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LA METRICA (Manuale “Gli strumenti della poesia” Beltrami)

Quando scriviamo un testo in versi bisogna tenere in considerazione la metrica, ossia quell’insieme di regole
che governano la struttura di un testo poetico e studia la poesia negli aspetti che rendono il discorso in versi
differente da quello in prosa. La metrica non comunica alcun significato di tipo linguistico. Anche se le norme
metriche non sono assimilabili a quelle musicali, la metrica come la musica, organizza nel tempo fenomeni che
sono anche suoni, mettendoli in relazione fra loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora. I testi in versi
erano infatti quelli destinati al canto o ad accompagnamenti musicali. Il METRO dunque è la norma entro la
quale il ritmo si realizza. Nella poesia regolare il metro è l’insieme degli elementi e delle regole che definiscono
un modello mentre nella poesia libera, non c’è modello, quindi il metro si riduce al fatto che il discorso si
articola in versi. I fatti metrici sono di due tipi: abbiamo le forme metriche, ossia le regole che in ogni epoca
presiedono alla composizione di un testo poetico e la PROSODIA cioè l’insieme delle regole riguardanti la
quantità delle sillabe e la combinazione delle sillabe lunghe e brevi in piedi, metri, versi e il ritmo e gli accenti.
La metrica si occupa della VERSIFICAZIONE cioè di tutti i discorsi in versi, poetici o meno; studia la poesia negli
aspetti che la rendono differente dalla prosa. La versificazione non è la poesia in sé, ma essa è un fatto che
guarda certe caratteristiche formali del discorso mentre la poesia è un concetto culturale più complesso, che
guarda il discorso nell’insieme.
A partire dal 900, i poeti cercano quanto più possibile di liberarsi dalle norme metriche cercando di realizzare
un vero e proprio “stravolgimento” come accade per gli scrittori ermetici e futuristi. Nel 900, manifestare la
libertà dalle regole è diventata una regola. Le forme tradizionali sono usate solo in modo critico e con qualche
libertà . Fin quando non si è affermata la versificazione libera si diceva che il “verso è un segmento di discorso
organizzato secondo determinate regole”. Prima gli autori per scrivere in versi attingevano a un MODELLO.
Nella versificazione libera, il verso non dipende più da un modello ma si compone un verso partendo dal
comune principio secondo il quale il discorso è scandito in segmenti sintattici, cioè in unità sensate, ma anche in
segmenti non sintattici, cioè in unità non motivate da significato.
Il verso è un’unità base della scansione del discorso strutturata in una serie di sillabe disposte secondo
determinate regole, oppure una serie di sillabe liberamente formata. Il verso è un’ unità minima che può
costituire da sola un discorso compiuto. La sequenza in versi può essere ininterrotta o articolarsi in strutture
intermedie, chiamate strofe. Le strofe della tradizione sono strutture di versi con un determinato schema di
rime.
La metrica è l’essenza di un testo poetico. Un testo poetico differisce da un testo in prosa per la presenza di
segmenti di testo chiamati versi. La parola “Verso” deriva dal latino “vertere” che vuol dire “volgere”, “andare a
capo”, mentre la parola “prosa” deriva da “prosus” che vuol dire “andare avanti in linea retta”, “procedere”. Nel
testo in prosa si procede senza andare a capo, in maniera continua in quanto non bisogna rispettare le regole
della versificazione. Il verso è l’insieme delle parole formate da sillabe atone e toniche. In base alla loro
distribuzione all’interno del verso è possibile distinguere in versi parisillabi (bisillabo, quaternario, senario,
ottonario, decasillabo), versi imparisillabi (quinario, settenario, novenario, endecasillabo), versi doppi o
accoppiati (Doppio senario o dodecasillabo, doppio quinario, doppio settenario), versi liberi tipici della poesia
del novecento che non hanno una struttura strofica regolare, non hanno rime e sillabe regolari e versi sciolti,
versi con ugual numero di sillabe ma senza rima.

1.4. CLASSIFICAZIONE DEI VERSI E ACCENTO RITMICO


Per poter studiare la metrica di un testo è necessario conoscere la classificazione delle parole in base al loro
accento ritmico (“ictus” in latino) che determina il ritmo di ogni verso; in base al numero di sillabe, ossia
un’unità ritmica della catena parlata che possono essere sillabe toniche, cioè che presentano un accento (non
per forza grafico) e sillabe atone, che non sono accentate e si appoggiano ad altre parole accentate; in base alla
tipologia delle parole che si classificano in parole TRONCHE, o ossitone, che hanno l’accento sull’ultima sillaba
(cit-tà ); PIANE, o parossitone, che hanno l’accento sulla penultima sillaba (fi-né-stra); SDRUCCIOLE che
presentano l’accento sulla terzultima sillaba (cá t-te-dra); BISDRUCCIOLE che presentano l’accento sulla

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quartultima sillaba (má n-da-me-la) che sono però piuttosto rare in lingua italiana eccetto per verbi con
pronomi clitici.

Per identificare il numero di sillabe in un verso è necessario contare le sillabe fino all’ultima sillaba tonica. La
sillaba è una nozione linguistica complessa che viene definita come un’unità ritmica della catena parlata ed è
costituita da consonanti e semiconsonanti intorno ad un nucleo vocalico.
Un verso può essere
 Piano: se dopo l’ultima sillaba tonica ne possiede una atona. Una tecnica per ottenere versi piani è
l’EPITESI ossia l’aggiunta di una vocale ad una parola tronca posta in fine parola del verso.

“Voi c’* as-col-ta-te__in ri-me spar-se il suó-no”


11 sillabe e la decima tonica

 Tronco: se il verso termina con l’ultima tonica. Una tecnica per ottenere versi tronchi è l’ APOCOPE
ossia la caduta della vocale finale dell’ultima parola del verso.

“Deh per-ché fug-gi ra-pi-do co-sì”


10 sillabe e la decima tonica

 Sdrucciolo: se dopo la sillaba tonica vi sono due sillabe atone.

“Si che dal fo-co sal-va l’* ac-qua e li ár-gi-ni”


12 sillabe e la decima tonica

Altra tecnica per modificare il numero di sillabe nel verso è la SINCOPE ossia la caduta di una vocale interna alla
parola.
Tuttavia, c’è da specificare che non sempre la sillabazione grammaticale coincide con quella metrica.

“Sem-pre ca-ro mi fu que-st’*er-mo cól-le” (G. Leopardi, L’infinito)


*Quando ci sono sillabe cadute,
non vengono considerate sillabe pertanto
non si contano come sillabe metriche
In questo verso abbiamo 11 sillabe grammaticali e 11 sillabe metriche, dunque sillabe grammaticali e sillabe
metriche coincidono.

“Voi c’* as-col-ta-te__in ri-me spar-se il suó-no” (F. Petrarca)

In questo verso abbiamo 13 sillabe grammaticali ma 11 sillabe metriche in quanto ci sono due figure metriche,
due sinalefi.

Per denominare i versi è necessario contare le sillabe metriche e sapere dove cade l’accento tonico della parola
in clausola. Un verso si definisce quindi non a partire dal numero di sillabe ma dalla posizione dell’ultima
sillaba tonica. Questo è un computo sillabico che deriva dalla metrica provenzale e francese antica in cui si
denominavano i versi a partire dalla posizione dell’ultima sillaba tonica. Infatti, quello che in italiano è oggi
l’endecasillabo, in Francia era un decasillabo in quanto la sillaba tonica cadeva sulla decima sillaba del verso.
Due versi sono dello stesso tipo se hanno stesso accento ritmico secondo il PRINCIPIO DEL SILLABISMO
ITALIANO secondo cui due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa
posizione, mentre due parole sono sentite lunghe uguali se contengono lo stesso numero di sillabe.

