalmente la parola più comune era posta
sopra la parola da spiegare (e perciò tra le righe), oppure a margine
del testo manoscritto.
Fu facile e logico poi il passaggio dal significato di «termine dif-
ficile da chiarire» al significato di «interpretazione data ad un termi-
ne difficile» 7; e in tal modo anche a un significato traslato 8.

II/I, Paris 1926, 482). La più famosa catena occidentale, detta appunto Catena aurea, composta da san
Tommaso d’Aquino sui Vangeli, assunse tale denominazione solo dal 1484, mentre il titolo originale da-
tole dall’Autore era proprio Glossa continuata!
2
Cf, per esempio, san Girolamo che traduce con excerpta i termini greci semeioseis (prologo al Com-
mento a Isaia) e scholia (prefazione alle omelie di Origene sul profeta Ezechiele). In questi ultimi Ori-
gene, dice Girolamo, ha risolto [perstrinxit] in modo riassuntivo e breve [summatim breviterque] quan-
to gli sembrava oscuro e difficoltoso.
3
Cf A. GUDEMAN, Scholien, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II Reihe,
III Halbband, Stuttgart 1921, 625-705. Cf pure, per l’ambito biblico, l’introduzione di P. Géhin, in ÉVA-
GRE LE PONTIQUE, Scholies aux Proverbes, Paris 1987, pp. 13-18.
4
Cf, per esempio, E. WÜRTHWEIN, The Text of the Old Testament. An Introduction to the Biblia He-
braica, Grand Rapids 1979, pp. 27-28.
5
Già le parole “difficili” dei poemi omerici [V secolo a. C.] erano chiamate in greco glossai (lett.: lin-
gue). L’espressione si rafforzò e divenne tradizionale presso i Greci e fu accettata poi dai Latini con il
medesimo significato nella sua traslitterazione (glossa), con varianti come glossula, glossema. Nel me-
dioevo si afferma poi la forma glosa con i suoi derivati glosare, glosatura; con l’umanesimo prevarrà di
nuovo la voce classica glossa. Cf GOETZ, Glossographie, in Paulys Realencyclopädie der classischen Alter-
tumswissenschaft XIII, Stuttgart 1910, 1433-1465; TOLKIEHN, Lexikographie, in ibidem, XXIV, Stuttgart
1925, 2432-2482.
Sembra di sufficiente evidenza il passaggio da glossa nel significato originario di lingua a glossa come
termine “difficile”, bisognoso di spiegazione: si sarebbe trattato all’origine di un termine «appartenente
ad una lingua diversa, ad un dialetto»(cf Aristotele, Poetica) e perciò incomprensibile. In epoca medie-
vale si tenterà un legame più diretto: «Dicitur glosa quasi glossa i.e. lingua, quia tamquam lingua docto-
ris adaequat et exponit et ad literam exponendam insistat et sensum enucleat» (UGUCCIO [† 1210], Dic-
tionarium, cit. in C. SAVIGNY, Storia del diritto romano nel medio evo, I, Torino 1854, 740, n. 207, nota c).
Potrebbe essere legato a questo significato anche il termine “glossolalia”, che nel Nuovo Testamento in-
dica il parlare in lingue: cf J. BEHM, Glossa, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1966, 561.
6
Isidoro di Siviglia dice che la glossa spiega con una sola e singola parola il termine di cui si chiede
l’interpretazione. Come per esempio: «Conticescere est tacere»; oppure: «Latus haurit apertum. Haurit,
percutit» (Etymologiae sive Origines, Libro I, cap. 30).
7
Cf ALCUINO, Grammatica, in PL 101, 858: «Glossa est unius verbi vel nominis interpretatio, ut: catus, id
est, doctus».
8
Si prenda, per esempio, l’applicazione poetica del termine glossa alla Beata Vergine Maria nei Versi
metrici di CHRISTIANUS CAMPILILIENSIS [† dopo il 1330]: «Argumentosa doctrix, autentica glosa / Legis le-
prosa sanans et contagiosa / Nulla venenosa refugis nec flagiciosa, / Sub cruce penosa gustas anima gla-
diosa. [...] Clara poli stella, divina Maria puella / Vatis fiscella, tu legis glosa novella, / Federis archel-
la, miseris epulosa patella, / Stillant, femella, tua mel cum lacte labella» (Carmina 4.5; il tondo è no-
stro).
Non appare invece chiaro il nesso per cui glossare acquista in alcuni testi il significato di “coniugare (un
verbo)”: cf SEDULIUS SCOTTUS [sec. IX], In Donati artem minorem.
230 G. Paolo Montini

A volte veniva composto un elenco di tali parole, di solito in rife-


rimento a un’opera (anche come indice finale) o alle opere di un Au-
tore, e in tal modo si formarono le “glosse” o i “glossari”, poi chiama-
ti vocabolari, dizionari o lessici 9.

Nell’ambito giuridico
Il fenomeno della glossa è chiaro che non poteva essere escluso
dall’ambito della letteratura giuridica, anche perché proprio nei testi
giuridici vi era una terminologia sia arcaica, per il tramandarsi di te-
sti antichissimi, sia specialistica, per la tecnicità del linguaggio giu-
ridico.
Si conoscono in tal modo glosse apposte a collezioni giuridiche,
sia civili sia canoniche, praticamente in ogni epoca 10.
La fioritura e l’espansione però del fenomeno della glossa nel-
l’ambito giuridico ebbe una sua specifica caratteristica nei secoli XI-
XIII, che possono essere chiamati “l’età della glossa”.
Gli Autori (maestri, scrittori, esperti) di quest’epoca pertan-
to saranno chiamati “glossatori” 11 sia nell’ambito canonico (dal 1140
al 1348) che in quello civile o romano (XII secolo e prima metà del
sec. XIII), ancorché non tutti abbiano prodotto propriamente e pri-
mariamente delle glosse, ma solo commentato un testo principale
delle fonti.
Questa epoca si caratterizza non tanto (o non solo) per il molti-
plicarsi delle glosse apposte ai testi giuridici, quanto per la loro qua-
lificazione.
Questo fenomeno del tutto peculiare non si comprende appieno
se non ci si rende conto delle principali cause che l’hanno prodotto:

9
Prima si preferì il plurale glossae; solo molto tardi si usò glossarium e ancora più recenti sono i termi-
ni dictionarium e vocabularium (cf TOLKIEHN, Lexikographie, cit., 2433). Cf pure per l’età media AA.VV.,
Glossen, Glossare, in Lexikon des Mittelalters IV, München-Zürich 1989, 1508-1515.
10
Cf M. CONRAT (COHN), Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts im frühen Mittelal-
ter, Aalen 1963, passim. Per le glosse di diritto romano, cf soprattutto pp. 107-160; per glosse canoniche
in epoca carolingia, cf soprattutto pp. 254-255 e in specie F. MAASSEN, Glossen des Canonischen Rechts
aus dem Carolingischen Zeitalter, Wien 1877.
Si vedano per esempio le Glossae, recentemente pubblicate, di Raterio, vescovo di Verona e canonista
del sec. X, a due codici manoscritti, l’uno degli Atti dell’ottavo Concilio Ecumenico, l’altro della Colle-
zione Dionisiano-Adriana. Si tratta di segni (cf nt. oppure +), di esclamazioni (pulcherrime [= bellissi-
mo]; perlepide [= ridicolissimo]) e di note. Cf RATHERIUS VERONENSIS, Glossae, ed. da C. Leonardi, in ID,
Praeloquiorum libri VI - Phrenesis - Dialogus confessionalis - Exhortatio et preces, ed. P. Reid, [Corpus
Christianorum CM 46A], Turnholti 1984, pp. 304-314.
11
Cf R. BITTERLI, Glossatoren. Römisches Recht, in Lexikon des Mittelalters IV, 1504-1506; R. WEIGAND,
Glossatoren. Kanonisches Recht, in ibid., 1506-1507.
Il diritto canonico dalla A alla Z 231

1. La diffusione e la formalizzazione di un testo 12. Le glosse si


comprendono solo in funzione di un testo. Quanto più il testo si
diffonde, quanto più il testo si unifica, quanto più il testo diventa au-
torevole, altrettanto la glossa si espande e diventa un fenomeno di
massa.
Quando tutti si concentrano su un testo unico, la cui autorità è
indiscussa, la glossa diventa un fenomeno necessario.
E certo i secoli XI-XIII di per se stessi erano i più adatti ad ave-
re un testo di riferimento. Il medioevo è l’epoca del testo.
Nell’ambito teologico è la Bibbia.
Nell’ambito giuridico civile è la legislazione di Giustiniano, or-
mai completa con la “scoperta”, avvenuta nel 1070, del Digesto 13.
Nell’ambito canonico è il Decreto di Graziano, composto intor-
no al 1140.
La successione temporale della disponibilità dei testi dice an-
che la dipendenza, almeno iniziale, nel metodo fra teologia, diritto
romano e diritto canonico.
La glossa biblica sarebbe stata la prima, favorita da una lunghis-
sima e ininterrotta abitudine ed esperienza all’esegesi e al commen-
to del testo sacro nella teologia 14.
La glossa nel diritto romano avrebbe seguito. L’iniziatore è indivi-
duato nel glossatore Irnerio († 1130 circa) dell’Università di Bologna.
A sua volta il diritto romano avrebbe influenzato almeno inizial-
mente la glossa canonica, che ha acquisito più tardi i testi da com-
mentare: il Decreto di Graziano (1140 circa; da cui i “Decretisti”) e le
Collezioni di Decretali (dal 1234; da cui i “Decretalisti”).

2. La diffusione e l’espansione delle scuole e delle università 15. Al-


cuni testi, si pensi anche solo alla Bibbia, erano posseduti da molti
secoli. Non avevano ancora prodotto un insieme consistente di glos-
se per il fatto che non erano stati inseriti nell’ambiente proprio delle

12
Cf V. PIANO MORTARI, Glossatori, in Enciclopedia del diritto XIX, Milano 1970, 631-632; G. OTTE, Die
Rechtswissenschaft, in Die Renaissance der Wissenschaften im 12. Jahrhundert, hrg. von P. Weimar, Zü-
rich 1981, pp. 129-131.
13
Cf, per esempio, U. SANTARELLI, L’esperienza giuridica basso-medievale. Lezioni introduttive. Ristam-
pa provvisoria, Torino 1991, pp. 105-114.
14
Cf, in generale, G. PELLAND, Incidence de l’exegèse sur l’évolution du droit canonique durant la premiè-
re partie du Moyen Age, in Periodica de re canonica 82 (1993) 9-25.
15
Cf E. BERTOLA, La “Glossa ordinaria” biblica ed i suoi problemi, in Recherches de théologie ancienne et
médiévale 45 (1978) 34-78.
232 G. Paolo Montini

glosse, cioè l’ambiente scolastico o universitario. La lezione, l’inse-


gnante, gli alunni, i testi, gli appunti, le questioni sono l’ambiente vi-
tale in cui la glossa si espande. Un po’ come i libri di testo (i trattati o
le dispense 16) nelle Università di oggi.
La lezione consisteva principalmente nella “lettura” (da cui ap-
punto “lezione”) di un testo.
Era anzitutto l’insegnante che sul suo proprio esemplare mano-
scritto appuntava alcune note, per sua utilità, ossia per potersene ri-
cordare nella lezione da tenere 17.
Erano poi gli alunni che durante la lezione appuntavano sul loro
proprio esemplare manoscritto alcune note fatte dall’insegnante, ri-
servandosi poi di arricchirle con quelle provenienti da altri inse-
gnanti per tutti i corsi del curriculum universitario.
Erano poi gli stessi insegnanti e alunni che per scopi di studio,
come pure di lucro, ammassavano questi appunti, riprendendoli da
più testi manoscritti.

3. La scoperta della dialettica e l’utilizzo prevalente della gram-


matica, della retorica nonché della medesima dialettica 18. I primi pas-
si della scienza, mossi proprio in quest’epoca, sono dominati da una
navigazione a vista, vicino alla costa (il testo), attraverso strumenti
empirici, quali la grammatica (l’arte della spiegazione della parola),
la retorica (l’arte del convincere), la dialettica (l’arte di scomposizio-
ne e di analisi di un testo) 19.
La glossa, più che essere lo strumento di una di queste scienze,
segue in se stessa il loro percorso di evoluzione:
– è nata nell’ambito della grammatica: è molto probabilmente
questo il motivo per cui i grammatici insistono nel limitare a una e
una sola parola la glossa;

16
Il decretalista glossatore Tancredo [† 1236] racconta un tipico esempio accaduto nella Università di
Bologna: «Ho glossato, come meglio ho potuto, la prima e la seconda Compilazione (Antica di) decreta-
li. Sopra questa terza Compilazione non ho fatto alcun apparato di glosse: sentendo e leggendo, ho solo
notato qualche appunto in un libro. Alcuni scolari a mia insaputa hanno preso questi appunti dal mio li-
bro e li hanno pubblicati a mio nome, come apparato (di glosse) della terza Compilazione di decretali.
Ora glosserò io questa terza Compilazione...» (cit. in SAVIGNY, Storia, I, 738, n. 206, nota a).
17
È significativa a questo riguardo la testimonianza di Pietro il Venerabile [1092/94-1156] che parla
dello psalterium glosatum che permette di vedere subito la spiegazione delle glosse (ad glosas statim
oculum convertebat), quando nel canto corale capitasse di non comprendere un passaggio di un salmo
(cf De miraculis, Libro I, cap. 20).
18
Cf G. OTTE, Die Rechtswissenschaft, cit., pp. 131-133.
19
Cf ID., Dialektik und Jurisprudenz. Untersuchungen zur Methode der Glossatoren, Frankfurt am Main
1971.
Il diritto canonico dalla A alla Z 233

– viene riconosciuta nella sua funzione retorica. Ugo di San Vit-


tore († 1141) è testimone del passaggio: «Mi meraviglio che alcuni
letterati abbiano voluto recensire la glossa come parte della gram-
matica. Appartiene piuttosto alla retorica. Infatti la grammatica si li-
mita a dire; la retorica invece è destinata ad apporre, cioè a esporre
e a ornare il testo» 20;
– approda infine alla dialettica. Le glosse figurano infatti fra le
modalità usate dai dialettici: «Per dire il vero – confessa Iohannes
Sarisberiensis († 1180) nel prologo al suo Metalogicon – non ho mai
letto neppure una volta e neppure di passaggio alcun testo dei dialet-
tici, che attingono continuamente alla conoscenza vel in artibus, vel
in commentariis, aut glosematibus».
Solo l’acquisizione completa dello strumentario culturale, attra-
verso la “scoperta” della logica aristotelica, permetterà di superare lo
stadio della glossa 21, per avventurarsi attraverso le somme verso l’alto
mare, ben lontano dalla costa (il testo), alla ricerca di nuove terre, at-
traccando solo di tanto in tanto ai porti, ossia ritornando al testo.

4. L’utilizzazione pratica della scienza giuridica nell’ambito eco-


nomico, sociale e politico. L’enorme movimento culturale messo in at-
to nelle Università e negli insegnamenti di diritto sia romano sia
canonico non può giustificarsi senza far riferimento a una forte ri-
chiesta di giuristi e di canonisti da parte della società. La stessa im-
postazione dialettica del metodo della glossa troverebbe riscontro
nelle istanze conflittuali della società di cui sarebbe una variabile 22.

A mo’ di esempio
Senza alcuna pretesa di esemplarità, ma con l’intenzione di dare
un’idea la più precisa e concreta possibile, riportiamo qui di seguito
alcune glosse che si riferiscono a un passaggio del Decreto di Gra-
ziano: c. 1, D. XII, cioè il capitolo 1° della Distinzione XII, nella pri-

20
De grammatica, cap. IX.
21
La recensione al libro di Otte, apparsa su Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Roma-
nistische Abteilung 90 (1973) 494-499, pone in dubbio che i Glossatori non abbiano conosciuto e non ab-
biano per niente utilizzato la logica. Alla scoperta della logica aristotelica (e in particolare della causa
finalis e dell’analogia) attribuisce un ruolo fondamentale nell’evoluzione della scienza canonica dalla
glossa E. CORTESE, Tra glossa, commento e umanesimo, in Studi senesi 104 (1992) 458-503 (soprattutto
472-479 e 490-501).
22
Cf G. OTTE, Die Rechtswissenschaft, cit., pp. 133-139.
234 G. Paolo Montini

ma parte del suo Decretum 23. Con esse riportiamo pure il testo che è
commentato dalle glosse. In grassetto è posto il termine cui si riferi-
scono le glosse come a commento. Quando appariranno dei termini
tecnici, li riporteremo tra parentesi quadre. Le glosse poi sono tra-
dotte e numerate, in modo che poi nel prosieguo possiamo riferirci a
esse più velocemente tramite la mera citazione dei numeri.
Distinzione XII. Graziano. I. Parte.
Quod absque discretione iustitiae nulli agere liceat.
[A nessuno sia lecito agire senza considerazione attenta di ciò che è giusto]
Quod:
1 – Qui si dà il titolo della XII Distinzione e il § [= dictum di Graziano] si ri-
ferisce (a ciò che è detto) alla fine del capitolo precedente.
2 – “Quod absque” ecc. si riferisce alla fine del capitolo precedente, perché
quando dice “licet”, (dice) diversamente da quanto detto (prima) circa
la consuetudine della Chiesa Romana.
3 – Questo si riferisce ai prossimi dicta (di Graziano).
4 – (Questa è una) Specificazione [determinatio] del capitolo precedente.
5 – La discrezione valuta tutto in modo provvido.
6 – Non si deve agire contro la Chiesa Romana, a meno che non sorga una
controversia e una consuetudine venga a proporsi da un concilio gene-
rale.
7 – Ossia [Scil.] fare contro la consuetudine della Chiesa Romana. (Prima)
È stato detto che nessuno poteva fare ciò che (è) al di fuori della con-
suetudine della Chiesa Romana. Ma perché questo non sia inteso in
senso del tutto assoluto, (qui si) determina che con attenzione a ciò
che è giusto talvolta si possa agire diversamente. Così anche oggi circa
la consuetudine buona da conservare, soprattutto in ordine agli uffici:
questi non devono essere celebrati in alcuna chiesa (eccetto i monaste-
ri) in modo diverso da quanto avviene nella chiesa metropolitana. Non
è lecito cioè introdurre novità e non osservare la consuetudine di una
Chiesa (che qui però non è quella Romana).
8 – Ossia [scilicet] deviare dalla consuetudine (della Chiesa) Romana.
9 – Ossia [idest] recedere dalla consuetudine universale.
10 – Ossia [scilicet] osservare la consuetudine di un’altra Chiesa che non
(sia quella) Romana.
11 – Ossia [scilicet] introdurre novità e osservare la consuetudine di un’al-
tra Chiesa che non (sia quella) Romana.
12 – Non dev’essere osservata la consuetudine di nessun’altra Chiesa se
non della Chiesa Romana.
13 – Perché una consuetudine nuova viga [teneatur].
14 – Argomento: che non siano introdotte in modo repentino delle novità.

23
Per il testo delle glosse cf R. WEIGAND, Die Glossen zum Dekret Gratians. Studien zu den frühen Glos-
sen und Glossenkompositionen, I, [Studia Gratiana XXV], Romae 1991, pp. 73-80.
Il diritto canonico dalla A alla Z 235

15 – Ciò che invece fu stabilito da Anastasio II circa coloro che furono ordi-
nati da Acacio.
16 – Poiché non si deve recedere dalla consuetudine della Chiesa Romana.
17 – Ma perché questo non sia inteso in senso assoluto, dice che a volte è
lecito fare altrimenti ma con discrezione.
18 – Ossia [scilicet] che vige [tenere] la consuetudine della Chiesa Romana.
19 – Che nessuno debba opporsi ai precetti del Papa e che si debba mante-
nere ogni modo di salmeggiare che sia consuetudinario e tradizionale.

Absque discretione
20 – e non con discrezione.
21 – Ossia [idest] con attenzione a ciò che è stabilito dalla Chiesa Romana.
22 – “Absque discretione” dice, poiché vi sono certi casi in cui è lecito, co-
me è detto alla fine del primo capitolo.
23 – È infatti lecito farlo con discrezione.

Discretione
24 – Ossia [idest] con l’autorità del giudice.
25 – Ossia [scilicet] ragionevole [rationabili], che non sia cioè contraria alla
consuetudine della Chiesa Romana.

Nulli
26 – o [vel] niente.

Agere
27 – contro la Chiesa Romana.
28 – Soprattutto in ciò che attiene agli articoli di fede.

Capitolo I. Rubrica.
Sine discretione iustitiae contra disciplinam Romanae ecclesiae nulli agere li-
ceat.
[Senza attenzione a ciò che è giusto a nessuno è lecito decidere contro la
consuetudine della Chiesa Romana]

Contra
29 – Poiché se (ci) si recide, non si può avere lo spirito di vita: (cf) c. 4,
C. XXIII, q. 7.

Capitolo I. Testo 24.


Non decet a capite membra dissidere, sed iuxta scripturae testimonium omnia
membra caput sequantur. Nulli vero dubium est, quod apostolica ecclesia ma-

24
Il testo normativo è attribuito dal Decreto a Papa Callisto. In realtà si tratta di un passo di una decre-
tale pseudoisidoriana (Ep. I, c. 1.2).
236 G. Paolo Montini

ter sit omnium ecclesiarum, a cuius vos regulis nullatenus convenit deviare.
Et sicut filius venit facere voluntatem patris, sic et vos voluntatem implete ve-
strae matris, quae est ecclesia, cuius caput, ut predictum est, Romana existit
ecclesia. Quicquid ergo sine discretione iustitiae contra huius disciplinam ac-
tum fuerit, ratum habere nulla ratio permittitur.
[Non conviene separare le membra dal capo, ma, secondo la testimonianza
della Sacra Scrittura, conviene che tutte le membra seguano il capo. Non
v’ha dubbio che la Chiesa apostolica sia madre di tutte le Chiese e dalle sue
regole non vi conviene assolutamente deviare. E come il Figlio venne a fare
la volontà del Padre, così anche voi adempite la volontà della vostra madre,
la Chiesa, al cui capo c’è, come è stato detto, la Chiesa Romana. Tutto ciò
pertanto che senza attenzione a ciò che è giusto sarà fatto contro la discipli-
na di questa (Chiesa), non v’ha ragione che lo possa confermare].

30 – (Cf) Più sotto [infra] c. 3, C. XIV, q. 1 e le consuetudini generali.

Non decet
31 – Questi due capitoli Graziano li introduce (per una dimostrazione) e
contrario [a sensu contrario].
32 – Questo e il capitolo seguente sono per dimostrazione e contrario.

A capite
33 – Ossia [idest] la Chiesa Romana.
34 – Nota: Graziano prova ciò che intende provare e contrario alla fine.
35 – Argomento [Arg.]: È da osservare ciò che è stabilito dai Vescovi.
[...]

Membra
37 – Il gregge segue il pastore, la turba il re, il discepolo il maestro, le stelle
il sole e le membra il capo.
38 – Argomento [Arg.]: per obbedienza che si deve prestare da parte dei
sudditi si deve intendere quella che attiene a ciò che non è contro Dio
e che è nella competenza del Superiore.
39 – Le stesse disposizioni che valgono per il tutto valgono per la parte
[Idem iuris in parte quod in toto].

Mater
40 – e così capo.

Cuius
41 – (cioè) della Chiesa.

Regulis
42 – tanto scritte come non scritte.
Il diritto canonico dalla A alla Z 237

Sicut filius
43 – Ossia [idest] il Cristo incarnato [humanatus].

Sic et vos
44 – Ossia [scilicet] Vescovi.

Vestrae Matris
45 – (cioè) la Chiesa Romana.

Sine discretione
46 – Per questo è stato introdotto questo capitolo.
[...]
48 – Per questo introduce il capitolo né è da assumere l’argomento a sensu
contrario, perché sarebbe contro Contra morem [= c. 8, D. 100].

Quicquid
49 – Da questa prima parola Graziano ha tratto il titolo del suo precedente
dictum.

Sine discretione
50 – quindi [ergo] con discrezione è lecito.
51 – Argomento [Arg.]: con attenzione a ciò che è giusto è lecito.
52 – diversamente quindi [secus ergo] se è con discrezione.
53 – Da questo [unde] sembra (si possa dedurre) che con discrezione si
può andare contro i canoni.
54 – Quindi [ergo] a sensu contrario: Tutto ciò che è stato fatto con discre-
zione dev’essere mantenuto (in vigore)[tenendum].
55 – Dice questo come se in caso contrario [aliter] sia lecito.
56 – Argomento [Arg.] per opposizione [a contrario sensu]: quindi [ergo] se
con attenzione a ciò che è proprio giusto ecc. Ma ciò sembra falso, poi-
ché a nessuno è lecito disputare di ciò che il papa dispone: (cf) c. Ne-
minem [= 30], C. XVII, q. 4; D. 40 c. 1). Graziano argomenta in modo
errato per opposizione e introduce in modo maldestro questo capitolo.
57 – Quindi [ergo] sembrerebbe che, se si agisse con discrezione, varreb-
be; ma non è così, benché così argomenti Graziano qui e più sotto nel
capitolo seguente. Non è argomento efficace per [propter] il c. (riporta-
to) più sotto Quid autem [=29], C. XVII, q. 4 e per D. 40 c. 1.
58 – Forse che con discrezione sarebbe lecito? No; cf [ut] il c. Nemini
[= 30], C. XVII, q. 4; Non nos [= c. 1], D. XL ; In memoriam [=c. 3],
D. XIX.
59 – Da qui [hinc] ne viene l’argomento per opposizione [per contrarium]
che con discrezione (si possa agire) contro la consuetudine della Chie-
sa Romana; a fortiori [longe magis] con discrezione si può agire contro
la consuetudine di un’altra Chiesa. (Cf) l’arg. più sotto (a commento
del) c. Novit [= 10].
238 G. Paolo Montini

Sine discretione
60 – Ossia [scilicet] soprattutto [maxime].
61 – Qui manca l’argomento per opposizione.
62 – Argomento [Arg.]: le stesse disposizioni devono valere nel tutto e nella
parte; cf [ut] più sopra c. Quae contra [= 2], D. VIII.
63 – Argomento [Arg.]: si può agire [agere] lecitamente a volte senza colpa
alcuna [inculpate] contro i canoni e le consuetudini.
64 – Argomento [Arg.]: si può agire [facere] lecitamente a volte contro i ca-
noni e le consuetudini.
65 – Che è la madre di tutte le virtù: cf [ut] più sotto Praesentium [= c. 3],
de his qui a parentum pecunia [= C. I, q. 5].
66 – Come se dicesse che chi agisce in modo diverso lo faccia senza discre-
zione.
67 – È sufficiente infatti che vi sia una ragione perché non avvenga [fiat],
come [ut] in extra [= 1Comp.], de rescriptis [= 1.2], Si quando [= 5].
Che se non v’è una ragione, si deve obbedire.

Contra
68 – Non si dice “al di fuori”, ma “contro”.

Disciplinam
69 – della Chiesa Romana.
70 – Ossia [idest] consuetudine.
71 – Ossia [idest] costume.
72 – Graziano parla [docet] di una [disciplina] generale.
73 – che non insegna sia da mantenere (in vigore) [tenendam]; in caso con-
trario [alias] direbbe male.

Actum fuerit
74 – Ossia [idest] si sia deciso in modo generale.

Ratum habere
75 – Altra lezione [littera]: ratum haberi.

I tipi di glosse
La principale distinzione tra le glosse è originata dalla loro col-
locazione rispetto al testo.
Vi sono infatti glosse interlineari che sono poste cioè fra una ri-
ga e l’altra del testo manoscritto. E vi sono glosse marginali che sono
poste negli spazi bianchi nei margini lasciati liberi dal testo nei fogli
dei codici, normalmente di pergamena.
Alcuni Autori avrebbero voluto trarre da questa distinzione una
valutazione di contenuto, di forma e di metodo delle glosse, pensan-
Il diritto canonico dalla A alla Z 239

do le glosse interlineari come più brevi, più antiche, più legate al me-
todo della grammatica, e quelle marginali più diffuse, tarde e pro-
priamente giuridiche, ma si tratta di una valutazione che, entro i limi-
ti ovvi di un genere in evoluzione, non trova riscontro coerente nella
realtà 25.
Le altre distinzioni dipendono dal contenuto delle singole glos-
se. I principali tipi sono i seguenti 26:
– Notabili: si tratta di una qualsiasi nota marginale che è depu-
tata a richiamare l’attenzione su un preciso passaggio del testo. Può
trattarsi di un segno, di una parola, di una parola del testo ripetuta a
margine. È introdotta a volte esplicitamente da Nota o Notandum o
da una loro abbreviazione (No oppure Nt), anche in forma siglata o
colorata 27.
Tra le glosse riportate si può vedere il n. 34, ove si introduce
una nota del glossatore per rimandare il lettore alla fine del capitolo,
per cogliere il senso del testo di cui la glossa vuole fornire la spiega-
zione.
– Varianti: si tratta di glosse che forniscono lezioni diverse del-
lo stesso testo che si commenta, trovate in altri manoscritti e che
possono chiarificare il testo stesso. Cf sopra il n. 75.
– Grammaticali: si tratta di glosse che intendono solo fornire di
un sinonimo più conosciuto un termine o una locuzione, che può
non apparire perspicua al lettore per varie ragioni. Cf sopra il n. 20.
– Argumenta: si tratta di glosse che in breve riassumono il con-
tenuto del testo che si commenta, in modo da avere una referenza
immediata nella ricerca. Non sono propriamente delle regole o dei
principi generali del diritto, in quanto per la loro esatta comprensio-
ne è necessario comunque riferirsi al testo. Nella sua forma più pura
questo tipo di glossa, specificato pure con la propria denominazione,
anche in forma abbreviata, si può vedere nei nn. 14. 35.51.63-64.

25
Cf G. PESCATORE, Die Glossen des Irnerius, Greifswald 1888, p. 50: «Lascia a bocca aperta (vedere)
che cosa sa scrivere una mano del XII secolo nel ristretto spazio che vi è fra due righe». E cita nella no-
ta 2 una glossa interlineare di ben 9 righe!
La diversa collocazione sembra dipendere da vari fattori del tutto estrinseci, come il formato delle pagi-
ne dei manoscritti oppure la presenza già di altre glosse a margine: cf ibidem, pp. 51-52.
26
Cf S. KUTTNER, Repertorium der Kanonistik (1140-1234). Prodromus Corpus Glossatorum, Città del
Vaticano 1937, passim.
27
Cf G. DOLEZALEK - R. WEIGAND, Das Geheimnis der roten Zeichen. Ein Beitrag zur Paläographie juri-
stischer Handschriften des zwölften Jahrhunderts, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte.
Kanonistische Abteilung 100 (1983) 143-199; G. PESCATORE, Die Glossen..., cit., pp. 52-53 e tavola finale
di figure.
240 G. Paolo Montini

– Allegazioni: si tratta di rimandi o richiami di testi fatti tramite


segni 28 o citazione. È fra le prime forme di glossa e fornirà il materia-
le alle argomentazioni più elaborate delle glosse seguenti.
L’esempio più preciso si può vedere nel n. 30, dove in riferimen-
to all’intero testo del capitolo si rimanda a un capitolo della II parte
del Decreto di Graziano, che tratta di un argomento analogo. Altre
volte invece la citazione è inserita per indicare un testo contrario o in
contesti più complessi di argomentazione. Cf i nn. 29.48.56-59.62.
65.67.
Le citazioni delle glosse riportate sono tutte al Decreto di Gra-
ziano, a eccezione di quella del n. 67, che cita la I Compilatio Anti-
qua (1190-1191) secondo la dizione allora in uso: (Liber) extra, vale a
dire, collezione che raccoglie i testi rimasti fuori [= extra] dal Decre-
to di Graziano. Questo nome sarà poi dato definitivamente alle De-
cretali di Gregorio IX (1234).
Il modo di citare in queste glosse ha una grande importanza, in
quanto non solo rivela le partizioni del Decreto (e di altri testi com-
mentati) allora in vigore, ma può denotare il rapporto di influenza
del diritto romano sul diritto canonico. Delle citazioni sopra riporta-
te, per esempio, solo la n. 65 segue il modo di citare del diritto roma-
no (per titoli): si può infatti far risalire alla II composizione di glosse
(verso il 1150). Tutte le altre citazioni usano invece il modo proprio
canonico di referenza che poi prevarrà definitivamente, ossia tramite
le parti 29.
La medesima indipendenza del diritto canonico dal diritto roma-
no è evidente poi nella limitazione delle citazioni delle fonti di diritto
romano: nelle glosse sopra riportate nessuna citazione fa riferimento
al diritto romano. Non mancano però glosse che vi fanno riferimento e
pure glossatori che vi si riferiscono, talora anche in modo esclusivo 30.
– Generalia: si tratta di principi generali, regole del diritto che
risultano estratti dal testo che si commenta. Cf sopra n. 39. Da questi
si svilupparono poi i Brocardi 31.

28
Cf G. DOLEZALEK - R. WEIGAND, Das Geheimnis..., cit. Sarebbe provata in questo caso l’influenza del
diritto romano sul diritto canonico.
29
Cf R. WEIGAND, Romanisierungstendenzen im frühen kanonischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-
Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung 100 (1983) 200-249.
30
Cf, per esempio, G(uiberto) di Bornato (Brescia), le cui glosse intorno al 1160 hanno quasi esclusi-
vamente referenze al diritto romano. Cf R. WEIGAND, Romanisierungstendenzen..., cit., 201-209.
31
Cf G.P. MONTINI, Il Diritto Canonico dalla A alla Z: B. Brocardo, in Quaderni di diritto ecclesiale 5
(1992) 358-371.
Il diritto canonico dalla A alla Z 241

– Distinzioni: si tratta di sistematizzazioni di concetti, tramite la


elencazione di tutte le forme specifiche conosciute che i concetti
possono assumere. Nella distinzione trova spesso soluzione un con-
trasto fra testi. Una forma elementare di distinzione si può trovare
sopra nel n. 41.
– Dissensiones: si tratta di glosse in cui alla posizione del testo
(o, forse meglio, che nella collezione il testo assume) o dell’Autore
della collezione si contrappongono uno o più testi che affermerebbe-
ro il contrario. Non si dà soluzione alcuna al dissenso, come avverrà
poi nelle Quaestiones, nelle Solutiones contrariorum e negli stessi
Brocardi. Si afferma solo che non si è d’accordo con il (senso dato
al) testo. Cf sopra, in modo particolare, i nn. 56-58.
– Summulae o Summae: si tratta di glosse che riassumono una
legge o un titolo, in modo da fornire al lettore uno sguardo comples-
sivo sulla materia. Una volta raccolte, le summulae di una collezione
daranno una Summa 32. Per un esempio, cf sopra il n. 7.
– Tractatus o Continuationes titulorum: si tratta di glosse che
collegano un testo per opposizione o per connessione a quelli prece-
denti o seguenti, mostrando in tal modo il filo logico seguito dal
compilatore 33. Cf sopra, per esempio, il n. 2.

La Glossa Ordinaria
La maggior parte delle glosse è a tutt’oggi inedita e in nessun
manoscritto si troverà il complesso di glosse che sopra abbiamo ri-
portato a mo’ di esempio. Quelle glosse infatti sono state raccolte
collazionando circa duecento manoscritti del Decreto di Graziano.
Vediamo perciò come sorgono, si trasmettono e si diffondono le
glosse, attraverso stadi schematizzati, ma vicini comunque alla pre-
valente realtà storica.

La singola glossa
La singola glossa ha un proprio Autore che l’ha ideata. Il conte-
sto è quello della scuola: può essere stata annotata sul proprio mano-
scritto dal maestro come appunto per la lezione; può essere stata

32
Cf V. PIANO MORTARI, Glossatori..., cit., 628; G. PESCATORE, Die Glossen..., cit., p. 57.
33
Cf V. PIANO MORTARI, Glossatori..., cit. 628; G. PESCATORE, Die Glossen..., cit., p. 61.
242 G. Paolo Montini

pronunciata dal maestro durante la lezione e appuntata da uno scola-


ro diligente sul proprio manoscritto, che gli serve per lo studio.
All’inizio non poteva essere che un fenomeno occasionale, spon-
taneo.
Nel caso in cui il manoscritto che costoro usavano avesse già
avuto delle glosse scritte e vi aggiungessero le proprie, si possono
individuare vari strati di glosse. In un manoscritto se ne possono in-
dividuare parecchi 34.

La composizione di glosse
Un codice manoscritto del Decreto di Graziano poteva avere bi-
sogno di essere moltiplicato per le esigenze dei sempre più numero-
si e facoltosi scolari.
Si incominciò a riprodurre non solo il testo, ma pure le glosse
che qua o là erano state annesse al testo. La riproduzione natural-
mente dava una diffusione, una notorietà e una stabilità a quelle an-
cor poche glosse che erano annesse al testo.
Tale fenomeno passa sotto il nome di “composizione di glosse”:
la serie di glosse che si trova tramandata nella medesima forma in
più manoscritti, dove il testo è solo in forma occasionale e rara prov-
visto di glosse 35.
Nelle glosse sopra riportate, per esempio, moltissime sono no-
te tramite un solo manoscritto (cf, per esempio, i nn. 1.3.4.5.6);
alcune sono tramandate da una dozzina di manoscritti e oltre (cf i
nn. 50 e 65).
La trasmissione delle glosse col testo pose il problema ovvio
della salvaguardia della paternità delle singole glosse, anche perché
tali manoscritti provvisti di glosse, venivano a loro volta glossati, ri-
prodotti poi per formare altre composizioni di glosse e così via. In
questo modo si potevano dare abusi, da parte di chi si poteva appro-
priare o poteva approfittare delle glosse di altri, maestri o scolari che

34
Si può vedere, in ambito letterario e storico, la ricostruzione dei diversi strati di glosse in un mano-
scritto, in C.M. MAZZUCCHI, Leggere i classici durante la catastrofe (Costantinopoli, maggio-agosto 1203):
le note marginali al Diodoro Siculo Vaticano Gr. 130, in Aevum 68 (1994) 165-218.
35
«Unter Glossenkomposition [...] einer (nur) relativ gleichmässig überlieferte Anzahl von Glossen in
mehreren Handschriften, welche den Text jedoch nur teilweise (d.h. sporadisch) erklären» (R. WEI-
GAND, Die anglo-normannische Kanonistik in den letzten Jahrzehnten des 12. Jahrhunderts, in Procee-
dings of the Seventh International Congress of Medieval Canon Law, Cambridge, 23-27 July 1984, a cura
di P. Lineham, Città del Vaticano 1988, 249-250).
Il diritto canonico dalla A alla Z 243

fossero 36. Sorse così la consuetudine di firmare le proprie glosse con


sigle che ne indicassero l’autore. Non a caso probabilmente il primo
a firmare le sue glosse fu l’autore che si nasconde sotto la sigla C(ar-
dinalis), il primo che non compose una sua Summa con le proprie
glosse e potevano perciò essere più facilmente preda di altri 37.
Le sigle venivano conservate anche nelle composizioni succes-
sive. Un esempio di quanto abbiamo detto circa le sigle è la glossa
n. 15: in un manoscritto alla fine di quel testo appare una “p.”, che
sta forse per un Magister Petrus; negli altri manoscritti la sigla è
omessa 38.
L’identificazione delle prime composizioni di glosse non è age-
vole. Normalmente si distinguono tre composizioni 39. La prima sa-
rebbe caratterizzata per una scarsa presenza di glosse a spiegazione
di una parola del testo. La seconda risalirebbe al 1150-1160; sarebbe
sorta in ambiente bolognese. Si caratterizzerebbe per glosse brevi,
interlineari e influenzate dal diritto romano. A questa composizione
apparterrebbe il n. 65. La terza sarebbe strettamente imparentata
con l’opera esegetica di Rufino.

Gli apparati delle glosse [apparatus glossarum] 40


Il moltiplicarsi delle glosse e della loro diffusione fece in modo
che si venissero a formare come dei commenti continui e completi
in questa forma a un’intera opera 41 (per esempio, il Decreto di Gra-
ziano). L’opera era così poi trascritta e diffusa con quella serie di
glosse completa.
L’Autore era sempre un singolo maestro, anche se di solito con
le proprie glosse utilizzava con maggiore o minore abbondanza glos-

36
«Poiché nel nostro insegnamento si ruba senza che venga riconosciuta colpa alcuna, e cioè dottori e
gran signori viventi oggi si appropriano, per avere l’ammirazione degli scolari, delle opere e delle glosse
che fecero dottori morti da gran tempo. [...] Temo che anche per questo mio lavoro ci sia qualche invi-
dioso e approfittatore che se ne appropri. Per questo il lettore troverà il mio nome apposto all’inizio di
ogni questione» (ROFFREDO [† 1243], Quaestiones, proemio, cit. in SAVIGNY, Storia, I, 745, n. 211, nota d).
37
Cf R. WEIGAND, Glossatoren, 1506. Si tratterebbe del Cardinale Raimundus de Arenis [† 1178].
38
Cf ID., Die Glossen, 574.
39
Weigand (cf Die Glossen zum Dekret Gratians, 393-448) crede di poter identificare almeno cinque
composizioni di glosse, alcune verificate dall’elaborazione computerizzata delle glosse raccolte, di cui
sopra abbiamo riportato un esempio. La ricerca però è ancora agli inizi.
40
Cf P. WEIMAR, Apparatus glossarum, in Lexikon des Mittelalters I, München-Zürich 1980, 802-803.
41
«Glossenapparat ist die Zusammenstellung von Glossen verschiedenster Art (und Herkunft), die
den Text als fortlaufenden Kommentar (relativ) vollständig behandeln...» (R. WEIGAND, Die anglo-nor-
mannische Kanonistik, cit., 249).
244 G. Paolo Montini

se che egli stesso aveva ricevuto da altri Autori. Erano comunque, an-
che per questa parte ripresa, suoi l’impianto e la scelta complessivi.
Qui certamente l’apparato cessa di essere precario e disomoge-
neo sia nella forma sia, ciò che più conta, nel contenuto.
Il primo apparatus è l’Ordinaturus Magister (dalle prime parole
dell’opera), che però può essere detto apparato solo in senso lato,
poiché non è opera di un Autore o compilatore, ma risulta tale solo
materialmente, come una standardizzazione nella trasmissione delle
glosse 42. A esso apparterrebbero le glosse n. 2, 50 e 63.

Le somme [summae]
La completezza e omogeneità degli apparati lentamente porta-
rono all’abbandono del testo commentato a favore della trasmissione
del solo commento. Le glosse, soprattutto quelle più consistenti
quanto ad ampiezza e contenuto, vengono raccolte e quasi automati-
camente nasce un commento autonomo, un’opera autonoma: le som-
me. A volte, anziché raccogliere tutte le glosse principali che erano a
commento di un testo, vengono raccolte le glosse di un solo tipo: na-
scono così, per esempio, le summae distinctionum, summae casuum.
Si conoscono vari tipi di Summae, in riferimento alla loro evolu-
zione rispetto alle glosse al Decreto di Graziano, da cui derivano.
Al primo tipo appartengono le più antiche: le Somme di Pauca-
palea e di Rolando. Al secondo le Somme di Rufino, di Stefano di
Tournai e di Giovanni di Faenza. Al terzo le Somme di Simone di Bi-
signano e di Uguccio.
Fuori di Bologna sono note le Somme della Scuola franco-rena-
na e della Scuola anglo-normanna 43.

La Glossa Ordinaria
Il termine appare assai tardi e non indica una glossa unica speci-
fica. È piuttosto il termine generico (usato anche nell’ambito biblico 44

42
Cf ID., Glossen, kanonistische, in Theologische Realenziklopädie XIII, Berlin-New York 1984, 458.
43
Cf P. ERDÖ, Introductio in historiam scientiae canonicae. Praenotanda ad Codicem, Roma 1990,
pp. 53-59.
44
L’espressione Glossa Ordinaria riferita alla raccolta di glosse sulla Bibbia appare tardi (non prima
del XIV secolo), per indicare un testo formalizzatosi all’inizio del secolo XIII e frutto dell’opera com-
mentatrice e compilatrice di molti teologi, da Rabano Mauro ad Anselmo. L’attribuzione tradizionale
della Glossa Ordinaria a Strabone (sec. IX) non regge. L’opera sarebbe piuttosto da attribuire nella sua
fase finale ad Anselmo e alla sua Scuola di Laon (sec. XI).
Il diritto canonico dalla A alla Z 245

e nell’ambito del diritto romano 45) per indicare quell’apparato di glos-


se di una collezione canonica che ha assunto una ufficialità. L’appari-
re delle Glosse Ordinarie è dovuto alla necessità della scuola e dello
studio di avere, oltre un testo unico e ufficiale, anche un testo unico
e ufficiale di commento cui riferirsi e da ricommentare (ormai la
scuola usava generi letterari e didattici diversi dalla glossa); è dovuto
alle necessità e agli effetti della riproduzione dei testi a mano o, an-
cor più, tramite la stampa.
È quindi la denominazione di Glossa Ordinaria il riconoscimen-
to dato dall’uso e dalla fama a un apparato di glosse, particolarmente
completo e “ordinato” nel riprendere le molte glosse di apparati pre-
cedenti.
Abbiamo così le seguenti principali Glosse Ordinarie 46, descrit-
te secondo le edizioni più diffuse e facilmente reperibili, stampate fi-
no al XVII secolo 47:
– Glossa Ordinaria al Decreto di Graziano: è opera di Giovanni
Teutonico, maestro a Bologna, che la compose intorno al 1215, utiliz-
zando soprattutto la Summa di Uguccio e la Glossa Palatina di Lau-
rentius Hispanus.
Con le correzioni di Bartolomeo di Brescia (dopo il 1245), pure
maestro a Bologna; con le Additiones, che riportano glosse scelte
dall’editore; l’aggiunta di Casus, è stata costantemente pubblicata fi-
no al 1671.

Anche il solo termine Glossa, per indicare il commento completo della Sacra Scrittura tramite glosse, è
relativamente tardo, se la prima citazione è rinvenibile solo nelle Sentenze di Roberto di Melun
(† 1167).
Cf J. GRIBOMONT - L. HÖDL, Bibelglossen, in Lexikon des Mittelalters II, München-Zürich 1983, 42-43;
B. SMALLEY, Glossa Ordinaria, in Theologische Realenziklopädie XIII, Berlin - New York 1984, 452-457;
3
ID., The Study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 1984 , pp. 46-66.
Per il testo cf PL 113-114.
45
La Glossa Ordinaria all’intero Corpus Juris Civilis (come sarà poi chiamato il complesso delle colle-
zioni giuridiche romane) è di Accursio († 1260). Sono conosciute Glosse ordinarie pure ai Libri Feudo-
rum, alla collezione Lombarda come anche alla legislazione di Federico II (cf H. DILCHER, Glossatoren,
in Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte I, Berlin 1971, 1710).
46
Tralascio qui le Glosse Ordinarie a collezioni canoniche che non entrarono poi nel Corpus Juris Ca-
nonici. Cf, per esempio, le Glossa Ordinaria a ciascuna delle cinque Compilationes Antiquae (cf P. Erdö,
Introductio..., cit., pp. 65-67).
47
Cf G. MOLLAT, Gloses, in Dictionnaire de Droit Canonique, V, Paris 1953, pp. 972-973.
Noi faremo riferimento alla seguente edizione del Corpus Juris Canonici: Decretum Gratiani emenda-
tum, et notationibus illustratum, una cum glossis, Gregorii XIII Pont. Max. iussu digestum ad exemplar
romanum diligenter recognitum, Augustae Taurinorum 1588; Decretales D. Gregorii Papae IX suae inte-
gritati una cum glossis restitutae ad exemplar romanum diligenter recognitae, Augustae Taurinorum
1588; Liber Sextus decretalium D. Bonifacii Papae VIII Clementis Papae V Constitutiones Extravagantes
tum Viginti D. Ioannis Papae XXII tum Communes. Haec omnia cum suis glossis suae integritati restitu-
ta et ad exemplar romanum diligenter recognita, Augustae Taurinorum 1588.
246 G. Paolo Montini

– Glossa Ordinaria alle Decretali [Liber Extra]: è opera di Ber-


nardo di Pavia (de Botone), che diede la redazione ultima intorno al
1263.

– Glossa Ordinaria al Liber Sextus: è opera di Giovanni Andrea,


terminata già nel 1301, ma completata tra il 1334 e il 1348 con delle
Additiones.

– Glossa Ordinaria alle Clementinae: è pure opera di Giovanni


Andrea (1322).

– Glossa (Ordinaria) 48 alle Extravagantes: le diverse edizioni


del Corpus Juris Canonici del XVI secolo riportano varie glosse per
le decretali Extravagantes di Giovanni XXII (di Zenzelinus de Cassa-
nis [ed. Chappuis, Paris 1500]; di Jacques Fontan e Charles du Mou-
lin [edd. Paris 1520 e Lyon 1559]) e per le decretali communes (di
Gugliemo di Montlauzun, per alcune decretali).

A mo’ di esempio
Si possono qui considerare le glosse che la Glossa Ordinaria al
Decreto di Graziano appone alla c. 1, D. XII 49, che sopra abbiamo
considerato, riportando le glosse tratte da vari manoscritti.
Quod absque
Questa Distinzione si divide in tre parti. Nella prima prova che una con-
suetudine buona va osservata. La seconda comincia alle parole Hoc autem
[= c. 12]; la terza a De his [= c. 13].

Casus
Nella precedente Distinzione si è dimostrato che la consuetudine della Chie-
sa Romana dev’essere osservata; ora invece si dimostra che da una consue-

48
Per sé non v’è alcuna Glossa Ordinaria alle Extravagantes (cf R. WEIGAND, Glossa ordinaria, in
Lexikon des Mittelalters IV, München-Zürich 1989, 1504), tuttavia le edizioni dell’intero Corpus Juris Ca-
nonici sono abbastanza omogenee al riguardo.
49
Cf Decretum Gratiani, coll. 48-49. In queste edizioni il testo da commentare è posto al centro della
pagina con lettere in corpo maggiore; tutt’attorno sono poste le glosse scritte in corpo minore e riferite
al testo sia tramite una parola del testo ripetuta all’inizio della glossa corrispondente sia attraverso una
lettera in apice di rimando dal testo alla glossa. A fianco della glossa vi sono ulteriori notazioni che si ri-
feriscono o al testo indicando delle varianti o delle fonti sia alle glosse indicando delle supplementari
spiegazioni o citazioni (anche qui attraverso una lettera in apice di rimando dalla glossa a queste note).
Il diritto canonico dalla A alla Z 247

tudine della Chiesa Romana non si deve recedere senza causa e senza di-
screzione. E per provare questo introduce i primi due capitoli per opposizio-
ne [a contrario sensu]. Aggiunge pure che una consuetudine buona va os-
servata, mentre una cattiva va cancellata; come pure che una consuetudine
di una Chiesa metropolitana va osservata in provincia (da tutti), eccetto nei
monasteri.

Quod
Cioè, come una nuova consuetudine entri in vigore [teneat]. In questa XII
Distinzione il magister (Graziano) prosegue la materia della Distinzione pre-
cedente, secondo cui una consuetudine dev’essere osservata se non è con-
traria al diritto naturale o a una legge [constitutioni]. In fine dice che tutte le
Chiese debbano osservare la consuetudine della Chiesa metropolitana (cf il
capitolo De his [= 13]), a meno che non si tratti di monasteri, come si dice
nel medesimo capitolo.
All’inizio pone due capitoli coi quali vuole interpretare l’ultimo capitolo della
Distinzione precedente, dove si dice che non dobbiamo deviare dalla con-
suetudine della Chiesa Romana. E così specifica [intelligit] che non dobbia-
mo deviare senza discrezione, mentre lo possiamo con ragione [cum ratio-
ne]: ciò che appunto prova coi due prossimi capitoli per opposizione. Gio-
(vanni Andrea).

Additio
E a torto [male]. Non si deve in questo argomentare per opposizione, secon-
do Laurentius [...]. Uguccio sostiene il contrario.

Non decet
(Cf) Anselmo, Libro I, c. 12; Polycarpus, Libro I, c. 17.
Casus. Alcuni Vescovi deviavano dalle regole della Chiesa Romana, per cui
il papa Callisto scrive a tutti i Vescovi, perché essi, in qualità di membri della
Chiesa Romana, che è il capo, non si allontanassero (da quelle regole) senza
discrezione. Adempiano piuttosto la sua volontà, come quella della loro ma-
dre. Proprio come Cristo è venuto a fare la volontà del Padre.

Membra
Cf [sic] Celebritatem [= c. 22], D. III, de cons. e nelle Novelle (di Giustinia-
no), n. 131. E qui vi è pure [cf Laurentius] l’argomento che «le stesse dispo-
sizioni che valgono per il tutto valgono per la parte», come in Si quis episco-
pus [= c. 3], C. I, q. 3.
[Infatti quando una disposizione vale per il tutto in quanto tutto, vale pure
per la parte in quanto parte. Cf Digesto 26.7.51 e pure 7.5.10 in principio.
Gio(vanni) de Fan(tuzzi senior).]

Omnium
Quindi [ergo] pure dei Greci, come in Rogamus [= c. 15], C. XXIV, q. 1.
248 G. Paolo Montini

Discretione
Forse che allora è lecito agire contro quella (consuetudine) con discrezione?
No di certo; cf Qui autem [= dictum post c. 29], C. XVII, q. 4. Va a vuoto [va-
cat] perciò qui l’argomento per opposizione.

Nessuna delle glosse riportate all’inizio è confluita nella Glossa


Ordinaria, anche se di non poche si può constatare la ripresa, ben-
ché in genere amplificata.

L’apogeo delle glosse


Avendo a disposizione ormai una Glossa Ordinaria era fatale
che il rapporto della glossa con il testo mutasse, fino a diventare
ugualmente importante e autorevole, se non superiore in alcuni casi.
Il giurista Odofredo († 1265), esponendo ai suoi scolari il pro-
gramma dell’anno universitario, annuncia: «Leggerò anche le glosse,
anche se in passato non si faceva» 50.
Negli ambienti universitari e giudiziali girava poi l’adagio:
«Quod non agnoscit glossa, non agnoscit curia [= Ciò che non è con-
cesso dalla glossa, non è riconosciuto dalla Curia]». Indica chiara-
mente una progressiva assimilazione tra legge (testo normativo) e
glossa, fino all’attribuzione di valore legale, anche verbalmente ed e-
splicitamente, alla glossa.
Raimondo Lullo († 1315/16), commentando l’adagio «Omnis de-
finitio in iure civili est periculosa [= Ogni definizione è pericolosa in
diritto civile]», si lascia sfuggire: «Lex ista seu glossa [= Questa legge
ossia glossa]» 51!
A Bologna era esplicitamente stabilito che, «in assenza di statu-
ti e consuetudini, il giudice dovesse giudicare secondo il diritto ro-
mano e le glosse ordinarie di Accorsio» 52.

Il tramonto della glossa


Il metodo della glossa, ancorché fecondo nel suo inizio e nella
sua funzionalità per il progresso della scienza giuridica, conobbe an-
che degli eccessi e delle strumentalizzazioni che furono ben presto

50
Cit. in SAVIGNY, Storia, I, 729, n. 199, nota d.
51
Ars brevis, quae est de inventione iuris, dist. VI.
52
Cit. in SAVIGNY, Storia, II, 386, n. 100, nota e. Analoga disposizione è nota per Verona (ibid.).
Il diritto canonico dalla A alla Z 249

stigmatizzati, facendo assumere al termine glossa un significato più


o meno accentuatamente negativo e creando le premesse per il suo
declino.
San Francesco, di cui si ricorda lo slogan proposto ai suoi frati-
celli di prendere come forma di vita il vangelo sine glossa, già verso il
1226 nel suo Testamento proibisce fermamente sotto vincolo di ob-
bedienza a tutti i suoi frati, chierici o laici che siano, di allegare o in-
serire glosse alla regola [mittere glossas in regula] e al suo stesso
Testamento, affermando: «Così si richiede di interpretare [Ita vo-
lunt intelligi]». Alla glossa contrappone il simpliciter et pure dicere,
scribere et sine glossa intellegere, il parlare, scrivere e comprendere
con semplicità e purezza, cioè senza glossa 53.
Nei secoli XV e XVI la ipertrofia come pure la qualità mediocre
della dottrina delle glosse, nonché la loro sopravvalutazione, porta-
vano a forte opposizione e perfino a sarcasmo e derisione verso que-
sto metodo 54.
Rabelais mette in bocca al suo eroe Pantagruele, studente nella
Facoltà di legge di Bourges, che «non c’è al mondo libri così belli,
ornati ed eleganti, come i testi delle Pandette; ma quel che ci han ri-
camato su, cioè la glossa di Accursio, è così sudicia, infame e infetta,
che non vi si trovano se non porcherie e trivialità» 55. Come pure fra i
libri, che lo stesso Pantagruele trova nella Biblioteca di San Vittore,
Rabelais pone Praeclarissimi juris utriusque doctoris Maestro Pallotti
Grattadenarii, De Glossae Accursianae inetiis gabbolandis, Repetitio
enucidiluculidissima 56.
Ma ben prima ancora di giungere a questi estremi appare chia-
ro che la glossa non può costituire un punto di arrivo, ma un punto
di passaggio nell’evoluzione della scienza.
Sono particolarmente significative anche per l’ambito giuridico
le invettive che Roberto di Melun rivolge, nel prologo alle sue Senten-
ze, a tutti coloro che nell’ambito teologico dello studio della Sacra
Scrittura si fermano alle glosse, dimenticando o tralasciando il testo 57.

53
Cf FRANCESCO D’ASSISI, Ècrits, [Sources Chrétiennes 285], Paris 1981, pp. 210-211.
54
«Scribunt nostri doctores moderni lecturas novas, in quibus non glossant glossas, sed glossarum glos-
sas» (da un’opera manoscritta del secolo XV, cit. in SAVIGNY, Storia, II, 386, 100 nt. g).
Lo stesso motto dei Riformatori Sola Scriptura può certo essere letto pure in riferimento alla importan-
za attribuita alla Glossa Ordinaria della Bibbia (cf SMALLEY, Glossa Ordinaria, 455-456).
55
F. RABELAIS, Gargantua e Pantagruele, II, 5, Torino 1973, p. 192.
56
Cf ibidem, II, 7, p. 200.
57
Gugliemo di Montlauzun († 1343) si lamentava che nella scuola di diritto canonico di Orléans i mae-
stri «non curabant de textu» (cit. in MOLLAT, Gloses, cit., p. 972).
250 G. Paolo Montini

«Il metodo di ricerca scientifica per costoro non consiste più nel problema
[quaestione], ma nella (presunta) soluzione [argumentum], non nel testo da
commentare ma nel commento, non in ciò che è oscuro e difficile, ma in ciò
che è ovvio e banale, non nel dubbioso ma nel certo, non nel significato
profondo [intellectu] ma nell’interpretazione superficiale [sensum]. Viene
sconvolto così ogni metodo didattico, confondendo ed equiparando l’essen-
ziale con il secondario, spendendo cioè tutto il tempo alla lettura e allo stu-
dio delle glosse [in studio glossularum], lasciando da parte il testo. Non c’è
rapporto fra comprensione del testo [textus intelligentia] e conoscenza delle
glosse [glossularum scientia]. Non si può pertanto continuare a cedere al
giudizio degli alunni che considerano un bravo insegnante colui che sa di-
stinguere e collocare precisamente una glossa [glossa apte punctetur, conve-
nienter assignetur], mentre non è preparato per sviluppare una questione e
giungere ad una sententia.
Le glosse infatti non constituiscono un’auctoritas né le sono equiparabili,
benché siano prese da autori che sono delle autorità. È vero che alcune glos-
se sono ritenute più celebri, più sante, anzi sono dette santissime: sbagliano
però coloro che pensassero in base ad esse di provare o negare qualcosa.
Non costituiscono auctoritas in se stesse né nel campo della comprensione
di un testo possono esserlo. E ciò è soprattutto da tenere a mente per quelle
glosse che riportano in modo difforme [diversae] il testo dell’autore da cui
sono tratte [excerptae]. Il favore di cui godono le glosse presso gli scolari,
che supera quello degli autori da cui sono tratte, è da imputare ad ignoranza
e ostinazione. Tutti infatti possono constatare come in questo modo di pro-
cedere si inverta l’ordine delle cose, facendo seguire ciò che dovrebbe venir
prima. Appare così tutta la perversione di cui sono soggetti coloro che si sot-
tomettono come per un giuramento [sacramento] alla ripetitione delle glos-
se [glossarum recitationi]» 58.

E questo vale pure nella esposizione della dottrina cristiana,


nella predicazione, che è come una “glossa parlata”.
«Il predicatore saggio non proporrà temi se non scelti dalla Sacra Scrittura;
intendo dire dal testo, non dalla glossa. Il testo è il fondamento su cui si deve
costruire l’edificio. Le glosse appostevi dai santi e anche i testi autorevoli dei
sapienti possono piuttosto essere aggiunti in un secondo momento, come le
pareti e il tetto si erigono sul fondamento» 59.

Conclusione
La stagione della glossa è passata. Non lo è invece l’esigenza
che l’ha prodotta: l’interpretare, perché proprio così era chiamata
l’attività dei glossatori.

58
La traduzione è ad sensum e prende come base il testo riportato in nota da M. GRABMANN, Storia del
metodo scolastico, Firenze 1980 [rist. anast.], pp. 409-428.
59
THOMAS DE CHOBHAM († 1336), Summa de arte praedicandi, cap. 7; cf pure ID., Sermo VIII.
Il diritto canonico dalla A alla Z 251

Si tratta del necessario riconoscimento che la ragione non può


procedere nel diritto in un monologo o in un assolo, ma che deve di-
re riferimento costante alla realtà.
Allora per il tramite di un testo normativo dato, che solo in mo-
do incipiente ed elementare era elaborato.
Più tardi, in epoca umanistica, per il tramite di un testo normati-
vo dato, che era elaborato in forma maggiormente critica.
Più tardi ancora, nell’illuminismo, per il tramite di un testo nor-
mativo non più dato, ma prodotto e in se stesso inteso come mutabile.

G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
253 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO VIII
255 I diritti e i doveri dei fedeli N. 3 - LUGLIO 1995
nella codificazione postconciliare
di Giorgio Feliciani DIREZIONE ONORARIA

273 La tutela dei diritti dei fedeli Jean Beyer, S.I.


e le composizioni stragiudiziali delle controversie DIREZIONE E REDAZIONE
di Zenon Grocholewski Francesco Coccopalmerio
287 Modalità procedurali e processuali Paolo Bianchi - Massimo Calvi
per la difesa dei diritti dei fedeli. Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
Il ricorso gerarchico Silvia Recchi - Carlo Redaelli
Il ricorso alla Segnatura Apostolica Mauro Rivella
di G. Paolo Montini Giangiacomo Sarzi Sartori
Gianni Trevisan
321 La tutela degli interessi diffusi Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
nell’ordinamento canonico
di Gianni Tognoni SEGRETERIA DI REDAZIONE
345 Commento a un canone G. Paolo Montini
L’abito (can. 669 § 1) Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
di Silvia Recchi Tel. (030) 37.121

349 Il vescovo di fronte alle associazioni PROPRIETÀ


di Carlo Redaelli Istituto Pavoniano Artigianelli
Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano

AMMINISTRAZIONE
Editrice Àncora
Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Tel. (02) 3360.8941

STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

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Milano n. 752 del 13.11.1987
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Milano, 12-9-1995, don Franco Pizzagalli Spedizione in abbonamento
Imprimatur: Milano 13-9-1995, mons. Franco Agnesi P.V.G. postale/50% - Milano
253

Editoriale

«Ciò che costituisce la novità fondamentale del Concilio Vatica-


no II [...] costituisce altresì la novità del nuovo Codice»: così si espri-
meva il Sommo Pontefice nella Costituzione di promulgazione del
Codice. E specificava subito questi elementi principali di novità in
ambito ecclesiologico. A noi interessano i seguenti: «La dottrina se-
condo cui la Chiesa viene presentata come il Popolo di Dio e l’autorità
gerarchica viene proposta come servizio; [...] la dottrina per la quale
tutti i membri del Popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono
partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale. A
questa dottrina si riconnette anche quella che riguarda i doveri e i di-
ritti dei fedeli, e particolarmente dei laici».
L’autorità come servizio e i diritti-doveri dei fedeli sono due fra
le principali novità del Concilio.
Ma se l’autorità è servizio (non solo in senso morale, di atteg-
giamento umile, da servo), significa che ciò che per primo si richie-
de all’autorità (come a un servo) è la fedeltà; fedeltà a una legge che
il servo (l’autorità) non si è data da sé, perché allora sarebbe padro-
ne e non servo. Tale richiesta di fedeltà (e ancor prima, tale spirito
di fedeltà) si manifesta in modo evidente nella strutturazione gerar-
chica della comunione fra coloro che, con il sacramento dell’Ordine,
sono posti a pascere il Popolo cristiano. La comunione così struttura-
ta comprende, per essere reale, anche la verifica della comunione.
Così, se tutti i fedeli partecipano della missione di Cristo, de-
v’essere loro riconosciuta l’abilità (diritto) e richiesto il dovere di e-
sercitare le attività che sono proprie della loro identità.
Ma queste due medesime sono fra le novità principali del Codice.
E il Codice di diritto canonico non è testo didattico; non è testo di in-
segnamento. È piuttosto strumento di predisposizione di mezzi esi-
254 Editoriale

gibili per realizzare (nel nostro caso) una autorità come servizio e
una vita dei fedeli come partecipi della missione di Cristo.
Ecco perché nel Codice (e più in generale, nel diritto) cerchia-
mo e troviamo le modalità per difendere i diritti dei fedeli. Non è la
concessione a uno spirito mondano, esasperato nella difesa (forma-
le) di (alcuni) diritti dei cittadini. È piuttosto la verifica del servizio
dei sacri Pastori; è la verifica di una Chiesa comunità di fedeli.
La struttura del fascicolo vuole sottolineare questa impostazio-
ne. Dapprima viene offerto un panorama sui diritti-doveri fondamen-
tali dei fedeli, così come recensiti nel nuovo Codice (Feliciani). Si
apre poi una finestra su uno di questi diritti: il diritto dei fedeli a di-
fendere i loro diritti nella Chiesa. Una previsione connotata, nella
sua concretizzazione, da un profondo spirito ecclesiale, che non rara-
mente si discosta in modo vistoso dallo spirito in cui nelle società
odierne viene utilizzato (o strumentalizzato) tale diritto (Grocholew-
ski). Viene quindi offerta una descrizione sufficientemente analitica
dei percorsi predisposti dal diritto perché un fedele possa rivendica-
re e difendere i propri diritti, se si presume che siano lesi da coloro
che hanno un’autorità pastorale nella Chiesa (Montini). L’ultimo ar-
ticolo della parte monografica affronta un tema specifico e dibattuto
in quest’ambito: è possibile pretendere di rivendicare e difendere i
diritti che appartengono a un fedele, per la sua sola qualifica di fede-
le, cioè membro di una comunità; oppure per rivendicare e difendere
i diritti è necessario che un fedele sia colpito direttamente nei propri
(cioè individuali) diritti? È la problematica che, molto viva nell’ambi-
to civile, assume la denominazione di interessi diffusi (Tognoni).

Nella seconda parte del fascicolo anzitutto si affronta brevemen-


te il canone 669 § 1, che prescrive l’abito per i religiosi e le religiose
(Recchi). Contrariamente al solito, il Codice presenta di quest’obbligo
anche le due principali ragioni, che trovano la loro validità anche per il
clero secolare: segno della consacrazione e testimonianza di povertà.
La Rivista torna poi a considerare le associazioni, che già più
volte hanno formato oggetto di attenzione e di studio (Redaelli). In
questo caso si intende approfondire il compito e la missione del ve-
scovo diocesano, soprattutto nel momento più delicato di un’associa-
zione: il suo nascere. In questo ambito, infatti, più che in altri, si evi-
denzia l’equilibrio da rinvenire nella normativa e nella prassi, fra di-
ritto dei fedeli ad associarsi e diritto della comunità intera a essere
tutelata nella fede e nella comunione gerarchica.
255

I diritti e i doveri dei fedeli


nella codificazione postconciliare
di Giorgio Feliciani

Il nuovo protagonista
Il Codice di diritto canonico del 1917 nel libro riguardante “le
persone” trattava ampiamente dei chierici e dei religiosi, dedicava
poche norme ai laici e non si occupava in alcun modo della condizio-
ne giuridica comune a tutti i battezzati (fedeli). Un’opzione derivante
dall’ecclesiologia allora dominante che sottolineava la diversità tra i
vari livelli gerarchici esistenti nella Chiesa, al punto da considerarla
una società composta da soggetti essenzialmente ineguali tra loro. In
tale ottica, protagonista della vita ecclesiale non era né la comunità
cristiana né il singolo battezzato, ma l’autorità ecclesiastica che, in
ultima analisi, veniva identificata con la Chiesa stessa. Ai fedeli era
solo richiesto di avvalersi degli aiuti spirituali offerti dalla gerarchia
e di conformarsi alle sue direttive in modo disciplinato e obbediente.
Una concezione decisamente superata dal Concilio Vaticano II
che, definendo la Chiesa come popolo di Dio, ha operato una profon-
da rivalutazione del significato dell’appartenenza a tale popolo. Ha
cioè posto in piena luce quella condizione di fedele che è comune a
tutti i battezzati e, quindi, a quanti hanno ricevuto l’ordine sacro co-
me ai laici, ai religiosi come ai coniugati, al Pontefice come al più
umile dei battezzati. Una condizione che, identificandosi con la stes-
sa appartenenza alla Chiesa, costituisce il necessario presupposto di
ogni più specifica posizione ecclesiale connessa all’esercizio di una
determinata funzione o alla pratica di un dato stato di vita.
Questo mutamento di prospettiva, che privilegia l’elemento so-
ciale e comunitario su quello gerarchico e autoritativo, è stato certa-
mente favorito dalla coscienza democratica contemporanea, ma non
può assolutamente considerarsi come il tributo pagato a una tenden-
za secolarizzatrice che pretenda di assimilare la costituzione della
256 Giorgio Feliciani

Chiesa a quella delle società civili. Non si tratta, infatti, di un improv-


viso cedimento a suggestioni esterne, ma della riscoperta, preparata
da decenni di esperienza ecclesiale e di riflessione teologica, di una
immagine di Chiesa che, pur trovandosi chiaramente e ripetutamen-
te enunciata nel Nuovo Testamento, si era venuta oscurando nella
tradizione ecclesiologica.
La centralità della figura del fedele nel nuovo Codice risulta evi-
dente se si considera che l’intero libro secondo, dedicato al popolo di
Dio, si apre proprio con la definizione di questo “stato” che può ben
dirsi “fondamentale” in quanto comune a tutti i membri della Chiesa.
Il Codice non si limita a questa identificazione tra i fedeli e i bat-
tezzati, assolutamente pacifica in tutta la legislazione e la dottrina
precedenti, ma si preoccupa di mettere in luce gli effetti prodotti dal
battesimo. Secondo il can. 204 § l
«I fedeli cristiani sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo median-
te il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo
loro proprio dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chia-
mati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che
Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo».

Questa formulazione di notevole complessità e di evidente spes-


sore teologico può lasciare a una prima lettura sconcertati per la sua
eccessiva sinteticità che non consente né una limpida esposizione né
una chiara comprensione delle diverse e significative affermazioni in
essa contenute.
In realtà il canone in questione ha la sola funzione di rinviare
l’interprete a una serie di insegnamenti del Vaticano II che vengono
specificamente indicati: il battesimo come incorporazione a Cristo, la
Chiesa come popolo di Dio, la partecipazione di tutti i fedeli agli uffi-
ci di Cristo, l’universale missione di salvezza affidata alla Chiesa, la
responsabilità che compete a ogni cristiano nella sua realizzazione.
Si può qui riconoscere la codificazione del principio interpretati-
vo enunciato da Giovanni Paolo II: il nuovo Codice deve trovare sem-
pre, per quanto possibile, il suo essenziale punto di riferimento nel-
l’immagine conciliare della Chiesa. Non pretende, quindi, costituire
un testo esauriente ed “esclusivo” secondo l’ideologia propria delle
codificazioni secolari, ma richiede di essere letto in parallelo con i
documenti conciliari 1.
1
Cf la costituzione di promulgazione del nuovo Codice Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983, e il di-
scorso di presentazione dello stesso, 3 febbraio 1983, n. 8.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 257

Di conseguenza per comprendere il can. 204 § 1 è necessario ri-


cordare come, secondo il Concilio, quanti ricevono il battesimo sono
veramente “incorporati” a Cristo e vengono “rigenerati” per parteci-
pare alla vita divina 2. I battezzati, poi, costituiscono il «nuovo popolo
di Dio» che volle «santificare e salvare gli uomini non individualmen-
te e senza alcun legame tra loro», ma riunendoli in un unico popolo
che lo riconoscesse e lo servisse 3. Essi divengono così partecipi del-
la missione del Signore nelle sue funzioni di sacerdote, costituito
mediatore tra Dio e gli uomini 4, di profeta, mandato a proclamare il
Regno del Padre 5, e di re, posto a capo di tutte le cose e di tutte le
genti 6.
Nella partecipazione a tali funzioni i fedeli sono chiamati ad at-
tuare la missione della Chiesa che si rende «pienamente e attual-
mente presente a tutti gli uomini e popoli, per condurli con l’esempio
di vita e la predicazione, con i sacramenti e gli altri mezzi della gra-
zia, alla fede, alla libertà, alla pace» 7. Di conseguenza a ogni battez-
zato «incombe il dovere di diffondere, per parte sua, la fede» 8.
Come si vede il can. 204 § 1 propone una sintesi quanto mai
stringata dell’intera ecclesiologia conciliare: la sua interpretazione
condotta alla luce dei relativi passi dei documenti del Vaticano II con-
sente di evidenziare in modo assolutamente chiaro la dignità e la re-
sponsabitità inerenti alla condizione di fedele.
Né, d’altra parte, deve sorprendere la mancata menzione di
quegli elementi più specificamente giuridici che caratterizzano tale
condizione. Il legislatore non li ha voluti trascurare, ma ha preferito,
con una scelta discutibile, collocarli in altra parte del Codice e preci-
samente nel libro primo, riguardante le norme generali, al titolo con-
cernente le persone fisiche e giuridiche. Il can. 96 infatti stabilisce:

«Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è


costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenendo presente la
loro condizione, sono propri».

2
Cf decreto Unitatis redintegratio, n. 22a.
3
Cf costituzione Lumen gentium, n. 9a.
4
Cf costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 5a.
5
Cf costituzione Lumen gentium, n. 35a.
6
Cf ibid., n. 13a-b.
7
Decreto Ad gentes, n. 5a.
8
Costituzione Lumen gentium, n. 17a.
258 Giorgio Feliciani

L’uguale dignità
La Chiesa non si presenta come una società omogenea e indif-
ferenziata in cui tutti i membri abbiano uguali responsabilità, ma è
«per divina istituzione, organizzata e diretta con una mirabile varie-
tà» 9. Le concrete modalità con cui i singoli sono chiamati a collabo-
rare alla sua costruzione sono, quindi, notevolmente diverse tra loro.
A questo proposito il Codice si preoccupa innanzitutto di ricordare
come, nell’ambito della comunità cristiana, esista una precisa diffe-
renza di funzioni tra quanti hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine
(sacri ministri o anche chierici) e tutti gli altri fedeli, che vengono
denominati laici (can. 207 § 1).
Come si è già rilevato, la precedente codificazione sottolineava
in modo decisamente eccessivo la differenza esistente tra chierici e
laici. Notevolmente diverso risulta l’insegnamento del Vaticano II
che, proprio mentre ribadisce l’insostituibile compito della gerar-
chia, vi riconosce una specifica funzione della Chiesa che non può in
alcun modo esaurirne la realtà e il significato. Infatti quanti nel suo
seno sono dotati di autorità sanno di non essere stati istituiti per as-
sumersi da soli la missione della salvezza degli uomini, ma per gui-
dare i fedeli in modo che ciascuno cooperi attivamente, secondo le
proprie capacità, all’opera comune 10.
Risulta così evidente che chierici e laici non costituiscono due
classi separate (di dominatori e di sudditi, un tempo si diceva) poi-
ché la distinzione, radicata nel sacramento dell’Ordine, concerne la
diversità dei rispettivi compiti e ministeri specifici che nulla aggiun-
gono o tolgono alla dignità e alla libertà comune a tutti i membri del-
la Chiesa.
In questo senso si esprime chiaramente il can. 208:
«Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una ve-
ra uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti coopera-
no alla edificazione del corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti
propri di ciascuno».

Questa affermazione, quasi testualmente ripresa da un passo


conciliare 11, non fa altro che mettere in luce una conseguenza giuri-

9
Ibid., n. 32a.
10
Ibid., n. 30.
11
Cf ibid., n. 32c.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 259

dica di quell’appartenenza al popolo di Dio che, prima e al di là della


distinzione tra chierici e laici, accomuna tutti i battezzati. Poiché
questo popolo «ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di
Dio» 12, coloro che ne fanno parte sono, senza alcuna distinzione,
partecipi di tale dignità secondo le modalità che si sono precedente-
mente descritte illustrando la figura del fedele.
Una uguaglianza fondamentale che esiste non solo tra i laici e i
chierici, ma anche tra quanti realizzano la vocazione cristiana nel se-
colo – implicati, cioè, nelle questioni e negli affari di questo mondo
con i doveri e le preoccupazioni derivanti dalle responsabilità della
vita familiare e sociale – e coloro che hanno abbracciato, nella pro-
fessione dei consigli evangelici di castità, povertà, obbedienza, la vita
consacrata.

La questione dei diritti fondamentali


Una volta delineata nei tratti essenziali la figura del fedele, il Le-
gislatore ha dovuto impegnarsi a definire con precisione il suo stato
giuridico. Questa esigenza è chiaramente evidenziata dagli stessi
principi direttivi della nuova codificazione approvati dal Sinodo dei
vescovi del 1967. In essi, infatti, si sottolineava come l’autorità eccle-
siastica non potesse esercitare i propri poteri in modo arbitrario, ma
dovesse comunque riconoscere e tutelare i diritti attribuiti ad ogni
singolo fedele dal diritto divino e dalla legislazione della Chiesa. Di
conseguenza si proponeva che, data la fondamentale uguaglianza
che vige tra tutti i cristiani in forza della loro dignità umana e del bat-
tesimo ricevuto, venisse espressamente sancito lo stato giuridico co-
mune a tutti i fedeli, prima ancora di esporre gli specifici diritti e do-
veri corrispondenti alla loro condizione di chierici o di laici 13.
Il compito così assegnato alla Commissione codificatrice si è ri-
velato tutt’altro che agevole in quanto il Concilio, mentre riconosce
l’esistenza di diritti e doveri comuni a tutti i membri del popolo di
Dio, non si preoccupa di prospettarne un elenco organico e comple-
to, ma si limita ad alcune esemplificazioni formulate in termini privi
della necessaria veste giuridica.

