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GLI AUTOGRAFI: i Rvf

Il codice degli abbozzi


Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3196
autografo
a. 1336-1374 data stimata
cart.
fogli di dimensioni variabili, quasi tutti sciolti e tenuti insieme da un'imbracatura
ff. 20; numerazione ottocentesca 1-20

Note generali sulla scrittura: un'unica mano, quella di Francesco Petrarca, che vi
trascrisse testi propri (con copiose varianti) e di alcuni corrispondenti.
Edizione diplomatica del Vat. lat. 3196 a cura di Angelo Romanò: Il codice degli
abbozzi [Vat. Lat. 3196] di Francesco Petrarca, Roma, Bardi Editore, 1955.

È stato pubblicato da Laura Paolino, Il codice degli abbozzi. Edizione e storia del
manoscritto Vaticano latino 3196, Milano- Napoli, Ricciardi 2000., e in ed. Mondadori
(con i Trionfi) ed. coordinata da Marco Santagata.
La facies materiale del codice degli abbozzi
Il Petrarca, in queste carte di uso privato, segna anche i tempi di
stesura o di correzione, e talvolta anche l’ora precisa in cui aveva
ripreso in mano la penna, ed il tempo intercorso dall’ultima stesura:
per tali ragioni il codice ha offerto notizie per la ricostruzione della
elaborazione dei testi nei loro insiemi (varie redazioni, o come sono
state chiamate “FORMS”, “FORME” del Canzoniere, studiate per la
prima volta da Ernest H. Wilkins e, in Italia, da Arnaldo Foresti.
Cosa contiene
Una cinquantina di liriche del Canzoniere, ma anche rime di
corrispondenti, risposte di Petrarca a loro, lacerti poetici non finiti nel
Canzoniere, stralci di epistole latine (della raccolta delle Familiares) e,
dei Trionfi, parti di quello Triumphus Cupidinis, e quello dell'Eternità.
L’ultima redazione del Canzoniere :

Il Vat. lat. 3195 è in parte


autografo: scritto dalla mano dell’autore;
In parte idiografo: scritto da un copista sotto la stretta sorveglianza dell’autore
Chi è il copista (per la parte idiografa) del
Canzoniere ?
Mai menzionato esplicitamente dal Petrarca, ma
identificato dal 1700 con Giovanni Malpaghini da
Ravenna.
Nell’autunno del 2000 usciva per i tipi della Sellerio Il
copista, romanzo di Marco Santagata (tra i più
importanti studiosi del Petrarca, curatore dell’edizione
del Canzoniere per i Meridiani Mondadori (2016, 2004).
L’identità di Giovanni Malpaghini è stata messa in
discussione da Monica Bertè con un contributo del
2015 (Giovanni Malpaghini copista di Petrarca?).
Il sonetto proemiale RVF 1
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
È il sonetto che apre il Canzoniere, ma non fu naturalmente il primo in ordine di
composizione:
La sua stesura si colloca tra il 1349 e il 1350 (sono gli anni in cui Petrarca dovette
redigere anche i sonetti 2 e 3, a cui questo componimento risulta saldamente legato). La
scelta del poeta di collocarlo all’inizio dell’opera è dunque espressione di una
temporalità ‘aggiunta’, tanto più espressiva quanto meno coincidente con la data reale
della creazione.

Voi ch’ascoltate è lirica al tempo stesso programmatica e riepilogativa: programmatica