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L’accento è dunque un elemento essenziale nello studio della metrica: con ACCENTI DEL VERSO s’intendono
quegli accenti che in determinate posizioni rendono le sillabe del verso toniche. Gli accenti del verso sono
generalmente distinti secondo una gerarchia d’importanza: gli accenti obbligatori servono a delineare il
profilo ritmico del verso e rendono il verso corretto o sbagliato; gli accenti principali, servono a far passare il
verso da un tipo ad un altro; gli accenti secondari sono quelli che non servono a delineare il tipo di verso ma a
mantenerne il ritmo. All’interno di un verso gli accenti sono disposti secondo un ordine preciso e la
disposizione degli accenti nel verso si dice SCHEMA ACCENTUATIVO. Alcuni versi hanno uno schema
accentuativo fisso, cioè con una distribuzione rigida delle sillabe toniche: ciò accade nel decasillabo, nel
novenario, nell’ottonario, e nel senario. Altri versi come l’endecasillabo, il settenario e il quinario hanno uno
schema accentuativo variabile. Per risolvere il problema dei diversi schemi accentuativi e su dove far cadere
l’accento, soprattutto per l’endecasillabo è un criterio messo a punto da Marco Praloran che consiste
nell’assumere che normalmente l’accento metrico coincida con un accento di parola. Quindi sarebbero atoni gli
articoli, le preposizioni, le congiunzioni, i pronomi e gli aggettivi possessivi con una sillaba. in lingua italiana
non sono possibili né due sillabe toniche consecutive, né tre atone consecutive, e se si incontrano due accenti,
uno dei due deve essere soppresso o spostato dunque lo spostamento dell’accento prende il nome di DIASTOLE
se si sposta in avanti e di SISTOLE se si sposta indietro.

In base all’accento ritmico definiremo quindi:

 TRISILLABO: un verso che può essere formato da tre sillabe e in cui l’ultima sillaba tonica è la seconda.
Come verso a sé è di uso recente. Pascoli lo combina con il senario o col novenario.
“La mór-te
si scón-ta
vi-vén-do”
(G. Ungaretti)
 QUADRISILLABO: un verso che può essere formato da 4 sillabe e in cui l’ultima sillaba tonica è la terza.
È raro trovarlo a solo e infatti viene combinato principalmente con l’ottonario con accenti di 3° e 7°
sillaba.
“Pa-ran-zel-le in al-to má-re (ottonario)
bian-che bián-che” (quadrisillabo)
(G. Pascoli)

 QUINARIO: un verso che può essere formato da 5 sillabe e in cui l’ultima sillaba tonica è la quarta.
L’accento sulla 4° può essere l’unico accento rilevante o essere preceduto dall’accento variabile sulla
1°, o sulla 2° o eccezionalmente sulla 3°. È usato nel 200 nella canzone e dal 500 si trova nel discorso
libero in endecasillabi e settenari. Strofe di quinari appartengono all’ode-canzonetta.
“Ví-va la chió-ccio-la,”
(G. Giusti)

 SENARIO: un verso che può essere formato da 6 sillabe e in cui l’ultima sillaba tonica è la quinta. Esso
ha un accento fisso sulla 2° o nessun accento oltre quello sulla quinta.

“E cá-do-no l’*ó-re
giù giú, con un lén-to”
(G.Pascoli)

 SETTENARIO: un verso che può essere formato da 7 sillabe e ha un accento ritmico che cade
obbligatoriamente sulla sesta sillaba. Gli accenti sono variabili infatti la posizione di uno o due accenti
interni è libera, ad eccezione della 5° sillaba su cui non può mai cadere accento. Il settenario viene usato

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frequentemente in combinazione con gli endecasillabi mentre l ’uso del settenario da solo è meno
frequente. Raro è che l’accento sulla 1° sillaba sia seguito dalla 6°, o che la 6° non sia preceduta da alcun
accento di rilievo. Il settenario per musica evita l’accento sulla 3°.

“L’* al-be-ro a cui ten-dé-vi”


(G. Carducci)

 OTTONARIO: un verso che può essere formato da 8 sillabe e ha un accento ritmico che cade
obbligatoriamente sulla settima sillaba. Gli accenti ritmici sono fissi e cadono sulla 3° oltre che sulla
7°. Anticamente gli ottonari avevano accenti variabili ad esempio Pascoli fa uso regolare di ottonari con
accenti sulla 1°-4°-7°.

“Chi vuol es-ser lie-to sí-a


del do-man non v’* è cer-téz-za”
(Lorenzo de Medici, “Trionfo di Bacco e Arianna)

 NOVENARIO: un verso che può essere formato da 9 sillabe e ha un accento che cade obbligatoriamente
sull’ottava sillaba. Gli accenti ritmici cadono sulla 2° e sulla 5° e non ci sono accenti variabili. Esso è
un tipo di verso raramente usato fino all’800, quando compare frequentemente nella lirica di Pascoli.
“E s’* a-pro-no i fio-ri not-túr-ni”
(G. Pascoli)

 DECASILLABO: un verso che può essere formato da 10 sillabe e ha un accento fisso che cade
obbligatoriamente sulla nona sillaba. Gli altri accenti ritmici cadono sulla terza e sulla sesta e non ci
sono accenti variabili. Il decasillabo è un tipo di verso legato a Manzoni e ai romantici, mentre prima
era usato con libertà di disposizione degli accenti, dal 700 in poi gli accenti tonici sono fissi sulla 3° e
sulla 6° sillaba oltre che sulla 9°. Può comparire come quinario doppio con anisosillabismo o come
variante anisosillabica del novenario e dell’endecasillabo. Particolare è l’uso che ne fa Pascoli.

“S’* o-de a de-stra u-no squil-lo di tróm-ba”


(A.Manzoni)

 ENDECASILLABO: un verso che può essere formato da 11 sillabe e ha un accento fisso che cade
obbligatoriamente sulla decima sillaba. L’endecasillabo possiede accenti variabili infatti Il tipo
CANONICO ha come tonica almeno la 4° sillaba, o in alternativa, la 6°, oltre la 10°. La 4° e la 6° possono
essere entrambe toniche, ma non entrambe atone. Inoltre, si possono distinguere tre tipi fondamentali
di endecasillabo: l’A MINORE in cui la tonica è la 4° e il ritmo è di un quinario; l’A MAIORE in cui la
tonica è la 6° e il ritmo iniziale corrisponde a un settenario, inoltre è tonica almeno una sillaba prima
della sesta, di solito la 2° o la 3°; il tipo NON CANONICO in cui sono atone sia la 4° sia la 6° sillaba,
tuttavia è un tipo di verso piuttosto raro. Il tipo con gli accenti sulla 4°-8°-10° (frequente dalle origini) si
dice NON MARCATO. Gli altri casi e l’endecasillabo non canonico, sono RARI. L’uso dell’endecasillabo è
tipico in Dante e Petrarca che gettano le basi della letteratura italiana. Con Dante e Petrarca si afferma
l’uso dell’endecasillabo canonico ma Petrarca e Dante differiscono per la sesiblità prodocia: Petrarca
cerca di non usare mai lo iato. Tra Cinque e Seicento poi si abbadona l’uso dell’endecasillabo e si fa uso
di diverse combinazioni di verso e si abbandona anche l’uso della rima piana in favore di quella
sdrucciola o tronca.