12
Ibid., n. 9b.
13
Cf Communicationes 1 (1969) 82-83.
260 Giorgio Feliciani

Inoltre in questi ultimi anni teologi e canonisti hanno animata-


mente discusso intorno al valore e al significato dei cosiddetti diritti
fondamentali dei fedeli, alla possibilità e all’opportunità di una loro
formalizzazione, alle modalità di formulazione del relativo catalogo 14.
Se è indiscutibile che le costituzioni civili abbiano esercitato un
certo influsso sull’idea di stilare una “carta dei diritti” dei fedeli, è
del pari evidente che tali diritti hanno un fondamento e una natura
ben diversi dai diritti riconosciuti ai cittadini dalle legislazioni degli
Stati. E questo a causa sia delle obiettive differenze esistenti tra so-
cietà religiosa e società potitica, sia delle diverse concezioni del rap-
porto tra persona e comunità cui si ispirano i rispettivi ordinamenti.
Basti qui ricordare che nella Chiesa non è possibile separare e con-
trapporre bene pubblico e bene privato, poiché secondo la dottrina
cattolica ogni fedele realizza il proprio destino personale nella parte-
cipazione alla comunità ecclesiale, dal momento che questa è stata
istituita perché gli uomini – tutti e ciascuno – giungano alla salvezza.
La Chiesa ha, poi, un concetto di libertà diverso da quello elaborato
dalla cultura laica e razionalistica, in quanto ritiene che l’uomo, nel-
l’esercizio della sua libertà, debba sempre riconoscere e rispettare la
sua originaria dipendenza da Dio.
I diritti dei fedeli non vanno identificati nemmeno con quei dirit-
ti umani a cui il magistero pontificio, soprattutto più recente, dedica
giustamente tanta attenzione. Essi, infatti, non si fondano, almeno di-
rettamente, immediatamente ed esclusivamente, nella natura uma-
na, ma derivano dalla incorporazione al popolo di Dio. Come è stato
osservato, i diritti propri dei cristiani non sono preesistenti alla Chie-
sa, ma sono conferiti dalla stessa attraverso il battesimo e gli altri sa-
cramenti. E la Chiesa non ha lo scopo primario di garantire la realiz-
zazione dei diritti dei singoli, ma di assicurare il permanere del mi-
stero di Cristo nella storia 15.
Tutti questi problemi e difficoltà non sono stati comunque suffi-
cienti a distogliere la Commissione codificatrice dal tentativo di for-
mulare un’organica esposizione dei doveri e dei diritti dei cristiani.
Fin dall’inizio dei lavori il gruppo dei consultori incaricato di predi-

14
L’associazione internazionale dei canonisti ha dedicato a tali questioni un intero congresso e il pode-
roso volume che ne raccoglie gli atti (AA.VV., I diritti fondamentali del Cristiano nella Chiesa e nella so-
cietà, Milano, 1981) costituisce un’esauriente documentazione della complessità della problematica e
della diversità delle tesi sostenute in merito.
15
Cf E. CORECCO, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del Cristiano nella Chiesa e nella
società, in AA.VV., I diritti fondamentali..., cit., pp. 1221-1222.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 261

sporre il testo dei canoni relativi ai laici, pur ricordando le divergen-


ze esistenti tra gli studiosi, ha ritenuto assolutamente necessario af-
frontare questo compito per dare attuazione all’insegnamento della
costituzione conciliare Lumen gentium circa quella fondamentale
unità ed eguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio che viene
prima della diversità dei loro ministeri 16.

Vivere nella comunione


Tutti i problemi e le difficoltà che si possono sollevare a propo-
sito della codificazione dello statuto giuridico dei fedeli non valgono,
comunque, a mettere in dubbio che i singoli cristiani abbiano nella
Chiesa dei veri e propri diritti e, di conseguenza, una sfera di attività
e di rapporti in cui possono agire liberamente e responsabilmente,
nell’immunità da ogni coercizione autoritativa. È, invece, innegabile
che nell’ordinamento canonico il riconoscimento di diritti soggettivi
si venga a configurare, sia per contenuti sostanziali sia per forme di
esercizio, in modo ben diverso da quanto avviene in qualunque altro
ordinamento giuridico.
Nel diritto della Chiesa, infatti, tutte le norme, per quanto speci-
fiche e dettagliate possano risultare, sono in diretta funzione del con-
seguimento di un unico fine che viene descritto, in termini diversi
ma per nulla contraddittori, come gloria di Dio, salvezza delle anime
(compimento cioè del destino a cui sono chiamati tutti gli uomini),
bene comune e utilità della Chiesa, realizzazione di quell’unità che
all’interno del popolo di Dio lega tra loro i singoli fedeli e le diverse
comunità (comunione ecclesiastica). E tale intrinseca coerenza del-
l’ordinamento canonico è espressamente affermata dal Codice che,
nel suo ultimo canone, ricorda che la Chiesa deve avere come legge
suprema la salvezza delle anime. Ne segue che nella comunità eccle-
siale qualunque “posizione” soggettiva viene riconosciuta e tutelata
solo in quanto si riveli funzionale al raggiungimento del fine proprio
ed esclusivo della Chiesa e non può, dunque, in alcun modo essere
utilizzata per altre finalità.
Una esigenza di carattere talmente generale da riguardare non
solo i diritti ma anche i poteri. Infatti la potestà ecclesiastica, derivan-
do immediatamente da Dio e da Cristo, va esercitata secondo la vo-

16
Cf Communicationes 2 (1970) 90-91.
262 Giorgio Feliciani

lontà di Dio e l’esempio di Cristo. I vescovi, quindi, hanno l’obbligo


di avvalersi della loro autorità solo per condurre i fedeli alla verità e
alla santità «ricordandosi che il più grande si deve fare come il più
piccolo, e colui che governa come colui che serve» 17.
In sintesi: nella Chiesa ogni diritto come ogni potere deve esse-
re esercitato in modo corrispondente alla finalità e alla dinamica pro-
prie della comunità ecclesiale. Deve realizzarsi, cioè, secondo una lo-
gica di comunione.
Per quanto specificamente concerne i diritti tale obbligo è e-
spressamente affermato dal can. 209 § 1: «I fedeli sono tenuti a con-
servare sempre, anche nel loro modo di agire, la comunione con la
Chiesa». L’inciso «anche nel loro modo di agire» appare particolar-
mente significativo in quanto mette in luce come questo dovere ri-
guardi, senza alcuna distinzione tra sfera pubblica e sfera privata,
tutte le azioni del cristiano. Di conseguenza nessun comportamento
del battezzato può considerarsi legittimo se risulta tale da contraddi-
re o da mettere in crisi la sua appartenenza al popolo di Dio.
Va però osservato che la disposizione avrebbe meritato per la
sua rilevanza una formulazione più ampia ed articolata. Per i cristiani
vivere in comunione con la Chiesa costituisce non solo un dovere
ma anche un diritto. È infatti evidente che non è assolutamente con-
sentito escludere dalla compagine visibile della Chiesa chi, «avendo
lo spirito di Cristo», ne accetti integralmente la fede, la struttura ge-
rarchica e i mezzi di salvezza 18.
Inoltre vivere nella comunione non è uno tra i tanti doveri e di-
ritti che competono ai battezzati, ma costituisce l’unico diritto-dovere
veramente fondamentale in quanto riassume, sintetizza e qualifica
tutti gli altri.
In merito basti ricordare, oltre a quanto si è già messo in luce a
proposito dell’assoluta coerenza del diritto canonico, come le esigen-
ze della comunione incidano profondamente sulle concrete modalità
di esercizio di qualunque diritto del cristiano. Il can. 223 § 1 ricorda
infatti che in tale esercizio è necessario «tenere conto del bene co-
mune della Chiesa, dei diritti altrui e dei propri doveri nei confronti
degli altri». E, a proposito di tali doveri, il can. 209 § 2 richiama con
forza al diligente adempimento di quelli riguardanti la Chiesa, sia

17
Costituzione Lumen gentium, n. 27a.
18
Ibid., n. 14b.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 263

universale sia particolare. Nessun diritto può quindi essere esercita-


to sulla base di valutazioni egoistiche e individualistiche, poiché un
tale atteggiamento sarebbe in insanabile contrasto con la natura
stessa dei diritti dei cristiani.
La norma del can. 209 § 1 ha dunque una portata molto più am-
pia e generale di quanto possa apparire da un’interpretazione mera-
mente “letterale” e si comprende, dunque, agevolmente perché il Le-
gislatore abbia voluto collocarla all’inizio dell’enunciazione dei dove-
ri e dei diritti dei fedeli, facendola precedere solo dalla già ricordata
affermazione della loro uguaglianza.

Il catalogo dei doveri e dei diritti


Prima di passare alla presentazione dei singoli e specifici doveri
e diritti prospettati dai cann. 210-223 si impongono alcune precisazio-
ni. Innanzitutto tale elenco, adottato anche dal Codice dei canoni del-
le Chiese orientali promulgato nel 1990, non può essere considerato
come esauriente in quanto costituisce una formalizzazione positiva,
e dunque storica e contingente, di principi di diritto divino. A questo
proposito occorre ricordare che nel diritto della Chiesa, esiste una
costante sproporzione tra la “forma” – vale a dire le norme positive
promulgate dall’autorità ecclesiastica – e la “sostanza”. Quest’ultima
è, per definizione, «perfetta, inesauribile e infinita, per essere in mas-
sima parte di natura divina», mentre «la forma, per essere umana, è
necessariamente imperfetta, limitata e circoscritta, come tutte le co-
se umane» 19.
Una constatazione di carattere generale che risulta particolar-
mente vera nel caso in esame.
È infatti la prima volta che viene tentata la formalizzazione di
quei doveri e diritti del fedele che sono indiscutibilmente di diritto
divino in quanto derivano dall’incorporazione a Cristo operata dal
battesimo. La Commissione codificatrice non ha quindi potuto avva-
lersi delle indicazioni emergenti dall’esperienza legislativa preceden-
te e, al contempo, ha dovuto misurarsi con una serie di questioni che
non hanno ancora trovato nella riflessione teologica e giuridica una
soluzione assolutamente chiara e totalmente convincente.

19
P. FEDELE, Lo spirito dell’ordinamento canonico, Padova 1962, p. 212.
264 Giorgio Feliciani

L’elenco contenuto nel Codice non può, dunque, essere inter-


pretato in modo formale e legalistico, ma va collocato nel contesto di
quell’ideale triangolo tracciato da Giovanni Paolo II che vede da una
parte il Codice, dall’altra gli atti del Concilio e, al vertice, la parola di
Dio 20. In altri termini: per comprendere adeguatamente il significato
di queste norme occorre sempre rifarsi all’immagine globale del fe-
dele quale emerge dalla rivelazione e dall’interpretazione autentica
che ne propone l’autorità della Chiesa, così come dispone, implicita-
mente ma chiaramente, il già menzionato can. 204.
Quest’avvertenza è tanto più opportuna in quanto contro i pro-
getti dei canoni in questione – originariamente contenuti negli schemi
della progettata e mai realizzata Legge fondamentale della Chiesa – si
sono appuntate diverse critiche. In particolare si è rilevato che le evi-
denti deficienze di carattere sistematico non consentivano di cogliere
i criteri seguiti nella formulazione e si è pure osservato che gli obbli-
ghi morali risultavano talvolta confusi con quelli giuridici mentre i di-
ritti dei battezzati non venivano sempre distinti da quelli umani 21.
Tali carenze si riscontrano in una certa misura anche nel testo
promulgato che può dar luogo a rilievi soprattutto per il tentativo del
Legislatore di conciliare nelle stesse norme l’affermazione dei diritti
dei singoli e la tutela delle prerogative dell’autorità.
Sotto questo profilo appare decisamente criticabile che nella e-
nunciazione di specifici diritti siano frequentemente ripetuti limiti so-
stanziali e condizioni di esercizio che risultano già chiaramente da
norme di carattere generale o dagli stessi principi basilari dell’ordi-
namento. Così avviene, per esempio, a proposito della conformità al-
la dottrina della Chiesa, della salvaguardia dell’integrità della fede e
della morale, dell’ossequio dovuto all’autorità ecclesiastica e al suo
magistero, delle differenti modalità di esercizio richieste dalla diver-
sità delle condizioni personali e dei ministeri degli interessati.
Il costante richiamo a queste esigenze rivela nel Legislatore il
timore che il riconoscimento dei diritti dei battezzati possa essere
male interpretato e consentire inaccettabiti abusi. Anche se tale
preoccupazione può essere comprensibile sotto il profilo pastorale,

20
Cf il già citato discorso di presentazione del nuovo Codice, n. 9.
21
Per una rassegna delle diverse tesi sostenute in merito cf J. BERNHARD, Les droits fondamentaux dans
la perspective de la Lex fundamentalis et de la revision du Code de Droit Canonique, in AA.VV., I diritti
fondamentali..., cit., pp. 367-395.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 265

la soluzione adottata non è certamente conforme alle regole di una


corretta tecnica legislativa.
Notevoli perplessità suscita anche la disposizione del can. 223
§ 2 che conclude il titolo dedicato ai doveri e ai diritti dei cristiani de-
cretando: «Spetta all’autorità ecclesiastica, in vista del bene comune,
regolare l’esercizio dei diritti che sono propri dei fedeli».
Un’affermazione difficilmente contestabile in linea di principio:
da un lato ogni diritto, come si è dimostrato, deve realizzarsi secon-
do una logica di comunione, dall’altro non è dubbio che spetti ai pa-
stori stabilire ciò che è richiesto dal bene della Chiesa. Tuttavia la di-
sposizione del can. 223 § 2 è formulata in termini troppo ampi e ge-
nerici per poter essere considerata accettabile.
In ogni caso questa come le altre carenze rilevabili non devono
far sottovalutare l’importanza e il significato della codificazione dello
statuto giuridico del battezzato. Non si tratta, infatti, di generiche af-
fermazioni di principio, ma di vere e proprie norme promulgate dal
Pontefice, fondate in larga misura sul diritto divino e destinate a e-
stendere la loro efficacia ai più diversi campi e rapporti. Di conse-
guenza se l’autorità gerarchica ha il potere di regolare l’esercizio dei
diritti dei cristiani, essa non può comportarsi come se essi non esi-
stessero o fossero integralmente affidati alla sua discrezionalità. Ogni
eventuale limitazione dovrà quindi avere carattere eccezionale ed es-
sere giustificata da gravi e adeguate ragioni. Del resto lo scarso favo-
re con cui il diritto della Chiesa considera i condizionamenti autorita-
tivi, anche legislativi, della libertà degli appartenenti al popolo di Dio
risulta evidente da quelle norme del Codice che, ripetendo disposizio-
ni tradizionali, mirano a restringerne il più possibile l’applicazione 22.

Santità e missione
Nell’elencare i singoli doveri e diritti il Codice ricorda innanzi-
tutto che
«tutti i battezzati, secondo la propria condizione, devono dedicare le loro
energie al fine di condurre una vita santa e di promuovere la crescita della
Chiesa e la sua continua santificazione» (can. 210).

La norma, mentre richiama gli insegnamenti conciliari circa l’u-


niversale vocazione alla santità, sottolinea lo strettissimo legame che

22
In particolare i cann. 18 e 10.
266 Giorgio Feliciani

intercorre tra quest’ultima e l’incremento della Chiesa. Non si tratta,


infatti, di doveri tra loro diversi, ma di un solo impegno proposto ai
fedeli poiché la crescita della Chiesa avviene in quanto i singoli rea-
lizzano nell’esistenza personale la pienezza della vita cristiana e la
perfezione della carità. D’altro canto, i battezzati non possono giun-
gere alla santità se non rispondendo alla vocazione divina che li chia-
ma «a contribuire con tutte le loro forze all’incremento della Chie-
sa» 23, adempiendo il dovere ed esercitando il diritto «di impegnarsi
perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più fra
tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo» (can. 211). E, poiché
le esigenze della evangelizzazione possono suggerire, e di fatto spes-
so richiedono, anche iniziative organizzate e strutturate, il can. 216
si preoccupa di sancire il diritto dei battezzati «di promuovere e so-
stenere l’attività apostolica anche con proprie iniziative» 24.
Tali iniziative vengono spesso realizzate dai fedeli in forma as-
sociata e si può, quindi, affermare che esiste uno strettissimo lega-
me tra il diritto di iniziativa apostolica e il diritto di associazione,
enunciato nel can. 215:
«I fedeli hanno il diritto di fondare e di dirigere liberamente associazioni che
si propongano un fine di carità o di pietà, oppure l’incremento della vocazio-
ne cristiana nel mondo; hanno anche il diritto di tenere riunioni per il rag-
giungimento comune di tali finalità».

Obbedienza e dialogo
Il dovere del cristiano di mantenere sempre la comunione con
la Chiesa importa l’obbligo dell’obbedienza alla gerarchia, come ri-
corda il can. 212 § 1:
«I fedeli, consapevoli della propria responsabilità, sono tenuti a osservare con
cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, in quanto rappresentano Cristo,
dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa».

L’obbedienza prescritta è espressamente qualificata come «cri-


stiana» e non può quindi essere passiva o meccanica, ma richiede

23
Cf costituzione Lumen gentium, nn. 40b, 33a
24
Il can. 216 prevede, peraltro, un preciso limite a questa libertà, imponendo che «nessuna iniziativa ri-
vendichi per se stessa il nome di cattolica, senza il consenso dell’autorità ecclesiastica competente» allo
scopo di rendere immediatamente riconoscibili tra le diverse iniziative quelle che la gerarchia ritiene di
dover espressamente qualificare, impegnando la sua autorità, come pienamente ecclesiali, distinguen-
dole da tutte le altre che affidano la loro credibilità esclusivamente alla propria effettiva verità e auten-
ticità.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 267

sempre la piena coscienza della dignità battesimale e della conse-


guente responsabilità personale ed ecclesiale. Inoltre non riguarda
qualunque decisione dell’autorità, ma unicamente quanto questa di-
spone nell’ambito del legittimo esercizio delle funzioni di insegna-
mento e di governo che le competono 25.
Il Vaticano II non si limita a sottolineare il dovere dell’obbedien-
za ma enuncia anche, in modo più o meno completo ed esplicito, al-
cuni diritti che spettano ai cristiani nei confronti della gerarchia 26.
Alla luce di tali insegnamenti il Codice sancisce, innanzitutto, il dirit-
to dei fedeli «di manifestare ai pastori della Chiesa le proprie neces-
sità, soprattutto spirituali, e i propri desideri» (can. 212 § 2).
Il diritto al dialogo implica anche che i fedeli «in modo propor-
zionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono» ab-
biano
«il diritto, e anzi talvolta il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pen-
siero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fe-
deli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i sa-
cri pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle perso-
ne» (can. 212 § 2).

Il risalto dato a queste prerogative è pienamente giustificato,


poiché senza un dialogo libero e fiducioso gli insegnamenti concilia-
ri circa la dignità e corresponsabilità di tutti i battezzati resterebbero
senza effettiva incidenza sulla realtà pastorale.

L’educazione cristiana
Per quanto concerne la funzione di insegnamento affidata alla
gerarchia il primo diritto di quanti sono stati «chiamati mediante il
battesimo a condurre una vita conforme alla dottrina evangelica», è
quello di ricevere «l’educazione cristiana» per essere «formati a con-
seguire la maturità della persona umana e contemporaneamente a
conoscere e vivere il mistero della salvezza» (can. 217).
Il dovere di dare attuazione a questo diritto dei fedeli incombe
globalmente alla comunità ecclesiale in tutte le sue varie componen-

25
In questo contesto si colloca il delicato problema della libertà di ricerca teologica e, a tale riguardo,
il can. 218 riconosce a quanti si dedicano allo studio delle scienze sacre la «giusta libertà di investigare
e di manifestare con prudenza il loro pensiero su ciò di cui sono esperti», ma sempre mantenendo «il
dovuto ossequio nel confronti del magistero della Chiesa».
26
Cf costituzione Lumen gentium, n. 37a.
268 Giorgio Feliciani

ti, ma importa anche specifici obblighi per quanti hanno, a diverso ti-
tolo, precise responsabilità educative. Così, per esempio, «spetta pri-
mariamente ai genitori cristiani curare l’educazione cristiana dei figli
secondo la dottrina insegnata dalla Chiesa» (can. 226 § 2) e sono
d’altra parte evidenti i compiti che, ai diversi livelli, spettano alle au-
torità ecclesiastiche 27.

La parola di Dio e i sacramenti


Il diritto dei fedeli a che i pastori svolgano effettivamente le loro
funzioni non riguarda solo l’insegnamento, ma concerne anche la
santificazione e, quindi, il potersi effettivamente avvalere degli «aiuti
derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di
Dio e dai sacramenti» (can. 213). Questo diritto non ha un carattere,
per così dire, assoluto, ma va esercitato nel rispetto di una serie di ri-
gorose condizioni. In merito il Codice precisa che devono essere am-
messi ai sacramenti solo quanti «li chiedano opportunamente, siano
ben disposti e non abbiano ricevuto dal diritto la proibizione a rice-
verli» (can. 843 § 1). E questa disposizione di carattere generale vie-
ne attentamente specificata per i singoli sacramenti.
Occorre anche precisare che il diritto in questione non può es-
sere rivendicato nei confronti di qualunque chierico, ma solo nei ri-
guardi della organizzazione ecclesiastica nel suo complesso o dei
singoli sacerdoti preposti alla comunità ecclesiale cui si appartiene o
responsabili del territorio in cui ci si trova. C’è senz’altro da augurar-
si che anche tutti gli altri ministri sacri si rivelino disponibili a even-
tuali richieste, ma non si può sostenere che esista a loro carico un
vero e proprio obbligo giuridico.

L’identità rituale e la spiritualità personale


Attualmente la stragrande maggioranza dei cattolici segue il ri-
to della Chiesa di Roma ma, accanto a esso, sussistono ben cinque
riti orientali praticati da diverse comunità ecclesiali dotate di proprie
gerarchie.

27
Per quanto specificamente concerne i vescovi e i parroci si vedano, per esempio, i cann. 386 § 1 e
528 § 1 e, più in generale, l’intero libro III del Codice dedicato alla funzione di insegnare.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 269

Il rito non costituisce solo un elemento caratterizzante una de-


terminata Chiesa, ma contribuisce anche a definire l’identità eccle-
siale dei singoli fedeli. Salvo casi eccezionali (can. 112) non solo i
cattolici, ma anche i battezzati di qualunque Chiesa o comunità cri-
stiana che si convertano al cattolicesimo, hanno l’obbligo di mante-
nere dovunque il proprio rito, onorandolo e osservandolo per quanto
possono 28. E a tale dovere corrisponde il diritto, sancito dal can. 214,
«di rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito ap-
provato dai legittimi pastori».
Circa la vita spirituale va innanzitutto ricordato come essa sia
definita dal Vaticano II come quella relazione «nascosta» del fedele
«con Cristo in Dio» che si alimenta nella preghiera, nell’ascolto della
Parola e nella partecipazione alla liturgia, e che dà origine e impulso
all’amore verso il prossimo e all’edificazione della Chiesa 29. Una sfe-
ra, dunque, assolutamente personale e intima in cui deve potersi e-
splicare in tutta la sua pienezza la libertà del battezzato. Di conse-
guenza il Codice, nella seconda parte del can. 214, sancisce il diritto
dei fedeli a «seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia
però conforme alla dottrina della Chiesa».

Rilevanza ecclesiale di alcuni diritti umani


Il can. 219 garantisce ai fedeli il diritto a «essere immuni da
qualsiasi costrizione nella scelta dello stato di vita» e il can. 220 proi-
bisce categoricamente a chiunque di «ledere illegittimamente la buo-
na fama di cui uno gode» e di «violare il diritto di ogni persona a di-
fendere la propria intimità». Si tratta, evidentemente, di diritti umani
che, peraltro – analogamente a quanto avviene per il diritto di asso-
ciazione di cui ci si è precedentemente occupati – vengono giusta-
mente annoverati tra le prerogative dei fedeli in quanto nei battezzati
assumono una propria e specifica rilevanza ecclesiale. Per il fedele,
infatti, la scelta dello stato di vita concerne l’individuazione della mo-
dalità concreta con cui realizzare la propria vocazione cristiana, la
buona fama non riguarda solo le qualità umane, ma anche e soprat-
tutto le virtù cristiane, e l’intimità attiene anche al rapporto persona-
le con Cristo.

28
Cf decreto Orientalium Ecclesiarum, n. 4.
29
Cf i decreti Perfectae caritatis, n. 6a-b, e Apostolicam actuositatem, n. 4a.
270 Giorgio Feliciani

L’impegno di sovvenire alle necessità della Chiesa


Il Vaticano II insegna che la Chiesa, pur non avendo compiti di
natura politica, sociale ed economica, non può fare a meno di avva-
lersi anche di “mezzi umani”, in quanto vive e agisce nel contesto di
questo mondo. In particolare deve disporre dei beni temporali ne-
cessari ad assicurare la celebrazione del culto divino, a garantire il
dignitoso sostentamento dei ministri, a realizzare le opere richieste
dalle esigenze dell’apostolato e della carità 30. Il Concilio non si limita
ad affermazioni di principio, ma si preoccupa di evidenziare, sia pure
in modo non completo e sistematico, i doveri che ne derivano per i
battezzati 31.
Sulla base di queste fonti il Codice perviene nel can. 222 § 1 alla
definizione di un dovere comune a tutti i cristiani:
«I fedeli sono tenuti all’obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa, affin-
ché essa possa disporre di quanto è necessario per il culto divino, per le ope-
re di apostolato e di carità e per l’onesto sostentamento dei ministri».

La formulazione della norma è tanto generale da apparire gene-


rica in quanto non precisa le modalità di adempimento del dovere
che sancisce. Peraltro il Legislatore non poteva in questa sede ad-
dentrarsi in tali specificazioni a causa della complessità della questio-
ne. Il fedele, infatti, può soddisfare l’obbligo in molteplici forme che
vanno dalle libere offerte alle prestazioni economiche richieste in
certe circostanze dall’autorità ecclesiastica, dalle donazioni alle di-
sposizioni testamentarie. Inoltre i modi concretamente adottati pos-
sono mutare, anche sensibilmente, in funzione della notevole varietà
di situazioni che si realizza nei diversi paesi a causa delle differenti
normative civili, unilaterali o pattizie, vigenti in materia.

La promozione della giustizia sociale e il soccorso ai poveri


Gli altri doveri enunciati dal Codice riguardano la promozione
della giustizia sociale e il soccorso ai poveri (can. 222 § 2). Sono ob-
blighi che incombono a tutti gli uomini come logica conseguenza del

30
Cf costituzioni Lumen gentium, n. 8c, Gaudium et spes, n. 76e, e decreto Presbyterorum ordinis,
n. 17c.
31
Cf in particolare i decreti Presbyterorum ordinis, nn. 17c, 20a; Apostolicam actuositatem, n. 10c; Per-
fectae caritatis, n. 13e.
I diritti e i doveri dei fedeli nella codificazione postconciliare 271

diritto di ogni persona ad «avere una parte di beni sufficienti a sé e


alla propria famiglia» 32, ma vengono annoverati tra i doveri propri
dei fedeli in quanto per i battezzati assumono connotazioni assoluta-
mente peculiari. La Chiesa, infatti, nell’aiutare gli indigenti «intende
servire Cristo» che ha voluto «identificare se stesso con i fratelli
come oggetto della carità» e ha stabilito quest’ultima «come segno
distintivo dei suoi discepoli» 33. E questi insegnamenti conciliari, pe-
raltro quanto mai tradizionali, sono sinteticamente ma precisamente
richiamati dal can. 222 § 2 che impegna i fedeli a ricordarsi del «co-
mandamento del Signore».
La carità è poi intimamente connessa alla giustizia sociale, poi-
ché secondo il disegno di Dio «i beni creati debbono essere parteci-
pati a tutti secondo un equo criterio, avendo come guida la giustizia
e come compagna la carità» 34.

La protezione giuridica
Come si è già ricordato i principi direttivi della nuova codifica-
zione riconoscevano la necessità di assicurare alle prerogative dei fe-
deli un’adeguata protezione nei confronti di qualunque comporta-
mento arbitrario dell’autorità. A tale esigenza si ispira il can. 221 che,
nei suoi primi paragrafi, sancisce il diritto dei battezzati a «rivendica-
re e difendere legittimamente i diritti di cui godono nella Chiesa
presso il foro ecclesiastico competente a norma di legge» e a essere
giudicati, se chiamati in giudizio, «secondo le disposizioni di legge
da applicare con equità».
Pur nella sua genericità questa affermazione del principio della
protezione del patrimonio giuridico della persona assolve una duplice
funzione. Da un lato impone che l’interpretazione del diritto proces-
suale vigente avvenga in modo da assicurare il più possibile un’effetti-
va tutela dei diritti spettanti ai membri della Chiesa. Dall’altro costi-
tuisce una norma di carattere programmatico destinata a orientare
ogni futura evoluzione della legislazione relativa ai processi 35.

32
Costituzione Gaudium et spes, n. 69a.
33
Costituzione Lumen gentium, n. 8c e decreto Apostolicam actuositatem, n. 8b.
34
Costituzione Gaudium et spes, n. 69a.
35
Cf C. MIRABELLI, La protezione giuridica dei diritti fondamentali, in AA.VV., I diritti fondamentali...,
cit., p. 417.
272 Giorgio Feliciani

Il Codificatore ha anche ritenuto di dover dedicare specifica at-


tenzione alle limitazioni dei diritti derivanti dalle sanzioni legittima-
mente inflitte dall’autorità ecclesiastica (can. 96), riconoscendo ai fe-
deli nel can. 221 § 3, «il diritto di non essere colpiti da pene canoni-
che se non a norma di legge».
La disposizione sembra sancire la proibizione di punire taluno
per un fatto che non sia espressamente previsto come delitto dalla
legge (nullum crimen sine lege), ma tale principio non trova nel dirit-
to della Chiesa un’attuazione coerente e consequenziale dal momen-
to che può venire derogato ogni qualvolta «la speciale gravità della
violazione esiga una punizione e urga la necessità di prevenire o ri-
parare gli scandali» (can. 1399).
GIORGIO FELICIANI
Via Molino delle Armi, 3
20123 Milano
273

La tutela dei diritti dei fedeli


e le composizioni stragiudiziali
delle controversie
di Zenon Grocholewski

Il Codice di diritto canonico come pure il Codice dei canoni del-


le Chiese orientali – trattando dei diritti dei fedeli – fra l’altro stabi-
liscono:
«Compete ai fedeli rivendicare e difendere legittimamente i diritti di cui go-
dono nella Chiesa presso il foro competente a norma di legge» (can. 221 § 1;
CCEO, can. 24 § 1).

Infatti, senza la possibilità di una adeguata difesa, la proclama-


zione dei diritti dei fedeli potrebbe rimanere lettera morta.

Le strutture per la difesa dei diritti


L’ordinamento giudiziario della Chiesa è molto semplice in con-
fronto alle legislazioni statali.
Per non complicare l’esposizione, mi limiterò nelle ulteriori con-
siderazioni al solo Codice di diritto canonico della Chiesa latina.
1. Per quanto concerne le strutture giudiziarie dirette a risolve-
re i conflitti fra le persone private – o meglio tutte le cause conten-
ziose (che negli ordinamenti statali si chiamano civili), alle quali ap-
partengono nell’ordinamento canonico anche quelle circa lo stato
delle persone, che non sembrano essere semplicemente fra persone
private 1 – esse possono essere riassunte nel modo seguente:

1
Cf Z. GROCHOLEWSKI, Quisnam est pars conventa in causis nullitatis matrimonii?, in Periodica 79
(1990) 357-391; più brevemente ID., Parte convenuta nelle cause di nullità di matrimonio, in AA.VV., Vi-
tam impendere magisterio (Utrumque Ius, vol. 24), scritti in onore dei professori R. Pizzorni e G. Di
Mattia, Roma 1993, pp. 41-55.
274 Zenon Grocholewski

– In ogni diocesi deve esistere il tribunale del vescovo diocesa-


no (cf cann. 1419 § 1, 1420 ss.).
– Dal tribunale diocesano si appella, per il giudizio di secon-
do grado, al tribunale metropolitano ossia del Metropolita (cf can.
1438, 1°). Invece, per le cause definite in primo grado da un tribu-
nale metropolitano, il Metropolita deve, con l’approvazione della
Segnatura Apostolica, designare stabilmente un tribunale come foro
d’appello, a norma del can. 1438, 2° (cf anche la Cost. Ap. Pastor bo-
nus 2 art. 124, 4°). Lo stesso vale per le diocesi immediatamente sog-
gette alla Santa Sede, quelle cioè che non appartengono ad alcuna
provincia ecclesiastica.
– In luogo dei tribunali diocesani e metropolitani, per il primo e
il secondo grado, si possono erigere anche tribunali interdiocesani
(cf cann. 1423 e 1439, nonché Pastor bonus art. 124, n. 4°). In Italia
sono stati eretti i tribunali interdiocesani soltanto per le cause matri-
moniali, mentre per le altre cause vi sono i tribunali diocesani.
– Il tribunale di terza e ulteriore istanza è la Rota Romana. Alla
Rota Romana, comunque, si può appellare anche già per la seconda
istanza (cf can. 1444 § 1, 1o, ora sostituito dall’art. 128 della Cost. Ap.
Pastor bonus).
2. Riguardo alle controversie contenzioso-amministrative, ossia
alla possibilità di difesa dei fedeli (persone private o giuridiche) con-
tro gli atti amministrativi singolari dell’autorità ecclesiastica (circa
tali atti cf specialmente cann. 35-93), esiste soltanto un tribunale am-
ministrativo, ossia la seconda sezione della Segnatura Apostolica,
che giudica unicamente «dei ricorsi... contro atti amministrativi sin-
golari sia posti da Dicasteri della Curia Romana che da essi approva-
ti» (Pastor bonus art. 123 § 1).
Contro gli atti amministrativi singolari dell’autorità inferiore, in-
vece, esiste la possibilità di ricorrere all’autorità gerarchicamente su-
periore, fino alla decisione del Dicastero competente. Emanata tale
decisione rimane aperta la strada – come già accennato – per un ul-
teriore ricorso alla Segnatura Apostolica.
3. Infine, le pene ecclesiastiche possono essere inflitte o dichia-
rate dai tribunali, di cui sopra al punto 1, oppure, in certi limiti, con
2
GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastor bonus, sulla Curia Romana, 28 giugno 1988, in AAS
80 (1988) 841-930. Testo italiano in fascicolo separato Tipografia Poliglotta Vaticana, 1988, nonché in
Enchiridion Vaticanum, vol. 11, pp. 492-635, nn. 787-1070.
La tutela dei diritti dei fedeli e le composizioni stragiudiziali delle controversie 275

un atto amministrativo singolare e quindi impugnabile secondo quan-


to delineato sopra al punto 2 (cf cann. 1342 e 1718).
4. Pure la procedura da seguire nei tribunali ordinari, delineata
principalmente dai cann. 1501-1696, 1721-1731, come anche quella
del ricorso gerarchico, di cui ai cann. 1732-1739 e nel Regolamento
generale della Curia Romana 3, artt. 118-122, e dell’ulteriore ricorso
contenzioso amministrativo al tribunale della seconda sezione della
Segnatura Apostolica, di cui nelle Norme Speciali di quel Tribunale 4,
artt. 96-123, non è complicata.

L’attività processuale nella Chiesa


Non è difficile scorgere che anche la conflittualità giudiziaria
nella Chiesa è molto ridotta in confronto a quella statale.
Per quanto riguarda le cause contenziose, trattate dai tribunali or-
dinari, esse nella stragrande maggioranza si riducono alle cause di nul-
lità matrimoniale, nelle quali vengono implicati, da una parte, il diritto
della famiglia alla protezione e, dall’altra, il diritto a contrarre un vero
matrimonio (nel caso di nullità del matrimonio a cui la parte si pre-
sume vincolata). Altri processi contenziosi sono estremamente rari.
Pure i processi contenzioso-amministrativi sono veramente po-
chi. Infatti, mentre la Chiesa cattolica conta circa un miliardo di fede-
li 5, raggruppati in oltre 2800 circoscrizioni ecclesiastiche (quasi 2600
sedi vescovili e circa 250 quelle a esse equiparate 6), alla seconda se-
zione della Segnatura Apostolica vengono presentati annualmente
soltanto circa 30 ricorsi.
Non diversamente avviene per le pene ecclesiastiche, che molto
raramente vengono inflitte o dichiarate tramite un processo giudizia-
rio. Per quanto concerne quelle inflitte o dichiarate in via amministra-
tiva, il numero appena indicato comprende anche le impugnazioni che
in materia arrivano alla seconda sezione della Segnatura Apostolica.

3
Del 4 febbraio 1992, in AAS 84 (1992) 201-267.
4
Del 25 marzo 1968. Queste norme non furono mai pubblicate negli AAS, ma in un fascicolo separato,
Città del Vaticano 1968, nonché in diverse riviste (come Periodica, Apollinaris, Ius Canonicum), colle-
zioni di documenti e in appendici di libri. Il testo sia latino che italiano in Enchiridion Vaticanum, vol. 8,
Appendice, pp. 522-587.
5
Secondo l’Annuarium Statisticum Ecclesiae 1992 (ultimo finora pubblicato), nel 1992 i cattolici erano
958.381.000, cioè il 17,5 % di tutta la popolazione. Recentemente, grazie soprattutto all’aumento di fedeli
in Africa, i cattolici hanno superato un miliardo.
6
Cf Annuario Pontificio 1995, pp. 1136-1138. Sono state prese in considerazione anche le sedi erette
recentemente.
276 Zenon Grocholewski

Le liti giudiziarie e i veri ricorsi contenzioso-amministrativi


sono da evitare nella Chiesa
La semplicità delle strutture giudiziarie e la scarsità dell’attività
giudiziaria (oltre le cause di nullità matrimoniale) non devono susci-
tare meraviglia. Nel Codice di diritto canonico, infatti, parecchie vol-
te viene affermato l’obbligo di adoperarsi per evitare le controversie
giudiziarie e risolvere i conflitti in altro modo.
Mi occuperò proprio della normativa riguardante le soluzioni
stragiudiziali dei conflitti, convinto che ciò aiuterà a comprendere
meglio anche la stessa attività giudiziaria nella Chiesa.

1. Riguardo ai processi contenziosi


a. L’obbligo di tutti i fedeli, del vescovo, del giudice. Riguardo ai
processi contenziosi, il can. 1446 § 1 stabilisce:
«Tutti i fedeli, ma in primo luogo i vescovi, s’impegnino assiduamente per-
ché, salva la giustizia, nel popolo di Dio siano evitate, per quanto è possibile,
le liti e si compongano al più presto pacificamente».

Si tratta, quindi, di un obbligo di tutti i fedeli, un obbligo di as-


sumere un impegno assiduo, ossia di sforzarsi, per evitare le liti. Ta-
le obbligo diventa particolarmente vincolante per i vescovi, a motivo
del loro ufficio pastorale.
Sul nascere della lite detto obbligo si estende anche al giudice.
Infatti al § 2 del medesimo canone si legge:
«Non appena sorga una lite, e anche in qualsiasi altro momento, il giudice,
quando intravede una qualche speranza di buona riuscita, non ometta di
esortare e di aiutare le parti a cercare di comune accordo un’equa soluzione
della loro controversia, e indichi loro i mezzi adatti a tale riguardo, ricorren-
do anche alla mediazione di persone autorevoli».

È qui da notare una vasta gamma di interventi, che il Legislato-


re prospetta al giudice qualora questi intraveda qualche speranza
per una soluzione stragiudiziale: esortare, aiutare, indicare i mezzi,
ricorrere alla mediazione.

b. Due vie concrete per evitare le liti giudiziarie. Ai cann. 1713-


1716, il Codice stabilisce le norme circa due modi specifici per evita-
re le liti giudiziarie, che possono essere adoperati nelle controversie
La tutela dei diritti dei fedeli e le composizioni stragiudiziali delle controversie 277

che vertono sul bene privato delle parti di cui esse possono disporre
liberamente:
– la transazione, che è un contratto oneroso, comportante cioè
reciproche concessioni, circa una materia dubbia, stipulato dalle par-
ti, con mutuo consenso, allo scopo di evitare o di porre fine a una li-
te. Gli effetti principali della transazione sono: la riconciliazione, os-
sia l’omissione o la fine della lite; l’impossibilità di revocarla unilate-
ralmente o di rescinderla da parte del giudice; la possibilità di
proporre l’eccezione perentoria «litis finitae» (cf can. 1462 § 1);
– il compromesso tramite il giudizio arbitrale, che ha luogo
quando le parti, per evitare la lite giudiziaria, concludono un accordo
in virtù del quale affidano la soluzione della controversia a una o più
persone private, che in tal caso si chiamano arbitri.
Nel caso delle cause in parola (di bene privato di cui le parti
possono disporre liberamente) il can. 1446, menzionato sopra, al § 3
obbliga il giudice a ponderare se la controversia possa concludersi
utilmente con la transazione o il giudizio arbitrale, a norma degli ac-
cennati cann. 1713-1716.

c. La risonanza in altri canoni. Questa normativa di natura ge-


nerale trova poi risonanza nei canoni:
– che trattano del processo contenzioso orale, dove viene ri-
chiamato il citato can. 1446 § 2 (can. 1659 § 1);
– riguardanti il processo contenzioso speciale di nullità di matri-
monio, fra i quali leggiamo:
«Il giudice, prima di accettare la causa e ogniqualvolta intraveda una speran-
za di buon esito, si avvalga di mezzi pastorali, per indurre i coniugi, se è pos-
sibile, a convalidare eventualmente il matrimonio e a riprendere la conviven-
za coniugale» (can. 1676);

– concernenti il processo contenzioso speciale di separazione


coniugale, stabilendo similmente:
«Il giudice, prima di accettare la causa e ogniqualvolta intraveda una speran-
za di buon esito, si avvalga di mezzi pastorali, affinché i coniugi si riconcilino
e siano indotti a riprendere la convivenza coniugale» (can. 1695).
278 Zenon Grocholewski

2. Riguardo ai processi contenzioso-amministrativi


Nel Codice appare anche una grande preoccupazione del Legi-
slatore per evitare i ricorsi contenzioso-amministrativi (ricorso ge-
rarchico e quello giudiziario alla seconda sezione della Segnatura
Apostolica).

a. Prima dell’emanazione dell’atto amministrativo singolare. Al


riguardo, vorrei preliminarmente osservare che già la procedura di
emanazione di diversi atti amministrativi singolari prevede la possi-
bilità di difesa da parte dell’interessato e ciò anche per evitare atti fa-
cilmente contestabili.
Per esempio: riguardo alla procedura di dimissione necessaria di
un membro di un istituto religioso, di cui al can. 695 § 1, viene pre-
scritto: «In tali casi, il Superiore maggiore, raccolte le prove relative
ai fatti e alla imputabilità, renda note al religioso e l’accusa e le pro-
ve, dandogli facoltà di difendersi» (can. 695 § 2); similmente nei ca-
noni riguardanti la dimissione facoltativa di un religioso viene stabili-
to che il Superiore maggiore, facendo le prescritte ammonizioni, de-
ve notificare all’interessato «chiaramente la causa della dimissione e
accordargli piena facoltà di difendersi» (can. 697, 2o); nei casi finora
presentati, rimarrà al religioso poi anche il diritto «di comunicare
con il Moderatore supremo e di esporre a lui direttamente la propria
difesa» (can. 698) 7. Se un vescovo intende rimuovere un parroco, de-
ve indicargli per la validità la causa e gli argomenti, cercando di per-
suaderlo paternamente a rinunziare (cf can. 1742 § 1); se il parroco
entro i giorni stabiliti non avrà risposto, il vescovo lo deve invitare
nuovamente «prorogando i termini di tempo utile per rispondere»
(can. 1744 § 1); «se poi il parroco contesta la causa addotta e le sue
motivazioni, allegando motivi che al Vescovo sembrino insufficienti,
questi per agire validamente: 1o lo inviti a raccogliere in una relazio-
ne scritta, dopo aver esaminato gli atti, le sue impugnazioni, anzi ad
addurre le prove in contrario, se ne abbia» (can. 1745, 1o).
Oltre alla prescritta possibilità di difendersi, da parte dell’inte-
ressato, nel corso della procedura per l’emanazione di concreti atti
amministrativi singolari, nel Codice al can. 50 si trova anche una nor-
ma generale riguardante tutti gli atti amministrativi singolari, secon-

7
Ciò che qui è stato detto della dimissione dei religiosi vale anche per i membri degli istituti secolari e
delle società di vita apostolica: cf cann. 729 e 746.
La tutela dei diritti dei fedeli e le composizioni stragiudiziali delle controversie 279

do la quale l’autorità ecclesiastica, prima di dare un decreto singola-


re deve, «in quanto è possibile, ascoltare coloro i cui diritti potrebbe-
ro essere lesi», cioè coloro che potrebbero poi impugnare tale atto.
b. Gli atti amministrativi singolari già emanati. Riguardo poi
agli atti amministrativi singolari già realmente emanati, il can. 1733
§ 1 pone il principio base:
«È molto desiderabile [valde optandum est] che, ogniqualvolta qualcuno si
ritenga leso da un decreto [cioè da un “atto amministrativo singolare”: cf
can. 1732], si eviti la lite tra lui e l’autore del decreto e che tra loro si provve-
da di comune accordo a ricercare un’equa soluzione, ricorrendo anche a
persone autorevoli per la mediazione e lo studio, così che per via idonea si
eviti o si componga la controversia».

Qui si parla, quindi, di ricerca da realizzare di comune accordo


e di mediatori idonei, ma non viene menzionata espressamente la
transazione né il giudizio arbitrale, forse perché nelle controversie
amministrative ecclesiastiche molto spesso viene implicato il bene
pubblico (le controversie contenzioso-amministrative più frequenti
riguardano la dimissione dei religiosi e la rimozione dei parroci: nel-
le prime si tratta del diritto, o meno, di realizzare ciò che qualcuno
ritiene la sua specifica vocazione divina, nelle seconde è coinvolto il
problema dell’efficacia pastorale in una determinata parrocchia), an-
che se non escludo, riguardo alle controversie contenzioso-ammini-
strative, qualora riguardino soltanto il bene privato di cui le parti
possono disporre liberamente, la possibilità di ricorso alla transazio-
ne o al giudizio arbitrale.

c. Una via concreta. I §§ 2-3 del medesimo can. 1733 indicano –


o piuttosto propongono – una via concreta per arrivare a un’equa so-
luzione, tramite appositi uffici o consigli stabili, da istituire in ogni
diocesi su ordine della Conferenza Episcopale, o – in mancanza di ta-
le ordine – anche con decisione del singolo vescovo. Il Codice, però,
non impone l’istituzione di detti uffici o consigli, ma dice soltanto che
la Conferenza Episcopale lo «può» ordinare, e – nel caso che non lo
faccia – che il vescovo li «può» istituire con autorità propria.
È chiaramente delineato il compito di tali uffici o consigli: a essi
non spetta emanare decisioni, ma soltanto «di ricercare e suggerire
eque soluzioni» nei casi concreti.
È pure indicato quando un tale ufficio o consiglio deve interve-
nire: a) soprattutto a livello della rimostranza, di cui parlerò tra poco,
280 Zenon Grocholewski

ossia «quando sia stata chiesta la revoca del decreto [cioè dell’atto
amministrativo singolare: cf can. 1732] a norma del can. 1734, e non
siano trascorsi i termini per proporre il ricorso [gerarchico]»; b) ma
anche a livello di ricorso gerachico «lo stesso Superiore che lo esami-
na, esorti il ricorrente e l’autore del decreto, ogniqualvolta intraveda
una speranza di buon esito, a ricercare soluzioni di questo genere».
Riguardo, invece, alle norme secondo le quali detti uffici o con-
sigli devono procedere, il canone commentato rimanda alla Confe-
renza Episcopale di stabilirle, nel caso che questi uffici o consigli
vengano costituiti su suo ordine; e ovviamente al vescovo, qualora
egli costituisca tale ufficio o consiglio, senza che la Conferenza Epi-
scopale lo abbia stabilito.
Riguardo all’Italia, la Conferenza Episcopale, durante l’Assem-
blea generale straordinaria nel settembre 1983, ha stabilito:
«La Conferenza almeno per ora non costituisce alcun Ufficio o Consiglio sta-
bile per l’equa soluzione delle controversie sorte a motivo dei ricorsi contro
i decreti amministrativi e lascia la ricerca di strumenti per la composizione
delle controversie alla sperimentazione dei singoli Vescovi» 8.

d. La rimostranza come ulteriore possibilità di evitare il ricorso.


«Prima di presentare un ricorso gerarchico, l’interessato deve chiedere per
iscritto la revoca o la correzione del decreto al suo autore» (can. 1734 § 1).

Questo requisito previo, per poter presentare un vero ricorso


all’autorità gerarchicamente superiore, è chiamato rimostranza e va
visto come un ulteriore mezzo per evitare un tale ricorso. Esso, infat-
ti, dà all’Autore dell’atto amministrativo, che l’interessato intende im-
pugnare, la possibilità di ripensare la questione e di cambiare la de-
cisione, o di ridiscuterla con il potenziale ricorrente e in tal modo di
ricomporre la controversia, oppure – se esiste – di ricorrere al men-
zionato ufficio o consiglio per trovare un’equa soluzione.
A questo punto occorre anche ricordare che il Regolamento Ge-
nerale della Curia Romana del 1992, già menzionato, prevede la ri-
mostranza anche nel caso che qualcuno intenda impugnare un prov-
vedimento o una decisione di un Dicastero della Curia Romana da-

8 3
Notiziario CEI 7 (1983) 211; Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, vol. 3, Bologna 1989 ,
n. 1603; J.T. MARTIN DE AGAR, Legislazione delle Conferenze Episcopali complementare al C.I.C., Milano
1990, p. 386; M. MARCHESI, Diritto canonico complementare italiano, Bologna 1992, p. 93.
La tutela dei diritti dei fedeli e le composizioni stragiudiziali delle controversie 281

vanti alla seconda sezione della Segnatura Apostolica (cioè prevede


la rimostranza prima del ricorso giudiziario al tribunale contenzioso-
amministrativo), stabilendo:
«Contro i provvedimenti o le decisioni del Dicastero la parte che si sente
gravata, qualora intenda impugnarli, deve presentare al medesimo, entro 10
giorni utili dalla notifica, la richiesta della revoca o modifica del provvedi-
mento stesso» (art. 119 § 1).

3. Riguardo ai processi penali


Il Codice prescrive anche l’obbligo di evitare, in quanto possibi-
le, la procedura – sia giudiziaria che amministrativa – per infliggere
o dichiarare le pene ecclesiastiche.
Secondo il can. 1341, l’Ordinario deve avviare tale procedura
«soltanto quando abbia constatato che l’ammonizione fraterna, la riprensio-
ne o altri mezzi della sua sollecitudine pastorale non siano sufficienti per ri-
parare lo scandalo, ristabilire la giustizia, ottenere l’emendamento del reo».

Quindi, avuta la notizia, almeno probabile, di un delitto e fatta al


riguardo un’indagine previa a norma del can. 1717, l’Ordinario non
soltanto deve decidere se si possa avviare il processo per infliggere
o dichiarare la pena, ma anche se ciò, atteso il can. 1341, appena cita-
to, sia conveniente (can. 1718 § 1, 1°-2°).

I motivi dell’atteggiamento della Chiesa


riguardo alla soluzione dei conflitti
Da quanto fin qui è stato detto, un processo giudiziario e anche
un vero ricorso gerarchico appare quasi come «extrema ratio» per la
Chiesa.
Perché tale insistenza del Legislatore ecclesiastico per le solu-
zioni stragiudiziarie delle controversie e una certa diffidenza verso
le soluzioni giudiziarie?
Le ragioni – di carattere principalmente teologico – sono da tro-
vare nella natura stessa della Chiesa nonché nella determinazione di
ciò che è giusto alla luce del Vangelo.
282 Zenon Grocholewski

1. La natura della Chiesa 9


a. Il mistero della Chiesa viene colto fra l’altro nel concetto del-
la communio (interna ed esterna, di fede, di speranza e di carità, dei
fedeli con il Signore e tra di loro). Non è difficile scorgere che tale
concetto, nella sua ricchezza teologica, postula che i conflitti nella
Chiesa – comprensibili a causa dell’elemento umano ed esterno –
vengano risolti nello spirito di carità, di amore, di sincero perdono e
di vera riconciliazione, non accontentandosi neppure di un semplice
compromesso. E ciò si può più facilmente ottenere con le soluzioni
pacifiche che con un vero processo.
Se poi prendiamo in considerazione lo stesso mistero della
Chiesa rivelato come Corpo Mistico di Cristo, viene ancor più chia-
ramente messa in luce la necessità che le relazioni fra i singoli mem-
bri di tale Corpo siano animate da spirito di servizio, di aiuto e di col-
laborazione, per il bene e l’efficacia vitale di tutto il Corpo. Nel caso
di conflitto (ed ho qui presenti in particolar modo i conflitti fra i fede-
li e le autorità nonché fra le diverse autorità), questo genere di rela-
zioni viene più facilmente ripristinato con una pacifica composizione
del conflitto, che con una vittoria processuale di una delle parti.
Avendo presente tutta la dimensione soprannaturale della Chie-
sa – cioè che proprio la comunione con Dio è fondamento dell’unione
profonda e vitale dei fedeli fra di loro e che la Chiesa è una moltitudi-
ne di fedeli peregrinanti verso un fine escatologico, la salvezza eterna,
i quali perciò considerano la propria vita e le proprie opere non limita-
tamente alla loro esistenza terrena, ma in prospettiva della vita eter-
na – ci si impone una nuova scala di valori: molte cose, di natura mate-
riale e terrena, alle quali la gente è attaccata (ricchezza, prestigio, ono-
ri ecc.), perdono il loro valore, mentre altre, anche se possono sembra-
re irrilevanti o addirittura umilianti (perdono, atto di umiltà, male da
vincere con il bene ecc.), assumono una importanza di enorme valore.
b. In altre parole, riguardo alla soluzione dei conflitti nella Chie-
sa, non si tratta semplicemente che vinca chi ha ragione, ma si tratta:
– di risanare veramente la communio lacerata, di rendere più
forte e operativa la realizzazione della Chiesa come «communio fide-
lium»;

9
Qui riprendo alcuni elementi dal mio articolo Aspetti teologici dell’attività giudiziaria della Chiesa, in
AA.VV., Teologia e diritto canonico (Studi Giuridici, vol. 12), Città del Vaticano 1987, pp. 197-199; cf pure
ID., in Monitor Ecclesiasticus 110 (1985) 492-494.
La tutela dei diritti dei fedeli e le composizioni stragiudiziali delle controversie 283

– di restaurare e rendere efficace la dovuta collaborazione tra i


membri del Corpo Mistico di Cristo, e nello stesso tempo sollecitare
la fruttuosa realizzazione della propria vocazione specifica da parte
dei singoli fedeli;
– di far valere i beni spirituali che hanno importanza particolare
alla luce della fede.
Tutto ciò si può raggiungere con maggiore possibilità di suc-
cesso nelle soluzioni stragiudiziali.

c. Gesù stesso ci invita alla composizione amichevole delle liti:

«Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui,
perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu
venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non ab-
bia pagato fino all’ultimo spicciolo» (Mt 5, 25-26).

Commenta L. Di Pinto:

«Gesù, per Matteo, non contesta la legittimità dei tribunali e l’utilità dei pro-
cessi. La sua intenzione è diversa e più profonda: mettere in guardia dallo
spirito di rivalsa puntigliosa e di litigiosità procedurale, che rischia di offu-
scare il primitivo desiderio di ottenere giustizia per amore della giustizia, di-
storcendolo in una volontà di vittoria unicamente personale sull’altro. Allora
non importa più che sia fatta giustizia, ma che prevalga la mia ragione. L’ani-
mosità cresce; esplode una inarrestabile reazione a catena che alla fine di-
strugge me stesso e l’altro. La parola d’ordine contro questo processo di
perversione del desiderio di giustizia suona: ...“sii accomodante, scegli la via
dell’accordo, con quell’atteggiamento di propensione amichevole... che con-
sente la cessazione della contesa”. Qui... non si abdica a un diritto essenzia-
le, ma si raggiunge un livello più alto di giustizia non contaminata dall’egoi-
smo» 10,

ossia la ricerca della riconciliazione e della giustizia, e non della vit-


toria personale.
San Paolo, rimproverando i Corinzi che presso di loro «il fratel-
lo viene chiamato in giudizio dal fratello e per di più davanti a infede-
li», aggiunge: «E dire che è già per voi una sconfitta avere liti vicen-
devoli !» (1 Cor 6, 7).

10
L. DI PINTO, art. che sarà citato nella nota successiva, pp. 357-358.
284 Zenon Grocholewski

2. La giustizia alla luce della Parola di Dio 11


a. Con riferimento ai sopra accennati valori spirituali da far vale-
re, vorrei ricordare che alla luce della parola di Dio, la giustizia non
può essere mera rivendicazione di diritti, ma l’aggettivo “giusto” e
corrispettivamente il sostantivo “giustizia” assumono un nuovo con-
tenuto. In tale prospettiva – e quindi oggettivamente – “giusto”, in ri-
ferimento agli uomini, è ciò che Dio vuole, la “giustizia” è l’osservan-
za della legge di Dio, anche quella delle beatitudini, di conseguenza
essa è una realtà intimamente connessa con l’amore.
Infatti, già nell’Antico Testamento il sostantivo «giusto» viene
opposto a «empio» 12. Similmente sulla bocca di Gesù 13. Nel racconto
del giudizio finale, quindi, vengono chiamati giusti proprio quelli che
hanno fatto le opere di misericordia (cf Mt 25, 46). Nel discorso del-
la montagna Gesù parla, invece, della necessità di una giustizia supe-
riore di quella degli scribi e dei farisei (cf Mt 5, 20). Anzi, proprio que-
sto discorso è stato definito come «“carta costituzionale” della giu-
stizia proposta a chi accoglie il lieto annunzio del Regno» 14 (ossia la
carta costituzionale di quella giustizia superiore).
È la giustizia di Dio che deve ispirare quella dei fedeli. Ciò ha
significativamente ricordato Giovanni Paolo II nel suo primo discor-
so alla Rota Romana:

«Nell’esperienza esistenziale della Chiesa, le parole “diritto”, “giudizio” e


“giustizia”, pur tra le imperfezioni e le difficoltà di ogni ordinamento umano,
rievocano il modello di una superiore giustizia, la Giustizia di Dio, che si po-
ne come mèta e come termine di confronto ineludibile» 15.

11
Sull’argomento cf L. DI PINTO, Amore e giustizia: il contributo specifico del Vangelo di Matteo, in
AA.VV., Amore - giustizia. Analisi semantica dei due termini e delle loro correlazioni nei testi biblici vete-
rotestamentari e neotestamentari, a cura di G. De Gennaro, L’Aquila 1980, pp. 327-455, specialmente
pp. 342-397; M. ADINOLFI, La giustizia nel terzo Vangelo, in ibid., pp. 483-514; U. VANNI, Giustizia e amo-
re: prospettiva ecclesiale, sociale e politica in Pietro, in ibid., pp. 515-529, specialmente pp. 526-529; ID.,
La legge della libertà: la sintesi tra giustizia e amore in Giacomo, in ibid., pp. 531-540, specialmente
pp. 536-540, C. M. MARTINI, Le beatitudini, Milano 1990, pp. 38-40.
N.B. Tutte le citazioni e i riferimenti biblici saranno soltanto esemplificativi e non esaustivi.
12
Cf, per esempio, Sal 36 (37), 12.16-17.21.32; 67 (68), 3-4; 74 (75), 11. Infatti «l’empio produce ingiusti-
zia»: Sal 7, 15.
13
Per esempio Gesù dice: «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» (Mt 9, 13; Mc 2, 17;
Lc 5, 32; cf anche Mt 5, 45, confrontato con Lc 6, 35, Mt 23, 28-29.35), e altrove: «ci sarà più gioia in
cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione»
(Lc 15, 7).
14
L. DI PINTO, Amore e giustizia..., cit., p. 353.
15
Allocuzione del 17 febbraio 1979, in AAS 71 (1979) 426, n. 4.
La tutela dei diritti dei fedeli e le composizioni stragiudiziali delle controversie 285

E la giustizia di Dio è strettamente connessa con la bontà, la mi-


sericordia, e consiste fondamentalmente nella salvezza offerta a tutti
gli uomini.

b. Quindi è «giusto» perdonare 16, prendere la croce 17, accettare


una umiliazione 18, «a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la
tunica, [lascia] anche il mantello» 19. In altre parole, è giusto – è vera-
mente giusto – rinunziare liberamente a un diritto in nome di un valo-
re più alto da realizzare 20 («Gesù..., pur essendo di natura divina, non
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò
se stesso, assumendo la condizione di servo, ...umiliò se stesso» 21 per
salvarci).
Tale rinunzia è un atteggiamento giusto alla luce della parola di
Dio, anche perché le liti risvegliano spesso – come già sopra accen-
nato – i vizi (che sono ingiustizia), come la superbia, l’egoismo, la
cupidigia ecc 22.
San Paolo, dopo aver rimproverato quanti «avendo una questio-
ne con un altro, osa[no] farsi giudicare dagli ingiusti» e dopo aver
scritto le parole già citate «e dire che è già per voi una sconfitta ave-
re liti vicendevoli!», aggiunge: «Perché non subire piuttosto l’ingiu-
stizia? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartie-
ne?» (1 Cor 6, 7).
Su questa linea, nel campo del diritto canonico, riguardo alla di-
fesa dei diritti, il card. R.J. Castillo Lara ha affermato:

«La rivendicazione dei propri diritti può costituire una esigenza di giustizia,
ma non è un essenziale elemento della condotta cristiana. La prudenza, la
pazienza e soprattutto la carità possono rendere preferibile cristianamente
subire un torto che difendere un diritto» 23.

16
Cf Mt 6, 15; 18, 21-35; Mc 1, 25; Lc 6, 37; 17, 3-4; Ef 4, 32; Col 3, 12-15.
17
Cf Mt 10, 38; 16, 24-25; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24; 14, 27.
18
Mt 23, 12; Lc 1, 48.52; 14, 11; 18, 14; Gc 4, 6.
19
Mt 5, 38-42. Al riguardo cf il commento di L. DI PINTO, Amore e giustizia..., cit., pp. 358-362.
20
Circa tale rinunzia – con riferimento a Mt 1, 19 (Giuseppe uomo giusto) – cf ibid., p. 346.
21
Fil 2, 5-8; cf anche Mt 20, 28.
22
Scrive al riguardo san Giacomo: «Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di
cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole,
piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene se-
minato nella pace per coloro che fanno opera di pace» (Gc 3, 16-18). Cf anche Lc 12, 13-15.
23
R.J. CASTILLO LARA, La difesa dei diritti nell’ordinamento canonico, in AA.VV., Il Diritto alla Difesa
nell’Ordinamento Canonico (Studi Giuridici, vol. 18), Città del Vaticano 1988, p. XVII.
286 Zenon Grocholewski

c. È pienamente giustificata per un cristiano la lotta per la causa


di Dio, ossia per ciò che vale davanti a Dio, per i valori di dimensione
eterna. Tale può essere per esempio il processo concernente la ve-
rità circa la validità del proprio precedente matrimonio e quindi cir-
ca la possibilità o meno di sistemare la propria situazione matrimo-
niale irregolare e di accostarsi ai sacramenti. Diversa è la situazione
quando si tratta di un bene proprio che non ha una tale dimensione,
per esempio il trasferimento a un posto meno importante e meno
prestigioso (ha forse potuto san Giovanni Maria Vianney fare di me-
no per il regno di Dio o per la propria santificazione, perché è stato
inviato a una piccola e poco rilevante parrocchia?), o una umiliazione
personale (che accettata con animo potrebbe giovare per la propria
vita spirituale).

Una considerazione conclusiva


I fattori teologici appena rilevati, gettano anche una forte luce
sulla questione dell’attività giudiziaria nella Chiesa. Avendoli presen-
ti, infatti, appare chiaro che pure l’attività giudiziaria deve perseguire
le finalità sopra accennate: il vero risanamento – nello spirito di amo-
re, di vero perdono e di autentica riconciliazione – della communio
lacerata, nonché la restaurazione dell’efficace collaborazione tra i
membri del Corpo Mistico di Cristo; la fruttuosa realizzazione della
propria vocazione specifica da parte dei singoli fedeli; il far valere i
beni spirituali che hanno un’importanza particolare alla luce della fe-
de. Se il processo non conduce a questo, non assolve pienamente il
proprio compito.
† ZENON GROCHOLEWSKI
Piazza della Cancelleria
00120 Città del Vaticano
287

Modalità procedurali e processuali


per la difesa dei diritti dei fedeli.
Il ricorso gerarchico.
Il ricorso alla Segnatura Apostolica 1
di G. Paolo Montini

La esiguità numerica dei ricorsi e dei processi nella Chiesa 2, al


di fuori dell’ambito matrimoniale, soggiace almeno a una duplice in-
terpretazione.
V’è chi sostiene che questo dipende dalla natura della Chiesa,
in cui i rapporti sono e devono essere improntati alla carità e pertan-
to non vi sarebbe in essa spazio per un contenzioso accentuato, co-
me accade negli ordinamenti civili.
V’è anche chi però, senza prendere direttamente posizione sulla
questione di principio, nota nella Chiesa una certa carenza di mezzi
procedurali e processuali per la rivendicazione dei diritti che i fedeli
suppongono che loro appartengano e ritengono che siano stati lesi.
Quest’ultima opinione è stata autorevolmente fatta propria dalla
I Assemblea Ordinaria del Sinodo dei vescovi (7 ottobre 1967). Fra i
dieci Principi approvati da questa Assemblea e che avrebbero dovu-
to reggere la revisione del Codice di diritto canonico, vi è la chiara e

1
L’intendimento dell’articolo è di descrivere la procedura prevista oggi nella Chiesa per la difesa dei
diritti dei fedeli, in modo da fornire un’immagine complessiva e pratica. Vedi anche, a tal scopo, la
Tav. I in Appendice.
Ci si asterrà perciò dall’approfondire le molte questioni aperte e dibattute, come pure dal fornire la bi-
bliografia corrispondente. Per un approfondimento globale si può far riferimento alla raccolta di confe-
renze tenute sulla giustizia amministrativa all’Arcisodalizio della Curia Romana nell’anno 1990: La giu-
stizia amministrativa nella Chiesa, Città del Vaticano 1991, pp. 200.
2
Per una panoramica della consistenza del Contenzioso amministrativo presso il Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica, si veda la Tav. II in Appendice al presente articolo.
Non sono disponibili invece dati attendibili sul numero di ricorsi gerarchici presentati presso i Dicaste-
ri della Curia Romana né tantomeno dei ricorsi immediati e gerarchici presso autorità inferiori alla Cu-
ria Romana: vescovi diocesani, superiori religiosi...
Se il rapporto fra ricorsi presentati e ricorsi che, ammessi, giungono a definizione (negativa e afferma-
tiva) presso la Seconda Sezione della Segnatura Apostolica è del 10% circa, e la stessa proporzione po-
tesse applicarsi a ritroso nei primi gradi di ricorsi gerarchici, certo il fenomeno non apparirebbe così
marginale ed esiguo come in un primo momento viene definito.
288 G. Paolo Montini

inequivoca notazione che nella Chiesa la difesa dei diritti dei fedeli di
fronte all’autorità è carente sotto il profilo strettamente procedurale
e processuale, ossia dei mezzi a disposizione per difendere e far va-
lere i propri diritti.
L’alta Assemblea che ha approvato questo Principio, che avreb-
be dovuto essere poi applicato nel nuovo Codice, mette al riparo tut-
to il discorso da tendenze rivendicazionistiche che qua o là affiorano
tra i fedeli: la stessa autorità della Chiesa riconosce la necessità di
approntare mezzi per la difesa dei diritti dei fedeli.
Merita citare alcuni passaggi dei Principi VI e VII:

* «Si pone una questione veramente grave da risolvere nel futuro Codice,
cioè in qual modo debbano essere definiti e tutelati i diritti delle persone»;
* «L’uso della [...] potestà nella Chiesa non può essere arbitrario: lo vieta il di-
ritto naturale, come pure il diritto divino positivo e il diritto canonico stesso»;
* «Occorre proclamare nel diritto canonico che il principio della tutela giuri-
dica va applicato in modo uguale ai superiori e ai sudditi, cosicché scompaia
totalmente qualunque sospetto di arbitrio nell’amministrazione ecclesiastica.
Tale finalità si può ottenere soltanto mediante una saggia disposizione giuri-
dica dei ricorsi, per cui chiunque ritenga leso il proprio diritto dall’istanza in-
feriore, lo possa efficacemente tutelare [restaurari] nell’istanza superiore»;
* «È sentita ovunque la necessità di predisporre nella Chiesa tribunali am-
ministrativi secondo i gradi e le specie, cosicché la difesa dei diritti trovi in
essi una procedura propria e canonica, che si sviluppi normalmente [apte]
presso autorità di vario grado» 3.

È lo stesso canone 221 § 1 che, verso la fine dell’elencazione dei


diritti-doveri fondamentali dei fedeli, riconosce ai fedeli «il diritto di
rivendicare legittimamente e di difendere, nel foro ecclesiastico com-
petente a norma del diritto, i diritti di cui godono nella Chiesa».
Non che tutta la difesa dei diritti si esaurisca nella predisposi-
zione di ricorsi e di istanze. Sarebbe semplicistico crederlo, dimenti-
cando il ruolo formativo e preventivo del rispetto dei medesimi dirit-
ti, procurato e favorito da una corretta impostazione (reale e magi-
steriale) ecclesiologica delle relazioni nella Chiesa.
Ma sarebbe altrettanto semplicistico ritenere che nella Chiesa
basti enumerare i diritti dei fedeli, perché siano osservati realmente
e pienamente.

3
Communicationes 1 (1969) 82-83. Il testo completo dei Principi si trova in ibidem, 77-85. Cf la discus-
sione e l’esito della votazione sui singoli Principi in ibid., 86-100. Per una traduzione italiana dei Principi
10
cf Enchiridion Vaticanum II, Bologna 1976 , nn. 1699-1713, pp. 1358-1377.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 289

LE DIFFICOLTÀ DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

Per Giustizia amministrativa si intende tutto il complesso di


mezzi che l’ordinamento giuridico mette a disposizione per la soluzione
dei conflitti fra autorità e fedele.
E qui sta la principale pietra di inciampo: conflitti tra fedele e
autorità.

Il primo aspetto del problema è teorico: possono darsi veramen-


te conflitti tra autorità e fedeli; o non sono piuttosto a priori impossi-
bili, in quanto la relazione che lega i fedeli all’autorità è di obbedien-
za e di riverenza? Non è forse inconciliabile l’obbligo di obbedire e il
fatto di contestare in ambito procedurale o processuale?
I due aspetti non sono di principio inconciliabili, in quanto l’ob-
bedienza è assunta e obbliga, se e in quanto l’autorità è legittima e
viene esercitata in modo legittimo.
Una riprova si può avere nel caso dei religiosi che col voto di
obbedienza si obbligano alla sottomissione della volontà verso i legit-
timi superiori, che stanno al posto di Dio, «in tutto ciò che comanda-
no secondo le proprie costituzioni» (can. 601). Al Superiore religioso
che pertanto non sia legittimo (eletto, per esempio, con votazione in-
valida) o che dia un comando formale che, per contenuto o per pro-
cedura, sia contro, sopra o al di fuori delle Costituzioni, non si deve
obbedienza.

Il secondo aspetto del problema è ancora teorico: com’è possibi-


le contestare un’autorità se nella Chiesa non si distinguono realmen-
te le potestà, così che nella stessa autorità sacra (cioè nella stessa
persona) v’è insieme la potestà di fare leggi, la potestà di giudicare e
quella di eseguire le leggi stesse.
Se, per esempio, si intendesse opporsi a un vescovo diocesano
per una procedura di incardinazione contraria alle costituzioni del Li-
bro del Sinodo diocesano, ben facilmente il vescovo diocesano po-
trebbe affermare che, essendo la sua autorità (legislativa) all’origine
del dettato sinodale, egli stesso ha voluto derogarvi nell’atto concre-
to (amministrativo) che si contesta. Chi fa le leggi può mutarle nel
modo e nel tempo che ritiene opportuno.
Anche in questo caso la difficoltà è (almeno in parte) risolvibile
richiamandosi al fatto che, al di fuori del Romano Pontefice, ogni au-
torità nella Chiesa è tenuta a una normativa canonica, emanata da
290 G. Paolo Montini

un’autorità superiore e, contravvenendo a quella normativa, si pone


in uno stato di illegalità.
Si veda anche solo l’emblematico esempio dato dal can. 391 § 1,
ove al vescovo diocesano è riconosciuta la potestà legislativa, esecu-
tiva e giudiziaria, con cui reggere la Chiesa particolare a lui affidata,
ma che deve esercitare a norma del diritto.

Ma ben al di là di queste problematiche teoriche, vi sono evi-


dentissime questioni pratiche di difficile soluzione.
Si prenda, per esempio, la difficoltà tutta concreta di coniugare
il necessario rispetto per la dignità dell’autorità (che ha da svolgere
una continua e delicata opera di servizio al bene pubblico attraverso
l’applicazione della legge) e la uguaglianza e parità di tutti (autorità e
fedeli) di fronte alla legge, che richiede rispetto e osservanza da par-
te di tutti, senza guardare in faccia a nessuno.
Si prenda, per esempio, la difficoltà di creare una parità proces-
suale fra due parti (autorità e fedele) che strutturalmente sono di di-
versa forza reale. L’autorità possiede i documenti, mantiene in esse-
re durante la procedura o il processo il rapporto gerarchico con il fe-
dele, con tutte le difficoltà ovvie di essere subordinati a un’autorità e
nello stesso tempo sostenere un conflitto con la medesima autorità.
Un equilibrio difficile e complesso che la normativa canonica,
che si verrà presentando, propone in una sua possibile modalità.

L’ATTO AMMINISTRATIVO

L’attività dell’autorità nella Chiesa è multiforme, assume cioè una


pluralità di forme di espressione, adatte a ogni situazione concreta.
Normalmente essa si distingue in potestà legislativa, giudiziaria
ed esecutiva o amministrativa 4.
Ma se nell’attività legata alla potestà legislativa e alla potestà
giudiziaria il modo di procedere è minuziosamente normato e la pro-
cedura è altamente formalizzata e fortemente vincolata con leggi ir-

4
Benché il Codice sembri privilegiare il termine potestà esecutiva, di solito si parla sempre di potestà
amministrativa. In questo contesto, pertanto, amministrativo non ha nulla a che vedere con economico
o patrimoniale. Si intende sempre come proveniente o connesso con la potestà esecutiva. La definizio-
ne di potestà esecutiva è peraltro teoricamente complessa e si preferisce determinarne gli atti facendo
riferimento a tutti quegli atti che non sono né della potestà legislativa né della potestà giudiziaria.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 291

ritanti (sia per la relativa rarità del loro uso sia per la posta in gioco
molto alta per il bene della Chiesa connessa con l’esercizio di queste
potestà), nell’attività amministrativa la formalizzazione del procedere
è molto scarsa.
La ragione di tale carenza è da ricercarsi in più direzioni. Da un
lato nella necessità che l’attività amministrativa si adatti alle concrete
esigenze della situazione, cui deve rispondere celermente. Da un al-
tro lato nella forte vicinanza alla realtà fattuale e concreta. Da un al-
tro lato ancora nell’abitudine dell’autorità di operare sovranamente
in quest’ambito sia per la convinzione di agire per il bene pubblico
sia per il principio della separazione dei poteri, che farebbe della po-
testà amministrativa un potere sovrano e indipendente dalla potestà
legislativa e giudiziaria.
Si pensi, per esempio, alla procedura di nomina di un parroco.
Quanti contatti, considerazioni, colloqui, verifiche, interpellazioni so-
no coinvolti concretissimamente. La loro regolazione appare, se non
altro, inceppare la flessibilità necessaria per rispondere tempestiva-
mente e pastoralmente al bene di una parrocchia vacante.
Ora l’approdo di tale multiforme e informe attività amministrati-
va è l’atto amministrativo.
In esso si rispecchiano, come in prospettiva, tutta l’attività pre-
cedentemente svolta dall’autorità per giungere a esso e tutte le con-
seguenze che da esso si genereranno per il fedele o i fedeli, che esso
concerne. L’atto amministrativo diventa così il fulcro attorno a cui
ruota tutto il sistema di Giustizia amministrativa.
Se un sacerdote richiede il permesso di andare in una regione
povera di clero per esercitarvi il ministero (cf can. 271), la negazione
scritta della licentia da parte del vescovo diocesano è l’atto ammini-
strativo; essa però sarà stata il frutto di una messe immensa di dati,
verificazioni e considerazioni, e sarà generatrice di effetti giuridici
molteplici per il richiedente.
Il Codice vigente, per la verità, ha compiuto un notevole sforzo
di regolazione del procedimento o procedura con cui l’autorità ammi-
nistrativa deve giungere a emettere un atto amministrativo qualsiasi
(cf soprattutto cann. 35-58) o determinati atti di peculiare importan-
za e frequenza (cf, per esempio, cann. 696-700 per la dimissione di
un religioso). Tale procedura ha uno scopo preventivo (evitare di e-
mettere atti amministrativi nulli, ingiusti o inopportuni); uno scopo
partecipativo (coinvolgere i fedeli interessati, perché prima ancora
dell’emissione dell’atto facciano presenti le proprie ragioni o le pro-
292 G. Paolo Montini

prie perplessità); uno scopo orientativo (in quanto i ricorsi e il pro-


cesso amministrativo esamineranno anzitutto il rispetto del procedi-
mento o procedura e continueranno per molti versi l’azione incomin-
ciata nella stessa procedura).
L’atto amministrativo (che qui ci interessa principalmente 5) as-
sume nel Codice il nome di decretum (cf can. 1732), decretum singu-
lare (cf can. 48) o actus administrativus singularis (cf lib. I, tit. IV),
e si esemplifica principalmente in provvedimenti (provisiones: cf
can. 48), decisioni (cf can. 48) e precetti singolari (cf can. 49).

Che fare quando l’atto amministrativo non c’è?


