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Davanti alle Terme di Caracalla - Giosuè carducci

Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino


le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di nevi.

A le cineree trecce alzato il velo


verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti


versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch'a più ardua sfida
levansi enormi.

"Vecchi giganti" par che insista irato


l'augure stormo "a che tentate il cielo?"
Grave per l'aure vien da Laterano
suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,


grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
nume presente.

Se ti fur cari i grandi occhi piangenti


e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da 'l reclinato
capo de i figli:

se ti fu cara su 'l Palazio eccelso


l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l'evandrio colle, e veleggiando a sera
tra 'l Campidoglio
e l'Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);

febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli


quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,


tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l'Appia via.

Analisi del Testo.

Scritta durante il soggiorno a Roma nella primavera del 1877, la lirica s'ispira ai resti imponenti delle più celebri e
lussuose Terme della Roma antica, risalenti al principio del III secolo d.C e che ancora oggi colpiscono per la
complessità e l'audacia delle loro strutture architettoniche. Ma il pregio dell'ode non consiste nell'esaltazione
retorica della Città Eterna (che è il difetto dell Ode alcaica Nell'annuale della fondazione di Roma, scritta sempre
nel 1877), bensì in una riflessione, di sapore molto attuale, sulla lontananza degli uomini d'oggi dalla grandezza
degli antichi.

Schema Metrico: Ode di 10 strofe saffiche, ogni strofa è composta da 3 endecasillabi (quinario più senario
separati dalla cesura) e da un quinario. Non vi sono rime.

Le prime cinque strofe sono dedicate ciascuna a una diversa immagine.

La I strofa inquadra un paesaggio livido, nel quale si muovono due personaggi diversissimi, la turista (II strofa) e il
pastore (V strofa): la prima curiosa del passato, il secondo totalmente indifferente. Entrambi si muovono in uno
sfondo desolato, tra solitudine e minaccia di pioggia (le nubi, la neve), sul quale irrompono i suoni sinistri dei
corvi (III strofa). essi interrogano irati i resti monumentali, mentre un suono cupo, la campana del Laterano, viene
ad accrescere l'inquietudine (IV strofa).
Le 5 strofe della seconda parte sono dominate dall'invocazione del poeta: Febbre, io qui t'invoco, nume presente.
La dea è invitata (penultima strofa) a tenere lontani gli uomini novelli dalle vestigia della Roma antica. In mezzo si
apre però una pausa, una digressione ambientata nel passato: il poeta offre una visione incantata della Roma che
fu, nei primi momenti della sua storia. Siamo in un tramonto dolce e luminoso; l'antico quirite torna sereno dal
lavoro guardando la sua città; esattamente l'opposto del gesto del pastore ciociaro. Si può concludere che Roma
non è morta (ultima strofa): dorme appoggiata tra i colli.
Il tema dell'ode è la nostalgia di un mondo di grandezza perduta. Purtroppo gli uomini di oggi non sanno più
rivivere l'orgoglioso senso della potenza di Roma antica: hanno infatti perduto il sentimento sacro del passato. Da
una parte, dunque, c'è un passato che fu glorioso; dall'altra, la meschinità degli uomini del tempo presente. Gli
ideali della Roma primitiva sopravvivono a stento nella grettezza materiale degli uomini novelli: sospinti dalla
speculazione edilizia, essi non esitano a violare la santità dei luoghi su cui ancora aleggia l'antico spirito della dea
Roma. Da qui l'invocazione alla Febbre, perché tenga lontano da tali luoghi individui tanto mediocri.
Lo stile è ricco di significative scelte formali. Per esempio nella prima strofa i verbi di movimento (corrono, move)
contrastano con lo strano dei monti, a suggellare lo sfondo solenne di una scena triste e insieme mossa. Nella
terza strofa il participio quasi onomatopeico crocidanti fa risuonare il testo di un sinistro rumore. Nei versi 26-32
della lunga pausa posta tra parentesi, spicca il linguaggio latineggiante dei termini tebro, reduce quirite, saturnio
carme, che accentua il confronto tra il passato glorioso e il presente

Parafrasi.

[Versi 1-4] Nubi cariche di pioggia corrono tra i colli Celio e Aventino; il vento soffia umido dalla pianura malsana,
per la malaria; all'orizzonte si ergono i monti albani carichi di neve.

[Versi 5-8] Con il velo verde del cappello sollevato sui capelli grigi una turista inglese cerca nella guida turistica
notizie sulle mura romane, che sembrano sfidare il tempo e minacciare il cielo

[Versi 9-12] Senza pausa, a stormi fitti, i neri corvi gracchianti si avventano come un'onda fluttuando come i due
muri che si levano imponenti a sostenere una sfida più alta.

[Versi 13-16] O vecchie mura, pare dire lo stormo di uccelli, per quale scopo continuate a sfidare il cielo? Dalla
basilica di San Giovanni in Laterano giunge per l'aria un lugubre scampanio.

[Versi 17-20] Un pastore della Ciociara, avvolto nel suo mantello, fischiando un motivo monotono e triste, passa
oltre senza guardare. O dea Febbre, a questo proposito io invoco il tuo intervento, o divinità propizia.
[Versi 21-24] Se tu febbre hai mai avuto cari gli occhi spalancati e le braccia protese delle madri, che ti
scongiurava di stare lontana, o dea, dal corpo reclinato dei loro figli sfiniti per la malattia.

[Versi 25-32] Se ti fu caro l'antico altare costruito sul punto più alto del Palatino ancora il Tevere bagnava il colle
su cui sorgeva il tempio di Evandro, e a sera il cittadino romano che tornava in barca tra il Campidoglio e
l'Aventino guardava sul Palatino la città a pianta quadrata illuminata e benvoluta dal sole, e intonava una lenta
canzone in versi saturni.

[Versi 33-36] O Febbre, ascoltami. Respingi da qui gli uomini di oggi e le loro misere cose, l'ammirazione verso
queste rovine è cosa sacra, qui dorme l'antica Roma.

[Versi 37-40] (Roma), con il capo appoggiato al venerando colle Palatino, dopo avere aperte le braccia tra il Celio
e L'Aventino, stende le forti spalle dalla porta Capena alla via Appia.

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