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“Nel mez-zo del cam-min di no-stra ví-ta” (Endecasillabo piano in A MAIORE con accento fisso sulla decima
sillaba e accenti variabili sulla 2° e sulla 6°)
(Dante)

Oltre ai versi parisillabi e imparisillabi esistono anche i versi doppi o accoppiati che vengono divisi da una
cesura, ossia una pausa che cade all’interno dell’unità metrica detta PIEDE anziché alla fine. Un verso può
avere più cesure ma in certi versi è obbligatorio o normale almeno una cesura in una certa posizione come
accade per i versi doppi in cui la cesura taglia il verso in 2 parti dette emistichi (dal greco hemi= mezzo, e
stichos=verso)

 NOVERARIO DOPPIO: il RITMO LAURENZIANO è scritto in versi doppi. Idem L’AMICA DI NONNA
SPERANZA di Gozzano.
 OTTONARIO DOPPIO: è un verso estremamente raro formato da due emistichi di otto sillabe ciascuno.
Lo troviamo nella “La sacra di Enrico Quinto” di Carducci.

“Quan-do cà-do-no le fò-glie, / quan-do e-mì-gra-no gli au-gèl-li


e fio-rì-te a’ ci-mi-tè-ri / son le piè-tre de-gli a-vèl-li”
(G.Carducci)

 SETTENARIO DOPPIO: è un verso formato da due emistichi ciascuno di 7 sillabe. Ci sono due tipi di
settenario doppio: uno è quello del contrasto di Cielo d’Alcamo in cui il primo settenario è sdrucciolo e
il secondo piano. L’altro è quello alessandrino francese in cui si combinano due settenari in cui il primo
può essere sdrucciolo o piano. Esiste un terzo tipo detto martelliano in cui i due settenari sono piani.

“D’* al-ti fuò-chi A-les-sàn-dria / giù giù da l’* Ap-pen-nì-no”


(G.Carducci)

 SENARIO DOPPIO: è un verso formato da due emistichi ciascuno di 6 sillabe. Entrambi i senari
accentati sulla 2° e sulla 5°, e fa parte del repertorio di versi fortemente ritmici cari alla poesia
romantica.
“Da-gli à-trii mus-có-si, / dai Fò-ri ca-dèn-ti,”
(A.Manzoni)

 QUINARIO DOPPIO: si distingue dal decasillabo perché la divisione fra le due parti è costante e
l’accento cade sempre sulla 4° sillaba. S’incontra nella poesia religiosa delle origini con anisosillabismo,
nel repertorio canzonettistico e melodrammatico del 700 e nella ballata romantica 800esca.
“Al mìo can-tùc-cio, / dón-de non sén-to”

 ENDECASILLABO DOPPIO: Questione controversa è la cesura dell’endecasillabo. La cesura può essere


un fatto metrico o un fatto sintattico o ritmico. La cesura come fatto metrico è tipica del décasyllabe
francese, e il tipo più comune è la CESURA MASCHILE (in italiano è una cesura tronca). Si ha CESURA
LIRICA quando una parola piana può essere collocata alla fine del primo emistichio con la tonica sulla
terza sillaba e l’atona sulla quarta. La piana può essere collocata a cavallo della cesura del modello,
dando luogo a una cesura apparente alla quinta sillaba. Con riduzione del secondo emistichio a 5 sillabe
si ha la CESURA ITALIANA. Negli studi di metrica italiana si parla di cesura in senso ritmico, cioè una
pausa sintattica o d’intonazione che tendenzialmente cade intorno alla metà del verso, e fa sì che le due
parti siano sentite ritmicamente simili a un quinario e a un settenario, o viceversa, nettamente distinti.
Questa pausa non corrisponde a una divisione del verso.

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La struttura di un testo poetico è data dunque da una serie di norme metriche che non dipendono dalla sintassi
di un testo. Infatti, il modo in cui la struttura sintattica è articolata è un fatto di stile, non vincolato da regole
precise. Sintassi e metrica tendono molto spesso a coincidere. Quando il verso non coincide con una frase
sintatticamente compiuta si ha un ENJAMBEMENT, termine francese che significato “inarcatura” e consiste
nella rottura del senso logico di un verso che prosegue in quello successivo. L’enjambement è particolarmente
carico di significati quando spezza un sintagma unitario ponendo un termine alla fine del verso e uno all’inizio
di quello successivo. L’effetto è quello di prolungare la lettura oltre il verso per enfatizzare i termini coinvolti o
cambiare il ritmo dei versi. Viene chiamato RIGETTO la parte breve di unità sintattica spezzata che si trova nel
secondo verso, e CONTRORIGETTO, la parte breve che si trova all’inizio del primo verso. L’enjambement non è
mai stato rifiutato nella poesia italiana, anzi nel 500 nell’endecasillabo sciolto appare necessario per dare
sostenutezza al discorso, evitando cadenza prosastiche.

LE FIGURE METRICHE
Il computo sillabico non è poi così ovvio quando due o più vocali sono consecutive. esistono dunque le figure di
metrica che servono a contare correttamente le sillabe di un verso e quindi a determinarne il tipo. Le figure
metriche sono 4:
 SINALEFE: La sinalefe è una figura metrica della fusione del corpo metrico tra due vocali contigue
atone: vocale terminale di parola e vocale iniziale di parola successiva finiscono per costituire un’unica
sillaba. È possibile però che una vocale sia soppressa con l’ELISIONE ( caduta della vocale finale) o con
l’AFERESI (caduta della vocale iniziale): in questo caso non vengono considerate sillabe pertanto non si
contano come sillabe metriche.
“Ei fu sic-co-me im-mó-bi-le (settenario sdrucciolo: sesta sillaba tonica e due atone che seguono)

Da-to il mor-tal so-spí-ro (settenario piano: sesta sillaba tonica e una atona che segue)

A cal-pe-star ver-rà” (settenario tronco: sesta e ultima sillaba tonica)

 DIALEFE: La dialefe è una figura metrica secondo cui due vocali contigue di cui una tonica, quella
terminale di parola e quella iniziale della parola successiva, non si fondono e non costituiscono un’unica
sillaba. Tuttavia, è abbastanza rara: è limitata in Petrarca, ma frequente nella poesia del 200 e in Dante.
È più frequente davanti a parole inizianti per s + consonante.
“E tu che se’ co-stì a-ni-ma ví-va” (endecasillabo piano: decima sillaba tonica e una atona che segue)
 DIERESI: La dieresi è una figura metrica secondo cui la vocale debole (non accentata) di un dittongo
ascendente (es. ie, ia, io, uo, ua, ue) costituisce sillaba a parte e viene segnalata tramite due puntini sulla
vocale. Esiste per la dieresi una REGOLA ETIMOLOGICA, il principio consiste nell’identificare la dieresi
con una scansione latineggiante: la dieresi divide in due sillabe un nesso che ne valeva due in latino, e si
è ridotto a uno in italiano. Per i nessi vocale tonica + atona, la regola etimologica non vale e che una
delle due vocali sia una semivocale come la i di voi, o che entrambe siano vocali in senso proprio, come
suo. I nessi vocale tonica+atona se posti in fine parola valgono due sillabe, se posti all’interno di una
parola valgono una