È questo un primo problema molto grave in cui si manifesta su-
bito la disparità fra autorità e fedele e che può inceppare fin dall’ini-
zio la procedura e creare difficoltà notevoli.
Il fedele chiede, richiede, informa, riceve assicurazioni, consigli,
esortazioni, ma non riceve alcuna decisione documentata, ossia non
riceve alcun documento (scritto), in cui sia contenuta una decisione.
Questo impedisce al fedele di sapere se e quale decisione sia
stata presa nei suoi confronti; i suoi esatti limiti e contorni; le ragioni
che l’hanno determinata.
Per un esame completo del caso è necessario distinguere varie
possibilità:
a. L’atto amministrativo c’è, ma non è stato consegnato al fedele.
L’autorità che emana l’atto amministrativo deve porlo per iscritto
(cf can. 51) e deve intimarlo a colui o a coloro cui è destinato. Tale in-
timazione consiste nella notificazione dell’atto amministrativo e può
avvenire
– attraverso la consegna dell’atto scritto (cf can. 37): è (o do-
vrebbe essere) il modo più comune e ordinario;

5
Non prendiamo in considerazione gli atti legislativi, perché la loro impugnazione nella Chiesa è pos-
sibile solo a norma dell’art. 158 della Costituzione Apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana (28 giu-
gno 1988): il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei Testi Legislativi «su richiesta degli interessa-
ti, determina se leggi particolari e decreti generali, emanati da legislatori subordinati alla suprema au-
torità della Chiesa, siano o no conformi alle leggi universali della Chiesa».
Non prendiamo in considerazione gli atti giudiziari, perché la loro impugnazione è già prevista in modo
soddisfacente dalla normativa processuale codiciale.
Non prendiamo in considerazione gli atti amministrativi generali, quali i decreti generali esecutori (cf
can. 31 § 1) e le istruzioni (cf can. 34 § 1), perché in se stessi, cioè nella loro generalità, possono inte-
ressare un fedele solo quando sono applicati con un atto singolare.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 293

– attraverso la lettura dell’atto di fronte al notaio o a due testi-


moni. In tal caso si dovrà redigere un verbale sottoscritto da tutti i
presenti. Questa forma è possibile quando l’autorità ritenga che il
documento scritto, una volta consegnato, possa essere usato in mo-
do distorto (cf can. 55: gravissima ratio);
– attraverso la semplice convocazione dell’interessato a riceve-
re l’atto o alla sua lettura, qualora il medesimo non si sia presentato
e non abbia per questo addotto una giusta ragione (cf can. 56).
Senza intimazione o notificazione l’atto amministrativo o rimane
senza effetto (cf can. 54 § 1) o comunque non può essere l’interessa-
to obbligato a osservarlo (cf can. 54 § 2).
Da ciò si desumerebbe che non può esserci lesione dei diritti
dei fedeli senza la notificazione dell’atto, in quanto l’atto non esplica i
suoi effetti. In realtà però non raramente accade che l’atto sia esegui-
to nei confronti dell’interessato anche senza la sua notificazione for-
male, producendo così una situazione di fatto lesiva del fedele.

In questo caso il fedele può chiedere all’autorità che l’atto am-


ministrativo gli sia dato o gli sia fatto conoscere. Il rifiuto dell’au-
torità alla consegna dell’esemplare dell’atto o alla sua notificazione in
un’altra forma legittima, non impedisce al fedele di procedere nella
sua difesa.
Solo nel ricorso alla Segnatura Apostolica dovrà provare (trami-
te raccomandata con ricevuta di ritorno) di aver chiesto (inutilmen-
te) l’atto amministrativo che lo concerne. Conserverà e presenterà
all’uopo tale documentazione.

b. L’atto amministrativo non c’è, perché l’autorità amministrati-


va non vuole decidere e perciò porlo.
È il caso del cosiddetto silenzio, che abbiamo già trattato diffu-
samente in Quaderni di diritto ecclesiale 7 (1994) 79-97. A questo ar-
ticolo rimandiamo, notando qui solo che tale inerzia dell’autorità am-
ministrativa è nel nuovo Codice equiparata a un atto amministrativo
di contenuto negativo, e pertanto è dato così al fedele di ricorrere,
come se l’atto amministrativo fosse nelle sue mani.

c. L’atto amministrativo non c’è, perché l’autorità amministrati-


va ha proceduto (illegittimamente) per vie di fatto.
È il caso in cui il fedele patisce una duplice ingiustizia: viene
colpito nei suoi diritti e non sa il perché e il quanto. L’accadimento
294 G. Paolo Montini

del fatto funge in questo caso da atto amministrativo e il fedele può


chiederne conto anche senza avere fra le mani l’atto amministrativo,
che avrebbe dovuto spiegarglielo.

LA PROCEDURA. IL RICORSO

È la modalità principale posta a disposizione del fedele per di-


fendersi: correre da un’(altra) autorità per verificare se quella ricevu-
ta è davvero l’ultima parola, quella giusta e definitiva. È la richiesta
di revisione da parte di un’(altra) autorità dell’atto amministrativo ri-
cevuto.

I ricorsi illegittimi
Ci sono atti amministrativi contro cui non si può ricorrere. Sono
definitivi. Non possono essere soggetti ad alcuna verifica o modifica.
Si tratta dei ricorsi contro atti amministrativi che siano emanati
dallo stesso Romano Pontefice o dallo stesso Concilio Ecumenico (cf
can. 1732; cf pure can. 333 § 3).
La ragione è ovvia e dogmatica.
Per il Romano Pontefice essa è espressa nel classico principio
«Prima sedes a nemine iudicatur [= la sede primaziale non è giudica-
ta da nessuno]» (can. 1404) e discende dalla potestà suprema, piena,
immediata, ordinaria, universale ed episcopale, che compete al Ro-
mano Pontefice in forza del suo compito di vescovo della Chiesa di
Roma, successore di Pietro, capo del collegio episcopale, vicario di
Cristo e pastore della Chiesa universale, e che può esercitare sem-
pre liberamente (cf can. 331).
Per il Concilio Ecumenico essa è giustificata dalla potestà su-
prema e piena, che in esso esercita in forma solenne il Collegio epi-
scopale, con e sotto il Romano Pontefice (cf can. 336).
La illegittimità di questi ricorsi non comprende la supplice richie-
sta di un riesame della questione risolta dall’atto amministrativo ema-
nato da parte della stessa autorità. Non è illegittimo perciò chiedere
allo stesso Romano Pontefice di riesaminare un suo provvedimento 6.

6
Sono anzi conosciuti, a tal riguardo, degli istituti giuridici, quali la aperitio oris e il mandatum Summi
Pontificis (cf can. 1405 § 2).
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 295

Sono illegittimi quei ricorsi per i quali si intenda (o meglio: si


pretenda di) ricorrere a un’autorità superiore (che non c’è) contro un
atto amministrativo dello stesso Romano Pontefice 7 o dello stesso
Concilio Ecumenico.
Perché si verifichi l’illegittimità di questi ricorsi l’atto ammini-
strativo deve procedere dallo stesso [= ipso] Romano Pontefice o Con-
cilio Ecumenico. Si potrebbe dire: dal Romano Pontefice in persona
o dal Concilio Ecumenico in congregazione generale.
Sono molti infatti gli atti amministrativi che, per limitarci al pri-
mo caso, vengono riferiti o attribuiti al Romano Pontefice, ma non
sono dello stesso Romano Pontefice in persona.
Non basta che un atto amministrativo emani da un Dicastero del-
la Curia Romana, pur deputato ad agire con potestà vicaria e perciò a
nome del Romano Pontefice, per dirsi dello stesso Pontefice. Non basta
che un atto amministrativo rechi la menzione dell’approvazione (in
forma) generica del Romano Pontefice, per dirsi dello stesso Pontefice.
Deve emanare dalla sua propria persona di fatto o di diritto o
dogmaticamente.
Se l’atto amministrativo reca la menzione dell’approvazione spe-
cifica 8 del Romano Pontefice, può dirsi dello stesso Pontefice e per-
tanto non si dà ricorso 9.

I ricorsi praeter legem


Si tratta di quei ricorsi che il diritto né proibisce (illegittimi) né
prevede (legittimi). Sono semplicemente ignorati dal diritto. Al di
fuori del diritto.
Proprio per la loro natura possono assumere infinite forme e
spesso possono contribuire in modo consistente alla definizione ex-
tragiudiziale di un conflitto fra autorità e fedele 10.

7
Il can. 1372 commina una censura a chi pretenda di ricorrere contro un atto del Romano Pontefice al
Concilio Ecumenico o al Collegio dei Vescovi. In questo caso non è chiesto che l’atto sia dello stesso Ro-
mano Pontefice; non è specificato di quale atto o tipo di atto si tratti; è invece specificata l’autorità desti-
nataria del ricorso.
8
Cf F.J. URRUTIA, Quandonam habeatur approbatio “in forma specifica”, in Periodica 80 (1991) 3-17. L’A.
riconosce l’effetto di attribuzione allo stesso Romano Pontefice degli atti approvati (o meglio, confer-
mati) in forma specifica (cf pp. 7-10), ma nega che tale sia la natura della approvazione specifica di cui
all’art. 18 della Costituzione Apostolica Pastor bonus, ove i Dicasteri, con tale approvazione possono
promulgare leggi e derogare al diritto universale. Qui sarebbe possibile ricorso.
9
Cf, recentemente, in modo esplicito, art. 118 § 4 del Regolamento Generale della Curia Romana.
10
A questa categoria di ricorsi appartengono i mezzi suggeriti e raccomandati dal can. 1733: ricorso a
persone autorevoli; ricorso all’ufficio o consiglio diocesano, che la Conferenza episcopale decida di im-
296 G. Paolo Montini

Hanno però due caratteristiche fondamentali che li connotano


in senso negativo:
– non hanno la forza di obbligare l’autorità amministrativa adita
a pronunciarsi. In altre parole, l’autorità amministrativa, cui si ricor-
re con ricorso non previsto dal diritto, non è tenuta a rispondere e a
provvedere.
– non hanno la forza di interrompere i termini per ricorrere. Ciò
significa che non si potrà addurre a giustificazione del ritardo, con
cui si è ricorsi contro un atto amministrativo, il fatto di aver esperito
uno o più ricorsi praeter legem. Questi ricorsi possono e devono es-
sere esperiti senza che questo debba recare pregiudizio alla proce-
dura di ricorso prevista e preordinata dal diritto.

I ricorsi legittimi
Sono i ricorsi previsti dal diritto e normati dal medesimo nella
loro procedura. Possono essere di due tipi.

I ricorsi legittimi immediati previi


Si tratta di una novità introdotta dal nuovo Codice allo scopo di
evitare, il più possibile, l’estendersi nel tempo e nelle persone dei
conflitti. Per sé già prima del Codice vigente erano conosciuti singoli
casi di ricorsi immediati; il nostro Codice ha contribuito alla genera-
lizzazione del fenomeno.
Per ricorso immediato si intende il ricorso che viene presentato
alla stessa autorità che ha emanato l’atto amministrativo contro cui si
ricorre. Si tratta in realtà della richiesta (petitio: cf cann. 1734 §§ 1-2
e 1735) di riprendere in esame la decisione o il provvedimento as-
sunto con l’atto amministrativo.
Questo tipo di ricorsi ha anzitutto un valore processuale. L’auto-
rità amministrativa che riceve questo ricorso deve prendere in consi-
derazione la richiesta di riesame ed è tenuta a rispondervi. Inoltre
finché si procede con questo ricorso sono sospesi i termini per la ul-
teriore procedura.

porre in ogni diocesi o che un vescovo diocesano liberamente abbia deciso di costituire nella sua dioce-
si. Di solito tentativi di conciliazione fra le parti si snodano paralleli a tutto l’iter procedurale e proces-
suale, anche durante la fase più propriamente giudiziale.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 297

Ha poi un valore sostanziale. Dà infatti la possibilità all’autorità


amministrativa di ascoltare le ragioni che il fedele ha contro il decreto
che lo ha interessato. E certo l’autorità può riesaminare la questione.
Il Codice ha generalizzato questo tipo di ricorso in modo che at-
tualmente esso risulta obbligatorio prima di procedere con altri ri-
corsi. Per questo si dice previo.

– Obbligatorietà
Il ricorso immediato previo è obbligatorio in tutti i casi, a ecce-
zione dei seguenti, in cui si deve procedere senza di esso:
1) Quando si ricorre contro l’atto amministrativo di un’autorità
inferiore al vescovo (cf can. 1734 § 3, 1°). Se, per esempio, un semi-
narista del Seminario minore diocesano intende ricorrere contro la
sua espulsione dal Seminario stabilita dal Rettore, non sarà tenuto a
ricorrere previamente allo stesso Rettore che l’ha espulso, in quanto
il Rettore è appunto un’autorità inferiore al vescovo diocesano.
2) Quando si ricorre contro il cosiddetto silenzio o inerzia dell’au-
torità amministrativa (cf can. 1734 § 3, 3°). Se, per esempio, il vesco-
vo diocesano entro tre mesi non risponde alla richiesta di escardina-
zione avanzata da un suo sacerdote diocesano, quest’ultimo non sarà
tenuto a ricorrere previamente allo stesso vescovo diocesano, che
non ha potuto o voluto rispondere nel tempo stabilito.
3) Quando si ricorre dopo un ricorso immediato previo (cf can.
1734 § 3, 3°). È un caso ovvio, ma che il Codice ha voluto ricordare.
Dopo cioè che si è esperito una volta il ricorso immediato previo,
non si è più tenuti a ripeterlo, quale che ne sia stato l’esito.
4) Quando si ricorre contro un atto amministrativo con cui una
autorità, diversa dal vescovo diocesano, abbia deciso di un conflitto tra
un fedele e un’autorità a essa subordinata (cf can. 1734 § 3, 2°). Se,
tornando all’esempio sopra riferito dell’espulsione dal Seminario, il
seminarista ricorre al vescovo diocesano e questi si pronuncia con-
fermando l’espulsione, contro tale ultimo atto amministrativo il semi-
narista dovrà ricorrere previamente ancora al vescovo diocesano,
chiedendone il riesame.
Al contrario, se un religioso, cui sia stata negata dal Superiore
locale un’assenza dalla Casa religiosa per ragioni di salute, ricorre al
Superiore provinciale e questi conferma la negazione, non sarà tenu-
to a ricorrere previamente allo stesso Superiore provinciale, ma po-
trà ricorrere subito al Superiore generale.
298 G. Paolo Montini

Un caso a sé costituisce il Beneficium novae audientiae nell’am-


bito delle Congregazioni della Curia Romana.
Per sé, seguendo la disposizione che si commenta (cioè il can.
1734), contro un atto amministrativo di una Congregazione della Cu-
ria Romana con cui si decida di un conflitto tra un fedele e un’auto-
rità inferiore alla Congregazione, non c’è obbligo né c’è possibilità di
esperire un ricorso legittimo immediato previo. Se, per esempio, la
Congregazione per il Clero conferma, su ricorso, il decreto di rimo-
zione di un parroco, contro tale conferma dovrebbe procedersi im-
mediatamente (nel caso, come si vedrà, alla Segnatura Apostolica),
perché non è previsto ricorso legittimo immediato previo.
In base però agli artt. 118-119 del Regolamento Generale della
Curia Romana (4 febbraio 1992)
«quando oggetto della Sessione plenaria o ordinaria dei Dicasteri è stata la
definizione di una controversia, [...] la parte, che si sente gravata, entro 10
giorni utili può chiedere la revoca o la modifica del provvedimento, [che] so-
lo la Sessione plenaria o ordinaria può concedere» (art. 118 §§ 1-3).

Qui sembra essere introdotto un ricorso legittimo immediato


facoltativo 11.

– Termini
Il ricorso immediato previo dev’essere presentato all’autorità,
che ha emanato il decreto contro cui si ricorre, entro 10 [= dieci]
giorni dalla notificazione del decreto.
L’autorità amministrativa deve provvedere, rispondendo al ri-
corso immediato previo, entro 30 [= trenta] giorni dal momento in
cui il ricorso le è pervenuto.

– Formalità
Il Codice richiede solamente che il ricorso immediato previo sia
scritto (cf can. 1734 § 1).
Non si richiede, pertanto,
* che sia sottoscritto: potrebbe essere proposto anche per il tra-
mite di altri oppure attraverso una forma scritta senza sottoscrizione
autografa, come telegramma, fax o altro simile;

11
Per essere legittimo (previsto dal diritto), ancorché facoltativo, ed essere favorevole al ricorrente e
nella linea del limitare le liti, mi sembra si possano riconoscere, almeno in determinate fattispecie, al
Beneficium novae audientiae gli effetti propri (processuali e sostanziali), dei ricorsi legittimi.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 299

* che sia corredato di motivazioni (di diritto e/o di fatto) per le


quali si chieda il riesame del decreto;
* che sia presentato da persona o persone che abbiano tutti i re-
quisiti soggettivi che la legge richiede per i successivi ricorsi.

– Potestà
Come è ovvio, l’autorità amministrativa adita con ricorso imme-
diato può confermare il suo provvedimento, può modificarlo, può di-
chiararlo nullo o invalido, può rescinderlo, può revocarlo, può rin-
viarlo, può sospenderlo. In una parola, l’autorità amministrativa con-
serva tutto il potere e la discrezionalità del momento in cui ha
emesso l’atto amministrativo impugnato.

I ricorsi mediati
Questa dizione è poco usata, ma utile per raggruppare due tipi
di ricorsi che, seppur diversi per natura, hanno in comune la richie-
sta che un’autorità, direttamente o indirettamente superiore all’auto-
rità che ha emanato l’atto amministrativo impugnato, lo verifichi. È il
ricorso in senso proprio.

I RICORSI GERARCHICI
Si tratta di quei ricorsi in cui si adisce il superiore, in linea ge-
rarchica, dell’autorità, che ha emesso il decreto che si assume lesi-
vo, per chiedere la verifica dell’atto amministrativo stesso. Se un
fedele si sente leso in un suo diritto dalla decisione di un parroco,
potrà ricorrere al Superiore gerarchico del parroco (il vescovo dio-
cesano, per esempio), per chiedere che venga verificata la decisione
del parroco.
Il ricorso gerarchico è il mezzo principale del cosiddetto siste-
ma del Superiore-giudice 12. Si tratta di quel sistema in cui la soluzio-
ne dei conflitti è ricercata attraverso l’utilizzo della scala gerarchica
in cui è organizzata l’autorità amministrativa. Il Superiore gerarchico
viene chiamato nel caso a giudicare l’operato del subordinato.

12
Questo sistema, in cui cioè le controversie insorte per un atto di potestà amministrativa possono es-
sere deferite solo al Superiore-giudice, vigette nella Chiesa dalla riforma della Curia Romana di Pio X
(1908) fino alla riforma della medesima Curia da parte di Paolo VI (1967).
300 G. Paolo Montini

I vantaggi di questo sistema sono indubbi: il Superiore gerar-


chico conosce perfettamente la dinamica dell’esercizio della potestà
amministrativa e, come superiore, dispone senza bisogno di interme-
diari di una amplissima potestà, con cui può soddisfare prontamente
e pienamente il ricorrente.
Altrettanto evidenti sono gli svantaggi: il Superiore gerarchico
non gode di quella imparzialità nei confronti dell’autorità subordina-
ta, di cui si contesta con il ricorso un atto amministrativo. Appar-
tengono infatti entrambe alla stessa organizzazione e questo può da-
re l’impressione, a volte, che il Superiore gerarchico sia chiamato a
giudicare in re sua.

– Obbligatorietà
Il ricorso gerarchico è obbligatorio nel senso che, per chi inten-
da procedere nella verifica dell’atto amministrativo, non v’è alternati-
va: deve adire il Superiore gerarchico, fino all’apice della struttura
gerarchico-amministrativa prima di approdare a una verifica dell’atto
di carattere propriamente giudiziario, o meglio giurisdizionale.

– Termini
Il ricorso gerarchico dev’essere presentato entro 15 [= quindi-
ci] giorni. In casi particolari la legge può ridurre questo termine (cf
can. 700: 10 [= dieci] giorni), mutarlo o prolungarlo.
I giorni per ricorrere decorrono, a seconda dei casi,
* dal giorno in cui l’autorità ha intimato o notificato l’atto ammi-
nistrativo;
* dal giorno in cui l’autorità ha intimato o notificato la sua rispo-
sta (affermativa, in parte, o negativa, in toto o in parte) al ricorso im-
mediato previo;
* dal 30° giorno a partire da quello in cui l’autorità ha ricevuto
il ricorso immediato previo, senza rispondervi in modo efficace.

– Il Superiore gerarchico
Non sempre è facile individuare il Superiore gerarchico desti-
natario del ricorso, anche perché spesso egli si determina anche in
base alla materia oggetto dell’atto amministrativo.
In una diocesi in cui il vescovo diocesano abbia dato il mandato
speciale in materia matrimoniale sia al vicario generale sia a un vica-
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 301

rio episcopale, sono superiori gerarchici del parroco, che rifiuti a


una coppia il matrimonio solo canonico, sia il vescovo diocesano sia
il vicario generale sia quel vicario episcopale, mentre non lo sarebbe-
ro gli eventuali altri vicari episcopali (territoriali, per esempio).
Ricorrendo, per esempio, contro il rifiuto del vescovo diocesano
di applicare l’indulto per la concessione dell’uso del Messale di san
Pio V, è almeno incerto se si possa ricorrere, oltre che alla Pontificia
Commissione Ecclesia Dei, anche alla Congregazione del Culto Divi-
no e la Disciplina dei Sacramenti.
Per ovviare ogni problema per il fedele, che perlopiù non è a co-
noscenza delle competenze specifiche interne della Curia diocesana,
religiosa o Romana, il Codice ammette la possibilità di trasmettere il
ricorso gerarchico allo stesso Superiore che ha emanato il decreto
che si vuole impugnare (cf can. 1737 § 1). Sarà poi questi, di solito
ben individuabile, a trasmetterlo al Superiore gerarchico competen-
te. Il vantaggio di questa norma è notevolissimo: un eventuale errore
nell’individuazione del Superiore, un eventuale ritardo nell’inoltrare
il medesimo ricorso non potranno nuocere in nessun caso al fedele,
cui basta conservare la prova (di solito la ricevuta della raccomanda-
ta A.R.) di aver proposto il ricorso gerarchico all’autore del decreto
nel termine dovuto.

– Formalità e procedura
Il ricorrente può agire per conto proprio. Ha però diritto a un
avvocato 13 (che lo consigli e lo difenda) o a un procuratore (che lo
rappresenti). Normalmente, se vorrà essere aiutato da un esperto,
questi assumerà entrambe le funzioni. Non può pretendere un avvo-
cato d’ufficio, che gli sarà dato solo se, non possedendone uno, il Su-
periore lo ritenga necessario. Il Superiore può sempre chiedere che
il fedele che ricorre si presenti personalmente per essere interroga-
to (cf can. 1738).
Non è tuttora chiaro che cosa implichi aver diritto a un avvoca-
to. Parrebbe ivi compreso il diritto a produrre spontaneamente pro-
ve a sostegno della propria posizione; a conoscere, almeno su istan-
za propria, le prove addotte dall’altra parte e le rispettive deduzioni e
controdeduzioni, se sono state prodotte.

13
Questo avvocato dovrà essere scelto dall’apposito Albo (cf art. 183 Pastor bonus; art. 122 Regolamen-
to della Curia Romana).
302 G. Paolo Montini

Null’altro il Codice prevede come procedura nel ricorso gerar-


chico: non il diritto (ossia la pretesa) di essere ascoltato; non il dirit-
to a un dibattimento della questione. Particolarità possono essere
previste per procedimenti speciali di ricorsi gerarchici.
Ha certo diritto il fedele a un provvedimento che risponda ade-
guatamente al ricorso presentato, ossia alla domanda posta e alle ragio-
ni o motivi addotti. Il decreto infatti non potrà sfuggire alla disposizio-
ne generale del can. 51, che richiede che in esso siano espressi, alme-
no in modo sommario o per rinvio, le ragioni o motivi della decisione.
– Potestà
Sono due i parametri per determinare l’ampiezza della potestà
di cui gode il Superiore gerarchico nella soluzione del conflitto tra
fedele e autorità amministrativa (inferiore), che gli perviene per via
di ricorso: il canone 1739 e il canone 1737 § 1.
Nel primo canone si attribuisce al Superiore gerarchico la fa-
coltà di «confermare il decreto o dichiararlo invalido, come pure di
rescinderlo, revocarlo oppure, se lo ritiene opportuno, (perfino) e-
mendarlo, subrogarlo o obrogarlo». Si nota nel prescritto del canone
una sorta di climax, come un crescendo, costituito da tre gradi:
* giudicare il decreto in base alla legittimità, e pertanto confer-
marlo, se giudicato legittimo, oppure infirmarlo [= dichiararlo invali-
do], se giudicato illegittimo;
* giudicare il decreto in base alla “giustizia sostanziale”, e per-
tanto confermarlo, se conforme a essa, oppure rescinderlo o revo-
carlo, se trovato difforme a criteri di giustizia;
* “giudicare” il decreto in base a criteri che attingono alla di-
screzionalità, e pertanto confermarlo, se conforme a questi, oppure
provvedere diversamente, se trovato difforme.
È un potere esteso attribuito al Superiore gerarchico, pratica-
mente fino a sostituirsi all’autorità amministrativa inferiore, rifacen-
do il percorso, le valutazioni e le decisioni, che questa aveva fatto per
giungere al decreto impugnato. Tale ampiezza di potestà non cozza
contro il fondamentale principio di sussidiarietà, proprio per il fatto
che ci si trova in un contesto di riesame della questione, chiesto da
una parte.
Nel secondo canone si ha la riprova e la conferma, consideran-
do le ragioni per le quali un fedele può ricorrere: «propter quodlibet
iustum motivum [per qualsiasi giusta ragione]». Può trattarsi di ra-
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 303

gioni (se vogliamo seguire la climax di cui sopra) di legittimità (un


requisito ad validitatem non rispettato nella procedura che ha porta-
to all’atto), di «giustizia sostanziale» (un timore grave incusso al fe-
dele [cf can. 125]) oppure di opportunità (la considerazione che un
maggior bene sarebbe derivato da una decisione diversa).
Tali ragioni saranno espresse dal fedele nel testo del ricorso e il
Superiore gerarchico dovrà prenderle in considerazione.
Alla luce di queste disposizioni dev’essere interpretata la locu-
zione del can. 1737 sul ricorrente: «Qui se gravatum esse contendit
[Chi si ritiene leso]». Se normalmente il termine gravatum/gravare
sottintende la lesione di un diritto, il contesto specifico ne limita la
valenza a un qualsiasi interesse personale, diretto e attuale 14.

IL RICORSO GIURISDIZIONALE ALLA SEGNATURA APOSTOLICA


Si sarà notato che mentre sopra si parlava di ricorsi, qui si tratta
di ricorso. Tale mutamento è giustificato dal fatto che il Supremo
Tribunale della Segnatura Apostolica è l’unico organo della Chiesa
deputato e competente a ricevere ricorsi che intendano procedere
oltre, dopo aver esaurito la scala gerarchica dei superiori dell’auto-
rità che ha emanato l’atto che si è impugnato.
Il ricorso, di cui ora trattiamo, ha poi una natura radicalmente
diversa da quella dei ricorsi finora considerati. Ricorrendo alla Se-
gnatura Apostolica infatti si entra in una verifica giudiziaria, giurisdi-
zionale dell’atto amministrativo; una verifica condotta non più da
un’autorità amministrativa (Superiore) che funga (per l’occasione)
da giudice, ma da un’autorità giudiziaria, da un tribunale, che proce-
de attraverso rigorosa imparzialità, garantita da norme procedurali
rigide che assicurano parità di opportunità fra difesa e accusa, asso-
luta garanzia del diritto di difesa ecc.
È questo (il ricorso giurisdizionale) il mezzo privilegiato del co-
siddetto sistema di unica giurisdizione 15: di fronte a un conflitto tra

14
Non si devono confondere i presupposti per il ricorso gerarchico, con i presupposti per l’ulteriore ri-
corso giurisdizionale alla Segnatura Apostolica. Essendo quest’ultimo ricorso ulteriore rispetto a quello
gerarchico e postulando requisiti propri, ci saranno ricorsi gerarchici, o richieste e motivi di ricorsi ge-
rarchici, che non potranno essere presi in esame dalla Segnatura Apostolica.
Ne è riprova inaspettata e decisiva l’art. 120 Regolamento della Curia Romana, che, riferendosi anche al
can. 1737, prevede che i Dicasteri della Santa Sede esaminino i ricorsi «sia nella legittimità che nel me-
rito» (il corsivo è nostro).
15
Questo sistema, in cui cioè le controversie insorte per un atto di potestà amministrativa possono es-
sere deferite solo ai tribunali ordinari, che sono quindi competenti per tutte le cause giudiziali, vigette
nella Chiesa dall’inizio fino alla riforma della Curia Romana di Pio X (1908).
304 G. Paolo Montini

fedele e autorità, si ricorre al giudice, proprio allo stesso modo con


cui si ricorre al giudice in caso di conflitto fra due fedeli.
Se il vantaggio principale consiste, com’è ovvio, nella imparzia-
lità garantita nella soluzione del conflitto, vi si scorge pure l’inconve-
niente di una giustizia che non tenga sufficientemente conto (di di-
ritto e di fatto) delle peculiarità della (funzione dell’) autorità ammi-
nistrativa coinvolta.
La possibilità nella Chiesa di esperire sia i ricorsi gerarchici sia
i ricorsi giurisdizionali (presso un tribunale apposito) fa in modo che
il vigente sistema di Giustizia amministrativa canonico sia di Duplice
Giurisdizione. Ammette entrambi i ricorsi, ancorché il ricorso giuri-
sdizionale sia esperibile solo dopo che sia esaurita l’intera gamma dei
ricorsi gerarchici.
Tale sistema fu inaugurato da Paolo VI con la Costituzione Apo-
stolica Regimini Ecclesiae Universae sulla riforma della Curia Romana
(15 agosto 1967). In essa, all’art. 106, si istituiva la Seconda Sezione
(Sectio Altera) 16 del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica,
che «contentiones dirimit ortas ex actu potestatis administrativae [= di-
rime le controversie sorte da atti della potestà amministrativa]». Ap-
provate le Normae Speciales 17 il 25 marzo 1968 ad experimentum, il si-
stema nella sua strutturazione non fu più modificato, nonostante la
promulgazione del Codice di Diritto Canonico. Il sistema è stato come
congelato 18 al passo fatto da Paolo VI, come se si trattasse di un passo
azzardato, oltre il quale non si vuole proseguire e indietro al quale nel-
lo stesso tempo non si ha il coraggio di tornare. Modifiche marginali
di competenza e di formulazione si sono avute in tempi più recenti.

16
La divisione in Sezioni del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica è un tema annoso e non
ancora risolto. Quando fu istituito il Contenzioso amministrativo si pensò a una Sectio Altera: la Sezione
prima (prior) avrebbe continuato nella sua competenza giurisdizionale, la seconda (altera) avrebbe ri-
guardato la Giustizia amministrativa.
Quando si fece largo l’idea di una terza Sezione della Segnatura Apostolica per questioni amministrative
riguardanti i tribunali (una specie di Ministero di Giustizia), si abbandonò la dizione Sectio Altera (altera
vuol dire seconda di due; seconda di tre si direbbe secunda) e nei testi legislativi non apparve più il ter-
mine Sezione, pur articolandosi il prescritto normativo spesso in modo tripartito (cf can. 1445 §§ 1-3;
artt. 122-124 Pastor bonus).
17
Non sono mai state pubblicate in AAS, ma in testi e riviste specializzate. Il testo (latino) e una tradu-
zione italiana si possono rinvenire in Enchiridion Vaticanum VIII, Bologna 1984, appendice, pp. 522-587.
18
L’immagine è giustificata almeno da due gravi decisioni: la prima, assunta nella Plenaria dell’ottobre
1981 dalla Pontificia Commissione per la Riforma del Codice, di rendere facoltativa l’istituzione di tribu-
nali amministrativi locali; l’altra, assunta nella immediata vigilia della promulgazione del Codice, di
espungere tutti i canoni in cui era prevista l’istituzione in tutta la Chiesa di tribunali amministrativi loca-
li e la relativa procedura. Di tale espunzione restano tracce nei canoni 149 § 2 e 1400 § 2.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 305

– Termini
Il ricorso alla Segnatura Apostolica deve essere presentato en-
tro 30 [= trenta] giorni dalla notificazione dell’atto amministrativo.
I termini decorrono, a seconda dei casi,
* dal giorno della notificazione del decreto, con cui il Dicastero
della Curia Romana ha deciso il ricorso gerarchico presentato;
* dal giorno della notificazione della risposta (affermativa, in
parte, o negativa, in toto o in parte) al ricorso immediato previo pre-
sentato contro un decreto emanato direttamente dallo stesso Dica-
stero della Curia Romana;
* dal 30° giorno a partire da quello in cui il Dicastero ha ricevu-
to il ricorso immediato previo, senza rispondervi in modo efficace;
* dal 90° giorno a partire da quello in cui il Dicastero della Cu-
ria Romana ha ricevuto il ricorso gerarchico, senza pronunciarsi effi-
cacemente su di esso 19.
– La procedura20
È determinata dalle Normae Speciales (artt. 86-126). È costituita
dai seguenti passaggi:
a. Primo esame del ricorso e reiectio a limine.
Si tratta di una fase non prevista dalle norme. Non lede comun-
que per questo il diritto dei fedeli, perché contro questa decisione è
assicurato comunque, sempre extra legem, ricorso al Congresso.
Si tratta del primo esame del ricorso pervenuto. Se si riscontra-
no evidentissime carenze, rilevanti per la validità del ricorso, esso
viene respinto a limine dal Segretario.
b. Ammissione del ricorso alla discussione. Congresso.
Lo scopo di questa fase è di evitare che ricorsi senza fondamen-
to giuridico vengano discussi inutilmente dal Collegio, con dispen-

19
Non può derogare al can. 57 la prescrizione dell’art. 120 § 2 del Regolamento Generale della Curia
Romana: «Qualora il ricorso esiga un esame più approfondito, si avverta il ricorrente del tempo di pro-
roga e delle motivazioni che l’hanno causata». La disposizione del Regolamento vuole solo, da un lato,
mettere al sicuro dalla responsabilità per danni, a causa di ritardo nella risposta (cf can. 57 § 3), il Dica-
stero, e dall’altro, avvertire il fedele che, attendendo oltre il termine del 90° giorno a ricorrere, non
perderà il diritto di ricorrere; anzi potrà avere a disposizione un decreto del Dicastero che o potrà sod-
disfarlo o contro cui potrà ricorrere con maggiore cognizione di causa.
20
Per una descrizione chiara e dettagliata della procedura, cf Z. GROCHOLEWSKI, La “Sectio Altera” del-
la Segnatura Apostolica con particolare riferimento alla procedura in essa seguita, in Apollinaris 54
(1981) 65-110.
306 G. Paolo Montini

dio di denaro per i ricorrenti e di tempo ed energie per il tribunale e


i giudici.
L’oggetto del giudizio è perciò la verifica se «il ricorso manchi
in modo manifesto di fondamento giuridico» (art. 116 Normae Spe-
ciales). Se il Congresso della Segnatura Apostolica giudica il ricorso
manifestamente senza fondamento, il ricorso è respinto. Contro que-
sta decisione è ammesso ricorso al Collegio, che decide, in modo
inappellabile, se vi sia manifestamente carenza di fondamento nel ri-
corso e allora respinge; se non vi sia e allora procede alla decisione.
Se il Congresso della Segnatura giudica che il ricorso non man-
chi in modo manifesto di fondamento, ammette il ricorso alla discus-
sione e alla decisione del Collegio.
Il Congresso della Segnatura è costituito dal Cardinale Prefetto
del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che presiede e
che decide, dal Segretario e dal Promotore di Giustizia. Vi possono
partecipare pure il Difensore del Vincolo, alcuni Referendari e/o Vo-
tanti (solitamente coinvolti in quanto Promotori di Giustizia deputati
per uno o più cause da trattare in Congresso). È presente pure il Ca-
po della Cancelleria.
Il giudizio dato dal (Cardinale Prefetto nel) Congresso si basa
su un’attività istruttoria e dibattimentale di notevole spessore, che si
compone dei seguenti elementi:
* proposizione, richiesta, trasmissione e comunicazione di tutti
gli atti e documenti che, in possesso di chi ricorre, dell’autorità e di
terzi interessati, riguardano la questione sollevata dal ricorso;
* stesura di scritture memoriali e defensionali delle parti, con
ampia possibilità di integrare petizioni e motivi del ricorso, richiede-
re la trasmissione di altri atti e documenti;
* intervento del Promotore di Giustizia della Segnatura Aposto-
lica o di un Referendario o Votante, che svolge la funzione di Promo-
tore di Giustizia deputato e che, avuti tra mano tutti gli atti, prepara
un voto o parere pro rei veritate;
* risposta delle parti al voto pro rei veritate del Promotore di
Giustizia (deputato).
c. Giudizio. Il Collegio.
Il giudizio sull’oggetto del ricorso spetta al Collegio che è com-
posto dai cardinali e dai vescovi giudici-membri del Supremo Tri-
bunale della Segnatura Apostolica. La decisione è definitiva e può
essere impugnata solo per querela di nullità o restitutio in integrum
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 307

per manifesta ingiustizia. Anche in questi casi sarà il Collegio a giu-


dicare.
Data l’ampiezza dell’istruttoria avvenuta nella prima fase, dopo
la decisione favorevole del Congresso vi sarà una summaria deliba-
tio oralis processus, corrispondente suppergiù a una contestatio litis o
concordanza del dubbio, in cui cioè vengono definiti i termini della
controversia e le questioni da chiarire in fase istruttoria e dibatti-
mentale. Completata, se del caso, l’istruttoria e presentate dalle parti
(compreso il Promotore di Giustizia [deputato]) le scritture finali, il
Collegio è chiamato a giudicare.
Per la complessità della procedura e delle questioni, il fedele
deve avere senz’altro un avvocato. Se non lo possiede, è nominato
uno ex officio (cf art. 99 Normae Speciales). Anche per la scelta di
questo avvocato, ci si deve riferire all’apposito Albo di avvocati della
Curia Romana (cf art. 183 Pastor bonus; art. 122 Regolamento della
Curia Romana).

– Potestà
Si ha qui uno dei maggiori puncta dolentia e una delle maggiori
cruces interpretum della Giustizia amministrativa.
Anche qui, come abbiamo notato sopra, la problematica si ri-
specchia tra potestà del tribunale e petizioni e motivi addotti dal ri-
corrente.
Circa la potestà del tribunale l’art. 106 della Costituzione Aposto-
lica Regimini Ecclesiae Universae già conteneva l’ambiguità di fondo.
Da un lato si affermava che la Sectio Altera era deputata a diri-
mere le controversie (contentiones dirimit) e ciò faceva pensare che
oggetto del giudizio erano appunto «i diritti delle persone fisiche o
giuridiche da perseguire o da rivendicare, o i fatti giuridici da dichia-
rare» (cf can. 1400 § 1, 1°), come in ogni giudizio.
Dall’altro si chiudeva l’art. 106 affermando che il tribunale «giu-
dica della illegittimità dell’atto impugnato [videt...de illegitimitate ac-
tus impugnati]».
La medesima incertezza si prolungava nei seguenti atti normativi.
Fu la lunga consuetudine delle Congregazioni della Curia Ro-
mana ad agire senza possibilità di essere soggette ad alcun ricorso o
giudizio “esterno”; la prima sentenza della Segnatura Apostolica in
materia, che “riformava” una decisione di un Dicastero della Curia
308 G. Paolo Montini

Romana; la novità della materia in ambito canonico; il paragone con


alcune legislazioni civili che provocarono e determinarono, il giorno
11 gennaio 1971, sulla questione una interpretazione autentica a ope-
ra della Pontificia Commissio Decretis Concilii Vaticani II Interpre-
tandis:
«Se [...] il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica – Sezione Seconda
– giudichi solo sulla illegittimità dell’atto o pure del merito della causa. R.
[...] giudica solo dell’illegittimità dell’atto impugnato» 21.

Da questo deriva che l’unica potestà riconosciuta e attribuita al-


la Segnatura Apostolica è, strettamente parlando, di dichiarare che
un atto amministrativo è illegittimo.

Sul versante delle petizioni e motivazioni del fedele ricorrente


si assisteva alla medesima ambiguità e schermaglia. A fronte infatti
del concetto di contentio, che implicava un conflitto di diritti, di cui si
chiedeva il riconoscimento e il ristabilimento, l’art. 106 della Costitu-
zione Apostolica aggiungeva che il ricorso era proposto «ogniqual-
volta si assumesse che l’atto stesso aveva violato una legge [quoties
contendatur actum ipsum legem aliquam violasse]». Anche qui inter-
veniva il medesimo giorno la medesima Pontificia Commissione con
un’interpretazione autentica, specificando che per violazione di leg-
ge doveva intendersi unicamente «un errore di diritto sia quanto alla
procedura sia quanto alla decisione [errorem iuris sive in procedendo
sive in decernendo]» 22.
In tal modo nel ricorso (e poi nella concordanza del dubbio) era
possibile solo chiedere: «Se il tal atto amministrativo abbia violato la
tal legge».

Si pensi al ricorso interposto da alcuni fedeli contro il decreto di


un vescovo diocesano che destini a uso profano una chiesa. Questi
fedeli, se assumono che il vescovo diocesano ha violato il prescritto
del can. 1222 § 2, che richiede ad validitatem che il vescovo diocesa-
no, prima di decidere, senta il Consiglio presbiterale diocesano, si
potranno vedere la Segnatura Apostolica dichiarare illegittimo il de-
creto di riduzione della chiesa a uso profano (se veramente si prova

21
AAS 63 (1971) 330.
22
L. cit..
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 309

che l’audizione del Consiglio presbiterale è mancata), il vescovo dio-


cesano convocare il Consiglio presbiterale e ridurre poi subito di
nuovo, legittimamente questa volta, la stessa chiesa a uso profano 23.

Si pensi invece al caso se i medesimi fedeli ricorrono per la vio-


lazione del prescritto del can. 1222 § 2, che richiede una grave ragio-
ne perché il vescovo diocesano proceda alla riduzione a uso profano
di una chiesa. Se la Segnatura Apostolica giudicasse inesistente la
causa grave richiesta dal Codice, dichiarerebbe illegittimo il decreto
di riduzione a uso profano. Certo per il vescovo diocesano non sussi-
sterebbe la possibilità di reiterare l’atto di riduzione, a meno di o di-
sobbedire alla sentenza o provare l’esistenza di un’altra causa grave
per ridurre la chiesa, non prima addotta in giudizio o non prima esi-
stente.

La questione della competenza della Seconda Sezione della Se-


gnatura Apostolica – se cioè sia limitata alla legittimità dell’atto o si
estenda alla questione di fondo – rimane aperta.
Il fatto che l’attuale giurisprudenza della Segnatura si limiti fon-
damentalmente alla trattazione della questione di legittimità dell’atto
amministrativo impugnato 24, non deve far dimenticare che la proble-
matica coinvolge direttamente molti sistemi di Giustizia amministra-
tiva, soprattutto occidentali, di derivazione francese e praticamente
tutti i sistemi di giudizio dell’amministrazione.
In tutti infatti non è agevole conciliare la separazione dei poteri
(giudiziario e amministrativo) con l’esigenza del controllo di legalità
dell’amministrazione. I due poli sono chiari: non deve la giustizia in-
gerirsi nell’amministrazione, che segue e deve seguire criteri discre-
zionali e di politica amministrativa; non può la potestà amministrati-
va agire al di fuori del principio di legalità e pretendere di non essere
soggetta, quando lo violi, ai rimedi della giustizia e del sistema giudi-

23
Non è certo confacente al(lo spirito del) diritto canonico una simile vicenda processuale (cf prot.
22036/90). Nel giugno 1990 il vescovo riduce una chiesa a uso profano. Nel giugno 1992 la Segnatura
dichiara illegittimo il decreto del vescovo su ricorso di due fedeli. Il vescovo diocesano all’inizio di di-
cembre del 1992 ordina l’esecuzione della sentenza della Segnatura Apostolica, che comprende, com’è
ovvio, la riapertura della chiesa. Dopo una settimana (14 dicembre 1992) il vescovo diocesano pubblica
un nuovo decreto di soppressione, questa volta dopo aver ascoltato il Consiglio presbiterale diocesano.
Nel novembre 1994 la Segnatura respinge il ricorso dei due fedeli, che si erano sentiti evidentemente
raggirati dal comportamento del vescovo diocesano.
24
È a volte avvenuto che, per poter decidere anche sul fondo della questione, la Segnatura Apostolica
abbia chiesto al Sommo Pontefice la commissione della medesima controversia amministrativa ex art.
107 REU [= can. 1445 § 2; art. 123 § 3 PB].
310 G. Paolo Montini

ziario. L’equilibrio è continuamente da cercare e da definire positiva-


mente a livello normativo processuale e procedurale.
Non possono essere misconosciuti in questo contesto alcuni
progressi giurisprudenziali e normativi intervenuti nella prassi e nel-
la definizione della competenza della Segnatura Apostolica: primo fra
tutti l’estensione della sua competenza ai danni per atto amministra-
tivo illegittimo (cf art. 123 § 2 Pastor bonus).

ALCUNE QUESTIONI SPECIALI

Termini
Nel corso della trattazione più volte ci siamo soffermati sui ter-
mini per ricorrere, ossia sulla scadenza entro cui presentare ricorso.
Ciò dipende dalla loro importanza: sono infatti termini perento-
ri, che cioè una volta trascorsi senza che si sia presentato ricorso,
provocano la perenzione (la perdita) del diritto a ricorrere. In questo
caso l’atto amministrativo, ancorché illegittimo, nullo o ingiusto, ac-
quisisce definitività ed esecuzione certa, in quanto non può più esse-
re impugnato.
L’insistenza dipende pure dalla vistosa brevità dei termini stabi-
liti dal Codice: da un minimo di 10 giorni a un massimo di trenta. La
brevità è stata voluta per abbreviare le liti (se proprio devono esser-
ci, alla fin fine, nella Chiesa) e per lasciare il meno possibile in so-
speso e in incerto diritti a volte molto rilevanti per la persona (cf, per
esempio, la propria consacrazione religiosa).

Tale brevità si mitiga 25 e diviene apparente però se si considera-


no due caratteristiche di questi termini:

– Il fatto che il momento di decorrenza non è la data dell’atto


amministrativo che si intende impugnare, ma la sua intimazione, che
potrebbe avvenire anche a distanza di mesi dalla data della sottoscri-
zione del decreto o dal momento in cui il fedele ne ha avuto sentore
o una conoscenza vaga.

25
Un’ulteriore mitigazione proviene dal fatto che il Sommo Pontefice concede a volte, su richiesta del
ricorrente e per casi meritevoli, la gratia della restitutio in terminos.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 311

Qualora risulti inapplicabile il concetto di intimazione sarà ne-


cessario riferirsi a quello di «conoscenza reale acquisita a norma del
diritto» (cf art. 105 § 1 Normae Speciales). L’intimazione è, infatti, tut-
to sommato una facilitazione data all’autorità amministrativa per pro-
vare il terminus a quo il fedele può ricorrere.

– Il fatto che i giorni che costituiscono i termini debbano essere


utili. Tale nozione è data nel can. 201 § 2: «Per tempo utile si intende
quello che compete in modo tale a chi esercita o persegue un diritto,
che non decorra per chi ignora o non può effettivamente agire». In
base a questa definizione i termini sopra riferiti potrebbero trasfor-
marsi in periodi di mesi e anche di anni.
Se un fedele non può materialmente agire, cioè proporre ricor-
so, il tempo per ricorrere non decorre o gli si interrompe, per inco-
minciare o riprendere poi alla cessazione dell’impedimento per cui
non poteva ricorrere.
Se, per esempio, un religioso il giorno dopo aver ricevuto il de-
creto di dimissione dall’istituto, subisse un delicato intervento chirur-
gico, da cui sortisse uno stato di coma per due mesi, al riprendersi dal
coma ricomincerebbero a decorrere i rimanenti 9 giorni per ricorrere.
Più delicato è il caso del fedele che ignori la normativa sul ri-
corso. Pochissimi sono i fedeli infatti che conoscono la normativa e
praticamente tutti potrebbero invocare questo impedimento per am-
pliare a dismisura i termini per ricorrere.
– A volte è il legislatore che ovvia a questo inconveniente, obbli-
gando (anche sotto pena di nullità dell’atto) a indicare esplicitamen-
te nel decreto, che si emana, la possibilità e le modalità di ricorrere.
Così, per esempio, è previsto nel can. 700 per il decreto di dimissio-
ne dei religiosi.
– A volte è lo stesso autore del decreto che suo marte menziona
in calce il diritto del fedele a ricorrere.
– Negli altri casi il fedele potrebbe addurre l’ignoranza per dila-
tare i termini per ricorrere. Tale dilatazione però soggiace ad alme-
no tre limitazioni:
* la prima è data dal can. 15 § 2: «L’ignoranza o l’errore [...] non
si presumono, finché non si provi il contrario». Chi dice di aver igno-
rato la possibilità di ricorrere dovrà provare l’ignoranza e il momen-
to fino a cui è perseverata;
* la seconda è data dal fatto che l’ignoranza, qualora sia crassa
o supina, è in qualche modo colpevole. Ed è principio generale che
312 G. Paolo Montini

la propria colpa non può essere addotta a proprio vantaggio. Certo la


colpevolezza dovrà essere provata da chi la afferma, cioè normal-
mente la parte resistente;
* la terza è data dal fatto che l’ignoranza non deve cessare attra-
verso una notificazione, da parte dell’autorità, del diritto a ricorrere.
Non esiste quest’obbligo. Esiste piuttosto l’obbligo della normale e
ordinaria diligenza da parte dell’interessato.
Non potrà addurre, per esempio, l’ignoranza dei termini a ricor-
rere, chi sappia che può ricorrere.
Allo stesso modo chi ricorre (per addurre un esempio doloro-
so, ma non infrequente) presso i tribunali civili contro un atto ammi-
nistrativo dell’autorità della Chiesa, ben difficilmente potrà sostene-
re poi l’ignoranza circa i ricorsi presso l’autorità canonica: la diligen-
za mostrata nell’informarsi sulla normativa civile, avrebbe dovuto
manifestarsi anche per l’ambito canonico.

Sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato


Benché il Codice e la normativa canonica in genere si preoccu-
pino di abbreviare il più possibile i tempi necessari per l’esame dei
ricorsi, volti a verificare l’atto amministrativo, difficoltà intrinseche
ed estrinseche prolungano tale percorso a volte per anni.
Che ne è nel frattempo del fedele che ricorre? dell’atto ammini-
strativo che è stato impugnato?
Ben si comprende che qui vi sono due esigenze in tensione.
Da un lato l’autorità amministrativa richiederebbe l’immediata
esecuzione dell’atto emesso, come è nella natura di quest’atto, desti-
nato a promuovere il bene pubblico.
Un religioso che sia disobbediente in modo pertinace ai legitti-
mi comandi dei superiori in materia grave, si richiederebbe che sia
immediatamente espulso allorché giunga a compimento il procedi-
mento, peraltro non certo breve, del decreto di dimissione. Lo esige-
rebbe il bene dell’istituto religioso.
D’altro lato l’immediata esecuzione dell’atto amministrativo può
incidere così profondamente nella realtà, che può diventare impossi-
bile o difficile eseguire il ripristino della situazione precedente, qua-
lora l’esito del ricorso sia favorevole al fedele ricorrente e accerti la
illegittimità, l’ingiustizia o l’inopportunità dell’atto.
Per tornare all’esempio di cui sopra, quel religioso allontanato
per uno o due anni dalla comunità e dall’istituto religioso con quelle
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 313

accuse, con quale animo potrà ritornarvi dopo che i ricorsi interposti
gli siano risultati favorevoli? E la comunità e i superiori come l’acco-
glieranno? Dove risiederà nel frattempo (uno o due anni)? Di che co-
sa vivrà nel frattempo?

La normativa canonica, nell’intento di conciliare tali opposte esi-


genze prevede che l’atto amministrativo, una volta che sia impugna-
to, possa essere sospeso nella sua efficacia, finché non vi sia stato un
pronunciamento definitivo di verifica.
Possono darsi i seguenti casi:
– Per regola e principio generali la presentazione di ricorso da
parte del fedele non sospende l’esecuzione e l’efficacia dell’atto ammi-
nistrativo impugnato. Questo ricorso è detto, in termine tecnico, in
devolutivo tantum, cioè avente solo forza di devolvere (= far perveni-
re) il gravame al Superiore. In assenza di indicazioni normative pe-
culiari tutti i ricorsi canonici sono da ritenersi di questo tipo.
Per fare un esempio, il ricorso contro la soppressione di una
parrocchia non ne sospende l’esecuzione.

– Alcuni ricorsi sono espressamente denominati etiam in su-


spensivo, cioè aventi la forza di sospendere automaticamente l’esecu-
zione e l’efficacia dell’atto amministrativo.
In questo caso dal giorno in cui il fedele presenta il primo ricor-
so (normalmente il ricorso legittimo immediato previo: cf can. 1736
§ 1) al giorno in cui gli viene notificata la sentenza definitiva del Col-
legio della Seconda Sezione della Segnatura Apostolica il decreto è
sospeso, non estende cioè alcuna efficacia ed è come se non fosse
mai stato emesso e non esistesse.
L’efficacia sospensiva può essere totale o parziale.
Il religioso dimesso dal suo istituto, ricorrendo entro 10 giorni
alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vi-
ta apostolica, sospende l’esecuzione del decreto di dimissione (cf
can. 700), emesso dal suo Generale e confermato dalla medesima
Congregazione. Finché il suo ricorso non sarà definitivamente deci-
so, egli rimarrà religioso nel suo istituto a tutti gli effetti, teologici,
canonici, civili.
Il parroco, invece, che sia rimosso dal vescovo diocesano, ricor-
rendo al medesimo entro 10 giorni contro il decreto di rimozione,
non potrà evitare di lasciare la casa canonica, il ministero pastorale
parrocchiale e la parrocchia stessa. Il ricorso in parola, infatti, so-
314 G. Paolo Montini

spende solo la facoltà del vescovo diocesano di nominare un altro


parroco al suo posto (cf can. 1747 § 3).

– È sempre possibile al fedele chiedere specificamente la sospen-


sione dell’atto impugnato. Può chiederla sia congiuntamente a uno
dei ricorsi che presenta sia disgiuntamente. A volte (nel ricorso im-
mediato previo [cf can. 1734 § 1] e nel ricorso gerarchico, se la so-
spensione è stata concessa nel ricorso precedente [cf can. 1736 § 2])
è inclusa nello stesso ricorso principale.
Quando la sospensione sia richiesta, la procedura per ottenerla
imita da vicino quella del ricorso principale e si sovrappone tempo-
ralmente a essa.
Se entro dieci giorni, dal momento in cui il Superiore ricevette
il ricorso immediato previo, non si conceda la sospensione, il fedele
può chiederla al Superiore gerarchico.
Nel giudizio presso la Segnatura Apostolica la eventuale richie-
sta di sospensione può essere respinta a limine dal Cardinale Prefet-
to; può essere concessa o negata, dopo l’intervento di tutte le parti in
causa, entro sessanta giorni dal momento in cui la domanda sia per-
venuta (art. 113 Normae Speciales).
I criteri che vengono presi in considerazione nell’esame (che
gode di discrezionalità) delle richieste di sospensione sono principal-
mente i seguenti:
* la probabilità che il ricorso sortisca un esito favorevole al fe-
dele che ricorre (il cosiddetto fumus boni iuris). Quanto più le proba-
bilità sono alte, tanto più è facile che la sospensione sia concessa, e
viceversa;
* la gravità e irreparabilità del danno che conseguirebbe al fe-
dele che ricorre, qualora, una volta “vinto il ricorso”, non potesse es-
sere reintegrato nella situazione precedente per il fatto che l’esecu-
zione dell’atto impugnato ha modificato irreversibilmente la situazio-
ne di fatto. Quanto più il danno si presenta irreparabile, tanto più è
facile che la sospensione venga concessa, e viceversa;
* la possibilità che la salvezza delle anime ne scapiti (cf per ana-
logia il can. 1736 § 2). Ci possono essere delle ragioni di ordine pub-
blico o di scandalo che persuadano al rifiuto della sospensione.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 315

L’autorità che ricorre


L’espressione prevalente finora usata (“fedele che ricorre”) po-
trebbe far pensare che sempre e in ogni caso nel sistema della Giu-
stizia amministrativa canonica si trovino di fronte fedele e autorità
amministrativa.
Non è così. A volte accade che sia la stessa autorità amministra-
tiva a trovarsi, nei suoi diversi gradi, ricorrente e resistente.
Due esempi potranno chiarire come questo possa accadere.
Un parroco, rimosso dalla parrocchia, ricorre alla Congregazio-
ne per il Clero contro il decreto di rimozione. La Congregazione ri-
conoscendo le ragioni del parroco dichiara illegittima la rimozione,
annulla il decreto e reintegra il parroco nella parrocchia. A questo
punto potrebbe essere il vescovo diocesano, che ha rimosso il parro-
co, a sentirsi “gravato” (= leso) dall’atto amministrativo con cui la
Congregazione ha cassato il suo decreto di rimozione di quel parro-
co. Il vescovo pertanto potrà ricorrere (alla Seconda Sezione della
Segnatura Apostolica) contro il decreto della Congregazione. Ricor-
rente sarà il vescovo diocesano, resistente sarà la Congregazione. Il
parroco sarà terzo che si oppone.
Una superiora generale emette il decreto di dimissione di una
religiosa a causa della disobbedienza pertinace di quest’ultima al co-
mando di trasferimento impartito dalla superiora delegata. Trasmes-
so il decreto alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le
Società di vita apostolica, quest’ultima si rifiuta di confermarlo. Sen-
za la conferma il decreto non avrà alcuna efficacia e non potrà essere
notificato. La superiora generale potrà ricorrere (alla Seconda Sezio-
ne della Segnatura Apostolica) assumendo l’illegittimità del rifiuto di
conferma del suo decreto. Ricorrente sarà la superiora generale, re-
sistente la Congregazione. La religiosa sarà terza che si oppone.
Tale possibilità dell’autorità amministrativa di ricorrere può es-
sere soggetta a diverse interpretazioni.
Da un lato sembra doverosa e legittima, per parificare le posi-
zioni nel procedimento della Giustizia amministrativa canonica, in
quanto l’autorità amministrativa, che non possa ricorrere, si trove-
rebbe in una situazione di inferiorità rispetto al fedele. Inoltre l’eser-
cizio fortemente “personale” del potere nella Chiesa (legato al sacra-
mento dell’Ordine) rende ben comprensibile la “lesione” procurata
al Superiore che si vede “cassata” o modificata una sua decisione di
governo pastorale da un suo stesso Superiore.
316 G. Paolo Montini

Dall’altro lato sembra stia il pericolo di trasformare il Conten-


zioso amministrativo da strumento di difesa dei diritti dei fedeli a
strumento di risoluzione dei conflitti interni alla organizzazione della
potestà amministrativa. Quest’ultima dovrebbe prevedere strumenti
propri per tutelare la sua unità interna di indirizzo.

CONCLUSIONE

Alla fine di questo percorso, per molti versi lungo e complesso,


può sopraggiungere una domanda disarmante: «Ma non sarebbe più
semplice e più confacente all’appartenenza ecclesiale, che un fedele ri-
nunci a difendere il proprio diritto?».
Sì. È vero. Ma ad alcune condizioni. Ecco le principali.
Anzitutto che ciò a cui si rinuncia appartenga solo al fedele. Io
posso rinunciare a ciò che mi appartiene. Non posso rinunciare a ciò
che non è mio. Non è raro nella Chiesa che al fondo di un ricorso vi
sia un bene (spirituale), di cui si è solo custodi. Si pensi a un religio-
so dimesso dal suo istituto. Al fondo ci sta la sua vocazione, cioè la
vocazione ricevuta dal Signore con il compito di custodirla e ap-
profondirla. Rinunciare al ricorso significherebbe rinunciare a essa,
a un dono del Signore.
Inoltre che ciò non significhi disinteresse e mancanza di respon-
sabilità verso la giustizia. La Chiesa accoglie ed esamina un ricorso,
a condizione che si assuma la violazione di una norma o di un mag-
gior bene. Nel ricorso il fedele, difendendo un proprio diritto, difen-
de il rispetto di quell’ordinamento giuridico, che la Chiesa stessa ha
posto per il bene comune. È come se la Chiesa accondiscendesse a
difendere un fedele, perché contestualmente difende il bene di tutti.
Basterebbe notare la maggiore attenzione suscitata nei sacri Pastori,
dall’introduzione del Contenzioso amministrativo, verso il rispetto
della normativa ecclesiale.

Non sempre certo chi ricorre ha di mira scopi così alti e nobili.
Come è certo che non tutti quelli che rinunciano a ricorrere sono
mossi da spirito di abnegazione e di sacrificio.

L’esistenza e lo sviluppo di un sistema procedurale e processua-


le nella Chiesa per la difesa dei diritti dei fedeli, attinge la sua ragio-
ne prima e i suoi criteri di evoluzione nella convinzione di fede che il
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 317

mistero della Chiesa è analogo al mistero di Cristo, Verbo incarnato


(cf LG 8a). «Infatti, come la natura umana è a servizio del Verbo divi-
no come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito» (ibi-
dem), in modo analogo la natura sociale dell’uomo (con le sue dina-
miche di strutturazione societaria) nella Chiesa è a servizio dello
Spirito di Cristo per la missione salvifica.
G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia
Tavola I - PROCEDURA E TERMINI PER I RICORSI

Autore Superiore Dicastero Termini Termini


Vescovo
del decreto inferiore della per ricorrere: entro cui
diocesano
impugnato al Vescovo Curia Romana giorni rispondere
Ricorso No Sì Sì
immediato can. 1734 can. 1734 can. 1734 10 30
previo § 3, 1° §1 §1
Sì Sì No
Il ricorso al Vescovo al Dicastero
gerarchico can. 1737 can. 1737 can. 1737
15 90
§1 §1 §1

se il Vescovo
provvede
can. 1734
No No
§ 3, 2°
Ricorso __________
immediato 10 30
previo No
se il Vescovo can. 1734 can. 1734
non provvede § 3, 2° § 3, 3°
can. 1734
§ 3, 3°
Sì No No
Il ricorso al Dicastero
gerarchico can. 1737 can. 1737 can. 1737
15 90
§1 §1 §1
Beneficium facoltativo facoltativo
novae art. 118 art. 118 10 30
audientiae Regolam. Regolam.
Sì Sì Sì
Ricorso Segn. Ap. Segn. Ap. Segn. Ap.
giurisdizionale art. 123 art. 123 art. 123
30
PB PB PB
318 G. Paolo Montini

Tavola II - ATTIVITÀ DELLA SEGNATURA APOSTOLICA


(Fonte: L’attività della Santa Sede)

Ricorsi Collegio:
Ricorsi Ricorsi Ricorsi Collegio: Collegio: Collegio:
respinti Sospensione ricorsi
presentati respinti ammessi Affirmative Negative Altro
a limine respinti
1990 32 2 3 2 ? ? ? ?
1991 30 4 9 6 2 2 1 1 0
1992 9 12 4 0 10 3 0 0
1993 17 4 0 0 2 2 4 3

Tavola III - DICASTERI DELLA CURIA ROMANA


I CUI ATTI SONO STATI IMPUGNATI PRESSO LA SECONDA SEZIONE
DELLA SEGNATURA APOSTOLICA
(Fonte: L’attività della Santa Sede)

Dicastero Curia Romana 1990 1991 1992 1993

Congr. per il Clero 16 7 6 8

Congr. per gli Ist. di vita consacrata 2 [?] 12 [9] 2 [1] 4 [3]

Congr. di Prop. Fide 3 1 0 4

Congr. per l’Educazione catt. 2 1 0 0

Congr. per le Chiese Orientali 2 3 [3] 0 0

Congr. per la dottrina della Fede 1 0 0 0

Congr. per i Vescovi 1 1 1 0

Pont. Cons. per i Laici 0 0 0 1

Ammin. Patr. S. Sede 1 0 0 0

Pont. Comm. S.C.V. 0 1 0 0

Uff. Lavoro S. Apost. 1 1 0 0

N.B. Tra parentesi quadra il numero dei ricorsi contro decreti di dimissione da istituti religiosi.
Modalità procedurali e processuali per la difesa dei diritti dei fedeli 319

Tavola IV - Provvedimenti o atti amministrativi contro cui sono stati proposti ricor-
si alla Seconda Sezione del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica 1. La di-
missione di religiosi e la rimozione di parroci costituiscono l’oggetto di oltre la
metà dei ricorsi.

A. Circa il clero
* Rimozione di un parroco dalla parrocchia (cf cann. 1740-1747)
* Trasferimento di un parroco dalla parrocchia a un’altra parrocchia
o a un’altro ufficio (cf cann. 1748-1752)
* Perdita di un ufficio
* Negazione dell’incardinazione acquisita ipso iure (cf can. 268 § 1)
* Riduzione allo stato laicale di un diacono
* Revocazione della facoltà di ascoltare le confessioni (cf can. 974)
* Inflizione di una pena (scomunica, sospensione, interdetto)
* Ammonizione canonica (cf can. 1339 § 1)
* Precetto a un parroco emerito di dimorare fuori della propria par-
rocchia e di tacere in ordine alle attività del suo successore

B. Circa i membri di istituti di vita consacrata


* Dimissione da un Istituto di vita consacrata (cf cann. 694-700)
* Trasferimento da una casa a un’altra
* Privazione di voce attiva e passiva in un Istituto di vita consacrata
* Esclaustrazione imposta dalla Santa Sede (cf can. 686 § 3)
* Secolarizzazione imposta
* Ammissione alla Professione perpetua concessa dalla Superiora
Generale e negata dalla Superiora provinciale
* Denegata ammissione alla Professione perpetua
* Denegata ammissione alla rinnovazione della Professione religiosa
* Denegata conferma del decreto di dimissione
* Deposizione di una Superiora generale e del Consiglio generalizio
* Deposizione di una Superiora provinciale e delle sue consigliere
* Espulsione da una diocesi per decreto del Vescovo diocesano
* Riduzione delle ore di insegnamento

C. Soppressioni
* di una casa religiosa o di un monastero
* di un’associazione
* di una parrocchia (cf can. 515 § 2)
320 G. Paolo Montini

* di una chiesa: demolizione o riduzione a uso profano non sordido


(cf can. 1222)
* di una Facoltà teologica

D. Diritto di proprietà su
* immobili
* pergamene e opere d’arte
* santuario
* immobili trasferiti all’Istituto Diocesano per il Sostentamento del
Clero

E. Varia
* Negazione dell’agnitio di cui al can. 299 § 3 a un’associazione
* Rimozione da un ufficio ecclesiastico: docente, decano di un Istitu-
to filosofico-teologico, economo generale di un Istituto religioso, uf-
ficiale della Curia Romana
* Negazione del diritto di patronato
* Adattamento della chiesa parrocchiale alle esigenze liturgiche del-
la nuova normativa canonica (cf decreto 26 gennaio 1990, in Noti-
tiae 26 [1990] 142-144)
* Destinazione di una pia volontà (da scuola materna a comunità per
tossicodipendenti)
* Proibizione inflitta a un laico di partecipare per un anno alla litur-
gia nella propria chiesa parrocchiale (cf decreto del Congresso 30
ottobre 1990, in Notitiae 26 [1990] 711-713)
* Negazione ad alcuni laici di poter usufruire della Messa “tridentina”
* Denegata promozione e/o denegato superiore livello retributivo di
un ufficiale della Curia Romana
* Dimissione da un ufficio presso un Dicastero della Curia Romana
* Atti di un capitolo in un Istituto di vita consacrata
* Promulgazione delle nuove Costituzioni di un Istituto religioso

1
Non esiste a tutt’oggi una raccolta sistematica delle pronunce della Sectio Altera. Questo elenco attin-
ge a varie fonti specialistiche, edite e inedite. Intende solo fornire, senza alcuna pretesa di completezza,
un’immagine approssimativa dei principali argomenti oggetti finora di Contenzioso amministrativo.
321

La tutela degli interessi diffusi


nell’ordinamento canonico (*)
di Gianni Tognoni

Alcuni casi recenti


Sempre più frequentemente, negli ultimi anni, sono stati pre-
sentati di fronte agli organi di Giustizia amministrativa canonica, ri-
corsi di soggetti che lamentano la lesione di situazioni sostanziali
non direttamente ricollegabili alla sola sfera giuridica individuale.
Soprattutto situazioni che ontologicamente non erano suscettibili di
essere ricomprese e studiate all’interno delle specifiche attribuzio-
ni giuridiche del ricorrente o dei ricorrenti, in quanto attinenti a un
bene di rilevanza spiccatamente generale o comunque comunitaria,
e in quanto riscontrabili in capo a una serie indeterminata di titola-
ri, quasi mai unanimemente coinvolti nella vicenda processuale in-
stauratasi.
Si fa riferimento a situazioni ricollegabili a quelle posizioni giu-
ridiche denominate, dalla dottrina statale, interessi diffusi. Situazioni
caratterizzate dalla loro diffusione in capo a una serie di titolari, non
legati da rapporti giuridici preesistenti con il bene tutelato, il quale
tra l’altro, data la rilevanza comunitaria, è proprio insuscettibile di
appropriazione esclusiva 1.