perché, avendo la funzione di proemio, fornisce al lettore una chiave interpretativa per
l’intera opera, rivelando la ormai precisa volontà del poeta di dare una struttura organica
e unitaria alla propria raccolta; riepilogativa in quanto, attraverso la forma narrativa della
retrospezione, Petrarca ripercorre l’itinerario biografico e poetico che lo ha condotto
dall’‘errore’ giovanile della passione sensuale al pentimento e a una saggezza che egli,
nella sua insecuritas, non sente ancora come bene definitivo.
Il sonetto proemiale
Nel proemio del Canzoniere sono presenti alcuni elementi che fondano la lirica
moderna. In primo luogo l’esplicita attenzione al lettore, dischiusa dal vocativo
Voi che apre la lirica. La voce della poesia, che, raccontando una parabola di
conversione (dall’errore alla consapevolezza), ha un fine anche morale e
pedagogico, presuppone ora la presenza di un pubblico che ascolti. Ma tale
uditorio è, per la prima volta nella tradizione italiana, non un gruppo d’élite, bensì
un pubblico più largo, accomunato dalla sensibilità e dalla cultura. Al Voi del
pubblico si rivolge l’io del poeta, il quale narra la propria storia d’amore, il proprio
percorso esistenziale, che va oltre i confini di una mera esperienza personale e si
configura piuttosto come condizione collettiva: si rilegga per l’appunto l’ultimo
verso della lirica, in cui è l’intero mondo (nel suo senso multiplo, che comprende
anche quello cristiano) a subire le lusinghe delle effimere passioni sensuali.
Dunque, nel gioco del racconto e dell’ascolto, dell’io e del voi, i ruoli di chi narra e
di chi ascolta si confondono, uniti nella comune condizione di uomini divisi tra i
desideri e la volontà, tra gli errori e la ricerca di salvezza.
Il sonetto proemiale
Il Voi che Petrarca rivolge, nell’esordio, al suo pubblico ha tuttavia anche un altro fine: quello
della captatio benevolentiae, ovvero della ricerca, tutta retorica, di un consenso da parte del
lettore per un genere di opera che, per ammissione dello stesso poeta, non si presenta come
un ‘sistema’ unitario, ma è sparsa, e capovolge quindi il ‘sistema’ in una sorta di ‘antisistema’.
Anche nel terzo libro del Secretum Petrarca afferma che raccoglierà gli sparsi frammenti della
sua anima (sparsa anime fragmenta recolligam, “raccoglierò gli sparsi frammenti della mia
anima”), con riferimento chiaro alla sistemazione del Canzoniere. Tuttavia il termine sparsa
non allude solo all’aspetto formale delle liriche, bensì anche alla frammentazione spirituale
del poeta che non sa ancora raggiungere la vera e unica strada della saggezza: il verbo latino
recolligere indica l’atto del mettere insieme, della costruzione interiore. Ricomporre secondo
un preciso ordine le proprie poesie vuole dire allora anche mettere ordine tra le proprie
lacerazioni esistenziali. Tale volontà di dare un assetto organico alle voci della propria poesia
(e alla propria vita) si colloca non a caso negli anni immediatamente successivi al 1348,
quando la peste gli ha sottratto affetti e certezze, costringendolo ad una profonda riflessione
esistenziale sulla propria condizione di uomo e di letterato. Cronologicamente vicini a questo
sonetto proemiale sono del resto altri due importanti proemi, la prima lettera delle Familiari
e la prima delle Epystole metriche, che assolvono lo stesso intento sul versante della
produzione latina.
La pluralità delle fonti
Un particolare rilievo va alle fonti letterarie del
sonetto; il loro esame, egregiamente condotto da uno
dei più acuti critici petrarcheschi, Francisco Rico, ha
mostrato quanto fine sia il gioco semantico e allusivo
di Petrarca che qui riprende noti proemi di autori
classici, come Orazio, Properzio, Ovidio, a cui si
aggiungono le reminiscenze numerose della lirica
provenzale (Arnaut Daniel), di Guittone, di Dante, di
Cavalcanti, tutte assurte a conferire la conveniente
autorevolezza al componimento d’apertura.
Il testo
Schema metrico: sonetto con schema di rime
ABBA ABBA CDE CDE.
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch'i' sono

del vario stile in ch’io piango et ragiono,


fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto


favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,


e ’l pentérsi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Analisi e commento
Il sonetto è formato da due lunghi periodi: il primo, sintatticamente articolato,
coincide con le quartine; il secondo, più lineare, con le terzine. L’intera lirica è
scandita dal contrasto tra l’antico errore della passione amorosa e l’acquisizione di
una nuova saggezza, espresso dalla continua oscillazione fra presente e passato dei
tempi verbali distribuiti nel sonetto: era/sono (v. 4); veggio (v. 9)/fui (v. 10). Già al
v. 4 però è lo stesso poeta a rivelare al lettore che il processo di rinsavimento non è
del tutto compiuto, non è ancora una conquista definitiva, ricorrendo alla
locuzione in parte che lascia intendere come la caduta nell’errore e nelle lusinghe
sensuali sia ancora in agguato. La congiunzione avversativa Ma al v. 9 introduce,
con forte torsione argomentativa, alla seconda parte del sonetto, non più sedotta
dall’appassionata memoria del passato, ma dominata solo dalla consapevolezza del
presente e animata dalla volontà di un esame severo di coscienza.
Analisi e commento

