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Dante Alighieri, Purgatorio, Canto XXVII. Analisi del Canto XXVII del Purgatorio (collocazione nel percorso purgatoriale, personaggi incontrati e il loro significato, riassunto del Canto, scelta di alcune terzine significative con analisi e commento puntuale, temi e approfondimento con lettura critica di Remo Fasani)
Dante Alighieri, Purgatorio, Canto XXVII. Analisi del Canto XXVII del Purgatorio (collocazione nel percorso purgatoriale, personaggi incontrati e il loro significato, riassunto del Canto, scelta di alcune terzine significative con analisi e commento puntuale, temi e approfondimento con lettura critica di Remo Fasani)
Dante Alighieri, Purgatorio, Canto XXVII. Analisi del Canto XXVII del Purgatorio (collocazione nel percorso purgatoriale, personaggi incontrati e il loro significato, riassunto del Canto, scelta di alcune terzine significative con analisi e commento puntuale, temi e approfondimento con lettura critica di Remo Fasani)
Link utili: https://it.wikipedia.org/wiki/Purgatorio_-_Canto_ventisettesimo https://divinacommedia.weebly.com/purgatorio-canto-xxvii.html http://www.danteverona.it/download/Bragaja_Purg_XXVII.pdf Analisi: Presentazione del canto (collocazione nel percorso del Purgatorio, peccato incontrato, personaggi incontrati e loro significato per Dante e/o simbolico) e breve riassunto della vicenda: ● Collocazione nel percorso del Purgatorio e peccato incontrato ○ È la notte tra martedì 12 aprile e mercoledì 13 aprile del 1300 ○ Ancora nella VII Cornice dei lussuriosi (come nei Canti XXV e XXVI, camminano in una cortina di fiamme che fuoriesce dalla parete rocciosa del monte e avvolge tutta la Cornice, lasciando libero solo l'orlo estremo) ■ Fuoco = elemento che purifica, che toglie le colpe. In questo canto ci sono i lussuriosi ––> la tendenza alla lussuria è spenta con il fuoco. Il fuoco, però, acquista un significato più ampio ––> non è solamente punizione e purgazione, ma è anche purificazione dell’anima in tutti i sensi. Se all’inizio del purgatorio c’è la cerimonia del giunco con l’umiliazione, ora il passaggio successivo è l’attraversamento del muro di fuoco. ● Personaggi incontrati e loro significato per Dante e/o simbolico ○ Virgilio ■ Virgilio è definito da Dante suo maestro e modello (Inf., I, 85-87) ■ Oltre a ciò Virgilio aveva fama anche di essere un saggio e sapiente filosofo, il che spiega perché Dante scelga proprio lui come sua guida per i due terzi del viaggio allegorico ■ Dante si rivolge quasi sempre a Virgilio con gli appellativi maestro, duca (cioè «guida») e tra i due si crea nel corso delle prime due Cantiche un rapporto assai stretto, non solo di maestro-discepolo ma addirittura di padre-figlio ○ Stazio ■ Attraverso questo personaggio Dante svolge un ampio discorso intorno alla poesia e alla sua altissima funzione, civile e spirituale: Stazio è divenuto poeta grazie all'esempio di Virgilio, leggendo le sue opere si è dapprima pentito dei suoi peccati e in seguito convertito al Cristianesimo, quindi la poesia è stata per lui fonte di salvezza ■ Il poeta latino diventa l'ennesimo esempio dell'imperscrutabile giustizia divina, che presenta altri casi di salvezza inaspettata o scandalosa (come Catone Uticense) ○ Lia ■ Personaggio dell'Antico Testamento (Genesi, 29-30 e ss.), figlia di Labano e prima moglie del patriarca Giacobbe. Non bella ma feconda, a differenza della sorella Rachele, fu interpretata nella tradizione esegetica della Bibbia come allegoria della vita attiva in opposizione alla sorella, simbolo della vita contemplativa ■ È evidente, come si vedrà, che anche per Dante Lia è simbolo della vita attiva. Ad alcuni studiosi è sembrato esserci un legame anche tra Rachele e Beatrice, specie per il particolare dei belli occhi comune a entrambe le donne, ma è improbabile che la donna amata da Dante abbia il senso allegorico della vita contemplativa (Beatrice è allegoria della grazia santificante e della teologia) ■ Da rilevare, infine, che Dante descrive Lia come giovane e bella, mentre secondo il testo biblico essa era liippis... oculis («dagli occhi malati», Gen., XXIX, 17). Non è chiaro perché il poeta operi questa trasformazione ○ Angelo della castità ■ Ultimo angelo delle beatitudini, lieto, come serena promessa della felicità ormai vicina ■ Canta Beati mundo corde!, cioè “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Matth. 