* Il presente articolo costituisce una sintesi basata sulle principali considerazioni contenute nella tesi di
laurea dell’Autore (G. TOGNONI, La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico, 1994, pp. 436),
discussa nel febbraio 1994 presso l’Università degli studi di Pisa.
1
Per l’individuazione della figura dell’interesse diffuso nell’esperienza statale e per ampi richiami biblio-
grafici cf ex multis: V. DENTI, Interessi diffusi, in Nuovissimo Digesto, app. III, Torino 1983, pp. 305-313;
G. ALPA, Interessi diffusi, in Digesto Sez. Civile, IX, Torino 1993, pp. 609- 617; M. NIGRO, Le due facce del-
l’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Il Foro italiano 112/V
(1987) 7-20; AA.VV., Rilevanza e tutela degli interessi diffusi: modi e forme di individuazione e protezione
degli interessi della collettività, Milano 1978.
322 Gianni Tognoni

In particolare, di situazioni di contitolarità di un siffatto interes-


se in capo a una serie di soggetti, si è già più volte occupata anche la
Sectio Altera del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Tale sezione, istituita da Paolo VI con la Costituzione Apostolica
Regimini Ecclesiae Universae del 15 agosto 1967 2, ha il compito spe-
cifico – ribadito dall’art. 123 della recente Costituzione Apostolica
Pastor bonus 3 – di giudicare sui ricorsi contro gli atti emessi dall’au-
torità amministrativa ecclesiastica «quoties contendatur num actus
impugnatus legem aliquam in decernendo vel in procedendo violave-
rit» 4, disponendo non solo l’eventuale annullamento dell’atto ma, se
richiesto, anche il dovuto risarcimento dei danni causati da tale ille-
gittimo provvedimento 5.
1. Con il decreto Vestmonasterien del 31 marzo 1979 6, la Segna-
tura Apostolica ha affrontato il caso di un religioso che aveva impu-
gnato l’approvazione ad experimentum di nuove Costituzioni da parte
del Capitolo del proprio istituto religioso, asserendo che tale appro-
vazione non solo esorbitava dalle facoltà concesse dal Concilio Vati-
cano II e dal M.P. Ecclesiae Sanctae, ma sovvertiva la genuina indole
religiosa dello stesso istituto 7.
In questo caso il religioso si faceva portatore di un interesse
condiviso quantomeno da tutti i membri del proprio ordine, e fonda-
to sul timore che l’efficacia ad experimentum di queste nuove Costi-

2
Cost. Ap. Regimini Ecclesiae Universae, De Romana Curia, 15 agosto 1967.
3
Cost. Ap. Pastor Bonus, De Romana Curia, 28 giugno 1988.
4
Per un’ampia esposizione delle caratteristiche e dei limiti del sindacato della Sectio Altera, si rimanda
ex multis a: P. MONETA, Il controllo giurisdizionale sugli atti dell’autorità amministrativa, Milano 1973;
ID., Giustizia amministrativa (dir. can.), in Enciclopedia Giuridica, XV, Roma 1988, pp. 1-8 (con ampie
citazioni bibliografiche); I.J. GORDON, De obiecto primario competentiae «Sectionis Alterius» Supremi
Tribunalis Apostolicae, in Periodica 68 (1979) 505-542; Z. GROCHOLEWSKI, La Sectio Altera della Segnatu-
ra Apostolica con particolare riferimento alle procedure in essa seguite, in Apollinaris 54 (1981) 65-110;
E. LABANDEIRA, La tutela de los derechos subietivos ante la Sección II de la Signatura Apostolica, in Atti
del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Milano 1981, pp. 571-580; G.P. MONTINI, Il risarci-
mento del danno provocato dall’atto amministrativo illegittimo e la competenza del Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica, in AA.VV., La giustizia amministrativa nella Chiesa, Città del Vaticano 1991,
pp. 179-220; A. SABATTANI, Iudicium de legitimitate actuum administrativorum a Signatura Apostolica
peractum, in Ius Canonicum 16 (1976) 229-243; D. STAFFA, De Supremo Tribunali Administrativo seu de
Secunda Sectione Supremi Tribunalis Signaturae Apostolicae, in Periodica 61 (1972) 19 ss. Numerose al-
tre citazioni, oltre che nei suindicati contributi, possono rinvenirsi in: F. SALERNO, Il giudizio presso la
Sectio Altera del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, in AA.VV., La giustizia amministrati-
va..., cit., p. 126, nota 4.
5
Per l’eventuale pronuncia di risarcimento del danno vedi specificatamente: G.P. MONTINI, Il risarci-
mento del danno..., cit., pp. 179-220.
6
Commentarium pro religiosis 60 (1979) 263-266.
7
«In recognoscendis Constitutionibus Instituti facultates a Concilio Vaticano II et M.P. executivo Eccle-
siae Sanctae concessas praetergressa essent, atque indolem religionis genuinam subvertissent» (ibid., 264).
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 323

tuzioni, soprattutto se largamente protratta, potesse introdurre nella


vita religiosa qualcosa di contrario al fine, alla natura e alla stessa in-
dole dell’istituto 8. Appare dunque evidente il fatto che il pregiudizio
temuto dal ricorrente interessava un bene chiaramente riconducibile
a una serie di titolari e al quale egli non era collegato da nessun rap-
porto giuridico preesistente, bensì da un apprezzabile interesse alla
salvaguardia e alla promozione dell’indole religiosa dell’istituto di cui
era membro.
E in maniera significativa il Supremo Tribunale in sede di Colle-
gio giudicante, pur rilevando che l’impugnazione del ricorrente ri-
guardava le innovazioni alle Costituzioni disposte dal Capitolo del
suo istituto, atto concernente non la potestà amministrativa ma la po-
testà quasi-legislativa, e dunque concludendo che «recursus non est
admittendus ad disceptationem» 9, riconosce apertamente che detta
istanza appare alquanto fondata, e perciò ammonisce l’Autorità com-
petente al riconoscimento delle Costituzioni, affinché prudentemen-
te si premuri di far sì che anche nell’espletamento di tale potestà
vengano sempre riconosciuti e assecondati lo spirito, i propositi, e le
sane tradizioni dei Fondatori 10.
2. La particolare situazione sostanziale di chi appartiene a una
determinata comunità, che si reputa pregiudicata a seguito di un
provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, per l’annullamen-
to del quale interpone autonomamente ricorso al Supremo Tribunale
della Segnatura Apostolica, appare ugualmente individuabile, con i
medesimi caratteri poc’anzi evidenziati, anche nella posizione giuri-
dica di un laico che ha proposto ricorso contro la Lettera della Con-
gregazione per il Culto Divino del 3 ottobre 1984, disciplinante le
modalità riguardanti l’uso dell’edizione tipica del Messale Romano,
dolendosi dell’illegittimità delle norme stabilite in tale lettera. Anche
in questo caso, la Sectio Altera della Segnatura Apostolica non si è

8
«Induci in vitam religiosam aliquid quod sit contra finem, naturam et indolem Instituti» (ibid., 265).
9
«Recursus Fratris Anastasii est contra innovationes factas a Capitulo in Constitutionibus sui Instituti et
materia haec non pertinet ad potestatem administrativam: spectat potius ad potestatem quasi legislati-
vam» (L. cit.).
L’ineccepibile pronuncia, basata sul tenore dell’art. 73 § 2 della Costituzione Apostolica Regimini Eccle-
siae Universae, ribadiva la competenza a tale approvazione da parte della Congregazione per i religiosi
e gli istituti secolari, ma negava che tale potestà fosse qualificabile come amministrativa e dunque sin-
dacabile da parte della Sectio Altera.
10
«In hac instantia aliquid veri inesse (et ideo cauta esse debet Auctoritas competens recognoscendis Con-
stitutionibus, adeo ut “fideliter agnoscantur et serventur Fundatorum spiritus propriaque proposita, nec-
non sanae traditiones”, ut Concilium praescribit in Decr. Perfectae caritatis, 2b)» (L. cit.).
324 Gianni Tognoni

addentrata nel “proprium” della censura avanzata, ritenendo il ricor-


so inammissibile in quanto proposto fuori dai termini di legge, avver-
so alle norme stabilite dal Santo Padre (cf can. 1404), e contro un at-
to amministrativo non singolare (cf can. 1732) 11, dal che risultava
preclusa ogni possibilità di affrontare l’analisi del merito del ricorso
e giungere a un’eventuale qualificazione della posizione giuridica
con esso vantata 12.
3. Ancora sulla stessa linea, si colloca il ricorso che la Sectio Al-
tera ha giudicato con decreto del Collegium Iudicans in data 21 no-
vembre 1987 13.
In questo caso tuttavia, l’analisi svolta dalla Sectio Altera offre
importanti spunti per contribuire a individuare le caratteristiche del-
l’interesse diffuso. Il caso concreto è a tal proposito abbastanza
esemplificativo: riguardava un ricorso proposto da un gruppo di par-
rocchiani, in quell’occasione riunitisi in un comitato, per far accerta-
re l’illegittimità di un atto dell’Arcivescovo che ordinava la soppres-
sione della loro chiesa parrocchiale. In particolare, il decreto dell’Ar-
civescovo disponeva la riduzione della chiesa parrocchiale a uso
profano, ai sensi del can. 1222 § 2, ricorrendo ad avviso dell’autorità
amministrativa gravi ragioni di natura pastorale e di opportuna am-
ministrazione, che consigliavano appunto tale soppressione e la ri-
conduzione dei parrocchiani a una chiesa parrocchiale limitrofa.
Di contro, i parrocchiani assumevano l’illegittimità di tale prov-
vedimento, lamentando che questo violava il can. 1222 § 2, impeden-
do loro l’esercizio dei propri legittimi diritti, tra i quali il diritto a trar-
re giovamento dai beni spirituali della Chiesa (can. 213), il diritto di
rendere culto a Dio (can. 214), il diritto-dovere di sovvenire alle ne-

11
Il tenore del can. 1732 potrebbe apparentemente apparire preclusivo della possibilità per il titolare di
un interesse diffuso di impugnare un atto amministrativo ritenuto illegittimo di fronte alla Segnatura
Apostolica, e ciò in quanto non potendo egli essere il destinatario di un atto amministrativo singolare
(nel caso infatti sarebbe titolare di un vero diritto soggettivo al suo annullamento), mai potrebbe pari-
menti ritenersi legittimato a ricorrere. Tuttavia tale apparente preclusione, e l’obiezione a essa appa-
rentemente antecedente, è ampiamente superabile concordando con la migliore dottrina, allorché ritie-
ne impugnabili di fronte al Tribunale della Segnatura Apostolica anche gli atti amministrativi generali
(cf Z. GROCHOLEWSKI, Atti e ricorsi amministrativi, in Apollinaris 57 [1984] 269; P. MONETA, Il controllo
giurisdizionale..., cit., pp. 94-96), e considerando comunque che anche di fronte a un illegittimo atto am-
ministrativo singolare, possibili pregiudicati sono pure terzi soggetti, non solo il destinatario o i desti-
natari di esso (si pensi all’illegittima rimozione di un parroco, in rapporto all’interesse dei parrocchiani
a continuare ad avvalersi del suo servizio).
12
Il caso è menzionato in L’attività della Santa Sede 1988 (decreto del 13 ottobre 1988, p. 1404).
13
Decreto 21 novembre 1987, card. Castillo Lara ponente, pubblicato in Communicationes 20 (1988)
88-94; in Ius Ecclesiae 1 (1989) 197 ss.; in Il Diritto Ecclesiastico 100/II (1989) 3 ss. Nel prosieguo del-
l’esposizione, verranno effettuati richiami al testo pubblicato in Ius Ecclesiae.
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 325

cessità della Chiesa (can. 222), nonché il diritto a intervenire nelle


realtà temporali con spirito evangelico (can. 225). Anche in questa
occasione dunque, pur traendo indirettamente fondamento giuridico
dall’asserita violazione di diritti fondamentali del fedele riconosciuti
a qualsiasi soggetto di diritto nell’ordinamento canonico, la posizio-
ne giuridica azionata dai ricorrenti, uniti per l’occasione in un comi-
tato, riguardava un bene di carattere tipicamente comunitario, non
suscettibile di appropriazione esclusiva, e infatti condiviso da una
pluralità di fedeli; ma soprattutto, denotava un legame non diretto
con il bene pregiudicato, ossia la presenza di una statuizione norma-
tiva che solo indirettamente qualificava e reputava meritevole di tute-
la la situazione sostanziale azionata dal ricorrente comitato.
D’altronde, a implicita conferma della menzionata rilevanza e
delle problematiche peculiarità che simili rivendicazioni assumono
nell’ambito ecclesiale, di fronte a tale ricorso la Sectio Altera ha sen-
tito la necessità di chiedere l’intervento della Pontificia Commissio-
ne per l’interpretazione autentica. E quest’ultima, sottopostole il que-
sito se un’aggregazione di fedeli, sprovvista della personalità giuridi-
ca e della recognitio ex can. 299 § 3, possieda la legittimazione attiva
a interporre ricorso gerarchico contro un decreto del proprio Vesco-
vo diocesano, ha risposto negativamente, escludendo la legittimazio-
ne di un siffatto ente collettivo, ma affermando la legittimazione ad
agire in capo a ogni fedele, agente sia singolarmente sia congiunto
processualmente ad altri, purché ognuno di essi sia veramente pre-
giudicato dall’atto amministrativo impugnato; requisito quest’ultimo,
nella valutazione del quale, secondo il responso, è opportuno che il
giudice disponga di una congrua discrezionalità 14.
Tra i tanti, l’aspetto importante che emerge da tale responso è
che il tipo di interesse vantato dal ricorrente comitato viene giudica-
to non azionabile da tale organizzazione, la quale risultava sprovvista
della necessaria recognitio di cui al can. 299 § 3 15, ma azionabile da

14
Responso della Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica reso in data 29 aprile 1987,
pubblicato in AAS (1988) 1818; in Periodica 78 (1989) 261-268, con nota di P.A. BONNET; in Apollinaris
61 (1988) 634-637 con nota di P. TOCANEL; in Ius Canonicum 31 (1991) 211-217 con nota di J. MIRAS.
Questo il testo latino del quesito: «Utrum christifidelium coetus, personalitatis iuridicae, immo et reco-
gnitionis de qua in can. 299 § 3, expers, legitimationem activam habeat ad recursum hierarchicum pro-
ponendum adversus decretum proprii Episcopi diocesani»; e della risposta: «Negative, qua coetus; affir-
mative, qua singuli christifideles sive singillatim sive coniunctim agentes, dummodo revera gravamen
passi sint. In aestimatione autem huius gravaminis iudex congrua discretionalitate gaudeat oportet».
15
Invero, il responso lascia apparentemente impregiudicato il problema se la legittimazione ad agire
debba essere riconosciuta ai soli enti eretti in persona giuridica, ovvero anche agli enti dotati della re-
cognitio di cui al can. 299 § 3. Tuttavia, la seconda interpretazione appare preferibile in quanto non solo
326 Gianni Tognoni

ogni singolo titolare, sia che agisca singolarmente sia che agisca
congiuntamente ad altri.
Basandosi su queste argomentazioni e pur ammettendo che il
codice di diritto canonico ha riconosciuto nel can. 1476 una ampia
capacità processuale al singolo individuo (battezzato o meno) di adi-
re la giurisdizione del giudice ecclesiastico, la Sectio Altera ha nel ca-
so concreto precisato che per poter invocare legittimamente l’inter-
vento del giudice, oltre alla capacità processuale occorre essere in
possesso della cosiddetta legittimazione ad causam o legittimazione
attiva, con ciò intendendosi la capacità concreta di poter adire il giu-
dice chiedendo la risoluzione di una determinata controversia, van-
tando quella peculiare e giuridicamente tutelata relazione con l’og-
getto della controversia 16. Una relazione che, argomentando dal
tenore del can. 1737 § 1, a giudizio del supremo giudice amministra-
tivo può riscontrarsi soltanto in presenza di un reale pregiudizio in-
ferto da parte dell’atto amministrativo assunto come illegittimo; un
pregiudizio il quale a sua volta presuppone che il ricorrente sia tito-
lare di un interesse «personale, directum, actuale et a lege, saltem in-
directe, tutelatum» 17.
Ciò in quanto il titolo giuridico sufficiente per ricorrere, dipen-
de proprio dalla natura e dall’intensità del pregiudizio subito 18, il
quale deve comunque essere degno di considerazione giuridica e
non certo riguardare la semplice lesione di una qualsiasi utilità o co-
modità, bensì la lesione del suindicato tipo di interesse fondato nella

più rispettosa del libero esercizio, riconosciuto anche nell’ordinamento canonico, del fondamentale di-
ritto di associazione, ma poiché più attenta all’esperienza della vita associativa nella Chiesa. Per un’am-
pia e autorevole giustificazione di tale opzione interpretativa, cf comunque P. MONETA, I soggetti nel giu-
dizio amministrativo ecclesiastico, in AA.VV., La giustizia amministrativa..., cit., pp. 57-58; della stessa
opinione C. VENTRELLA, La tutela degli interessi diffusi nel diritto amministrativo italiano e nell’ordina-
mento canonico, in AA.VV., Diritto canonico e comparazione, Torino 1992, p. 191. Parimenti, per impor-
tanti spunti sul ruolo e la disciplina della vita associativa ecclesiale, nonché sulle modalità di adozione
della recognitio ex can. 299 § 3, cf C. REDAELLI, Le aggregazioni laicali nella Chiesa, in Quaderni di dirit-
to ecclesiale 6 (1993) 441-453.
16
«Ut quis ministerium iudicis legitime invocare possit, praeter capacitatem processualem habeat oportet
sic dictam legitimationem ad causam seu legitimationem activam... uti legitimatio activa intelligitur ca-
pacitas concreta ut quis ad determinatam controversiam solvendam tribunal adire possit. Quae legitima-
tio nihil aliud est quam peculiaris et iuridice tutelata relatio cum obiecto controversiae» (Decreto del 21
gennaio 1987, pp. 199-200).
17
È stato invero autorevolmente osservato in dottrina che, alla base di tale richiesta, sussiste un’equi-
voca commistione tra interesse fatto valere e tutelato e interesse ad agire; infatti «mentre il primo
dev’essere in lege fundatum, il secondo esige solo che per il ricorrente si configuri, in caso di vittoria
processuale, un reale, personale, diretto e attuale vantaggio» (G.P. MONTINI, Il risarcimento del dan-
no..., cit., p. 197).
18
«...determinandum est num revera habeatur fundamentum seu titulus iuridicus sufficiens ad recurren-
dum, quod pendet a natura et quantitate gravaminis passi» (Decreto del 21 gennaio 1987, p. 202).
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 327

legge 19. Questione quest’ultima, che ad avviso della Segnatura Apo-


stolica, incidendo direttamente sulla ricorrenza o meno degli ele-
menti riguardanti la legittimazione ad agire del ricorrente, non ap-
partiene «ad meritum causae... Agitur de praeliminari examine ad
comprobandum utrum interesse, quod dicitur laesum... conditionibus
respondeat supra memoratis» 20.

4. Con decreto del 26 gennaio 1990 21, il Supremo Tribunale del-


la Segnatura Apostolica ha risolto identicamente un caso analogo a
quello appena citato, rilevando un difetto di legittimazione attiva mo-
tivato con le stesse espressioni sopra riportate. Il caso riguardava il
ricorso di un parrocchiano, che anche a nome di altri fedeli dai quali
era stato costituito procuratore, aveva interposto impugnazione con-
tro un decreto del proprio Arcivescovo, poi confermato in sede di ri-
corso gerarchico, con il quale si disponeva il restauro della chiesa
parrocchiale e la ridisposizione degli arredi sacri della stessa, in
conformità con quanto stabilito dalla Costituzione conciliare Sacro-
sanctum Concilium (art. 128) e dalla Istruzione Inter oecumenici
(n. 90). Oltre alla violazione della suindicata normativa, tale ricorso
lamentava la violazione dei cann. 1292 § 2 e 1295, asserendo che l’in-
novazione era stata disposta senza la licenza della Santa Sede, neces-
saria secondo tali norme per gli affari di ammontare superiore al-
la somma stabilita dalla Conferenza Episcopale locale (cf can. 1292
§ 1). Si assumeva infine che la situazione sostanziale azionata, e nel

19
«Non de quocumque gravamine agitur, sed de gravamine iuridica consideratione digno, quod revera
habetur non propter laesionem cuiuscumque utilitatis aut commodi, sed propter laesum interesse persona-
le, directum, actuale, in lege fundatum et proportionatum» (ibid., p. 201).
20
In questo caso l’interesse azionato dai fedeli ricorrenti, senza dubbio diffuso viene ritenuto «non in
lege ita fundatum ut legitimet verum recursum» (ibid., p. 202). Occorre tuttavia dissentire da questa af-
fermazione, che sembra quasi sottointendere una sorta di gradazione del radicamento di un interesse
nella legge così da concedere o negare la legittimazione ad agire se tale interesse non raggiunge un
certo livello di “profondità legislativa”. Un interesse o è tutelato (anche indirettamente) o non è tutelato
dalla legge: tertium non datur. Del resto, se si esclude la titolarità della legittimazione ad agire in capo a
un certo gruppo di fedeli, ciò vuol necessariamente dire che tali soggetti non sono titolari dell’interesse
dedotto in giudizio, poiché la legittimazione processuale consiste proprio, nell’affermarsi titolare del-
l’interesse che si vuole veder tutelato, non nell’essere titolare di un interesse effettivamente preso in
considerazione dall’ordinamento. In questo secondo caso siamo di fronte ad una questione attinente al
merito del ricorso, e segnatamente al fatto se sulla base della situazione azionata sussista un vero dirit-
to riconosciuto dalla legge a ottenere la pronuncia richiesta: in tal caso spetterà al giudice verificare la
fondatezza del diritto e al limite dichiararne la non meritevolezza. Ma se il giudice ritiene non legittima-
ti alcuni soggetti, si deve limitare a dichiarare non facultizzati tali soggetti a rivendicare la tutela dell’in-
teresse davanti a lui dedotto, non può in alcun modo motivare la sua decisione dalla non sufficiente
considerazione giuridica di esso, altrimenti compierebbe una valutazione di merito.
21
Decretum de causa Cincinnatensi, in Notitiae 26 (1990) 142-144.
328 Gianni Tognoni

caso concreto pregiudicata dall’attuazione del provvedimento impu-


gnato, si fondava nel generale diritto dei fedeli, consacrato nel can.
214, a rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito.
Invero la Segnatura ha escluso l’ammissibilità del ricorso, ne-
gando la legittimazione attiva del ricorrente e aggiungendo che il
pregiudizio da quest’ultimo addotto non assurge a giuridica conside-
razione, in quanto la soppressione di una Chiesa, così come la rinno-
vazione dei suoi arredi, può essere motivo di mere difficoltà, rivendi-
cabili tramite una petitio gratiae, non già di un pregiudizio tanto fon-
dato nella legge da legittimare la proposizione di un vero e proprio
ricorso giuridico 22.
D’altronde, la decisione della Sectio Altera era nel caso dettata
dalla preliminare considerazione che non esisteva la violazione del
can. 214 paventata dal ricorrente, e ciò in base all’assunto che tale di-
ritto non deve ritenersi vincolato a una determinata chiesa parroc-
chiale o edificio sacro, e tantomeno alla loro costruzione e decora-
zione interna 23. Per il resto comunque, la laconicità della motivazio-
ne, che invero costituisce un rinvio a quanto già affermato nel citato
decreto del novembre 1987, non permette di ricavare da tale ultima
vicenda nuovi apporti concreti alla sistemazione teorica operata sulle
situazioni a carattere diffuso tutelabili presso gli organi di giustizia
amministrativa canonica.

5. Aspetti interessanti invece, quantomeno per l’apparente diver-


so orientamento che sembra emergere, assumono alcuni dei successi-
vi casi esaminati dal Supremo Tribunale dalla Segnatura Apostolica 24.
Il 25 gennaio 1991 è stato respinto a limine, ancora per difetto
di legittimazione attiva del ricorrente, il ricorso di un laico di una
diocesi degli Stati Uniti avverso la Congregazione per il Clero, ri-

22
«Non sufficit quodcumque gravamen, ut quis legitimatione activa gaudeat ad recursum iuridicum in-
stituendum; requiritur gravamen iuridica consideratione dignum, quod revera habetur non propter lae-
sionem cuiscumque utilitatis vel commodorum, sed propter laesum interesse personale, directum, actuale,
in lege fundatum et proportionatum... sicut suppressio ecclesiae, ita etiam renovatio ecclesiae fons esse po-
test quorundam incommodorum vel difficultatum; sed huiusmodi interesse, etsi reale, non apparet in lege
ita fundatum ut legitimet verum recursum; ansam quidem praebere potest pro petitione gratiae, minime
vero pro recursu iuridico» (ibid., 143-144).
23
«Ius, de quo in can. 214, cum quadam ecclesia paroeciali vel aede sacra vinculatum non est, eo vel
minus cum eiusdem interna dispositione, decoratione et ornatu» (ibid., 144).
24
In ordine a tali casi purtroppo, non constando pubblicazione integrale alcuna, occorre necessaria-
mente rifarsi ai puntuali ma laconici riferimenti reperiti in L’attività della Santa Sede, sub voce Segnatura
Apostolica. Una brillante e acuta rassegna, tuttavia non ancora edita, è stata condotta da I. ZUANAZZI,
La legittimazione a ricorrere uti fidelis per la tutela degli interessi comunitari, di prossima pubblicazione.
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 329

guardante la soppressione di una parrocchia 25. Il ricorrente lamenta-


va nel caso concreto la mancata preventiva audizione dei fedeli inte-
ressati da tale decisione, e, più in generale, il diritto di questi ultimi a
conservare la loro chiesa parrocchiale, sempre in base al già richia-
mato can. 214. La Sectio Altera ha riconfermato la già esposta inter-
pretazione di tale disposizione, ed ha parimenti escluso che sussista
un obbligo di preventiva audizione dei parrocchiani prima della sop-
pressione di una parrocchia o di una chiesa.
6. Analoga decisione per il medesimo tipo di impugnazione – ri-
corso di un laico avverso la soppressione della sua parrocchia – è sta-
ta adottata dal Congresso della Segnatura in data 14 gennaio 1992 26.
7. Invece con pronuncia del 20 giugno 1992, e ancora in un caso
di soppressione di una parrocchia, il Collegio Giudicante ha ammes-
so la legittimazione ad agire da parte di due laici, avverso l’atto del
Vescovo diocesano che disponeva la soppressione di una parrocchia,
e ne ha altresì disposto l’annullamento per violazione dei cann. 515
§ 2 e 1222 § 2 27.
8. E identica decisione, quanto alla fattispecie oggetto della co-
gnizione giudiziale e quanto alla portata della pronuncia emanata, la
Segnatura Apostolica ha adottato in data 16 gennaio 1993 sempre di
fronte a un atto amministrativo disponente la soppressione di una
parrocchia 28.
Soprattutto questi ultimi brevi riferimenti, evidenziano una cer-
ta evoluzione della giurisprudenza della Segnatura Apostolica in te-
ma di tutela degli interessi diffusi, e una sempre più completa perce-
zione di quali siano i meritevoli aspetti di rilevanza sostanziale assun-
ti da tale posizione giuridica anche nell’ordinamento canonico.

Elementi peculiari degli interessi diffusi


Ma quali sono i tratti emergenti dalla breve analisi giurispru-
denziale operata circa tali posizioni giuridiche?

25
Il caso è menzionato in L’attività della Santa Sede 1991 (Decreto del 25 gennaio 1991, prot. n. 21896/
90 C.A.), p. 1304.
26
Cf L’attività della Santa Sede 1992 (Decreto del 14 gennaio 1992, prot. n. 21023/89 C.A.), p. 1115.
27
Cf ibid., (Decreto del 20 giugno 1992, prot. 22036/90 C.A.), p. 1117.
28
Cf L’attività della Santa Sede, 1993(Decreto del 16 gennaio 1993, prot. n. 22036/90 C.A.), p. 1269.
330 Gianni Tognoni

Ponendoci nella prospettiva del singolo titolare di un interesse


diffuso possiamo dire che:
1) egli è titolare di un certo interesse verso un bene di rilevanza
generale (i casi brevemente esaminati nella rassegna sovraesposta
presentano tutti doglianze relative alla lesione di un bene che è di ca-
rattere tipicamente comunitario e non esclusivo: si pensi all’indole
spirituale dell’istituto o alla conservazione della chiesa parrocchiale);
2) rispetto al quale non è direttamente e giuridicamente legato
e identificato, se non indirettamente, per effetto di una situazione di
fatto che lo pone a contatto di questo bene (ossia esiste una norma
giuridica che solo del tutto indirettamente qualifica e tutela la sua
posizione rispetto a quel determinato bene: cf, per esempio, il gene-
rale dovere dei fedeli di azionarsi a tutela dei beni o della communio
ecclesiale, e le forme generiche ivi utilizzate, come nel can. 1222 § 2);
3) per giunta egli condivide tale posizione con una serie di sog-
getti tutti legati a tale bene da un identico nesso e da un concorrente
e incomprimibile godimento dello stesso 29 (sussiste dunque una plu-
ralità di titolari che è logica e diretta conseguenza della predetta rile-
vanza del bene tutelato);
4) bene che tra l’altro, proprio in quanto oggetto di tale interes-
se, è, ontologicamente, insuscettibile di appropriazione esclusiva e
inidoneo al godimento di un singolo titolare a scapito degli altri “con-
titolari” (questa conformazione dei beni di rilevanza comunitaria non
può assolutamente non riscontrarsi anche nell’ordinamento canoni-
co, ove ogni bene è frutto della communio Ecclesiae).
Il rapporto tra soggetto e bene tutelato perciò, oltre a essere in-
distinto stante la riproduzione seriale del godimento e della titolarità
dell’interesse su tale bene, viene altresì slegato da qualsiasi relazio-
ne giuridica idonea a evidenziarne e a differenziarne l’esistenza. Da
qui l’elemento di particolare novità e di difficile “catalogazione teori-
ca” che connota l’interesse diffuso. È di tutta evidenza il problema
che si pone all’operatore giuridico: confrontarsi con un interesse ri-
conosciuto solo indirettamente da una disposizione legislativa – e
quindi non oggetto di quella qualificazione normativa necessaria a e-
levare l’interesse presupposto del singolo a situazione giuridica sog-

29
Da ciò la felice espressione coniata dalla dottrina statale, dell’interesse diffuso quale «interesse se-
riale... simultaneamente riferibile a più soggetti» (V. CAIANELLO, Manuale di diritto processuale ammini-
strativo, Torino 1991, p. 159), che connota una vera e propria riproduzione, quasi fotostatica, di una si-
tuazione sostanziale in capo a una pluralità indeterminata di soggetti.
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 331

gettiva direttamente identificabile e azionabile – ma rispetto al quale


«allo sbiadimento dei profili individualistici corrisponde un’accentua-
zione dei profili di rilevanza sociale» 30.

Gli interessi diffusi come interessi personali, diretti e attuali


La Sectio Altera della Segnatura Apostolica dunque, di fronte a
situazioni tipicamente riconducibili ai cosiddetti interessi diffusi 31,
ha ribadito che per essere legittimati ad adire gli organi del conten-
zioso amministrativo occorre essere titolari di un interesse «persona-
le, directum, actuale et a lege, saltem indirecte, tutelatum». Non ha
tuttavia mai affermato che l’interesse azionabile singolarmente – e
non attraverso un comitato – dai ricorrenti, non presentasse questi
requisiti. O meglio, ha escluso soltanto la qualificazione normativa di
tale interesse da parte delle disposizioni che i ricorrenti asserivano
violate. Si è in pratica escluso che tale interesse fosse tutelato dalla
legge «saltem indirecte», non già che mancassero anche gli altri re-
quisiti richiesti per legittimare il ricorso amministrativo.
Dal che, è doveroso verificare se nell’ordinamento canonico la
suddetta situazione sia destinata a non assurgere al rango di posizio-
ne giuridica giudizialmente rivendicabile, o sia invece qualificabile,
come richiede la Segnatura Apostolica, quale «interesse personale, di-
rectum, actuale et a lege, saltem indirecte, tutelatum», e dunque azio-
nabile di fronte agli organi di giustizia amministrativa.
Ma quando un «interesse personale, directum, actuale» è riscon-
trabile anche all’interno della schiera dei cosiddetti interessi diffusi?
L’argomento meriterebbe ben più ampia trattazione, ma è in-
dubbiamente passibile di riserva la richiesta di una personalità del-
l’interesse in capo a situazioni che presentano natura spiccatamente
comunitaria, tanto più se, quantunque non esista alcun dato normati-
vo che si esprima in termini così restrittivi, tale personalità venga in-
tesa in termini di esclusività 32.

30
A. ROMANO, Il giudice amministrativo di fronte al problema della tutela degli interessi cosiddetti diffu-
si, in Il Foro italiano 103/V (1978) 19.
31
Il riferimento a tale posizione giuridica è indubbio tra i più autorevoli commentatori delle pronunce
della Segnatura Apostolica. Vedi per tutti P. MONETA, I soggetti nel giudizio amministrativo ecclesiastico,
cit., p. 64.
32
Perplessità per la riconduzione del requisito della personalità nei termini di esclusività della situazio-
ne giuridica vantata, esprime lo stesso Moneta in ibid., p. 66; cui adde C. VENTRELLA, La tutela degli in-
teressi diffusi..., cit., pp. 185-186.
332 Gianni Tognoni

Infatti, è opportuno ricondurre il dato della personalità dell’inte-


resse almeno nei termini dell’individualità anziché dell’esclusività
della situazione vantata, e questo non per giustificare forzatamente
l’introduzione degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico, ben-
sì solo per non urtare la vera natura delle situazioni giuridiche eccle-
siali. È importante ricordare nell’ambito ecclesiale la basilare rela-
zione sussistente tra la singola situazione giuridica soggettiva e il
fine supremo dell’ordinamento: relazione che non può certo ammet-
tere una concezione della prima in termini di stretta esclusività in ca-
po al suo titolare. La situazione soggettiva canonica è sicuramente
autonoma e individuale, tanto è vero che, quando è riconosciuta, può
essere azionata a discrezione di chi ne è il titolare. Ma certamente
non è esclusiva, almeno nel senso di rivendicabile esclusivamente da
parte di un solo soggetto per tutelare il suo interesse a un certo be-
ne della vita.
Interpretare infatti in tal senso l’esclusività della situazione azio-
nata, produrrebbe l’accentuazione di quei connotati di conflittualità
che la tradizione statale liberale ha spesso addossato in capo agli in-
teressi azionabili dal cittadino nei confronti del potere dello Stato 33.
Non bisogna invece dimenticare che nell’ordinamento canonico «o-
gni autentico esercizio della libertà dei fedeli, e parimenti qualunque
autentico uso del potere ecclesiastico, debbono tendere sempre alla
stessa finalità, cioè alla salvezza delle anime, fine soprannaturale del-
la Chiesa, che dà senso a tutte le dimensioni della sua missione» 34.
Ciò dimostra che non c’è spazio nel diritto canonico per una visione
delle posizioni giuridiche in termini di stretta esclusività, di persona-
lità che legittima una rivendicazione erga o contra omnes, e questo
perché con la tutela della singola situazione giuridica viene contem-
poraneamente tutelato e perseguito il fine e l’interesse dell’intero or-
dinamento 35. Una situazione giuridica può soggettivizzarsi in capo a
un singolo titolare o in capo a una pluralità di soggetti, ma ciò non si-
gnifica che solo nel primo caso tale situazione potrà definirsi perso-
nale; nell’ordinamento della Chiesa il termine personalità non indica

33
Cf J. HERRANZ, La giustizia amministrativa nella Chiesa: dal Concilio Vaticano Il al codice del 1983,
in AA.VV., La giustizia amministrativa..., cit., p. 17.
34
J.I. ARRIETA, Diritto soggettivo (diritto canonico), in Enciclopedia Giuridica, XI, Roma 1989, 3.
35
In tal senso, seppur partendo da un’inaccettabile visione che degrada la giustizia amministrativa a
forma di tutela oggettiva, che prescinde dalle posizioni giuridiche dei singoli, cf la posizione di R. BAC-
CARI, La giustizia amministrativa in funzione partecipativa, in Studi in onore di P.A. D’Avack, Milano
1976, pp. 161-176.
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 333

una titolarità esclusiva, ma una titolarità “indipendente” del singolo 36.


Di conseguenza un interesse va considerato personale, sia quando re-
sti individuato in capo a un solo soggetto che lo aziona per vedere le-
gittimamente tutelate le prerogative riconosciutegli dall’ordinamento,
sia quando, diversamente, appartenga a una serie di soggetti comun-
que capaci, come ci conferma il responso succitato di interpretazio-
ne autentica, di azionarlo autonomamente. La personalità va perciò
intesa nel senso di autonoma azionabilità dell’interesse tutelato e
non come capacità di essere l’unico portatore dello stesso.
Fatta questa considerazione va aggiunto che anche gli altri re-
quisiti richiesti affinché l’interesse posseduto sia azionabile giudi-
zialmente non urtano con le caratteristiche che un interesse di natu-
ra diffusa potrebbe assumere nell’ordinamento canonico.
Non appare infatti preclusiva la circostanza che l’interesse van-
tabile debba essere “directum”. Requisito da addossare all’autonoma
disponibilità dello stesso, alla capacità di porre immediatamente in
essere – di persona e senza l’ausilio di intermediari o rappresentan-
ti – quanto è riconosciuto a tale diritto, e non al fatto che quest’ulti-
mo sia tutelato e riconosciuto in via diretta dalla legge. Quest’ultima
interpretazione appare espressamente esclusa dalla circostanza che
la stessa Sectio Altera ritiene meritevole di tutela giurisdizionale an-
che un interesse «tutelatum a lege saltem indirecte» concedendo per-
ciò un’incontestabile prospettiva di tutela a quelle situazioni che, al
pari degli interessi diffusi, sono contraddistinte da un riconoscimen-
to solamente indiretto nel precetto legislativo.
Di per sé infine, un interesse diffuso può certamente reputarsi
“actuale”, nel senso di direttamente azionabile in giudizio, non ostan-
do alcuna condizione all’esercizio delle facoltà a esso riconosciute.
Però, è doveroso precisare che l’ermeneutica di questo requisito va
rimodellata tenendo conto che dopo la Costituzione Apostolica Pa-
stor bonus, il petitum prospettabile presso la Sectio Altera può riguar-
dare sia l’annullamento dell’atto che il risarcimento dei danni provo-
cati dallo stesso. L’attualità dell’interesse vantato deve quindi coglier-
si in relazione alla prima domanda e, se richiesto, anche al possibile
risarcimento.

36
Titolarità indipendente intesa come spettanza di una certa posizione giuridica in capo a un singolo
soggetto il quale ha facoltà di azionarla liberamente (cf dunque la personalità dell’interesse), ma che
non può accampare la pretesa di essere l’esclusivo titolare di tale situazione e del bene tutelato a essa
sotteso (cf dunque la mancanza di esclusività dell’interesse).
334 Gianni Tognoni

Criteri di individuazione degli interessi diffusi ecclesiali


L’enucleazione e l’individuazione di una categoria di interessi
diffusi dei christifìdeles deve precipuamente basarsi sulla inderogabi-
le premessa che ogni situazione giuridica necessita, per definizione,
di una considerazione e un fondamento di carattere sostanziale. Giu-
stamente la Sectio Altera ha ribadito che un interesse diviene aziona-
bile giudizialmente quando, seppur “indirecte”, viene tutelato dalla
legge. Perciò, al fine di verificare se sussistono nell’ordinamento ca-
nonico degli interessi diffusi azionabili in giudizio, occorre compiere
tale ricerca assumendo quale principio cardine quello contenuto nel
can. 1491, per cui ciò che è tutelato dal diritto canonico è azionabile
in giudizio.
Tale ricerca non può ovviamente circoscriversi a determinate
fonti soltanto, ma deve necessariamente comprendere il diritto natu-
rale, il diritto positivo, gli istituti equitativi e, più in generale, riguar-
dare e comprendere tutte le fonti di produzione del diritto della
Chiesa. E proprio da questa ampia e pregnante base normativa deve
partire l’indagine per individuare interessi diffusi tutelati e azionabili
giudizialmente: vi sono infatti varie norme che qualificano, seppur in
via indiretta, un interesse di rilevanza diffusa in capo a una serie di
soggetti che concorrono autonomamente ma non esclusivamente
nel godimento del bene pregiudicato, e molteplici fattispecie sono
rinvenibili già nel codice di diritto canonico.
A tal proposito è sufficiente avanzare alcune brevi esemplifi-
cazioni.
Secondo il can. 1215, il Vescovo diocesano deve negare il pro-
prio consenso alla costruzione di una nuova chiesa nel caso in cui
non la ritenga utile alla preservazione del bene delle anime o nel ca-
so in cui accerti la mancanza dei mezzi necessari alla sua costruzio-
ne e al culto divino 37: tuttavia, a fronte di un’errata valutazione di tali
elementi e di un conseguente denegato consenso, sembra senza
dubbio profilarsi un pregiudizio dell’interesse diffuso in una pluralità
di soggetti, a vedere innalzata una nuova chiesa, attorno alla quale
magari costituirsi in parrocchia.
In maniera analoga, è sicuramente di carattere diffuso l’interes-
se dei parrocchiani a che i beni parrocchiali non vengano pregiudi-

37
«Episcopus dioecesanus consensum ne praebeat nisi, audito consilio presbyterali et vicinarum ecclesia-
rum rectoribus, censeat novam ecclesiam bono animarum inservire posse, et media ad ecclesiae aedifica-
tionem et ad cultum divinum necessaria non esse defutura» (can. 1215 § 2).
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 335

cati dall’attuazione di disposizioni impartite dall’amministratore par-


rocchiale, che appaiano dannose per l’integrità del patrimonio della
comunità ecclesiale (cf can. 540 § 2) 38. Così come appare ugualmen-
te rapportabile alla situazione giuridica dell’interesse diffuso, l’inte-
resse dei fedeli a che, nel procedere all’alienazione di beni ecclesiali,
siano osservate rigorosamente le cautele prescritte dall’autorità le-
gittima per evitare danni alla Chiesa (cf can. 1293 § 2) 39; o che l’even-
tuale trasferimento del proprio parroco, sia congruamente dettato da
ragioni di necessità o utilità della Chiesa e del bene delle anime (cf
can. 1748) 40; o, ancora, che i beni parrocchiali siano correttamente
amministrati secondo quanto previsto dalla disciplina codicistica (cf
can. 523) 41.
Ma una volta appurato tramite siffatti semplici esempi che nelle
sopraindicate o in altre espressioni legislative viene qualificato un in-
teresse diffuso, si pone il problema di verificare chi sia legittimato –
processualmente e sostanzialmente – a procedere giudizialmente
per la tutela di questo interesse, indirettamente, ma comunque sem-
pre tutelato dall’ordinamento. Invero, la natura seriale del godimen-
to del bene tutelato da simili situazioni giuridiche, rende veramente
problematico localizzare specificatamente tale interesse in capo a un
certo ricorrente, e ciò in forza del perspicuo rilievo per cui legittima-
re indiscriminatamente al ricorso amministrativo chi sia in grado di
postulare una generica doglianza, significherebbe svilire completa-
mente il concetto di legittimazione sostanziale e di interesse diffuso
tutelato, poiché, sulla base di una mera e generica qualificazione nor-
mativa, si potrebbe invocare la tutela di un bene con il quale in realtà
non si ha alcuna relazione giuridicamente rilevante.
Per ritenere integrata la legittimazione processuale ad agire in
capo al titolare di un interesse diffuso, non essendo condivisibile l’e-
same sull’effettivo gravamen propostoci – almeno nelle prime pro-
nunce sul punto – dalla giurisprudenza della Sectio Altera brevemen-
te passata in rassegna, si tratta invece di verificare non solo, ovvia-
mente, se ricorre la pur necessaria affermazione da parte del

38
«Administator paroeciali nihil agere licet, quod... damno esse possit bonis paroecialibus» (can. 540 § 2).
39
«Aliae quoque cautelae a legitima auctoritate praescriptae serventur, ut Ecclesiae damnum vitetur»
(can. 1293 § 2).
40
«Si bono animarum vel Ecclesiae necessitas seu utilitas postulet, ut parochus a sua, quam utiliter regit,
ad aliam paroeciam aut ad aliud officium transferatur» (can. 1748).
41
«Curet ut bona paroeciae administrentur ad normam cann. 1281-1288» (can. 523).
336 Gianni Tognoni

ricorrente di essere titolare dell’interesse azionato 42, ma se ricorre


altresì quella imprescindibile relazione di fatto tra il singolo titolare
di un interesse diffuso e il bene oggetto di godimento non esclusivo,
in presenza della quale, seppur indirettamente, la disciplina positiva
qualifica ed eleva la posizione del singolo a posizione giuridica giudi-
zialmente rivendicabile. In altre parole, se sussiste quel nesso so-
stanziale, quel già evidenziato legame tra soggetto e bene, che pur
nella riproduzione seriale in capo a una serie o a una comunità di
soggetti, non degrada l’interesse diffuso a interesse di mero fatto,
ma lo rende anzi meritevole di considerazione giuridica, e soprattut-
to, al ricorrere del quale, la legge fa conseguire, anche se indiretta-
mente, la legittimazione ad agire per la tutela del bene comunitario
pregiudicato.
Questo preliminare discernimento diviene inderogabile per ve-
rificare se il ricorrente è realmente legittimato ad agire e contraddi-
re in giudizio, e ciò ancor più allorché si tratti di interessi diffusi.
Mentre difatti per quanto riguarda le altre posizioni giuridiche è la
norma positiva che qualifica direttamente la pretesa del titolare e gli
attribuisce la conseguente legittimazione a essere parte processuale
nel giudizio in cui la stessa risulta invocata, negli interessi diffusi alla
qualificazione normativa occorre premettere una valutazione tesa ad
accertare se ricorra quella relazione fattuale tra soggetto e bene tu-
telato, che successivamente, attraverso la sussunzione alla norma
che solo indirettamente la qualifica, può ritenersi meritevole di con-
siderazione giuridica e giudizialmente rivendicabile, conseguendo a
quel punto la legittimazione processuale ad agire e a contraddire in
ordine a essa 43.

42
Elemento ritenuto invece di per sé sufficiente dalla dominante dottrina statale: «Condizione quindi,
perché si riconosca all’attore la legittimazione ad agire è che egli si affermi titolare del diritto dedotto
in giudizio...; non, invece che lo sia veramente». Cf A. ATTARDI, Legittimazione ad agire, in Digesto. Sez.
Civile, Torino 1993, p. 525; e in precedenza: E. GARBAGNATI, Azione e interesse, in Jus (1957) 344; E. AL-
LORIO, Per la chiarezza delle idee in tema di legittimazione ad agire, in Problemi di diritto, Milano 1957, I,
195 ss.
43
È opportuno precisare che tale valutazione preventiva ai fini del riconoscimento della legittimazione
ad agire, è cosa assolutamente diversa da quella impiegata dalla Sectio Altera nelle pronunce analizza-
te. La Sectio Altera infatti, riteneva – almeno nelle prime pronunce – necessaria la presenza di un con-
creto gravamen, con ciò tuttavia anticipando una valutazione attinente al merito della causa, in quanto
sufficiente a ritenere integrata la legittimazione ad agire in capo al ricorrente è l’esistenza di una rela-
zione giuridicamente rilevante tra l’oggetto della controversia (in questo caso il bene a rilevanza gene-
rale che si assume pregiudicato) e l’interesse azionato. Se l’interesse azionato sia stato realmente e suf-
ficientemente pregiudicato è accertamento successivo, che postula l’affermativa risoluzione della già
citata indagine pregiudiziale, e che soprattutto accerta se vi è stata violazione di legge, non se tale viola-
zione di legge i ricorrenti erano in grado di invocare, come è allorché si discuta della ricorrenza o me-
no della legittimazione ad agire. In pratica, la valutazione proposta implica l’accertamento della sussi-
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 337

E qui diviene necessario il secondo passo per permettere l’e-


mersione di interessi diffusi meritevoli di rivendicazione giudiziale.
Occorre enucleare e individuare metodi di accertamento della ricor-
renza di tale “situazione fattuale”, in modo da farne discendere l’azio-
nabilità in giudizio per la situazione giuridica sulla base di essa indi-
rettamente qualificata.
È in pratica necessaria l’individuazione di posizioni riferibili a
determinati soggetti, vuoi singoli individui vuoi enti collettivi, i quali
siano legati al bene pregiudicato da una particolare relazione fattuale
(non dunque identificabile, o non primariamente identificabile, sulla
base di una preesistente relazione giuridica con tale bene) che li le-
gittima, per la tutela del bene condiviso in maniera seriale con tutti
gli altri co-portatori, ad adire le guarentigie all’uopo predisposte dal-
l’ordinamento. Solo in tal caso si potrà realmente ritenere individua-
to il titolare dell’interesse diffuso legittimato ad agire in sede giudi-
ziale, e solo in tal caso il giudice potrà addentrarsi nel merito del
ricorso, per valutare se realmente l’interesse azionato è stato illegitti-
mamente pregiudicato.
Il discorso si sposta allora sulla ricerca di validi criteri di diffe-
renziazione di tali interessi rispetto al bene tutelato, in modo da far
emergere la sopraindicata relazione fattuale e conseguentemente la
posizione soggettiva singola che a essa è riferibile. Sotto questo a-
spetto appare fondato il ricorso, già proposto dalla miglior dottrina 44,
ai criteri elaborati a tal fine nelle esperienze statali. Senza compiere
un’aprioristica rinuncia a ricercare all’interno del diritto ecclesiale
più validi e pregnanti nessi di relazione che tengano soprattutto con-
to della natura comunitaria del populus Dei e del fine che lo guida,
non può tuttavia mancarsi di rilevare la opportunità di un ricorso alle
esperienze statali.
In questo senso, i criteri di soggettivizzazione dell’interesse dif-
fuso sono assolutamente utilizzabili. Vediamone alcuni:
1. Senz’altro va riconosciuta una differenziazione di posizione
soggettiva a chi è in grado di vantare una pregressa militanza in dife-
sa del bene pregiudicato. I soggetti che si muovono quotidianamen-
te per la difesa e la conservazione di un certo bene che vedono al-
l’improvviso pregiudicato, pur condividendo l’interesse alla conser-

stenza di una relazione tra ricorrente e oggetto della controversia, il giudizio sul gravamen condotto
dalla Sectio Altera attiene invece all’oggetto stesso della controversia.
44
Cf P. MONETA, I soggetti nel giudizio amministrativo ecclesiastico, cit., p. 66.
338 Gianni Tognoni

vazione di tale bene con una massa indistinta di altri soggetti, possie-
dono senza dubbio un legame ben più rilevante e dunque meritano
che il nesso di relazione tra loro e tale bene, pur riconosciuto solo in-
direttamente dalla legge, assurga a titolo sostanziale legittimante
l’azionabilità di tale posizione soggettiva. A tal proposito, si pensi al
caso dei fedeli che hanno sostenuto sia economicamente sia manual-
mente la costruzione della loro chiesa parrocchiale e si trovino di
fronte a un atto amministrativo che ne dispone la chiusura. Oppure,
si consideri l’eventuale impugnazione di un atto aministrativo del
parroco, effettuata dai membri del Consiglio parrocchiale per gli af-
fari economici (cf can. 537), i quali lamentino una non opportuna am-
ministrazione dei beni alla cui vigilanza e custodia sono istituzional-
mente preposti. In casi simili, verificata la relazione particolare che
lega tali soggetti al bene pregiudicato, stante appunto la pregressa
militanza a favore di esso, e verificata la rilevanza che questa relazio-
ne – e dunque la pregressa militanza – assume, nulla osta a che ven-
ga riconosciuta la legittimazione ad agire in capo a detti soggetti per
la difesa del bene comunitario illegittimamente pregiudicato 45.
2. Eguale efficacia può rivestire il criterio della cosiddetta loca-
lizzazione dell’interesse. È chiaro che di fronte alla lesione di un bene
a rilevanza generale, la relazione capace di rendere meritevole di con-
siderazione giudiziale il nesso che lega il soggetto al bene tutelato,
può facilmente rinvenirsi nei soggetti che vivono a ridosso di tale be-
ne usufruendone i vantaggi e le comodità. È di tutta evidenza di con-
seguenza, che le lamentele su di un’errata amministrazione dei beni
parrocchiali assumono una valenza non certamente trascurabile se
provengono – per esempio – dai membri appartenenti a tale parroc-
chia, i quali certamente vantano con il bene pregiudicato un legame
sostanziale giuridicamente rilevante, dal quale scaturisce l’interesse
diffuso a rivendicarne giudizialmente un’accurata amministrazione 46.

45
Del resto, la militanza a favore dei beni ecclesiali da parte dei fedeli anche laici, appare da sempre di
perspicua e fondamentale rilevanza e dunque certamente idonea a legittimare i fedeli a rivendicare una
corretta amministrazione del bene a sostegno del quale hanno militato: «Siano i laici a svolgere le prin-
cipali funzioni per quanto attiene alla proprietà della Chiesa, e abbiano parte attiva nell’amministrazio-
ne dei suoi beni» (Sinodo dei Vescovi [1971], La giustizia nel mondo, III, c).
46
Questa conclusione appare ben più autorevolmente e acutamente suffragata da M. MARCHESI, Il lai-
co e l’amministrazione dei beni nella Chiesa, in Quaderni di Diritto Ecclesiale 2 (1989) 329-339, secondo
cui: «Tutti i membri di un ente ecclesiastico (diocesi, parrocchia, associazioni...) sono abilitati anche a
una azione giuridica, mediante ricorso all’autorità competente, qualora ritengano che l’ente di cui fanno
parte venga danneggiato da una azione dei rappresentanti legali o degli amministratori diretti; l’origine
di tale facoltà sta nell’essere membri dell’ente e nel diritto-dovere generale di partecipare all’azione pa-
storale della Chiesa» (p. 336).
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 339

3. Ma altrettanta rilevanza può assumere anche la preventiva


partecipazione al procedimento amministrativo che ha condotto al-
l’emanazione dell’atto amministrativo lesivo dell’interesse diffuso. Si
pensi ai casi in cui la legge suggerisce o impone la previa audizione
di determinati soggetti prima dell’emanazione di un atto ammini-
strativo di un certo contenuto (cf per tutti il can. 50): indubbiamente
tale riconoscimento legislativo, e l’effettiva partecipazione al procedi-
mento, qualificano e pongono in evidenza una determinata relazio-
ne sostanziale con il bene su cui andrà a incidere l’atto di esercizio
della potestà amministrativa, dal che può certamente ritenersi pre-
sente in simili casi un interesse di natura seriale da far eventualmen-
te valere in sede giudiziale dopo l’emanazione dell’atto ritenuto pre-
giudizievole.
In generale, possiamo dire che la ricerca deve di volta in volta
muoversi a indagare se a fronte di una relazione giuridicamente qua-
lificata – anche se indirettamente – tra una serie di soggetti e un be-
ne di rilevanza generale, siano presenti elementi anche di carattere
fattuale che appuntino in capo a singole posizioni soggettive un inte-
resse meritevole di essere giudizialmente azionato. La prospettazio-
ne teorica può essere efficacemente esemplificata: di fronte all’irre-
sponsabile amministrazione di un bene della parrocchia, sembra suf-
ficientemente – seppur indirettamente – qualificato ex can. 540 § 2
l’interesse diffuso di un fedele che lamenta tale pregiudizio, e che a
tale bene sia legato in quanto membro di quella parrocchia (localiz-
zazione dell’interesse) o perché in passato si è prodigato per la co-
struzione o il restauro dello stesso (militanza pregressa) o perché
durante l’azione amministrativa sfociata proprio nel provvedimento
amministrativo pregiudizievole per il bene parrocchiale ha fatto vale-
re il proprio interesse alla conservazione dello stesso (previa parte-
cipazione al procedimento amministrativo).

Agire amministrativo e nascita di nuovi interessi:


una questione soprattutto canonica
Importante è pure evidenziare le ragioni che giustificano tale ri-
cerca di un’adeguata forma di tutela degli interessi diffusi. La nascita
degli interessi diffusi negli ordinamenti statali, ha luogo principal-
mente da una mutata visione e interpretazione della Carta Costitu-
zionale, e dall’ormai consolidata tendenza a riconoscere la titolarità
anche individuale di interessi che in passato venivano considerati so-
340 Gianni Tognoni

lo communes omnium 47. Non a caso i diritti all’ambiente (salubre), al-


la salute, alla conservazione dei beni culturali, non sono più conside-
rati in questi ultimi anni come semplici referenti dell’azione pubbli-
ca, bensì quali diritti imputabili sia a un’indeterminata collettività, sia
alla sfera giuridica di ciascun cittadino. La Pubblica Amministrazio-
ne in particolare si plasma sulla base di tale mutamento: da mera
esecutrice (in senso formale) delle leggi espressioni dello Stato di
diritto, a per lo più sostanziale fornitrice di servizi 48, che si presenta
sempre meno alla stregua di autorità – almeno nel senso tradizionale
di titolare di potere imperativo – e sempre più aperta e disponibile al
confronto paritario con il cittadino 49.
È chiaro che questi temi, almeno nei termini e nelle forme pro-
prie delle esperienze statali non sono sostenibili nell’ordinamento ca-
nonico. Tuttavia, anche nell’ordinamento della Chiesa si è avuta una
sorta di “rivoluzione copernicana” sia in ordine all’esercizio dell’azio-
ne pubblica sia in ordine al rapporto tra la cosiddetta Ecclesia domi-
nans ed Ecclesia oboediens 50: coscienza dei diritti personali, abbassa-
mento della Pubblica Amministrazione a livello paritario, nuova vi-
sione soggettiva dei diritti communes omnium, sono temi in ordine ai
quali anche la Chiesa ha avuto negli ultimi anni profonde trasforma-
zioni, fornendo tra l’altro risposte che, seppur diverse, o forse pro-
prio per quello, hanno pregnanza assolutamente irreperibile nelle e-
sperienze statali.
In questo senso si è indubbiamente mosso il magistero concilia-
re e l’autorevole dottrina che ne è stata successivamente insostituibi-
le illustratrice. Il significativo dibattito che ne è scaturito, prende le
mosse dalla proclamazione della comune «dignità e libertà dei figli
di Dio» (cf Lumen gentium 9) tra i quali vige «una vera uguaglianza
riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare

47
Per un’accurata analisi di entrambi questi aspetti: R. FEDERICI, Gli interessi diffusi, Padova 1984, 7 ss.
48
S. CASSESE, La trasformazione dell’organizzazione amministrativa, in Rivista Trimestrale di diritto
pubblico 35 (1985) 374-385; M. NIGRO, La Pubblica Amministrazione fra Costituzione formale e costituzio-
ne materiale, in Rivista trimestrale di diritto processuale civile 39 (1985) 162 ss., spec. 163-168.
49
Si pensi a quanto accaduto da ultimo in Italia con la legge 7 agosto 1990, n. 241 (che ha addirittura
introdotto il principio di contrattualità tra cittadino e Pubblica Amministrazione nell’esplicazione della
potestà amministrativa), o con la creazione degli enti cc.dd. autonomi e indipendenti: su entrambi i
punti vedi M. POZZATO, Il principio di contrattualità nella legge 241/90, in I Contratti 3 (1994) 331-336;
A. MASSERA, Autonomia e indipendenza nell’amministrazione dello Stato, in Studi in onore di Massimo
Severo Giannini, Milano 1988, III, pp. 449 ss.
50
F. ROMITA, Fondamenti teologici-giuridici della giustizia amministrativa, in Monitor Ecclesiasticus 98
(1973) 335.
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 341

il corpo di Cristo» (Lumen gentium 32). Ne consegue una piena presa


di coscienza della pluralità di uffici a cui i fedeli sono chiamati nell’a-
dempiere al perseguimento dell’unica comune missione loro affida-
ta 51. Ma soprattutto circa il tema che stiamo trattando, emerge nella
più attenta dottrina la chiara consapevolezza di come tale messaggio
conciliare investa necessariamente e primariamente, la dimensione di
rapporti giuridici che, all’interno del sacerdotium commune christifi-
delium, regolano il vivere ecclesiale. Anche nel diritto ecclesiale per-
ciò, si è avuta «una crescente esigenza di ampliamento della tutela
delle posizioni giuridiche dei fedeli» 52. D’altronde «l’ansia, quasi spa-
smodica, di una sconfinata tutela delle situazioni giuridiche attive, ca-
ratteristica delle attuali rivendicazioni sociali, non poteva non sensibi-
lizzare la Chiesa, che è comunione di carità per la partecipazione di
tutti i fedeli all’edificazione del Corpo mistico» 53. Considerando dun-
que che «unicuique christifidelibus iura agnoscenda ac tuenda sunt» 54,
appare più che fondato oltreché doveroso anche nel diritto della
Chiesa, garantire tutela alle posizioni giuridiche a rilevanza diffusa.

Interessi diffusi, communitas fidelium e salus animarum


Ciò ancora più, se si considera l’importanza che simili situazio-
ni giuridiche acquistano nell’ordinamento ecclesiale. Vista la rilevan-
za spiccatamente diffusa in una serie di soggetti, non si può negare
che la tutela dell’interesse diffuso appare ancor più strettamente le-
gata a quella della communitas fidelium, che costituisce presupposto
indispensabile e primario per l’attuazione del fine soteriologico cui si
preordina l’azione ecclesiale.
L’indubbia rilevanza sociale che si appunta su di un interesse
diffuso diviene infatti nell’ordinamento ecclesiale stretta contiguità
con la conservazione o il ripristino della communio fidelium. Il fedele
che, azionando un interesse diffuso, lamenta la sconveniente conser-
vazione di un bene parrocchiale, o lo scorretto comportamento del
proprio parroco, o una non corretta promozione della fede nella pro-
pria comunità, aziona un interesse non solo condiviso da tutta la co-

51
P.A. BONNET, Est in Ecclesia diversitas ministerii sed unitas missionis, in Atti del IV Congr. Inter. di di-
ritto Canonico, Milano 1981, pp. 291-308.
52
P. MONETA, I soggetti nel giudizio amministrativo ecclesiastico, cit., p. 66.
53
R. BACCARI, La giustizia amministrativa in funzione partecipativa, cit., p. 161.
54
Principia quae Codicis iuris canonici recognitionem dirigant, in Communicationes 1 (1969) 77ss.
342 Gianni Tognoni

munità in cui egli dimora, ma anche profondamente legato o meglio


coincidente con la tutela della communio fidelium violata dall’illegitti-
mo pregiudizio inferto al bene di rilevanza generale, per la cui prote-
zione l’interesse diffuso si muove. Non a caso, lo ripetiamo, nelle e-
sperienze statali l’interesse diffuso diventa, da semplice referente
esterno, posizione giuridica autonoma che rivendica una non accura-
ta tutela dei beni di rilevanza generale e dell’interesse pubblico a es-
si sotteso 55. Beni di rilevanza generale che costituiscono oggetto sia
dell’interesse pubblico, affidato e attuato dagli organi amministrativi
a ciò istituzionalmente deputati, sia dell’interesse diffuso azionato
dal singolo cittadino, giustamente definito dalla miglior dottrina 56, in-
teresse dei «singuli uti cives». Nell’ordinamento della Chiesa il di-
scorso è ancor più pregnante. Non si può negare che nel diritto ca-
nonico il riconoscimento delle situazioni giuridiche individuali sia
necessariamente correlato al fine soteriologico dell’ordinamento, os-
sia la comunione ecclesiale del popolo di Dio alla ricerca della salus
animarum. Si comprende allora come tale connessione – che in nes-
sun modo deve suonare quale svuotamento o soggezione dei diritti
del singolo all’interesse generale – è ancor più presente e meritevole
di tutela nell’interesse diffuso, laddove, considerata anche la natura
generale del bene tutelato, l’interesse del singolo schiettamente indi-
vidualizzabile si congiunge e attua l’interesse comunitario alla con-
servazione della communio fidelium.
Ne discende che la tutela della communio fidelium passa anche
attraverso la tutela dell’interesse diffuso 57. Ciò è chiaramente perce-
pibile se si considera che l’interesse diffuso è posto e si muove a tu-
tela di un bene condiviso da una pluralità di titolari e avente portata
generale: è impensabile negare che la violazione di un bene avente
siffatta rilevanza non importi una corrispondente violazione della
communio fidelium. Nel diritto canonico dunque, è lecito dire che
l’interesse diffuso appare come interesse dei «singuli uti christifide-
les», con tutta la pienezza che tale ruolo assume nel diritto ecclesiale

55
Per un evidente esempio – valevole di certo anche per l’ordinamento canonico – di coincidenza tra
interesse pubblico tutelato e interesse diffuso, cf Trib. Padova 10 novembre 1981 con nota di M.F. MA-
TERINI ZOTTA, Lascito per l’asilo parrocchiale e legittimazione ad agire del parroco quale titolare dell’inte-
resse della comunità dei fedeli, in Foro Padano 37/I (1982) 73. Con la sentenza citata, un parroco fu rico-
nosciuto legittimato ad agire anche per la tutela degli interessi diffusi della propria comunità, nella con-
troversia insorta con l’Ente Comunale di Assistenza e con il Comune stesso, per l’attribuzione di un
legato alla sua parrocchia.
56
L. BIGLIAZZI - U. BRECCIA - D.F. BUSNELLI - U. NATOLI, Diritto civile I, Torino 1987, p. 263.
57
In tal senso anche C. VENTRELLA, La tutela degli interessi diffusi... , cit., pp. 194-195.
La tutela degli interessi diffusi nell’ordinamento canonico 343

e senza con ciò voler scolorire tale posizione giuridica a ipotesi di


mera legittimazione strumentalmente tutelate o, addirittura, a stru-
menti di azione popolare 58.
Il singolo, consapevole e responsabile del suo ruolo di “christifi-
delis”, si muove per tutelare un interesse che condivide con una plu-
ralità di “christifideles” e per preservare la communitas tra essi in-
staurata.

Conclusione
Nessuna remora dunque può ostare all’accoglimento di una so-
luzione “casistica” del problema degli interessi diffusi. Di fronte alla
pretesa, anche giudiziale, di tutela di un interesse a rilevanza diffusa,
lungi dal consentire un indiscriminato e pericoloso accesso alla fase
processuale sulla base di mere asserzioni dei ricorrenti, occorre in-
vece verificare se tale interesse sia in qualche modo qualificato –
abbiamo visto almeno indirettamente – da una norma positiva del-
l’ordinamento canonico, e se la posizione giuridica azionata sia suffi-
cientemente differenziata – nel senso di contigua, connessa – non ri-
spetto alla serie dei concorrenti titolari, bensì rispetto al bene che ta-
le interesse diffuso vuol vedere tutelato. In particolare, se sussiste
quella relazione fattuale con il bene tutelato motivata dall’essere par-
tecipe membro di una certa comunità, o di un determinato organo,
diretto interessato già individuato nel procedimento di formazione
dell’atto amministrativo illegittimo, e comunque e in ogni caso, lega-
to in maniera rilevante e giuridicamente meritevole con il bene gene-
rale pregiudicato. Solo ricorrendo tale relazione si può dire debita-
mente emersa una posizione giuridica di interesse diffuso legittima-
ta ad agire e contraddire in giudizio, a sottoporre al giudizio del
giudice la legittimità o meno dell’atto amministrativo impugnato, e
l’esistenza o meno del pregiudizio che sulla base di esso si assume
di aver subito.

58
Basilare è distinguere la rivendicazione di tutela di interessi diffusi, dalla partecipazione a una cor-
retta azione amministrativa attraverso strumenti di azione popolare, pur riconosciuti anche nel diritto
della Chiesa. Nell’azione popolare i partecipanti, sebbene vantino anch’essi un interesse di natura ge-
nerale condiviso in maniera seriale con altri, azionano una posizione che mai si individualizza in capo a
loro; rispetto al bene su cui si indirizza l’interesse vantato da tale posizione – il più delle volte la legalità
dell’azione amministrativa – questi soggetti non sono in grado di vantare un rapporto o una qualche
prerogativa che assurga a rilevanza giuridica, e infatti a essi non è mai richiesto un interesse sostanzia-
le tutelato dalla legge.
344 Gianni Tognoni

Così, caso per caso, evitando un’acritica ricezione o una preve-


nuta e aprioristica negazione, sembra opportuno dare tutela a questa
meritevole situazione giuridica, per struttura e portata tanto legata
alla protezione dell’armonia comunitaria propria del populus Dei.
GIANNI TOGNONI
Via Bertoloni 29
54036 Marina di Carrara (MS)
345

Commento a un canone
L’abito
(can. 669 § 1)
di Silvia Recchi

«In segno della loro consacrazione e quale testimonianza di povertà, i reli-


giosi porteranno l’abito del loro istituto, secondo la forma prescritta dal dirit-
to proprio» (can. 669 § 1).

Il canone citato riprende l’antico can. 596 del Codice del 1917
che prescriveva: «Tutti i religiosi porteranno l’abito proprio della lo-
ro religione sia nella casa, sia fuori, a meno che una grave ragione
non ne dispensi, secondo il giudizio del superiore maggiore o, in ca-
so di urgenza, del superiore locale».

Si nota facilmente la differenza tra i due canoni che pure espri-


mono la stessa obbligazione relativa all’abito religioso. Al linguaggio
più disciplinare e giuridico dell’antico canone si sostituisce una nor-
ma che mette in luce contemporaneamente le esigenze maggiormen-
te teologiche della prescrizione, traducendo le intenzioni del concilio
Vaticano II. Infatti il decreto Perfectae caritatis aveva stabilito:
«L’abito religioso, come segno di consacrazione, sia semplice e modesto, po-
vero e decente insieme, corrispondente alle esigenze della salute e adeguato
alle circostanze di tempo e di luogo nonché alle necessità dell’apostolato.
L’abito, sia maschile che femminile, non conforme a queste norme, deve es-
sere cambiato» (PC 17).

Il testo conciliare aveva espresso una duplice esigenza: da un


lato considerare l’abito religioso un «segno di consacrazione» (cf an-
che il Rito della Professione religiosa, Praenotanda, 5), dall’altro affer-
mare la necessità di rendere tale segno adeguato alle circostanze dei
tempi, dei luoghi ed alle necessità dell’apostolato.
346 Silvia Recchi

Paolo VI nella esortazione Evangelica testificatio ricorderà che,


se pure a volte può essere motivato l’abbandono del modo di vestire
religioso, occorre tuttavia non dimenticare che l’abito dei religiosi e
delle religiose, in quanto segno della loro consacrazione, deve in
qualche modo distinguersi dalle forme apertamente secolari (ET 22).
L’abito religioso vanta un’antica tradizione nella Chiesa, di cui
l’abito monastico ha rappresentato un emblema. La tendenza ad a-
dottare un modo distintivo nel vestire che affermasse una certa rot-
tura con la vita secolare e testimoniasse i valori evangelici della
povertà e semplicità, ha sempre caratterizzato questa tradizione. Du-
rante i secoli l’abito religioso ha subito una comprensibile evoluzio-
ne e differenziazione, mantenendo vive le esigenze della sua sempli-
cità e della sua povertà, quale testimonianza pubblica di consacrazio-
ne di vita. L’evoluzione della cultura e il mutare delle circostanze
hanno reso necessario nelle varie epoche storiche l’adattamento del-
l’abito religioso. Adattamento che il concilio Vaticano II ha esigito
per i membri degli istituti religiosi.
La normativa del Codice attuale in merito all’abito religioso è
frutto quindi di una lunga tradizione nella storia della vita religiosa.
Lo Schema del 1977 del Codice parlava dell’abito religioso al
can. 93 § 2 nei seguenti termini:
«La testimonianza pubblica da dare da parte degli istituti a Cristo e alla Chie-
sa comporta quella separazione dal mondo che è propria dell’indole e delle
finalità proprie di ogni istituto, nonché l’abito prescritto dalle Costituzioni co-
me segno di consacrazione di vita».

Nello Schema del 1977 non si esplicitava l’aspetto della povertà.


Questa esplicitazione apparirà successivamente nel corso della revi-
sione. La Commissione di riforma del Codice discuterà in merito nel
corso della sessione del 23 gennaio 1980 1. Lo Schema del 1980 pre-
senterà un testo vicino a quello attuale.
Il can. 669 § 1 prescrive che i religiosi portino l’abito del proprio
istituto come segno di consacrazione e come testimonianza di po-
vertà, esprimendo così gli aspetti fondamentali: l’essere un distintivo
di appartenenza all’istituto e l’essere una testimonianza pubblica, un
“segno” di consacrazione e povertà, manifestazione visibile dell’iden-

1
Cf «Communicationes» 13 (1981) 189-190.
L’abito (c. 669 § 1) 347

tità dei religiosi. Ogni istituto deve prevedere nel diritto proprio l’es-
senziale rispetto alla forma, nonché alle esigenze a cui esso deve ri-
spondere in coerenza con il proprio carisma.
In queste sue esigenze fondamentali la prescrizione in me-
rito all’abito è un obbligo per i membri degli istituti religiosi, an-
che se per motivi ragionevoli, una dispensa da esso è possibile (cf
cann. 85.131.135.596). Dopo la promulgazione del Codice, il docu-
mento Elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa sulla vita
religiosa, pubblicato dalla Congregazione degli Istituti di vita consa-
crata, ne confermerà la visione (n. 34).
Nei suoi discorsi e nelle sue allocuzioni rivolte ai religiosi e alle
religiose, Giovanni Paolo II è ritornato più volte sull’importanza del-
la testimonianza offerta dall’abito religioso. Esso, sottolinea il Papa,
rappresenta un segno esterno permanente che ricorda al religioso
stesso il proprio impegno, permette di non scendere a compromessi
con lo spirito del mondo, in una testimonianza silenziosa ma elo-
quente 2. La Chiesa desidera questo segno quale manifestazione visi-
bile della consacrazione propria dei religiosi 3; quale segno di po-
vertà e di distacco definitivo degli interessi solo umani e terreni 4. Il
simbolismo rappresentato dall’abito religioso fa parte della testimo-
nianza pubblica che i religiosi sono chiamati a dare nella Chiesa del-
la loro missione, della loro consacrazione e della loro appartenenza 5.
Indubbiamente oggi l’impatto con una cultura secolarizzata ha
ridimensionato nella prassi la fedeltà a questa norma del Codice.
Senza rifiutare quanto di positivo può portare l’evoluzione della cul-
tura e del costume, soprattutto in riferimento ai valori della funziona-
lità, della praticità e dell’igiene, rimane sempre importante che lo sti-
le di vita del religioso, anche sotto l’aspetto dell’abito, esprima quella
visibilità della testimonianza che fa parte dell’identità propria dei re-
ligiosi. È proprio questa identità che il Codice della Chiesa vuole tu-
telare e di cui il can. 669 § 1 esprime un aspetto.

2
All’unione Internazionale delle Superiore Generali a Roma, del 16 novembre 1978.
3
Alle religiose di Washington, del 7 ottobre 1979.
4
All’Unione delle Superiore Generali a Roma, del 15 novembre 1979.
5
Cf Ai Benedettini di Montecassino, del 20 settembre 1980; L’omelia della messa per i religiosi di Altöt-
ting (Germania), del 18 novembre 1980; Ai religiosi e religiose di Roma, del 2 febbraio 1987; Ai religiosi
sacerdoti e laici nella Cattedrale di Gaborone (Botswana), del 13 settembre 1988; Alle Piccole Sorelle di
Gesù, dell’11 settembre 1988 ecc.
348 Silvia Recchi

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

AUGE M., voce Abito, in Dizionario teologico della Vita consacrata, Àncora, Milano
1994, pp. 37-45.
BEYER J., Il diritto della vita consacrata, Àncora, Milano 1989, p. 366.
COLOMBAS G.M., voce Abito religioso (abito monastico), in Dizionario degli Istituti
di Perfezione (a cura di G. Rocca), vol. I, pp. 50-56.
SAGGI L., voce Abito religioso (tipi di abito religioso sino al medioevo), in ibid.,
pp. 57-61.
BORRAS Y FELIU A., voce Abito religioso (l’abito religioso dal sec. XVI ad oggi), in
ibid., pp. 61-75. BONI A., Abito religioso (significati dell’abito religioso), in ibid.,
pp. 75-78.
HOSTIE R., Abito religioso (prospettiva psicologica), in ibid., pp. 78-79.

SILVIA RECCHI
Institut Catholique
B.P. 11628 Yaoundé
Cameroun
349

Il vescovo di fronte alle associazioni


di Carlo Redaelli

Il tema delle associazioni ha già interessato più volte la nostra


rivista e sotto diversi profili1. Si tratta però di una tematica e di una
normativa relativamente nuova, che richiede ulteriori approfondi-
menti, anche con l’intento di arrivare a indicazioni pratiche, dal mo-
mento che, proprio per la novità dell’argomento, non esiste ancora
una prassi consolidata sia nel cammino delle stesse associazioni, sia
sul versante dell’autorità pastorale, che di esse deve occuparsi. In
questo contributo ci si vorrebbe porre dal punto di vista di quest’ulti-
ma, cercando di rispondere, con attenzione soprattutto agli aspetti
pratici e procedurali, alla seguente domanda: quali sono i compiti di
cui deve farsi carico il vescovo diocesano e, quindi, i suoi collaboratori
nel governo pastorale (vicari e uffici di curia), nei confronti di un’as-
sociazione che a lui si rivolge? Si cercherà di rispondere a questa do-
manda privilegiando il momento in cui l’associazione entra in contat-
to con il vescovo, in vista di un suo inserimento anche formale nel
contesto ecclesiale diocesano.

Le richieste delle associazioni


Dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice di diritto canonico,
che ha recepito il principio – affermato dal concilio Vaticano II – del-
la libertà di associazione dei fedeli articolandolo in una nuova e più
completa normativa, non sono pochi i fedeli che si rivolgono al ri-
spettivo vescovo diocesano, o direttamente o tramite gli uffici di cu-

1
Cf in particolare gli studi di J. BEYER, G. FELICIANI, A. MONTAN, C. REDAELLI, S. RECCHI, J. HENDRIKS in
Quaderni di diritto ecclesiale 3 (1990).
350 Carlo Redaelli

ria interessati (variamente organizzati e denominati: ufficio per i lai-


ci, per le associazioni, cancelleria, vicario episcopale per i laici ecc.),
per richiedere un suo intervento a proposito di associazioni da loro
promosse.
Talvolta la richiesta consiste nel sottoporre uno statuto, even-
tualmente con l’elenco dei soci, per chiedere una qualche forma di
“riconoscimento” da parte dell’autorità ecclesiastica; altre volte, i
fondatori di una nuova associazione domandano anche un’assistenza
nella stesura dello statuto e nella scelta della configurazione giuridi-
ca dell’associazione e del suo patrimonio, tenendo presente anche il
contesto civile in cui l’associazione desidera operare. Altre volte, in-
vece, qualificandosi come sezione di un’associazione già approvata
da un altro vescovo o anche da parte della CEI o della S. Sede, si de-
sidera farsi conoscere dal vescovo del luogo e chiedere l’accoglienza
della propria presenza nell’ambito della diocesi.
Gli scopi che qualificano le associazioni che si rivolgono al ve-
scovo sono molto vari: si va dalle associazioni che assumono qualche
elemento della vita consacrata, con la speranza di evolvere un giorno
verso una delle forme di vita consacrata canonicamente previste, alle
associazioni con finalità caritative e di assistenza, a quelle con carat-
tere devozionale o anche alle associazioni con scopi culturali.
Anche il cammino percorso dalle associazioni fino al momento
in cui prendono formale contatto con l’autorità pastorale si presenta
alquanto differenziato. In alcuni casi si tratta di un gruppo anche
consistente di fedeli che, dopo un periodo a volte durato anni, desi-
dera darsi una configurazione giuridico-ecclesiale definitiva e in
qualche modo riconosciuta da parte del vescovo. In altre circostan-
ze, all’opposto, si è in presenza più di un’intuizione ancora molto ini-
ziale e condivisa da pochi fedeli che di una vera e propria realtà asso-
ciativa già consolidata. Spesso, in questo secondo caso, il rivolgersi
al vescovo diventa quasi il primo atto di vita dell’associazione e può
nascondere l’intento di ottenere un’approvazione autorevole che pos-
sa servire da base per iniziative di autopromozione presso altri fedeli,
potenziali futuri associati.
Come si vede, anche solo da questi pochi cenni, la situazione si
presenta alquanto complessa e merita una particolare riflessione da
parte del vescovo e dei suoi collaboratori, con l’intento di arrivare in
questo campo a elaborare alcuni criteri di condotta e quindi una
prassi uniforme. Se nei primi anni di applicazione del Codice di dirit-
to canonico era comprensibile che si agisse affrontando a sé ogni
Il vescovo di fronte alle associazioni 351

singolo caso, ora è invece urgente considerare il fenomeno associati-


vo in ogni singola diocesi nella sua generalità, sia per evitare ingiu-
ste disparità di trattamento tra realtà simili (disparità che inevitabil-
mente nascono quando ogni situazione è affrontata con criteri elabo-
rati al momento), sia anche per non creare una situazione difficile e
confusa per l’azione pastorale del vescovo nei confronti delle associa-
zioni, col rischio che l’intervento dell’autorità ecclesiastica venga
strumentalizzato come garante di iniziative pastoralmente discutibili
o, per lo meno, poco prudenti.

Alcune esigenze da tenere presenti


L’attività del vescovo e dei suoi collaboratori nei confronti delle
richieste delle associazioni deve ispirarsi ad alcune esigenze.
La prima è quella di salvaguardare effettivamente il diritto di as-
sociazione dei fedeli. Purché restino all’interno della normativa ec-
clesiale, i fedeli hanno diritto di associarsi liberamente per lo scopo
ecclesiale che ritengono consono alle loro intenzioni e con la struttu-
ra che ritengono opportuna. Il vescovo può considerare lo scopo po-
co significativo o la struttura prescelta poco funzionale: in questo ca-
so ha, ovviamente, la possibilità di manifestare ai fedeli interessati le
proprie perplessità e le proprie preferenze, ma non può rifiutare di
considerare un’associazione come ecclesiale, sempre che essa corri-
sponda al quadro normativo canonico. Ciò non significa che l’ambito
del diritto di associazione sia sottratto alla preoccupazione pastorale
del vescovo: egli deve fare in modo che, anche in questo campo, i fe-
deli agiscano con una chiara coscienza ecclesiale e ispirati dai valori
della comunione, della corresponsabilità, del servizio ai fratelli ecc. e
abbiano anche le opportune conoscenze per tradurre al meglio il
proprio desiderio di agire in forma associata nella Chiesa. Tutto ciò
può essere concretamente possibile se il tema del diritto di associa-
zione non è qualcosa di sconosciuto ai fedeli, ma viene loro presenta-
to nelle sedi opportune, a cominciare dalla catechesi dei giovani e
degli adulti, e se alle associazioni in corso di definizione viene offer-
ta adeguata consulenza e assistenza. Sempre l’esigenza di tutelare il
diritto di associazione comporta la necessità che l’autorità si manten-
ga nei suoi interventi nei limiti previsti dalla normativa canonica e
che, anche nel caso di associazioni che le sono particolarmente lega-
te come quelle pubbliche, venga garantito agli associati, già a livello
statutario, un effettivo esercizio dei diritti connessi alla forma asso-
352 Carlo Redaelli

ciativa. Un’associazione pubblica dove le scelte fondamentali sono,


di diritto o di fatto, riservate all’autorità ecclesiastica e dove, di con-
seguenza, l’associato non ha la reale possibilità di determinare la vo-
lontà della persona giuridica, non può essere considerata una vera
associazione.
Una seconda esigenza da tenere presente è quella dell’ecclesia-
lità dell’associazione, che l’autorità competente deve promuovere e
salvaguardare, come un suo preciso dovere. Sotto il concetto di ec-
clesialità sono compresi diversi aspetti. C’è anzitutto la necessità di
conservare l’integrità della fede e dei costumi e la corretta osservan-
za della disciplina della Chiesa (cf can. 305 § 1). Un secondo aspetto
è quello della finalizzazione al bene comune dell’apostolato, ma pri-
ma ancora dell’esistenza stessa di ciascuna associazione (cf can. 323
§ 2): ogni associazione, anche quella sorta con scopi molto limitati e
legati a determinate persone, deve sentirsi parte della comunione
ecclesiale e contribuire al bene della stessa. Sulla stessa linea va evi-
denziato un terzo profilo di ecclesialità: la disponibilità al coordina-
mento dell’azione pastorale, al fine di evitare dispersione delle forze
(cf can. 323 § 2). Affinché l’autorità competente possa garantire tutto
ciò, è necessario che essa abbia i mezzi per conoscere l’associazione
in se stessa e nella sua attività, per esercitare quindi il suo diritto-do-
vere alla vigilanza e, se necessario, poter efficacemente intervenire.
In concreto ciò significa che l’autorità in riferimento a tutte le asso-
ciazioni, comprese quelle private, deve di fatto conoscere statuto, se-
de, responsabili e iniziative promosse. Inoltre il vescovo deve avere a
disposizione le strutture adeguate e sufficienti per avere un corretto
e propositivo rapporto di sostegno, promozione, coordinamento e vi-
gilanza in relazione alle associazioni.
Una terza esigenza concerne in particolare le associazioni pub-
bliche. Si tratta della necessità di fare in modo che l’azione delle as-
sociazioni coinvolga, quando è necessario, le responsabilità dell’inte-
ra comunità cristiana in modo corretto e non sia a detrimento di es-
sa, del suo impegno di annuncio e limpida testimonianza del Vangelo
e anche della sua immagine esterna. Tale problematica investe in
particolare le associazioni pubbliche, perché esse, in quanto tali agi-
scono a nome della Chiesa (cf cann. 301 § 1 e 116 § 1), ne coinvolgo-
no quindi, anche verso l’esterno, la responsabilità, oltre che l’imma-
gine. Va aggiunto però che la questione riguarda anche le associazio-
ni private: esse in quanto ecclesiali implicano inevitabilmente nel
loro agire la Chiesa e, soprattutto per chi osserva dall’esterno e non
Il vescovo di fronte alle associazioni 353

ha la possibilità di cogliere le distinzioni canonistiche, determinano,


in misura più o meno rilevante a seconda delle circostanze, l’immagi-
ne stessa della Chiesa. Da qui la necessità della vigilanza da parte del
vescovo e dei suoi collaboratori e, quando opportuno o necessario,
una precisa delimitazione di responsabilità, da far conoscere anche
all’esterno dell’ambiente ecclesiale. Da parte, invece, delle associazio-
ni, tali considerazioni devono portare alla necessaria prudenza, a un
profondo senso di responsabilità ecclesiale, a una sempre più ap-
profondita sintonia con l’intera comunità cristiana e con i suoi pastori.

Strutture diocesane per le associazioni.