Grammatica: “For-se per-ché del-la fa-tal quie-te”  Dittongo ascendente íe, la I e la E non si separano
Metrica: “For-se per-ché del-la fa-tal quï-é -te” (endecasillabo piano: decima sillaba tonica e una atona
che segue)

 SINERESI: La sineresi è una figura metrica secondo cui due vocali contigue che formano uno iato (due
vocali forti che si considerano due sillabe separate) si fondono in un’unica sillaba.
Grammatica: “Ed og-gi nel-la Tro-a-de in-se-mi-na-ta”  Iato oa, la O e la A si separano
Metrica: “Ed og-gi nel-la Troa-de in-se-mí-na-ta” (endecasillabo sdrucciolo: decima sillaba tonica e una atona
che segue)

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STRUTTURA STROFICA E TIPI DI COMPONIMENTO
Il testo poetico prodotto dall’autore è disponibile ad ogni forma d’esecuzione e l’autore per scriverlo attinge a
un modello di metrica. Un verso o un testo poetico in generale è corretto rispetto al suo modello di verso, strofa
e tipo di componimento, se esiste almeno un’esecuzione possibile che vi corrisponda. la metrica può essere un
catalogo di forme a cui si può dare un ordine: pietro bembo nelle prose della volgar lingua distingue le rime in
regolate, libere e mescolate. le forme regolate sono le forme per cui valgono precise regole strutturali, che
lasciano un margine di libertà all’autore come le odi, le canzonette o l’endecasillabo sciolto. le forme fisse
hanno uno schema molto vincolante, in cui è preordinata la dimensione totale del testo. forma fissa per
eccellenza è il sonetto o l’ottava. Altri esempi sono la sestina lirica, lo strambotto, la terzina dantesca, l’ottava
rima, la strofa saffica e la quartina savioliana. Poi ci sono le forme libere che sono affidate alla libera
inventività degli autori. Ma la libertà è sempre relativa. La forma più importante è il discorso libero in
endecasillabi e settenari. Dal 500 esiste un’ampia tradizione senza schemi: la forma breve del madrigale
500esco, quella lunga del dramma pastorale e della versificazione teatrale, nell’idillio narrativo secentesco, nel
melodramma e nella cantata, la canzone libera di leopardi. forma libera è la polimetria ossia la commistione di
più misure metriche nel testo o alternanza di schemi metrici diversi. Ci sono poi forme liriche e forme
discorsive. Le forme liriche sono quelle “brevi” dotate di una certa compattezza stilistica e tematica, non
narrative ma dedicate a temi amorosi, morali, politici, d’occasione, d’intrattenimento e sono destinate al canto.
Sono forme liriche la canzone in tutte le forme assunte nel tempo, la ballata, il sonetto, il madrigale, lo
strambotto o rispetto. Le forme discorsive sono quelle “lunghe” della poesia narrativa, epica, didascalica: la
terza rima, l’ottava rima, l’endecasillabo sciolto. Tra le due forme esistono delle zone di sovrapposizione , e la
poesia italiana ha adottato per la poesia discorsiva forme derivate da quella lirica. Dal 300 al 500 si scrive in
terza o ottava rima, con larga preferenza della seconda nelle forme discorsive come quella narrativa, epica,
romanzesca. Dal 500 nasce l’endecasillabo sciolto, la cui affermazione è fortemente contrastata, nell’ottava,
nella poesia didascalica e nelle traduzioni. La poesia drammatica predilige la polimetria e dal 500 il discorso
libero in endecasillabi e settenari. Per Dante la poesia lirica si esprime nella canzone, nella ballata e nel sonetto.

Prima di andare a considerare i vari tipi di componimento è necessario partire dalla definizione di strofa, in
quanto i componimenti sono insiemi di strofe. La strofa è un insieme di versi di senso compiuto con una sua
autonomia ritmico-musicale, segnalata di solito da spazi bianchi che la dividono l’una dall’altra. Tra le strutture
strofiche più ricorrenti troviamo:

 DISTICO: è una strofa di due versi le cui forme rilevanti a rima baciata sono quelle in settenari, in
alessandrini e in ottonari-novenari. La poesia discorsiva italiana non è favorevole al distico a rima
baciata.
 TERZINA: è una strofa di tre versi collegata alla precedente da rima incatenata
 QUARTINA: è una strofa di quattro versi legati tra loro da rime alternate (ABAB) o incrociate (ABBA). È
il metro tipico della poesia didascalica settentrionale. La forma più rilevante nella poesia antica è la
QUARTINA MONORIMA di alessandrini.
 LASSA: è una serie di versi uniti dalla stessa rima o assonanza. È propria della poesia epica antico-
francese. In epoca moderna è stata imitata da Carducci, Pascoli e D’Annunzio.
 SESTINA: è una strofa di sei versi che si susseguono con lo schema rimico ABABCC (i primi 4 a rima
alternata e gli ultimi due a rima baciata). È uno schema poco usato nella tradizione italiana. Nel 300-400
appartiene al repertorio della lauda e della poesia drammatica.
 OTTAVA: è una strofa di otto versi in cui i primi sei sono a rima alternata ABABAB e gli ultimi due a
rima baciata.
 NONA RIMA: può essere vista come una stanza di canzone e non è mai stata istituzionale. Ha uno
schema rimico ABABABCCB. Le stanze di canzone sono forme a cui si dà anche il nome di DECIMA
RIMA.

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 ENDECASILLABO SCIOLTO: è una strofa di endecasillabi in serie continua senza rima, rarissima prima
del 500. Dal 500 in poi l’endecasillabo sciolto diventa il metro di maggiore prestigio in tutti i campi della
poesia discorsiva. Dal 700 comincia ad essere impiegato anche nella poesia lirica come in Parini e
Foscolo usato da quest’ultimo nel Carme dei Sepolcri.
 VERSO LIBERO: si afferma nella poesia moderno-contemporanea a partire dal 900 quando gli autori
sentono come regola metrica quella di non rispettare la metrica e liberarsi dalla “prigionia” del metro.
Esso è caratterizzato dalla demolizione delle strutture sintattiche e dalla presenza di “parole in libertà ”
a cui è stata attribuita più volte una connotazione negativa. Tuttavia, la poesia del Novencento non
abbandona le forme metriche ma ne fa un uso critico. All’uso del verso libero è inoltre riconducibile
l’uso della polimetria. Anche la rima non è affatto abolita ma se ne fa un uso che concenda maggior
libertà agli scrittori. Si usa ad esempio maggiormente la consonanza o l’assonanza o artifici fonici che
formano la musicalità del testo.

In base alle varie combinazioni di varie strutture strofiche è possibile delineare le tipologie di componimento.
Nella poesia italiana si possono distinguere due grandi generi: la poesia narrativa e la poesia lirica. Ad essi
sono associate delle forme metriche standard che servono (o meglio servivano) ad orientare il lettore: a una
determinata forma metrica corrisponde un determinato genere e, quindi, un certo contenuto veicolato da un
certo tipo di linguaggio. Avremo dunque le forme metriche della poesia lirica e le forme metriche della
poesia narrativa.