5, 8): è la sesta delle beatitudini di Matteo, che corrisponde questa volta senza alcuno sforzo al peccato della cornice. Davanti alla fiamma, questo vivo canto si leva nel tramonto con intensa bellezza, portato da una terzina di alta musicalità ■ Dà indicazioni e suggerimenti ai penitenti: bisogna attraversare la fiamma (che attraversa tutta la cornice) per raggiungere la scala aperta nella parete. Questo fuoco, pena dei lussuriosi, appare così anche figura del biblico fuoco che impediva l’accesso all’Eden. Riguardo ai consigli, egli vuol confortare, suggerendo di ascoltare le parole di felicità che si pronunciano dall’altra parte del fuoco ■ Dichiara beati i puri di cuore, prima di cancellare la settima e ultima P dalla fronte del poeta L'angelo della castità (1-15) Il sole è ormai al tramonto sul Purgatorio, mentre è l'alba a Gerusalemme, è mezzogiorno sul Gange e la Spagna è sotto la costellazione della Bilancia. Ai tre poeti appare l'angelo della castità, fuori dalla cortina di fiamme, che canta la sesta beatitudine Beati mundo corde! e invita i tre poeti ad attraversare il fuoco, poiché questa è l'unica via per lasciare la VII Cornice. L'angelo invita a non essere sordi al canto dell'angelo che sta dall'altra parte, mentre Dante a quelle parole è raggelato dal terrore. Paura ed esitazione di Dante (16-45) Dante guarda atterrito il fuoco ed è atterrito all'idea di dover attraversare le fiamme. Virgilio gli ricorda che in Purgatorio nessuna pena può causare la morte. Gli rammenta inoltre di averlo condotto sano e salvo sulla groppa di Gerione, all'Inferno, quindi come potrebbe non fare lo stesso quando è così vicino a Dio? Il fuoco non può nuocergli e se Dante non crede alle sue parole, ne faccia lui stesso la prova avvicinando alla fiamma un lembo della sua veste. Tuttavia, Dante non si persuade ad attraversare il fuoco, così al maestro non resta che ricordargli che quelle fiamme sono l'ultimo ostacolo che lo separano da Beatrice. Dante si rianima come fece Piramo quando, ormai morente, udì il nome di Tisbe, e segue il maestro nel fuoco. Passaggio attraverso il fuoco (46-63) Il fuoco è così caldo che Dante, per rinfrescarsi, potrebbe persino gettarsi dentro del vetro incandescente; Virgilio, per confortarlo, durante il passaggio gli parla di Beatrice, dicendo che gli sembra già di vedere i suoi begli occhi al di là delle fiamme. A guidare i tre poeti è la voce di un angelo che sta dall'altra parte, seguendo la quale essi escono dalla cortina di fuoco: una volta lì, l'angelo dice Venite, benedicti Patris mei! e splende con tale fulgore che Dante non riesce a vederlo. Inizio della salita e sosta al calar della notte (64-93) I tre poeti iniziano a salire la scala che conduce al Paradiso Terrestre, scavata entro la roccia e rivolta verso oriente, così che Dante si accorge di proiettare la propria ombra davanti a sé mentre sale. Essi hanno il tempo di percorrere pochi gradini prima che il sole tramonti del tutto. A questo punto ciascuno di loro si sdraia su un gradino, poiché la legge della salita gli ha tolto ogni forza per procedere ancora più in alto. Dante paragona se stesso a una capra che durante il giorno ha pascolato libera sulle montagne e in seguito rumina placida all'ombra, mentre il sole picchia, sorvegliata dal pastore, e le