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Manzoni coro dellatto terzo (inni sacri)

Il coro nella tragedia, viene inteso da Manzoni come lo spazio in cui lautore pu
esprimere il proprio giudizio sugli eventi.
Dunque, i versi affidati al coro nellatto III dellAdelchi esprimono tra laltro le idee
di Manzoni riguardo la storia dellItalia del passato e del presente.
Il coro presenta una struttura molto forte: le singole parti sono molto unite tra loro e
ciascuna offre una descrizione dettagliata di ciascun popolo.
I primi 18 versi sono dedicati agli italici che, da oggetto di storia come sono
rappresentati, si avviavano a divenire il soggetto o comunque ad acquistare una
aurorale consapevolezza. Gli ultimi due versi introducono, attraverso il punto di
vista degli italici, i Longobardi, descritti dal verso 19 al 24, dalla cui descrizione
verranno introdotti poi i franchi, ai quali dedicato il maggior numero di versi,
scelta certo non casuale. Secondo Benedetto Croce, essa servirebbe ad esaltare i
barbari, mentre, secondo Momigliano e Russo, essi rappresenterebbero la dolorosa
epopea della guerra.
Le due strofe finali spostano il coro dalla rappresentazione della realt alla
riflessione, dove emerge lideologia del Manzoni, il quale allude ad una
similitudine tra il presente e il passato: si decidano gli italici, rappresentazione dei
suoi contemporanei, ad uscire dalla situazione di "volgo disperso" e non aspettino
laiuto degli stranieri, Franchi, rappresentazione della dominazione austriaca.

CORO
Dagli atrj muscosi, dai fori cadenti
Dai boschi, dallarse fucine
stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende lorecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi
volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce dai padri la fiera virt;
Nei guardi, nei volti confuso ed
incerto

Lascir nelle sale del tetto nato


Le donne accorate tornanti
alladdio,
A preghi e consigli che il pianto
tronc.
Han carca la fronte dei pesti
cimieri,
Han poste le selle sui
bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo son.
A torme, di terra passarono in
terra,
Cantando giulive canzoni di

Si mesce e discorda
lo spregio sofferto
Col misero orgoglio dun tempo che
fu
Saduna voglioso, si sperde
tremante;
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, savanza e rist;
E adocchia e rimira scorata e
confusa
Dei crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non
ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar:
E quivi, deposta lusata minaccia,
Le donne superbe, con pallida
faccia,
I figli pensosi pensose guatar
E sopra i fuggenti, con avido
brando,
Quai cani disciolti, correndo,
frugando,
Da ritta da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito dignoto contento,
Con lagile speme precorre
levento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il
campo,
Che ai vostri tiranni precludon
lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri
sentier:
Sospeser le gioje dei prandj festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier

guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel
cor;
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nellarme le gelide
notti,
Membrando i fidati colloquj
damor.
Gli oscuri perigli di stanze
incresciose,
Per greppi senzorma le corsa
affannose,
Il rigido impero, le fami durar;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente gli
elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a
quei forti
Sarebbe o delusi, rivolger le sorti,
Dun volgo straniero por fine al
dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
Allopere imbelli dellarse
officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vino nemico;
Col novo signore rimane lantico;
Lun popolo e laltro sul collo vi
sta.
Dividono i servi, dividon
gli armenti;
Si posano insieme sui
campi cruenti
Dun volgo disperso che nome
non ha.

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