Le forme metriche della poesia lirica sono la canzone, il sonetto, il madrigale, la sestina, la ballata e l’ ode

 CANZONE: stile elevato adatto alla tragedia, è un componimento composto da un numero variabile di
strofe, dette stanze i cui versi possono essere variamente rimati, e termina con un congedo, una
stanza di ridotta lunghezza in cui il poeta si rivolge al lettore o alla canzone stessa. Lo schema può
essere coniato per il testo o riprendere un altro testo “autorevole” come modello. La stanza è articolata
in due parti principali: la prima consta di due PIEDI, che sono due serie di versi dello stesso tipo nello
stesso ordine. La seconda è detta SIRMA ed è indivisibile. La divisione tra le due parti principali è detta
da Dante DIESIS. Tuttavia, la stanza indivisibile è rara nella poesia italiana, la si può trovare nella
SESTINA LIRICA, e ricompare nella sperimentazione 400esca. La canzone antica o petrarchesca è il
metro di maggiore prestigio nella poesia dei primi secoli ed è di alto rigore formale. Le stanze con
innovazione di rime si dicono STANZE DIVISE: esse sono caratterizzate da piedi di lunghezza variabile,
schema di rime variabile, ma alla fine del secondo piede nessun verso deve essere senza
corrispondenza di rima. L’insieme dei due piedi viene correntemente chiamato FRONTE. Quando il
primo verso della sirma rima con l’ultimo del secondo piede, si ha una CONCATENATIO o CHIAVE. Lo
schema della sirma è essenzialmente libero, ma ci sono forme più frequenti. Nel 200 la stanza era
divisa in modo diverso: la prima parte in due piedi e la seconda in due VOLTE, cioè in due serie di versi
dello stesso tipo nello stesso ordine. La stanza è così quadripartita. Dante cita possibile una prima parte
indivisibile che chiama FRONTE e una seconda divisibile in due volte. Per lui è possibile la divisione
della stanza solo in presenza di una ripetizione di schema. Nel 600-700 si trovano canzoni in stanze
non divisibili ma che si presentano come elaborazioni relativamente libere della stanza petrarchesca
tripartita. Le stanze possono essere articolate con altri artifici. La canzone antica, elaborata nel 200, ha
ricevuto la codificazione definitiva da Dante, e da Petrarca perciò prende il nome di petrarchesca.

La stanza della canzone può costituire da sola un testo. L’uso è vivo nella poesia provenzale. Meno in quella
italiana, in cui la vera stanza è il sonetto.

o Il DISCORDO è una forma musicale praticata dai trovatori provenzali e francesi. Si compone di
stanze, ognuna delle quali presenta una simmetria interna, ma ha uno schema diverso dalle
altre.

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 SESTINA LIRICA: è una forma di canzone in stanze indivisibili. È divenuta dal 400 una forma fissa.
Nessun verso rima all’interno della stanza, ma i versi di una stanza rimano con quelli delle altre stanze
attraverso la ripetizione della parola stessa. I versi che rimano fra loro terminano con la stessa parola.
La posizione delle parole-rima è ruotata di strofa in strofa. Il congedo di tre versi ha in rima tre delle
parole della sestina, e le altre tre all’interno del verso.

 ODE: è un componimento lirico tra i più usati dai poeti per cantare argomenti vari che spaziano da temi
civili a quelli morali e ideali, senza trascurare il tema affettivo. Essa è di origine classica e viene
largamente praticata da Parini, Foscolo Manzoni e Carducci. Esistono varie forme di ode:
o La CANZONE PINDARICA, introdotta nei primi del 500 si ispira al sistema delle odi di Pindaro:
composto da una STROFE e un’ANTISTROFE con lo stesso schema di versi e rime e un EPODO
con uno schema diverso. L’insieme che prende il nome di triade può essere ripetuto. Attratto da
questo schema è Pascoli, innovatore del linguaggio poetico, che però guarda al modello greco.
o La CANZONE-ODE è una forma di canzone in stanze semplificate, elaborata dal primo 500. Sul
modello dell’ode oraziana, in strofe di 4 versi, si afferma la quartina di endecasillabi rimati
ABBA o ABAB.
o L’ODE-CANZONETTA generalmente indica lo stile più facile, l’argomento meno elevato o gli
schemi di versi brevi contrapposti a quelli in cui prevale l’endecasillabo. Ci si riferisce anche a
testi per musica diffusi soprattutto nell’Ottocento la cui forma metrica può essere varia.
Comunque, con il termine ode-canzonetta ci si riferisce a forme che hanno avuto corso nella
poesia italiana da Chiabrera all’800. I testi sono CANZONETTE, cioè canzoncine, testi leggeri e
fatti per essere cantati e in parte sono ODI, cioè testi di argomento e stile elevato. Il testo consta
di strofe che contano lo stesso numero di versi, degli stessi tipi, nello stesso ordine e con lo
stesso ordine di rime. I versi però possono essere di tutte le misure, con preferenza per versi
brevi, cantabili e ben ritmati. Le rime variano da piane tronche e sdrucciole, e ci sono anche
versi irrelati. Le rime tronche sono in consonante. La strofa dell’ode canzonetta non ha
articolazione interna. Dal 600 si accoppiano fra loro strofe disuguali. L’ode-canzonetta si può
sovrapporre a uno schema di settenari piani. Appartegono alla tradizione dell’ode-canzonetta
le odi di Foscolo A luigia Pallavicini, All’amica risanata, ma anche gli “Inni Sacri” di Manzoni e “Il
cinque maggio di Leopardi”.
o L’ARIA è una forma musicale, la cui metrica corrisponde a quella dell’ode-canzonetta limitate in
genere a due strofe collegate fra loro. Si può presentare indipendente o inserita entro la
struttura del melodramma o della cantata.

 SONETTO: stile umile, è un tipo di componimento tipico della lirica italiana nato nella scuola Siciliana
per invenzione probabilmente di Giacomo da Lentini formata da due quartine e due terzine per un
totale di 14 versi. Una prima parte prende che prende il nome di fronte, ottava, ottetto o quartine è
composta da due quartine che sono legate tra loro da rime alternate o incatenate (ABAB ABAB o ABBA
ABBA) mentre la seconda parte che prende il nome di sirma, sestina, sestetto o terzine è composta da
due terzine che sono organizzate secondo uno schema variabile (CDE EDC o CDC DCD), ma possibili
sono anche le altre combinazioni che non lascino i versi irrelati. Con le terzine su due rime alternate
può avvenire che le rime siano le stesse delle quartine: il sonetto si dice allora CONTINUATO. È stato
sostenuto che il sonetto derivi dall’unione di due strambotti, ma ciò non è ammissibile, perché evidente
è la vicinanza del sonetto alla COBLA ESPARSA dei provenzali. Il sonetto è il metro della TENZONE
(dibattito fra autori su un tema dato). Nel 200 è stato usato per testi di vario tipo. Poi si è stabilizzato
come nome di una precisa forma metrica. È una forma italiana, nata nella Scuola siciliana, per
invenzione di Giacomo da Lentini. È stato adottato in tutti i livelli di stile e per ogni genere di poesia e
nel 900 ne persiste ancora l’uso. Esistono una serie di varianti che consistono in ampliamenti della
struttura.