sue due guide al mandriano che di notte sorveglia le sue bestie e le protegge dalle fiere selvagge. Dante, alla fine, vinto dalla stanchezza, si addormenta. Il sogno di Dante: Lia (94-114) Nell'ora in cui sul Purgatorio appare la stella di Venere mattutina, quindi in prossimità dell'alba quando i sogni sono veritieri, Dante sogna una donna giovane e bella che vaga in una pianura, intenta a cantare e a cogliere fiori: essa dichiara di chiamarsi Lia e di voler produrre per sé una ghirlanda. La giovane aggiunge che è sua intenzione farsi bella per ammirarsi allo specchio, mentre sua sorella Rachele non si stanca mai di guardare la propria immagine riflessa e sta tutto il giorno seduta. La sorella, dice Lia, è desiderosa di ammirare i propri begli occhi quanto lo è lei di operare. La luce dell'alba fa svegliare Dante, che si alza e vede che Virgilio e Stazio sono già in piedi. Salita al Paradiso Terrestre e discorso di Virgilio (115-142) Virgilio si rivolge a Dante e gli dice che oggi potrà ottenere la felicità terrena. Le parole del maestro riempiono Dante di gioia e volontà, quindi percorre gli ultimi gradini della scala dietro agli altri due quasi correndo, come se volasse verso l'alto. Quando i tre sono giunti alla fine della scala, Virgilio si rivolge nuovamente al discepolo e con tono solenne gli spiega di avergli ormai mostrato sia le pene eterne dei dannati sia quelle temporanee dei penitenti, e di averlo condotto in un punto da dove lui, con le sue sole forze, non può vedere oltre. Virgilio lo ha portato fin lì con ingegno e con arte, per cui Dante può ormai seguire il proprio piacere: egli è fuori dalle strette vie della redenzione e vede di fronte a sé il sole che gli brilla in fronte, vede l'erba, i fiori e le piante del giardino dell'Eden che la terra produce spontaneamente. Il maestro invita Dante ad entrare liberamente nel Paradiso Terrestre, nell'attesa dell'arrivo di Beatrice che lo aveva spinto a soccorrerlo: Dante non deve più attendere le sue indicazioni, poiché il suo arbitrio è finalmente sano e sarebbe un errore non affidarsi ad esso, quindi Virgilio lo incorona come signore di se stesso. Scelta di alcune terzine significative (12/47) da analizzare puntualmente e commentare (temi, lessico, stile, figure retoriche, personaggi incontrati…): Incitamento di Virgilio (vv. 34-45 = 4 terzine) Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: «Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro». 36
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che ‘l gelso diventò vermiglio; 39
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla. 42
Ond’ei crollò la fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise come al fanciul si fa ch’è vinto al pome. 45 Parafrasi: Quando mi vide continuare a stare fermo e ostinato, un poco turbato disse: “Vedi, figlio mio: questo muro ti separa da Beatrice”. Come al sentire il nome di Tisbe Piramo aprì gli occhi in punti di morte, e la guardò, quella volta che il gelso diventò rosso (di sangue); così, ammorbidita la mia durezza, mi rivolsi verso la mia saggia guida, sentendo pronunciare quel nome che sempre fiorisce tra i miei pensieri. Allora egli tentennò il capo, e disse: “Come! Vogliamo dunque restarcene di qua?”; poi sorrise, come si fa con un bambino che cede all’offerta di un frutto. Figure retoriche: - vv. 37-39 e v. 45: similitudine - v. 37: metonimia (ciglio per occhi) Temi: - Il grande mito dell’amore umano, che la favola di Piramo e Tisbe raffigurava nel modo più alto e commovente, interviene qui, con forza e dolcezza, a significare l’improvviso mutarsi, il cedere dell’animo di Dante. La storia è in Ovidio, Met. IV 55-166: Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi, contrastati nel loro amore dalle rispettive famiglie, decisero di fuggire insieme e si dettero appuntamento presso un gelso fuori città; ma