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di Antonino Fedele
Premessa
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di speranza, il grido di esultanza in presenza della Bellezza composta e, ad
un tempo, esaltante, tipica delle espressioni neoclassiche delle Grazie, o il
vivificante canto preromantico del carme Dei Sepolcri e la funzione
eternatrice qui espressamente affidata alla Poesia, e di quant’altro in questa
sede non mette conto richiamare.
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Le ODI
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l’ingiusta morte di Ippolito, si alzò dal suo letto nel Tirreno, percorse le
profonde vie del mare e, con un gesto onnipotente, respinse il furioso
cavallo. L’animale, impuntandosi, indietreggiò dalle onde, orribile a
vedersi, si alzò sulle zampe e, scuotendo l’arcione, ti trascinò malconcia
sulla spiaggia pietrosa.
Perisca quel villano che per primo osò mettere l’agile corpo di una donna
in balia di un infido cavallo da corsa e, con il suo consiglio, colpevolmente
aprì la strada ad un nuovo pericolo per la Bellezza! Se tutto ciò non si fosse
verificato ora non vedrei scolorito il tuo volto roseo, non vedrei i tuoi occhi
amorevoli spiare gli sguardi dei medici per cercare di carpire la speranza di
ritornare alla bellezza di prima.
Un giorno le cerve trainavano il cocchio dorato di Cinzia (Diana) ma,
nell’udire l’urlo delle fiere, per il forte spavento impazzirono e fecero
precipitare la dea dalla rupe Tarpea. Le altre dee dell’Olimpo, mal celando
un invidioso risolino, gioivano perché l’eterno viso, silenzioso e pallido, ai
conviti degli dei appariva cinto da un velo, ma piansero non poco il giorno
in cui dalle danze di Efeso tornava Diana, sorella di Febo (Apollo), lieta tra
le vergini (le ninfe oceanine) a lei consacrate e, ancor più bella, saliva al
cielo.
Come l’astro più caro a Venere (il Sole) dai capelli ancora permeati di
rugiada mattutina, provenendo dalle profondità marine appare all’orizzonte
tra le tenebre che si dileguano, e con i suoi raggi perpetui illumina la
propria traiettoria, così dal letto dove giacevi inferma, sorge il tuo corpo
divino, e in te rivive la bellezza, la dorata bellezza, unico ristoro rimasto ai
mali delle menti dei mortali nati per perdersi dietro la vanità.
Vedo la rosa che fiorisce sul caro viso, i tuoi occhi che insidiosi tornano
a sorridere e, a causa tua, madri trepidanti e amanti sospettose che tornano
ai loro crucci e a vigilare attentamente; le ore che prima scorrevano tristi
nella somministrazione di farmaci, oggi, invece, ti apprestano la veste color
indaco, i monili, raffinati capolavori di famosi artigiani achei (greci), che
adornano le divinità che vi figurano effigiate, nonché le candide calzature
antiche e gli amuleti, per cui i giovani, fissando l’attenzione su di te, o Dea,
origine di sofferenze e di fiduciose attese, dimenticano le danze.
Sia quando fai da ornamento all’arpa e con la morbidezza delle tue belle
forme ricoperte, senza alcuna forzatura, da una finissima tela di lino,
mentre il tuo canto più malizioso si scioglie tra sommessi desideri ardenti,
oppure quando, ballando, esegui puntualmente delle precise coreografie e,
mentre il tuo agile corpo volteggia nell’aria, dal mantello e dal velo
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distrattamente scomposto sul tuo seno si manifestano fascinose movenze
mai conosciute prima; mentre ti muovi, lentamente vengono giù le
splendide trecce trapunte di recente ambrosia non adeguatamente trattenute
dal fermaglio d’oro e dalla corona di rose di cui ora, riacquistata la salute,
la primavera ti fa dono.
Così come le ore a venire, quasi fossero le ancelle di Amore, invidiate
volano intorno a te, le Grazie osservino spiacenti chi ti rammenta la
bellezza che fugge via e l’ora della morte. Mentre la casta Diana,
cacciatrice mortale alla guida di un gruppo di vergini ninfe oceanine, si
spostava lungo le pendici del Parnaso, il sonoro scoccare dell’arco cidonio
(costruito a Cidonia, nell’isola di Creta) da lontano terrorizzava i cervi. I
figli di Olimpia ne cantarono e ne diffusero la fama; i suoi devoti la
chiamarono Dea e le dedicarono un trono nel cielo Elisio, per sede le
assegnarono i monti, e le riconobbero la capacità di maneggiare le frecce
infallibili e il carro della luna (di Selene) in cielo. Sul canoro Elicona si
trovano altari sui quali venivano offerti sacrifici a Bellona, un tempo
invincibile amazzone; ora la stessa Bellona prepara l’elmo, lo scudo, le
cavalle (le armate militari) e l’irrefrenabile entusiasmo contro l’ingorda
Inghilterra.
E colei, di cui ti vedo cingere devotamente con il sacro mirto la statua di
marmo, che per i tuoi intimi Lari fece da guida, mentre la sola sacerdotessa
a me sembri tu, fu regina e regnò felicemente su Creta, su Cipro, dove la
primavera fa continuo sfoggio di profumi, e su quelle isole che, con i loro
crinali ricoperti di selve, rallentano il soffiare dei venti di scirocco e
delimitano la superficie del mare Jonio.
Io nacqui in quel mare (isola di Zante, 1778); da quelle parti erra nudo lo
spirito della fanciulla (Saffo, innamorata suicida perché non corrisposta) di
Faone e quando, di notte, sulle onde del mare, mite e leggero spira lo
zefiro, i litorali riecheggiano il lamento di una lira, per cui io, tutto
compreso dalla sacralità dello scenario natio, trasporto per te sulla cetra
italica la gradevole solennità delle note eolie e tra le mie composizioni
avrai gli auspici delle nipoti lombarde.