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o Il SONETTO RINTERZATO, cioè rafforzato con l’inserzione di settenari: è aggiunto un settenario
dopo ogni verso dispari dell’ottava e dopo il primo e il secondo verso delle terzine, e ogni
settenario inserito rima col verso precedente. Ha avuto successo l’aggiunta di un’appendice ai
14 versi dello schema normale. Questa può essere costituita dal RITORNELLO, cioè un verso
conclusivo, o da un RITORNELLO DOPPIO, cioè un distico (SONETTO RITORNELLATO).
o La forma più importante è il 300esco SONETTO CAUDATO, la cui coda è formato da un
settenario in rima con l’ultimo verso delle terzine, e da un distico a rima baciata. Esso ha avuto
seguito nello stile comico-realistico. La coda può essere replicata a piacere, dando vita a una
struttura aperta detta SONETTESSA.
o Altra variante è il SONETTO MINORE cioè in versi minori dell’endecasillabo, raro nella poesia
antica e diffuso nel 700. Altri sonetti sono descritti nella Summa di Antonio da Tempo
(COMUNE: in versi sdruccioli, tronchi, endecasillabi, settenari; INCATENATO: tutti i versi sono
legati da rima interna, RIPETUTO: comincia ripetendo la parola finale del verso precedente;
RETROGRADO: scritto in modo che si possa rivoltare l’ordine delle parole nel verso;
SEMILETTERATO: scritto alternando un verso in italiano e uni in latino; BILINGUE: alternando
versi in due lingue).

 BALLATA: stile medio più adatto a temi di carattere popolare, è una forma per musica, componimento
di origine medievale il cui nome deriva dal fatto che era impiegato per accompagnare il ballo. È un testo
in strofe o stanze e ricorda la stanza della canzone. Caratteristica essenziale è la presenza della
RIPRESA, cioè un ritornello che precede un testo e che nell’esecuzione musicale viene cantato fra una
stanza e l’altro. In base alla lunghezza della ripresa la ballata viene definita grande, con ripresa di 4
versi, mezzana, se la ripresa è di 3 versi, minore se la ripresa è di 2 versi, piccola se la ripresa è di un
verso endecasillabo, minima se la ripresa è di un verso più piccolo dell’endecasillabo, e stravagante se
la ripresa è costituita da più di quattro versi, un endecasillabo e 5 settenari. L’ultima rima della stanza
riprende la rima finale o un’altra rima della ripresa. La ripresa può contenere versi che non rimano, se
resta senza rima l’ultimo non è irrelato perché rima col verso finale di ogni stanza. Se è il primo, esso
resta irrelato.La ballata fu una forma metrica ignorata dai Siciliani e si sviluppa in Italia nella seconda
metà del 200 nella poesia toscana, religiosa e amorosa. In alcuni casi nella lirica due-trecentesca la
ballata si compone anche di una sola stanza, oltre alla ripresa e prende il nome di ballata
monostrofica, contro la ballata pluristrofica.
o La STROFA ZAGIALESCA è una forma metrica diffusa in Europa che deriva da un arabo. Lo
schema consiste in una ripresa di due versi a rima baciata, e in strofe di 4 versi, i primi tre in
rima fra loro, e il quarto in rima col distico. I versi sono di varia misura e nella lauda è frequente
l’anisosillabismo.
o La BALLATA ITALIANA si afferma in Italia col nome di BALLATA ANTICA. Le sue forme sono
correnti nella poesia musicale 300-400esca. I versi sono in endecasillabi e settenari. Nella lauda
in forma di ballata si usano anche le altre misure, anche con anisosillabismo. La stanza è divisa
in due parti: la prima a sua volta si divide in MUTAZIONI o PIEDI i cui versi sono dello stesso
tipo nello stesso ordine rimati variamente senza lasciare rima irrelata. È possibile che le
mutazioni siano di un solo verso. La seconda parte della stanza è detta VOLTA e ha lo stesso
numero di versi nello stesso ordine e dello stesso tipo e con lo stesso schema di rime della
ripresa. Spesso è di regola che il primo verso della volta rimi con l’ultimo verso della 2°
mutazione.
o La BARZELLETTA è una ballata pluristrofica di ottonari di destinazione musicale, diffusa nel
300-400. Nella tradizione musicologica la barzelletta è detta FROTTOLA.
o La CANZONETTA è il termine che designa la poesia 300-400esca con forma metrica principale
della ballata. I diversi tipi si distinguono per ragioni non metriche: melodia, contenuti, lingua
ecc. CICILIANA, VINIZIANA, NAPOLETANA, CALAVRESE E GIUSTINIANA, sono tipi di canzonetta.

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 Il MADRIGALE è una forma breve di poesia per esecuzione musicale elaborata nel 300 con la lirica
profana. È costituito da alcune terzine di endecasillabi (2-5), concluse di solito da un distico, da un
verso isolato o da una coppia di distici che prendono il nome di ritornello. Gli schemi delle rime sono
vari e i versi sono in endecasillabi e settenari. Il madrigale fu una delle forme poetiche più diffuse nel
Cinquecento e nel Seicento

Altre forme metriche che venivano destinate all’esecuzione musical erano:

 Il RONDÒ è una forma breve per musica, caratterizzata da ripetizione di interi versi, secondo uno
schema stabilito, propria della poesia francese e raro in Italia.
 Lo STRAMBOTTO e il RISPETTO sono termini usato per un tipo di poesia per musica quasi sempre di 8
versi, con due schemi principali: l’OTTAVA SICILIANA ABABABAB (detta CANZUNA), e l’OTTAVA
TOSCANA ABABABCC detta RISPETTO. La fortuna del rispetto o strambotto è del 300-400. Nell’ottava
toscana più rispetti possono essere collegati insieme (spesso nella poesia amorosa del 400).
 STORNELLO è il nome 800esco che raggruppa vari tipi di testo breve, popolare, di 2 o 3 versi. Presenti
sono una rima, una consonanza e un’invocazione iniziale, spesso ad un fiore.

Le principali forme metriche della poesia narrativa sono la sirventese, la terzina e l’ ottava

 SERVENTESE: è usato nel 300-400 per designare una pluralità di forme che hanno come unico tratto
comune il fatto di non appartenere alla lirica illustre ma a quella popolare. Nella sua Summa, Antonio da
Tempo comprende tra le forme del serventese la quartina di endecasillabi a rima alternata, il distico di
endecasillabi a rima baciata, il serventese caudato e la terza rima della Commedia. Il SERVENTESE
CAUDATO è una forma metrica in strofe composte di una serie di versi lunghi rimati fra loro, e di un
verso breve conclusivo che rima con i versi lunghi della strofa successiva. I versi lunghi possono essere
ottonari-novenari, endecasillabi o settenari doppi, quelli brevi quadrisillabo, quinario o un settenario. Il
CAPITOLO QUADERNARIO è una forma di serventese del 300-400 in strofe di 4 versi, il terzo settenario
e gli altri endecasillabi e con verso iniziale irrelato (ABbC CddE EFfG). La TERZINA DOPPIA è un
serventese con scema ABA CBC DED FEF.

 TERZA RIMA o TERZINA DANTESCA o INCATENATA: è un tipo di componimento che ha lo schema ABA
BCB CDC. i versi quindi sono uniti tre a tre nella strofa, e sono uniti tre a tre dalla rima, ma a cavallo tra
una strofa e l’altra. La terza rima compare e si afferma con la Commedia, per questo è detta TERZINA
DANTESCA. È tipica della poesia allegorica e didascalica e la troviamo ad esempio nell’egloga e
nell’elegia.