La tensione concettuale del sonetto si riflette, d’altra parte, nella cura formale della
lirica. Il proemio è infatti uno dei sonetti petrarcheschi più ricchi di allitterazioni: si
veda ai vv. 1-2 sparse, suono, sospiri la cui eco si prolunga in stile, speranze, spero,
sogno; ai vv. 7-8: per prova, pietà, perdono al cui suono si riconducono anche primo,
parte, piango, popol, pentérsi, piace; al v. 10 favola fui, ripreso in frutto; al v. 13
conoscer chiaramente; e, fra il v. 5 e il v. 12: vario, vane, van, vergogno, vaneggiar,
vergogna; al v. 11, infine, (di me medesmo meco mi vergogno) il protrarsi
dell’allitterazione e il poliptoto del pronome personale (me ... meco mi) scandiscono i
vari momenti dell’io e rendono l’intimità del conflitto psicologico. Nel gioco fonico,
dunque, la complicità dei suoni rimanda a quella dei significati. Il flusso costante e
incalzante dei diversi stati emozionali è reso, nella terzina finale, dalle coordinate per
polisindeto et...vaneggiar... e ’l pentérsi, e ’l conoscer in cui l’uso del verbo all’infinito
evoca una condizione analitica ancora in atto, in continuo divenire.
Analisi e commento
1. Voi ch’ascoltate… core: in rime sparse: “in poesie composte singolarmente e diffuse
in modo autonomo” (a questa condizione delle liriche allude anche il titolo latino di
Fragmenta apposto dal poeta alla sua opera); il suono: “il tono, l’espressione, l’accento”;
di quei sospiri: “di quei lamenti, di quegli affanni” (il termine è legato in enjambement al
suono del v. 1, con cui stabilisce una suggestiva allitterazione); ond’io … core: “di cui io
alimentavo la mia anima”.
2. in sul...errore: Petrarca si riferisce ai tempi della sua prima giovinezza, quando cadde
nella deviante illusione della follia amorosa che lo allontanò dal vero bene, Dio. Il
significato di errore, legato latinamente al concetto dello ‘sviamento’, del perdere la
strada maestra, va dunque tematizzato nella sua complessità: è un errore amoroso, e
diviene lo strumento analitico di conoscenza della propria interiorità.
Analisi e commento
3. quand’era ...sono: “quando io ero, ma solo in parte, un uomo diverso (altr’uom) da
quello che sono adesso”. Il poeta, che pur vuole presentarsi come uomo maturo e rinsavito,
non è, per sua stessa ammissione, ancora completamente immune dalla passione.
L’itinerario che egli ha avviato non è dunque compiuto, ma ancora fluttuante, in via. Non
sfugga che il termine sono (v. 4) è in assonanza con il suono del v. 1.
4. del vario ... perdono: “io spero di trovare pietosa comprensione e perdono per le diverse
cadenze (del vario stile), in cui si esprime il mio doloroso discorso poetico (in ch’io piango
et ragiono) (oscillante) fra inutili speranze e vani dolori presso chi (ove sia chi) comprende
le sofferenze amorose (intenda amore) per averle provate (per prova)”. Si noti al v. 6
l’efficace anafora vane ... van.
Analisi e commento
5. Ma ben …vergogno: “ma adesso (or) mi accorgo (veggio) bene come per tutta la gente
(al popol tutto) io sia stato per molto tempo oggetto di discussione (favola fui), motivo per
il quale (onde) spesso mi vergogno di me stesso con me stesso (meco)”. Di grande forza è
l’avversativa Ma, in posizione incipitaria nonché ad apertura della seconda parte del
sonetto.
6. et ... frutto: “e la vergogna è il risultato (frutto) del mio inseguire illusioni vane
(vaneggiar)”. Si noti che il verbo riprende i precedenti aggettivi vane e van, e che è
presente la struttura retorica dell’anastrofe, ossia l’inversione del normale ordine delle
parole o dei sintagmi di una frase.
7. e ’l pentérsi ... chiaramente: “e il pentirsi e il capire chiaramente”. I due infiniti
sostantivati sono sempre retti dal precedente è ’l frutto. Attraverso l’ conoscer , il
comprendere l’illusione del mondo, il poeta avanza al tempo nella conoscenza di sé.
8. che ... sogno: “che ciò che lusinga gli esseri terreni (mondo) è solo un sogno di breve
durata, un’illusione vana” (come appunto l’amore sensuale). Il sonetto si conclude in tono
sentenzioso con una sorta di ‘massima’.
Il primo testo rivolto a Laura nei RVF (11)
Vat.lat. 3195, c.2r
Schema metrico: ballata grande di una sola
strofa, composta da endecasillabi e settenari (v.
2; v. 12), con schema XyYX ABCBAC CdDX

Lassare il velo o per sole o per ombra,


donna, non vi vid’io
poi che in me conosceste il gran desio
ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.