Tisbe, giunta per prima, fu messa in fuga da una leonessa, e lasciò cadere il velo che la belva lacerò e macchiò col suo muso insanguinato. A quella vista Piramo, sopraggiunto poco dopo, credette Tisbe morta e si uccise con la propria spada. Tisbe, tornata presso il gelso, lo vide a terra e lo chiamò piangendo, scongiurandolo di aprire gli occhi e guardarla, e ripetendo il proprio nome: “È la tua carissima Tisbe che ti chiama” (ibid. 143-4). A quel nome Piramo aprì gli occhi già gravati dalla morte, la vide e la riconobbe: “Al nome di Tisbe Piramo levò gli occhi su cui già gravava la morte, e come l’ebbe vista li richiuse” (ibid. 145-6). Tisbe, vistolo ormai morto, si uccise a sua volta accanto a lui. Il sangue di Piramo bagnò le radici dell’albero, e da quel giorno i frutti del gelso si mutarono di bianchi in vermigli. - La paura di Dante è quella del personaggio umano, con le sue debolezze e fragilità, per vincere le quali sarà necessario ricordargli che, se vuole rivedere Beatrice che lo attende dall'altra parte, deve buttarsi nel fuoco. Il richiamo a Beatrice significa anche che per completare il percorso di redenzione e conquistare la felicità terrena rappresentata dall'Eden è indispensabile l'intervento della grazia, che è raffigurata da Beatrice e a cui Dante è guidato da Virgilio-ragione. Tramonto e sogno di Dante (vv. 100-108 = 3 terzine) «Sappia qualunque il mio nome dimanda ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda. 102
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga dal suo miraglio, e siede tutto giorno. 105
Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’io de l’addornarmi con le mani; lei lo vedere, e me l’ovrare appaga». 108 Parafrasi: “Chiunque domanda il mio nome, sappia che io sono Lia, e sto muovendo le mie belle mani per farmi una ghirlanda. Mi adorno così per piacermi allo specchio; mentre mia sorella Rachele non si distoglie mai dallo specchio, e vi siede davanti tutto il giorno. Ella è desiderosa di contemplare i suoi begli occhi, come io lo sono di adornarmi con le mie mani; lei è appagata dal guardare, io dall’operare”. Figure retoriche: - v. 108: parallelismo (A soggetto - B verbo sostantivato - A soggetto - B verbo sostantivato) Temi: - Sogno = in età medievale è importante ––> nei sogni ci sono sia profezie sia significati. Nel sogno vede una bella donna, una donna che va per la campagna, canta e raccoglie i fiori, ella si presenta come Lia. - Si narra nella Bibbia che Giacobbe servì Labano per sette anni per averne in moglie la figlia Lia; ed altri sette per ottenerne la sorella Rachele (Gen. 29, 16 sgg.). La prima non era bella, ma feconda; la seconda bellissima ma sterile. L’esegesi tradizionale vedeva nelle due mogli il simbolo delle due vite, attiva e contemplativa, proprie dell’uomo (Giacobbe rappresenta infatti tutta l’umanità); delle due vite Dante ragiona in Conv. IV, XVII 9 sgg.: “Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano: l’una è la vita attiva, e l’altra la contemplativa…”. La vita attiva giunge a Dio per via mediata, dirigendo la propria attenzione - d’intelletto e d’amore - alle attività di questo mondo; l’altra tende direttamente a Dio, sempre con intelletto e amore, attraverso la contemplazione. - Lo specchio rappresenta la stessa anima dell’uomo, il miglior luogo, secondo Riccardo di San Vittore, dove la creatura razionale può vedere Dio: “L’anima razionale trova senza alcun dubbio in se stessa in precipuo e principale specchio per vedere Dio” (Benjamin Maior, PL 196, col. 51). L’opera di Riccardo (grande teologo e mistico del XII secolo), familiare a Dante e citata nell’Epistola a Cangrande, si riallaccia al pensiero centrale di Agostino, che fa dell’anima umana il luogo privilegiato della presenza del divino. Quest’idea, sempre presente nel pensiero dantesco, è all’origine di tutta la figurazione di Rachele nei versi seguenti. Salita all’Eden e congedo di Virgilio (vv. 127-142 = 5 terzine) e disse: «Il temporal foco e l’etterno veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte dov’io per me più oltre non discerno. 129