 OTTAVA RIMA: è detta anche STANZA, è una strofa di endecasillabi rimata ABABABCC. Nel repertorio
“laudi stico” l’ottava rima è comunemente frequente nella LAUDA DRAMMATICA o SACRA
RAPPRESENTAZIONE del 400. L’ottava ha avuto grande fortuna nella narrativa epico-cavalleresca e
caratterizza i cantari. Tutti gli autori dei più importanti poemi cavallereschi italiani come Boiardo che
ha scritto “Orlando innamorato”, Ariosto che ha scritto “Orlando Furioso” e Tasso che ha scritto
“Gerusalemme Libertata”, hanno impiegato questo tipo di struttura.

Altre forme della poesia narrativa sono la sestina, la nona rima e l’endecasillabo sciolto.

Esistono, oltre alle forme fisse, le forme libere come la POLIMETRIA, ossia la libera alternanza di versi di più
tipi o di più forme metriche in un testo detto POLIMETRO. È diverso dall’anisosillabismo in quanto questo
considera un’oscillazione del numero di sillabe in versi che sono considerati dello stesso tipo. Una strofa
regolare composta di versi di più tipi si dice eterometrica (non polimetrica), contrapposta a una strofa
monometrica, composta di versi dello stesso tipo. La polimetria è propria della poesia drammatica in cui per

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esempio troviamo l’alternanza di ottava e terza rima. Polimetriche sono anche le SACRE RAPPRESENTAZIONI,
l’EGLOGA QUATTROCENTESCA. Polimetrica è anche l’inserzione di parti liriche tra le parti recitate in
endecasillabi e settenari e così l’alternanza di arie e di recitativi in endecasillabi e settenari nel melodramma.

Forme libere sono:

 il MOTTETTO è un genere musicale liturgico sviluppatosi in Francia tra XII e XIII secolo. Non ha
struttura regolare.
 La FROTTOLA è un genere di poesia-spettacolo che oscilla fra la dimensione ludica e quella sentenziosa
moraleggiante. Sua caratteristica è la prevalenza del valore della rima sulla misura del verso. Le rime
procedono a coppie, terne o in serie più ampie, mentre la misura dei versi oscilla con libertà . La rima
serve per agganciare le articolazioni di un discorso divagante.
 La CANZONE FROTTOLA ha lo schema di una canzone, ma la concatenazione del discorso divagante e
l’insistita ripercussione delle rime appartengono alla frottola. Presente è anche la rima tronca.
 L’ENDECASILLABO FROTTOLATO è un endecasillabo in serie con rima al mezzo. Oltre che nella frottola
si trova nella poesia bucolica. Variante quattrocentesca è lo GLIOMMERO napoletano.
 Il MADRIGALE CINQUECENTESCO è una forma breve di poesia per musica in endecasillabi e settenari,
con una configurazione estremamente libera. È più breve del sonetto e normalmente non supera gli 11-
12 versi.
 La POESIA SCENICA è dal 500 un campo di elaborazione del discorso in endecasillabi e settenari a
schema libero, che arieggia la prosa e cerca una musicalità con un fitto fioco di rime. Di grande rilievo è
il DRAMMA PASTORALE. L’opposizione fra discorso libero in endecasillabi e settenari e forme liriche è
alla base della struttura del MELODRAMMA. Al RECITATIVO in endecasillabi e settenari si oppongono le
arie (forme brevi dell’ode-canzonetta). Recitativo e aria formano la struttura del genere 600-700esco
della CANTATA.
 La SELVA è un altro tipo di componimento libero che si origina dalla combinazione di endecasillabi e
settenari e prendono anche il nome di canzone libera. Le stanze differiscono per dimensione, alternanza
di endecasillabi e settenari, schema di rime e versi irrelati. Nelle prime CANZONI le stanze sono ampie,
complesse, non divisibili, con rime irrelate e schemi difficili da percepire. La prima CANZONE LIBERA è
“A Silvia” di Leopardi. In essa si trovano forme del discorso libero in endecasillabi e settenari proprie
del madrigale cinquecentesco, del dramma pastorale, del melodramma, dell’idillio. L’unico elemento
fisso è l’ultimo verso di ogni stanza, un settenario non irrelato. In altre canzoni libere l’ultimo verso non
irrelato è un endecasillabo. La dimensione della stanza è variabile, data dal movimento del discorso.

Nel corso del tempo di è cercato di creare imitazioni della metrica classica in quanto i classici antichi non hanno
mai cessato di essere i modelli più autorevoli. Infatti, proprio dell’Umanesimo è il forte spirito di
riappropriazione della letteratura classica, al di là dei secoli medievali. Si aspira a riprodurre in tale periodo i
metri latini e greci e si tende a pensare i metri italiani in termini di analogia con la metrica latina. Il problema è
che la prosodia latina è diversa da quella italiana. Il verso latino si fonda sulla quantità delle sillabe: certe
posizioni possono essere occupate solo da sillabe lunghe, altre solo da sillabe brevi. L’unità metrica è il METRO,
che può coincidere con un PIEDE, o essere formato da più piedi. Il piede è un insieme di sillabe (2-4) divise in
due elementi: ARSI, cioè il tempo forte (voce + alta) e TESI, cioè il tempo debole (voce si abbassa). I piedi più
rilevanti sono il trocheo, il giambo, il dattilo, l’anapesto, lo spondeo, il coriambo. La poesia romanza forma la
propria metrica basandosi su un altro tipo si poesia latina, detta RHYTHMICA che si è sviluppata secondo le
nuove caratteristiche del latino parlato tardo e che si fonda sul numero di sillabe (indipendentemente dalla
quantità ), sull’accento e sulla rima. Vari sono i tentativi di riprodurre i metri classici in italiano. Il primo
consiste nell’imitare strutture strofiche classiche, utilizzando versi italiani. Alcune forme metriche come l’ode
sono nate da tale imitazione e così ottenute hanno avuto successo, come le canzoni pindariche e le odi di Orazio.
Un secondo tipo consiste nel comporre versi in italiano secondo le regole classiche. L’insieme di questi tentativi
è chiamato metrica barbara. I primi tentativi sono gli ESAMETRI di Leon Battista Alberti, e gli ESAMETRI e
STROFA SAFFICA di Leonardo Dati.
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 Nell’ESAMETRO latino, accento di parola e tempi forti dei piedi tendono a non coincidere nei primi 4
piedi, e a coincidere invece negli ultimi due; il ritmo della fine dell’esametro può essere perciò reso in
italiano con una successione di sillabe toniche e atone.
 Il PENTAMETRO nella poesia latina si usa con l’esametro nel DISTICO ELEGIACO.
 La STROFA SAFFICA LATINA è un metro catulliano e oraziano, ampiamente adottato nella poesia
mediolatina. Nel 300-400 coincide con essa una delle forme più diffuse del serventese caudato. È
formata da 3 SAFFICI MINORI e da un ADONIO.
 La forma più comune della saffica italiana è una strofa di 3 endecasillabi e un quinario, rimata ABAB.
Per mantenere una certa prossimità col metro latino, gli endecasillabi dovrebbero avere l’accento sulla
4° e il quinario sulla 5°. La saffica rimata è usata frequentemente fra 700-800 con rime ABBA.
 La strofa ALCAICA latina è un metro oraziano formato da due ALCAICI ENDECASILLABI, un ALCAICO
ENNEASILLABO, e un ALCAICO DECASILLABO.
 La strofa ASCLEPIADEA è un metro oraziano che si presenta con varie combinazioni di ASCLEPIADEI
MINORI col GLICONEO e col FERECRATEO.
 Il SISTEMA GIAMBICO anch’esso oraziano, consta in latino di distici formati da un TRIMETRO
GIAMBICO e da un DIMETRO GIAMBICO.