Mentr’io portava i be’ pensier’ celati, 5


ch’ànno la mente desiando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
ma poi ch’Amor di me vi fece accorta
fuor i biondi capelli allor velati,
et l’amoroso sguardo in sé raccolto. 10
Quel ch’i’ più desiava in voi m’è tolto:
sì mi governa il velo
che per mia morte, et al caldo et al gielo,
de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.
Analisi e commento Rvf, 11
Questa ballata risale probabilmente al periodo avignonese e la sua composizione
non dovette seguire di molto la visione di Laura e l’innamoramento di Francesco. È
infatti la lirica del “primo svelamento”, della prima rivelazione esplicita del
sentimento del poeta alla donna e del sottrarsi di Laura allo sguardo dell’amante.
Tutta la ballata è dunque giocata, con straordinaria raffinatezza, sul rapporto tra lo
“svelarsi” della passione e il “velarsi” dell’amata che, celando il proprio sguardo,
nega luce e vita al poeta. Sono le polarità luce-ombra, desiderio-morte ad
accompagnare le due fasi del mostrarsi e del celarsi dello sguardo di Laura, al centro
del componimento; le distingue simmetricamente il ma avversativo del v. 8, che
divide la lirica esattamente a metà, segnando il passaggio tra i due stati. Alla sfera
semantica dell’ombra e della morte si riconducono i termini ombra-adombra (v. 1; v.
14), gielo (v. 13) e le due coppie allitteranti mente...morta (v. 6) e mia morte (v. 13).
Non sono di minore intensità e frequenza i termini che gravitano attorno al tema del
desiderio e della passione amorosa: desio (v. 3); voglia (v. 4); desiando (v. 6); desiava
(v. 11).
Analisi e commento Rvf, 11
D’altra parte neppure la presenza di particolari figure retoriche di senso o di suono
appare casuale, ma giova alla rappresentazione più efficace di una realtà
sentimentale. Il ricorso all’iperbato nel v. 5 (Mentr’io portava i be’ pensier’ celati)
rende ora la sospensione, la tensione interiore che accompagna il tormento del
poeta; la rafforza l’ossimoro del sintagma be’ pensieri, che in realtà portano alla
morte dell’anima. L’iperbato risulta altrettanto espressivo nel verso successivo
(ch’ànno la mente desiando morta), dove è potenziato dall’uso transitivo del verbo
“morire”, usato al posto di “uccidere”, che sposta l’attenzione sul tragico effetto più
che sulla dinamica dell’azione. Di più il gerundio desiando, al centro dell’iperbato,
esprime, nella sua forma indefinita ed incompiuta, il tormentato protrarsi del
desiderio amoroso che porta alla morte dell’anima. E ancora ad un iperbato (v. 9:
fuor i biondi capelli allor velati) si ricorre per dire l’ineluttabile lontananza,
l’impossibilità di raggiungere l’oggetto dei desideri. È diversa la funzione della
sineddoche, che attraverso i capelli biondi e gli occhi evoca l’intera persona di Laura,
secondo un tópos già caro alla tradizione stilnovistica. Altrettanto espressivo il gioco
dell’allitterazione verticale, in cui tramite il suono si stabiliscono nuovi legami di
senso tra i versi: velo (v. 1), vi vidi (v. 2), voglia (v. 4), volto (v. 7), velati (v. 9), voi (v.
11), velo (v. 12), vostr’ (v. 14).
Analisi e commento Rvf, 11
1. Lassare ... sgombra: “o donna, io non vi vidi mai deporre il velo
(che cela il volto) o di giorno (o per sole) o di sera (per ombra), da
quando veniste a conoscenza di quella grande passione che è in
me, passione che allontana (sgombra) dal mio cuore ogni altro
desiderio (voglia)”.
2. Mentr’io ...morta: “fino a quando (mentr’: in senso latino) io
portavo i bei pensieri (belli sia perché evocati dalla bellezza di
Laura, sia perché ancora privi di disincanto) nascosti in me, che
hanno ucciso la ragione (la mente) con lo struggente desiderio
(desiando: alla lettera ‘desiderando’)”.
3. vidivi ... il volto: “vi vidi ornare il vostro volto di benevolenza
(pietate)”. Per comprendere in quale senso il poeta intenda il
termine pietate è utile richiamare un passaggio del Convivio (II, X,
6) di Dante: “e non è pietade quella che crede la volgare gente, cioè
dolersi dell’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si
chiama misericordia e [è] passione; ma pietade non è passione,
anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere
amore, misericordia e altre caritative passioni”.
Il valore simbolico del 6: la prima sestina
dei Rvf (canzone 22)
Vat. lat. 3195, c. 3v
A qualunque animale alberga in terra (Rvf 22)