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce; fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. 132
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli che qui la terra sol da sé produce. 135
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli. 138
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio». 142
Parafrasi: e disse: “Figlio mio, hai visto il fuoco limitato nel tempo (il purgatorio) e quello eterno (l’inferno); e sei ora giunto in un luogo dove io, con le mie forze, non posso vedere più oltre. Ti ho portato fin qui con il mio ingegno e con la mia abilità; prendi adesso per guida la tua volontà; sei fuori ormai dalle vie ripide e strette. Guarda il sole che risplende sulla tua fronte; guarda l’erba, i fiori, i cespugli che qui la terra produce spontaneamente. Fino a quando arriveranno lieti i begli occhi che, lacrimando, mi fecero venire da te, puoi sedere, e puoi camminare fra queste piante. Non attendere più le mie parole né il mio cenno di assenso; il tuo arbitrio è ora libero, rettamente indirizzato e puro, e sarebbe un errore non assecondarlo; per cui io t’incorono re di te stesso”. Figure retoriche: - al v. 130 arte è sostantivo, mentre al v. 132 è aggettivo («strette», riferito a vie): è una rima equivoca. - v. 132: allitterazione del suono r e t (per dare idea della ripidità) - v. 138: chiasmo (A verbo all’infinito - B verbo al presente - B verbo al presente - A verbo all’infinito) - v. 142: dittologia sinonimica («ti proclamo signore di te stesso»), ma anche formula usata nel linguaggio ecclesiastico in riferimento al papa (propriamente la mitria o mitra è il copricapo a due punte indossato da vescovi e prelati nelle solennità). Temi: - La venuta di Beatrice si compendia, per Virgilio, nel ritorno di quegli occhi lucenti che egli già contemplò nel Limbo. Ora lieti per la salvezza avvenuta, allora lagrimanti per il rischio morale di Dante. La scena del Limbo, sempre via via richiamata durante il duro viaggio, si fa ora fortemente presente, quasi chiudendosi un ciclo; e anche questo è un rapido anticipo, come si vedrà, del preciso ricordo (e contrasto) che di quella scena il nuovo incontro svolgerà nei prossimi canti. - v. 140: libero dalla servitù delle passioni; dritto, non torto, nel dirigersi al bene; sano, non più malato, indebolito dall’inclinazione al male dovuto al peccato originale. I tre aggettivi esprimono, sotto diversi aspetti, la stessa condizione ora propria dell’arbitrio, cioè della libera facoltà di giudizio e scelta data all’uomo. - v. 142: t’incorono re di te stesso; corono e mitrio formano una coppia complementare (dittologia), e indicano l’incoronazione dell’imperatore, come appare, oltre che da tutto il senso del pensiero di Dante, anche da precisi riscontri storiografici. Nell’antico cerimoniale infatti il papa poneva sul capo dell’eletto prima la mitra, e sopra di essa la corona. Alcuni anche antichi interpreti avevano inteso la corona e la mitra come i segni delle due autorità, di imperatore e papa. Ma è ben chiaro che, nell’universo dantesco, alla felicità naturale del paradiso terrestre, cioè alla perfezione dell’uomo nei limiti della sua natura, presiede l’imperatore - e Dante infatti è fatto imperatore di se stesso - mentre l’autorità spirituale, propria del papa, è finalizzata alla beatitudine celeste. Virgilio dunque, nelle ultime solenni parole che rivolge a Dante, gli conferisce come un’investitura: quella signoria di sé a cui ragione e virtù conducono l’uomo, la suprema aspirazione del mondo antico che il poeta latino vede realizzarsi in colui che fu il suo discepolo. - La ragione naturale