L’albo delle associazioni
Quali possono o devono essere le strutture diocesane destinate
a interessarsi delle associazioni, offrendo alle stesse un sostegno e
un coordinamento e al vescovo l’effettiva possibilità di conoscerle e
di vigilare su di esse?
Evidentemente ciascuna diocesi si deve organizzare con libertà
e in funzione della presenza e dell’incidenza in essa del fenomeno as-
sociativo. Dal punto di vista della conoscenza giuridica delle associa-
zioni è comunque da valorizzare la cancelleria della curia con l’an-
nesso archivio. È qui che dovrebbe essere istituito un albo delle asso-
ciazioni 2, in cui per ogni associazione dovrebbe essere evidenziata la
situazione aggiornata circa lo statuto, la sede, i responsabili, l’assi-
stente ecclesiastico o il consigliere spirituale, i provvedimenti di va-
rio genere presi nei suoi confronti da parte dell’autorità ecclesiasti-
ca (lode, raccomandazione, conferimento della personalità giuridica
ecc.) e gli eventuali documenti relativi al riconoscimento civile. Nel
momento in cui il vescovo anche solo prende atto dell’esistenza eccle-
siale di un’associazione (cf can. 299 § 3), deve quindi sorgere l’obbli-
go e il diritto di iscrizione nell’albo diocesano delle associazioni, con
gli elementi sopra indicati.
Per quanto concerne, invece, l’attività pastorale delle associa-
zioni, che va – come si è visto – seguita, incoraggiata e coordinata, si
possono ipotizzare diverse soluzioni. Il vescovo potrebbe incaricare
di seguire le associazioni il vicario generale o un apposito vicario epi-
scopale, oppure uno specifico ufficio di curia (per la pastorale, per

2
Se ne è parlato in C. REDAELLI, Alcune questioni pratiche riguardanti le associazioni di fedeli nel conte-
sto italiano, in Quaderni di diritto ecclesiale 3 (1990) 345-355; specialmente 348-350.
354 Carlo Redaelli

l’apostolato dei laici, per le associazioni ecc.). Un’altra soluzione, op-


portuna per le diocesi di una certa consistenza con molti settori di
attività seguiti da appositi uffici e con la presenza di un numero si-
gnificativo di associazioni, potrebbe essere quella di invitare ciascu-
na associazione a mantenere i contatti con l’ufficio di curia responsa-
bile del settore in cui essa opera. Così, per esempio, le associazioni a
carattere caritativo-assistenziale dovrebbero fare riferimento alla Ca-
ritas diocesana, quelle impegnate a livello giovanile all’ufficio di pa-
storale giovanile, quelle di carattere culturale all’ufficio per i centri
culturali. Andrà poi studiata a livello locale la modalità più efficace
per mantenere i contatti tra associazioni e realtà diocesana di riferi-
mento, tenendo conto dell’esigenza che ciascuna associazione agisca
sempre liberamente e autonomamente, ma informando delle proprie
iniziative il vescovo tramite l’apposita struttura e, quando necessario,
rendendosi disponibile a un coordinamento. In concreto potrebbe
essere già sufficiente, almeno per le associazioni private, la presenta-
zione annuale del programma di attività, in collegamento con l’anno
pastorale diocesano. Le associazioni pubbliche, visto il loro particola-
re legame con l’autorità ecclesiastica (cf can. 301 § 1), avranno pro-
babilmente bisogno di un collegamento più organico con la stessa,
salva sempre la loro autonomia di azione (cf can. 315). È opportuno
sottolineare che la necessità di informare la competente autorità ec-
clesiastica della propria attività, anche se non richiesta esplicitamente
dalla normativa canonica, è presupposto di fatto indispensabile per
rendere possibile l’esercizio della responsabilità pastorale nei con-
fronti delle associazioni. Va però subito aggiunto che, tranne nei casi
previsti dal diritto, si tratta di informazione e non di richiesta di auto-
rizzazione: informando l’autorità competente l’associazione resta libe-
ra comunque di agire secondo la propria autonoma responsabilità.

Un ser vizio di consulenza


Soprattutto nelle diocesi più grandi, dove è presumibile una cer-
ta rilevanza del fenomeno associativo, può essere un’ottima iniziativa
offrire un servizio di consulenza ai fedeli che desiderano associarsi o
che, già associati tra loro in modo ancora informale o non giuridica-
mente compiuto, intendano configurare con precisione la loro realtà
associativa in riferimento alla normativa ecclesiale e, spesso, vista la
presenza di una loro attività anche nell’ambito civile, pure in relazio-
ne alla normativa civile e concordataria.
Il vescovo di fronte alle associazioni 355

Tale consulenza dovrebbe fare capo all’ufficio legale della curia,


ove esistente, o alla cancelleria, o all’apposito ufficio per le associa-
zioni, o anche essere affidata a qualche esperto incaricato per tale
compito dal vescovo.
Per raggiungere lo scopo previsto dalla consulenza è necessa-
rio anzitutto conoscere bene la realtà che si sta costituendo in asso-
ciazione: quali sono le finalità che si propone, quali le caratteristiche
che si ritengono irrinunciabili, quale il campo di azione, quante le
persone finora coinvolte, quale rilevanza deve avere nell’ambito civi-
le, eccetera. Vanno tenuti presenti anche eventuali regolamenti, do-
cumenti costitutivi, fogli di presentazione ecc. che l’associazione già
si è data. Occorre poi precisare gli aspetti non chiari, quelli non an-
cora considerati dagli associati, quelli esigiti dalla normativa vigente
o dalle concrete circostanze. Alla luce dei dati acquisiti vanno poi
prospettate alla costituenda associazione le possibilità previste dalla
normativa e suggerito quali passi fare a seconda della direzione pre-
scelta, offrendo opportunamente schemi di statuto o di altri docu-
menti. In ogni caso, non ci si può sostituire alla responsabilità degli
associati, ma solo suggerire strade possibili e spingere, quando ne-
cessario, a ulteriori approfondimenti.
Se, ad esempio, si tratta di un’associazione a scopo caritativo,
andrà verificata con gli interessati l’intenzione di gestire un’attività
anche sul versante civile. In questo caso potrebbe essere utile sug-
gerire la predisposizione di uno statuto valido, oltre che dal punto di
vista della normativa ecclesiale, anche in riferimento, per stare al
contesto italiano, alla legge-quadro sul volontariato 3 e alla specifica
legge regionale di attuazione. Se, invece, l’associazione da costituire
ha una finalità soprattutto di carattere spirituale, si cercherà di sug-
gerire una strutturazione adeguata allo scopo, evitando il rischio di
sovradimensionare gli organi statutari (un’associazione a carattere
prevalentemente spirituale non avrà probabilmente bisogno di un
collegio dei revisori dei conti...) o di cercare una rilevanza nell’ordi-
namento civile, non necessaria in assenza di patrimonio e di attività
diverse da quelle spirituali.

3
Cf Legge 11 agosto 1991, n. 266.
356 Carlo Redaelli

Il quadro normativo di riferimento


Prima di presentare analiticamente quali devono essere i pas-
saggi formali e le attenzioni da avere nel momento in cui un’associa-
zione si rivolge al vescovo manifestando la propria esistenza e chie-
dendo un suo provvedimento, è opportuno richiamare in sintesi la
normativa circa la tipologia delle associazioni. Se tale quadro non è
chiaro, diventa difficile un intervento corretto e coerente in relazio-
ne alle singole associazioni.
Non è qui il caso di affrontare in modo approfondito le proble-
matiche che l’attuale normativa canonica sembra lasciare aperte.
Rinviando a quanto scritto in altre occasioni 4, sembra però importan-
te tentare di delineare delle precise coordinate, utili per garantire
una prassi ecclesiale plausibile.
Una prima distinzione necessaria, particolarmente importante
per evitare equivoci e scelte pastorali non chiare, è quella tra asso-
ciazioni propriamente dette e gruppi o movimenti o, più in generale,
aggregazioni ecclesiali. Come si è sostenuto in un precedente artico-
lo 5, il Codice di diritto canonico non regolamenta tutto il fenomeno
aggregativo ecclesiale, ma solo quello formalmente riconducibile al-
l’associazione intesa in senso stretto. Che cosa definisce un’associa-
zione ecclesiale? Detto molto semplicemente e sinteticamente: la
presenza di più fedeli che si uniscono per un’azione comune in vista di
uno scopo ecclesiale, con un preciso atto di volontà, con un impegno
caratterizzato da continuità e stabilità nel tempo, e riconoscendosi in
una realtà che, anche senza diventare una vera e propria persona giu-
ridica, si costituisce in soggetto autonomo e distinto dalla soggettività
dei singoli componenti, con propri organismi e proprie regole. In con-
creto, tutto ciò si traduce nella presenza di uno statuto, con i requisi-
ti previsti dal can. 304, che stabilisce cioè, in particolare, le finalità
del soggetto associazione, il suo modo di essere e di agire, le moda-
lità con cui si formano le sue decisioni, i modi per entrarvi e per
uscirvi. È interessante evidenziare la distinzione della soggettività
dell’associazione rispetto a quella dei singoli associati: un’associazio-
ne è una realtà tale da dovere e potere di fatto permanere coerente

4
Cf l’articolo ricordato alla nota 2 e C. REDAELLI, Le aggregazioni laicali nella Chiesa. Una recente nota
pastorale della CEI, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 441-453.
5
Cf il primo articolo citato nella nota precedente alle pagine 345-346 e il secondo alle pagine 452-453.
Il vescovo di fronte alle associazioni 357

con se stessa anche se, per ipotesi, in uno spazio di tempo relativa-
mente breve, tutti i soci fondatori uscissero da essa, ma restassero,
mantenendosi fedeli alle finalità originarie espresse dallo statuto, al-
tre persone divenute socie in momenti successivi alla costituzione
dell’associazione. Diversamente dall’associazione, altre realtà aggre-
gative, come i gruppi o i movimenti, mancano spesso di uno statuto,
di chiare formalità di adesione (per cui non c’è un atto di volontà for-
malizzato di entrata e di recesso), di precisazione circa la formazione
della volontà della realtà nel suo insieme (a volte determinata più dal
leader che dal voto collegiale degli aderenti), di distinzione da altri
soggetti (è il caso, ad esempio, dei gruppi parrocchiali, che sono so-
lo articolazioni della comunità parrocchiale e non vere associazioni),
ecc. Con ciò non si vuole dare un giudizio negativo su tali realtà, ma
semplicemente sottolineare che non sono associazioni e quindi che a
esse non si applica la normativa codiciale, se non in maniera analogi-
ca 6, mentre andranno senz’altro verificate con l’utilizzo dei cosiddetti
criteri di ecclesialità, indicati, in particolare, dalla Christifideles laici
(n. 30) e ripresi dal recente documento della CEI sulle aggregazioni
ecclesiali 7. Va infine tenuto presente che, in pratica, per i movimenti
la questione risulta di fatto facilitata – sempre nel contesto del rap-
porto con la Chiesa particolare e soprattutto con il vescovo – dal fat-
to che molti di essi tendono ad articolarsi in una o più associazioni
propriamente dette, a cui si possono applicare direttamente la nor-
mativa e le procedure usuali.
Una seconda precisazione riguarda la distinzione tra associazio-
ni pubbliche e private. È una distinzione fondamentale per il Codice
attuale, che va interpretata in modo corretto, in riferimento a quanto
esplicitamente inteso dal legislatore. Come si evince dal can. 301 so-

6
Un problema particolare, che merita almeno un accenno, è quello delle associazioni all’interno del-
l’Ordo virginum. Il can. 604, § 2 afferma che le vergini possono associarsi («virgines consociari pos-
sunt») per osservare più fedelmente il proprio proposito e aiutarsi reciprocamente nel loro servizio alla
Chiesa. Si tratta di vere e proprie associazioni? A nostro giudizio va distinto il caso di due o più apparte-
nenti all’Ordo virginum, che, con l’approvazione del vescovo, si collegano tra loro condividendo lo stes-
so servizio ecclesiale, la stessa regola di vita, la stessa abitazione ecc. – senza per questo creare però
un’associazione destinata ad allargarsi ad altre e tendenzialmente a permanere oltre la loro specifica
esperienza –, dal caso di una vera associazione con un proprio statuto e aperta a nuove aderenti, forma-
ta da appartenenti all’Ordo o, viceversa, costituita da persone che entrando nell’associazione sanno che
ciò che la qualifica è la proposta alle proprie associate di aderire all’Ordo. Solo nel secondo caso ci si
troverebbe in presenza di una vera associazione, interessata, sia pure nella sua specificità, dalle indica-
zioni che si stanno esponendo.
7
Cf CEI - COMMISSIONE EPISCOPALE PER IL LAICATO, Le aggregazioni laicali nella Chiesa. Nota pastorale,
29 aprile 1993, nn. 15-19.21.
358 Carlo Redaelli

no associazioni pubbliche, e non possono che esserlo, anzitutto quel-


le che
«si propongano l’insegnamento della dottrina cristiana in nome della Chiesa
o l’incremento del culto pubblico, oppure che intendano altri fini il cui conse-
guimento è riservato, per natura sua, all’autorità ecclesiastica».

Sono inoltre associazioni pubbliche quelle fatte sorgere dall’au-


torità ecclesiastica per altre finalità per le quali non si sia sufficiente-
mente provveduto con iniziative private. Tale seconda fattispecie,
prevista dal paragrafo secondo del predetto canone, va ben compre-
sa. Non ci si trova qui di fronte a un’ipotesi basata su un’amplissima
discrezionalità lasciata all’autorità ecclesiastica, che potrebbe quindi
costituire a suo piacimento associazioni pubbliche per qualsiasi fina-
lità (ovviamente sempre ecclesiale), ma si è in presenza della possi-
bilità data alla stessa autorità ecclesiastica di farsi promotrice di as-
sociazioni che risultassero particolarmente utili per una concreta co-
munità cristiana. Esse non sarebbero associazioni che perseguono
finalità per sé riservate all’autorità ecclesiastica – altrimenti si rica-
drebbe nell’ipotesi del paragrafo primo del can. 301 –, ma neppure
associazioni qualsiasi. Sarebbero invece associazioni destinate a fina-
lità che l’autorità in qualche modo fa sue, ritenendole particolarmen-
te significative per il concreto popolo di Dio a lei affidato. Si possono
tentare alcuni esempi. Se a Milano non ci fosse nessuna realtà che si
preoccupasse di studiare e diffondere il pensiero di sant’Ambrogio,
potrebbe essere pienamente giustificata la decisione del vescovo di
erigere un’associazione pubblica per tale scopo. Non avrebbe senso,
invece, l’intervento del vescovo di una diocesi non legata a sant’Am-
brogio per costituire un’associazione pubblica con quella finalità. Un
altro esempio potrebbe essere quello di una necessità caritativa par-
ticolarmente urgente in una diocesi: in assenza di un’iniziativa di un
gruppo di fedeli, e anche per costituire quasi un modello da propor-
re all’imitazione, il vescovo potrebbe far nascere un’associazione
pubblica con quella precisa finalità. La distinzione associazione pub-
blica - associazione privata va quindi ben applicata. Non vanno quin-
di assecondati desideri e intenzioni basati su equivoci. Così non sarà
da accogliere la richiesta di un’associazione di essere pubblica, solo
perché ritiene ciò più prestigioso. Ma va anche contrastato il deside-
rio di un’associazione che, pur perseguendo finalità riservate all’au-
torità ecclesiastica, nel senso inteso dal can. 301 § 1, volesse restare
privata, semplicemente per avere meno obblighi nei confronti del-
Il vescovo di fronte alle associazioni 359

l’autorità e quasi per sottrarsi al suo controllo (viceversa, non sareb-


be legittima la tendenza dell’autorità a considerare tutte le associa-
zioni come pubbliche, per il motivo esattamente opposto).
Una terza considerazione concerne la distinzione, suggerita dal
citato documento della CEI, tra associazioni private di fatto e associa-
zioni private riconosciute dall’autorità 8. Rinviando a quanto già soste-
nuto in Quaderni 9, si ritiene non accettabile tale qualificazione tipo-
logica. In particolare: le associazioni, se veramente tali (cioè non
gruppi più o meno informali o realtà ancora non ben definite), non
possono mai essere solo di fatto (se non nella primissima fase di vi-
ta): esse, se vivono nella Chiesa, non possono che farsi conoscere
dall’autorità pastorale e la conoscenza non può avvenire che, prima-
riamente, tramite ciò che qualifica obbligatoriamente (cf can. 304 § 1)
un’associazione, cioè gli statuti. D’altra parte, la conoscenza da parte
dell’autorità non comporta un riconoscimento, termine ambiguo se
usato in contesto italiano 10, ma necessariamente solo una presa d’at-
to, mentre la lode o raccomandazione o il conferimento della perso-
nalità giuridica privata sono interventi solo eventuali. Si noti che, al
limite, la presa d’atto dell’esistenza ecclesiale potrebbe essere mani-
festata anche solo come non intervento di censura per carenze dot-
trinali o disciplinari. Per un’esigenza di certezza del diritto, per una
correttezza nei riguardi dell’associazione e, soprattutto, per permet-
tere quel raccordo con la compagine ecclesiale al fine di rendere
possibile la vigilanza dell’autorità e il coordinamento pastorale – di
cui sopra si è scritto – non ci si può però limitare a ciò, ma deve es-
serci un intervento positivo dell’autorità ecclesiastica con le modalità
che più oltre si indicheranno per le diverse fattispecie. Anzi, per le
stesse ragioni, quando l’autorità venisse a conoscenza dell’esistenza
di un’associazione, deve invitarla a presentarsi nei modi previsti e an-
che verso di essa è tenuta agli adempimenti di sua competenza.
Un’ultima annotazione previa, anche se non di carattere norma-
tivo, che può apparire banale, ma che l’esperienza sottolinea come
importante, è che l’esistenza di un’associazione non può essere so-
lo... intenzionale, ma deve essere effettiva. In altri termini: non basta
la presenza dell’intenzione di uno o due fedeli, tradotta in uno statuto

8
Cf documento citato nella nota precedente ai nn. 25-26.
9
Cf articolo citato per esteso alla nota 4, pp. 450-452.
10
Nell’ordinamento italiano associazione riconosciuta equivale ad associazione dotata di personalità
giuridica.
360 Carlo Redaelli

formalmente ineccepibile, perché si dia realmente un’associazione.


Occorre invece la presenza di più associati e un’effettiva vita e atti-
vità associativa, che duri da un certo periodo di tempo 11. Se esistono
solo intenzioni, sia pure promettenti, il vescovo e chi da lui incarica-
to non deve quindi né dare alcuna approvazione, né alcuna presa
d’atto, ma semplicemente invitare a dare attuazione alle intenzioni
manifestate, rinviando qualsiasi formale intervento a quando l’asso-
ciazione avrà dato prova di esistere e di operare pienamente.

Modalità di inter vento per le diverse tipologie


Tra le associazioni che si rivolgono al vescovo, è opportuno di-
stinguere diverse tipologie, perché ognuna di esse richiede delle
modalità di intervento in parte differenti.

Associazioni diocesane per le quali l’autorità


non è ancora intervenuta
Per le associazioni che entrano formalmente in contatto con
l’autorità ecclesiastica per la prima volta, può essere opportuno sug-
gerire di avviare anzitutto dei contatti preparatori con gli organismi
competenti. In concreto: con chi è incaricato della consulenza, al fine
di fare un previa verifica della correttezza giuridica degli statuti, e
con chi è tenuto, a nome del vescovo, a garantire la promozione e il
coordinamento pastorale tra associazioni, al fine di far conoscere, se
già non è nota, l’iniziale attività dell’associazione. Va in ogni caso sal-
vata la libertà dell’associazione di presentarsi formalmente al vesco-
vo anche senza aver avuto questi primi contatti.
La presentazione al vescovo dovrebbe avvenire con una sinte-
tica esposizione dell’origine e della natura dell’associazione, con una
relazione sull’attuale attività, con la produzione dell’atto costitutivo e
dello statuto 12, con l’indicazione dei responsabili a cui il vescovo e i
suoi collaboratori possono fare riferimento, con la segnalazione delle
persone (per esempio uno o più parroci, un vicario episcopale) che
conoscono l’associazione e possono darne relazione al vescovo 13.

11
Per analogia, si può ricordare che in alcune leggi italiane, la possibilità di iscrizione a determinati al-
bi delle associazioni e, di conseguenza, di usufruire dei diritti previsti, è subordinata anche alla docu-
mentata attività dell’associazione da un certo periodo di tempo (ad esempio: sei mesi, uno o due anni).
12
La distinzione tra i due documenti è spiegata nell’articolo citato alla nota 2, pp. 346-348.
13
Può essere utile presentare al vescovo un parere scritto di queste persone.
Il vescovo di fronte alle associazioni 361

Dovrebbe inoltre contenere la formale domanda di essere considera-


ta come associazione ecclesiale ed, eventualmente, esponendo con
precisione i motivi della richiesta, di ottenere la persona giuridica
privata o, al limite, di essere eretta in associazione pubblica.
Il tutto dovrebbe essere depositato presso la cancelleria vesco-
vile, cui spetta rilasciare ricevuta della documentazione presentata. Il
cancelliere passerà la documentazione all’organismo incaricato del-
l’esame giuridico degli statuti – sempre che non sia la stessa cancel-
leria – e, successivamente, all’organismo competente per le associa-
zioni o per quel tipo di associazioni, sempre se esistente (per esem-
pio, il vicario episcopale per la vita consacrata, se l’associazione è in
realtà solo il primo gradino per raggiungere la configurazione di isti-
tuto di vita consacrata 14).
Da questa fase istruttoria potrebbero emergere delle perples-
sità da un punto di vista di correttezza giuridica, ad esempio per ca-
renze degli statuti rispetto alle prescrizioni normative vigenti. In
questo caso il cancelliere inviterà (meglio se per iscritto) l’associa-
zione a rivolgersi al servizio di consulenza, al fine di risolvere le pro-
blematiche esistenti. Potrebbero, invece, risultare delle carenze su
un piano dottrinale, disciplinare o pastorale. Tali difficoltà dovrebbe-
ro essere manifestate, sempre in forma scritta, all’associazione, con
l’invito a correggere quanto non ritenuto ecclesialmente valido, pren-
dendo contatto, se è il caso, con gli organismi competenti e rinviando
a un momento successivo alla soluzione degli aspetti problematici
qualsiasi formale intervento del vescovo (evidentemente in caso di
gravi errori dottrinali o disciplinari o di situazioni che potrebbero ad-
dirittura far sospettare la presenza di reati perseguibili dall’autorità
civile, il vescovo non potrà esimersi di prendere gli opportuni e tem-
pestivi provvedimenti a tutela della comunione ecclesiale, dei fedeli
e del buon nome della comunità cristiana). Nel caso in cui, sempre
nella fase istruttoria, ci si rendesse conto – ma questo dovrebbe
emergere fin dai primi contatti informali – di trovarsi di fronte non a
un’associazione, ma a un progetto di associazione, il cancelliere invi-
terà gli interessati a ripresentarsi solo dopo la costituzione dell’asso-
ciazione e un suo iniziale periodo di esistenza e di attività, e indi-
cherà loro eventualmente gli organismi diocesani (ad esempio, un
ufficio di curia o il vicario episcopale competente, o il vicario fora-

14
Su questa ipotesi, cf S. RECCHI, Gli stadi evolutivi dell’associazione: dal gruppo all’istituto di vita con-
sacrata, in Quaderni di diritto ecclesiale 3 (1990) 356-364.
362 Carlo Redaelli

neo/decano), con cui mantenere i contatti nell’avvio e nello sviluppo


della nuova realtà associativa.
Quando l’istruttoria si concludesse positivamente, è necessario
scegliere quale provvedimento adottare da parte del vescovo, sia sul-
la base della richiesta dell’associazione, sia sulla base – secondo
quanto sopra indicato – dei dati oggettivi caratterizzanti l’associazione
confrontati con la normativa vigente. Le possibilità sono, pertanto:
– provvedimento del vescovo con cui si prende atto dell’esisten-
za dell’associazione e della conformità ecclesiale dei suoi statuti a
norma del can. 299 § 3;
– provvedimento del vescovo con il quale, oltre a prendere atto
di quanto sopra, si loda e/o si raccomanda l’associazione ai fedeli, a
norma dei cann. 298 § 2 e 299 § 2;
– decreto formale del vescovo con cui viene conferita la perso-
nalità giuridica privata ai sensi del can. 322 § 1, previa approvazione
degli statuti a norma del can. 322 § 2 (quest’ultima potrebbe però es-
sere contenuta nello stesso provvedimento; anche un’associazione
dotata di personalità giuridica può essere inoltre lodata e/o racco-
mandata);
– decreto di erezione in associazione pubblica a norma dei cann.
301 e 312.
La scelta dell’ipotesi più adeguata al caso concreto sarà fatta in
ultima analisi dal vescovo, sulla scorta di quanto indicato dagli orga-
nismi competenti.
Spetta di norma al cancelliere la redazione dell’atto, la controfir-
ma dello stesso (cf can. 474), il deposito di esso e di tutta la documen-
tazione concernente l’associazione nell’archivio di curia, l’inserimento
di questa nell’albo delle associazioni e, se pubblicato, nell’apposito e-
lenco dell’annuario diocesano. Sempre il cancelliere provvederà a tra-
smettere copia del provvedimento vescovile all’associazione, ricordan-
do alla stessa l’obbligo di comunicare ogni variazione (per esempio
dei responsabili) e invitandola, se già non è stato fatto dal vescovo, a
mantenere i contatti con l’organismo incaricato del coordinamento
dell’attività pastorale, a cui presentare, ad esempio, il programma an-
nuale. Potrà essere opportuno ricordare, soprattutto per le associazio-
ni pubbliche, gli obblighi a cui sono tenute dalla normativa vigente
(per esempio, circa il rendiconto annuale sull’amministrazione dei be-
ni: cf can. 319 § 1). Spetterà poi al cancelliere la redazione e la conser-
vazione degli altri provvedimenti concernenti l’associazione (per
esempio, l’atto di conferma del consigliere spirituale: cf can. 324 § 2).
Il vescovo di fronte alle associazioni 363

Qualora, per motivi di carattere prudenziale, il vescovo ritenes-


se poco opportuno emanare un proprio formale provvedimento se-
condo la prima possibilità sopra indicata, ma, d’altra parte, non esi-
stesse la possibilità di negarlo senza ledere il diritto di associazione
degli interessati, potrebbe essere utile incaricare il cancelliere di co-
municare all’associazione l’avvenuta presa d’atto ai sensi del can. 299
§ 3, da parte dell’autorità competente, senza però trasmettere alcuno
scritto firmato dal vescovo 15.
Va infine precisato, che per le associazioni pubbliche nate diret-
tamente dall’intervento dell’autorità ecclesiastica, le cose saranno
evidentemente più semplici nella fase istruttoria, durante la quale il
vescovo si servirà, come è ovvio, degli organismi competenti. Per
quanto riguarda il deposito degli atti, l’inserimento nell’albo eccete-
ra, vale quanto scritto per le altre associazioni.

Associazioni pubbliche erette dalla S. Sede


o dalla Conferenza episcopale
Al vescovo diocesano potrebbero presentarsi, oltre che nuove
associazioni diocesane, anche associazioni pubbliche già erette da
un’autorità superiore. In questo caso si tratterebbe della richiesta re-
lativa all’apertura di una sezione delle stesse in diocesi. A norma del
can. 312 § 2 per tale apertura è necessario il consenso scritto del ve-
scovo diocesano. Esso dovrà essere rilasciato previa domanda del-
l’associazione interessata, che dovrà produrre al vescovo copia au-
tentica del provvedimento di erezione con l’annesso statuto, oltre a
descrivere la propria natura e attività sia in generale sia quella previ-
sta in diocesi, e a comunicare i nomi dei responsabili. Il tutto dovrà,
come sempre, essere depositato presso la cancelleria vescovile. An-
che la sezione di un’associazione pubblica verrà inserita nell’albo
delle associazioni e, se esistente, nell’elenco dell’annuario diocesano.
Pure a essa andrà rivolto l’invito al coordinamento dell’attività pasto-
rale, attraverso il rapporto con i competenti organismi diocesani.

15
Quanto qui ipotizzato può forse sembrare una scappatoia poco significativa dal punto di vista della
normativa canonica. E, in effetti, non c’è grande differenza tra uno scritto firmato dal vescovo e uno
che attesta la stessa sua volontà firmato, però, dal cancelliere. Ma, come ben sa chi è immerso nella
prassi ecclesiale, anche la carta intestata e una firma autografa... hanno la loro importanza e, talvolta,
vanno utilizzate con prudenza (anche le fotografie! Chi scrive ricorda il caso di alcuni aderenti a un’as-
sociazione, che tentavano di vantare una approvazione... pontificia, sulla base di una foto con il Papa
che salutava alcuni di essi in occasione di un’udienza generale).
364 Carlo Redaelli

Un problema particolare è quello dell’autorità di riferimento per


le sezioni diocesane di associazioni approvate dalla S. Sede o dalla
Conferenza episcopale: hanno verso il vescovo gli stessi obblighi del-
le associazioni pubbliche diocesane, oppure rispondono solo all’auto-
rità superiore? In termini generali si può rispondere che se la sezione
diocesana non ha un’autonomia rispetto all’associazione, essa, trami-
te appunto l’associazione generale, resta immediatamente soggetta
alla S. Sede o alla Conferenza episcopale, salvo il diritto-dovere del ve-
scovo di vigilanza e di coordinamento pastorale. Se ci fossero proble-
mi, il vescovo dovrebbe comunque rivolgersi all’autorità competente,
potendo al massimo revocare il consenso relativo all’apertura della
sezione in diocesi. Qualora, invece, la sezione si presentasse come
una vera e propria associazione e l’associazione generale fosse quindi
praticamente una confederazione di associazioni, è da ritenere che
essa dovrebbe dipendere dal vescovo analogamente a qualsiasi asso-
ciazione pubblica diocesana. Per risolvere questi problemi occorrerà
fare riferimento anzitutto agli statuti oltre che all’autorità che ha eret-
to l’associazione, a cui si potranno chiedere anche delucidazioni circa
eventuali problematiche legate alla stessa interpretazione degli statuti
e della natura dell’associazione.
Resta, infine, da precisare che un’associazione eretta dalla S. Se-
de o dalla Conferenza episcopale, ha per definizione (cf can. 312 § 1)
diritto di essere presente in ogni diocesi, rispettivamente, del mondo
o della nazione. Ciò non significa che il consenso del vescovo dioce-
sano, necessario per l’esercizio di tale diritto (cf can. 312 § 2), sia un
atto dovuto in ogni caso. La sua negazione, però, proprio perché limi-
tativa di un diritto, deve essere suffragata da gravi ragioni, sia pure
anche solo di opportunità pastorale, che il vescovo interessato por-
terà a conoscenza, oltre che dell’associazione, anche dell’autorità che
l’ha eretta.

Associazioni private che hanno ottenuto un provvedimento


dalla S. Sede o dalla Conferenza episcopale
Per le associazioni private con personalità giuridica conferita
dalla S. Sede o dalla Conferenza episcopale o che dalle stesse autorità
hanno ottenuto almeno un provvedimento ai sensi del can. 299 § 3, il
Codice non stabilisce particolari obblighi per agire in una specifica
diocesi e per aprire in essa delle sezioni. Dal momento, però, che
Il vescovo di fronte alle associazioni 365

«sono soggette alla vigilanza dell’Ordinario del luogo le associazioni diocesa-


ne e le altre, in quanto esercitano la loro azione nella diocesi» (can. 305 § 2)

e che anche verso di esse l’autorità ecclesiastica è tenuta a garantire


il coordinamento dell’azione pastorale (cf can. 323 § 2), risulta neces-
sario che anch’esse, sia che agiscano in diocesi tramite propri asso-
ciati in collegamento con la sede centrale, sia che diano origine a
una vera e propria sezione diocesana, facciano conoscere la propria
esistenza al vescovo diocesano, in modo analogo alle associazioni
pubbliche (produzione di copie autentiche dei provvedimenti che le
riguardano e degli statuti, indicazione dei responsabili, presentazio-
ne del programma annuale di attività, ecc.; il tutto da depositare nel-
la cancelleria vescovile). Saranno inoltre invitate a riferirsi agli orga-
nismi diocesani competenti e a collaborare con cordialità e disponi-
bilità, salva sempre la loro autonomia, e verranno inserite nell’albo
delle associazioni. In caso di difficoltà o, comunque, per qualsiasi
questione che le riguardasse, il vescovo prenderà contatti con l’auto-
rità competente, S. Sede o Conferenza episcopale.
Anche per queste associazioni si può parlare di un diritto a esse-
re presenti e ad agire in ogni diocesi, rispettivamente a livello univer-
sale e a livello nazionale? Se la natura privata è ininfluente sul diritto
di associazione, la risposta non può che essere affermativa. In altri
termini, se non è la natura pubblica o privata a costituire il discrimi-
nante per determinare il diritto di associazione – e non può esserlo
perché la distinzione pubblico/privato nel campo delle associazioni è
stata, come noto, appositamente introdotta per ampliare e non per li-
mitare il diritto dei fedeli ad associarsi, anzi per garantirlo senza che
sia necessario in tutti i casi un penetrante intervento dell’autorità –,
allora qualsiasi associazione e, a maggior ragione se già passata al va-
glio dell’istanza superiore, ha potenzialmente il diritto di essere pre-
sente e operare in ogni diocesi. Si comprende, quindi, che la neces-
sità di un consenso scritto perché si costituiscano in diocesi delle se-
zioni di associazioni pubbliche, necessità non presente per le private,
non è un privilegio per le associazioni pubbliche, ma, caso mai, una li-
mitazione al loro diritto di associazione, limitazione che si giustifica
col fatto che una sezione di associazione pubblica, in quanto pubblica,
coinvolge immediatamente l’autorità diocesana, che deve pertanto es-
sere consenziente alla sua presenza e alla sua azione in diocesi.
Pure nel caso delle associazioni private per le quali ci sia stato
un intervento della S. Sede o della Conferenza episcopale, il vescovo
366 Carlo Redaelli

diocesano contatterà l’autorità competente nel caso di difficoltà o di


dubbi e la informerà, qualora ritenesse per gravi ragioni inopportu-
no che l’associazione operi nella sua diocesi o avesse rilevato in essa
gravi mancanze in materia di fede e di costumi.

Associazioni pubbliche erette in un’altra diocesi


Un vescovo ha competenza a erigere un’associazione pubbli-
ca solo «nell’ambito del suo territorio per le associazioni diocesane»
(can. 312 § 1, 3°). Ciò significa che un’associazione pubblica eretta
da un vescovo non dovrebbe uscire dall’ambito della diocesi. Qualo-
ra, infatti, essa fosse interessata a operare in più diocesi, la compe-
tenza a erigerla sarebbe della Conferenza episcopale. Di fatto la
realtà è più complessa. Esistono, infatti, associazioni pubbliche eret-
te in una diocesi, che continuano ad agire prevalentemente in essa,
ma, a volte per motivi del tutto occasionali, hanno cominciato a ope-
rare e ad associarsi nuovi membri in una o più diocesi vicine. Altro
caso è quello di un’associazione che ha intenzione di operare su sca-
la nazionale, ma che per il momento agisce solo in poche diocesi, e
che quindi può trovare a livello di Conferenza episcopale qualche re-
mora all’erezione in associazione pubblica nazionale 16.
In questi due casi si può sostenere, in prima approssimazione,
che il vescovo, chiamato ad accogliere nella sua diocesi un’associa-
zione pubblica eretta in un’altra, dovrebbe tenere una linea di con-
dotta analoga a quella da seguire per le associazioni pubbliche erette
dalla S. Sede o dalla Conferenza episcopale, come sopra è stata de-
scritta. Più precisamente, occorre aggiungere che sarà, però, oppor-
tuno che l’associazione sia presentata direttamente dal vescovo che
l’ha eretta in persona giuridica pubblica, dal momento che è sua la
responsabilità principale verso di essa. Va inoltre sottolineato che in
questa fattispecie, a differenza di altre che qui si stanno esaminando,
non esiste un vero e proprio diritto dell’associazione a essere accolta
in una diocesi diversa da quella di origine. Per sua natura, sia pure
con le precisazioni sopra indicate, essa è infatti destinata a operare

16
Si noti che il can. 312 § 1, 2° definisce associazioni nazionali, per le quali è competente la Conferen-
za episcopale, «quelle che sono destinate [...] a esercitare la loro attività in tutta una nazione». Si fa rife-
rimento, quindi, alla destinazione a operare in tutta la nazione e non al fatto che l’associazione operi in
tutta la nazione. In pratica, però, diventa difficile considerare nazionale un’associazione, che già non si
esprima in un numero significativo di diocesi appartenenti al territorio della Conferenza episcopale.
Il vescovo di fronte alle associazioni 367

nella sola diocesi in cui è nata e non in tutte le diocesi del mondo, co-
me avviene per quelle erette dalla S. Sede, o in quelle di una nazio-
ne, come è proprio di quelle erette da una Conferenza episcopale. Di
conseguenza, si potrebbe affermare che il vescovo di un’altra diocesi
gode nei suoi confronti della stessa libertà di valutazione pastorale
che avrebbe verso una nuova associazione che deve nascere per la
prima volta in diocesi e che l’atto di consenso con cui l’accoglie pos-
sa essere inteso come un provvedimento di erezione in diocesi.

Associazioni private che hanno ottenuto un provvedimento


dal vescovo di un’altra diocesi
Si tratta delle associazioni sorte in una diocesi specifica e che
hanno ottenuto dal relativo vescovo la personalità giuridica privata o
almeno un provvedimento ai sensi del can. 299 § 3. Anch’esse, come
già si è visto per quelle pubbliche, dovrebbero per sé operare nella
sola diocesi di origine, ma di fatto spesso, occasionalmente o inten-
zionalmente, agiscono e cercano aderenti in altre diocesi. In questo
caso dovranno presentarsi al vescovo, producendo copie autentiche
degli statuti e dei provvedimenti del vescovo della diocesi di origine,
comunicando i nominativi dei responsabili, presentando il program-
ma annuale di attività ecc. (il tutto da depositare, come sempre, nella
cancelleria vescovile). Il vescovo, esaminata la documentazione e
raccolte le informazioni necessarie, potrà opportunamente emettere
un provvedimento in cui, sulla base del discernimento operato dal-
l’altro vescovo o anche del fatto che l’associazione è stata dotata dal-
lo stesso di personalità giuridica privata, prenderà atto dell’esistenza
dell’associazione nella sua diocesi e disporrà la sua iscrizione nell’al-
bo diocesano. Inviterà poi l’associazione, come si è visto in tutti gli
altri casi, a riferirsi agli organismi diocesani competenti e a collabo-
rare all’azione pastorale della Chiesa particolare. Qualora, invece,
fosse perplesso sull’associazione in generale, o su qualche aspetto
della sua vita o della sua attività, si potrà utilmente confrontare con il
vescovo della diocesi di provenienza. Va tenuto presente che, in que-
sta particolare fattispecie, non esiste un diritto dell’associazione, in
quanto già costituita e in qualche modo verificata dal vescovo della
diocesi di origine, a operare in un’altra diocesi. Gode, invece, dello
stesso diritto di un’associazione che si costituisse ex novo nella se-
conda diocesi. Il fatto, pertanto, che sia già nata e verificata altrove,
368 Carlo Redaelli

rappresenta solo un precedente che il vescovo terrà presente, re-


stando però libero nel suo discernimento 17.

Associazioni legate a istituti religiosi


Va distinto il caso di associazioni che si ispirano in senso lato al
carisma di qualche istituto religioso o che sono state promosse da
uno o più appartenenti a un istituto, a titolo personale (sia pure con il
consenso del superiore competente), da quelle che per definizione
sono proprie di un istituto (cf can. 312 § 2), siano esse terzi ordini o
simili (cf can. 303) o qualcosa di diverso, ma sempre esplicitamente
collegato a uno specifico istituto religioso.
Nel primo caso non si esce dalla normale previsione normativa:
valgono, pertanto, tutte le indicazioni fin qui date, con la centralità
del riferimento al vescovo diocesano. Nel secondo caso, invece, ci si
trova di fronte ad associazioni pubbliche erette per privilegio aposto-
lico e dipendenti dalla competente autorità di un istituto di vita con-
sacrata.
A proposito di queste, vanno fatte alcune precisazioni, seguen-
do la normativa codiciale. Va osservato, anzitutto, che si tratta di as-
sociazioni pubbliche, perché non nascono dall’iniziativa privata di fe-
deli, ma sono promosse dall’istituto religioso e per una finalità affine
alla sua, finalità da considerare evidentemente pubblica. Si deve poi
distinguere tra due tipi di associazioni: quelle erette presso la chiesa
o la casa propria dell’istituto e quelle erette al di fuori delle proprie
chiese o case, sempre in forza di un privilegio apostolico. La distin-
zione riguarda il diverso intervento del vescovo diocesano: il consen-
so all’istituto per erigere quelle del primo tipo è contenuto, come
specifica il can. 312 § 2, nello stesso consenso a erigere una casa reli-
giosa di un determinato istituto religioso; per quelle del secondo ti-
po, invece, occorre uno specifico consenso del vescovo diocesano,
sia che si tratti di un’associazione, che di una sezione di una già esi-
stente (cf can. 312 § 2).
L’autorità di riferimento per le associazioni proprie di un istituto
religioso è lo stesso istituto nella persona dei superiori competenti. Al-

17
Il vescovo della seconda diocesi non potrà, però, costituire in persona giuridica privata un’associa-
zione che goda già di questa caratteristica, perché la personalità giuridica, una volta ottenuta, vale per
tutta la Chiesa. Se ritenesse opportuno, invece, conferire tale personalità a un’associazione che non l’ha
ancora ottenuta dal vescovo d’origine, dovrà ovviamente informarlo ed essere consapevole della re-
sponsabilità che si assume.
Il vescovo di fronte alle associazioni 369

l’istituto, infatti, spetta l’alta direzione dell’associazione (cf can. 303); la


nomina o la conferma del moderatore e del cappellano sono riservate
al superiore dell’istituto, salvo si tratti di associazioni erette per privi-
legio apostolico fuori dalla chiesa o dalla casa dell’istituto (cf can. 317
§ 2); i membri dell’istituto che presiedono o assistono un’associazione
collegata con lo stesso sono tenuti a favorire la collaborazione di es-
sa con le attività apostoliche esistenti in diocesi e con le altre asso-
ciazioni ( cf cann. 311 e 328).
Che rapporto ha il vescovo diocesano con queste associazioni,
oltre al consenso, diretto o indiretto, alla loro presenza in diocesi e
all’intervento, sempre che non spetti alla Conferenza episcopale o al-
la Santa Sede, per nominare o confermare moderatori e cappellani?
Quello previsto anche per le altre associazioni in tema di vigilanza
(cf can. 305 § 2) e di apostolato (cf cann. 311 e 328). In concreto e
nel rispetto dell’autonomia di queste associazioni e degli istituti reli-
giosi a cui fanno riferimento, sembra essenziale che il vescovo, pri-
ma di dare il proprio consenso diretto o indiretto, conosca gli statuti
dell’associazione e sappia con certezza da chi esse dipendano 18. Que-
sto tipo di associazioni andranno iscritte nell’albo diocesano delle as-
sociazioni, ma in un capitolo apposito. Inoltre, per le associazioni
non puramente interne alle realtà degli istituti, operanti quindi in
diocesi, il vescovo dovrà anche chiedere, come per le altre associa-
zioni, informazioni periodiche circa le diverse iniziative e inviterà a
tenere gli opportuni contatti con gli organismi diocesani competenti
per i diversi ambiti in cui esse agiscono. Qualora il vescovo rilevasse
problemi in queste associazioni, prenderà contatto con i competenti
superiori religiosi, salva sempre l’estrema possibilità, prevista dal
can. 320 § 2, di sopprimere l’associazione alle condizioni previste.

Associazioni diocesane erette, approvate o comunque esistenti


prima dell’entrata in vigore del Codice del 1983
Si tratta delle associazioni nate prima del Codice del 1983, spes-
so riconducibili con difficoltà alle classificazioni e alle normative at-
tuali. Che cosa può fare il vescovo nei loro confronti? Un primo sug-
gerimento è quello di raccogliere e studiare la documentazione che
le interessa, anche al fine di verificare l’esatta tipologia in cui inseri-

18
Il tutto dovrà risultare per iscritto ed essere depositato in cancelleria.
370 Carlo Redaelli

re ciascuna di esse. Un secondo passo, da operare in attesa di mag-


giori chiarimenti, è quello di iscriverle comunque nell’albo diocesa-
no delle associazioni, chiedendo che esso sia aggiornato con tutti i
dati normalmente richiesti (statuto, nominativi dei responsabili, se-
de, eventuale provvedimento di riconoscimento civile ecc.). Contem-
poraneamente andrà esigita l’informazione tempestiva e periodica
sulle diverse attività apostoliche programmate. Un ultimo e decisivo
passo sarà poi quello di dirimere definitivamente il problema della
qualificazione di ciascuna associazione con un intervento a carattere
dichiarativo della sua natura o, se il caso, con un provvedimento so-
stanziale, che, invece di limitarsi a dichiarare come va considerata
l’associazione alla luce della normativa vigente, decida comunque di
considerarla in una determinata tipologia 19.

Il rapporto del vescovo con le altre associazioni


Esistono talvolta delle associazioni, non qualificabili propria-
mente come ecclesiali – perché, per esempio, non rispondenti ad al-
cuni dei requisiti essenziali previsti dall’attuale normativa o perché
nate nell’ambito civile, senza eccessiva preoccupazione per una spe-
cificazione ecclesiale (magari solo con un generico accenno all’ispi-
razione cristiana) –, che però desiderano in qualche modo sentirsi
inserite nel contesto ecclesiale della Chiesa particolare e avere, di
conseguenza, un rapporto con il vescovo.
In taluni casi, queste associazioni prevedono statutariamente
anche qualche forma di intervento da parte del vescovo, ad esempio:
la conferma di qualche carica elettiva, la previsione della nomina di
un assistente spirituale, la destinazione del patrimonio residuo in ca-
so di scioglimento 20.
Stando così le cose, è opportuno che presso la cancelleria ve-
scovile sia depositata anche la documentazione relativa a tali associa-

19
L’Istruzione in materia amministrativa, pubblicata dalla CEI nel 1992, invita in questo campo a erige-
re comunque in persona giuridica pubblica le associazioni riconosciute civilmente come «associazioni
laicali di culto», secondo la normativa precedente la Legge 222/85 (cf n. 111). Per tali associazioni era
sufficiente, ai tempi, un semplice visto dell’autorità ecclesiastica. Ora, invece, sembra opportuno che
un soggetto dotato di personalità giuridica nell’ordinamento civile come ente ecclesiastico, l’abbia an-
che nell’ordinamento canonico.
20
Qualche statuto riserva al vescovo la nomina diretta di uno o più membri del consiglio di ammini-
strazione o del collegio dei revisori dell’associazione. Attualmente, però, sia la legislazione più recente,
sia la prassi amministrativa esaltano a tal punto la democraticità delle associazioni da non prevedere più
interventi di questo tipo e da escludere, in particolare, la possibilità che alcuni membri, o persino lo
stesso presidente, siano tali di diritto.
Il vescovo di fronte alle associazioni 371

zioni e che anch’esse, sia pure in modo diverso dalle associazioni


propriamente ecclesiali, siano seguite, incoraggiate e, possibilmente,
coordinate (ad esempio, attraverso l’invito a partecipare a specifiche
consulte o coordinamenti).

CARLO REDAELLI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
QUADERNI
DI DIRITTO
ECCLESIALE

SOMMARIO PERIODICO
373 Editoriale TRIMESTRALE
ANNO VIII
376 Confessione, penitenza, riconciliazione. N. 4 - OTTOBRE 1995
Introduzione storico-teologica
di Gianni Carzaniga DIREZIONE ONORARIA

390 La facoltà di confessare Jean Beyer, S.I.


di Gianni Trevisan DIREZIONE E REDAZIONE
398 Il confessore, giudice e medico Francesco Coccopalmerio
di Egidio Miragoli Paolo Bianchi - Massimo Calvi
412 Il confessore educatore: l’uso delle conoscenze Egidio Miragoli - G. Paolo Montini
Silvia Recchi - Carlo Redaelli
acquisite dalla confessione
Mauro Rivella
di Mauro Rivella
Giangiacomo Sarzi Sartori
419 Commento a un canone Gianni Trevisan
L’impegno a diffondere Tiziano Vanzetto - Eugenio Zanetti
l’annuncio della salvezza (can. 211)
di Silvia Recchi SEGRETERIA DI REDAZIONE
G. Paolo Montini
424 Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio Via Bollani, 20 - 25123 Brescia
XI. L’incapacità ad assumere Tel. (030) 37.121
gli obblighi essenziali del matrimonio
(can. 1095, n. 3) PROPRIETÀ
di Paolo Bianchi Istituto Pavoniano Artigianelli
450 Il diritto canonico dalla A alla Z Via G.B. Niccolini, 8
20154 Milano
Humanitas
di G. Paolo Montini AMMINISTRAZIONE
481 Libri ricevuti Editrice Àncora
Via G.B. Niccolini, 8
482 Indice dell’annata 1995
20154 Milano
Tel. (02) 3360.8941

STAMPA
Grafiche Pavoniane
Istituto Pavoniano Artigianelli
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano

DIRETTORE RESPONSABILE
Vigilio Zini

ABBONAMENTI PER IL 1995


Italia: L. 20.000
Estero: L. 27.000
Via Aerea L. 37.000
Un fascicolo: L. 7.000
Fascicoli arretrati: L. 14.000
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intestato a: Editrice Àncora
Autorizzazione del Tribunale di
Milano n. 752 del 13.11.1987
Nulla osta alla stampa:
Milano, 18-12-1995, don Franco Pizzagalli Spedizione in abbonamento
Imprimatur: Milano 19-12-1995, Angelo Mascheroni Vic. ep. postale/50% - Milano
373

Editoriale

«Negli ultimi anni è stato fatto molto per mettere in evidenza –


in conformità, del resto, alla più antica tradizione della Chiesa – l’a-
spetto comunitario della Penitenza e soprattutto del sacramento della
Penitenza nella pratica della Chiesa. Queste iniziative sono utili e ser-
viranno certamente ad arricchire la prassi penitenziale della Chiesa
contemporanea. Non possiamo, però, dimenticare che la conversione è
un atto interiore di una profondità particolare, in cui l’uomo non può
essere sostituito dagli altri, non può farsi “rimpiazzare” dalla comu-
nità. Benché la comunità fraterna dei fedeli, partecipanti alla celebra-
zione penitenziale, giovi grandemente all’atto della conversione perso-
nale, tuttavia, in definitiva, è necessario che in questo atto si pronunci
l’individuo stesso, con tutta la profondità della sua coscienza, con tutto
il senso della sua colpevolezza e della sua fiducia in Dio [...]
La Chiesa, quindi, osservando fedelmente la plurisecolare prassi
del sacramento della Penitenza – la pratica della confessione indivi-
duale, unita all’atto personale di dolore e al proposito di correggersi e
di soddisfare – difende il diritto particolare dell’anima umana. È il di-
ritto a un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che
perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento
della Riconciliazione: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”; “Va’, e d’ora in
poi non peccare più”. Come è evidente, questo è nello stesso tempo il di-
ritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui redento. È il diritto a in-
contrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell’a-
nima, che è quello della conversione e del perdono».

Con queste parole chiare e forti Giovanni Paolo II, all’inizio del
suo Pontificato, nella Lettera enciclica Redemptor Hominis (n. 20 e),
374 Editoriale

descriveva il sacramento della penitenza come un diritto dell’uomo e


un diritto di Cristo.
A questi diritti fondamentali non possono non corrispondere al-
trettanto perentori e fondamentali doveri da parte soprattutto dei mi-
nistri sacri, nell’esercizio del ministero.
Il dovere di “evangelizzare” il sacramento della confessione; il
dovere di dedicare tempo ed energie nella disponibilità ai fedeli per
il ministero della riconciliazione; il dovere di fedeltà e di obbedienza
alla dottrina e al magistero della Chiesa nell’esercizio del sacramen-
to della penitenza; il dovere di comunione con la Chiesa nelle diretti-
ve pastorali universali e locali; il dovere della competenza ministeria-
le; il dovere del rispetto di tutto quanto possa facilitare l’accesso dei
fedeli al sacramento della penitenza, come, per esempio, il manteni-
mento del segreto e la riservatezza.
È pertanto nell’ottica del “ministro del sacramento della peni-
tenza” che si è ritenuto di impostare il presente fascicolo. Dopo una
presentazione generale (Carzaniga) dell’evoluzione cui è soggiaciu-
ta la comprensione e la celebrazione di questo sacramento (e di cui
è segno la pluralità di denominazioni: confessione, penitenza e ricon-
ciliazione), vengono presentate le linee generali della normativa sul-
la facoltà di confessare (Trevisan), di cui dev’essere dotato il sacer-
dote per una valida celebrazione.
È quindi presentata la tradizionale configurazione del sacerdote
confessore quale giudice e medico (Miragoli), traendone i doveri
conformi per l’esercizio di questo ministero.
La proibizione dell’uso delle conoscenze acquisite in confessio-
ne (Rivella) è determinata nei suoi contorni e nei suoi limiti.
Nella seconda parte del fascicolo si dà spazio, come di consue-
to, ad articoli di vario argomento.
Continuando il commento intrapreso ai canoni che recensisco-
no gli obblighi e i diritti fondamentali dei fedeli, viene preso in consi-
derazione il can. 211 (Recchi), in merito al diritto/dovere di tutti nel-
la Chiesa di impegnarsi alla diffusione del vangelo.
La rubrica sui capi di nullità, presentati per i pastori d’anime
che si trovino a un primo approccio con coniugi in difficoltà, verte
sul can. 1095, 3° (Bianchi). Si tratta della previsione di nullità matri-
moniale per incapacità ad assumere gli obblighi essenziali del matri-
monio: un caso in cui si riflettono in modo peculiarissimo i progressi
e gli apporti della dottrina matrimoniale del concilio Vaticano II.
Editoriale 375

Nel contesto delle voci di un dizionario canonico, soprattutto at-


tento ai criteri interpretativi del diritto, si affronta il concetto di hu-
manitas (Montini). Ancorché non termine tecnico e di uso comune,
la sua apparizione ha sempre contribuito a un progresso autentico
nella comprensione del diritto e nella normazione giuridica.
376

Confessione, penitenza, riconciliazione.


Introduzione storico-teologica
di Gianni Carzaniga

Scopo del presente contributo è offrire un quadro generale di


quanto la riflessione teologica ha elaborato e di quanto la prassi ec-
clesiale ha vissuto – i due momenti evidentemente non sono distinti,
ma si influenzano a vicenda – circa il sacramento della riconciliazio-
ne, o come si suole dire oggi, circa il quarto sacramento. Infatti la
denominazione stessa del sacramento è mutata lungo la storia, a se-
conda che si sottolineasse l’uno o l’altro aspetto nella ricca significa-
zione del sacramento stesso. Penso che, posto un accenno alla fon-
dazione biblica del sacramento della riconciliazione, lo schema stori-
co ci aiuterà a cogliere gli aspetti diversi del sacramento e del suo
essere vissuto e celebrato.
Perciò questo lo schema:
– Fondazione biblica
– Epoca patristica o della penitenza canonica
– Epoca della penitenza tariffata
– Sistematizzazione scolastica
– Concilio di Trento e prassi pastorale seguente
– I nostri giorni: problemi e pronunciamenti

Fondazione biblica
Il messaggio centrale del Nuovo Testamento è proprio la ricon-
ciliazione. Gesù appare così a quanti lo incontrano. Sorprende la
gente che egli parli come uno che ha autorità (cf Mc 1, 27). Ma so-
prattutto sorprende che egli riconcili con autorità i peccatori, rinvian-
doli in pace (cf Mc 2, 1-12). Eppure del cammino di riconciliazione
egli si fa autenticamente guida e interprete (cf Lc 7, 36-50). Anzi, tut-
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 377

ta la sua missione si riassume nel chiamare coloro che sono lontani:


l’incontro con Zaccheo è emblematicamente la sintesi delle chiamate
di Gesù (cf Lc 19, 1-10); lo sguardo di misericordia con cui questo fi-
glio di Abramo escluso di fatto dal suo popolo viene chiamato di nuo-
vo alla comunione, e la conseguente “conversione” che muta il cuore
e l’atteggiamento di vita, sono il cammino emblematico di chi acco-
glie il Signore. Egli è l’amore del Padre offerto agli uomini, a qualun-
que uomo, purché accetti di essere perdonato, faccia la liberante
esperienza di essere rigenerato dall’amore e voglia vivere di conse-
guenza. Così è proprio in parabole meravigliose come quella del “pa-
dre misericordioso” (cf Lc 15, 11-32) che ci viene rivelato il volto del
Padre, ed è attraverso Gesù che tale volto diventa accessibile a noi.
Il volto del Padre è soprattutto un volto di misericordia e l’esperienza
che si può fare di lui attraverso Gesù è essenzialmente questa: incon-
trare il Padre come colui nel cui amore siamo riconciliati, salvati, vi-
viamo.
E l’incontro ultimo di Gesù in croce è ancora con un peccatore
che apre il cuore alla grazia che lo salva, nel beatificante colloquio –
davvero estremo – con Gesù (cf Lc 23, 39-43).
La remissione dei peccati è il primo dono del Risorto ai suoi, e
il dono di tale remissione per la forza dello Spirito Santo è il dono del
Signore la sera stessa di Pasqua, quando le porte chiuse a causa dei
giudei non possono respingere la forza del Risorto.
Certo la comunità primitiva si sente comunità salvata: il kerig-
ma annunciato spinge a farsi battezzare confessando i propri peccati
e credendo che solo in Gesù v’è salvezza (cf At 2, 14- 41). Anche la
comunità, però, è ben presto persuasa che l’esperienza del peccato
l’attraversa (cf At 5, 1-11). E il ricordo di alcune parabole di Gesù la
ammonisce circa la presenza dell’opera del nemico anche nel Regno
che si sta realizzando (cf Mt 13, 24-43).
Basterebbero poi pagine come quella di Paolo nella prima lette-
ra ai cristiani di Corinto per dire quanto ancora i cristiani siano debi-
tori “alla carne” (cf il capitolo 5 della suddetta lettera) cosicché oc-
corre intervenire con severità, scomunicando chi vive ancora secon-
do l’uomo vecchio. Certo è questo stesso tenore dell’apostolo che
indica come la lotta al male e al peccato sia viva dentro la comunità
rinata in Gesù Cristo, e come la riconciliazione sia necessaria conti-
nuamente.
378 Gianni Carzaniga

Epoca patristica o della penitenza canonica

È noto e acquisito che il nostro modo di celebrare il sacramento


della riconciliazione non è stato conosciuto nell’età patristica, nei se-
coli cioè nei quali la Chiesa, divenuta piano piano religione ammessa
e poi religione dominante, si consolida nelle sue istituzioni, fino a di-
ventare punto determinante anche nel costume sociale. Sono i secoli
dal quarto al settimo circa.
È esattamente in questo periodo che incontriamo nell’ordina-
mento ecclesiastico un modo tipico di celebrare la riconciliazione,
quel modo che viene chiamato “penitenza canonica”.
Proviamo brevemente a dirne le caratteristiche di fondo, per-
ché tale “modello” resta indubbiamente affascinante e in qualche
modo un riferimento per sempre, quasi una formula ideale alla quale
ispirarsi; quanto meno alcune modalità hanno indubbiamente tradot-
to bene il contenuto del riconciliarsi.

a) Sappiamo innanzitutto che i peccati da sottoporre alla peni-


tenza canonica erano limitati ed erano peccati gravissimi e in genere
notori. Pur essendoci variazioni negli elenchi, sono sostanzialmente
l’adulterio, l’apostasia e l’omicidio a essere sottoposti alla penitenza.
Sappiamo della laboriosità della penitenza, che coinvolgeva nel tem-
po e nelle opere penitenziali le energie del penitente, sicché egli en-
trava di fatto in un “ordo” di persone, con obblighi ben precisi, con
conseguenze ben determinate sul resto della vita stessa.

b) Sappiamo infine della irripetibilità del sacramento, cosicché


esso poteva essere ricevuto una sola volta nella vita. Proprio la con-
cezione della riconciliazione come “seconda tavola di salvezza” ren-
deva tale sacramento eccezionale, per adulti che prima del battesimo
avevano fatto un lungo cammino di catecumenato e avevano quindi
vissuto una scelta molto consapevole. Se il peccato li aveva ancora
sorpresi e vinti, e se la misericordia del Signore si era manifestata a
loro già una seconda volta, non potevano avere più possibilità di per-
dono. Potevano caso mai ricevere il sacramento dell’eucaristia in
punto di morte.

c) Tutto ciò era accompagnato dalla comunità. Era essa che sof-
friva per la separazione del peccatore da lei ed il peccatore si sentiva
di fatto separato dalle celebrazioni e dalla comunità, sentiva la pro-
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 379

pria colpa come una ferita inferta al corpo vivo della comunità che è
la Chiesa. La comunità, cioè la Chiesa, accompagnava con la sua pre-
ghiera, la sua predicazione il penitente. La figura del vescovo in mo-
do particolare dirigeva l’intero cammino, imponeva soprattutto la
penitenza al peccatore, lo guidava, lo accoglieva al compiersi del
cammino.
I due grandi risultati del sacramento allora erano evidenti: per
usare una terminologia che abbraccia tutto l’arco del sacramento, es-
sa genera la “pax cum Deo” e la “pax cum Ecclesia” in modo ben visi-
bile, in una esperienza che coinvolge pienamente il penitente.
La penitenza canonica ha allora il grande merito di essere colle-
gata con il battesimo, rispetto al quale è “seconda tavola di salvezza”;
di essere vissuta sempre in piena e visibile comunione con la Chie-
sa, con la quale si sente riconciliato il penitente al momento dell’as-
soluzione; di essere legata a un vero e progressivo cammino di con-
versione fatto di penitenza salutare, di atteggiamenti concreti di
penitenza, correttivi dal peccato commesso; di disporre quindi al
perdono del Signore come autentico evento di grazia preparato da
un cuore penitente.

Epoca della penitenza tariffata


Sappiamo della crisi profonda portata a ogni istituzione dalle in-
vasioni barbariche. Conosciamo quindi la profonda mutazione che la
Chiesa stessa dovette compiere delle proprie istituzioni, dei propri
stili di vita, sapendo che incontrava mentalità completamente diverse
dalla latina, dal sapiente stile morale legato a tutta la riflessione della
stessa latinità, filtrato, meditato, illuminato dalla Rivelazione cristiana.
D’altro canto sappiamo che la stessa penitenza canonica tanto
solenne quanto eccezionale portava in se stessa le ragioni del pro-
prio decadere: era proprio la sua serietà e il suo rigore, era proprio
la sua eccezionalità a renderla impraticabile per una Chiesa che or-
mai si riempiva di tutti, per il suo riconoscimento ufficiale e per esse-
re diventata ormai la religione dello Stato, la religione delle masse,
la religione dei più.
Del resto sappiamo quanto fosse notevole nel VII e VIII secolo
l’influsso dei monaci irlandesi nella evangelizzazione delle popolazio-
ni barbare e nella stessa Italia, dove il crogiolo barbari-italici si stava
infuocando per dar vita a una nuova civiltà.
380 Gianni Carzaniga

Sappiamo i tratti fondamentali della penitenza nuova, del nuovo


modo cioè di celebrare questo sacramento:
a) Esso è mutuato dallo stile monastico, dalla consuetudine del
monaco di confessare ogni sera le proprie colpe all’abate; l’Irlanda
notoriamente aveva avuto l’evangelizzazione dai monaci e aveva svi-
luppato le proprie abitudini liturgiche sullo stile monastico. Così le
trasportò nel continente.
b) Dopo la confessione veniva subito data la penitenza; confes-
sione fatta al prete e non più al vescovo; dopo la confessione c’era
l’assoluzione, sempre dal prete.
c) Ogni peccato aveva una penitenza ben precisa (per questo si
parla di “penitenza tariffata”), compiuta la quale era data l’assoluzione.
d) L’assoluzione veniva data subito, ancor prima di compiere la
penitenza, a quei fedeli che erano troppo distanti dalla chiesa e a-
vrebbero faticato a tornare una seconda volta.
e) Il contesto della Chiesa come colei che accompagna il tuo
cammino e ti accoglie è completamente messo tra parentesi. È ovvio
che ogni sacramento avviene nella Chiesa, ma la visibilità di tale
cammino ha una sua importanza. Ora qui esso mancava completa-
mente di visibilità.
f) Esisteva la possibilità di far compiere ad altri le penitenze im-
poste. Per un senso un po’ barbarico di giustizia: occorre soprattutto
riparare l’offesa fatta a Dio, occorre colmare quella lacuna che il pec-
cato ha creato nella divina giustizia.

Cosa ne concludiamo per la nostra ricognizione storica tenden-


te a inquadrare i problemi di oggi?
– Una certa privatizzazione del sacramento e un certo atteggia-
mento della Chiesa che riconcilia, ma con la quale non ci si riconcilia.
– Una accentuazione delle “opere penitenziali” che rischia di
non far più comprendere tali opere come “cammino penitenziale”.
Della “burocratizzazione” di tali opere non è il caso di dire, perché la
cosa va da sé, ma anche perché occorre non essere troppo impietosi
nella critica, pensando a un contesto di pensiero tanto diverso e tan-
to tormentato e povero.
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 381

Sistematizzazione scolastica
Alla prassi penitenziale a volte caotica della penitenza tariffata,
all’aggiungersi di una restaurata penitenza pubblica in epoca carolin-
gia (l’assioma era «a peccati pubblici, penitenza pubblica; a peccati
privati, penitenza privata»); all’imporsi di opere penitenziali quali il
pellegrinaggio o la crociata come gesti a cui seguiva alla fine l’asso-
luzione, o comunque a essa collegati; al determinarsi delle indulgen-
ze come realtà collegate alla penitenza in quanto sacramento e al
compimento di certe opere, di certi pellegrinaggi, alla visita di certi
luoghi: a tutto ciò la sistematizzazione scolastica viene in aiuto.
Il metodo tendente a ritrovare in ogni realtà la sua essenza, il
suo elemento costitutivo, la sua natura specifica, aiuta notevolmente
la riflessione.
La riflessione scolastica determina come materia del sacramen-
to della riconciliazione gli atti del penitente, cioè tutto quell’insieme
di atteggiamenti che vanno dal pentimento interiore, alle opere buo-
ne penitenziali compiute, alla confessione stessa dei peccati. E forma
è l’assoluzione che il sacerdote impartisce quando se ne diano le
condizioni. Questa la struttura del sacramento della penitenza: atti
del penitente cui inerisce l’assoluzione costituiscono il sacramento
del perdono.
La scolastica oscilla nel formulare il pensiero della “parte” che
ha l’una e l’altra componente. Ma qui non ci interessa di indagare ul-
teriormente. Ci interessa la chiarezza fatta e ci interessa il modo in
cui ciò è avvenuto.
È importante sottolineare:
1) Gli “atti del penitente”: c’è la valorizzazione di tutto un cam-
mino penitenziale, di tutta una interiorità, della povertà dell’opera
umana, che diventa costitutiva del sacramento stesso.

2) L’“assoluzione” come intervento della Chiesa. Essa è la “for-


ma”. Il rischio di una “visione troppo giuridica”, troppo burocratica
dell’intervento della Chiesa è certamente presente. Di nuovo è quasi
totalmente assente un’esperienza di Chiesa che ti perdona e che ti
accoglie, che cammina con te e che ti reintegra nel suo vissuto, nel
suo essere “corpo di Cristo”.

3) Se poi si comincia a leggere il sacramento come un “giudizio”


è evidente che il rischio dell’esperienza troppo individuale e troppo
382 Gianni Carzaniga

burocratica aumenta. Aumenta cioè quel rischio di vedere la Chiesa


troppo artefice – grazie al “potere delle chiavi” – della salvezza, quasi
arcigna e dispotica detentrice di un potere di vita e di morte.
Insomma, la figura del “tribunale” che qui ormai si è affermata
e che avrà parte preponderante nel concilio di Trento e fino ai nostri
giorni, rischia di illuminare per un verso la modalità del sacramento,
ma di impoverirlo per l’altro. Il penitente è ritenuto un reo confesso:
il sacerdote è il giudice che nell’ambito del tribunale ascolta, emette
la sentenza di assoluzione o di condanna, impone la penitenza, rinvia
al giudizio superiore nel caso manchi di facoltà adeguate, rinvia as-
solti e riconciliati. La figura del giudice era certo chiarificatrice. Aiu-
tava a capire l’accogliente abbraccio della Chiesa? E a capire il pelle-
grinaggio spirituale del penitente nell’incontro con il Padre della mi-
sericordia?

4) Certo occorre sottolineare che soprattutto nella posizione di


san Tommaso esiste un confortante e diremmo “attualmente com-
prensivo” rapporto fra ciò che esiste nel cuore del penitente e opera
conversione come pentimento perfetto (la contrizione) e l’assoluzio-
ne: il dolore veramente perfetto dice sempre riferimento al sacra-
mento, anche quando abitualmente non lo si possa celebrare. Quindi
non c’è mai perdono autentico senza riferimento alla Chiesa. Posizio-
ne illuminante anche per tante nostre attuali difficoltà.

Concilio di Trento e prassi pastorale seguente


Sappiamo che il concilio di Trento tese anzitutto a esporre con
chiarezza l’intero pensiero della Chiesa cattolica. Certo la preoccu-
pazione era quella di rispondere alla dottrina protestante, ma sappia-
mo che sarebbe ingiusto leggere solo in questa chiave l’insegnamen-
to tridentino. Esso resta punto di riferimento al di là della risposta ai
protestanti e la sua autorevolezza dottrinale resta, anche perché lo
sforzo di chiarezza espositiva fu notevole.
Il concilio di Trento si interessò al sacramento della penitenza
votandone i capitoli e i relativi canoni nella sessione XIV, il 25 no-
vembre 1551.
La dottrina esposta ha il grande vantaggio di presentarsi come
un’autentica “sintesi” della dottrina precedente. Siamo quindi in gra-
do di coglierne tutto il significato.
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 383

1) I primi due capitoli espongono la necessità del sacramento


della penitenza e la sua “originalità”, cioè la sua differenza dal sacra-
mento del battesimo. È chiara la preoccupazione di rispondere alla
dottrina protestante che tendeva a ridurre al battesimo tutti i sacra-
menti. Si ribadisce una penitenza sacramentale necessaria proprio
per i peccati commessi dopo il battesimo dai cristiani adulti. Il batte-
simo è il sacramento dell’incorporazione a Cristo. Il sacramento del-
la penitenza è il sacramento del perdono, quando l’incorporazione a
Cristo avvenuta una volta per sempre sia macchiata dal peccato.

2) I successivi capitoli III-IV espongono accuratamente la dottri-


na cattolica sul sacramento. Vediamola sinteticamente.
a) Parti del sacramento sono gli atti del penitente (confessione
delle colpe, contrizione, soddisfazione mediante un gesto penitenzia-
le) e l’assoluzione del sacerdote. Effetto del sacramento è la riconci-
liazione con Dio.
b) Fra gli atti del penitente tiene il primo posto la contrizione,
cioè il dolore perfetto delle proprie colpe, dolore che comporta il di-
stacco dal peccato, la sua detestazione, il dispiacere di aver offeso
Dio. Si parla pure dell’attrizione, cioè di quel dolore imperfetto che
viene dal timore del castigo per i peccati commessi.
c) La confessione integra dei propri peccati gravi rappresenta
l’altro atto del penitente indispensabile al “farsi” del sacramento.
«Non è perdonato se non ciò che è confessato!»: si potrebbe ritra-
durre così in sintesi il dettato tridentino sull’obbligo della confessio-
ne integra dei peccati.
d) Ministro della riconciliazione è il sacerdote. Egli opera “co-
me in un giudizio”. È nota a tutti la chiarificazione del termine “giu-
dizio”. Esso è da intendere come “tribunale di grazia”, dove cioè si
offre anzitutto la possibilità della misericordia.
Ma è già stato detto il rischio restrittivo e un po’ burocratico di
tale immagine. Il sacerdote poi deve essere debitamente approvato,
cioè essere in chiara comunione con il vescovo e con la Chiesa. Se il
vescovo può riservarsi dei casi per l’assoluzione, ciò è dovuto pro-
prio alla necessità di comunione fra prete e vescovo, e alla necessa-
ria pedagogia che insegni al fedele la gravità delle colpe anche attra-
verso l’obbligo di rivolgersi per l’assoluzione da certi peccati a chi ha
nella Chiesa una più alta autorità.
384 Gianni Carzaniga

e) Le opere penitenziali imposte, lungi dall’essere opere merito-


rie, sono invece già frutti della grazia operante verso la carità.

3) È evidente, sia pure da questa brevissima sintesi, che sono


posti qui tutti gli orientamenti pastorali, le scelte conseguenti e an-
che le problematiche fino ai nostri giorni.
Di fatto, la pastorale della confessione nei secoli successivi al
concilio di Trento fu molto accurata e operò scelte ben precise den-
tro l’alveo determinato dal Concilio.
a) La pratica di una confessione frequente, legando la confessio-
ne delle colpe, gravi e meno gravi, al perdono della Chiesa; quindi
confessione frequente per i fedeli, soprattutto per coloro che deside-
ravano comunicarsi con frequenza. Sappiamo la conseguente proble-
matica del rigorismo di alcuni, del maggior “possibilismo” di altri.
È comunque una scelta che è necessario confessarsi spesso e
che è necessario soprattutto confessarsi spesso per accedere all’Eu-
caristia.
b) La dottrina sulla contrizione e sull’attrizione ha fatto scorrere
i proverbiali “fiumi di inchiostro” fra i moralisti e i canonisti. L’uno e
l’altro atteggiamento comunque sono risolti nella pratica della con-
fessione come necessità: la contrizione che già trova un animo penti-
to si conclude nel sacramento, come scelta di fatto. E l’attrizione,
cioè il dolore imperfetto, si perfeziona solo nel sacramento.
c) La pratica della confessione annuale è un consiglio e un pre-
cetto massiccio. Trento qui riprende un precetto del Lateranense IV,
ma lo applica in larga scala. Perciò nella pratica per molti il sacra-
mento della riconciliazione è il lasciapassare per l’Eucaristia nel pre-
cetto pasquale.
d) Per il modo in cui il sacramento della penitenza viene vissu-
to, prevale sempre l’aspetto individuale, segreto, personale. L’Eucari-
stia è il sacramento che si vive insieme, ma la penitenza è sempre sa-
cramento del segreto della coscienza in tutti i suoi aspetti. La Chiesa
ancora una volta accentua il proprio compito di riconciliatrice nel no-
me del Signore con il Signore. Sfugge il fatto che ci si riconcilia an-
che con la Chiesa.
e) Si introduce l’idea di una “confessione di devozione”, cioè di
una confessione che viene fatta quasi per una personale necessità di
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 385

ascesi e di purificazione, e non per una necessità dettata dalla pro-


pria lontananza dal Signore per peccati gravi.
f) La Chiesa cura estremamente i confessori; il fatto che essi
siano giudici, la induce a verificare frequentemente la loro prepara-
zione, con la conseguenza che spesso vi sono molti sacerdoti che
non possono confessare (si pensi che nella diocesi di Bergamo alla
metà dell’Ottocento su duemila preti ben ottocento non avevano la
facoltà di confessare).

Evidentemente non è chi non veda come tale applicazione pasto-


rale dei dettami di Trento abbia creato un atteggiamento spiritual-
mente ricco, attento al peccato da evitare, sensibile alla maestà di Dio
da non offendere. Certo possono essersi creati atteggiamenti rigori-
sti in qualche caso, o addirittura scrupolosi. Ma è giunta fino ai nostri
giorni la sanità di una prassi penitenziale frequente, attenta al mistero
della grazia, attenta alla serietà della misericordia di Dio, attenta a far
fruttificare nelle opere quotidiane di carità la grazia del sacramento
della riconciliazione. Insomma, lo slancio missionario della Chiesa
dell’Ottocento e del Novecento, il clima di santità fiorito in molteplici
associazioni apostoliche, di personale santificazione, di attenta inizia-
tiva sociale, ha quasi sempre alle spalle persone che nel sacramento
della riconciliazione trovano frequente risorsa spirituale nel cammino
di perfezione e che si accostano all’Eucaristia come al sacramento
della più alta dignità e purezza, perché spesso si confessano.

I nostri giorni: problemi e pronunciamenti


La lunga – benché sintetica – ricognizione storica ci permette di
inquadrare alcuni problemi attuali. Non ho la pretesa di elencarli tut-
ti né di strutturarli adeguatamente.
Solo una piccola sintesi, che faccia da premessa alla trattazione
dei singoli problemi che in seguito i diversi articoli presenteranno.

1) Documenti e pronunciamenti
È noto che la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium
invita molto laconicamente a una riforma del rito della penitenza al
n. 72. Nulla di più.
386 Gianni Carzaniga

I documenti conciliari fanno riferimento al sacramento della pe-


nitenza per il cammino personale di santificazione di fedeli, presbite-
ri, laici, religiosi.
Di fatto la riforma di “mentalità” sul sacramento della penitenza
e sull’atteggiamento penitenziale in genere avvenne attraverso la Co-
stituzione apostolica Poenitemini del 17 febbraio 1966 e attraverso la
riforma del rito della penitenza pubblicata il 2 dicembre 1973 (in ita-
liano il rito entra in vigore nel 1974). Nel contempo anche la dottrina
sulle indulgenze trovò nuova formulazione con la Costituzione apo-
stolica Indulgentiarum doctrina del 1° gennaio 1967, dando luogo
l’anno successivo al nuovo “manuale delle indulgenze”. Tutto ciò era
stato curato da Paolo VI.
A quasi vent’anni di distanza si celebrava il sinodo dei vescovi
sul sacramento della riconciliazione che trovava la propria sintesi
nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentia, emanata da
Giovanni Paolo II nel 1984, il 2 dicembre.
Si ricordi che il 25 gennaio del 1983 era anche promulgato il
nuovo Codice di diritto canonico.

