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P.

Bembo, Alma cortese, che dal mondo errante

Nota metrica: canzone, stilisticamente designata come “gravissima” perché composta di quasi
soli endecasillabi (19 per stanza contro un solo settenario) e per la lunghezza delle stanze e
complessiva. Lo schema delle rime è seguente: ABCBACCDE e DFGHHGFFII (si noterà,
secondo i criteri stilistici bembiani, la compensazione prodotta dalla piacevolezza di frequenti
rime ravvicinate CC, Ee, HH, FF, II).

La celebre canzone in morte del fratello Carlo segna una svolta nella produzione lirica del
Bembo e, di riflesso, nell’intero petrarchismo cinquecentesco. La canzone è tarda (la morte
del fratello è avvenuta nel 1503): ne parlano come di cosa nuova tre lettere del Bembo del
dicembre del 1507. L’intervallo corrisponde a un persistente rimpianto: il fratello, onorato poi
anche maggiormente nelle Prose della volgar lingua, era stato il confidente, il compagno
insostituibile della giovinezza. Ancora nel 1536, rivolgendosi all’amico Gualteruzzi al
Bembo veniva fatto di scrivere: “Io parlo con voi come parlerei con ms. Carlo mio fratello se
esso vivo fosse”. Ma l’intervallo fra il lutto e la canzone corrisponde anche al travaglio onde
esce… il nuovo stile del Bembo in Urbino … e la sua nuova e piena fiducia nell’eccellenza
della lingua e letteratura volgare. Quale che sia l’esito poetico della canzone, essa nel 1507
apparve documento primo e decisivo di una più ambiziosa poesia, dello stile tragico che
Dante aveva assegnato al metro per l’appunto della canzone La mira e la struttura di questa
del Bembo senza dubbio corrispondono a quel che nelle Prose della volgar lingua, libro II,
cap. XIII, si legge della canzone petrarchesca Nel dolce tempo: “quasi donna tra molte
fanciulle o pure come reina tra molte donne, non solo d’onestà è di dignità abondevole, ma
ancora di grandezza e di magnificenza e di maestà; la qual canzone tutti i suoi versi da uno
per stanza in fuori ha interi e le stanze sono lunghe più che d’alcuna altra”. L’altezza della
mira è anche indicata dalla dedica esplicita della canzone alla duchessa Elisabetta d’Urbino e
dall’insolito artificio metrico del doppio commiato. Per questo, che non ha riscontro nel
Petrarca, è da pensare che il Bembo oltre che aver meditato la lezione dello stile tragico nel
De vulgari eloquentia, anche avesse presente la canzone dantesca Tre donne. Ma il
linguaggio della canzone non retrocede dal Petrarca verso Dante; procede su base
petrarchesca (una quindicina di parole non autorizzate dal modello) verso un impasto retorico
che è proprio di un’educazione umanistica in cui il contrasto delle due tradizioni, latina e
volgare, si è ormai risolto. Le punte umanistiche più ardite e scoperte, e con esse tutte meno
tre le parole non autorizzate dal Petrarca, sono nella seconda metà della canzone, segno di un
graduale calcolato e faticoso processo di liberazione dal modello verso uno spazio nuovo e
più aperto. Aggiungiamo anche: non più sfoggio di antitesi e di arguzie, di quei procedimenti
cioè che il petrarchismo cortigiano aveva messo in auge; non più semplice calco dei luoghi
petrarcheschi. Qui la materia è intimamente vissuta; lo stile, sia pur a tratti ridondante e
incline all’enfasi, è mantenuto nei limiti di un’eloquente sobrietà, è il prodotto di una
meditata ricerca personale e di una più profonda lettura del modello petrarchesco: il Bembo
ha imparato a vivere e certo a esprimere gli eventi salienti della propria vita nei modi e nel
linguaggio del Petrarca, ha interiorizzato l’esperienza culturale e letteraria che si è proposto a
modello e la fa agire per dar forma e parola alla propria esperienza umana.

Gaspara Stampa, Canzoniere I, LXXXI (il primo e l’ultimo sonetto)

A testimonianza della prima stagione della lirica petrarchista cinquecentesca, stanno i due
sonetti di Gaspara Stampa (Padova 1523ca – 1554, anno dell’edizione delle Rime), che
dimostrano inoltre l’adesione sua e di tanti petrarchisti al romanzo d’amore spirituale che il
petrarchismo “ortodosso” cinquecentesco mutuava dal modello. Dal Canzoniere si deve
innanzitutto riproporre la struttura complessiva di itinerario umano e amoroso che va dal
vaneggiare al pentimento, dalla tempesta delle passioni al desiderio dell’abbandono in Dio. Il
confronto dei due sonetti con le più evidenti fonti petrarchesche (Voi ch’ascoltate in rime
sparse il suono, I’ vo piangendo i miei passati tempi, Padre del ciel, dopo i perduti giorni)
consente di rilevare immediatamente la presenza di riecheggiamenti e addirittura calchi
clamorosi; ma consente anche di osservare come i componimenti della Stampa perdano la
molteplicità dei piani, la complessità, la ricchezza di sfumature del modello, guadagnando
invece in immediatezza dell’espressione dei sentimenti che a tratti acquista i colori e i toni
della sincerità o dell’ingenuità. Si noti ad esempio la sostituzione di gloria a pietà
nell’emistichio petrarchesco “pietà nonché perdono” che – come è confermato dalle due
terzine – dà rilievo al desiderio d’acquistarsi fama attraverso l’attività poetica più d’ogni altra
donna e contribuisce a introdurre una nota positiva, di speranza e di orgoglio, nel sonetto
d’apertura e ad accentuare il contrasto con quello conclusivo. Ma se la relativa immediatezza,
la relativa “ingenuità” della poetessa (tali da colpire i critici che in lei hanno visto una delle
voci più “originali” del secolo) nel primo sonetto rischia l’incongruenza (e forte e non del
tutto giustificata è l’escursione dalla mestizia dell’avvio ai toni celebrativi della chiusa),
nell’ultimo sfiora o raggiunge la “sincerità” espressiva, segno forse che il motivo
petrarchesco toccava una corda a cui la Stampa era sensibile in proprio.

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