allegorizzata da Virgilio ha concluso il suo compito e da questo momento in poi deve intervenire la fede, senza la quale il viaggio non potrebbe proseguire; Dante è invitato dal maestro ad andare liberamente a esplorare il giardino dell'Eden, essendosi ormai riappropriato di quella felicità terrena che era rappresentata dal colle del Canto I dell'Inferno e la cui ascesa gli era stata preclusa dall'apparizione delle tre fiere. Da notare, infine, la forte e voluta somiglianza tra la scena del Prologo e quella che conclude questo Canto e ci prepara all'ingresso nell'Eden, poiché in entrambi i casi è l'alba e anche qui Dante ha il sole che gli brilla in fronte, a significare che la luce della grazia illumina il suo cammino e ha rischiarato le tenebre rappresentate dal peccato. Interpretazione del canto, anche avvalendosi delle letture critiche proposte: - Simmetria evidente tra Pg. XXVI-XXVII e If. XXVI-XXVII, canti del fuoco. - Canto che ritrova in sintesi molti passaggi del viaggio di Dante, a partire dalla prima nominazione di Beatrice in If. II a risolvere i dubbi del pellegrino e rimetterlo in moto; ma anche ne anticipa altri anche a breve distanza (la paura di Dante per il rischio di bruciare → il rimprovero di Beatrice in Pg. XXX per l’eccessivo attaccamento alle cose terrene). - Intreccio potente di tre valori e motivazioni della vita di Dante: l’amore (il nome di Beatrice e l’immagine dei suoi occhi che gli danno il coraggio di varcare il fuoco), la poesia (incarnata in Virgilio che per l’ultima volta lo incoraggia e sostiene, e congiunta all’amore nel mito di Piramo e Tisbe), la fede nella possibile felicità terrena dell’uomo che ritrovi la propria libertà (Lia, l’Eden ritrovato), preludio a quella celeste. - Dante-Piramo che “in su la morte” riapre gli occhi al nome di Beatrice-Tisbe, il sogno veritiero, la nuova condizione di Dante padrone di sé: tutto questo ci parla di un passaggio simbolico vecchia vita - morte - nuova vita, di un morire a se stessi e rinascere. Dante rinascendo torna fanciullo innocente (v. 45, “come a fanciul si fa ch’è vinto al pome”). - Remo Fasani, Canto XXVII, in Lectura Dantis Turicensis: Purgatorio - Virgilio annuncia a Dante il premio finale: gli verrà dato il “dolce pome”, quello che “a tutta gente niega, / per cui ciascun man piega” (Rime, 47 - canzone: Tre donne -, vv. 94-95) → immenso cammino, percorso dalle Rime al poema sacro, si può misurare da questo negarsi a questo concedersi del “pome”. - Le parole di Virgilio-padre accrescono le forze di Dante-figlio → nelle parole di Virgilio c’è il passaggio dei poteri a Dante, che può essere anche inteso come passaggio dalla civiltà pagana a quella cristiana - Picone definisce il tono “quello delle occasioni ufficiali e grandiose, il tono elogiativo del genere epidittico (= usato quando si deve tenere un elogio o il biasimo di qualcuno, o comunque si deve parlare davanti a un pubblico), quasi a tradurre l’atmosfera accademica di una iubilatio, del trapasso delle consegne dal vecchio al nuovo magister” - Utilizzate la capre e non le pecore perché mantengono la natura domestica e quella selvatica: al pascolo sono “rapide” e “proterve” (= si avventurano fin “sovra le cime”) → c’è massimo di libera attività al quale poi corrisponde nell’ora mediana un massimo di tranquillo riposo → vita attiva + vita contemplativa = perfetta unità (così come Lia e Rachele sono unite dallo specchio e come Dante nel Paradiso Terrestre può “seder” o “andar tra elli”) → “corono e mitrio” = “corono” è vita attiva (missione temporale) e “mitrio” è contemplativa (missione spirituale) → non importa che sia Virgilio a fare tale investitura: il pagano sa di lasciare Dante a una santa cristiana, Beatrice - Il Canto si chiude come un cerchio: all’inizio è detto “l’angel di Dio lieto ci apparse” e alla fine “Mentre che vegnan lieti li occhi belli”