2) Problematiche aperte
I documenti citati, che vanno dal 1963 al 1984, segnano indub-
biamente un’epoca decisiva per gli orientamenti nuovi dati in seguito
al Concilio. E sono contemporaneamente al limite di un’epoca di pro-
fondi mutamenti non solo ecclesiali, ma di mentalità; mutamenti che
hanno profondamente inciso sulla pratica del sacramento della ricon-
ciliazione. Cerco di presentare un elenco di problemi aperti per lo
più. Sono certo di non essere esauriente. È solo un quadro.
a) Un primo fondamentale aspetto, che genera novità nell’am-
ministrazione del sacramento della penitenza, è certamente il modo
nuovo di concepire il peccato; è addirittura l’affievolirsi del senso del
peccato. È un argomento a tutti noto, trito e ritrito. Mi esimo da ulte-
riori commenti. La mancanza di riferimenti omogenei personali e so-
ciali, il sempre più massiccio affermarsi di una “società complessa”
rendono difficile il senso del peccato e l’educazione a esso.
b) Anche nella teologia morale l’elaborazione della nozione di
peccato si è profondamente rinnovata e certamente questo richiede
risvolti pratici nel sacramento della riconciliazione; ciò non sempre è
immediato, soprattutto a fronte di una prassi secolare e consolidata,
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 387

che aveva creato un suo modo di agire. Occorrono certamente pa-


zienza e tempo per ritrovare una prassi adeguata come fenomeno
consolidato, condiviso, assestato dentro la comunità cristiana.
c) Conseguentemente la prassi che si era tutta svolta sulla teo-
logia degli “atti del penitente” a quali mutamenti deve ricorrere?
Credo che la teologia suddetta sia valida e capace di rigenerarsi, per-
ché profondamente attenta ai moti interiori del penitente; occorre
però probabilmente “rivisitarla” e, oserei dire, rigenerarla mostran-
do le profonde connessioni di essa con ciò che l’uomo pentito prova
o vive quando si accosta al sacramento; una eccessiva “vivisezione”
degli atti del penitente può aver rischiato di renderli tanto chiari da
farli diventare sterili o asettici. Tanto più che la indebolita coscienza
del peccato rischia di suggerire al penitente più l’esternazione di sta-
ti d’animo che non la denuncia del proprio peccato. Nella linea di ta-
le riconduzione degli stati d’animo del penitente a una coscienza au-
tentica di peccato, credo ci sia fecondità di possibilità.
d) Lo “sganciamento” pratico e a volte non ben meditato del sa-
cramento dell’Eucaristia dal sacramento della riconciliazione – sgan-
ciamento necessario, per altro, proprio per rispettare la natura dei sin-
goli sacramenti – necessita probabilmente di un’adeguata educazione
al sacramento della riconciliazione come sacramento della vita cristia-
na, come profondo atteggiamento dell’esperienza della misericordia
di Dio, al di là della necessità di esso per accostarsi all’Eucaristia.
e) Resta indubbiamente il grande problema di una “riconcilia-
zione con la Chiesa”, cioè di una più cosciente e visibile ecclesialità
del sacramento nella sua celebrazione.
Il rito ha portato alcuni suggerimenti, istituendo le tre forme di
celebrazione.
Non sono in grado di fare un bilancio dell’attuazione del rito. La
sensazione è tuttavia quella che laddove si è introdotta massiccia-
mente la terza formula (assoluzione generale) venendo meno all’in-
tenzione del Rito stesso, non si sia ottenuto molto, se non una più
marcata disaffezione dal sacramento nel giro di poco tempo. Laddo-
ve s’è cercato di introdurre liturgie penitenziali con assoluzione per-
sonale non si è andati molto più in là, forse anche perché è difficile
aiutare a vivere comunitariamente un sacramento lasciato per tanti
secoli alla segretezza totale dell’amministrazione. La formulazione
del Codice di diritto canonico vigente è chiara nel sottolineare la pra-
388 Gianni Carzaniga

tica dell’assoluzione individuale in modo ordinario, ma ciò è in linea


con il rito stesso. Probabilmente pastori e penitenti devono ancora
profondamente meditare perché si giunga davvero a una prassi in
cui la “pax cum Deo” sia anche evidentemente “pax cum Ecclesia”.
f) Il tema della frequenza al sacramento è già stato trattato al
punto d), ma in modo più esplicito occorre annotare che dietro a es-
so esiste uno stile di vita, una pratica della vita spirituale, una conce-
zione dell’uomo credente che penso sia da costruire.
g) Spesso si sente pronunciare la magica parola “cammini peni-
tenziali”; certo tale espressione dice bene la necessità di ritrovare
comportamenti personali e sociali che indichino effettivamente la vo-
lontà di camminare, di accostarsi al sacramento come alla conclusio-
ne di un percorso che abbia maturato frutti di carità. Certo tale esi-
genza è sacrosanta, se si vuole che il penitente senta i propri “atti”
non come mere dichiarazioni di buona volontà, ma come presenza di
grazia nella propria storia. E tali cammini aiuterebbero il penitente e
il sacramento a uscire da quella strettoia a volte un po’ formalistica
nella quale in molti casi si è entrati, disaffezionando a un rito che po-
teva sembrare magico e formale.
h) Non spendo parole sulla dolorosa situazione di chi non può
accostarsi al sacramento della riconciliazione con il Padre e con i fra-
telli a causa di situazioni irregolari. I pronunciamenti sono chiari,
mentre non sempre chiara è l’applicazione; soprattutto a volte essa è
troppo arbitraria e individualistica; occorre osservare inoltre la cura
con cui i Pastori sono tuttavia solleciti del bene anche di tali fedeli.
i) Forse una parola occorre spenderla anche sulla disponibilità
dei confessori: senza fare moralismi è sempre importante ricordare
la «forza delle nostre mani vuote» di cui parla Bernanos nel Diario
di un curato di campagna. Ma non è certo solo questo che fa cadere
o risorgere il tormentato sacramento della riconciliazione.
l) A mo’ di conclusione di queste poche note, ricordo che i tre
termini “penitenza”, “confessione” e “riconciliazione” sono certa-
mente espressivi di tre modi tutti veri di celebrare il sacramento:
– la penitenza ha connotato di più il tempo primitivo, in cui tale
aspetto aveva molta visibile rilevanza;
– la confessione ha sottolineato soprattutto la prassi post-triden-
tina, molto centrata sulla integra accusa dei peccati;
Confessione, penitenza, riconciliazione. Introduzione storico-teologica 389

– “riconciliazione” è termine che sentiamo particolarmente no-


stro ed è termine felice, perché apre alla misericordia del Padre che
ci abbraccia con il suo perdono; è termine sintetico perché chi si ri-
concilia confessa le proprie colpe e confessa la misericordia del Pa-
dre; è termine che ben riassume anche il lungo cammino penitenzia-
le, magari fatto di interiori conversioni e sofferenze, ineliminabile in
ogni celebrazione del sacramento.

Conclusione
La rapida e per forza di cose incompleta esposizione ha cercato
di inquadrare i problemi. Trovi la nostra Chiesa il desiderio profon-
do e la capacità attiva, nella grazia del Signore, di affondare le pro-
prie mani nel costato misericordioso di Cristo come Tommaso, otto
giorni dopo la Pasqua, nel cenacolo. Possa essa dire e far dire a ogni
credente «Mio Signore e mio Dio», vedendo nel Risorto colui che ri-
concilia e che pone nella pienezza della grazia e del dialogo con il Pa-
dre e con i fratelli.

GIANNI CARZANIGA
Via Arena, 11
24129 Bergamo
390

La facoltà di confessare
di Gianni Trevisan

Ministro del sacramento della penitenza è solo il sacerdote 1, ma


per assolvere validamente dai peccati è richiesta anche la facoltà di
esercitare sul penitente la potestà di ordine. Le seguenti note vogliono
illustrare la normativa del Codice sulla facoltà di udire le confessioni
e in particolare spiegarne le modalità di concessione e di revoca.

Un cambiamento terminologico
Quanto stabilisce il can. 966 § 1 è sostanzialmente quanto pre-
scriveva il can. 872 del CIC del 1917, con una rilevante differenza:
non si usa più il termine “potestà di giurisdizione”, ma “facoltà”.
Questo cambiamento esprime con maggior precisione tecnica
che per la valida assoluzione è richiesta la potestà di ordine, ricevuta
nell’ordinazione sacerdotale, e “l’autorizzazione” a esercitarla sui fe-
deli. Questa autorizzazione non è potestà di governo o giurisdizione,
nel senso tecnico dell’attuale can. 129, come invece si esprimeva il
Codice del 1917. Questo appare chiaramente dall’iter di revisione del
Codice: la potestà di governo concede la così detta «giurisdizione
per le confessioni» che va più rettamente chiamata «facoltà di udire
le confessioni» 2, perché «l’assoluzione non è un atto della potestà di
governo o di giurisdizione» 3. Benché la facoltà sia concessa dal dirit-
to stesso o da chi detiene la potestà di governo, l’esercizio della fa-
coltà non è esercizio della potestà di governo.

1
Cf Conc. Tridentino, Sess. XIV, 25 novembre 1551, cap. 6 e can. 10 in DENZINGER-SCHÖNMETZER,
nn. 1684 e 1710.
2
Communicationes 9 (1977) 235.
3
Communicationes 10 (1978) 56.
La facoltà di confessare 391

Un analogo cambiamento di terminologia è avvenuto anche a


proposito del sacramento della cresima (can. 882) e dell’assistenza al
matrimonio (can. 1111).
Va osservato che l’introduzione del termine “facoltà” permette di
semplificare e usare una terminologia più adeguata per indicarne la ti-
pologia, la quale non è più debitrice delle distinzioni prima applica-
te alla potestà di governo (potestà ordinaria e delegata: cf can. 131),
ma si distingue in facoltà che si ottiene per concessione del diritto
stesso o dell’autorità competente.
Un punto invece dove si è conservata una regolamentazione
analoga con la potestà di governo riguarda la supplenza della facoltà
in caso di errore comune o di dubbio: il Codice stabilisce apposita-
mente che anche alla facoltà si devono applicare le disposizioni sulla
potestà di giurisdizione (cf can. 144 § 2).
Come si può notare il cambiamento di terminologia non com-
porta però un diverso modo di regolamentare la disciplina rispetto al
Codice del 1917, perché la sostanza rimane inalterata: per confessa-
re validamente è richiesta non solo l’ordinazione sacerdotale, ma an-
che un ulteriore intervento dell’autorità che regolamenta e autorizza
la celebrazione del sacramento della penitenza. Nell’iter di revisione
del Codice si è rifiutata la proposta di abolire del tutto l’istituto della
facoltà di udire le confessioni, o comunque di richiederla solo per la
liceità. Il motivo fu eminentemente pratico: consentire all’autorità di
poter impedire a un sacerdote di esercitate il ministero della confes-
sione nei casi in cui si vengano a creare gravi abusi 4.

La natura della facoltà di ascoltare le confessioni


L’uso del termine “facoltà” indica chiaramente che il ministro
della confessione non ha potestà di governo (che si distingue in pote-
stà legislativa, esecutiva e giudiziaria cf can. 135 §1) e pertanto non è
più possibile affermare, come era comune nei commentatori del Co-
dice del 1917, che nella confessione il ministro esercita oltre alla po-
testà di ordine anche la potestà giudiziaria, tipica del giudice quando
emette una sentenza. Questo approfondimento è frutto del lavoro di
investigazione teologica sul sacramento della penitenza e segno che
il Codice ha cercato di recepire un dato da molti ritenuto pacifico.

4
L. cit.
392 Gianni Trevisan

Va osservato che, in occasione della confessione, il ministro


può esercitare la potestà di governo, come avviene per esempio nel
caso previsto dal can. 1357, la remissione delle censure latae senten-
tiae non dichiarate, se al penitente è gravoso rimanere in stato di
peccato grave per il tempo necessario a che il Superiore competente
provveda. Quando si verifica questo caso la confessione è un’occa-
sione, in cui il diritto conferisce al sacerdote la potestà di governo
necessaria per rimettere la censura, ma non significa che in ogni
confessione si eserciti la potestà di governo.
È ambiguo pertanto identificare il sacramento della confessione
con il foro interno. Infatti nel foro interno si esercita la potestà di go-
verno (cf can. 130) e non sempre, anzi solo raramente, durante la con-
fessione si esercita la potestà di governo per assolvere dalle censure,
oppure dispensare dagli impedimenti matrimoniali occulti (cann. 1079
§ 3 e 1080 § 1) o dai voti privati ecc.
Sono ugualmente poco precise le espressioni che si riferiscono
a «soluzioni in foro interno per i conflitti di coscienza», per esempio
in chi ritiene nullo il suo matrimonio ma non può provarlo in giudi-
zio: il sacerdote confessore non è detentore della potestà di governo,
e in particolare della potestà giudiziaria, che gli permetta di esprime-
re un giudizio sullo stesso piano di quello del giudice in tribunale. Il
codice usa i termini “foro interno” e “foro esterno” per indicare due
modalità di esercizio della potestà di giurisdizione, ma evita con rigo-
re di identificare il sacramento della confessione con il foro interno.

La concessione della facoltà di confessare

La facoltà dal diritto stesso o in forza dell’ufficio


Dal diritto stesso hanno la facoltà di ascoltare le confessioni il
Romano Pontefice, i cardinali, i vescovi; in forza del loro ufficio è con-
ferita la facoltà agli Ordinari diocesani, al canonico penitenziere, al
parroco (sia territoriale che personale) e a chi ne fa le veci, cioè
l’amministratore parrocchiale (can. 539), il vicario parrocchiale che
sostituisce il parroco assente o impedito (can. 541), ma anche i cap-
pellani (can. 566 §1) e il rettore del Seminario (cann. 262 e 985).
Tutti costoro, a eccezione del Romano Pontefice, hanno facoltà
limitata al territorio o alle persone su cui esercitano la cura pastora-
le. Il can. 967 § 2 estende tale facoltà a livello universale, quindi a tut-
La facoltà di confessare 393

ti i fedeli e ovunque. È una semplificazione della normativa del Codi-


ce del 1917, che presentava una casistica più complessa.

Per quanto riguarda i sacerdoti membri di istituti religiosi e di


società di vita apostolica (i membri degli istituti secolari non rientra-
no in questa fattispecie), occorre anzitutto dire che i Superiori di isti-
tuti religiosi o società di vita apostolica, clericali di diritto pontificio,
che godono a norma delle costituzioni della potestà esecutiva in for-
za del loro ufficio, hanno la facoltà di ascoltare le confessioni (cf can.
968 § 2).
Tale facoltà però non si estende a tutti i fedeli, ma vale solo per
tutti i membri dell’istituto o società e per coloro che abitano notte e
giorno in una delle sue case (cf can. 968 § 2 e anche il can. 967 § 3
che concerne l’ampiezza della facoltà di confessione che un superio-
re può conferire a un presbitero).
I superiori non possono comunque imporre che i membri del lo-
ro istituto o società si confessino esclusivamente da loro, ma devono
lasciare libertà di potersi confessare anche da altri sacerdoti, perché il
can. 630 § 4 dispone che «i superiori non ascoltino le confessioni dei
loro sudditi a meno che questi non lo richiedano spontaneamente».

La facoltà concessa dall’ordinario


Gli altri sacerdoti, sia diocesani che membri di istituti di vita
consacrata, possono ottenere la facoltà di confessare dall’Ordinario
del luogo; se è l’Ordinario del luogo dove sono incardinati o dove
hanno il domicilio, questa facoltà, per il can. 967 § 2, si estende non
solo ai fedeli soggetti all’autorità del concedente, ma a tutti i fedeli.
Altrimenti la facoltà vale solo per l’ambito di giurisdizione del conce-
dente. L’Ordinario del luogo, prima di concedere la facoltà abituale
di confessare, deve udire l’Ordinario del sacerdote, ossia l’Ordinario
diocesano dove il presbitero diocesano è incardinato o il Superiore
dell’istituto religioso o della società di vita apostolica. Tale consulta-
zione è solo per la liceità della concessione.
I Superiori di un istituto religioso o di una società di vita aposto-
lica, che a tenore del can. 968 § 2 hanno la facoltà in forza dell’ufficio
e che corrispondono a coloro che il can. 134 § 1 e § 2 qualifica come
Ordinari, possono conferire ad altri sacerdoti anche diocesani la fa-
coltà di ascoltare le confessioni, ma limitatamente ai membri soggetti
alla loro potestà esecutiva e per coloro che dimorano nella casa reli-
394 Gianni Trevisan

giosa: il Superiore generale per tutte le case dell’istituto, il Superiore


locale solo per le case soggette alla sua giurisdizione (can. 969 § 2).
Tale concessione autorizza ad ascoltare le confessioni solo di co-
loro che vivono all’interno della casa o delle case in cui il superiore
ha giurisdizione e non si estende a tutti i fedeli.
La facoltà di confessare tutti i fedeli e ovunque la può concede-
re solo l’Ordinario del luogo, che, secondo il can. 134 § 2, sono il Ve-
scovo diocesano ed equiparati, il Vicario generale o episcopale com-
petente.

Alcune osservazioni
In ogni caso chi concede la facoltà deve accertarsi che il destina-
tario sia idoneo. Viene indicato come strumento adatto un esame ap-
posito oppure si richiede che consti da altra fonte la preparazione del
sacerdote a questo compito così delicato (can. 970). Questa preoc-
cupazione scaturisce certamente dalla considerazione che il ministro
della confessione non svolge solamente un ruolo meccanico, ma è
chiamato con il contributo della sua sapienza e dottrina ad aiutare il
fedele non solo nell’esperienza di fede che porta al perdono, ma an-
che nel cammino di vita spirituale.
La concessione deve risultare da un documento scritto (can.
973), non tanto per la validità della concessione, ma per poter dimo-
strare a tutti l’avvenuto conferimento. Può essere data per un deter-
minato tempo, oppure a tempo indefinito (can. 972); potrebbe essere
data per una determinata circostanza e in questo caso non si tratte-
rebbe di facoltà abituale.
Dobbiamo considerare che la facoltà di ascoltare le confessioni
non è richiesta solamente per la liceità, ma per la validità del sacra-
mento stesso. Analogamente avviene per la facoltà di assistere ai ma-
trimoni (cann. 1108 e 1111 § 1).
La Chiesa ritiene infatti di poter emanare leggi che rendono
nullo un atto (cf can. 10) non solo dichiarando la carenza degli ele-
menti costitutivi dell’atto stesso, ma anche stabilendo positivamente
degli elementi formali richiesti per la sua validità. Questo vale per il
matrimonio, dove la forma canonica non è certamente elemento co-
stitutivo del consenso (è costitutiva la manifestazione esterna della
volontà, ma non la manifestazione esterna della volontà secondo de-
terminati schemi, cioè davanti al sacerdote e due o più testimoni). Il
concilio di Trento ha stabilito che la forma canonica fosse elemento
La facoltà di confessare 395

necessario per la validità del matrimonio in considerazione degli


abusi del cosiddetto matrimonio “clandestino”: come si può osserva-
re, una ragione proporzionata alla gravità della decisione.
Va infine osservato che la facoltà di ascoltare le confessioni è
un elemento che configura alcuni incarichi pastorali (vescovo, par-
roco, cappellano...) a tal punto che è il diritto stesso a conferire la fa-
coltà a chi ha l’ufficio. Se il diritto si vede “obbligato” a concedere la
facoltà a chi per esempio è parroco, significa che nello svolgimento
di questo ministero il compito di confessore deve occupare un’atten-
zione particolare e un tempo adeguato.

La limitazione e la perdita della facoltà


Nel Codice sono previste alcune possibili limitazioni all’esercizio
della facoltà di ascoltare le confessioni. Il Vescovo diocesano, limitata-
mente al territorio della sua diocesi, può proibire a un altro Vescovo di
amministrare il sacramento della confessione: tale proibizione però,
in questo caso, riguarda solamente la liceità della celebrazione.
L’Ordinario del luogo può invece togliere la facoltà a un presbi-
tero, sia diocesano che di vita consacrata; se il provvedimento è ope-
rato dall’Ordinario del luogo che diede la facoltà, il sacerdote la per-
de per tutti i fedeli; se al contrario è un altro Ordinario del luogo, il
sacerdote perde la facoltà solamente nel territorio del revocante
(can. 974 § 2).
Analogamente avviene per gli istituti religiosi e le società di vita
apostolica: i membri che hanno revocata la facoltà a opera del Supe-
riore maggiore la perdono per tutto l’istituto o società, mentre, se la
revoca un altro Superiore competente, il presbitero la perde solo nei
confronti dei sudditi di questa circoscrizione (can. 974 § 4).
«Oltre al caso di revoca, la facoltà... cessa con la perdita dell’uf-
ficio, con l’escardinazione o con la perdita del domicilio» (can. 975).
In tutti questi casi la revoca della facoltà ha come conseguenza
che il presbitero non può assolvere validamente il penitente. Pertan-
to è richiesta una causa grave che giustifichi la revoca (can. 974 § 1).
A questo proposito va osservato che il sacerdote diocesano, ot-
tenuta la facoltà dal suo Ordinario del luogo, la esercita ovunque e
per tutti i fedeli; la può perdere o allo scadere del tempo della con-
cessione oppure per revoca da parte dell’Ordinario del luogo. La per-
de però automaticamente anche con l’escardinazione e la dovrà otte-
nere di nuovo dall’Ordinario.
396 Gianni Trevisan

Gli altri presbiteri, sia membri di istituti religiosi che di società


di vita apostolica, come pure i sacerdoti diocesani che non hanno ot-
tenuto dal loro Ordinario del luogo la facoltà, possono richiederla al-
l’Ordinario dove hanno il domicilio e possono quindi confessare tutti
i fedeli e ovunque; perdendo però il domicilio all’interno della dioce-
si dell’Ordinario concedente, perdono la facoltà, anche se essa fu
concessa a tempo indeterminato. L’ascrizione a una casa degli istituti
religiosi e delle società di vita apostolica determina il domicilio dei
loro membri.

Tre casi particolari


La disciplina canonica contempla altri tre casi in cui la facoltà di
assolvere viene data dal diritto stesso.
Quando il penitente si trova in pericolo di morte, può essere as-
solto validamente e lecitamente da qualsiasi presbitero validamente
ordinato, anche se privo della facoltà o ridotto allo stato laicale; in
quest’ultimo caso il presbitero può confessare anche se è presente
un altro sacerdote che ha la facoltà. La ragione di questa norma è
evidente: la disciplina canonica non vuole porre alcun impedimento
alla riconciliazione con Dio e con la Chiesa nel momento della morte
del penitente.
La facoltà di confessare è data al presbitero anche nei casi di er-
rore comune e di dubbio positivo e probabile (can. 144 § 2).
La situazione di errore comune si verifica quando una comunità
di fedeli è indotta a esprimere un falso giudizio. Il caso classico or-
mai è il seguente: il sacerdote privo di facoltà, circostanza non cono-
sciuta dalla comunità, con la veste, cotta e stola siede in confessiona-
le; tutti ritengono che abbia la facoltà, o comunque pensano che pos-
sa confessare e pertanto si accostano per il sacramento. La comunità
è stata indotta in errore, crede che il sacerdote possa confessare, ma
in realtà non ha la facoltà. In questo caso la Chiesa supplisce la fa-
coltà e il sacerdote assolve validamente. L’errore comune si verifica
anche quando a errare non è la comunità nel suo complesso, ma an-
che un solo singolo penitente, che si trova in una situazione nella
quale i fedeli sarebbero indotti in errore se fossero presenti. L’erro-
re comune si verifica anche se alcuni conoscono la verità, ma la co-
munità nel suo complesso è portata o sarebbe portata a esprimere
un giudizio errato.
La facoltà di confessare 397

La situazione di errore comune non si verifica quando sia il sa-


cerdote che la comunità sono a conoscenza della mancanza di facoltà,
in seguito per esempio di una decisione resa pubblica dall’autorità.

Se esiste un giusto motivo (per esempio mancano altri confes-


sori, oppure è richiesto da un penitente) il sacerdote che “provoca”
l’errore comune non è moralmente colpevole, perché prevale il bene
comune di permettere al penitente di riconciliarsi. Neppure incorre
nella pena canonica prevista dal can. 1378 § 2, 2° per chi tenta di im-
partire l’assoluzione ma non può darla validamente: in caso di errore
comune il sacerdote ha la facoltà e pertanto assolve validamente.

Il caso di dubbio contempla invece l’eventualità che il confessore


abbia delle ragioni, anche non decisive, per affermare e al contempo
negare di avere la facoltà. Non basta una mera possibilità («forse il
Vicario Generale potrebbe avermi dato la facoltà, ma non me l’ha co-
municato»); è necessario che ci sia almeno un qualche grado di possi-
bilità reale. Questo dubbio può riguardare l’esistenza o l’interpreta-
zione della legge (errore di diritto) o l’esistenza o meno di determina-
ti fatti ai quali applicare la legge certa (errore di fatto).

Conclusione
Per la valida assoluzione del penitente il sacerdote deve avere
anche la facoltà di confessare: la normativa del Codice semplifica
quella del Codice del 1917, soprattutto estendendo a tutti i fedeli la
facoltà ottenuta in forza dell’ufficio o dall’Ordinario del luogo. È pre-
vista la possibilità per l’Ordinario di revocare la facoltà di cui gode
un presbitero, anche se la normativa, soprattutto ammettendo la sup-
plenza della facoltà in caso di errore comune e di dubbio, vuole favo-
rire in tutti i modi il penitente, perché possa trovare un confessore
che lo riconcili con Dio e con la Chiesa.
GIANNI TREVISAN
Via S. Pietro, 19
32100 Belluno
398

Il confessore, giudice e medico


di Egidio Miragoli

«Ricordi il sacerdote che nell’ascoltare le confessioni svolge un compito ad


un tempo di giudice e di medico, ricordi inoltre di essere stato costituito da
Dio ministro contemporaneamente della divina giustizia e misericordia, così
da provvedere all’onore divino e alla salvezza delle anime».

Così recita il can. 978 § 1. Siamo nel libro IV del Codice, ove si
parla del ministro del sacramento della penitenza.
Le fonti del canone 1 sono essenzialmente due: il can. 888 § 1
del Codice del 1917, di cui il nostro testo è la semplice trascrizione, e
l’Ordo Paenitentiae, ove si legge:
«Per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, il confessore deve saper di-
stinguere le malattie dell’anima per apportarvi i rimedi adatti, ed esercitare
con saggezza il suo compito di giudice; deve inoltre con uno studio assiduo,
sotto la guida del magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, pro-
curarsi la scienza e la prudenza necessarie a questo scopo. Il discernimento
degli spiriti è l’intima cognizione dell’opera di Dio nel cuore degli uomini: do-
no dello Spirito Santo e frutto della carità. [...]. Nell’accogliere il peccatore pe-
nitente e nel guidarlo alla luce della verità, il confessore svolge un compito
paterno, perché rivela agli uomini il cuore del Padre, e impersona l’immagine
di Cristo, buon Pastore. Si ricordi quindi che il suo ministero è quello stesso
di Cristo, che per salvare gli uomini ha operato nella misericordia la loro re-
denzione, ed è presente con la sua virtù divina nei sacramenti» 2.

Senza voler fare l’esegesi di questo testo, due contenuti risalta-


no evidenti e, pertanto, fanno da sfondo alla comprensione del no-
stro canone:

1
Cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Codex Iuris Canonici.
Fontium annotatione et indice analytico-alphabetico auctus, Città del Vaticano 1989.
2
Rito della Penitenza, n. 10 a, c.
Il confessore, giudice e medico 399

– il tema è la pratica del ministero e il ruolo del ministro del sa-


cramento della confessione; le immagini di giudice e di medico e-
sprimono e riassumono tanti atteggiamenti e virtù che il confessore
deve assumere al fine di rivelare al penitente il cuore di Dio Padre;
– i sacramenti prolungano nel tempo della Chiesa l’opera salvifi-
ca di Cristo; il confessore, in quanto ministro del sacramento della
penitenza non agisce in nome proprio ma «agisce a nome e nella per-
sona di Cristo stesso» (Presbyterorum Ordinis n. 12), appunto il Cri-
sto giudice e medico.

Il fondamento ultimo, dunque, è eminentemente biblico ed evan-


gelico; sarà importante tenerlo sempre presente e a esso riandare per
una comprensione corretta di questa duplice articolazione del mini-
stero del confessore, e particolarmente per capire nel giusto modo i
riferimenti all’idea di “giudizio” e di “giudice” che, come dimostra la
storia del sacramento, sono quelli più suscettibili di fraintendimenti.

Il concilio di Trento
e la dottrina sul sacramento della penitenza
La storia del sacramento della penitenza e della riconciliazione
è costituita da tante tappe, tutte significative; è però nel concilio di
Trento che viene delineata la fisionomia e la dottrina di questo sacra-
mento; è nei testi del Tridentino che anche le immagini di giudice e
medico/giudizio e guarigione vengono assunte a illustrare il ruolo
del ministro e quanto il sacramento attua nella vita del credente. Ri-
leggere quei testi non significa, quindi, fare solo un po’ di storia, ma
ricercare le radici di una dottrina che nei suoi elementi essenziali
mantiene intatta la sua validità.
Di grande rilievo per il nostro tema è la sessione XIV del Conci-
lio (anno 1551), nella quale vengono redatti alcuni capitoli dottrinali
che costituiscono il testo dogmatico principale di tutta la materia. Ec-
co le affermazioni essenziali 3, nelle quali verranno posti in evidenza
i passaggi che direttamente si riferiscono al nostro tema.

3
Tutti i testi del Concilio tridentino qui citati sono tratti da: Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cu-
ra dell’Istituto per le scienze religiose, Bologna 1991.
400 Egidio Miragoli

Capitolo I. Necessità e istituzione del sacramento della penitenza


Gli uomini sono incapaci di conservare la giustizia ricevuta nel
battesimo e pertanto il Signore ha preparato un rimedio di vita, cioè
ha istituito il sacramento della penitenza. Risorto dai morti, con le
parole raccolte da Giovanni: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimette-
rere i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno
non rimessi» (Gv 20, 22-23), ha comunicato agli Apostoli e ai succes-
sori il potere di rimettere e di ritenere i peccati. Sono da condannare
le interpretazioni di coloro che distorcendo queste parole le applica-
no al potere di predicare la parola di Dio e di annunziare il vangelo
di Cristo.

Capitolo II. Differenza tra il sacramento della penitenza


e del battesimo
Molte sono le differenze tra il sacramento della penitenza e il
sacramento del battesimo. Infatti
«oltre che differire moltissimo per la materia e la forma, che costituiscono
l’essenza del sacramento, è certo che il ministro del battesimo non deve es-
sere un giudice, perché la Chiesa non esercita il suo giudizio su nessuno
che prima non sia entrato in essa attraverso la porta del battesimo».

È diverso per i membri del corpo di Cristo: per questi che suc-
cessivamente hanno peccato egli
«volle che comparissero come rei dinanzi a questo tribunale, affinché per la
sentenza del sacerdote potessero essere liberati non una volta soltanto, ma
tutte le volte che, pentiti, vi cercassero rifugio dai peccati».

Capitolo III. Parti e frutto di questo sacramento


La forma del sacramento della penitenza consiste nelle parole
del ministro: «Io ti assolvo...». Invece sono quasi-materia gli atti dello
stesso penitente e cioè: la contrizione, la penitenza, la soddisfazione.
Realtà ed effetto del sacramento è la riconciliazione con Dio.

Capitolo IV. La contrizione


La contrizione, che occupa il primo posto tra gli atti del peniten-
te, è il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, ac-
compagnati dal proposito di non peccare più in avvenire.
Il confessore, giudice e medico 401

Capitolo V. La confessione
La Chiesa ha sempre creduto che sia stata istituita dal Signore
anche la confessione completa dei peccati e che essa sia necessaria
«iure divino».
«Infatti, nostro Signore Gesù Cristo, al momento di salire dalla terra al cielo,
lasciò suoi vicari i sacerdoti, come capi e giudici, ai quali deferire tutti i pec-
cati mortali, in cui i fedeli incorressero, perché, in virtù del potere delle
chiavi, pronunzino la sentenza con cui sciogliere o legare i peccati. È chiaro
infatti che i sacerdoti non potrebbero esercitare questo giudizio senza cono-
scerne l’oggetto, né osservare l’equità imponendo le penitenze se i penitenti
dichiarassero i loro peccati solo genericamente, e non, invece, nella loro spe-
cie e uno per uno [...]. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono
consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla
divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote. Se infatti l’am-
malato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il medico non può cu-
rare quello che non conosce».

Capitolo VI. Il ministro di questo sacramento e l’assoluzione


Quanto al ministro, solo ai vescovi e ai sacerdoti è stato affidato
il ministero delle chiavi, e non a tutti gli uomini.
«Quantunque l’assoluzione amministrata dal sacerdote sia l’elargizione di un
beneficio che proviene da un altro (alieni beneficii dispensatio), tuttavia essa
non si riduce soltanto a un puro ministero di annunciare il Vangelo o di di-
chiarare rimessi i peccati, ma, a guisa (ad instar) di un atto giudiziario, la
sentenza è pronunciata dallo stesso sacerdote in quanto 4 (velut) giudice».

Capitolo VII. I casi riservati


«Poiché la natura e l’indole del giudizio richiede che la sentenza venga pro-
nunziata soltanto nei confronti di coloro che sono soggetti, la chiesa di Dio
ha sempre espresso la convinzione[...] che non deve avere nessun valore
l’assoluzione che il sacerdote pronuncia in favore di una persona sulla quale
non abbia una giurisdizione ordinaria o delegata».

I Sommi pontefici, poi, hanno riservato al loro particolare giudi-


zio alcune cause relative alle colpe più gravi.

4
Il «velut a iudice» del testo originale andrebbe tradotto piuttosto «come da un giudice»; allora appari-
rebbe meglio il senso analogico di cui più avanti diremo. Da parte nostra, qui, ci siamo limitati a recepi-
re integralmente la traduzione usata per tutti i testi del Tridentino.
402 Egidio Miragoli

Capitolo VIII. La necessità e il frutto della soddisfazione


Le pene imposte come soddisfazione hanno lo scopo di allonta-
nare dal peccato e servono da freno, rendendo più cauti e vigilanti i
penitenti per il futuro.
«Sono anche una medicina per ciò che rimane del peccato e, con le azioni
contrarie delle virtù, fanno scomparire le cattive abitudini acquistate con una
vita malvagia».

I sacerdoti devono imporre giuste e salutari soddisfazioni, se-


condo quanto suggerirà lo spirito e la prudenza: esse sono «medici-
na per l’infermità», ma anche pena e castigo per i peccati commessi.

Capitolo IX. Le opere soddisfattorie


Noi possiamo soddisfare in tanti modi: con le penitenze da noi
scelte, con quelle inflitte dal sacerdote, ma anche con l’accettazione
e la sopportazione delle prove temporali inflitte da Dio.

Per concludere, non possiamo dimenticare che anche tra i ca-


noni abbiamo un’affermazione solenne che definisce essere l’assolu-
zione del sacerdote un atto giudiziale. Come abbiamo visto, questo
punto costituisce il centro di tutta la dottrina del Tridentino sul sa-
cramento della penitenza, ed è stato spiegato diffusamente nei capi-
toli 6-7 dello stesso. Ecco il testo:
«Se qualcuno dirà che l’assoluzione sacramentale del sacerdote non è un atto
giudiziario, ma un semplice ministero consistente nel pronunciare e dichiara-
re che i peccati sono stati rimessi al penitente... sit anathema» (can. 9).

Alcune precisazioni sul sacramento come “giudizio”


A questo punto, però è necessario precisare in che senso il con-
cilio di Trento usa la categoria del giudizio. E allora occorre tener
presente quanto segue.

1. Lo stesso Concilio è consapevole di utilizzare un’immagine,


che pertanto va applicata in senso solo analogico. Non è casuale che
nel cap. 6 si dica che l’assoluzione viene data «a guisa di un atto giu-
diziale» (ad instar actus iudicialis), e più oltre si dica che è pronun-
ciata dallo stesso sacerdote velut a iudice («come da un giudice»).
Il confessore, giudice e medico 403

Dunque vi sono notevoli differenze tra ciò che avviene nel sa-
cramento della penitenza e quanto avviene nel giudizio del tribunale
degli uomini:
– il giudice laico deve provare l’accusa nei confronti del reo per
assolverlo o condannarlo; nel sacramento della penitenza il penitente
si autoaccusa, al fine di essere assolto;
– l’assoluzione del giudice è una dichiarazione di non colpevo-
lezza dell’accusato; l’assoluzione sacramentale restituisce la grazia a
chi si riconosce ed è realmente colpevole;
– davanti al giudice il reo si difende; davanti al confessore il cri-
stiano si denuncia peccatore, e solo riconoscendosi con umiltà biso-
gnoso di salvezza può ottenere assoluzione e misericordia.
2. Occorre poi considerare quanto sia cambiata, nel corso dei
secoli, la nozione stessa di potestà e di atto giudiziale. Infatti per l’an-
tichità cristiana il giudice non era solo chi condannava gli accusati o
li assolveva, ma era anche chi concedeva indulti o benefici, e a volte
eseguiva condanne. Il concetto di giudice, poi, non era sempre netta-
mente distinto da quello di “presidente”. Dunque,
«nei tempi del tridentino erano considerati atti giudiziari sia la sentenza con
la quale si applica l’ordine giuridico a un reo [...] sia la concessione di un be-
neficio per indulto, in nome e con l’autorità del principe (ciò che oggi appar-
tiene non all’ordine giuridico in senso stretto, ma all’ordine del potere ammi-
nistrativo). Solo dopo la Rivoluzione francese si è avuta la divisione netta tra
potere giudiziale in senso stretto e potere amministrativo» 5.

Da questo punto di vista, dunque, l’assoluzione sacramentale


sarebbe più simile
«alla concessione di un indulto, con alcune condizioni da imporre e da verifi-
care (ciò esige una certa conoscenza della causa), in virtù di un potere rice-
vuto da Cristo per mezzo della Chiesa» 6.

3. Da ultimo va ricordato che alla base del testo tridentino sta lo


scontro con la Riforma protestante. Il Concilio intende rispondere al-

5
J. RAMOS-REGIDOR, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storico-pastorale alla luce
del Vaticano II, Torino 1974, p. 226. Circa l’assoluzione e il suo carattere giudiziale cf G.B. GUZZET-
TI, Processualità della confessione, in Miscellanea Carlo Figini, Venegono Inferiore 1964, pp. 605-629;
H. BOELAARS, L’indole giurisdizionale e la struttura giudiziale del sacramento della penitenza, in Studia
Moralia 8 (1970) 387-413.
6
Ibid., p. 227
404 Egidio Miragoli

le negazioni dei riformatori; è per questo che insiste sull’efficacia


dell’assoluzione, sulla necessità di una speciale autorità, sulla neces-
sità della conoscenza della causa, sulla potestà di imporre una soddi-
sfazione. Tutto questo viene espresso considerando l’assoluzione un
“atto giudiziale”; attraverso l’immagine dell’atto giudiziale nei suoi
diversi momenti ed elementi a Trento si recupera e afferma quanto
la Chiesa crede a proposito di questo sacramento, dandogli peraltro
una sua ben riconoscibile dignità.

Queste precisazioni e presa di distanza con il giudizio del tribu-


nale degli uomini non devono comunque indurre ad annullare il si-
gnificato spirituale e biblico-evangelico di giudizio che il sacramento
esprime. Ce lo conferma anche il recente Catechismo della Chiesa
cattolica che dice:
«In questo sacramento, il peccatore, rimettendosi al giudizio misericordioso
di Dio, anticipa in un certo modo il giudizio al quale sarà sottoposto al termi-
ne di questa vita terrena. È infatti ora, in questa vita che ci è offerta la possi-
bilità di scegliere tra la vita e la morte, ed è soltanto attraverso il cammino
della conversione che possiamo entrare nel Regno, dal quale il peccato gra-
ve esclude. Convertendosi a Cristo mediante la penitenza e la fede, il pecca-
tore passa dalla morte alla vita “e non va incontro al giudizio” (Gv 5, 24)» 7.

Il nuovo Codice
L’immagine e la terminologia del giudizio è riemersa anche in fa-
se di revisione del Codice. La discussione avvenne però non a propo-
sito del nostro canone, ma in riferimento alla rielaborazione del can.
870 del CIC 1917, che nello Schema era contrassegnato dal numero
130. I due testi sono necessari per capire la discussione avvenuta.

CIC 1917 can. 870 Schema can.130


In poenitentiae sacramento, per iudicia- In sacramento paenitentiae per absolu-
lem absolutionem a legitimo ministro tionem a legitimo ministro impertitam,
impertitam, fideli rite disposito remit- fideles rite dispositi peccata confiten-
tuntur peccata post baptismum com- tes veniam peccatorum quae post bap-
missa. tismum commiserint pacemque cum
Ecclesia obtinent.

7
Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1993, n. 1470.
Il confessore, giudice e medico 405

Ed ecco i vari interventi che si sono susseguiti in seno alla


Commissione.
«Quanto all’osservazione se si debba usare l’aggettivo iudicialis dopo il ter-
mine absolutio, un solo Consultore ritiene che l’aggiunta vada evitata, affin-
ché nel sacramento della penitenza l’azione giudiziale non sia limitata all’as-
soluzione soltanto; l’intera azione del sacramento è infatti azione giudiziale,
ma bisogna anche considerare che l’aggettivo iudicialis compare nel Conci-
lio di Trento. Anche il secondo Consultore si oppone all’aggiunta di iudicia-
lis. L’assoluzione è piuttosto un parere assolutorio nel quale prevale l’azione
della grazia.
Il terzo Consultore osserva che l’aggettivo iudicialis è nel Codice, e dalla
sua soppressione i teologi potrebbero dedurre un qualche mutamento di
dottrina. L’idea che nella confessione si esprime un giudizio deve sopravvive-
re, ma non necessariamente in questo punto. Si può farne cenno dove si trat-
ta della confessione, perché il carattere giudiziale del sacramento della peni-
tenza deve essere conservato.
Il quarto Consultore preferirebbe che l’aggettivo restasse nel testo; non con-
corda il quinto. Secondo il primo Consultore, se l’aggettivo iudicialis viene
inserito, non può mancare neppure dalla formula dell’assoluzione; perciò è
meglio che venga omesso piuttosto che venga negata l’indole giudiziale (di
tutto il sacramento). Alla fine sono tutti d’accordo di non inserire iudicialis
in questo canone; basta farne menzione in un altro» 8.

Il testo finale risultò pertanto quello del nostro attuale can. 959:
«Nel sacramento della penitenza i fedeli, confessando i peccati al ministro le-
gittimo, essendone contriti ed insieme avendo il proposito di emendarsi, per
l’assoluzione impartita dallo stesso ministro (per absolutionem ab eodem mi-
nistro impertitam) ottengono da Dio il perdono dei peccati, che hanno com-
messo dopo il battesimo e contemporaneamente vengono riconciliati con la
Chiesa, che, peccando, hanno ferito».

La similitudine del medico


L’immagine del confessore-medico e del sacramento della peni-
tenza come guarigione spirituale è, di certo, quella pastoralmente più
efficace e meno problematica da proporre. Anch’essa ha un suo radi-
camento evangelico e nella parola di Gesù. Basti un solo riferimento:
«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati [...], non
sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» (Lc 5, 31 s). Nei testi
del concilio di Trento, l’immagine del sacramento come medicina e
del confessore come medico è presente, ma certamente di secondo

8
Communicationes 10 (1978) 49.
406 Egidio Miragoli

piano rispetto a quella di giudizio-giudice: verrebbe da dire che “me-


dico” è quasi un altro modo di tradurre quel “velut” usato a Trento
per mitigare ed esprimere l’analogia del confessore con il giudice.
Due sono i luoghi in cui viene utilizzata: il capitolo V dedicato
alla confessione-accusa dei peccati e il capitolo VIII riguardante la
necessità e il frutto della soddisfazione-penitenza. Quanto alla neces-
sità dell’accusa dei peccati, l’argomentazione è semplice e incisiva:
«Se l’ammalato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il me-
dico non può curare quello che non conosce»; le penitenze imposte
come soddisfazione, poi – oltre che pena e castigo – sono da inten-
dersi come «medicina per l’infermità», come rimedio capace di con-
tribuire a far superare le cattive abitudini acquisite.
In questi riferimenti, però, par di notare l’assenza di una vera
autonomia argomentativa: a Trento l’immagine del medico resta –
per così dire – marginale, o tuttalpiù, complementare.
Per la sua efficacia, invece, essa avrà fortuna e sviluppo nei testi
successivi di spiritualità e di pastorale penitenziale destinati ai con-
fessori e direttori spirituali 9. Dato curioso e interessante: al mutare
della sensibilità e delle esigenze teologico-pastorali, anche la simili-
tudine più debole dei testi tridentini diviene essa pure molto pratica-
ta e diffusa.
Non a caso, l’Esortazione apostolica postsinodale Reconciliatio
et paenitentia del 1984 riprende la tematica in questi termini:
«Riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa
vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere tera-
peutico o medicinale. E questo si collega al fatto che è frequente nel Vangelo
la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice vie-
ne spesso chiamata, sin dall’antichità cristiana, medicina salutis. “Io voglio
curare, non accusare” diceva sant’Agostino riferendosi all’esercizio della pa-
storale penitenziale, ed è grazie alla medicina della confessione che l’espe-
rienza del peccato non degenera in disperazione» 10.

9
San Carlo Borromeo, nelle sue Avvertenze ai confessori, ricorre a questa similitudine per spiegare
quanto non sia opportuno che i penitenti cambino con facilità il confessore. Così dice: «Vedendo che al-
cuno senza giusta causa lascia il suo ordinario confessore, che era più atto ad aiutarlo nella via della
sua salute, procuri con buon modo di rimandarlo a esso, biasimando questa perniciosa negligenza che
hanno le persone di non eleggere un confessore ordinario spirituale e intelligente; e la dannosa e noci-
va frequente mutazione d’essi: perché sì come li medici corporali, che hanno pratica e cognizione della
natura e complessione degli infermi, non si mutano facilmente, perché essi sanno meglio applicare li ri-
medi necessari al suo male; così li penitenti non devono lasciare quel medico spirituale, il quale cono-
scendo li suoi bisogni, gli può applicare più opportuni e utili rimedi» (in Acta Ecclesiae Mediolanensis,
Milano 1699, p. 762).
10
Reconciliatio et paenitentia, n. 31.
Il confessore, giudice e medico 407

La guarigione spirituale, dunque, avviene in forza della grazia di


Cristo: è Cristo il medico che guarisce, è lui il buon samaritano che
medica le ferite, e che «ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spiri-
to versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della spe-
ranza» 11.
Il sacerdote, ministro di questo sacramento, si unisce innanzitut-
to «all’intenzione e alla carità di Cristo» 12, la attualizza nella corretta
celebrazione del sacramento e la esprime con la sua umanità, il suo
comportamento (gesti e parole, rispetto e delicatezza, capacità di a-
scolto e di sapiente consiglio, di sostegno e di accompagnamento).

Necessità di una rilettura dei munera del confessore


Giudice e medico: sono due dei cosiddetti munera del confesso-
re. Occorre dire che non sono gli unici. In passato alcuni autori han-
no parlato di padre, medico e giudice; altri hanno attribuito al confes-
sore i ruoli di padre, maestro, medico e giudice; ad altri è bastato
parlare di maestro, medico e giudice 13. Era anche frequente il tenta-
tivo di declinare, entro ogni ruolo, i compiti specifici. A modo di e-
sempio, prendiamo quanto dice padre F.M. Cappello nel suo De Sa-
cramentis:
«In quanto giudice [il confessore] deve condurre a termine la causa intra-
presa, secondo le proprie possibilità; dare l’assoluzione al penitente disposto
a riceverla; conferire un valido sacramento, cioè pronunciare una sentenza
giuridicamente valida, imporre l’adatta penitenza.
In quanto medico, è tenuto a ben disporre chi si disponga con dubbio; nel
frattempo procrastinargli l’assoluzione; lasciare nella sua buona fede colui al
quale non può dare delucidazioni senza metterlo in pericolo, purché il bene
comune o altra prevalente ragione non esigano che lo si riprenda; imporre
penitenze non solo convenienti, ma anche salutari; offrire opportuni consigli
al fine di prevenire cadute» 14.

Questa precisa determinazione, forse, è eccessiva; infatti non


c’è chi non veda come questi “doveri” possano essere interscambia-
bili e come si intreccino.

11
Messale Romano, Prefazi Comuni, VIII.
12
Presbyterorum ordinis, n. 13.
13 7
Cf F.M. CAPPELLO, De Sacramentis, II, Torino 1963 , n. 463.
14
Ibid., n. 467.
408 Egidio Miragoli

Oggi, secondo qualche autore, questi munera necessitano addi-


rittura di essere riletti e reinterpretati 15.

Al di là delle immagini, gli atteggiamenti del confessore


Da parte nostra allora, tralasciando volutamente situazioni par-
ticolari, vogliamo semplicemente indicare le attenzioni o atteggia-
menti di fondo che il confessore deve coltivare al fine di svolgere
bene il suo compito di giudice e di medico, vale a dire: aiutare il pe-
nitente a confessare i suoi peccati, offrirgli aiuto per un autentico di-
scernimento quale presupposto per un rinnovato cammino e asse-
gnargli una congrua penitenza, quale riparazione e medicina.
Prenderemo come riferimento tre allocuzioni 16 di papa Giovan-
ni Paolo II, ricche di indicazioni, tenute ai membri della Penitenzie-
ria Apostolica e ai candidati al sacerdozio partecipanti al corso sul te-
ma del “foro interno”.

1. Occorre innanzituto premettere che il ministro del sacramen-


to è al servizio di un magistero di Verità, e pertanto il confessore
non dovrà proporre le sue private opinioni, ma la dottrina di Cristo e
della Chiesa.
«Dalle parole di Gesù che enunciano la potestà di rimettere i peccati nel Sa-
cramento della Penitenza, risulta con ogni evidenza che l’atto sacramentale è
intrinsecamente connesso a un giudizio, e perciò stesso a un magistero di
verità. “Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi
e a chi non li rimetterete non rimessi resteranno” (Gv 20, 22-23). In realtà lo
Spirito Santo è Spiritus veritatis [...] e la decisione del sacerdote di rimettere
o di ritenere, non potendo essere arbitraria, perché è funzione strumentale
al servizio del Dio della verità, presuppone il retto giudizio. [...] È per altro
evidente che la funzione del giudice delle coscienze riposa sulla potestà del-
le chiavi (cf Mt 18, 15), che propriamente appartiene alla Chiesa come tale.
[...] Di qui l’ineludibile conseguenza che il sacerdote, nel ministero della Pe-
nitenza, deve enunziare non le sue private opinioni, ma la dottrina di Cristo e
della Chiesa. Enunziare opinioni personali in contrasto col Magistero della
Chiesa, sia solenne che ordinario, è, perciò, non solo tradire le anime, espo-

15
Cf D. TETTAMANZI, Riconciliazione e penitenza. Prospettive pastorali, Roma 1983, p.133 s. La rilettura
dei munera approderebbe a un triplice esito: un ampliamento dei munera tradizionalmente considerati,
una più retta gerarchizzazione dei diversi munera, la reinterpretazione propriamente teologica dei mu-
nera del confessore.
16
Cf GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 27 marzo 1993, in L’Osservatore Romano, 28 marzo 1993, p. 5; Di-
scorso del 21 marzo 1994, in ibid., 22 Marzo 1994, p. 5; Discorso del 18 marzo 1995, in ibid., 19 marzo
1995, p. 5.
Il confessore, giudice e medico 409

nendole a pericoli spirituali gravissimi e facendo subire loro un angoscioso


tormento interiore, ma è contraddire nel suo stesso nucleo essenziale il mi-
nistero sacerdotale» 17.

2. «Sul sacerdote confessore incombe il dovere grave di possedere dottrina


morale e canonistica adeguata almeno ai communiter contingentia, e cioè al
comportamento umano nell’ordinario dei casi, tenuto particolarmente conto
delle condizioni generali dell’ethos socialmente dominante. Dico almeno, ma
aggiungo subito che tale preparazione dottrinale deve sempre accrescersi e
consolidarsi, sulla base dei grandi principi dogmatici e morali, i quali con-
sentono di risolvere cattolicamente anche le situazioni problematiche che si
affacciano alle coscienze, nell’incessante evoluzione culturale, tecnica, eco-
nomica, e così via, della storia umana» 18.

«Occorre inoltre considerare la possibilità che la limitatezza umana ponga il


ministro della penitenza, anche senza sua colpa, di fronte ad argomenti sui
quali egli non ha un’approfondita preparazione [...]. La prepazione dottrinale
del confessore dovrà essere tale da consentirgli almeno di percepire la pos-
sibile esistenza di un problema» 19.

3. «Impegno particolarmente importante e delicato, nel quale applicare la


necessaria solidità di dottrina, è per il confessore quello di facilitare al peni-
tente l’accusa dei peccati, contemperando con l’esigenza di una morale com-
pletezza, irrinunciabile per i peccati mortali, quanto alla specie, alle circo-
stanze determinanti per la specie stessa, e al numero, quella di non rendere
la confessione odiosa o penosa, specialmente a coloro la cui religiosità è de-
bole o di cui è incipiente il processo di conversione. A questo riguardo mai
si raccomanderà abbastanza la delicatezza circa le materie oggetto del sesto
precetto del Decalogo» 20.

4. «Il sacramento della Penitenza non è e non deve diventare una tecnica
psicoanalitica o psicoterapeutica. Tuttavia, una buona preparazione psicolo-
gica, ed in generale delle scienze umane, consente certamente al ministro di
meglio penetrare nel misterioso ambito della coscienza, con l’intento di di-
stinguere – e spesso non è facile – l’atto veramente umano, quindi moral-
mente responsabile, dall’atto “dell’uomo”, talvolta condizionato da meccani-
smi psicologici – morbosi o indotti da abitudini inveterate – che tolgono la
responsabilità o la diminuiscono [...]. Si apre qui il capitolo della carità pa-
ziente e comprensiva che si deve avere verso gli scrupolosi [...].
La finezza psicologica del confessore è preziosa per facilitare l’accusa a per-
sone timide, soggette alla vergogna, impacciate nell’eloquio: questa finezza,
unita alla carità, intuisce, anticipa, rasserena» 21.

17
ID., Discorso del 21 marzo 1994, nn. 2-3, cit.
18
ID., Discorso del 27 marzo 1993, n. 3, cit.
19
L. cit.
20
L. cit.
21
Ibid., n. 4.
410 Egidio Miragoli

5. «Così il sacerdote non deve mai manifestare stupore, qualunque sia la


gravità, l’impensabilità, per così dire, dei peccati accusati dal penitente, mai
deve pronunciare parole che suonino di condanna alla persona anziché al
peccato, mai deve inculcare terrore anziché timore, mai deve indagare su
aspetti della vita del penitente, la cui conoscenza non sia necessaria per la
valutazione dei suoi atti, mai deve usare termini che ledano anche solo la fi-
nezza del sentimento, anche se, propriamente parlando non violano la giusti-
zia e la carità; mai deve mostrarsi impaziente o geloso del suo tempo, morti-
ficando il penitente con l’invito a far presto (salva, come è chiaro, l’ipotesi in
cui l’accusa venga fatta con una inutile verbosità).
Quanto all’atteggiamento esterno il confessore mostri un volto sereno ed
eviti gesti, che possano significare meraviglia, riprovazione, ironia» 22.

6. «A Gesù assimilato, il sacerdote confessore deve poter concludere il suo


colloquio col penitente [...] offrendogli da una parte motivi di ragionevole e
soprannaturale fiducia che rendano atta la sua anima a recepire fruttuosa-
mente l’assoluzione [...] dall’altra deve assegnargli una congrua soddisfazio-
ne, o penitenza, che in primo luogo ripari [...] quindi come farmaco spiritua-
le, rafforzi [...] i buoni propositi di virtù [...]» 23.

«Quanto alla salutare penitenza da assegnare, criterio necessario è quello di


una equa misura e, soprattutto, di una saggia opposizione ai peccati rimessi
e quindi di corrispondenza agli specifici bisogni del penitente [...]. Conside-
rando da una parte l’economia della grazia, che accompagna, sostiene ed
eleva l’operare dell’uomo, e dall’altra le leggi della psicologia umana, risulta
evidente che la soddisfazione sacramentale deve essere innanzitutto pre-
ghiera: essa infatti loda Dio e detesta il peccato come offesa a Lui irrogata,
confessa la malizia e la debolezza del peccatore, chiede umilmente e fiducio-
samente l’aiuto [...]. Sarà cura del confessore aiutare il penitente a compren-
dere tutto ciò, quando questi sia di modeste risorse spirituali. È quindi evi-
dente che, accanto a una proporzione in certo senso quantitativa tra il pecca-
to commesso e la soddisfazione da compiere, occorre tener presente il
grado di pietà, la cultura spirituale, la stessa capacità di comprensione e di
attenzione e, eventualmente, la tendenza allo scrupolo del penitente.
Quando la penitenza deve consistere non solo in preghiere, ma anche in
opere, si debbono scegliere quelle in forza delle quali il penitente si eserciti
con successo nella virtù [...]. In materia deve ordinariamente applicarsi un
certo “contrappasso”, quasi una medicina degli opposti, cosa questa tanto
più necessaria, o almeno utile, quanto più il peccato è stato lesivo di beni
fondamentali: per esempio, al crimine dell’aborto, oggi tragicamente tanto
diffuso, potrebbe essere appropriata risposta penitenziale l’impegno nella di-
fesa della vita e nell’aiuto ad essa, secondo tutte le forme che la carità sa
escogitare in rapporto ai bisogni sia dei singoli che della società; idonea ri-
sposta in relazione ai peccati contro la giustizia, che oggi tanto avvelenano i

22
Ibid., n. 5.
23
ID., Discorso del 18 marzo 1995, n. 2, cit.
Il confessore, giudice e medico 411

rapporti tra le persone e inquinano la società, potrebbe essere, presupposta


la doverosa restituzione del maltolto, la larghezza della carità in modo da su-
perare la misura del danno inflitta al prossimo [...] e non sarà difficile, quan-
do si è giudicati dai criteri della fede, trovare analoghe risposte per gli altri
peccati. A questo punto sarà utile una riflessione su eventuali penitenze che
siano fisicamente afflittive. Fermo restando che la penitenza anche corpora-
le è doverosa in termini generali, anzi santa; ricordo che nel Catechismo del-
la Chiesa Cattolica questo tipo di penitenze, in rapporto al sacramento della
Riconciliazione, è riassunto con il termine digiuno [...] ma è necessaria da
parte del confessore ogni cautela prima di assegnare o anche semplicemen-
te permettere pratiche penitenziali tormentose. In questo campo offre occa-
sione di generosa penitenza il lavoro, specialmente quello materiale, dotato
come è anche di una virtù educatrice del corpo, o che il lavoro stesso si deb-
ba svolgere per dovere professionale, o che si assuma liberamente: infatti il
Creatore ha prescritto per il primo uomo, e per tutti gli uomini, il lavoro co-
me penitenza» 24.

Queste molteplici attenzioni riproposte dal Papa, non sono nuo-


ve; provengono dalla migliore tradizione che ha in sant’Alfonso de’ Li-
guori uno dei suoi principali esponenti. Sono gli atteggiamenti che
fanno di ogni sacerdote confessore un “giusto giudice” e un “buon
medico” dello spirito, due similitudini entro le quali sono facilmente
collocabili le esigenze di Dio e quelle dell’uomo peccatore. Qualche
secolo prima, san Tommaso preferiva riassumere l’identità del con-
fessore con otto aggettivi: «dulcis, affabilis, atque suavis, prudens, di-
scretus, mitis, pius atque benignus». E un vescovo spagnolo del XIV
secolo, Andrés de Escobar, autore del Modus Confitendi, un’opera
che ebbe grande fortuna, scioglieva così il senso di questi aggettivi:
«dolce nel correggere, accorto nell’insegnare, caritatevole nel punire,
affabile nell’interrogare, cortese nel consigliare, misurato nel commi-
nare la penitenza, bonario nell’ascoltare, benevolo nell’assolvere» 25.

EGIDIO MIRAGOLI
Via Madre Cabrini, 2
20075 Lodi

24
Ibid., n. 5.
25
Cf J. DELUMEAU, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII secolo, Ci-
nisello Balsamo 1992, p. 29.
412

Il confessore educatore:
l’uso delle conoscenze
acquisite dalla confessione
di Mauro Rivella

La prassi della confessione auricolare come modalità nella qua-


le è venuta specificandosi nel corso della storia la celebrazione del
sacramento della Penitenza ha portato con sé la necessità di tutelare
al massimo grado il riserbo del fedele che vi si accosta. Questi infatti
deve essere certo che tutto quanto sarà oggetto del colloquio peni-
tenziale – non solo i peccati veri e propri, ma anche dimensioni e cir-
costanze intime della vita – sarà coperto dal segreto e non verrà uti-
lizzato dal sacerdote, una volta concluso l’atto sacramentale, a danno
suo o di altri.
È in gioco nel contempo la tutela della persona, che si accosta
al confessore in quanto ministro della grazia di Dio, e la stima da
parte dei fedeli del sacramento stesso, che altrimenti si carichereb-
be di odiosità.
A questo fine l’attuale Codice di diritto canonico distingue accu-
ratamente fra sigillo sacramentale e segreto:
– il sigillo sacramentale, sotto il quale rientrano tutte le colpe,
gravi o leggere, manifestate dal penitente nell’atto sacramentale, an-
che se per qualsiasi ragione l’assoluzione fosse stata rifiutata (cf can.
983 § 1). Il confessore vi è strettamente vincolato: la violazione diret-
ta del sigillo è punita con la scomunica latae sententiae riservata alla
Sede Apostolica; quella indiretta con una pena obbligatoria indeter-
minata (cf can. 1388 § 1). Del sigillo sacramentale già si è trattato in
QDE 3 (1990) 411-421;
– il segreto, che impegna non solo l’eventuale interprete e quanti
in qualsiasi modo siano venuti a conoscenza di peccati accusati in
confessione (cf can. 983 § 2), ma anche il confessore stesso, per que-
gli elementi che, pur non costituendo peccato e non essendo quindi
Il confessore educatore: l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione 413

direttamente oggetto di confessione, ha appreso dal penitente duran-


te la confessione: sono le «conoscenze acquisite in occasione del sa-
cramento», di cui tratta il can. 984 § 1. Su questo tema intendiamo
soffermarci nelle pagine che seguiranno.

Il segreto confessionale
e l’aggravio del penitente (can. 984 § 1)
Riportiamo il testo del can. 984 § 1:
«È assolutamente proibito al confessore far uso delle conoscenze acquisite
dalla confessione con aggravio del penitente, anche escluso qualsiasi perico-
lo di rivelazione».

La norma vuole garantire che ciò che è stato rivelato in ambito


sacramentale – «in foro Dei», secondo gli antichi – resti in tale ambi-
to: il penitente che si accosta con fede al sacramento della Penitenza,
consapevole di poter riacquistare la pienezza dello stato di grazia,
deve essere certo che non subirà danni o ritorsioni. Nel contempo la
disposizione codiciale intende tutelare anche gli altri fedeli: se infatti
al confessore fosse lecito utilizzare conoscenze acquisite in confes-
sione con aggravio per altri, ne scapiterebbe la stima che in generale
i fedeli hanno del sacramento, dal momento che esso potrebbe tra-
sformarsi in uno strumento subdolo di controllo e di governo.
Poiché la norma vigente riprende quasi alla lettera il testo del
can. 890 § 1 del precedente Codice (le poche mutazioni sono dettate
da scelte stilistiche), è possibile e opportuno rifarsi ai commentari
del Codice del 1917, primo fra tutti il trattato del Cappello 1, per preci-
sarne il senso e l’estensione.
Il disposto codiciale non fa che ripetere sintetizzandolo un pro-
nunciamento della S. Congregazione del Sant’Uffizio del 18 novem-
bre 1682: esso vieta l’uso delle informazioni acquisite in confessione,
se c’è il pericolo generale di rivelazione o anche, escluso tale perico-
lo, se ne deriva un aggravio per il penitente o si rende in qualsiasi
maniera odiosa la confessione, per quanto dal non uso di ciò che si è
appreso possa sorgere un danno molto più grande per il penitente 2.

1 7
F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis de Sacramentis, vol. II De Poenitentia, Marietti, Torino 1963 ,
nn. 614-621.
2
Cf DENZINGER-SCHÖNMETZER, n. 2195. Cf anche F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis..., cit., n. 617.
414 Mauro Rivella

Tale posizione, unanimemente condivisa dagli autori moderni,


costituisce il punto di arrivo di un cammino di chiarificazione nel
corso del quale si è venuto precisando che è proprio la nozione di
aggravio del penitente quella che impedisce in maniera assoluta di far
ricorso alle conoscenze acquisite dalla confessione sacramentale,
quand’anche altre ragioni, come il bene del penitente, del confessore
stesso o della comunità, potrebbero indurre ad agire diversamente.
Infatti sino al sec. XVII parecchi Dottori ammettevano che il confes-
sore, fatto salvo il sigillo sacramentale, potesse servirsi di tali cono-
scenze sia a vantaggio del penitente, per esempio con l’allontanarlo
dalle occasioni di peccato, sia per il bene della comunità, per esem-
pio denunciando come eretico chi potesse nuocerle. In altre parole,
«si riteneva lecito l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione,
dove non ci fosse pericolo alcuno di manifestazione del peccato» 3. Si
noti tuttavia come la posizione più severa fosse sostenuta già da san
Tommaso:
«Anche ciò che non è materia di confessione sacramentale appartiene indi-
rettamente al sigillo della confessione, quando si tratta di cose da cui si po-
trebbe scoprire il peccato o il peccatore. Non di meno tuttavia vanno cela-
te anche le altre notizie: sia per evitare scandalo; sia per la propensione a
parlare che potrebbe provocare questo modo di agire» 4.

Gli autori antichi e i commentatori del Codice del 1917 indugia-


vano nel proporre casi estremi in cui il confessore si troverebbe di
fronte al dilemma fra il tradire il segreto della confessione e il salva-
re la propria o altrui vita (se per esempio il penitente gli rivelasse
che il vino che sta per utilizzare per la Messa è avvelenato): con l’e-
quilibrio che lo contraddistingue, il Cappello osserva che siffatti casi
ipotetici offrono sempre nella realtà una via d’uscita diversa dal tradi-
mento del sigillo o del segreto 5.
È indifferente che il penitente sia consapevole o meno dell’uso
di quanto ha rivelato: sarebbe infatti sufficiente che si insinuasse tale
sospetto tra i fedeli per rendere odioso il sacramento.
Quand’anche non ci sia pericolo di rivelazione o aggravio del
penitente, non è mai lecito servirsi delle conoscenze acquisite in oc-
casione della confessione se ciò può suscitare scandalo o offesa dei

3
Ibid., n. 629.
4
Summa Th, Suppl., q. 11, art. 2, ad 1.
5
F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis..., cit., n. 618.
Il confessore educatore: l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione 415

fedeli o far nascere il sospetto che sia stato violato il sigillo sacra-
mentale 6. In questo senso è opportuno rifarsi a un’Istruzione del
Sant’Uffizio del 9 giugno 1915 sull’inviolabilità del sigillo sacramen-
tale: pur avendo dal punto di vista giuridico un valore soltanto stori-
co, merita di essere considerata nella misura in cui ribadisce principi
perennemente validi. Essa infatti ammonisce i confessori dal fare og-
getto di conversazione o di predicazione casi strabilianti e vicende
conosciute in confessione, e dal raccontare fatti che parrebbero ap-
presi in confessione, se non dichiarando espressamente di esserne
stati informati per altra via:
«Talora però non mancano ministri di questo sacramento di salvezza che
non esitano a discutere temerariamente di quanto è stato sottomesso al pote-
re delle chiavi in confessione sacramentale, sia in conversazioni private, sia
in conferenze al popolo (ad edificazione, come dicono, degli ascoltatori), pur
tacendo di tutto ciò che potrebbe in qualsiasi modo tradire la persona del pe-
nitente. Ora siccome in materia di così grande valore e importanza va non
solo evitata con ogni diligenza l’offesa piena, ma anche ogni parvenza e so-
spetto di offesa, è evidente a tutti quanto questo modo di comportarsi sia ri-
provevole. Difatti, benché questo si faccia lasciando sostanzialmente salvo il
segreto sacramentale, tuttavia non può certamente non offendere i delicati
sentimenti degli ascoltatori e non suscitare diffidenza nei loro animi» 7.

L’uso delle conoscenze apprese in occasione della confessione


sacramentale è invece lecito, se non esiste alcun pericolo di rivela-
zione e aggravio per il penitente, né deriva scandalo nei fedeli. È pa-
rimenti lecito quando il penitente sa che il confessore si sta serven-
do di tali conoscenze, purché il fatto non gli sia fastidioso, ma anzi lo
gradisca 8. Infatti il confessore, in base a quanto ha appreso dalla con-
fessione, può pregare per il penitente, trattarlo meglio, migliorarsi,
fare tutto quanto gli compete in forza dell’ufficio e che avrebbe fatto
anche se non avesse ascoltato la confessione. Ciò è lecito anche qua-
lora si sia reso conto di un proprio dovere (per esempio, la custodia
accurata della chiave del tabernacolo) proprio in seguito a una con-
fessione, e forse senza tale stimolo non l’avrebbe compiuto con la
dovuta diligenza.
È ovviamente permesso al confessore, posto di fronte a casi dif-
ficili, consultare qualcuno più competente. In questa circostanza, de-

6
Ibid., n. 617.
7
L’Istruzione non fu pubblicata sugli Acta Apostolicae Sedis, né è contenuta nel DENZINGER. Il CAPPELLO
la riporta integralmente al n. 607.
8
F. CAPPELLO, Tractatus canonico-moralis..., cit., n. 617.
416 Mauro Rivella

ve strutturare il quesito in modo tale che non venga assolutamente


tradito il riserbo sul penitente: se ciò risultasse praticamente impos-
sibile, è meglio che risolva da solo il caso affidandosi a Dio.
Il can. 1550 § 2, 2° dichiara incapaci alla testimonianza proces-
suale «i sacerdoti, per quanto sia venuto loro a conoscenza dalla con-
fessione sacramentale, anche nel caso che il penitente ne chieda la
rivelazione». Il medesimo canone continua, affermando che «non
può essere recepito neppure come indizio di verità quanto fu udito
da chiunque e in qualsiasi modo in occasione della confessione».
Mentre il can. 1388 § 2 stabilisce che vengano puniti con una
pena obbligatoria indeterminata l’interprete e quanti altri, venuti a
conoscenza di materia di confessione, non mantengano il segreto,
nessuna pena è prevista dal sistema canonico per il confessore che
usa indebitamente delle informazioni acquisite nell’atto sacramenta-
le: ciò dipende dal fatto che è praticamente quasi impossibile rileva-
re e determinare con certezza questo tipo di violazione 9.

La proibizione per i superiori gerarchici (can. 984 § 2)


Il can. 984 § 2 e il can. 985 costituiscono due applicazioni del
principio generale che abbiamo esaminato sinora. Essi rapportano il
divieto del ricorso alle conoscenze ottenute nel foro sacramentale al-
l’ambito del governo gerarchico.
Esaminiamo il testo del can. 984 § 2:
«Chi è costituito in autorità non può avvalersi in nessun modo per il governo
esterno di notizie di peccati, che abbia appreso in una confessione ricevuta
in qualunque momento».

È importante notare che la proibizione si estende «a qualunque


momento», comprendendo anche quelle informazioni che il confes-
sore potrebbe aver acquisito prima dell’inizio del proprio mandato.
Anche questo paragrafo riprende nella sostanza la formulazione del
corrispondente can. 890 § 2 del Codice del 1917: la fonte è in questo
caso una proibizione del papa Clemente VIII, contenuta in un decre-
to del 26 maggio 1593 e diretta in origine a tutti i superiori religiosi:

9
Cf V. DE PAOLIS, De delictis contra sanctitatem Sacramenti Paenitentiae, in Periodica 79 (1990) 196.
Il confessore educatore: l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione 417

«Sia i superiori in carica, come pure i confessori che in seguito siano stati
promossi al rango di superiori, evitino accuratamente di servirsi per il gover-
no della conoscenza dei peccati altrui che ebbero in confessione» 10.

Dal punto di vista pratico, è buona regola che il superiore gerar-


chico si astenga dal fungere abitualmente da confessore di quanti gli
sono sottoposti, soprattutto per fugare il sospetto di un eventuale
uso indebito della scienza di confessione e per evitare equivoci e
fraintendimenti dai quali non sarebbe in grado di difendersi 11.

Il caso specifico dei formatori (can. 985)


Anche la norma contenuta nel can. 985 intende salvaguardare
la libertà della confessione, evitando il rischio di ambigue commi-
stioni fra il governo e il foro della coscienza nel delicato ambito della
formazione alla vita sacerdotale e religiosa:
«Il maestro dei novizi e il suo assistente, il rettore del seminario o di un altro
istituto di educazione, non ascoltino le confessioni sacramentali dei propri
alunni, residenti nella stessa casa, tranne che, in casi particolari, siano gli
stessi alunni a chiederlo spontaneamente».

Una proibizione analoga è contenuta nel can. 630 § 4, che vieta


ai superiori religiosi di ascoltare le confessioni dei propri sudditi, a
meno che questi non lo richiedano di loro volontà, e va correlata con
il can. 240 § 2, che impedisce di chiedere il parere del direttore spiri-
tuale e dei confessori in ordine all’ammissione agli ordini o alla di-
missione degli alunni del seminario.
La norma contenuta nel can. 985 si fonda su una ragione pru-
denziale: intende tutelare la piena libertà degli alunni delle case di
formazione, verso i quali non può essere esercitata alcuna pressio-
ne – diretta o indiretta – affinché si confessino dai propri superiori
disciplinari. In ultima analisi lascia anche più libero il superiore nel
prendere decisioni, senza che possa insinuarsi il sospetto di un ricor-
so, con aggravio di quanti gli sono sottoposti, a conoscenze desunte
dal foro sacramentale. È chiaro che la norma non intende rendere

10
DENZINGER-SCHÖNMETZER, n. 1989.
11
Cappello (n. 623) ritiene che di per sé non sarebbe illecito l’uso della conoscenza sacramentale da
parte del Superiore, se si evitasse con certezza l’aggravio del penitente. F. MC MANUS, in The Code of
Canon Law, commissioned by The Canon Law Society of America, p. 692, è di parere opposto: ritengo
che in ogni caso il confessore debba agire con la massima prudenza.
418 Mauro Rivella

inabili i formatori a ricevere le confessioni sacramentali: si tratta di


una disposizione ad liceitatem, che prevede espressamente che gli
alunni stessi possano occasionalmente e spontaneamente chiedere
ai loro superiori di ascoltarne la confessione. Ciò potrebbe avvenire
in circostanze particolari, dettate per esempio dall’assenza o dall’im-
possibilità morale di ricorrere ad altri confessori. È caduta la clauso-
la, presente nel corrispondente can. 891 del Codice del 1917, che esi-
geva per giustificare tale richiesta una causa grave e urgente.
È importante che questa norma prudenziale non diventi per i
candidati alla vita sacerdotale e religiosa un alibi per sottrarsi a una
leale apertura d’animo verso coloro che hanno avuto dalla Chiesa il
compito di verificare la consistenza della loro vocazione: alla fine i
più danneggiati, perché condotti su una pista sbagliata, sarebbero
proprio loro. Non si dimentichi che i più recenti studi psicopedagogi-
ci, avvalorati anche da autorevoli orientamenti magisteriali, insistono
sull’opportunità che l’iter di formazione al ministero ordinato e alla
vita religiosa sia unitario: ciò è possibile grazie a un gruppo affiatato
di educatori, distinti nei ruoli ma concordi negli obiettivi, e a sogget-
ti veramente disposti a lasciarsi plasmare dall’intervento formativo.
In questo contesto la tutela del riserbo di confessione diventa non un
impedimento, ma un’ulteriore garanzia di libertà nel cammino di pie-
na adesione al progetto di Cristo.

MAURO RIVELLA
via Lanfranchi, 10
10131 Torino
419

Commento a un canone
L’impegno a diffondere
l’annuncio della salvezza (can. 211)
di Silvia Recchi

«Tutti i fedeli hanno il dovere ed il diritto di impegnarsi affinché


l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più tra gli uomini
di ogni tempo e di ogni luogo» (can. 211).
Il canone è inserito tra le norme del Titolo I del Libro II del Co-
dice concernenti gli obblighi e i diritti propri a tutti i fedeli. Il suo
iter di redazione ha condiviso essenzialmente la sorte dei canoni
contenuti nello stesso Titolo I, all’interno del dibattito che ha portato
alla loro attuale formulazione 1.

Breve storia della redazione del canone


Il contenuto del can. 211, con un riferimento esplicito al decreto
conciliare Apostolicam actuositatem n. 3, risultava originariamente in
un elenco di 33 diritti e doveri redatto dai Consultori del Coetus de
Laicis della Commissione incaricata della revisione del Codice 2. Que-
sto stesso Coetus dopo il Sinodo dei vescovi del 1967, riformulava

1
Cf R. CASTILLO LARA, I doveri ed i diritti dei Christifideles, in Salesianum 48 (1986) 307-329; E. COREC-
CO, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel CIC, in I diritti fondamentali della persona umana e la li-
bertà religiosa. Atti del V Colloquio Giuridico (Roma 8-10 marzo 1984), Libreria Editrice Vaticana - Li-
breria Editrice Lateranense, pp. 101-125; ID., I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella so-
cietà. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Friburgo-Svizzera, 6-11 ottobre 1980), a
cura di E. CORECCO - N. HERZOG - A. SCOLA, Milano 1981; anche J. BEYER, De statuto iuridico christifide-
lium iuxta vota Synodi Episcoporum in novo Codice iuris condendo, in Periodica 57 (1968) 550-581; ID.
De iuribus humanis fundamentalibus in Statuto iuridico christifidelium assumendis, in Periodica 58
(1969) 29-58; P.A. BONNET, De christifidelium communi statu (iuxta Schema anni 1979 L.E.F.) animad-
versiones, in Periodica 71 (1982) 463-529.
2
Nella prima sessione dei lavori, 28 novembre-3 dicembre 1966, fu infatti elaborato un primo elenco
che sarebbe dovuto servire come base di lavoro per lo studio successivo; cf Communicationes 17
(1985) 187-191; 208-227.
420 Silvia Recchi

l’elenco in 22 canoni che prospettavano uno “Statuto giuridico fonda-


mentale” dei fedeli, con esplicita ispirazione ai documenti del conci-
lio Vaticano II 3. L’attuale can. 211 era riprodotto nella sostanza dal
can. 11 § 1 dell’elenco.
Ulteriori revisioni conducono nel 1970 a un nuovo elenco di ob-
blighi e diritti, espresso in 24 canoni, in cui il contenuto del nostro
canone restava immutato 4.
Contemporaneamente ai lavori del Coetus de Laicis, il Coetus in-
caricato alla redazione della Lex Ecclesiae Fundamentalis (LEF) ave-
va preparato un secondo corpo di canoni contenenti doveri e diritti
propri di tutti i fedeli.
I due corpi di canoni redatti dai due diversi Coetus vengono esa-
minati e confrontati dal Coetus studii “De Christifidelium iuribus et
associationibus deque laicis”, durante i lavori della sessione del 7-11
aprile 1975 5. Il Coetus in riferimento al nostro canone afferma di pre-
ferire il testo della LEF, nel caso quest’ultima non fosse stata promul-
gata 6.
La storia dei due diversi Schemi ha visto in seguito ulteriori e-
voluzioni. Quello preparato dal Coetus de Laicis fu inserito nello
Schema del Codice 1977, successivamente tuttavia, essendo conside-
rata prossima la promulgazione della LEF, al fine di evitare inutili ri-
petizioni, fu stabilito di conservare soltanto l’elenco dei canoni sugli
obblighi e diritti di tutti i fedeli contenuti in essa. Come è noto infat-
ti lo Schema Codicis Iuris Canonici del 1980 non contiene più il tito-
lo De Cristifidelium obligationibus et iuribus. Allorché nel 1981 fu
deciso invece di non promulgare più la LEF, si presentò il problema
di inserire di nuovo nel Codice i canoni sui doveri e diritti dei chri-
stifideles. Furono presi i canoni contenuti nell’ultima redazione di
essa (1980) per formare il testo dell’attuale Titolo I del Libro De po-
pulo Dei 7.