All'interno del Canzoniere il 6 rappresenta un numero simbolico (come il 3 per la


Commedia dantesca). Per questo nel Canzoniere assume un particolare valore simbolico
la canzone sestina. La canzone 22 è la prima fra le nove del Canzoniere e presenta
molteplici motivi di interesse. La datazione è controversa: alcuni fanno risalire la lirica al
periodo avignonese, altri invece la collocano in un periodo più tardo per la presenza di
una reminiscenza del poeta latino Catullo, il cui testo Petrarca conobbe solo nel 1345.
In questi versi Laura è presentata, oltre che come esempio sommo di perfezione fisica e
spirituale, come donna vera. Petrarca prova per lei un’autentica passione, che nella sua
etica cristiana si configura come peccato. Dalla componente fisica del sentimento per
Laura nasce dunque il conflitto interiore che angoscia il poeta dilaniato fra l’attrazione per
la donna (il poeta, dopo aver ribadito il suo desiderio passionale di Laura, sogna ad occhi
aperti di poterlo soddisfare) e un’esigenza forte, ma mai totalmente compiuta, di
distaccarsi dalle passioni terrene.
La sestina è una canzone composta da 6 stanze indivisibili (non distinte in fronte e sirma) di 6
endecasillabi ciascuna, ognuna delle quali presenta, al posto della rima consueta, sei parole-rima che
tornano uguali, ma con ordine diverso, di stanza in stanza. La disposizione delle parole-rima avviene
secondo lo schema della ‘retrogradazione a croce’: ABCDEF / FAEBDC / CFDABE / ECBFAD /
DEACFB / BDFECA (vale a dire che ogni stanza ripete le parole rima della precedente secondo lo
schema numerico: 615243). Dopo le 6 stanze vi è, alla fine, una tornata o congedo composta da tre
versi, in cui si ripresentano tutte e sei le parole rima, due per verso. In questa lirica le parole-rima
sono: terra, sole, giorno, stelle, selva, alba, tutte bisillabiche: l'unica eccezione è, nel congedo,
sotterra (che comprende però la parola-rima terra). Esaminandone il significato, si nota che due
termini – terra e selva – si riferiscono allo spazio terreno, due – stelle e sole – allo spazio celeste e
due, infine, al tempo – giorno e alba –. In tutte e tre le coppie lessicali le due parole sono legate da un
rapporto metonimico in cui un elemento (selva, sole e alba) è parte dell’altro (rispettivamente terra,
stelle e giorno). Delle sei parole rima inoltre quattro (terra, selva, sole, stelle) rimandano a elementi
naturali primari, i fondamenti della cosmologia universale. In tal modo il poeta intende riprodurre
nella perfetta struttura metrica del testo la simmetria armoniosa del cosmo. Inoltre, alla potenza delle
forze astrali il poeta fa risalire l'irrefrenabile inclinazione alla passione amorosa che condiziona ogni
sua azione e pensiero. Le stelle, elemento cosmico perenne, hanno determinato con il loro influsso un
desiderio altrettanto perenne che è quasi in contraddizione con i confini corporei dell'uomo. Il
desiderio è dunque fermo ed immutabile come l'anima, proprio come se anima e desiderio, e dunque
vita e passione coincidessero.
Rvf 22: fonti e modelli
Petrarca esprime, nella perfezione metrica della sestina e nell'uso di raffinati
accorgimenti retorici, temi e motivi della tradizione lirica. È presente infatti la
memoria del genere delle ‘albe’ profane provenzali (l'innamorato desidera che la
notte duri eternamente, perché l’alba è il momento del distacco degli amanti), che
ha due espressioni significative in Arnaut Daniel e nelle più vicine ‘petrose’
dantesche. Sono poi numerose altre suggestioni che vengono al poeta dall'assidua
frequentazione dei classici volgari (ancora Dante, per il lessico o alcune strutture del
periodo) e gli autori latini. Gli amatissimi ‘notturni’ virgiliani s’intravedono al v. 4: poi
che '1 ciel accende le sue stelle (Eneide II 268-269, IV 522-527; Georgiche I 251); e
ancora Virgilio si riode al v. 8: a scuoter l'ombra intorno de la terra (cfr. Eneide IV 7:
Umentem... Aurora polo dimoverat umbram “L'aurora aveva allontanato dal cielo
l'umida ombra”); e sempre di ascendenza virgiliana sono le crudeli stelle del v. 15
(Bucoliche V 23 astra... crudelia). Nè potevano infine mancare le voci dei poeti
elegiaci che nel mondo latino cantarono le sofferenze d'amore, come Catullo (VII 7-8)
che si nasconde dietro la sensualità dei vv. 31-36 o Properzio (III 5, 3-40).
Schema metrico: sestina di sei strofe con parole-rima disposte secondo lo schema ABCDEF /
FAEBDC / CFDABE / ECBFAD / DEACFB / BDFECA. Il congedo di tre versi presenta due parole-rima
per verso (una all’interno e una in posizione finale): A-E, C-D, F-B.