LA RIMA
Si dice che due parole sono in rima quando la parte terminale di entrambe a partire dall’ultima sillaba tonica
produce lo stesso suono. La rima di solito coinvolge le parole finali dei singoli versi, ma può anche riguardare
due parole all’interno di uno stesso verso o due parole di versi vicini. Dunque la rima consiste nell’identità di
suono della parte finale di due o più parole, a partire dalla vocale tonica compresa, o di due o più versi, a partire
dall’ultima vocale tonica compresa.
Fino al 500 la rima è stabilmente associata alla fine del verso. In questa condizione essa ha una funzione
demarcativa, cioè favorisce la percezione della divisione in versi. Gli eventuali versi senza rima prendono il
nome di rima irrelata. Nella poesia isosillabica l’importanza della rima demarcativa è minore, e si sposta
all’interno, individuando così un verso minore all’interno del maggiore. Inoltre la rima ha anche una funzione
strutturante che serve a dare rilievo alla costruzione di strutture strofiche.
Lo schema delle rime è un elemento importante nella costruzione strofica.
Tra le rime di fine verso troviamo:
 RIMA BACIATA, A COPPIE o ACCOPPIATA schema AA BB CC: la forma strofica più legata a questo
schema è il DISTICO. La rima di tipo AA può essere continua in tutta la strofa, che quindi si dice
MONORIMA.
 RIMA ALTERNATA O ALTERNA  schema ABAB CDCD EFEF: si usa nella quartina e si ha quando il
primo verso rima con il terzo e il secondo con il quarto. La rima alternata per 8 versi ABABABAB dà
luogo a un’ottava siciliana. Regola analoga per i due tipi di sonetto. Con schema ABABABCC abbiamo
un’ottava toscana, con lo schema ABABCC una sestina.
 RIMA INCROCIATA, CHIUSA o ABBRACCIATA  schema ABBA CDDC EFFE: è usata nelle quartine e si
ha quando il primo verso rima con il quarto e il secondo con il terzo. Le quartine ABBA ABBA formano la
prima parte del secondo tipo di sonetto più diffuso.
 RIMA INCATENATA ABA BCB CDC: è lo schema della terza rima o terzina dantesca. Si ha quando il
primo verso rima con il terzo, il secondo con il primo e il terzo della seconda terzina e così via.
 RIME REPLICATE  ABC ABC:
 RIME INVERTITE o RETROGRADE  ABC CBA
 RIMA IPERIMETRA: figura tipicamente pascoliana e ha avuto una certa fortuna nel 900. Si ha quando la
sillaba tonica di una parola piana rima con la sillaba tonica di una parola sdrucciola o viceversa. La
sillaba in più a cui allude il termine ipermetro riguarda la rima, non il verso.
 RIMA PERFETTA: si ha quando c’è identità di tutte le vocali e consonanti a partire dall’ultima vocale
tonica del verso. Tuttavia, la nozione d’identità di rima perfetta è anche culturale. La poesia antica ha
conosciuto rime di tipo culturale, poi uscite dall’uso, come la RIMA SICILIANA (i con è, u con ó ).

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Essenziale è che la rima siciliana e i tipi di rima più o meno analoghi costituiscono nella poetica
duecentesca, un’eccezione, mai la regola. La rima siciliana è una toscanizzazione della poesia siciliana.
Un’estensione della rima siciliana è quella GUITTONIANA. La nozione di identità di rima è spesso
dovuta anche a elementi culturali.
 RIMA IMPERFETTA: si ha quando due parole nelle sillabe finali presentano o vocali uguali ma
consonanti diverse, prendendo il nome di rima assonante, o consonanti uguali ma vocali diverse,
prendendo il nome di rima consonante.
 RIMA EQUIVOCA: si ha quando due parole che rimano sono uguali foneticamente ma non
semanticamente. Caso estremo è la rima IDENTICA, in cui una parola rima con sé stessa. Di regola
parole omofone devono differire tra loro. L’uso della rima equivoca è tipico del 200. La rima EQUIVOCA
CONTRAFFATTA è ottenuta sommando due parole (m’ai mai).
 RIMA COSTANTE = collega tutte le strofe di un testo nella stessa posizione. La funzione ritmica della
rima si dice anche ASSOCIATIVA, in quanto associa due o più parole, mettendo in relazione anche
significato o funzione sintattica.
 RIME TECNICHE o RIMA RICCA: sono rime arricchite da un’estensione all’indietro del segmento
identico prima dell’ultima vocale tonica del verso. Comporta l’identità di uno o più suoni precedenti
l’ultima vocale tonica. Sono rime ricche anche quelle che si estendono al di là della parola in rima (RIMA
CONTRAFFATTA).
 RIMA GRAMMATICALE: è una rima complicate da forme aggiuntive di relazioni fra le parole che rimano.
Non è proprio una rima, ma un rapporto di derivazione grammaticale istituito fra due serie di rime.
 RIMA COMPOSTA: rima in cui la parola in rima è ottenuta artificiosamente sommando parole distinte.
Questa parola è accentata in modo che l’ultima tonica del verso sia nella giusta posizione. Talvolta viene
considerata un caso particolare di rima per l’occhio, nella quale l’identità nella parte finale dei due versi
è grafica, ma non fonetica.

In base alla morfologia della parola la rima può dirsi inoltre facile, ossia rima desinenziale o suffissale per cui
sono disponibili molte parole nel lessico della lingua; rima difficile, cara o rara, ossia rima per la quale è
difficile trovare parole; rima derivativa, ossia rima fra due parole di cui una deriva dall’altra; rima inclusiva,
ossia parola in rima contenuta nell’altra o nelle altre (arte, Marte, carte, parte).

In base all’accento della parola la rima può dirsi piana, ossia rima di parole piane, la più comune in italiano;
tronca, ossia fatta di parole tronche, rara nella poesia antica fino al XVI e estranea alla tradizione illustre
(insieme alla rima sdrucciola). È usata sporadicamente nella Commedia, nel Canzoniere di Petrarca e nella
canzone frottola. Sonetto in rime tronche nella Summa di Antonio da Tempo, nel genere ballata e strambotto.
Esiste anche la rima tronca in consonante che è ancora più rara. Poi abbiamo la rima sdrucciola, ossia rima
tra parole sdrucciole, rara nel 200, più frequente nel 300. Lo troviamo nel sonetto di Antonio da Tempo e
nell’ode-canzonetta. Nel 400 ha sapore popolareggiante.
Esistono inoltre rime all’interno del verso stesso come la rima al mezzo che divide il verso in emistichi; la rima
interna che si distingue dalla rima al mezzo in quanto non divide il verso e la sua collocazione è indefinita; la
rima in tmesi che divide una parola in fine di verso. Il caso più comune è la divisione degli avverbi in mente; la
rima sineretica che è la rima tra la forma bisillabica di un nesso vocale tonica + atona in fine di verso, e la
forma bisillabica all’interno; la rima con apocope tipico della poesia del 200 e la rima irrelata quella di un
verso che non rima con nessun altro. Comuni nella canzone del 200 tranne che in quella petrarchesca in quanto
Petrarca non l’ammette. È un tipo di rima che funziona in relazione a componimenti che normalmente
prevedono una rima e in quel caso non viene usata. Nella ballata è ammessa nel primo verso della ripresa.
Nell’ode-canzonetta è presente in posizioni fisse in versi sdruccioli, tronchi o piani.

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