3
Cf ibid., pp. 234-239.
4
Cf Communicationes 18 (1986) 322-334.
5
Cf ibid., pp. 365-376.
6
La differenza era data dall’espressione «ut divinum salutis nuntium ab universis hominibus ubique
terrarum cognoscatur et accipiatur»; il testo della LEF diceva «ut divinum salutis nuntium ad universos
homines ubique terrarum perveniat» in sostituzione dei verbi “cognoscatur et accipiatur”, cf Communi-
cationes 18 (1986) 365-376, particolarmente p. 370.
7
Cf A. MONTAN, Obblighi e diritti di tutti i fedeli. Presentazione e commento dei cann. 208-223 del codice
di diritto canonico, in Apollinaris 60 (1987) 545-582;
L’impegno a diffondere l’annuncio della salvezza (can. 211) 421

Natura del canone


I diritti e i doveri dei fedeli espressi nel Codice non si fondano,
in maniera immediata ed esclusiva, nella natura umana, ma nascono
sempre dalla incorporazione a Cristo, operata nel battesimo 8. Essi
non vengono prima del battesimo; solo quest’ultimo infatti, permet-
tendo l’incorporazione del fedele a Cristo e alla Chiesa, costituisce lo
stesso fedele persona nella comunità ecclesiale con doveri e diritti
corrispondenti (can. 96), che sono il riflesso della sua nuova realtà
teologale, in comunione con Dio e con i fratelli.
La maggior parte dei diritti contenuti nel Titolo I del Libro II
del Codice giustificano la loro esistenza non in base a una concessio-
ne del Legislatore, ma in base al fatto di essere inerenti all’essere
cristiano, poiché l’essere cristiano implica di per sé, anteriormente
all’esistenza della legge positiva, determinati doveri e diritti 9. Questo
si applica in maniera particolare al nostro canone, come in genere a
tutti quelli che esprimono la partecipazione del fedele alla triplice
funzione di Cristo. Questi canoni contengono delle enunciazioni de-
rivanti dal diritto divino. Ciò mostra la natura del can. 211 che espri-
me il dovere-diritto di collaborare alla diffusione del messaggio e-
vangelico (can. 211), dovere-diritto ripetuto anche nel catalogo dei
canoni riferito ai laici (can. 225 § 1) 10.
Il dovere-diritto espresso nel can. 211 nasce sulla base del batte-
simo e della confermazione e non proviene da una concessione del-
l’autorità ecclesiastica. Si tratta di un dovere-diritto che si applica a
tutti i fedeli in quanto tali, non soltanto ai ministri sacri. Per ogni fede-
le l’onere in questo campo sarà tuttavia differente, secondo la propria
condizione ministeriale nella Chiesa e secondo i propri carismi.

Fonti del canone


Il can. 211 appartiene a quelle disposizioni del CIC che recepi-
scono giuridicamente principi o elementi ecclesiologici generali
sparsi nei testi conciliari, nel caso specifico il dovere di collaborare
all’annuncio cristiano in cui si enuclea l’orientamento missionario
globale dato dal Concilio alla Chiesa 11.

8
G. FELICIANI, Le basi del diritto canonico, Bologna 1984, p. 115.
9
R. CASTILLO LARA, I doveri ed i diritti..., cit., p. 318.
10
E. CORECCO, Il catalogo dei doveri-diritti ..., cit., p. 111.
11
Ibid., p. 110.
422 Silvia Recchi

Le fonti conciliari più dirette del can. 211 sono la Lumen gen-
tium (LG) e l’Ad gentes 12 (AG). La missione affidata alla Chiesa di
annunciare la buona novella a tutte le genti fino agli estremi confini
della terra non concerne solo la gerarchia, ma tutto il popolo di Dio.
A ogni discepolo di Cristo incombe quindi il dovere di diffondere la
fede (LG 17). La Chiesa, che per sua natura è missionaria (AG 2), ha
ricevuto dal Signore il comando di annunciare a tutti i popoli la buo-
na novella. Tutti i fedeli, incorporati e assimilati a Cristo mediante il
battesimo, mediante la confermazione e l’eucaristia, hanno l’obbligo
di cooperare all’espansione e alla dilatazione del suo corpo (AG 36).
Per mezzo dello stesso battesimo e della cresima i cristiani sono de-
putati alla missione salvifica propria della Chiesa. Tale cooperazione
alla missione della Chiesa da parte del fedele non è soltanto un dove-
re, essa è anche un diritto; l’esercizio di quest’ultimo esige che i fe-
deli possano godere della libertà necessaria per poterlo attuare 13.

Portata giuridica del can. 211


Il dovere-diritto espresso nel can. 211 non concerne alcuni atti
specifici del fedele, ma si riferisce in primo luogo a un atteggiamento
fondamentale presupposto dal fatto che l’evangelizzazione avviene
con la testimonianza e la parola (LG 35) in tutte le circostanze della
vita 14. In questo senso la disposizione del canone ha un carattere ge-
nerale con una valenza sia sul piano morale che giuridico. Tale atteg-
giamento fondamentale comprende anche atteggiamenti concreti, in
riferimento per esempio a una cooperazione più immediata con l’a-
postolato della gerarchia, a una azione consultiva in questo campo,
all’esplicitazione di “vota” in sede di consigli ecc.
Il canone intende affermare l’obbligo dell’impegno di tutti al-
l’annuncio divino della salvezza. Le modalità della partecipazione a
questa missione variano secondo lo status ecclesiale dei fedeli e pos-
sono comportare ulteriori precisazioni o limitazioni.
Il Codice contiene infatti ulteriori disposizioni che comportano
obblighi giuridici del fedele, in quanto appartenente a un preciso

12
Più precisamente LG 17 e AG 1, 2, 5, 35-37, cf PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTI-
CE INTERPRETANDO, Codex Iuris Canonici. Fontium annotatione et indice analytico-alphabetico auctus, Li-
breria Editrice Vaticana 1989, p. 57.
13
Cf G. FELICIANI, Il popolo di Dio, Bologna 1991, p. 29
14
Cf ID., Obblighi e diritti di tutti i fedeli cristiani, in AA.VV., Il fedele cristiano (Coll. “Il Codice del Vati-
cano II”), Bologna 1989, pp. 76-77.
L’impegno a diffondere l’annuncio della salvezza (can. 211) 423

status nella Chiesa, nei confronti della diffusione dell’annuncio divi-


no di salvezza; per esempio l’obbligo che grava sul Romano Pontefi-
ce e sul Collegio Episcopale (can. 756 § 1), sui singoli vescovi (can.
756 § 2); sui presbiteri e sui diaconi (can. 757), sui membri di IVC
(can. 758); ugualmente l’obbligo per i genitori di curare l’educazione
cristiana dei figli (cann. 226 § 2; 774 § 2; 793; 1136), così come per i
padrini (cann. 774 § 2; 872) 15.
Vari commentatori al Codice attuale definiscono veramente giu-
ridico il diritto enunciato nel canone, mentre il dovere sarebbe inve-
ce morale; giuridico è soltanto il dovere dei fedeli di educare i propri
figli nella fede 16.
Quanto alla tutela del diritto contenuto nel can. 211, essa esige
di garantire lo spazio di libertà affinché non ne sia impedito l’eserci-
zio. L’ordinamento giuridico infatti che riconosce o attribuisce diritti
soggettivi deve garantirne attraverso le sue leggi la difesa e la tutela.
Per ciò che si riferisce all’adempimento del dovere corrispon-
dente, il Codice non stabilisce sanzioni contro l’inosservanza di es-
so 17. Nella maggior parte di questi doveri infatti l’adempimento è la-
sciato alla personale responsabilità dei fedeli, essendo tra l’altro im-
possibile esigerne coattivamente l’osservanza.
In questo senso il can. 211 contribuisce a mostrare la peculia-
rità del diritto canonico, che fa più affidamento sulla responsabilità
personale che sulla minaccia di sanzioni 18.

SILVIA RECCHI
Institut catholique
B.P. 11628 Yaoundé
Cameroun

15
Commento al Codice di Diritto Canonico, Pontificia Università Urbaniana, Roma 1985, p. 117
16
Codice di Diritto canonico. Edizione bilingue commentata (a cura di P. LOMBARDIA E J.I. ARRIETA), Ro-
ma 1986, p. 187; Code de Droit Canonique, Edition Bilingue et annotée, Montréal 1990, p. 143.
17
Tali sanzioni sono previste solo per alcune speciali fattispecie delittuose (per esempio la scomunica
in base al can. 1364 per il delitto di scisma can. 751/can. 209; le pene per i delitti contra ecclesiasticas
auctoritates cann. 1370-1374; contra bonam famam cann. 1390/1391 ecc.).
18
R. CASTILLO LARA, I doveri ed i diritti..., cit., p. 321.
424

Il pastore d’anime
e la nullità del matrimonio
XI. L’incapacità ad assumere
gli obblighi essenziali del matrimonio (can. 1095, 3°)
di Paolo Bianchi

Nella precedente puntata della nostra rubrica già ci siamo occu-


pati del tema della (in)capacità psichica al matrimonio canonico,
commentando i primi due numeri del can. 1095. Per questo, studian-
do in questo fascicolo della Rivista la fattispecie di cui al n. 3 del det-
to canone, potremo per molte questioni richiamarci alla presentazio-
ne della materia là fatta.
Procedendo secondo lo schema già noto, possiamo mettere in
rilievo quanto segue.

Elementi di diritto sostantivo


La norma di cui dobbiamo occuparci stabilisce un principio logi-
camente e formalmente assai chiaro: sono incapaci di contrarre matri-
monio coloro che non possono assumersene gli obblighi essenziali; a
questo principio generale la norma in oggetto aggiunge la prescrizio-
ne che detta incapacità deve originarsi da una causa di natura psichica.
Sotto un profilo formale, appunto, la detta norma appare oltre-
modo chiara. Per non lasciarsi però ingannare dalle apparenze è as-
sai opportuno sottoporre a un’analisi – seppure il più possibile sem-
plice – gli elementi di cui essa si sostanzia. Dovremo quindi mettere
in luce: il concetto e il tipo di incapacità intesi dalla norma; l’oggetto
della incapacità medesima, ossia quali siano gli “obblighi essenziali”
del matrimonio; la ragione prossima della stessa, ovvero le “cause di
natura psichica” cui il testo legale fa riferimento.
1. In primo luogo dobbiamo precisare a quale tipo di incapacità
intenda fare riferimento il can. 1095, 3°.
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 425

Come i lettori ricorderanno, i primi due numeri di questo cano-


ne facevano riferimento all’insufficienza intrinseca, quale atto psico-
logico, del consenso matrimoniale: in altre parole esso era insuffi-
ciente come atto umano nel suo versante soggettivo, a seguito di un
insufficiente uso di ragione, o di un’insufficiente capacità critica, ov-
vero ancora di una insufficiente libertà interiore.
Nel caso presente, invece, il consenso – pur magari anche suffi-
ciente in quanto atto psicologico, nel suo profilo, quindi, soggettivo –
è inefficace sotto il profilo giuridico per la mancanza del suo oggetto,
ossia in quanto non è possibile per il contraente l’adempimento di
quegli obblighi che egli pure intenderebbe assumere.
Ciò, a ben vedere, appare oltremodo logico giuridicamente e
anche coerente coi principi del sistema matrimoniale canonico. Logi-
co, anzitutto, sotto un profilo giuridico, dovendosi ritenere precetto
di “diritto naturale” che chi sia incapace di effettuare una determina-
ta prestazione sia incapace anche di contrarla sotto forma di obbligo
giuridico, come anche espresso da alcuni classici “brocardi”: impos-
sibilium nulla obligatio est, ovvero ad impossibilia nemo tenetur. Coe-
rente poi coi principi del sistema matrimoniale canonico perché, co-
me certo si ricorderà, l’oggetto del patto matrimoniale canonico è
il dono di se stessi in vista della costituzione del matrimonio (cf
c. 1057 § 2). Come già altrove si è osservato, questa espressione di
carattere piuttosto generale (“dono di sé”) trova la sua concretizza-
zione giuridica nel farsi carico dei diritti e doveri coniugali nei con-
fronti della comparte. Ora, chi non è in grado di garantire alcuna os-
servanza di quei diritti e doveri del matrimonio (o anche di qualcuno
di essi) va considerato persona incapace della valida costituzione del
rapporto (giuridico) matrimoniale.
Da quanto appena puntualizzato, risulta piuttosto evidente che
l’ordinamento canonico intende prendere in considerazione il pro-
fondo coinvolgimento personale che si realizza nell’istituto matrimo-
niale: viene in altre parole in considerazione la persona nella sua atti-
tudine al matrimonio (seppure sotto lo specifico profilo degli obbli-
ghi essenziali di esso) e viene pure in considerazione il matrimonio
nel suo essere non solo patto, ma anche stato di vita, ossia quanto la
canonistica classica esprimeva con l’efficace espressione di matri-
monium in facto esse.
È pure evidente che la forma di incapacità che intende regola-
mentare il n. 3 del can. 1095 è incapacità di “assumere” in quanto in-
capacità di “adempiere” gli obblighi essenziali del matrimonio. Già i
426 Paolo Bianchi

lavori preparatori della nuova legislazione e, ormai, anche la dottrina


e la giurisprudenza danno una indicazione piuttosto concorde in
questo senso. Il n. 3 del canone rappresenta una fattispecie distinta
di incapacità rispetto ai primi due numeri di esso e si sostanzia del-
l’impossibilità di porre a effetto l’oggetto di ciò che dovrebbe rappre-
sentare il contenuto obbligatorio essenziale del patto matrimoniale.
Tuttavia – come alcuni commentatori hanno acutamente posto
in luce – il Legislatore ha denominato questa forma di incapacità in-
capacitas assumendi e non già adimplendi, per indicare sia che essa
concerne non già il mero adempimento di fatto di un obbligo ma i
presupposti stessi del suo sorgere, sia che il punto prospettico di va-
lutazione della capacità o meno del soggetto al matrimonio anche
sotto questo profilo non potrà che essere quello della prestazione del
consenso: ossia il momento storicamente determinato del sorgere o
non sorgere del rapporto giuridico.
Chiarito da un punto di vista per così dire “sistematico” il concet-
to di incapacità inteso dal Legislatore nel caso, occorre puntualizzare
il medesimo concetto da un punto di vista per così dire sostanziale.
Più semplicemente: quando una determinata persona dovrà essere ri-
tenuta incapace ad adempiere e – quindi – ad assumere qualcuno de-
gli obblighi essenziali del matrimonio?
A questo proposito, non si può che rimandare a quanto esposto
in merito in tema di incapacità consensuale. Alla stregua anche delle
autorevoli indicazioni del Pontefice là commentate, si potrà parlare
di vera incapacità solo quando il comportamento del soggetto (nel
caso: di non adempimento ovvero di positiva violazione di qualcuno
degli obblighi essenziali del matrimonio) sfugga in maniera sostan-
ziale alle sue facoltà naturali della intelligenza e/o della volontà. Di-
versamente il soggetto – pur in presenza di difficoltà a base psi-
cologica – non potrebbe essere ritenuto in senso proprio incapace.
Riguardo a ciò, si deve considerare quanto fanno notare alcuni
Autori, alla luce sia della storia della redazione di questa norma (ini-
zialmente la fattispecie ivi contemplata era denominata impotentia
moralis) sia dei principi tradizionali della teologia morale, dove la
magna difficultas è equiparata alla impossibilità. I detti Autori, sulla
scorta delle argomentazioni appena accennate, affermano che l’inca-
pacità di cui intende occuparsi la norma in esame non sarebbe solo
l’impossibilità fisica di osservare un determinato obbligo, bensì an-
che quella “morale”, integrata appunto dal concetto di grave diffi-
coltà.
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 427

Non si può che consentire alla prospettazione di tali Autori, non


apparendo il loro ragionamento viziato da un punto di vista razionale.
Tuttavia, anche in questa impostazione, permane la necessità di repe-
rire un criterio obiettivo di distinzione fra la capacità (pur in presenza
di difficoltà) e l’incapacità o – se si vuole – fra la difficoltà “semplice” e
quella “grave”. Tale criterio obiettivo e razionale appare essere quello
sopra esposto: il vizio sostanziale (che non significa necessariamente
la totale ablazione) delle facoltà naturali della persona, l’intelligenza
e/o la volontà, sulla funzionalità delle quali si fonda la libertà del sog-
getto e l’imputabilità (giuridica e morale) a lui delle sue azioni.

2. L’incapacità matrimoniale di cui ci stiamo occupando è chia-


ramente, dalla norma che la istituisce nell’ordinamento positivo, re-
lativizzata agli “obblighi essenziali del matrimonio”. Ovvero – da un
punto di vista formale – a quei comportamenti (attivi od omissivi)
che possono da un lato essere esigiti in quanto obbligo giuridico e
che sono dall’altro relativi a qualche aspetto dell’istituto matrimonia-
le da cui dipende il suo stesso sussistere e non invece soltanto la sua
buona riuscita in linea di fatto. Come efficacemente si trova talora
esposto, obblighi essenziali sono quelli relativi allo stesso esse e non
invece solo al bene esse del matrimonio.
Ciò puntualizzato da un punto di vista logico-formale, occorre
però chiedersi: ma quali sono in concreto questi obblighi essenziali
del matrimonio? Se ne può fare un elenco, magari addirittura tassati-
vo ed esaustivo?
Per essere oltremodo chiari, occorre dire che – allo stato attua-
le – ciò non è possibile. Infatti, né il Legislatore ha prodotto un tale
elenco, definendo espressamente quali siano gli obblighi essenziali
del matrimonio; né la dottrina e la giurisprudenza hanno raggiunto
in merito posizioni comuni e costanti.
Ciò, peraltro, non significa che dalla normativa vigente, dalla
giurisprudenza e dalla dottrina non possano essere tratte indicazioni
preziose in merito. In particolare, persuade l’impostazione che fa di-
scendere la determinazione degli obblighi essenziali del matrimonio
dalla stessa “essenza” del matrimonio in quanto stato di vita (in facto
esse); dalle proprietà “essenziali” dello stesso, di cui al can. 1056; dal-
le finalità istituzionali del medesimo, di cui al can. 1055 § 1.
Così, obblighi essenziali del matrimonio sarebbero quei com-
portamenti (qui e per tutti i casi sotto compendiati: attivi od omissi-
vi) necessari alla costituzione del consorzio di vita coniugale; quei
428 Paolo Bianchi

comportamenti che necessariamente discendono dalle proprietà del-


l’unità e dell’indissolubilità del matrimonio; quei comportamenti che
sono necessari alla potenziale realizzazione delle finalità istituzionali
del matrimonio: la generazione ed educazione della prole e l’orienta-
mento del matrimonio medesimo al “bene dei coniugi”.
Alcuni degli aspetti accennati hanno già trovato ampio appro-
fondimento dal punto di vista contenutistico nella tradizione canoni-
ca, seppure attualmente siano passibili di sviluppi e approfondimenti
ulteriori (per esempio si vedano le tematiche della fedeltà coniugale
e della disponibilità alla procreazione in rapporto all’evoluzione delle
possibilità tecniche di fecondazione cosiddetta “artificiale”). Altri ap-
paiono piuttosto essere solo ipoteticamente oggetto di incapacità, do-
vendosi ritenere assai più verosimile che eventuali difetti in merito
siano da riferirsi a scelte volontarie (per esempio in tema di indisso-
lubilità del vincolo coniugale). In questa linea, le tematiche che ap-
paiono meritevoli di maggiore approfondimento sono quelle relative
alla instaurazione del “consorzio di vita” e della ordinazione dell’isti-
tuto matrimoniale al “bene dei coniugi”.
Nello sviluppo di tale approfondimento, occorre mostrarsi mol-
to attenti e prudenti, rifuggendo da luoghi comuni e da impostazioni
per così dire “sloganistiche”. Occorrerà al contrario essere assai at-
tenti sia al senso proprio dei concetti che si utilizzano, sia al contesto
in cui tale operazione è effettuata (nel caso, quello rappresentato dal-
l’ordinamento canonico), onde evitare un’ambiguità che non può che
andare a scapito non solo della effettiva significatività del discorso
condotto ma – in modo ancora più grave – del rispetto della verità
nei confronti delle persone il cui stato di vita deve essere verificato
sulla base dell’applicazione delle conclusioni assunte.
Per offrire un esempio che si spera almeno in parte chiarificato-
re: laddove si volesse utilizzare, per approfondire i contenuti dei con-
cetti di “consorzio di tutta la vita” e di “bene dei coniugi”, un ulteriore
concetto quale quello di capacità/incapacità alle “relazioni interperso-
nali”, non si dovrebbe dimenticare che esso, proprio originariamente
delle discipline psicologiche, andrebbe anzitutto compreso rettamen-
te in quella sede e quindi trasferito in sede canonica in modo non so-
lo plausibile e comprensibile dal punto di vista logico, bensì anche
con attenta verifica della sua compatibilità coi principi stessi dell’ordi-
namento canonico.
Laddove non fosse chiaro, in sede psicologica (e tenendo conto
della differenziazione talvolta forte sussistente fra le diverse scuole
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 429

psicologiche ai cui studi ci si riferisce) quale sia il significato da attri-


buirsi al concetto di capacità/incapacità alle relazioni interpersonali,
restando tale concetto solo allusivamente intuito nella sua esatta si-
gnificazione; e laddove non siano chiariti i criteri di sua trasposizione
in sede canonica e non effettuata la verifica della compatibilità della
impostazione psicologica assunta coi principi fondamentali dell’ordi-
namento canonico, tutta l’operazione – salva la buona fede e la retta
intenzione di chi la conduce – sarebbe più di danno che di vantaggio,
sia dal punto di vista scientifico, sia dal punto di vista dell’applicazio-
ne della giustizia.
Per approfondire in chiave giuridica (troppo complessi apparen-
do per questa sede gli approfondimenti interdisciplinari cui pure ap-
pena sopra si è fatto cenno), sembra di poter dire che il “consorzio di
vita” di cui al can. 1055 § 1 si specifica nella sua coniugalità in rap-
porto alle sue finalità istituzionali e alle “proprietà” che lo caratteriz-
zano. In tale ottica, viene in particolare considerazione – per appro-
fondire l’aspetto tipicamente “interpersonale” di tale “consorzio” – la
finalità istituzionale del “bene dei coniugi”. Occorre quindi cercare
di identificarne un possibile e plausibile significato.
Occorre premettere che l’ordinamento matrimoniale canonico,
nel prendere in considerazione il “bene dei coniugi” come possibile
termine della capacità matrimoniale del soggetto (non apparendo
meritevole di particolare dimostrazione il ritenere incapace a un de-
terminato atto giuridico chi non fosse in grado di garantirne in alcun
modo il fine intrinseco), non si riferisce propriamente al raggiungi-
mento di fatto di tale “bene”. Tale avvenimento (si intenda: il non
raggiungimento di quel “bene”) può infatti verificarsi per ragioni che
sono indipendenti dalla volontà del soggetto e che contrastano con
le di lui buone attitudine e volontà. La norma canonica intende inve-
ce precisamente la possibilità in linea di principio che un determina-
to soggetto possiede in ordine alla finalizzazione del proprio matri-
monio a quel “bene”. Per fare un’analogia in rapporto all’altra finalità
istituzionale del matrimonio canonico: il sistema giuridico non dà ri-
lievo diretto alla venuta o meno della prole in ordine alla verifica del-
la validità di un matrimonio, bensì dà rilievo alla capacità (ovvero alla
volontà deliberata) del soggetto di porre quel comportamento (l’atto
sessuale naturale) da cui normalmente discende il concepimento.
Ciò premesso ci si deve interrogare sulla natura di quel “be-
ne” che i coniugi debbono poter vedere almeno possibile nella loro
unione.
430 Paolo Bianchi

Appare indiscutibile che il “bene” di cui si tratta non potrà esse-


re commisurato esclusivamente in relazione a parametri di natura
soggettiva, coincidendo in pratica con la mera soddisfazione perso-
nale derivante dall’esperienza coniugale in atto. Se così fosse, non
solo ci si troverebbe di fronte a un’impossibilità di qualsivoglia verifi-
ca, data la estrema varietà di caratteristiche e preferenze soggettive
delle persone; ma anche ci si troverebbe di fronte alla possibilità di
situazioni paradossali. Per esempio (anticipando in parte quanto si
dirà sotto), due persone moralmente pervertite e protagoniste di a-
busi sessuali che contravvengano al dovere della fedeltà dovrebbero
essere ritenute – in quanto soggettivamente soddisfatte del loro
comportamento – realizzatrici del “bene dei coniugi” nell’ambito di
un valido matrimonio canonico.
Così pure, sviluppando quanto in parte già contenuto nell’esem-
pio fatto, tale “bene” dei coniugi non potrà essere pensato in modo
evidentemente contrastante coi principi della visione cristiana (catto-
lica) dell’uomo e del matrimonio. Così, sostenere che “bene” dei co-
niugi sia la possibilità di raggiungere un soddisfacente accordo emo-
tivo, caratteriale e sentimentale, laddove il venir meno di tale accor-
do e soddisfazione soggettivi costituirebbero titolo per sciogliere o
vedere dichiarato nullo il proprio impegno matrimoniale, significhe-
rebbe muoversi sulla base di presupposti difficilmente compatibili
coi principi fondamentali del sistema di valori e di pensiero all’inter-
no del quale l’ordinamento canonico si colloca.
Sviluppando un ragionamento giuridico che mira a cogliere la
continuità del sistema matrimoniale canonico, pur illuminato e ap-
profondito da alcune sensibilità che il Magistero conciliare e post-
conciliare hanno indubbiamente apportato (come detto appare op-
portuno rifuggire dagli “slogans” indimostrati quali quello di una
“nuova” visione del matrimonio derivante dal Concilio, ovvero del
“superamento” di una visione “giuridica” in favore di una visione
“personalistica” ecc.), ci si deve senza dubbio riferire come punto di
partenza a quanto la previgente legislazione, al can. 1013 § 1, presen-
tava come finalità interpersonali dell’istituto coniugale.
Tali finalità erano dal Codice del 1917 definite “secondarie” non
già – come talora si legge in qualche commentario – per istituire una
gerarchia di valore e di dignità fra le finalità proprie del matrimonio
(gerarchizzazione che fu invece affermata dal Magistero di Pio XII,
ma non ulteriormente ripresa né dal Concilio né dal Magistero ponti-
ficio e dalla disciplina canonica successivi), ma solo per indicare l’a-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 431

spetto appunto interpersonale di quell’esercizio della sessualità geni-


tale che immediatamente (perciò si parlava di fine “primario”) carat-
terizzava l’unione fra un uomo e una donna in senso coniugale.
Tali “fini secondari” del matrimonio erano come è noto denomi-
nati mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae.
Ora, il fatto che il Legislatore del 1983 abbia indicato con una
diversa e più ampia terminologia la finalità cosiddetta interpersonale
del matrimonio (appunto in termini di bonum coniugum) non signifi-
ca minimamente che le finalità indicate dalla precedente legislazione
siano state abolite ovvero riprovate. Esse vanno al contrario ricom-
prese all’interno delle finalità interpersonali del matrimonio e non
solo per il principio di ordine positivo che stabilisce una linea di con-
tinuità interpretativa fra le due legislazioni canoniche latine di que-
sto secolo (cf il can. 6 § 2), bensì per una ragione di ordine sostanzia-
le, essendo le dette concettualizzazioni sicuramente atte a dare un si-
gnificato utile e apprezzabile al più comprensivo concetto di “bene
dei coniugi”. Se tale concetto contenga di più rispetto a quanto so-
no atte a esprimere le formule del mutuo aiuto e del rimedio della
concupiscenza si deve attendere che il Legislatore medesimo, ov-
vero un costante accordo dottrinale e giurisprudenziale, lo chiarisca-
no. Per il momento, non è tuttavia cosa da poco poter identificare
grazie alle dette formule un significato sicuro da attribuirsi alla e-
spressione “bene dei coniugi”, che possa considerarsi effettivamente
essenziale al valido costituirsi di un matrimonio e non sia già ricom-
preso dalle altre finalità e proprietà essenziali che all’istituto vanno
riconosciute.
Certamente, le formule di cui in parola vanno comprese retta-
mente, in modo particolare alla luce di quella peculiare sensibilità
(non già un cambio sostanziale di dottrina!) che il Concilio ha appor-
tato anche in materia matrimoniale.
Così, con l’espressione “rimedio della concupiscenza” dovrà in-
tendersi la possibilità non solo dell’esercizio della sessualità genitale
in modo rispettoso della finalità procreativa dell’unione coniugale,
ma anche la possibilità di trovare nel coniuge la disponibilità a una
almeno minimale integrazione psicoaffettiva e psicosessuale, certa-
mente impossibile laddove la sessualità possa essere vissuta solo in
modo violento ovvero gravemente immorale, ovvero ancora laddove
l’esercizio della sessualità scenda quantitativamente, per fatto non
imputabile a una scelta volontaria e concorde dei coniugi, massiva-
mente al di sotto di quanto comunemente accade in merito. Si veda
432 Paolo Bianchi

in proposito quanto nei sottoriportati esempi potrebbe meglio confe-


rire a una più chiara illustrazione di quanto affermato.
Così, ancora, con l’espressione “mutuo aiuto” dovrà intendersi la
capacità della persona di prestare al coniuge un aiuto almeno minima-
le – sia morale che materiale – in ordine alle circostanze della vita, so-
prattutto per quanto attiene agli aspetti più intimamente personali
(per esempio la solidarietà morale in caso di una malattia), ovvero
quelli più strettamente inerenti i doveri comuni che discendono dal
matrimonio (per esempio il comune interesse, pur in una ragionevole
divisione dei compiti, per quanto concerne l’educazione della prole).
È evidente che quanto si può richiedere alle persone sotto il
profilo di quanto incide sulla validità stessa del matrimonio non può
essere che un minimo. È chiaro che tale minimo rappresenta la mi-
sura appena sufficiente per l’instaurazione di un valido vincolo coniu-
gale, non già quanto è invece auspicabile sussista perché il matrimo-
nio medesimo abbia buon esito e perché i coniugi siano meglio
attrezzati a superare le inevitabili difficoltà e stanchezze che com-
paiono in ogni esistenza e vocazione, quella matrimoniale compresa.
Ed è ancora chiaro che l’aiuto pastorale, sia in fase di preparazione
alle nozze sia in fase di accompagnamento dei matrimoni già celebra-
ti, dovrà mirare a suscitare e a mantenere il massimo delle potenzia-
lità presenti negli sposi (cf can. 1063) verso il detto obiettivo. Tutta-
via, quanto è opportuno e auspicabile non potrà essere assunto come
criterio di capacità matrimoniale e quindi di validità del matrimonio
medesimo, pena la contraddizione con la visione che della persona e
del matrimonio soggiace all’ordinamento giuridico e pena la pratica
contraddizione con principi dallo stesso ordinamento chiaramente af-
fermati, per esempio quello della comune presunzione di capacità
giuridica della persona a contrarre matrimonio (cf can. 1058).

3. Il n. 3 del can. 1095 afferma che l’incapacità matrimoniale per


cui offre una regolamentazione giuridica deve derivare da cause “di
natura psichica”. Circa questa previsione normativa occorre svilup-
pare alcune puntualizzazioni.
In primo luogo bisogna richiamare come non pochi esperti de-
gni della massima considerazione abbiano mosso una critica alla di-
sposizione di legge che stiamo commentando. Il loro ragionamento
è sinteticamente il seguente: il n. 3 del can. 1095 esprime un precetto
che si può ritenere di diritto naturale. Esso afferma che chi non può
prestare di fatto l’oggetto di un obbligo, non può assumere l’impe-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 433

gno di prestarlo; in altre parole: la volontà negoziale è inefficace in


caso di indisponibilità del suo oggetto. Ciò – osservano gli esperti
cui si fa cenno – vale qualsiasi sia la causa di quella indisponibilità.
Pertanto, si deve ritenere da un lato superfluo e dall’altro indebita-
mente restrittivo stabilire che il contratto matrimoniale sia nullo se
l’impossibilità del suo oggetto derivi da “cause di natura psichica”.
Tale ragionamento è da ritenere senz’altro corretto e condivisi-
bile e il principio di “diritto naturale” che esprime, operante anche se
non canonizzato in una disposizione di diritto positivo specifica per il
matrimonio. Resta da spiegare perché il Legislatore abbia voluto ri-
marcare la causa “di natura psichica” alla base del tipo di incapacità
matrimoniale che regolamenta al n. 3 del can. 1095. In via di ragiona-
mento appare non infondato ipotizzare che la scelta del Legislatore
derivi da motivi essenzialmente relativi alla storia della redazione del
testo normativo. Sia in quanto esso nacque ipotizzando una “impo-
tenza morale” derivante da un’anomalia psichica o psicosessuale; sia
in quanto, essendo la norma in esame da autonoma stata invece ri-
condotta in un unico canone regolamentativo della capacità consen-
suale del contraente il matrimonio, appare intuitivo come l’attenzio-
ne all’aspetto “psichico” restasse particolarmente in luce.
In secondo luogo, dobbiamo chiederci cosa siano, su di un pia-
no generale, tali cause “di natura psichica” cui a ogni buon conto la
norma fa riferimento. È infatti evidente che l’aggettivo “psichico” co-
pre un assai vasto spettro di significati, andando a indicare tutto ciò
che ha a che fare con la dimensione spirituale della persona. Così,
esso potrebbe riferirsi al dato culturale, educazionale, fino addirittu-
ra al dato morale e (quindi) volontario. Non si deve tuttavia dimenti-
care che il contesto prossimo in cui il riferimento allo psichismo
umano viene in questa sede effettuato è quello dell’incapacità matri-
moniale. Pertanto, dovranno in questo contesto intendersi per causa
di natura psichica quegli aspetti della dinamica spirituale della perso-
na che la rendono appunto incapace a porre quello specifico atto che
è il consenso matrimoniale e per la specifica ragione di non poterse-
ne assumere qualcuno degli obblighi essenziali. In questi termini,
appare chiaro che viene qui in considerazione solo quello “psichico”
che corrisponde al criterio genuino della incapacità. Quale questo
sia lo si è già più volte ribadito: la indisponibilità sostanziale per il
soggetto di intelligenza e/o volontà nell’attuare il proprio comporta-
mento, laddove esso sia lesivo di qualche obbligo essenziale dello
stato coniugale.
434 Paolo Bianchi

Appare così di conseguenza che non sia “causa di natura psichi-


ca” nel senso inteso dalla norma quanto è sotto il controllo della deli-
berata volontà del soggetto: sia pienamente (aspetto eventualmente
da riferirsi al fenomeno simulatorio del consenso), sia non piena-
mente, essendo in qualche modo il soggetto “condizionato” nella sua
azione dal dato educazionale, culturale, ambientale. Tali circostanze,
infatti, possono rendere il soggetto predisposto ad agire in un certo
modo, particolarmente proclive a un dato comportamento, ma non
già incapace di agire diversamente. Per fare un esempio a migliore
chiarezza di quanto affermato: un individuo dalla scarsa educazione
morale, inserito in un ambiente sociale e culturale del peggiore “ma-
schilismo”, potrebbe essere particolarmente proclive a violare l’ob-
bligo essenziale della fedeltà coniugale, sfruttando ogni “occasione”
in merito. Sostenere però che tale proclività renda il soggetto inca-
pace di agire diversamente, significherebbe contravvenire a uno dei
principi cardine della visione cristiana dell’uomo, ossia quello del-
la libertà e responsabilità della persona fino alla prova della sua ve-
ra incapacità. Estendere i confini di questa attraverso una interpre-
tazione estensiva del concetto di “psichico” riferito alle cause della
detta incapacità appare non coerente col modo in cui la incapacità
medesima deve essere intesa e, soprattutto, coi principi fondamen-
tali dell’ordinamento in materia matrimoniale. Del resto – anche sot-
to un profilo “pastorale” – interpretazioni della norma e prassi giu-
risprudenziali di fatto deresponsabilizzanti la persona, sarebbero
assai discutibili sotto il profilo educativo e sotto il profilo della testi-
monianza che pure la disciplina canonica deve offrire ai valori cri-
stiani.
Da quanto argomentato deve riassuntivamente concludersi che
causa di natura psichica anche in materia di incapacità agli obblighi
matrimoniali essenziali non potrà essere che quanto corrisponde al
criterio generale di incapacità matrimoniale. Ne discende che non si
potrà parlare di causa di natura psichica incapacitante se non in pre-
senza di una seria forma di anomalia relativa a qualche aspetto es-
senziale della vita coniugale, qualsiasi sia la sua possibilità di inqua-
dramento e classificazione da un punto di vista clinico.
Precisato quanto fino a questo punto, resta in terzo luogo da in-
dicare quali siano di fatto le “anomalie” che almeno più frequente-
mente sono state riconosciute dalla giurisprudenza come cause (di
natura psichica) dell’incapacità di assunzione degli obblighi essenzia-
li del matrimonio.
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 435

Come già detto a suo tempo a proposito dell’incapacità consen-


suale in senso proprio, non è possibile fare un elenco completo,
esaustivo e definitivo di tutte le anomalie, possibili cause dell’incapa-
cità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio. Fra quelle
però che, lasciando salve le capacità consensuali strettamente intese,
maggiormente si propongono come ragione dell’inassumibilità degli
obblighi essenziali del matrimonio debbono ricordarsi alcuni distur-
bi della sessualità e alcuni cosiddetti disordini della personalità.
I primi possono infatti precludere la possibilità di trovare nel co-
niuge i presupposti per una almeno minimale integrazione psicoses-
suale, attraverso un esercizio della sessualità genitale rispettoso della
persona e della norma morale, ovvero non massicciamente deviante
dalla norma statistica. Fra questi le forme di cosiddetta iperestesia ses-
suale (satiriasi e ninfomania), alcune gravi condizioni di sadismo o sa-
do-masochismo, alcuni gradi di omosessualità, situazioni consolidatesi
di transessualismo (sia che siano intervenute modificazioni chirurgi-
che del sesso anatomico o meno) e altre gravi disfunzioni sessuali.
I secondi possono compromettere gravemente la possibilità di
una almeno minimale integrazione psicoaffettiva, anche per quanto
concerne il mutuo aiuto, morale e materiale, che è lecito attendersi
da un coniuge: per esempio personalità affette da gravissime forme
di narcisismo, il quale preclude a livelli minimali la possibilità di un
amore coniugale non solo di sentimento ma anche di “benevolenza”
verso l’altro, amando il narcisista solo se stesso; personalità antiso-
ciali o particolarmente proclivi alla violenza, la quale mette a repen-
taglio l’integrità fisica del coniuge e della prole, precludendo anche
ogni corretta funzione educativa; personalità particolarmente deboli
che si lasciano coinvolgere in grado elevato in assunzione di sostan-
ze tossiche quali alcool o droghe o in abitudini dispendiose e perico-
lose per la vita familiare, quali il gioco d’azzardo che può mettere a
repentaglio gli stessi mezzi di sussistenza della famiglia e portarla a
pericoloso contatto con persone o ambienti di malaffare e malavita.

4. Come più sopra abbiamo accennato, il tipo di incapacità ma-


trimoniale regolamentato dal n. 3 del can. 1095 venne inizialmente
denominato “impotenza morale”. Forse anche per questa analogia
con la norma relativa all’impotenza copulativa (cf l’attuale can. 1084
§ 1) in dottrina si è dibattuto e ancora si dibatte su alcune caratteri-
stiche della fattispecie legale che, secondo alcuni, le sarebbero pro-
prie: antecedenza, perpetuità, relatività.
436 Paolo Bianchi

A questo proposito – e mantenendoci al livello di massima sem-


plicità che deve caratterizzare il nostro lavoro – si deve anzitutto os-
servare che, a differenza di quanto avviene per la norma relativa alla
impotenza copulativa, la legge canonica non richiede tali caratteristi-
che perché si realizzi il tipo di incapacità di cui al can. 1095, 3°. Se ta-
le argomento esegetico-letterale non può certo essere decretorio e
definitivo della questione, è però sicuramente di non poco peso nel-
l’orientare nell’interpretazione della norma.
Sottoponendo a ulteriore analisi critica le tre caratteristiche so-
pra richiamate, si ritiene di dover precisare quanto segue.
Quanto alla cosiddetta antecedenza dell’incapacità di assumere
gli obblighi matrimoniali, si deve considerare come essa corrispon-
da, praticamente, alla necessità che la situazione incapacitante la per-
sona sussista effettivamente già al momento del consenso, seppure
non già manifestatasi in tutto il suo corredo sintomatologico. Ciò vale
anche per la cosiddetta incapacità “latente”: a essere latenti, infatti,
possono essere solo i sintomi di tale incapacità, non già la condizione
personale di base che rende incapaci. Alcuni Autori hanno affermato
che l’incapacità deve essere, al momento del matrimonio, presente in
actu primo proximo, ovverosia tale da emergere anche sul piano fat-
tuale e sintomatologico a contatto con la concreta vita matrimoniale.
Tale prospettazione appare accettabile né mutare di molto le esigen-
ze generali di presenza al momento del consenso della situazione per-
sonale alla base dell’incapacità a qualcuno degli obblighi essenziali.
Se si considerano così le cose, appare in fondo che la caratteristica
della “antecedenza” sia implicita nello stesso concetto di incapacità
matrimoniale in senso proprio (ossia rilevante sulla stessa validità
del matrimonio). Infatti, non solo per l’incapacità, ma anche per ogni
altro motivo di nullità matrimoniale è necessario che la circostanza
di fatto che costituisce la base empirica della situazione che la legge
considera irritante o inabilitante sussista al momento della prestazio-
ne del consenso matrimoniale. Pertanto, appare di nessun rilievo ur-
gere l’antecedenza dell’incapacità: basta richiedere che l’incapacità
medesima sussista come tale al momento del patto matrimoniale.
Quanto alla cosiddetta perpetuità dell’incapacità all’assunzione
degli oneri, il discorso appare più complesso. Infatti, oltre al già ri-
cordato dato normativo della non richiesta di tale caratteristica del-
l’incapacità, occorre puntualizzare alcune distinzioni.
Anzitutto che, seppure materialmente affini, il concetto di perpe-
tuità giuridica non va confuso con quello di insanabilità clinica di una
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 437

determinata situazione anomala. È così anche nel caso dell’impotenza


copulativa, dove nel concetto di perpetuità – squisitamente giuridico,
non medico – si considerano per esempio anche la moralità o la effet-
tiva praticabilità del mezzo che si dovrebbe utilizzare per rimuovere
la situazione ostativa.
In secondo luogo, occorre distinguere, fra gli obblighi essenzia-
li dello stato coniugale, alcuni obblighi che impegnano, come si dice,
semper et pro semper, ossia in ogni momento, e altri invece che impe-
gnano semper sed non pro semper, ossia che, pur essendo in linea di
principio obblighi permanenti, ammettono sospensioni del loro eser-
cizio. Esempio dei primi, detti anche obblighi negativi (in quanto
consistono in un “non fare”), è l’obbligo della fedeltà coniugale, che
è leso anche da una singola sua violazione; esempio dei secondi, det-
ti anche obblighi positivi (in quanto consistono in un “fare”), è l’ob-
bligo del mutuo aiuto: se come obbligo esso è permanente, esistono
però delle situazioni di fatto (per esempio la malattia, la lontananza
fisica) per cui il soggetto può essere temporaneamente scusato di
fronte al non adempimento.
Tenendo conto delle distinzioni sopra fatte si possono trarre le
seguenti conclusioni. Sicuramente per gli obblighi negativi, che vin-
colano semper et pro semper, non ha senso la richiesta della “perpe-
tuità” della situazione incapacitante, dal momento che anche una sin-
gola violazione dell’obbligo, laddove sfuggente alla volontà delibera-
ta del soggetto, sarebbe sufficiente a costituire una situazione di
incapacità. Un senso avrebbe invece la richiesta della “perpetuità”
dell’incapacità nei confronti degli obblighi positivi, che obbligano
semper sed non pro semper, dovendo fra l’altro domandarsi se una
temporanea indisponibilità soggettiva nei confronti di questo tipo di
obbligo possa costituire concettualmente una situazione di vera inca-
pacità. Ciò da un punto di vista piuttosto di principio.
Sotto un profilo invece pratico, tenendo in conto soprattutto e-
sigenze di carattere probatorio, si deve ritenere che l’insanabilità
clinica (ovvero la difficile curabilità) di una determinata situazio-
ne soggettiva può essere ritenuta indizio di una condizione “gra-
ve” e, quindi, più verosimilmente corrispondente al concetto di inca-
pacità.
Per concludere su questo punto, non si può che sottolineare co-
me, a un’attenta valutazione, la caratteristica della “perpetuità” del-
l’incapacità finisca in sostanza per risolversi in quella della “autenti-
cità” dell’incapacità medesima.
438 Paolo Bianchi

Quanto infine alla caratteristica della relatività della incapacità,


ci troviamo di fronte a un dibattito certamente ancora aperto. A favo-
re delle due tesi militano argomenti di non poco peso.
Contro l’ammissione di una “relatività” dell’incapacità di cui al
can. 1095, 3° stanno: il silenzio della legge in merito; il fatto che il
termine cui l’incapacità in parola è relativa appaiono essere gli obbli-
ghi essenziali del matrimonio piuttosto che la persona del coniuge; il
fatto che il criterio dell’incapacità esposto per esempio anche nelle
due Allocuzioni del Pontefice alla Rota romana (1987 e 1988), già più
volte richiamate, punta assai chiaramente su una condizione pretta-
mente individuale.
A favore dell’ammissione di una incapacità “relativa” all’assun-
zione degli obblighi è in sostanza l’argomentazione che se è vero
che il termine di confronto dell’incapacità sono gli obblighi essenzia-
li del matrimonio, è tuttavia vero che tali obblighi vengono assunti
non in astratto, bensì in riferimento a una determinata persona.
Sommessamente appare più persuasiva la prima posizione, che
del resto è quella più comune nella giurisprudenza rotale, punto di
riferimento per l’applicazione della norma giuridica. Infatti tale posi-
zione appare dare maggiore garanzia quanto alla verificazione degli
elementi costitutivi del concetto di incapacità: sia in rapporto alla si-
tuazione soggettiva di “anomalia”, base di fatto dell’inattitudine al
matrimonio; sia in rapporto alla effettiva relativizzazione dell’incapa-
cità agli obblighi essenziali del matrimonio, in distinzione da quel
maladattamento caratteriale che non integra invece il concetto di in-
capacità che in questi appunti si è cercato di puntualizzare.
Ciò non vuol dire che la persona del coniuge del probando inca-
pace non dovrà essere presa in considerazione nel valutare la situa-
zione di questi: ma non già come “causa” dell’incapacità di lui, ovve-
ro come addendo di una somma da cui risulti l’incapacità di due per-
sone individualmente capaci; bensì come circostanza che solo può
aver contribuito a fare emergere su di un piano sintomatologico i se-
gni della situazione individuale di incapacità del singolo.
Per concludere sul punto delle caratteristiche della incapacità
all’assunzione degli obblighi matrimoniali essenziali ai sensi del can.
1095, 3°, sembra di poter dire, alla stregua anche di alcune luci-
de posizioni dottrinali, che la questione fondamentale sulla quale
concentrarsi sia quella dell’autenticità della situazione incapacitan-
te al momento del consenso. Antecedenza e perpetuità appaiono ri-
comprese in detta “autenticità”; la relatività è questione che più a
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 439

monte appartiene alla determinazione del concetto medesimo di in-


capacità matrimoniale.

Guida per il Consulente


Per quanto concerne il suggerimento di alcuni punti di indagine
per il Consulente delle coppie in insanabile difficoltà matrimoniale
che ravvisi l’ipotesi dell’incapacità anche solo di uno dei coniugi al-
l’assunzione degli obblighi essenziali, è bene richiamare nella so-
stanza a quanto già esposto in tema di incapacità consensuale pre-
detta (can. 1095, 1° e 2°). Infatti, seppure formalmente da distin-
guersi con attenzione, le tre fattispecie hanno non pochi punti di
contatto: sia teorico, ossia per quanto concerne il criterio di incapa-
cità, che è il vizio sostanziale della intelligenza e/o della volontà nel
decidere (can. 1095, 1° e 2°) o nel portare a compimento gli impegni
presi con le decisioni assunte (can. 1095, 3°); sia pratico, in quanto
la medesima anomalia può non infrequentemente causare più di un
tipo di incapacità fra quelle previste dalla norma canonica.
Per questo si rimanda ai dieci quesiti di approfondimento espo-
sti nel capitolo X della nostra rubrica, dedicato a L’incapacità a con-
sentire (cf QDE 8 [1995] 217-219) con l’avvertenza che – in vista del-
l’approfondimento di una eventuale incapacità all’assunzione degli
obblighi matrimoniali essenziali – andrà particolarmente approfondi-
to il quesito n. 8, relativo alla eventuale violazione di qualche specifi-
co obbligo dello stato coniugale.
In altre parole, dovrà risultare con chiarezza quale o quali obbli-
ghi essenziali dello stato coniugale il soggetto dichiarando incapace
abbia violato. Sarebbe infatti del tutto inconcepibile dichiarare inca-
pace una persona all’assunzione degli obblighi essenziali del matri-
monio laddove non risultasse che qualcuno di detti obblighi sia stato
violato. Inoltre, sarebbe profondamente ingiusto e contrario al diritto
alla difesa delle parti nel processo sentenziare per una incapacità
senza determinare a quale obbligo la persona sia risultata incapace.
Per questo, anche nella indagine preliminare, occorrerà indagare se
qualche grave mancanza fu commessa da uno degli interessati o co-
me coniuge o come genitore. In difetto di gravi e specifiche mancan-
ze o carenze in questi campi, il Consulente dovrebbe astenersi dal
suggerire l’ipotesi di una causa per incapacità psichica, rimandando
semmai alla verifica di altro esperto professionalmente più qualifica-
to. Soprattutto, il Consulente non si lasci abbagliare da espressioni
440 Paolo Bianchi

generiche quali «non c’era alcun dialogo... non si occupava di me...


pensava solo a se stesso... non mi amava veramente» dando pareri
immediati; abbia la pazienza di domandare qualche esempio relativa-
mente a frasi del tipo di quelle appena riportate, per verificare se die-
tro di esse vi sia dal punto di vista fattuale qualcosa di preciso che
possa essere rilevante.

Esempi
Alcuni esempi si spera contribuiscano, secondo la comune me-
todologia della nostra Rubrica, a chiarire ulteriormente il discorso
sopra per cenni sviluppato.

Primo esempio
Giorgio e Lucia rimasero fidanzati alcuni anni, preparandosi al
progettato matrimonio. Nel fidanzamento non vi furono problemi par-
ticolari, anche in occasione di qualche intimità sessuale completa oc-
corsa fra i due.
Nel corso del viaggio di nozze si manifestarono però già dei
problemi: Giorgio volle andare in viaggio di nozze ad Amsterdam,
mostrandosi particolarmente interessato a frequentare i quartieri tri-
stemente famosi di quella città per la ostentata prostituzione sia ma-
schile che femminile. Inoltre, nel corso del medesimo viaggio, Gior-
gio comunicò a Lucia di avere avuto in passato delle relazioni omo-
sessuali, almeno una delle quali stabile. Lucia rimase sconvolta da
questa rivelazione; tuttavia, poiché amava Giorgio e poiché egli le
aveva narrato quei fatti con un senso di dolore e sofferenza, ritenne
giusto rimanere con lui, perdonandogli la tardiva rivelazione di essi.
La vita coniugale proseguì qualche anno, ma non fu mai felice.
Il matrimonio venne consumato e vi furono alcuni (non frequenti)
rapporti intimi fra le parti; il più delle volte, Giorgio si mostrava di-
sinteressato verso Lucia, ovvero addirittura non in grado di unirsi a
lei, per difetto dei presupposti fisiologici tipici del maschio al rappor-
to coniugale. Lucia, persona assai semplice culturalmente e dal ca-
rattere molto riservato, non osò rivolgersi ad alcuno per aiuto, chiu-
dendosi in se stessa e lasciando trapelare solo un senso di insoddi-
sfazione e tristezza.
Con la motivazione di conseguire un titolo di studio atto a con-
sentire avanzamenti in campo lavorativo, Giorgio cominciò a fre-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 441

quentare una scuola serale, trattenendosi anche a studiare con alcu-


ni compagni, in particolare con uno di questi. Del resto, la sua pre-
senza in casa e il tempo che dedicava a Lucia erano comunque molto
limitati, nonostante l’orario di lavoro di lui fosse inferiore quantitati-
vamente a quello di Lucia, dipendente in un esercizio commerciale.
Successivamente, risultò che Giorgio frequentava nel tempo libero
(o che comunque non trascorreva in famiglia) ambienti della sua
città rinomati come luogo di incontro di omosessuali.
Aumentando il senso di estraneità fra i due coniugi, Giorgio eb-
be a manifestare a Lucia una sua nuova esperienza omosessuale.
Giorgio narrò la cosa in termini molto vaghi e riducendola a episo-
dio occasionale. Numerosi fatti fanno però ritenere che così non fos-
se; in modo particolare, convince di ciò l’evoluzione della vita di
Giorgio che – lasciato da Lucia a seguito della nuova rivelazione – si
dette a una vita manifesta di rapporti omosessuali, divenuta notoria
nella città di residenza dei due. Giorgio stesso, mostratosi molto col-
laborativo e sincero in causa, ammise con chiarezza questi fatti.
La causa, impostata anche per incapacità da parte di Giorgio di
assumere gli obblighi coniugali essenziali, fu piuttosto complessa,
soprattutto in punto di diritto, risultando non facile inquadrare giuri-
dicamente una situazione come quella di Giorgio.
Sul piano fattuale, oltre alla ricostruzione della sequenza dei fat-
ti sopra brevemente compendiata, fu possibile effettuare un appro-
fondimento peritale, al quale Giorgio collaborò correttamente e one-
stamente, pur non essendo egli iniziatore della causa e particolar-
mente interessato alla stessa.
Anche qui non mancarono però le difficoltà. Infatti, una prima
perizia d’ufficio si rivelò del tutto insufficiente. Fra i vari motivi di
non correttezza della detta perizia fu la sua evidente contrarietà ai
principi della antropologia cristiana. Il Perito infatti concludeva la
sbrigativa esposizione dicendo che Giorgio risultava essere persona
«bisessuale, quindi normale».
A una ulteriore e più seria indagine peritale, Giorgio risultò af-
fetto da un grave disordine della personalità, caratterizzato da uno
stato di notevole incertezza sotto il profilo della identità sessuale.
Egli non è un omosessuale esclusivo, ma una persona estremamente
fragile, che si lascia coinvolgere in disordini di natura sessuale nei
quali manifesta appunto la propria debolezza e il grave stato di disor-
dine della propria personalità. Egli è profondamente incerto circa se
stesso e non in grado di decidere del proprio futuro, anche sotto lo
442 Paolo Bianchi

specifico profilo del suo orientamento psicosessuale. Anche la pro-


gnosi peritale apparve nel caso piuttosto sfavorevole nei confronti di
Giorgio.
I giudici della causa – pur consapevoli della estrema delicatezza
della questione – giudicarono che Giorgio, pur in grado di consuma-
re fisicamente in alcune occasioni il matrimonio, non fosse in grado
di garantire al coniuge una minimale integrazione psicosessuale e
nemmeno il rispetto dell’obbligo della fedeltà. Si ritenne infatti che
Giorgio – il quale non è nemmeno certo della sua identità sessuale e
di quali scelte vuole operare in proposito – non possa assumere l’ob-
bligo di svolgere il ruolo di marito nei confronti di una donna, per la
quale rappresentare la possibilità di una minimale integrazione psi-
coaffettiva e psicosessuale. Inoltre, manifestandosi la sua fragilità
personale soprattutto nella proclività a lasciarsi coinvolgere in disor-
dini sessuali (prevalentemente in chiave omofila), egli non può ga-
rantire all’altra parte l’esclusività del diritto agli atti della sessualità
genitale. In questi termini, Giorgio non era in grado di garantire in li-
nea di principio l’orientamento istituzionale del matrimonio al “bene
dei coniugi”.
L’esempio vuole mettere in luce come – nonostante le apparen-
ze – sia particolarmente complesso applicare la norma in esame alle
fattispecie della vita reale, determinando sia il tipo di obbligo essen-
ziale della vita matrimoniale che sarebbe in uno specifico caso inte-
ressato, sia individuando un’anomalia di tal rilievo da riscontrare i
criteri per l’identificazione dell’autentica incapacità matrimoniale.
Può essere interessante rilevare che l’impostazione data alla risolu-
zione della causa venne confermata da una sentenza della Rota ro-
mana che si occupò del caso in un superiore grado di giudizio.

Secondo esempio
Wilma venne adottata da una buona famiglia di coniugi senza fi-
gli, nella quale si adattò assai bene. Ella era riconoscente per l’ado-
zione e affezionata ai genitori adottivi; pertanto volentieri e spesso ri-
correva al loro consiglio anche in cose di piccolo conto e si rammari-
cava se in qualche cosa recava loro dispiacere. Non molto dotata
intellettualmente – seppure buona e affettuosa – Wilma conduceva
una vita tranquilla fra la casa e la scuola, dove aveva cambiato indiriz-
zo di studio dopo la prima superiore frequentata in un ordine di
scuola per lei troppo impegnativo (con conseguente bocciatura).
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 443

Attorno ai diciotto anni di età Wilma ebbe modo di conoscere


un certo Filippo, coadiuvante nella gestione di un esercizio pubblico.
Filippo cominciò a corteggiare assiduamente Wilma, la quale accon-
discese a intrattenere con lui dei rapporti sessuali, dai quali risultò
gravida. Esposta la cosa ai genitori e discussa con loro l’incresciosa
situazione, Wilma convenne che il matrimonio fosse la soluzione più
opportuna. Nessuna pressione venne fatta su Wilma in ordine al ma-
trimonio; i genitori adottivi di lei, pur per sé poco entusiasti del ma-
trimonio in quanto avevano intuito la poca consistenza della perso-
nalità di Filippo, si resero disponibili ad aiutare i due giovani sia per
la celebrazione sia per la successiva loro sistemazione, ospitandoli
provvisoriamente nella loro grande abitazione.
Celebrate le nozze, la vita comune durò solo alcuni mesi, al
punto che quando Wilma partorì i due erano già separati di fatto e
già si erano attivati per una separazione legale. Il cattivo andamento
della vita comune fu dovuto al comportamento di Filippo: dopo le
nozze si mostrò infatti (diversamente da prima) sgarbato verso Wil-
ma e i suoceri, violento ed egoista nei confronti della giovane moglie
in gravidanza, piuttosto interessato dal punto di vista patrimoniale.
Di fatto, fu lo stesso Filippo ad andarsene dalla casa dei genitori di
Wilma dove i due erano ospiti, avendo capito che (peraltro assai sag-
giamente) il padre della ragazza non era disponibile a dargli subito
del denaro per il cambio dell’autovettura e per l’inizio piuttosto av-
venturoso di un’autonoma attività commerciale.
La causa venne impostata sul difetto di discrezione di giudizio
di Wilma e sulla di lei incapacità di assumere gli obblighi matrimo-
niali essenziali. In particolare venne fatta forza su di una presunta in-
capacità decisionale della ragazza, condizionata dai genitori adottivi,
di tradizionale sentire in materia morale.
Due perizie, una di parte e una di ufficio, affermarono una note-
vole immaturità della ragazza. Nonostante ciò, i giudici non ritenne-
ro di dover trarre dalla valutazione peritale la conclusione di una in-
capacità di Wilma, non trovando provati veri fatti a dimostrazione di
una siffatta immaturità e nemmeno di una anomala dipendenza di
Wilma nei confronti dei familiari, ma solo atteggiamenti spiegabili
con la storia di vita di una ragazza affezionata e riconoscente che si
trova in una situazione imprevista e imbarazzante. Nessuna pressio-
ne venne fra l’altro dall’esterno a limitarne la libertà, influendo come
aggravante su una ipotetica carente libertà interiore. Indiziariamente
per il difetto di discrezione, poi, e direttamente per l’incapacità di as-
444 Paolo Bianchi

sumere gli obblighi del matrimonio persuase i giudici della risposta


negativa la constatazione che nessuna mancanza potesse essere im-
putata a Wilma sotto il profilo degli obblighi essenziali. Infatti Wil-
ma, nei pochi mesi di vita comune con Filippo, cercò di essere una
buona moglie e di sopportarne il cambiamento in peggio, cercando
di nulla dare a vedere ai genitori per non rammaricarli e sperando in
un ritorno di Filippo agli atteggiamenti verso di lei del tempo del fi-
danzamento; nata poi la prole si dedicò con maturità e affetto all’assi-
stenza e all’educazione di essa, come concordemente attestano tutte
le persone escusse in causa.
Non potendosi riscontrare alcuna mancanza di Wilma, né come
moglie né come madre è impossibile prospettare una di lei incapa-
cità all’assunzione degli obblighi coniugali essenziali.
L’esempio vuol mettere in luce: in primo luogo la possibile con-
correnza della ipotesi di un’incapacità propriamente consensuale (qui,
il difetto di discrezione) e all’assunzione degli obblighi. Esse possono
essere prese in considerazione coordinatamente ovvero subordinata-
mente, trattando eventualmente dell’inefficacia del consenso per la
mancanza del suo oggetto (can. 1095, 3°) solo dopo aver accertato la
sussistenza di un consenso intrinsecamente sufficiente come atto psi-
cologico (can. 1095, 1° e 2°).
In secondo luogo, si intende porre in luce come la verifica di
una fattispecie di incapacità debba prendere in considerazione anzi-
tutto i fatti concreti, valutando i pareri peritali anche sulla base della
loro coerenza coi fatti medesimi. In particolare, in assenza di effetti-
ve violazioni di qualche obbligo essenziale della vita coniugale, non
basteranno generiche affermazioni di immaturità per sentenziare in
termini di incapacità. Non che si intenda negare come – anche nel
caso di Wilma – possa sussistere un certo tasso di immaturità e di
impreparazione al matrimonio. Si intende solo affermare che, seppu-
re affetto da qualche difficoltà di ordine psicologico, non si possa di-
chiarare incapace ad assumere gli obblighi essenziali del matrimo-
nio chi non li abbia violati o addirittura li abbia assolti pur magari an-
che in condizioni difficili.

Terzo esempio
Patrizia era una ragazza di una buona famiglia tradizionale, con
discrete possibilità economiche. Conobbe e si innamorò di Gianni,
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 445

ragazzo noto nel paese e nel circondario per la sua vita sregolata. Po-
co fedele al lavoro, senza alcun titolo di studio, violento e bizzoso,
dedito alla droga, Gianni (o, meglio, la relazione di Patrizia con lui)
fu molto male accolto nella famiglia della ragazza.
Patrizia però – da un lato sentimentalmente e fisicamente attrat-
ta da Gianni, dall’altro impuntatasi contro l’atteggiamento dei propri
familiari – volle giungere alle nozze. In ciò era sollecitata dallo stesso
Gianni, che aveva preso come una sorta di sfida personale l’atteggia-
mento negativo nei suoi confronti dei familiari di Patrizia.
La vita matrimoniale di questa coppia può essere davvero defi-
nita un “disastro” e ciò per i comportamenti di Gianni, fortemente
dissonanti coi doveri di un coniuge. Già dal viaggio di nozze si mo-
strò disponibile alla infedeltà e cercò di coinvolgere la moglie nel
medesimo comportamento: conosciuta infatti una coppia di stranieri
che offrivano droga e disponibilità a esperienze sessuali di gruppo,
Gianni aderì prontamente. Quando Patrizia, comprendendo final-
mente dove si sarebbe andati a finire, si ribellò, Gianni si risentì pro-
fondamente per l’occasione perduta, cosa che anche in seguito ebbe
più volte occasione di rinfacciare a Patrizia. Gli sembrava di avere
subito un torto, non già di essere stato egli stesso inadempiente ver-
so uno dei doveri coniugali.
Né, rientrati al domicilio, il comportamento di lui migliorò sotto
questo profilo. Risultarono infatti provate infedeltà di Gianni, presto
stancatosi della moglie, dopo aver realizzato la sua vittoria nella “sfi-
da” coi genitori di lei.
Anche sotto altri profili il comportamento di Gianni si rivelò ca-
rente: mai svolse un regolare lavoro; anzi perse a causa di assenze,
scarso rendimento e insubordinazione dei posti procurati a lui anche
da parenti di Patrizia, consapevoli delle difficoltà della giovane cop-
pia e desiderosi di aiutare. Poiché alla vita scioperata di Gianni oc-
correvano invero diversi mezzi, egli non trovò di meglio che inserir-
si in un giro di ladri da appartamento. La casa coniugale divenne un
ritrovo per queste persone e per i ricettatori che acquistavano da lo-
ro la merce rubata. Se Patrizia – sempre più raramente – provava a
protestare, Gianni conosceva il solo argomento delle percosse.
La principale necessità di denaro da parte di Gianni derivava dal-
l’abituale quotidiano uso di droghe. Egli anzi introdusse anche Patri-
zia a tale abuso. Inizialmente per curiosità e sfida del proibito, poi co-
me apparente e illusorio sollievo dalla situazione disordinata in cui si
era volontariamente cacciata, anche Patrizia divenne consumatrice
446 Paolo Bianchi

abituale di droga fino a restarne compromessa nella salute. Fu pro-


prio un ricovero di lei a seguito di tali abusi a produrre la separazione
di fatto, trovando Patrizia persone disposte ad aiutarla ad allontanarsi
dalla fonte dei suoi problemi. Risulta infatti che Gianni abbia conti-
nuato nel medesimo stile di vita basato su disordini e spavalderie, im-
perturbato dall’esito del suo matrimonio, se non per un senso di ri-
sentimento nei confronti di Patrizia per essere stato lasciato da lei.
Impostata la causa sotto il profilo dell’incapacità di Gianni ad as-
sumere gli obblighi essenziali del matrimonio, si ebbe la possibilità
di svolgere una perizia sul ragazzo. Anche in sede di perizia egli eb-
be modo di confermare le linee guida del proprio modo di essere,
presentandosi con un abbigliamento e un atteggiamento del tutto
inadeguati alla circostanza: poiché era caldo si presentò al Perito con
le scarpe in mano, dopo essere entrato a rinfrescarsi in una fontana;
notando poi alcuni bei mobili nello studio del clinico, si offrì di pro-
curargliene altri, evidentemente di provenienza furtiva. Il contatto di-
retto approfondito nel dialogo psicodiagnostico e i fatti ricostruiti in
causa consentirono la diagnosi di un grave disturbo della persona-
lità, con note antisociali.
Sulla base di queste risultanze, il Tribunale sentenziò l’incapa-
cità di Gianni di garantire l’orientamento in linea di principio del ma-
trimonio al bene dei coniugi: il costante abuso della fedeltà e l’istiga-
zione al coniuge a fare altrettanto; il coinvolgimento del coniuge nel-
l’uso di droga e la sua immissione in ambienti di illegalità eretta a
sistema di vita; la messa in discrimine dell’integrità fisica del coniu-
ge, non conoscendo e praticando altro argomento che le percosse e
l’intimidazione da un lato (per tacere di altri aspetti specifici che la ri-
servatezza e il buon gusto consigliano di non riferire); e – d’altro la-
to – l’accertamento che questi fatti sono conseguenza, sul piano dei
sintomi, della distorta struttura di personalità di Gianni, clinicamen-
te riconosciuta e giudicata grave, condussero a ritenere fondata da
parte di lui un’autentica incapacità matrimoniale. Non si tratta, nel
caso, di generica immaturità, di disparità caratteriale, di difficoltà di
intesa insorte o accentuatesi dopo qualche anno, ma di specifiche,
gravi, continuate violazioni della dignità personale dell’altro, sotto
forma di attentati alla integrità fisica, di mancanze di fedeltà, di im-
provvidenza economica se non attraverso modalità illecite e per fini
riprovevoli, di coinvolgimento in pratiche dannose alla salute e in
ambienti di infima moralità. Un’integrazione psicosessuale degna del
matrimonio cristiano (per esempio rispettosa della esclusività del do-
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 447

no sessuale di sé) o la prospettiva di un almeno minimale mutuo aiu-


to sia morale che materiale di fronte alle necessità della vita e ai do-
veri dello stato coniugale erano al di fuori delle possibilità di Gianni.
L’esempio intende attirare l’attenzione sul fatto che, anche nei
casi apparentemente più clamorosi, occorrerà verificare almeno a li-
vello iniziale, prima di suggerire una causa canonica, la possibilità di
ricondurre i fatti del caso a qualche specifico obbligo essenziale del-
lo stato coniugale e la causa del suo non adempimento a una ragione
indipendente dalla volontà deliberata del soggetto.

Quarto esempio
Claudio e Marina si frequentavano da qualche tempo. Scesi, pre-
maturamente secondo i dettami della morale, a rapporti intimi, Mari-
na restò gravida. Da qui il progetto di matrimonio, prima di questo
fatto non ancora in concreto programmato dai due.
Marina si rivelò una moglie non molto attenta e fedele e, dopo
alcuni anni di vita matrimoniale, lasciò Claudio. Questi, desideroso
di recuperare la propria libertà per sposare una nuova ragazza cono-
sciuta dopo l’abbandono da parte della moglie, intentò una causa di
nullità sulla base di una simulazione da parte di Marina. L’istruttoria
diede assai pochi riscontri relativamente a questa ipotesi. Alcuni te-
sti, però, in un quadro di complessiva descrizione di Claudio come
bravo ragazzo, affermarono che egli era “immaturo” e “non pronto
per il matrimonio”. Sulla base di questi generici pareri (non suffraga-
ti da fatti a comprova o dall’indicazione dei criteri in base ai quali
erano stati formulati), Claudio venne consigliato di abbandonare l’i-
potesi di nullità avanzata in inizio di causa e di impostare la causa
medesima sulla base della di lui incapacità di assumere gli obblighi
essenziali del matrimonio.
Il Tribunale approfondì dunque la questione tramite una peri-
zia: essa si rivelò del tutto inconsistente. All’esame obiettivo nulla ri-
levò di anomalo in Claudio; tuttavia ne dichiarò l’immaturità – e gra-
ve – sulla base di questi due fatti da lui esposti al Perito: la visione
con gli amici di un avvenimento sportivo in TV prima della celebra-
zione nuziale, svoltasi nel tardo pomeriggio; il fatto che Claudio, con-
vocato dal Perito per una certa ora del giorno, entrambe le volte fu
visto dal Perito medesimo giungere circa un’ora prima di quella fis-
sata e stazionare nella piazza sottostante. Come se i fatti – in assenza
448 Paolo Bianchi

di altri dati di rilievo clinico – non si potessero spiegare: il primo con


la tensione del momento scaricata nella visione sportiva con gli ami-
ci; il secondo col fatto che Claudio, consapevole dell’importanza per
lui di quegli incontri e giungendo nella città di residenza del Perito
da località non vicina, non avesse potuto prendere un treno che gli
consentisse di non rischiare un ritardo, attendendo poi, educatamen-
te, l’orario convenuto per presentarsi al Perito.
Pubblicati gli atti – come detto sforniti di fatti a riscontro dell’in-
vocata incapacità di Claudio – e la insoddisfacente perizia, illogica e
deducente conclusioni spropositate da fatti di piccola entità e la cui
spiegazione psicopatologica non appare necessariamente cogente, la
convenuta Marina – fino a quel momento assente dal giudizio – ven-
ne al Tribunale per leggere gli atti di causa.
In tale occasione, il Giudice la sollecitò a rendere una sua depo-
sizione. In essa, Marina espose fatti molto gravi a carico di Claudio:
debiti di gioco; percosse a lei per ottenere denaro; disinteresse per
lei e la figlia in occasione di grave malattia con prolungato ricovero
ospedaliero. È chiaro che tali fatti – se veri – avrebbero potuto porta-
re un riscontro importante all’ipotizzata incapacità di Claudio e un
minimo fondamento (salve le riserve metodologiche) al giudizio pe-
ritale. È chiaro peraltro che tali fatti andavano verificati, non poten-
dosi ritenere eo ipso provate le parole della convenuta Marina, dal
momento anche che tutti i testi in causa – anche coloro che lo giudi-
cavano immaturo e impreparato al matrimonio – dipingevano Clau-
dio come un buon ragazzo, rispettoso, lavoratore, senza gravi vizi e
non violento. In effetti, la verifica esperita comportò la smentita delle
parole di Marina, evidentemente dettate dal risentimento verso Clau-
dio. Tale smentita comportò la conferma della debolezza della causa,
che non poté che concludersi con decisione negativa.
L’esempio vuole esortare i Consulenti delle coppie in insanabile
difficoltà coniugale, a prospettare con molta prudenza la possibilità
di cause per incapacità psichica, ricordando che essa dovrà corri-
spondere a fatti reali e ai criteri che sopra si sono illustrati. Il Consu-
lente non si lasci influenzare da giudizi generici di immaturità o im-
preparazione, ma chieda esempi specifici; di fronte alla narrazione di
fatti precisi, poi, non manchi di ricordare che essi dovranno essere
sottoposti al vaglio del Tribunale, che solo sulla base di fatti accertati
può rendere il suo giudizio.
Soprattutto ricordi il Consulente che l’incapacità psichica al ma-
trimonio è l’eccezione, non la regola e, tantomeno, la scappatoia per
Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio 449

risollevare le sorti di cause infondate. Non è buona azione e regola


pastorale creare illusioni che il Tribunale, che deve basarsi sui fatti
provati e giudicare secondo i comuni criteri di intepretazione della
norma, dovrà poi frustrare.

PAOLO BIANCHI
Piazza Fontana, 2
20122 Milano
450

Il diritto canonico dalla A alla Z


di G. Paolo Montini

H. Humanitas
«Verso i fratelli, che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica,
(il vescovo diocesano) agisca con umanità e carità, favorendo anche l’ecu-
menismo come viene inteso dalla Chiesa».

Così recita il canone 383 § 3, l’unico luogo del Codice vigente in


cui si conservi esplicitamente e direttamente il termine humanitas,
«cum humanitate et caritate se gerat» 1.
Si deve riconoscere comunque che il nuovo Codice abbonda
del termine aggettivale derivato humanus [= umano] 2, usato tra l’al-
tro in contesti e nessi particolarmente significativi, quali per esem-
pio emergenti dalla connessione con formazione (cf cann. 251 e 795),
maturità (cf cann. 217 e 244), doti (cf can. 241 § 1), virtù (cf cann.
378 § 1, 1°; 652 § 2), persona (cf, per esempio, cann. 618 e 807), dirit-
ti e dignità della persona (cf cann. 747 § 2 e 768 § 2), senza dimenti-
care l’espressione idiomatica humano modo riferita alla consumazio-
ne del matrimonio (cf can. 1061 § 1).

1
La fonte diretta del canone è il decreto conciliare Christus Dominus 16 f, che esorta i vescovi diocesani
ad «amare i fratelli separati, raccomandando anche ai loro fedeli di trattarli con grande cortesia e carità
[magna cum humanitate et caritate], favorendo altresì l’ecumenismo, inteso nel senso insegnato dalla
Chiesa». Si noti il mutamento del soggetto: nel Concilio sono i fedeli cattolici, esortati in questo dai ve-
scovi, nel Codice sono direttamente i vescovi esortati a un atteggiamento di umanità e carità. La cancel-
lazione dell’aggettivo magna [= con grande] corrisponde a esigenze di sobrietà del testo legislativo.
Humanitas e caritas si trovano accostate nel Concilio in un contesto analogo, in GS 28 a.
Le traduzioni oscillano fra umanità, mantenendo assonanza diretta col termine latino (cf Commento al
Codice di Diritto Canonico, a cura di Pio Vito Pinto, Roma 1985, p. 232), e cortesia (= Freundlichkeit),
rifacendosi a uno dei significati più assodati della tradizione.
2
Vi è pure l’aggettivo humanisticus, usato esclusivamente nel can. 234, riferito a educazione [= institu-
tio] e formazione.
Il diritto canonico dalla A alla Z 451

Nel Codice piano-benedettino era assente il termine humanitas,


mentre l’aggettivo humanus aveva un uso ridotto e prevalentemente
tecnico 3.
La situazione terminologica attuale non può oscurare la valenza
straordinaria dell’humanitas come principio interpretativo del diritto
e, in specie, nel diritto canonico.
Il nostro intendimento è di ricuperare dalla tradizione giuridica
normativa alcuni momenti e passaggi che permettano di illuminare il
significato di humanitas e il suo ruolo nel diritto.

Nel mondo romano: lingua, pensiero e diritto


La complessità disarmante ed entusiasmante del concetto di
humanitas è possibile coglierla a partire da una notazione linguisti-
ca, volutamente pignola e arcaicizzante, di Aulo Gellio:
«Chi è preciso nell’uso dei termini secondo il loro significato proprio non
userà il termine humanitas nel significato che la gente comunemente ritiene
e che in greco si dice philanthrôpia: humanitas qui significherebbe una cer-
ta comune inclinazione e benevolenza verso tutti gli uomini [dexteritatem
quandam benivolentiamque erga omnes homines promiscam]. Humanitas de-
ve invece essere inteso come paideia, in greco, ossia la istruzione e la for-
mazione nelle arti nobili [eruditionem institutionemque in bonas artes]»
(Noctes atticae 13, 17, 1).

