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Il comune rustico

Paesaggio di tipo storico.


Per Carducci solo nel passato si rinviene il bello.
Egli è in perenne polemica col presente in cui vive.
Egli fa ritorno al Medioevo, in particolare alla lotta dei comuni contro l'Impero, epoca in cui l'Italia
ha scritto una gloriosa pagina di storia.
Il paesaggio è dominato dal sole, che riflette una concezione, appunto, solare della vita, chiara
energica luminosa. Carducci, deluso dai problemi del presente ricerca nel passato i grandi valori, i
grandi ideali.
Nell'atto di lasciare un paesaggio caro della Carnia, il Carducci saluta quei luoghi e rievoca le
lontane stagioni del Medioevo, quando, sotto i noci della Carnia, si adunavano gli uomini dei primi
comuni rurali e gettavano le basi dei loro ordinamenti. Il comune rustico celebra la formazione
spontanea di quei primi nuclei di vita civile (un esempio di democrazia diretta) in mezzo alla
barbarie.

O che tra faggi e abeti erma su i campi O che ... O che = sia ... sia
Smeraldini la fredda ombra si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero

Che tace, o noci de la Carnia, addio!


Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l'ombre d'un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtú

Accampata a l'opaca ampia frescura


Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
"Ecco, io parto fra voi quella foresta

D'abeti e pini ove al confin nereggia.


E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà".

Un fremito d'orgoglio empieva i petti,


Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la madre alma de' cieli.
Con la man tesa il console seguiva:

"Questo, al nome di Cristo e di Maria,


Ordino e voglio che nel popol sia".
A man levata il popol dicea, "Sí".
E le rosse giovenche di su 'l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodí.
Alla stazione in una mattina d'autunno
Uno dei componimenti che ha attirato l'attenzione della critica e in cui si avverte l'avvento di una
sensibilità decadente quasi contemporanea.
I due poli dell'ispirazione carducciana, il vitalismo radioso e il senso di tedio dell'esistenza,
appaiono tra loro in un rapporto denso. Il poeta accompagna alla stazione la donna amata, nelle
prime ore del mattino, sotto la pioggia. Mentre il treno gli rapisce il volto salutante della donna, egli
fa ritorno lentamente, smarrito quasi il senso dell'essere, immerso in un tedio infinito.
La lirica è ricca di elementi realistici, dagli sportelli sbattuti del treno al rintocco lungo dei freni.

Oh quei fanali come s'inseguono


accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su 'l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia


la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d'autunno
come un grande fantasma n'è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi


a' carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera


al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono


incappucciati di nero i vigili,
com'ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre


rintócco lungo: di fondo a l'anima
un'eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere


paion oltraggi: scherno par l'ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su' vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica


anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe 'l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l'empio mostro; con traino orribile
sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,


o stellanti occhi di pace, o candida
tra' floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid'aere,


fremea l'estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei


la molle guancia: come un'aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine


torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebro, e mi tócco,
non anch'io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,


continua, muta, greve, su l'anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,


meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

Nevicata
Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,
non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.
Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore
Gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.
Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
Spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
Giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

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