vv. 1- 12
A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch'ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno;
ma poi che 'l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa et qual s'anida in selva
per aver posa almeno infin a l'alba.

Et io, da che comincia la bella alba


a scuoter l'ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non è mai triegua di sospir' col sole;
poi quand'io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, et disiando il giorno.
Rvf 22 vv, 13-24
Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m'ànno facto di sensibil terra:
et maledico il dì ch'i' vidi 'l sole,
che mi fa in vista un huom nudrito in selva.

Non credo che pascesse mai per selva


sì aspra fera, o di nocte o di giorno, 20
come costei ch'i' piango a l'ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench'i' sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.
Rvf 22, vv. 25-39
Prima ch'i' torni a voi, lucenti stelle, 25
o tomi giù ne l'amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess'io in lei pietà, che 'n un sol giorno
può ristorar molt'anni, e 'nanzi l'alba
puommi arichir dal tramontar del sole.

Con lei foss'io da che si parte il sole,


et non ci vedess'altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l'alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno 35
ch'Apollo la seguia qua giù per terra.

Ma io sarò sotterra in secca selva


e ‘l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch'a sì dolce alba arrivi il sole.
Rvf 22: analisi e commento
1. A qualunque … giorno: “Per qualunque essere animato (dunque
anche l'uomo) che vive (alberga) sulla terra, a eccezione di alcuni
pochi che odiano la luce (gli animali notturni), il tempo in cui lavorare
è tutto il giorno”, cioè devono affaticarsi per tutta la durata del
giorno. Si nota il francesismo travagliare qui utilizzato nel doppio
significato di “affaticarsi” e di “soffrire”.
2. ma poi... l’alba: “ma dopo che il cielo fa comparire (accende) le
stelle (dunque in piena sera), alcuni (qual) tornano a casa (gli
uomini), altri si rintanano (s’anida) nei boschi (gli animali), per aver
riposo dagli affanni fino all’alba”.
3. Et io... sole: “io, invece (Et con valore avversativo), da quando
l’alba comincia ad allontanare le tenebre notturne (cioè da quando
comincia a far giorno) svegliando tutti gli esseri viventi nelle selve
(tanto gli animali nei boschi, quanto gli uomini nelle loro case),
sospiro continuamente finché dura il sole”, cioè per tutto il giorno.
4. poi quand’io... giorno: “poi quando vedo brillare le stelle, vado
piangendo e desiderando ardentemente il giorno”. L'immagine
riprende il v. 4. L’infinito fiammeggiar suggerisce poeticamente l’atto,
la percezione attiva di un io che contempla; ed è verbo usato da
Petrarca quasi esclusivamente per designare la luce delle stelle.
Rvf 22: analisi e commento
7. et non ... stelle: “né il sonno né l'alba mi rendono stanco (di piangere),
perché, per quanto io sia mortale (mortal corpo di terra), il mio desiderio
amoroso è perenne e irremovibile, perché infuso in me dalle stelle (al
momento della nascita)”.
8. Prima ... stelle: secondo il mito platonico le anime ritornano alle stelle (lo
dice anche Dante in Par. IV 23-24: “parer tornarsi l'anime a le stelle,/ secondo
la sentenza di Platone”). Qui il poeta allude all'ascesa al Paradiso. Per alcuni
commentatori il riferimento è in particolare al terzo cielo, quello di Venere, che
conferisce alle anime l’attitudine all'amore e alla passione. Si noti l’attributo
delle stelle (lucenti), perché si collega semanticamente ad accende del v. 4 (l’