Humanitas è pertanto termine il cui significato principale si strut-


tura all’incrocio storico e geografico di tre principali concetti e dei loro
reciproci nessi 4:

1°. Traduce philanthrôpia 5 e ne assume le ricchezze e le evoluzio-


ni di significato in costante rapporto con l’Oriente.
Con philanthrôpia i Greci indicavano anzitutto la condiscendenza
della divinità verso gli uomini. Philanthrôpos si incontra per la prima

3
Il termine humanus vi ricorre dieci volte, di cui quattro riferito a potestas (cf cann. 1081 § 1 e 1118) o
ad auctoritas (cf cann. 218 § 2 e 2214 § 1); due ad actus (cf cann. 167 § 1, 1° e 353 § 3); due a diligentia
(cf can. 2050 § 2) o sapientia (cf 1347 § 2); una a fetus (cf can. 985 § 4) e un’ultima a fragilitas (cf can.
2214 § 2), in una citazione diretta del Concilio tridentino.
4
Cf soprattutto O. HILTBRUNNER, Humanitas, in Reallexikon für Antike und Christentum XVI, Stuttgart
1994, pp. 711-752.
5
Cf H. HUNGER, Philanthrôpia. Eine griechische Wortprägung auf ihrem Wege von Aischylos bis Theodo-
ros Metochites, in Anzeiger der phil.- hist. Klasse der Österreichischen Akademie der Wissenschaften 100
(1963) 1-20; L.J. DALY, Themistius’ Concept of “Philanthropia”, in Byzant 45 (1975) 22-40.
452 G. Paolo Montini

volta in una tragedia di Eschilo (V secolo a. C.) e si incontra, nel me-


desimo significato, di nuovo molto più tardi nell’Antico Testamento
(Sap 1, 6; 7, 23) 6 e, nel Nuovo Testamento, nella Lettera a Tito (3, 4).
Nello stesso V secolo a. C. è attestato l’uso di philanthrôpia per
indicare la benevolenza fra gli uomini. Non diventerà mai termine
tecnico (filosofico), ma sarà sempre usato in ambito etico e sociale,
legato con una certa frequenza alla condiscendenza dei regnanti ver-
so i sudditi, come pure inteso spesso come virtù “politica” e sociale.
È ancora in quest’ambito classico l’etimologia che sant’Ambro-
gio propone di humanus/humanitas: non deriverebbero da homo,
ma da humus.
«La terra infatti non sottrae nulla a nessuno, ma dà ogni cosa a tutti: perciò è
stata chiamata umanità la particolare virtù propria dell’uomo, per effetto
della quale si reca aiuto ai propri simili» 7.

Riceverà impulso peculiare con l’avvento del cristianesimo, do-


ve andrà a denominare l’atteggiamento di Dio e, di conseguenza e
con varie gradualità e connessioni, l’atteggiamento di Cristo, del cri-
stiano, dei santi e degli imperatori. Tale atteggiamento si realizza in
istituzioni caritative, accomunate dall’ospitalità (xenodochi, nosoco-
mi, gerontocomi, ospizi, orfanotrofi), dalla origine e dal patrocinio
(Chiesa, monasteri, imperatore) nonché dalla motivazione spirituale
(“salvezza” del donatore come del beneficiato) 8.
Nel linguaggio e nei testi giuridici degli imperatori cristiani (in
quanto rappresentanti di Dio) si introduce la philanthrôpia come ele-
mento giustificatore e caratterizzante dell’attività legislativa 9.

2°. Indica, com’è nella sua radice, tutto quanto è dell’uomo e de-
gli uomini, sia in senso comune quanto in senso qualificato.
«Homo sum, humani nil a me alienum puto [Sono uomo e non
reputo alieno a me nulla di quanto è umano]»: il famoso verso di Te-
renzio nella Commedia Heautontimorumenos (I 1, 25) non solo ren-

6
Philanthrôpia, che non ricorre mai nei LXX che traducono dall’ebraico, si trova poi, riferito a re e go-
vernanti pagani, in Esdra 8, 10 e Ester 8, 12b.
7
De officiis III. 3. 16.
8
Cf le voci Humanism e Philanthropy nel The Oxford Dictionary of Bizantium, New York – Oxford
1991.
9
Cf H. HUNGER, Philanthrôpia..., cit., pp. 11-17; ID., Prooimion, Wien 1964, pp. 143-153. Il richiamo alla
corrispondente humanitas è diffuso negli stessi re e imperatori occidentali, anche di epoca medievale.
Il diritto canonico dalla A alla Z 453

de icasticamente il significato di humanum-humanitas, ma permette


anche di capire l’ingresso nella lingua latina del concetto greco di
philanthrôpia. Questo passaggio sarebbe infatti avvenuto proprio per
il tramite delle relazioni fra commedia (comica) greca e commedia
latina. La presentazione (e la ridicolizzazione) nella commedia greca
della figura o maschera del misantropo, e per contrasto la evidenzia-
zione del filantropo, come modello di uomo e di umanità, ha permes-
so il passaggio linguistico e concettuale da philanthrôpia a humani-
tas, in quanto la filantropia era presentata come la proprietà dell’uo-
mo, ossia ciò che gli è più proprio ed è in grado di definirlo.
Persa in latino la dimensione verticale della philanthrôpia (da
Dio verso gli uomini) 10, humanitas acquisisce e si intreccia con il va-
sto spettro delle virtù romane: clementia, pietas, iustitia, aequitas.

3°. Si precisa nella accezione culturale, quale area in cui l’uma-


no si tipicizza, distinguendosi dagli altri ambiti viventi 11.
Sarà Cicerone che amplierà definitivamente il concetto di huma-
nitas, inglobandovi quello di paideia. Humanitas è il fine della forma-
zione, la meta cui tende l’educazione dal tempo della fanciullezza. È il
cammino e i mezzi di cui l’uomo dispone per realizzare se stesso. Per
questo Cicerone parla di studia humanitatis, di humanae litterae.
Humanitas trova qui i suoi sinonimi in eruditio, doctrina, urba-
nitas e comitas.

L’uso di humanitas in ambito giuridico si ha soprattutto a parti-


re dal II secolo dopo Cristo. Le ragioni che si possono addurre per
tale ingresso sono varie. Può esserci stata la volontà di porre rime-
dio alle difficoltà dell’impero attraverso un recupero di moralità, ri-
chiamandosi appunto all’humanitas di ascendenza stoica 12; può esse-
re considerato il tentativo di rifondare la giuridicità in termini univer-

10
Cf H. PÉTRÉ, Caritas. Étude sur le vocabulaire latin de la charité chrétienne, Louvain 1948, p. 212. Da
qui la sorpresa nella Lettera a Tito (3, 4) per l’apparizione di humanitas. Altre citazioni neotestamenta-
rie in Atti 27, 3 e 28, 2.
L’attribuzione a Dio della philanthrôpia crea qualche problema alla traduzione con il termine humani-
tas. Per questo Roberto Grossatesta nel secolo XII, traducendo le opere dello Pseudo-Dionigi l’Areopa-
gita, preferirà traslitterare in latino il termine greco, mentre Scoto Eriugena, nella medesima impresa,
preferirà chiarire che per humanitas qui si intende amor humanitatis.
11
«Huius [...] scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini data est idcircoque “hu-
manitas” appellata est» (AULO GELLIO, Noctes atticae 13. 17. 1).
12
Cf R.M. HONIG, Humanitas und Rhetorik in spätrömischen Kaisergesetzen. (Studien zur Gesinnungs-
grundlage des Dominats), Göttingen 1960, p. 4.
454 G. Paolo Montini

salistici, adeguati alle nuove dimensioni dell’impero 13; può essere pu-
re un espediente giuridico per adattare in modo flessibile la legisla-
zione classica a nuove situazioni sociali della popolazione, a nuove si-
tuazioni geografiche; può essere stato progressivamente decisivo
l’influsso del cristianesimo 14.
È certo comunque che da Adriano, dagli Antonini e soprattutto
nel periodo dei Severi appare con insistenza nei testi giuridici sia il
termine humanitas che i derivati 15, intensificandosi ancora di più poi
nei testi delle leggi degli Imperatori cristiani 16.

Il richiamo all’humanitas 17, benché coerente, nei testi giuridici


può essere classificato, soprattutto in epoca classica, in considerazio-
ne di vari aspetti in esso prevalenti:

– Fragilità strutturale dell’uomo: sono comuni nei testamenti le


espressioni che con humanitas-humanus intendono riferirsi alla de-
bolezza dell’uomo, fino all’estrema sua manifestazione che è la mor-
te: «si aliquid mihi humanum contigerit – si mihi per condicionem
humanam contigerit – ex humana sorte – cui humana infirmitas resi-
stere non potest».
Ma nelle decisioni giuridiche tale humanitas è presa anche in
più diretta considerazione.
È il caso di una persona che avendo per legge un anno di tempo
per ritornare dopo aver espletato cariche pubbliche in una provincia
dell’impero, le deve essere riconosciuto in realtà tutto il tempo ne-
cessario per tornare:

13
Cf A. PALMA, Humanior interpretatio. “Humanitas” nell’interpretazione e nella normazione da Adria-
no ai Severi, Torino 1992, p. 2
14
Cf O. ROBLEDA, Perché il mondo latino nel suo diritto si lascia influenzare dal Cristianesimo?, in Gre-
gorianum 66 (1985) 111-128. Cf pure C.A. MASCHI, Humanitas romana e caritas cristiana come motivi
giuridici, in Jus 1 (1950) 266-274. Nello stesso senso, per quanto attiene al diritto matrimoniale, GIOVAN-
NI PAOLO II, Allocuzione alla Rota Romana, 28 gennaio 1991: «Il diritto romano, sotto l’influsso della
predicazione cristiana, perse molto della sua asprezza, lasciandosi permeare dall’humanitas evangelica
ed offrendo, a sua volta, alla nuova religione un ottimo strumento scientifico per l’elaborazione della
sua legislazione» (in AAS 83 [1991] 949; il corsivo è nostro).
15
L’ipotesi avanzata da più autori di un fenomeno diffuso e sistematico di interpolazione del termine
humanitas e dei derivati, avvenuto in epoca postclassica già influenzata dal cristianesimo (cf, per esem-
pio, H. KRÜGER, Die humanitas und die pietas nach den Quellen des römischen Rechtes, in Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte – Romanistische Abteilung 19 [1898] 6-57), non raccoglie oggi par-
ticolari consensi: cf A. PALMA, Humanior interpretatio, pp. 6-18; O. HILTBRUNNER, Humanitas, p. 736.
16
Cf soprattutto R.M. HONIG, Humanitas und Rhetorik..., cit.
17
Cf le frequenti espressioni humanitate suggerente – humanitatis intuitu/gratia – humanior interpre-
tatio – humanum esse – humanius esse/interpretari – ratio humanitatis.
Il diritto canonico dalla A alla Z 455

«Certo se costui è colpito da malattia [infirmitate] e non può continuare il


viaggio di ritorno, si terrà conto di questa condizione umana [habebitur ratio
humanitatis], proprio come si suole tener conto della stagione invernale, del
viaggio via mare e di tutto quello che può capitare accidentalmente [casu]» 18.

– Principio giuridico che si oppone all’interpretazione stretta del-


la normativa: si avverte chiaramente questo poiché in non pochi te-
sti la humanitas di una decisione o di un’interpretazione è contrappo-
sta esplicitamente alle «suptili iuris regulae» (D. 28.2.13 pr. [Iul. 29
dig.]), alla «nimia subtilitas» (D. 40.4.4 [Pomp. 2 ad Sab.]), allo «ius
suptile» (D. 49.15.12.5 [Tryph. 4 disp.]), alla «suptilitatis legis et auc-
toritas sententiae» (D. 20.1.16.6 [Marc. l.s. ad form. hypothecariam]).
Si tratta pertanto di trascegliere fra più interpretazioni quella mag-
giormente rispondente all’humanitas: l’humanior interpretatio, quan-
to cioè si presenti come humanius [= più umano].
Marco Aurelio non esita a riconoscere che nella causa concer-
nente dei legati testamentari, nel caso in cui dal testamento siano
stati depennati gli eredi, sembra doversi ammettere «humaniorem
interpretationem», proprio come aveva deciso tempo prima il giurista
Marco, secondo cui «quando c’è un dubbio, seguire la interpretatio-
ne più benevola (benigniorem interpretationem) non è solo la cosa
più giusta [iustius], ma anche la cosa più sicura [tutius]» (D. 28.4.3
[Marcell. 29 dig.]).
– Principio giuridico con cui vengono favoriti coloro che si trova-
no in difficoltà: non si tratta infatti di humanitas solo quando si sce-
glie fra due principi giuridici applicabili, ma anche quando si tratta di
interpretare un fatto.
Quando uno dei due proprietari di uno schiavo lo incatena, non
nuoce alla futura libertà di quello schiavo:
«Infatti, dovendo scegliere tra due decisioni da prendere si deve preferire
quella più clemente rispetto a quella più severa [sententia clementior severio-
ri praefertur]: e poi è certo che è (più) conforme alla ragione umana [huma-
nae rationis est] favorire i più deboli [miserioribus], come pure proclamare
innocenti coloro che non possono essere detti con assoluta certezza colpe-
voli» (Pauli Sententiae 4.12.5).

Così nell’incertezza [in ambiguis rebus] se di due gemelli è nato


prima il figlio o la figlia (questione rilevante per l’interpretazione di

18
D. 4. 6. 38. 1 (Ulp. 6 ad leg. Iul. et Pap.), in A. PALMA, Humanior interpretatio, cit., pp. 143-145.
456 G. Paolo Montini

un testamento), si deve seguire l’opinione più benevola [humanio-


rem sententiam sequi oportet] (D. 34.5.10[11].1; cf pure un caso simi-
le in D. 28.2.13 pr. [Iul. 29 dig.]).

La continuità nel diritto della Chiesa


Per pochi altri concetti giuridici si può notare uno stretto lega-
me fra diritto romano e diritto della Chiesa, pur nella relativa esi-
guità della ricorrenza dei termini.
Ciò può essere dovuto sia alla diffusione universale del concet-
to di humanitas (conosciuto sia in Oriente che in Occidente, sia in
greco che in latino con valenze simili, da entrambe le quali i cristiani
assumono per il proprio uso linguistico e concettuale 19), sia alla sua
utilizzazione non solo in ambito giuridico, ma pure in ambito lettera-
rio e filosofico, sia al fatto che lo stesso cristianesimo ha contribuito
allo sviluppo, alla diffusione e alla chiarificazione del concetto.

La recezione di “humanitas” nella Chiesa. Lattanzio


Nel mondo ecclesiale humanitas fa la sua comparsa o come tra-
duzione latina di philanthrôpia o direttamente attraverso l’assunzio-
ne del termine latino, che aveva (acquistato) una sua indipendenza
dall’omologo greco 20.
È con Lattanzio che si ha il tentativo più esteso e cosciente di
assimilare humanitas nell’orbe concettuale cristiano 21. Lattanzio mo-
stra di ben conoscere le valenze (anche giuridiche) del termine lati-
no. Riconosce una stretta connessione, una identità, fra humanitas e
caritas.
Basterebbe porre in parallelo alcuni testi di Lattanzio e seguir-
ne lo sviluppo logico e le equivalenze 22.

19
Cf H. PÉTRÉ, Caritas..., cit., p. 207.
20
San Girolamo nella Lettera 55 si troverà a dover spiegare il significato con cui assume il termine hu-
manitas: «In hoc loco dicimus non mansuetudinem et clementiam, quam graeci philanthrôpiam vocant,
sed omne hominum genus».
21
Per il contributo di Cipriano, nelle Lettere, cf H. PÉTRÉ, Caritas, cit., pp. 212-213; per Ambrogio, cf
ibid., pp. 218-219.
22
Per i testi citati si sono utilizzate le seguenti edizioni: Institutiones divines. Livre V. Tomes I-II, a cura
di P. Monat [Sources chrétiennes 204-205] Paris 1973; Épitomé des Institutions divines, a cura di M. Per-
rin [Sources chrétiennes 335]; Le divine Istituzioni, a cura di G. Mazzoni, Siena 1936-1937.
Il diritto canonico dalla A alla Z 457

Il punto di partenza è squisitamente tradizionale, ossia dalla con-


cezione stoica:
«Siccome la natura degli uomini è la più debole di (quella di) tutti gli altri vi-
venti [...] si dà fra tutti gli uomini un affetto di compassione che si denomina
humanitas, attraverso il quale ci aiutiamo reciprocamente a difenderci» (In-
stitutiones III, 23, 9).

L’humanitas, fondata in tal modo sulla natura razionale dell’uo-


mo, diviene, da semplice virtù, comprensione della realtà, sapienza.
«E che è la humanitas, se non la giustizia?», si chiede Lattanzio; e su-
bito soggiunge: «E che è la giustizia se non la pietas?» (Institutiones
III, 9, 19).
Infatti «primo compito della giustizia è congiungere con Dio, il
secondo (è congiungere) con gli uomini. Il primo si chiama religio-
ne; il secondo si denomina misericordia o humanitas» (Institutiones
VI, 10, 2). Non si può comprendere la giustizia senza il suo nesso
con Dio, che poi informa di conseguenza il rapporto con gli uomini e
fra gli uomini. «Infatti la pietas non è altro che riconoscere la pater-
nità di Dio» (Institutiones III, 9, 19).
Ancor più chiaramente nell’Epitome Lattanzio ragiona:
«Si deve sapere che cosa dobbiamo a Dio e che cosa dobbiamo agli uomini.
A Dio la religione, agli uomini la caritas. La religione appartiene alla sapien-
za, la caritas alla virtù. Entrambe però comprende la giustizia» (29, 6).

Alla fine del percorso appaiono identificate iustitia, caritas, mi-


sericordia e humanitas. Ed infatti Lattanzio osservando i pochi che
per cupidità ammassano ricchezze per poter asservire gli altri, rileva
che in loro non v’è alcuna traccia della giustizia, «che si esprime nei
doveri dell’humanitas, dell’aequitas e della misericordia» (Institutio-
nes V, 6, 4) 23.
A riprova della correttezza della ricostruzione del pensiero di
Lattanzio si potrebbe notare il ritorno della nozione di humanitas,
proprio nel libro VI delle Institutiones (ed in specie nel capitolo 12),
dedicato alla descrizione delle opere di carità tipiche della comunità
cristiana primitiva.

23
Infatti, aggiunge, «né i Romani né i Greci poterono conservare la giustizia, in quanto ebbero molti
gradi disuguali di uomini... Dove non sono tutti uguali, l’equità non c’è; la disuguaglianza esclude la
giustizia, che ha la sua forza nel fare uguali tutti quelli che son venuti all’esistenza in condizione ugua-
le» (Institutiones V, 14, 19-20). Quasi a dire che solo quando giunse il cristianesimo col suo precetto del-
l’amore, la giustizia poté compiersi (cf O. ROBLEDA, Perché il mondo latino..., cit., pp. 119-120).
458 G. Paolo Montini

Nonostante il tentativo di Lattanzio humanitas rimarrà fonda-


mentalmente termine e concetto estraneo alla lingua e al mondo cri-
stiani, soprattutto per lo scarso uso nella Scrittura 24. Il suo uso ri-
marrà legato soprattutto al confronto con la cultura del tempo 25.

Nei canoni della Chiesa antica


Il caso che richiese nella Chiesa primitiva l’uso del concetto di
humanitas fu quello concernente i lapsi, ossia quei cristiani che, du-
rante la persecuzione, si lasciarono persuadere e obbedirono alle ri-
chieste loro avanzate dai funzionari perché rinunciassero o mostras-
sero di rinunciare alla propria fede.
Il concilio di Ankara del 314 fu convocato soprattutto allo scopo
di dare norme in merito ai lapsi, alla possibilità di riconciliazione e
alle modalità di riammissione nella Chiesa. Era giocoforza che si di-
stinguesse fra le varie tipologie di abbandono della Chiesa, di atteg-
giamento tenuto o da tenere nel periodo penitenziale per la reinte-
grazione nella Chiesa.
In alcuni casi è lo stesso Concilio che stabilisce pene e tempi di
penitenza; in altri lascia ai singoli Vescovi il potere di graduare la pe-
na e i modi e tempi di penitenza secondo vari criteri, intrinseci o e-
strinseci alla colpa e alle disposizioni soggettive dei fedeli lapsi.

Il can. 4 del concilio di Ankara recita:


«Circa coloro che in vari modi ritornarono al paganesimo. In merito a coloro
che sotto la minaccia di violenza immolarono agli idoli, presero parte ai ban-
chetti dei sacrifici, andandovi in modo disinvolto, vestendo gli abiti più ele-
ganti e senza alcuna preoccupazione, abbiamo deciso che restino per un an-
no fra i penitenti audientes [coloro che vengono istruiti], tre anni fra i peni-
tenti substrati [coloro che si prosternano], prenderanno parte solo alle
preghiere per due anni, e (infine) saranno completamente riconciliati. In me-
rito a coloro che si presentarono (ai banchetti sacrificali) in abito dimesso e
presero pasto in lacrime e tristezza, (abbiamo deciso che,) compiuto il trien-

24
Cf H. PÉTRÉ, Caritas..., cit., pp. 219. 220.
25
Di fronte a Tacito che presenta i cristiani come nemici della humanitas (Annales 15, 44), Lattanzio ri-
vendica proprio un giudizio oggettivo sulla fede e sulla vita cristiane humanitatis iure (V, 1, 2), cioè per
quel principio di diritto naturale, secondo cui prima di giudicare bisogna conoscere.
Interessante anche l’uso dell’imperatore Giuliano l’Apostata, che fonda sulla philanthrôpia il suo tentati-
vo di costruire una chiesa parallela e un sacerdozio parallelo, dimostrando indirettamente l’importanza
di tale concetto nella Chiesa e la sua “compatibilità” con la cultura romana. Cf H. PÉTRÉ, Caritas..., cit.,
pp. 209-211.
Il diritto canonico dalla A alla Z 459

nio di cui sopra, siano riaccolti senza alcuna (partecipazione all’) offerta. In
merito a coloro che non mangiarono alcunché nel pasto sacrificale, siano
soggetti a un biennio, siano ammessi al culto il terzo anno, senza (partecipa-
zione all’) offerta, e il quarto anno siano riammessi completamente».

Si tratta della descrizione della casistica delle defezioni: viene


individuata una tipologia, cui si ricollega una pena, o meglio un cam-
mino di penitenza.
Ma subito il can. 5 aggiunge:
«I Vescovi però avranno il potere, dopo aver constatato il loro comportamen-
to penitenziale, di avere un atteggiamento di umanità [humaniter (agere):
philanthrôpeuesthai] oppure di aggiungervi altro tempo: si consideri poi at-
tentamente e la loro vita precedente e quella seguente alla loro defezione, e
si misuri l’umanità di conseguenza [humanitas (= philanthrôpia) supernu-
meretur]» 26.

Sulla medesima lunghezza d’onda è il concilio ecumenico di Ni-


cea, al can. 11:
«Di quelli che hanno rinnegato la fede e sono finiti tra i laici. Quanto a quelli
che senza necessità, senza confisca dei beni, senza un qualsiasi pericolo sot-
to la tirannide di Licinio hanno rinnegato la fede, questo santo sinodo dispo-
ne che, per quanto indegni di qualsiasi benevolenza [quamquam humanita-
te (= philanthrôpias) probentur indigni], si usi tuttavia comprensione nei
loro confronti [tamen eis benevolentiam commodari]. Quelli dunque tra i
fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra i penitenti au-
dientes [coloro che vengono istruiti], sei anni tra i penitenti substrati [coloro
che si prosternano], e per due anni preghino col popolo senza partecipare
all’offerta» 27.

Nel can. 12 una disposizione analoga è prevista per coloro che,


dopo aver lasciato il servizio militare, vi sono ritornati, come il cane
al suo vomito, ed ora chiedono di rientrare nella comunione della
Chiesa. Il canone stabilisce un tempo abbastanza lungo di penitenza,
durante il quale è necessario
«esaminare la loro volontà e il modo [speciem/qualitatem] di far penitenza.
Chi infatti con timore e lacrime, pazienza e buone opere dimostra con i fatti

26
P.-P. JOANNOU, Discipline générale antique (IVe-IXe s.). I, 2. Les canons des Synodes Particuliers, Grot-
taferrata 1962, pp. 60-61 [= CSP].
27
Per la traduzione italiana cf Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo - G.L. Dos-
setti – P.-P. Joannou – C.L. Leonardi – P. Prodi, Bologna 1991, p. 11.
460 G. Paolo Montini

la sincerità della conversione, compiuto il tempo prescritto da passare fra i


penitenti audientes, potrà essere ammesso a partecipare alla preghiera dei
fedeli; dopo di ciò, il vescovo potrà prendere nei suoi confronti una qualche
decisione anche più mite [de illis aliquid humanius (= philanthôpoteron) co-
gitare]. Ma chi si comporta con indifferenza [indifferenter], e crede che per
l’espiazione sia sufficiente questa penitenza, deve senz’altro scontare tutto il
tempo stabilito» 28.

Ma anche altri temi, oltre a quello delle defezioni dalla fede in


periodo di persecuzione, coinvolgono il principio dell’humanitas.
Ciò accade ancora e soprattutto nel concilio di Ankara del 314.
Al can. 16 si tratta del crimine di bestialità. Dopo aver adeguata-
mente determinato una prima fattispecie delittuosa (se il crimine vie-
ne perpetrato da chi ha meno di venticinque anni) e la corrisponden-
te rigorosissima pena (quindici anni più cinque di penitenza), sog-
giunge:
«Si esamini poi la loro condotta durante il tempo in cui saranno penitenti
substrati e ottengano misericordia [et ita hanc misericordiam (= philanthrô-
pias) consequantur]» 29.

Sarà Gregorio di Nissa che spiegherà la ragione poco più tardi


di tale benevolenza:
«Chi accusa di propria spontanea volontà questo tipo di peccato, normal-
mente segreto e non conosciuto, ha già cominciato il cammino di penitenza
e dato una prima prova di conversione. Per questo troverà più misericordia
[philanthrôpoterois] nelle penitenze imposte».

In questo caso infatti, nella prescrizione della pena, lo stesso Gre-


gorio prevede che «sia permesso all’autorità [to oikonomounti] nel-
l’interesse stesso della disciplina ecclesiastica [tê ekklêsiastikê oikono-
mia] abbreviare i tempi della penitenza» 30.
Al can. 21 si commina una pena molto severa (scomunica senza
remissione fino alle fine della vita) per le donne che procurano abor-

28
Per la traduzione italiana cf Conciliorum Oecumenicorum Decreta, p. 12.
29
CSP, pp. 67-68.
30
Lettera canonica a Letoius, vescovo di Melitene, 3, in P.-P. JOANNOU, Discipline générale antique (IVe-
IXe s.). II. Les canons des Pères Grecs, Grottaferrata 1963, pp. 214. 215 [= CPG]. Si sarà notato l’interes-
sante nesso fra philanthrôpia e oikonomia (cf al riguardo G.P. MONTINI, Il diritto canonico dalla A alla
Z. E. Economia Oikonomia, in Quaderni di diritto ecclesiale 6 [1993] 470-484).
Il diritto canonico dalla A alla Z 461

to: così d’altronde era previsto da una legge precedente. Il Concilio


però intende «dare per il momento presente una legge più umana
[Humanius (= philanthrôpoteron) autem nunc definimus]: facciano
dieci anni di penitenza secondo i diversi gradi» 31.
«Bisogna infatti – commenta a questo proposito san Basilio –
giudicare della loro guarigione (spirituale) non già dal tempo (della
penitenza), ma dalle loro disposizioni soggettive» 32.

Al can. 23 si affronta il caso specifico dell’omicidio preterinten-


zionale. Mentre la precedente normativa esigeva sette anni di peni-
tenza nei diversi gradi per essere riammessi alla comunione, il Con-
cilio promulga una norma più mite [haec vero humanior definitio],
richiedendo solo cinque anni 33.

Il termine philanthrôpia / humanitas apparirà pure nel concilio


ecumenico di Calcedonia (451): nel can. 16, ripreso da Graziano (cf
infra) e nel can. 30.
In quest’ultimo canone si affronta la questione dei vescovi d’E-
gitto, i quali, pur non avendo sottoscritto la lettera del pontefice Leo-
ne Magno, non possono essere ritenuti colpevoli ed essere sotto-
messi alla relativa punizione. Gli imperatori ed il senato propongono
al Concilio la propria opinione: poiché i vescovi d’Egitto rimandano
la sottoscrizione «non in opposizione alla fede cattolica», ma soste-
nendo che la consuetudine prescrive loro di non far nulla senza il
consenso e le istruzioni dell’arcivescovo di Alessandria, che al mo-
mento non c’è, «è sembrato giusto e umano [iustum nobis et huma-
num (= philanthrôpon) visum est] concedere che rimanessero in
città senza sanzione alcuna», finché non sarà consacrato il nuovo ar-
civescovo di Alessandria.
Di fronte a questa proposta di umanità [illis aliquid praestari hu-
manitatis (= philanthrôpias)], il Legato del Romano Pontefice accon-
sente, solo chiedendo alcune garanzie sulla loro permanenza in città 34.

31
CSP, p. 71.
32
Prima Lettera sui canoni a Anfilochio, vescovo di Iconio, 2, in CPG, p. 99.
33
CSP, p. 72. È interessante notare che solo la Collectio Dionysiana (e neppure quella in tutte le sue
forme: cf PL 67, 156) nella traduzione latina esplicita il testo greco, notando che la nuova disposizione è
più mite [= humanior] della precedente. Il testo greco infatti afferma solo che si tratta di una norma
successiva e più recente, senza notarne la maggiore mitezza, che emerge intrinsecamente dalla dimi-
nuzione in questa, rispetto alla prima, del numero degli anni di penitenza.
34
Cf Conciliorum Oecumenicorum Decreta, p. 102.
462 G. Paolo Montini

Nell’appendice al presente articolo sono state poste alcune si-


nossi che permettono di considerare la coerenza delle traduzioni,
che nei secoli V e VI furono fatte di alcuni di questi canoni conciliari
orientali, soprattutto nel rendere philanthrôpia senza alcuna diffi-
coltà col termine humanitas ed i suoi derivati, pur alle volte variato o
aggiunto a misericordia, clementia o a forme nominali o verbali equi-
valenti.
Non costituisce ostacolo a siffatta traduzione la forte connessio-
ne fra philanthrôpia e Dio, presente nei testi orientali e che scompa-
re nel termine humanitas. È significativo a questo riguardo un pas-
saggio parallelo ai canoni del concilio di Nicea sui lapsi, che si trova
in Basilio. Qui è la philanthrôpia tou Theou (misericordia di Dio) che
è intesa.
«Se chi ha rinnegato Cristo si mostra pieno di zelo durante il tempo della pe-
nitenza, colui al quale la bontà di Dio [para tês tou Theou philanthrôpias] ha
dato il potere di legare e sciogliere non meriterà rimprovero alcuno se si
mostra alquanto misericordioso [philanthrôpoteros] e diminuisce la durata
del tempo di penitenza, constatando il pentimento straordinario del peccato-
re. La Scrittura infatti ci insegna che il pentimento accompagnato da un in-
tenso dolore ottiene rapidamente il perdono della misericordia di Dio [tên
tou Theou philanthrôpian]» 35.

Nei canoni conciliari della Chiesa antica l’humanitas viene pre-


sentata come il principio giuridico che permette, giustifica e regola il
rapporto fra legge e situazione personale del fedele, in ordine al rag-
giungimento reale del fine della stessa legge.

Nelle antiche regole monastiche


Una permanenza significativa del termine humanitas si ha nelle
regole monastiche, che possono essere intese come ordinamenti
giuridici secondari, nei quali si avverte la necessità di elaborare pure
principi interpretativi per l’applicazione. Humanitas vi appare sotto
significati diversi, anche se tutti coerenti con la tradizione:
– come fragilità della natura umana, di cui nelle regole si ha una co-
scienza particolare, e che merita, pertanto, una adeguazione della
prescrizione canonica.

35
CPG, can. 74, p. 151. Cf pure il can. 73, ove la stessa philanthrôpia è menzionata in rapporto all’am-
missione alla comunione in punto di morte (ibid.).
Il diritto canonico dalla A alla Z 463

«Dalla bocca di un monaco non escano maledizioni. Non presti la sua bocca
a qualcosa di effrenato, mosso dall’impazienza. Ma se, preso dall’ira, succe-
desse, come a volte capita a noi uomini [ut est humanitatis], dica due verset-
ti di salmi...» (Regola ai monaci di Ferreolus [† 581], cap. 22, in PL 66, 967);

– come attenzione misericordiosa e benevola, giustificata nella sua pe-


culiarità da una condizione svantaggiata del soggetto. Si tratta qui di
trovare un principio in cui si medi la universalità della norma con la
peculiarità della situazione personale. L’universalità della norma sti-
mola il monaco al superamento di sé e non può essere pertanto mor-
tificata in un universo di norme particolari. Nei casi in cui la norma
universale corre il rischio di mortificare e far soccombere la perso-
na, si dovrà ricorrere a un principio di dispensa.
«Ci sono monaci che vogliono dedicarsi alla lettura per evitare il lavoro [...]
Chi (invece) non può lavorare a causa di una malattia, è da trattare con mag-
giore umanità e clemenza [humanius clementiusque]. Ci sono poi quelli che
sono sani, ma che stanno a letto come se fossero malati. Questi non possono
essere smascherati [humanis oculis convinci non possunt]. Questi sono da
sopportare se la malattia è nascosta; sono da redarguire se la salute è pale-
se» (Regola ai monaci di sant’Isidoro di Siviglia [† 636], cap. V, 4, in PL 83,
874; cf pure cap. XXI, 2, ib., 891) ;

– come pasto, cibo e bevande, che rifocillano gli ospiti, come pure ogni
forma di ospitalità 36. L’ospitalità da parte dei monaci si sostanzia so-
prattutto nell’offerta di ciò che è necessario per la sopravvivenza e
diventa poi nella convivialità segno di una più significativa accoglien-
za. È pertanto frequente il significato di humanitas per pasto di ospi-
talità, o comunque in connessione con il cibo.
Nella stessa Regola di san Benedetto al capitolo 53 humanitas è
quasi certamente sinonimo di tale pasto offerto al pellegrino:
«Dopo aver accolto gli ospiti, li si condurrà a pregare e poi si siederà a men-
sa con loro il priore o chi ne sarà incaricato da lui. Si leggerà quindi alla pre-
senza dell’ospite un brano della Sacra Scrittura per l’edificazione e, dopo tut-
to questo, gli si donerà ogni (segno di) ospitalità [omnis ei exhibeatur huma-
nitas]» 37.

36
Cf, per esempio, J.F. NIERMEYER, Mediae Latinitatis Lexicon minus, Leiden 1976, p. 506; DU CANGE,
Glossarium mediae et infimae latinitatis IV, Graz 1954, sub voce. Questo significato era già presente nel-
la classicità.
37
Si dovrebbe mettere in evidenza il nesso fra humanitas, come ospitalità conviviale (cap. 53), e l’ope-
ra di carità recensita da san Benedetto nel cap. 4: «Honorare omnes homines». L’ospitalità benedettina
non conosceva alcuna limitazione o distinzione. Cf La règle de saint Benoît. Tome VI. Commentaire hi-
storique et critique, a cura di Adalbert de Vogüé [Sources chrétiennes 186], Paris 1971, pp. 1255-1279.
464 G. Paolo Montini

«L’abate in refettorio offra a tutti gli ospiti da mangiare e da bere [humanita-


tem manducandi ac bibendi]»,

prescrive il capitolare monastico dell’anno 817 (cap. 27, I).


«L’economo si preoccupi dei pasti [de humanitate] che si devono offrire a chi
viene al monastero, sia che si tratti di pellegrini sia che si tratti di altri fratelli»
(Regula coenobialis di san Colombano [† 615], cap. 10, in PL 80, 219).

È significativo di questa fluttuazione del concetto di humanitas


fra i tre significati anzidetti (fragilità, attenzione e vitto) un testo di
san Pier Damiani, nella sua Regola per un eremita. Al capitolo XVI,
che tratta della prudenza [discretio] del superiore nella guida dei
monaci in tema di digiuno e di alimenti, afferma:
«Se tutti i monaci riescono a vivere sotto una sola regola, benissimo. Se però
d’altra parte un monaco o alcuni hanno bisogno di ciò di cui gli altri che
stanno bene non abbisognano, di nascosto e senza farsi vedere, si manifesti
pietà e umanità a coloro che sono per tale aspetto infermi [sic infirmis pia
exhibeatur humanitas], in modo tale che chi sta bene permanga nella disci-
plina rigorosa, senza conoscere il pericolo dell’invidia.

D’altronde non è necessario che ciò a cui la sorte costringe un monaco, su-
bito per questo si estenda a tutti. Lo stesso monaco che oggi chiede di esse-
re aiutato con umanità [hodie subveniri sibi per humanitatem postulat], dopo
che è stato confortato per una settimana, potrebbe non richiedere ulterior-
mente l’aiuto di umanità [eiusdem humanitatis impendia non requirat]» (PL
145, 348-349).

Si evidenzia in questo passaggio un aspetto molto peculiare:


l’humanitas nella sua manifestazione deve tener conto non solo del
bisogno specifico e particolarissimo del singolo, ma anche dell’“hu-
manitas” di tutti, che potrebbe prendere a pretesto l’eccezione con-
cessa per mancare all’osservanza della norma. In altre parole, la
stessa norma rigorosa è giustificata sulla medesima humanitas da
cui procede l’eccezione 38.

Nei testi canonici antichi


La continuità nell’uso del termine e del concetto di humanitas si
rileva dalla Chiesa antica all’epoca medievale, attraverso tutti i secoli.

38
Cf pure, a questo riguardo, la Lettera V di san Bruno alla comunità, in Lettres des premiers chartreux
I, [Sources chrétiennes 88], Paris 1962, pp. 86-88.
Il diritto canonico dalla A alla Z 465

– Nel concilio di Torino del 398 viene trattata per appello la cau-
sa giudicata dal vescovo Triferio in merito a un non leve crimen di cui
sarebbe stato accusato un presbitero da parte di un certo Palladio,
laico. Il Concilio, decidendo di confermare la sentenza del vescovo
che ha condannato Palladio, vuole manifestare verso il reo la sua u-
manità [in hoc ei humanitate servata concilii], lasciando alla discre-
zionalità dello stesso vescovo Triferio l’autorità di rimettere la pena 39.
– Nel II concilio di Arles viene ripreso ad sensum il prescritto
del concilio ecumenico di Nicea su coloro che volontariamente han-
no rinnegato la fede durante le persecuzioni (cf can. 10). E pure in
merito alla potestà [in potestate tamen vel arbitrio] del vescovo di ac-
cogliere alla comunione per la misericordia della Chiesa [pro eccle-
siastica humanitate] coloro che hanno sinceramente [ex animo] ab-
bandonato l’errore e fatto penitenza 40.
– Nel I concilio di Orléans del 511 si vieta la possibilità di oppor-
re alla Chiesa la prescrizione, anche da parte della legge secolare,
nel caso in cui un vescovo, per senso di umanità [humanitatis intui-
tu], abbia concesso terreni da coltivare a chierici o monaci (can.
23) 41. Il testo sarà poi ripreso da Graziano nel Decretum (cf c. 12,
C. XVI, q. 3), sotto il titolo generale: «Quanto si concede in ragione
di umanità non può soggiacere a prescrizione».
– Nel can. 8 del V concilio di Orléans del 549 si prospetta il caso
di vacanza della sede episcopale, per morte [= iure humanae condi-
tionis] del vescovo diocesano. In tale contingenza nessun vescovo
può intervenire nella diocesi ordinando chierici, consacrando altari o
disponendo di beni ecclesiastici, al di fuori dei viveri necessari [prae-
ter humanitatem] 42.
– Nei Libri Penitenziali appare il concetto di humanitas 43 sia co-
me causa attenuante nella valutazione della gravità di una fattispecie

39
Cf Corpus Christianorum 148, p. 57.
40
Cf ibid., pp. 115-116. Su questo Concilio cf Knut SCHÄFERDIEK, Das sogenannte zweite Konzile von Ar-
les und die älteste Kanonessammlung der arelatenser Kirche, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechts-
geschichte – Kanonistische Abteilung 102 (1985) 1-29.
41
Cf Corpus Christianorum 148 A, p. 11. Il testo si trova poi nella Collezione Hispana sistematica III,
38, 23; Anselmo dedicata V, 87; IVO DI CHARTRES, Tripartita II, 29, 18. Cf pure il can. 59 del concilio di
Adge (506), in cui si dà al vescovo la possibilità di disporre di appezzamenti di terreno da coltivare in
caso di necessità anche senza il consiglio dei presbiteri.
42
Cf Corpus Christianorum 148 A, p. 151.
43
Cf P.J. PAYER, The Umanism of the Penitentials and the Continuity of the Penitential Tradition, in Me-
diaeval Studies 46 (1984) 340-354.
466 G. Paolo Montini

delittuosa, qualora appunto sia stato compiuto con l’intenzione di fa-


re del bene 44, sia come causa di remissione parziale o di riduzione
della pena, nel caso che la penitenza sia assolta con animo sincero 45.

All’epoca di Graziano
Il Decreto di Graziano utilizza in maniera considerevole il con-
cetto di humanitas, seppure con significati e valenze molto diverse.
A volte il termine proviene da fonti di diritto romano che Gra-
ziano cita direttamente 46.
A volte il termine ha un significato propriamente cristiano riferi-
bile o alla Sacra Scrittura o al dogma cristiano dell’incarnazione 47.
A volte humanitas rispecchia uno dei significati comuni che il
termine aveva già assunto nella classicità latina 48.
Non mancano però i casi in cui humanitas è assunto per la pro-
pria valenza canonica e assume una specifica valenza interpretativa
all’interno del Decretum e della canonistica coeva.

– In c. 32, D. L. Graziano riporta il can. 11 del concilio di Nicea


nella versione di Dionisio il Piccolo, sotto la rubrica: «Si chiede se,
dopo la penitenza, si debba rimanere nel proprio ordine o si possano
ricevere anche gli ordini maggiori». La risposta, con il testo riportato
è che «placuit synodo, quamvis humanitate indigni, tamen eis benevo-
lentiam commodari», ossia si decide che, benché indegni di umanità,
tuttavia siano beneficiati di benevolenza.

– In c. 12, C. XXVII, q. 1 e in c. 22, C. XXVII, q. 1 si riporta per


due volte uno stesso testo: il can. 16 del concilio di Calcedonia (451),

44
Cf, per esempio, il caso di uno che sia causa dell’ubriacatura propria o di un altro. Se l’avrà procurata
pro humanitate o humanitatis causa, nell’intento cioè di soddisfare per sé o per un altro a un legittimo
piacere, la pena sarà più limitata; se invece l’avrà procurata per odio verso altri cui nuocere, la pena
sarà più grave. Cf alcuni testi citati in Paenitentialia minora Franciae et Italiae saeculi VIII-IX, a cura di
Raymund Kottje, Turnholti 1994, pp. 92. 142. 205.
45
Cf, per esempio, il penitenziale Hubertense: «Si quis clericus uxorem propriam reliquerit et gradu ho-
noris exceperit posteaque eam iterum agnoverit, sciat se adulterium perpetrasse, honore suo privetur et
diebus vitae suae poeniteat. Et pro humanitatis causam [!], si bene egerit, post annos VII communionem
recipiat» (in Paenitentialia minora, cit.).
46
Cf cc. 28-29, C. II, q. 6; dictum post c. 46, C. II, q. 6.
47
Cf c. 1, C. XXV, q. 10; c. 89, D. II, de cons.; c. 35, D. IV, de cons.
48
Cf, per esempio, c. 25, C. XXIV, q. 1: come titolo al Romano Pontefice («Quamquam igitur tui me ter-
reat magnitudo, tamen invitat humanitas»: san Girolamo a Damaso, Lettera 15).
Il diritto canonico dalla A alla Z 467

che colpisce con la scomunica coloro che contraggono matrimonio


dopo essersi consacrati al Signore nella verginità o nel celibato 49.
«Abbiamo tuttavia stabilito che è in potere del vescovo locale
mostrare verso di essi una misericordiosa comprensione [philan-
thrôpias]» 50.
Il primo capitolo citato riferisce il testo secondo la versione dio-
nisiana («habeat auctoritatem eiusdem loci episcopus misericordiam
humanitatemque largiri») ed è riportato da molte Collezioni canoni-
che precedenti a Graziano 51.
L’altro capitolo cita il testo secondo la versione ispana («Statui-
mus vero posse eis fieri humanitatem, si ita probaverit episcopus loci»)
ed è molto più raro nelle Collezioni canoniche 52.

– In c. 24, D. LXXXVI e c. 11, C. I, q. 7 abbiamo ancora un testo


ripetuto, almeno in parte, per due volte. Si tratta della lettera inviata
nel settembre 598 dal papa san Gregorio Magno a Gennaro, vescovo
di Cagliari.
Nel primo capitolo sopra citato il testo è introdotto da Graziano
per dimostrare che «il Vescovo non dev’essere pronto alle percosse,
cioè facile alla vendetta».
Nell’altro capitolo invece il contesto di Graziano è più impegna-
tivo. Egli sta trattando la questione se «colui che lascia l’eresia deb-
ba essere ricevuto nella sua dignità episcopale oppure no». Dopo
aver riportato i testi normativi che pronunciano ex canonum rigore,
introduce il nostro testo sotto la rubrica: «Talvolta il rigore dei cano-
ni viene mitigato in considerazione della persona [= pro persona]».
Questa collocazione sistematica, presa da Graziano probabilmente
dal testo di Algero di Liegi De misericordia et iustitia che ha un con-
testo simile 53, unico fra le Collezioni canoniche che riportano il te-

49
La Collezione Vetus Gallica (sec. VII) riferisce il can. 16 del concilio di Calcedonia senza menzionare
però la possibilità di applicazione da parte del vescovo dell’humanitas (cf XLVII, 8, in H. MORDEK, Kir-
chenrecht und Reform im Frankenreich. Die Collectio Vetus Gallica, die älteste systematische Kanones-
sammlung des fränkischen Gallien. Studien und Edition, Berlin – New York 1975, p. 549)
50
Per la traduzione italiana cf Conciliorum Oecumenicorum Decreta, p. 94.
51
Cf BURCARDO DI WORMS, Decretum VIII, 30; IVO DI CHARTRES, Decretum VII, 49; Polycarpus IV, 39 (35)
18; Collectio XII partium III, 230; Caesaraugustana X, 116.
52
Cf Collectio III partium II, 10, 16.
53
«Quod praecepta canonica pro tempore, pro persona, pro variis rerum eventibus vel partim temperata
vel omnino sunt intermissa, aliquando necessitatis, aliquando utilitatis, aliquando solo pietatis intuitu
[...] Item pro persona» (I, 5. 7).
468 G. Paolo Montini

sto 54, fa assumere grande valore sistematico al concetto di humani-


tas, ripetuto o riecheggiato per due volte nel testo di Gregorio Ma-
gno. È infatti posto nel tipico contesto in cui emerge e si esprime la
dottrina canonica della dispensa.
In questo testo si trattava di un vescovo anziano e per di più at-
torniato da cattivi consiglieri:
«Ci è giunta una tanto grande messe di cattive notizie sul tuo conto di anziano,
che, se non la valutassimo con umanità [= nisi adhuc humanitus pensaremus],
avremmo già lanciato una permanente maledizione nei tuoi confronti» 55.

– In c. 103, C. XI, q. 3 Graziano si rifà a un testo molto recente e


subito recepito in altre Collezioni canoniche 56: di Gregorio VII, pub-
blicato nel Concilio Romano del 1078. Si tratta della concessione ec-
cezionale con cui si esimono dal vincolo di scomunica tutti quelli che
contattano scomunicati sia per ignoranza sia per particolare inge-
nuità [= nimia simplicitate] sia per timore sia anche per necessità. Si
tratta di mogli, figli, servi, contadini e tutti coloro che non sono così
esperti [= curiales] da sapere di incorrere in scomunica contattando
quegli scomunicati. Lo stesso si applica a tutti coloro che, viaggian-
do e arrivando in una località in cui vi sono scomunicati, non abbia-
no la possibilità di comperare ciò che è necessario.
Che se qualcuno vorrà dar loro (scil. agli scomunicati) qualcosa non per ap-
poggiare la loro superbia, ma per (senso di) umanità [non in sustentatione
superbiae, sed humanitatis causa], non vogliamo proibirlo».

È evidente da tutto il capitolo e dalla sua affermazione conclusi-


va che l’humanitas (propria e degli altri) è la ragione della modera-
zione con cui vengono applicate le norme sulla scomunica.

54
Cf Collectio Anselmo dedicata II, 268; BURCARDO DI WORMS, Decretum I, 197 (contesto: come un ve-
scovo anziano possa essere oggetto di correzione; in PL 140, 608-609); Collectio in CCLXXXIII titulos
digesta 85, 5 (Quomodo senior debet increpari); IVO DI CHARTRES, Decretum II, 78 (contesto liturgico: de
messe cuiusdam exarata, in ibid., 161, 177-178); V, 312 (contesto: come un vescovo anziano possa essere
oggetto di correzione, in ibid., 420); Collectio III partium I, 55, 17.
55
Cf Corpus Christianorum 140 A, pp. 562-563.
56
Cf IVO DI CHARTRES, Decretum XIV, 43 (Quo moderamine sedes apostolica in ferenda sententia qualita-
tibus hominum condescendat) e Panormia V, 125 (De his qui sine culpa cum excommunicatis communi-
cant). Il testo è riferito pure nella Lettera 186 di Ivo di Chartres (cf PL 162, 188), che commenta in que-
sto modo: «De dandis autem vel non accipiendis muneribus erga tales personas haec ratio mihi servanda
videtur, ut nihil eis detur nisi intuitu et compassione humanae indigentiae, neque ab eis aliquid accipia-
tur, nisi inevitabilis cogat necessitas» (ibid., 187-188).
Il diritto canonico dalla A alla Z 469

– In c. 35, C. XXIII, q. 4 Graziano riprende un testo di Agostino


di peculiarissima importanza, in cui si distingue, in ragione proprio
dell’umanità, fra persona (homo) e peccatore. «L’uomo dev’essere
oggetto di compassione, il peccatore di rigore [Homini est miseren-
dum, peccatori est irascendum]», riassume Graziano rubricando il te-
sto di sant’Agostino.
Il vescovo di Ippona nel discorso 164/A affronta la questione
dell’elemosina: se sia cioè giusto offrirla soltanto ai giusti, rifiutando-
la ai peccatori. A favore di una tale posizione ci sarebbero anche testi
biblici (cf Sir 12, 4.6-7).
«Queste parole sono state dette infatti perché tu non faccia il bene al pecca-
tore in quanto è peccatore, ma perché tu faccia il bene a chi ti odia, non in
quanto peccatore, ma in quanto uomo [sed quia homo est]. In tal modo os-
serverai l’uno e l’altro precetto, né indifferente quanto a punire, né inumano
quanto a soccorrere [nec ad subveniendum inhumanus]».

Graziano riporta il seguente brano di Agostino nel suo Decreto:


«Quando pronunziamo questi due termini, l’uomo peccatore, non li diciamo
certo a vuoto. In quanto è peccatore, riprendilo, in quanto è uomo, abbi com-
passione [Quia peccator est corripe, et quia homo est, miserere]. E non rende-
rai pienamente libero l’uomo se tu non sarai zelante nel punire in lui il pecca-
tore. Ogni ordinamento attende a questo compito così come è idoneo e ap-
propriato a chiunque è preposto, non solo al vescovo che è a capo del suo
popolo, ma anche al povero che ha cura della sua famiglia, al ricco che co-
manda alla sua servitù...».

Sant’Agostino continuava dicendo:


«Tutti costoro [...], secondo il potere partecipato dal Signore dell’universo
[...], si adoperano affinché proprio quelli che reggono si conservino in quan-
to uomini e periscano in quanto peccatori [et conserventur homines, et pe-
reant peccatores][...] anche l’Altissimo ha in odio i peccatori e castiga gli em-
pi (cf Sir 12, 4.6); tuttavia, dato che essi non sono soltanto peccatori ed empi,
ma anche uomini [verum etiam et homines sunt], fa sorgere il suo sole sui
buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45)».

Graziano riprende qui la citazione di Agostino nel suo testo:


«In conseguenza, a nessuno degli uomini si deve precludere la misericordia,
a nessun peccato si deve aprire la via all’impunità. Da qui, pertanto, si deve
comprendere soprattutto come non si debba trascurare l’elemosina, che per
diritto di natura [iure humanitatis] si elargisce a tutti i poveri indistintamen-
470 G. Paolo Montini

te, dal momento che il Signore stesso soccorreva l’indigenza dei poveri [...]
Pertanto non accogliamo i peccatori in quanto sono peccatori, ma tuttavia
guardiamoli con benevolenza perché anch’essi sono uomini [sed tamen eos
ipsos, quia et homines sunt, humana consideratione tractemus]. Non desistia-
mo dal rimproverare a essi la propria cattiveria, commiseriamo la comune
condizione» 57.

Anche la citazione della lettera 153 di sant’Agostino in c. 17, C.


XXIII, q. 5, risponde alla medesima ragione e sviluppa un analogo
concetto 58, come è testimoniato dalla stesso sommario di Graziano:
«Non è iniquo, ma degno dell’uomo [humanus], perseguitare il pec-
cato, al fine di liberare l’uomo» 59.

– Più volte Graziano riporta testi in cui, per ragioni di umanità,


è concesso benevolmente qualcosa in ordine alla sepoltura e alla
pietà verso i morti: c. 19, C. XIII, q. 2 (humanitatis officium); dictum
post c. 26, C. XIII, q. 2 (humanitatis intuitu); c. 13, C. XVI, q. 1 (in-
humanitate); c. 7, D. I de cons. (humanitatis intuitu).

L’uso abbondante di Graziano del termine humanitas, in linea,


tra l’altro, con le Collezioni canoniche coeve, indica chiaramente un
concetto guida nella interpretazione del diritto all’interno del perio-
do della lotta per le investiture e della Riforma gregoriana, dove l’ap-
parato canonico più facilmente divenne preda di opposti schieramen-

57
Per la traduzione cf AGOSTINO, Discorsi III/2 (151-183) Sul Nuovo Testamento, Roma 1990, pp. 734-
737.
58
«Non ha quindi alcun legame con l’iniquità ma piuttosto con l’umanità [humanitatis societate devinc-
tus] chi è persecutore del peccato per essere salvatore dell’uomo» (Ep. 153, 1, 3; per la traduzione cf
AGOSTINO, Le lettere II, Roma 1971, pp. 524-525). La lettera è tutta sull’argomento del rapporto fra mise-
ricordia e giustizia. Spesso vi appare il concetto di humanitas con i suoi termini apparentati. Notevoli
due passaggi. Nel primo Agostino afferma che «è raro e consono al sentimento religioso [pium] amarli
[= peccatori] perché sono persone umane [quia homines sunt]», mentre «è facile ed è anche inclinazio-
ne naturale [proclive] odiare i malvagi perché sono tali» (Ep. 153, 1, 3, in ibid.). Nel secondo Agostino
ritiene di poter affermare che il dovere di confessare gli uni agli altri i peccati e pregare (cf Gc 5, 16)
sia «il dovere d’umanità reclamato da ciascuno a proprio favore presso un suo simile ogniqualvolta lo
può [Has sibi partes humanitatis, ubi potest, omnis homo apud hominem vindicat]» (Ep. 153, 4, 10, in
ibid., pp. 532-533).
Graziano citerà questa lettera anche in c. 1, C. XIV, q. 6, per affermare che «non è cosa inumana [inhu-
manum] intercedere anche per siffatti individui [= ladri] come si fa per i criminali, poiché l’intercessio-
ne non ha affatto lo scopo d’ostacolare la restituzione del maltolto, ma d’evitare che uno usi violenze
crudeli e inutili a un suo simile [ne frustra homo in hominem saeviat]» (Ep. 153, 6, 20, in ibid., pp. 546-
547). Lo stesso testo è citato in IVO DI CHARTRES, Decretum XIII, 4; XV,25; Tripartita III, 23, (24,) 3; Poly-
carpus VI, (19,) 17.
59
Il medesimo testo si trova citato per due volte in Ivo di Chartres, Decretum X, 107 e Tripartita III,
20, (21,) 37.
Il diritto canonico dalla A alla Z 471

ti, con la necessità di mitigare le asprezze polemiche, attraverso una


contestualizzazione normativa 60.
Da parte dei fautori rigidi della Riforma l’humanitas equivaleva
a inaffidabilità e la sua invocazione appariva il pretesto per un cedi-
mento di fronte alle esigenze di rinnovamento; d’altro canto le loro
posizioni erano apertamente tacciate di inhumanitas 61.
Da parte di coloro che auspicavano una posizione di mitigazione
e di compromesso nella normativa sostanziale e penale riformistica,
l’humanitas costituiva il criterio interpretativo per discernere le legitti-
me richieste dei fedeli, dalle loro resistenze immotivate alla Riforma 62.

L’uso più vicino a noi


Quanto esprime il termine humanitas è stato prevalentemente
espresso nel linguaggio giuridico tecnico attraverso il termine di ae-
quitas. Il rapporto strettissimo fra aequitas e humanitas è documen-
tato in ogni epoca giuridica 63. Normalmente il riferimento è all’ae-
quitas. A volte appare di preferenza humanitas.
Questo accade soprattutto quando si preferisce ricorrere a un
termine più direttamente e chiaramente suggestivo non solo del
principio giuridico, ma anche della ragione e delle ragioni che lo giu-
stificano e dei criteri che lo identificano e lo connotano.

Si possono ricordare alcuni esempi recenti.


– La formulazione della fattispecie di crimine contro l’umanità,
avvenuta in occasione del termine della seconda guerra mondiale ed
in funzione del processo di Norimberga. Si tratta di
«assassini, stermini, riduzioni in schiavitù, deportazione e ogni altro atto inu-
mano perpetrato contro le popolazioni civili, prima o durante la guerra; per-
secuzioni per motivi politici, razziali e religiosi, sia che questi atti o persecu-

60
Cf R. SPRANDEL, Ivo von Chartres und seine Stellung in der Kirchengeschichte, Stuttgart 1962, pp. 9-31;
soprattutto pp. 24-28. Cf pure P. VON MOOS, Hildebert de Lavardin (1056-1133). Humanitas an der
Schwelle des höfischen Zeitalters, Stuttgart 1965, soprattutto pp. 148-149; 276-277.
61
Cf, per esempio, G.P. MONTINI, I primi passi della scienza canonica. VII. Ivo di Chartres, in Quaderni
di diritto ecclesiale 4 (1991) 122.
62
Cf, per esempio, ibid., p. 126; ID, I primi passi della scienza canonica. VIII. Algero di Liegi, in ibid.,
pp. 280-282.
63
Cf, a solo titolo esemplificativo, F. CALASSO, Medio Evo del diritto I. Le fonti, Milano 1954, pp.
333.480; O. ROBLEDA, Perché il mondo latino..., passim.
472 G. Paolo Montini

zioni abbiano costituito oppure no violazione del diritto interno dello Stato in
cui sono stati perpetrati» 64.

È qui l’umanità diretto criterio di giustizia, a prescindere dal di-


ritto (chiamato così “interno”) del singolo Stato.
– Il richiamo all’umanità nell’art. 27, 3° comma, della Costitu-
zione italiana: «Le pene non possono consistere in trattamenti con-
trari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del con-
dannato».
Tale richiamo è stato ritenuto dalla dottrina e dalla giurispru-
denza centrale in tutta l’interpretazione dell’articolo, così da giustifi-
care, in base a esso, non solo la proibizione della pena di morte (art.
27, 4° comma), ma pure di pene (veramente) perpetue (e pertanto
senza riferimento proprio alla rieducazione del condannato: art. 27,
3° comma) 65. Con esso la Costituzione avrebbe voluto evitare l’impo-
sizione di «condizioni afflittive della dignità dell’uomo» 66.
– Si ispira anche alla tutela dei fondamentali doveri di umanità,
per fare un altro esempio, l’istituto dell’autorizzazione agli acquisti

64
Art. 6 c dell’Accordo di Londra (8 agosto 1945), citato in N. RONZITTI, Genocidio, in Enciclopedia del
diritto XVIII, Milano 1969, p. 574 (la traduzione, così come il corsivo, è nostra). Cf pure Un débat au-
tour de la notion de crime contre l’humanité, in Revue d’éthique et de théologie morale “Le Supplément”
193 (1995) 129-148; 194 (1995) 155-179.
65
Sotto questa prospettiva si è contestata la pena dell’ergastolo: la II sezione della Cassazione penale
(18 gennaio 1993) ha però ritenuto che tale pena, «nella concreta realtà, a seguito della legge 25 no-
vembre 1962, n. 1634 e dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, ha cessato di essere una
pena perpetua (e pertanto non può dirsi contraria al senso di umanità od ostativa alla rieducazione del
condannato), e non soltanto per la possibilità della grazia, ma per la possibilità di un reinserimento in-
condizionato del condannato stesso nella società libera» (in Cassazione penale 34 [1994] 2698; cf, prima,
Corte Costituzionale, sentenza n. 264 del 1974).
Una considerazione identica ha avuto la contestazione della legittimità costituzionale della pena accesso-
ria della interdizione perpetua dai pubblici uffici. Tale pena, secondo la sezione I della Cassazione penale
(21 marzo 1980), non sarebbe «in contrasto con il principio secondo cui le pene non devono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità, ma devono tendere alla rieducazione del condannato», poi-
ché «la predetta pena accessoria può efficacemente contribuire proprio all’emenda del condannato ed al
suo reinserimento nel consorzio civile, inducendo a mantenere la buona condotta richiesta per l’applica-
zione della riabilitazione che estingue le pene accessorie» (in Giustizia penale 52 [1981] II, 164).
Sulla umanità dell’isolamento diurno del condannato all’ergastolo, si è espressa la sezione I della Cas-
sazione penale (8 aprile 1991) sia «per i limiti e le modalità attuali della sua applicazione», sia «per la
funzione cui adempie», essendo «la dissuasione, la prevenzione e la difesa sociale [...] alla pari dell’e-
menda, alla radice» della pena (cf Cassazione penale 33 [1993] 69).
Una maggiore considerazione ha avuto la contestazione della possibilità di irrogare la pena dell’ergasto-
lo ai minori: la Corte Costituzionale (6 aprile 1993, n. 140), pur riconoscendo che «tale previsione nella
realtà giudiziaria assume un significato più teorico che effettivo», ritiene di non avere gli strumenti per
intervenire, in quanto «una sentenza caducatoria sarebbe inadeguata»; occorrerebbe pertanto «un inter-
vento normativo selettivo» sulle norme processuali (cf Giurisprudenza costituzionale 38 [1993] 1105).
66
Cf sezione IV della Cassazione penale, 15 novembre 1979, in Cassazione penale 31 (1981) 1382, in
cui si ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art.
27 cost., della sospensione della patente di guida [!].
Il diritto canonico dalla A alla Z 473

per gli enti morali. Esso è volto a «impedire che i testatori [...] com-
piano inconsiderate ed ingiustificate elargizioni in danno di congiun-
ti in condizioni di indigenza» 67.

– Un’estensione recente del contenuto del principio di umanità


si è avuto attraverso una nuova sensibilità nei confronti del mondo
animale. Un pretore ha ritenuto offeso «il comune senso di pietà ed
umanità verso gli animali» nel caso in cui una «manifestazione di ti-
ro al piccione [...] si svolga in un campo esposto alla vista di chiun-
que si trovi a passare sulle adiacenti vie pubbliche o di chi si affacci
dalle case soprastanti il campo stesso» 68.

Conclusione
Dal percorso svolto possono essere dedotte e provate, a mo’ di
tesi, le seguenti affermazioni.

– Il principio di umanità opera nel diritto sia come principio co-


stituito nelle norme sia come principio che opera sulle norme costitui-
te, nella loro interpretazione, applicazione ed estensione.
E ciò in quanto la natura (e la dignità) dell’uomo appartengono
alla stessa definizione di diritto.
«Il diritto infatti ha la sua ragione di essere nell’uomo e per l’uo-
mo in quanto tale» 69.

– Ogni progresso autentico nella conoscenza dell’umanità è un


progresso nel diritto.
Recentemente se ne è avuta conferma nell’affermazione dei di-
ritti fondamentali dell’uomo.

– La fragilità, la frammentarietà, la storicità e il divenire dell’uo-


mo; la coesistenza e la socialità dell’uomo; la dignità umana naturale,
spirituale e soprannaturale dell’uomo sono i parametri di leggi giuste,
dell’interpretazione giusta delle leggi e della giusta evoluzione delle leggi.

67
T.A.R. Sicilia, sezione di Catania, 21 aprile 1982, n. 382, in Tribunali Amministrativi Regionali 8
(1982) I, 2268.
68
Cf Pretura di San Remo 27 aprile 1979, in Il nuovo diritto 58 (1981) 665.
69
«Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit...»: frammento di Ermogeniano (D. 1.5.2), in
O. ROBLEDA, Perché il mondo latino..., cit., p. 125, nota 70.
474 G. Paolo Montini

Il richiamo all’humanitas non può avvenire se non consideran-


do integralmente la natura dell’uomo, fondandosi su una corretta an-
tropologia filosofica e teologica 70.

– E tutto questo risulta normativo per la stessa Chiesa, esperta in


umanità 71, e per il suo diritto.
Basti qui ricordare, a conclusione, un passaggio di un aureo e
ispirato libretto del cardinale André Jullien:
«Scienza giuridica e prassi giudiziaria, entrambe necessarie, non bastano a
ottenere un giudizio equo: si richiede ancora una profonda ed estesa cultura
cristiana, perché il giudice deve giudicare umanamente – non nel senso er-
rato di un così detto sentimentalismo umanitario che, di fronte alla debolez-
za del reo, sarebbe una debolezza peggiore, perché fondato sul presupposto
di una legge disumana – umanamente, cioè secondo le esigenze della natura
dell’uomo, creato a immagine di Dio, ragionevole e libero, capace di gover-
narsi e, dunque, responsabile dei propri atti e del proprio destino [...] Non si
giudica umanamente coll’automatismo o metodo meccanico [...] Neppure
giudica umanamente uno spirito meramente speculativo e sistematico, che
applica i principi colla stessa misura e uniformità di conseguenze, senza av-
vedersi della sinuosità della realtà umana [...] Il giudice è un uomo, che
applica a un uomo determinato una legge fatta per gli uomini» 72.

G. PAOLO MONTINI
Via Bollani, 20
25123 Brescia

70
È soprattutto nelle Allocuzioni alla Romana Rota che il Romano Pontefice mette in guardia da una
falsa applicazione di un cosiddetto “principio umanitario”, ambiguo e indefinito, dall’intento di una non
meglio precisata “umanizzazione” della Legge canonica (cf GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione, 29 gennaio
1993, in AAS 85 [1993] 1259). «Tale distorsione consiste nell’attribuire portata ed intenti pastorali uni-
camente a quegli aspetti di moderazione e di umanità che sono immediatamente collegabili con l’ae-
quitas canonica; ritenere cioè che solo le eccezioni alle leggi [...] abbiano rilevanza pastorale. Si dimen-
tica così che anche la giustizia e lo stretto diritto [...] sono richiesti nella Chiesa per il bene delle anime
e sono pertanto realtà intrinsecamente pastorali» (ID., Allocuzione, 18 gennaio 1990, in ibid., 82 [1990]
873; cf pure ID., Allocuzione, 28 gennaio 1994, in ibid., 86 [1994] 950-951).
71
L’espressione, usata da Paolo VI il 4 ottobre 1965 nel discorso all’ONU («C’est comme “expert en hu-
manité” que Nous apportons à cette Organisation...»), ebbe poi notevole successo nei documenti pontifi-
ci successivi: cf, per esempio, l’enciclica Populorum Progressio (26 marzo 1967) al n. 13: «Christi Eccle-
sia, iam rerum humanarum peritissima».
72
A. JULLIEN, Cultura cristiana nella luce di Roma per giudicare umanamente. Quia Christi sum, huma-
num nihil a me alienum puto, Roma 1956, pp. 11-13.
Il diritto canonico dalla A alla Z 475

Appendice

Concilio di Ankara
anno 314
can. 4

Prisca Isidori Isidori Dionysiana I Dionysiana II


antiqua vulgata
PL 56,751 Turner, 68 Turner, 68 Turner, 69 PL 67,153

Episcopi Episcopos Episcopum Penes Penes


autem habere autem habere autem hinc Episcopos Episcopos
potestatem, potestatem habere autem autem
mores conuersionis licentiam erit potestas, erit potestas,
conversionis eorum oportet, ut modum modum
eorum librare perspecta conuersionis conuersionis
probantes, propositum, singulorum eorum eorum
conuersatione probantes probantes
normam
regulamque
conuersationis
adtribuat;
et aut id est aut vel vel
humaniter humanitate humanius humanius humanius
erga eos erga eos
[agere] praevenire agens agere agere
secundum
uitae modum
tempus alicui
breuiare
aut aut aut etiam uel uel
amplius tempus prolixius quod prolixiora amplius
prolixius correctioni correctionis
necessarium
addere uiderit tempora tempus
tempus: addere: addere. protelare: addicere:
[obiens]
autem et ante omnia discutiatur ante omnia ante omnia
ut autem omnium vero vero
vita qui praecedens horum et praecedens praecedens
antecedit et eorum uita praecedens eorum vita eorum vita
qui sequitur et posterior uita et et posterior et posterior
probatur, discutiatur, posterior, inquiratur, inquiratur,
et sic atque ita et ita et ita eis et ita eis
circa eos
sacerdotalis
inpertiatur impertiatur
humanitas humanitas humanitas humanitas. humanitas.
superadnum moderetur. moderetur.
retur.
476 G. Paolo Montini

Concilio di Ankara
anno 314
can. 16
Testo greco Prisca Isidori antiqua Dionysiana

Benesevic PL 56, 753 Maassen, 932 Struwe

Exetazesthô Requiratur Discutiatur Discutiatur


de autôn autem eorum vita autem et vita autem et vita
kai quae sit adhuc eorum, eorum,
o en tê upoptôsei subjacentibus, quae fuerit tempore qualis extiterit
poenitentiae, tempore
bios poenitentiae,
kai outôs et sic et ita et ita
tunchanetôsan mereantur
tês hanc hanc
philanthrôpias. humanitatem; humanitatem misericordiam
consequantur. consequantur.
Ei de tines si autem Quodsi qui Quod si
katakopôs incessanter ad perseverantius perseverantius
en tois peccandum abusi sunt hoc abusi sunt
amartêmasi perseveraverint, crimine, crimine,
gegonasi,
ad agendam
paenitentiam
tempore
tên makran longam prolixius prolixiore
habeant tempus habeant
upoptôsin poenitentiam.
echetôsan. summissioni. succumbant.
Il diritto canonico dalla A alla Z 477

Concilio di Ankara
anno 314
can. 21

Testo greco Prisca Isidori antiqua Dionysiana

Benesevic PL 56, 754 Maassen, 933 Struwe

O men proteros Primum Antiqua quidem Antiqua quidem


oros constitutum definitio definitio
mechris exodou usque ad exitum usque ad exitum usque ad exitum
vitae eas ab ecclesia vitae eas ab ecclesia
ekôluse, vetuit; removet; removet.
et hoc definito
philanthrôpoteron humaniore humanius Humanius
de ti eurontes aliquid autem autem
ôrisamen consequantur, nunc nunc
constituimus definimus, definimus,
eas ut eis ut eis
dekaetê decennio decem annorum decem annorum
chronon tempore, tempus tempus
plêrôsai paenitentiae
tribuatur
kata tous secundum secundum secundum
bathmous tous gradus qui sunt praefixos praefixos
ôrismenous. constituti. gradus. gradus
paenitentiae
tribuatur.
478 G. Paolo Montini

Concilio di Ankara
anno 314
can. 23

Testo greco Prisca Isidori antiqua Dionysiana

Benesevic PL 56, 754 Maassen, 933 Struwe

Epi akousiôn De homicidio Eos vero, qui casu, Eos qui non
phonôn, extra voluntatem non voluntate, voluntate sed
admisso homicidium casu homicidium
fecerint, fecerint,
o men proteros primum prior quidem prior quidem
oros constitutum definitio regula
en eptaetia in septem post septimum post septem
annis annum annorum
keleuei praecepit
paenitentiam
tou teleiou perfecti perfectioni communioni
metaschein dignum esse; participare sociavit
jubet
et ut fiat
kata tous secundum secundum secundum
ôrismenous gradus gradus gradus
bathmous, constitutos, constitutos, constitutos;
o de deuteros secunda vero haec vero
humanior
definitio
ton pentaetê quinquennium quinquennii quinquennii
chronon tempus tempus
censemus adtribuit.
plêrôsai. perficere. implere.
Il diritto canonico dalla A alla Z 479

Concilio di Nicea
anno 325
can. 11
Caeciliani Attici Prisca Gallica Gallo- Isidori Dionysiana
PL 56, 828 Turner 128 PL 56, 763 Turner, 212 Hispana PL 56, 396 Turner, 265
Maassen,912 PL 67,149

[...] [...] [...] [...] [...] [...] [...]


placuit placuit placuit placuit placuit placuit placuit
sancto sancto sancto
synodo, concilio, concilio synodo, synodo, concilio, synodo,
huic,
etsi licet licet etiamsi etiamsi licet quamquam
digni non indigni indigni non non indigni
essent, sint sint merentur merentur sint
humanitate humanitate, misericor- humanita- veniam, misericordia, humanitate
diae Dei, tem, probentur
indigni,
tamen tamen verumtamen tamen tamen tamen tamen
placuit aliquid
utendum subveniri miserere benigne benignitatem
in eos. eis. eis. circa eos erga eos circa eos eis
existere. humanitatis benivolen-
ostenden- ostendi. tiam
dam commodari.
ecclesiae.
Si Quotquot Quodquod Quicumque Si quis Quodquod
ergo igitur igitur igitur ex Igitur qui ergo ergo
[...]
ex corde sincere dignam animo ex animo ex animo veraciter
peniteant paenitent paenitentiam paenitentiam penitentiam paenitent paenitudi-
egerint gerunt gerunt nem gerunt
[...] [...] [...] [...] [...] [...] [...]
480 G. Paolo Montini

Concilio di Nicea
anno 325
can. 12
Caeciliani Attici Prisca Codicis Gallica Isidori Dionysiana
PL 56,828 Turner 130 PL 56,763 Ingilrami Maassen 919 PL 56, 396 Turner 266
PL 56,820 PL 67,150

[...] [...] [...] [...] [...] [...] [...]postmo-


adeo ut et postea postea cum ita ut dum vero
liceat licebit licebit liceat liceat licebit licebit
episcopo episcopo episcopo episcopo episcopo episcopo episcopo de
etiam etiam
de illis his
aliquid aliquid
humanius humanius humanitatis humanitatis humanius humanius humanius
de his auxilium auxilium aliquid circa eos
aliquid eis eis de hisdem aliquid
cogitare. cogitare. impertiri. inpertiri. cogitare. cogitare. cogitare.
Qui Qui Qui Quodquod Quicumque Si qui Quicumque
autem autem autem autem vero vero vero
indiscrete indiscrete indiscrete segnius indifferenter indifferenter indifferenter
id egerint tulerunt tulerunt egerunt tulerunt habuerunt tulerunt
lapsum suum
[...] [...] [...] [...] [...] [...] [...]

N.B. I testi sono ripresi da Cuthbertus Hamilton TURNER, Ecclesiae Occidentalis Monumenta Iuris Antiquissima
Canonum et Conciliorum Graecorum Interpretationes Latinae I-II, Oxonii 1899. 1907; Friedrich MAASSEN, Geschi-
chte der Quellen und der Literatur des canonischen Rechts im Abendlande bis zum Ausgange des Mittelalters I, Gratz
1870.
481

Hanno collaborato a questo numero:

DON GIANNI CARZANIGA


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Bergamo

DON GIANNI TREVISAN


Cancelliere della Curia diocesana di Belluno-Feltre

DON EGIDIO MIRAGOLI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Lodi

DON MAURO RIVELLA


Responsabile della sezione canonistica dell’Avvocatura arcivescovile di Torino

SILVIA RECCHI
Docente di Diritto Canonico all’Institut Catholique di Yaoundé (Cameroun)

DON PAOLO BIANCHI


Vicario giudiziale aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo

DON GIAN PAOLO MONTINI


Docente di Diritto Canonico nel Seminario diocesano di Brescia
INDICE DELL’ANNATA 1995

BEYER J. – Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata 2- 29 ottobre1994 (2) 143
BIANCHI P. – Gli statuti del Consiglio presbiterale (1) 72
– Il pastore d’anime e la nullità del matrimonio:
X. L’incapacità a consentire (can. 1095, 1° e 2°) (2) 201
XI. L’incapacità ad assumere gli obblighi essenziali
del matrimonio (can. 1095, 3°) (4) 424
BÖHLER H. – Rilevanza dottrinale dei consigli evangelici
nel Sinodo sulla vita consacrata (2) 165
BROGI M. – La normativa del Codex Canonum
Ecclesiarum Orientalium sulla vita consacrata (1) 128
CALVI M. – Norme circa la raccolta di offerte
per necessità particolari. Commenti alle delibere CEI (1) 118
CARZANIGA G. – Confessione, penitenza, riconciliazione.
Introduzione storico-teologica (4) 376
FELICIANI G. – I diritti e i doveri dei fedeli
nella codificazione postconciliare (3) 255
GROCHOLEWSKI Z. – La tutela dei diritti dei fedeli
e le composizioni stragiudiziali delle controversie (3) 273
MARCHESI M. – Il Consiglio presbiterale: gruppo di sacerdoti,
rappresentante di un presbiterio (1) 61
MIRAGOLI E. – Il confessore, giudice e medico (4) 398
MONTINI G.P. – Comunione e comunicazione
tra Consiglio presbiterale diocesano,
presbiterio diocesano e diocesi (1) 103
– Il diritto canonico dalla A alla Z.:
glossa (2) 228
humanitas (4) 450
– Modalità procedurali e processuali
per la difesa dei diritti dei fedeli. Il ricorso gerarchico.
Il ricorso alla Segnatura Apostolica (3) 287
RECCHI S. – Commento a un canone. L’abito (can. 669 § 1) (3) 345
– L’impegno a diffondere l’annuncio della salvezza (can. 211) (4) 419
– La consacrazione mediante i consigli evangelici
nel dibattito sinodale (2) 154
REDAELLI C. – Il diritto di voce attiva e passiva
nell’elezione del Consiglio presbiterale.
Il caso dei presbiteri appartenenti
alla prelatura personale Opus Dei (1) 94
– Il vescovo di fronte alle associazioni (3) 349
RIVELLA M. – Commento a un canone.
Il rapporto fra Codice di diritto canonico e diritto liturgico (can. 2) (2) 193
Indice dell’annata 1995 483

– Il confessore educatore:
l’uso delle conoscenze acquisite dalla confessione (4) 412
– Le funzioni del Consiglio presbiterale (1) 48
SARZI SARTORI G. – Presbiterio e Consiglio presbiterale
nelle fonti conciliari della disciplina canonica (1) 6
TOGNONI G. – La tutela degli interessi diffusi
nell’ordinamento canonico (3) 321
TREVISAN G. – La facoltà di confessare (4) 390
– Commento a un canone.
Le chiavi dell’Archivio di Curia (can. 487) (1) 111
VANZETTO T. – Il Sinodo sulla vita consacrata:
un’opportunità per gli istituti secolari (2) 176

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