I SONETTI
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preoccupante oscurità, tu giungi ardentemente desiderata e con gradevole
dolcezza accarezzi le riposte vie del mio cuore. Tu mi fai vagare con i miei
pensieri lungo i sentieri che conducono alla morte (al «nulla eterno»), e
intanto questi anni infelici volano via portandosi dietro la gran quantità di
preoccupazioni a causa delle quali essi lentamente si consumano insieme
alla mia persona: e mentre io mi beo nella tua pace, la vivacità del mio
spirito combattivo si acquieta.
Non sono più quello d’un tempo, perché su gran parte di me non posso
più contare, ma ciò che mi è rimasto è soltanto struggimento profondo e
lacrime. Il mirto, simbolo della poesia amorosa, si è inaridito e l’alloro,
simbolo della gloria poetica, cui da giovane avevo rivolto le mie
aspirazioni, ha le fronde in pauroso disordine: da quando il colpevole abuso
della libertà e la vita militare mi hanno rivestito del loro manto di sangue,
la mia mente è diventata inetta e il cuore in subbuglio, mentre le mie abilità
e ciò che costituisce motivo di lode si sono mutati in ingordigia di denaro.
Seppure dovessi decidere di darmi la morte, un ardente e intenso desiderio
di gloria nonché il profondo affetto di figlio si frappongono alla fierezza
della mia ragione. Sono talmente schiavo di me stesso, d’altri e del mio
destino che, pur essendo consapevole di ciò che è il bene, rivolgo tutto il
mio interesse a ciò che c’è di negativo, per cui, anziché suicidarmi,
preferisco limitarmi ad invocare la morte.
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svilendo, per cui, più che della maestosità che ti distingue, il vincitore
sembra menar vanto del tuo imbarbarimento.
Per non sentire l’enorme disagio della mia mancanza di libertà, vivo di
lacrime, di speranza, d’amore e di silenzio, giacché se parlo con lei, o su di
lei ragiono e scrivo, provo una profonda commiserazione [di me stesso] che
mi tiene a freno. Soltanto tu, solitario ruscelletto, sei disposto ad
ascoltarmi; ogni notte l’amore mi conduce a te. Qui do sfogo al mio dolore
e passo in dettagliata rassegna le mie atroci sofferenze; qui rovescio
l’impetuosa copia dei miei tormenti ed espongo come i begli occhioni
ridenti, quasi fossero un raggio di fuoco perpetuo, colpirono il mio cuore e
come la sua bocca di rosa, i suoi splendidi capelli profumati, il candore
della sua pelle e il suo gradevole accento finirono per insegnarmi a
piangere d’amore.
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tempo, le vicende dolorose, queste rocce erte e scoscese, che io ho
attraversato aspirando [alla libertà], e le tetre boscaglie sempreverdi, dove
io dormo come un animale selvaggio, sarebbero stati di sollievo per il mio
cuore sanguinante. Ahi, speranza vana! L’amore onnipotente ed immortale
mi seguirà tra le ombre dei trapassati.
Arno, tu che, dividendo in due parti la città che tuttora conserva il nome
da far risalire all’antica lingua latina ormai scomparsa (Florentia =
Firenze), sarai resa immortale dalla poesia. L’impeto delle lotte tra guelfi e
ghibellini dai tuoi ponti versavano sangue nelle tue acque agitate per lo
spavento proprio nel luogo in cui accennando col dito si può mostrare al
forestiero la casa dell’altero poeta-vate (Dante). Ben nota riva, per me tanto
cara e felice, lungo la quale spesso leggiadramente passeggiava colei che
con il suo divino portamento rivolgeva i suoi occhi beati verso di me,
mentre io, inteneriti, li sentivo spargere intorno un gradevolissimo effluvio
d’ambrosia fluente dai suoi biondi capelli.
Ormai non toccherò più la terra sacra dove, ancora giovanetto, ho abitato
(fino all’età di 10 anni), Zacinto (ora Zante) mia, che ti specchi nel mare
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della Grecia da cui è nata la casta Venere la quale con la sua primigenia
bellezza rendeva fertili quelle isole; per questo i tuoi limpidi cieli e le tue
selve lussureggianti sono ricordati nel famoso poema (Odissea) di colui
(Omero) che ha cantato il funesto mare e il lungo vagare lontano dalla
patria al cui termine Ulisse, ben noto per la fama e le avversità, ha potuto
tornare nella sua sassosa Itaca. Mia terra materna, tu altro non avrai che la
poesia dal tuo figliolo al quale il destino ha riservato una sepoltura dove
nessuno possa recarsi a piangere la sua morte.
Cosa fai? Già il secolo (XIX) sta per lasciare l’ultima traccia di sé e,
quando le leggi del tempo vengono infrante, esso precipita portando seco
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ben quattro lustri (20 anni) della [tua] vita destinati a [essere cacciati] nella
fredda e totale dimenticanza. Ché, se i peccati di gioventù, gli impeti
improvvisi dell’animo e l’angoscia sono vivere, tu hai vissuto fin troppo.
Ora cerca di vivere meglio e a coloro che ti diranno che sei diventato
antiquato lascia come esempio il frutto di particolari e faticosi impegni
culturali. Figlio infelice, amante disperato, apolide, irritante con tutti e con
te stesso, ancora in giovane età, ma con la fronte piena di profonde rughe,
cosa fai? La vita è breve, ed il tempo necessario per apprendere come
viverla è molto lungo. Coloro ai quali non è concesso compiere azioni di
altissimo livello tentino almeno di scrivere in piena libertà.