ciel accende le sue stelle) e a fiammeggiar del v. 11 (veggio fiammeggiar le
stelle).
Rvf 22: analisi e commento
9. o tomi... terra: “o precipiti (tomi giù) nella selva d’amore, abbandonando il
corpo che diventerà (fia) polvere (trita terra)”. L’amorosa selva è il bosco di
mirto (la pianta sacra a Venere) dove giacciono le anime dei morti per amore
(vedi Virgilio, Eneide VI 442-444). Tomi è verbo dantesco ( Inf. XVI 63 e XXXII
102).
10. vedess'io ... sole: “potessi io vedere (congiuntivo con valore ottativo) in lei
un gesto di pietà che potrebbe in un solo giorno compensare (ristorar) tanti
anni (di sofferenze), e da quando il sole tramonta fino all' alba (ovvero in una
sola notte) potrebbe farmi felice (arichir, dal provenzale enrichir).
11. Con lei ... l’alba: “potessi io stare con lei da quando il sole si allontana (si
parte, cioè dal tramonto) e non ci vedesse nessun altro all’infuori delle stelle e
non venisse mai il giorno”.
12. et non ... terra: “e non si mutasse in albero (verde selva) per sfuggire al
mio abbraccio, come quando il dio Apollo la inseguiva sulla terra”. Il pronome
la si riferisce a Laura, che qui viene identificata con Dafne-alloro. Il rimando è
al mito della ninfa Dafne, raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi I 452-567,
che per sottrarsi all'inseguimento del dio Apollo, invaghitosi di lei, si trasforma
in alloro (cfr. il sonetto 188 Almo sol, quella fronde ch'io sola amo).
Rvf 22: analisi e commento
13. Ma io ... sole: “ma io sarò già morto e sepolto e il giorno sarà pieno (andrà pien) di
numerose stelle prima che il sole arrivi a splendere in un giorno così dolce (dolce alba)”. Il
poeta ricorre qui alla figura retorica dell'adynaton, cioè dell'evento impossibile a realizzarsi.
Intendi quindi: “è più facile che io sia già morto o che le stelle brillino in pieno giorno prima
che…”. L'allitterazione (sarò sotterra in secca selva) sottolinea la fine ‘arida’ di ogni essere
mortale. La secca selva è il contrario della verde selva del v. 34: la trasformazione della selva
da ‘verdeggiante’ a ‘inaridita, mortale’ è dunque metamorfosi del finire. Si noti il
provenzalismo minute (dal provenzale menut), nel senso di ‘numerose’, ‘fitte’.
La canzone 23 nel Vat.lat. 3195
Rvf vv. 136 ss
Ma nulla à ’l mondo in ch’uom saggio si fide:
ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa
mi volse in dura selce; et così scossa
voce rimasi de l’antiche some,
chiamando Morte, et lei sola per nome. 140

Spirto doglioso errante (mi rimembra)


per spelunche deserte et pellegrine,
piansi molt’anni il mio sfrenato ardire:
et anchor poi trovai di quel mal fine,
et ritornai ne le terrene membra, 145
credo per piú dolore ivi sentire.
I’ seguí’ tanto avanti il mio desire
ch’un dí cacciando sí com’io solea
mi mossi; e quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda 150
si stava, quando ’l sol piú forte ardea.
Io, perché d’altra vista non m’appago,
stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l’acqua nel viso co le man’ mi sparse. 155
Vero dirò (forse e’ parrà menzogna)
ch’i’ sentí’ trarmi de la propria imago,
et in un cervo solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo. 160
Il madrigale 52
Non al suo amante piú Dïana piacque,
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch’a me la pastorella alpestra et cruda


5posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda,

tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,


tutto tremar d’un amoroso gielo.
Il madrigale 52 sul Vat. lat. 3195
Una nota del Petrarca sull’Ovidio di Londra
Harley 3754 f. 152v
Harl. 3754 f. 152v

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