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Beltrami Gli Strumenti Della Poesia
Beltrami Gli Strumenti Della Poesia
poesia" Beltrami
Stilistica
Università degli Studi di Padova
38 pag.
B. La strofa
La sequenza dei versi può essere ininterrotta, oppure può articolarsi in strutture intermedie,
ossia in strofe. Questa struttura è propria dei testi in rima (rima: identità di suono della parte
finale di due versi dall’ultima vocale tonica compresa). Le forme strofiche sono perlopiù
strutture di versi con un determinato schema di rime (es. distico AA, terzina ABA, quartina
ABAB o ABBA o AAAA, sestina ABABCC, ottava ABABABCC). Tuttavia la strofa può
essere anche senza rima e può essere identificata dalla successione regolare di più tipi di
versi (es. 3 endecasillabi e 1 quinario: strofa saffica) o può consistere di versi tutti uguali.
Infine le strofe possono trovarsi anche nei testi di struttura libera e in questo caso esse sono
sezioni del discorso segnalate con la divisione grafica. Precisazione terminologica: a rigore,
bisognerebbe definire forma strofica solo quella in strofe dello stesso numero di versi,
composte dagli stessi tipi di versi e con lo stesso schema di rime (es. canzone, ballata ma
non il sonetto), tuttavia ora indichiamo con il termine forme strofiche tutte quelle che sono
divise in strofe secondo una struttura regolare.
D. Prosodia
E. Un catalogo di forme
Se il livello inferiore dei fatti metrici corrisponde alla prosodia, a livello superiore è
possibile riconoscere un catalogo di forme che sono state disponibili ai poeti nelle varie
epoche. Per creare questo catalogo ci avvaliamo di un criterio simile a quello utilizzato da
Bembo (nelle Prose della volgar lingua 1525) che distingueva le forme metriche in:
regolate (di struttura fissa), libere (di struttura variabile) e mescolate (sottoposte ad alcune
regole). Qui usiamo un criterio analogo:
• Forme regolate: esistono regole strutturali che però lasciano un margine di libertà.
Parliamo di: canzone petrarchesca, ballata, canzone-ode e ode-canzonetta, madrigale
nella forma trecentesca, strambotto, distico a rima baciata, quartina, serventese, terza
rima, ottava rima e endecasillabo sciolto.
b. Ballata
c. Sonetto
d. Madrigale
e. Strambotto
• Forme discorsive: quelle lunghe della poesia narrativa, epica e didascalica. Sono ad
esempio:
a. il distico;
d. l’endecasillabo sciolto.
• Tra forme liriche e discorsive ci sono ampie zone di sovrapposizione: spesso infatti la
poesia italiana ha adottato per la poesia discorsiva forme derivate dalla poesia lirica. La
poesia discorsiva delle origini non aveva, ad es. le rime, mentre queste poi vengono
inserite in virtù dell’influenza della poesia lirica. Inoltre anche la terza rima e l’ottava
rima, forme discorsive, hanno delle origini controverse che però rimandano a forme
liriche.
G. Metro e sintassi
C’è una tendenza di base per cui si fa spesso coincidere il limite di verso con un limite
sintattico, quando ciò non accade abbiamo un’inarcatura, enjambement. In Italia non c’è
mai stato un vero e proprio rifiuto di esso, anzi nell’endecasillabo sciolto, ad es., appare
necessario. In ogni caso l’enjambement tra versi è molto ricorrente, mentre lo è molto meno
tra unità metriche di livello superiore (es. strofe).
Due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa
posizione, quindi per stabilire il numero di sillabe di un verso si contano le sillabe fino
all’ultima tonica. Possono esserci 3 casi:
C’è quindi un’equivalenza nella misura tra versi piani, tronchi e sdruccioli. Questo principio
di computo sillabico deriva dalla metrica provenzale e francese antica.
▲ Parisillabi e imparisillabi
Parisillabi sono i versi di numero pari e imparisillabi sono i versi di numero dispari, Dante è
il primo a distinguerli e aggiunge anche un giudizio di valore assumendo che gli
imparisillabi (tranne il novenario) sono adatti allo stile elevato, mentre i parisillabi sono più
rozzi. Inoltre la tradizione italiana non usa la commistione di parisillabi e imparisillabi.
Si creano dei problemi in particolar modo quando ci sono due o più vocali consecutive,
pertanto parliamo di alcuni fenomeni:
• Dièresi: caso in cui un nesso di due vocali entro la parola vale due sillabe, può esser indicata
con due puntini sovrapposti, detti dieresi grafica.
• Sinèresi: caso in cui un nesso di due vocali entro la parola vale una sillaba.
Questi nessi (mia, mai, lei, mie, reo, sua, fui) in fine di parola valgono due sillabe se
sono alla fine del verso, una sillaba se sono all’interno di esso. Ci sono delle eccezioni:
all’interno del verso possono valere due sillabe nella poesia petrarchesca e
petrarchistica anche se molto raramente, mentre accade più spesso nella poesia
d’origine, in Dante e nella poesia meno influenza da Petrarca. Questa figura si dice
dieresi d’eccezione ed è più frequente davanti a parole inizianti per s + consonante. Se
questi nessi non sono in fine di parola, il trattamento è lo stesso.
b. Regola etimologica
Principio per cui si identifica la dieresi con una scansione latineggiante: la dieresi
divide in due sillabe un nesso che ne valeva due in latino e si è ridotto a una in italiano.
Questa regola etimologica non vale per i nessi di vocale tonica + atona: in fine di verso
voi (da vos) vale due sillabe esattamente come suo (da suum).
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1. Quando iè, uò derivano da “è” e “ò” latini (es. pèdem > piede), questi valgono
sempre una sola sillaba;
2. Il dittongo au (dal latino “au”) è regolarmente monosillabico, ma ci sono delle
eccezioni, esattamente come eu;
3. Una i consonantica (ossia articolata come una consonante) non ha mai valore di
sillaba, pertanto non c’è dieresi nei nessi di consonante + i + vocale derivata da
consonante + l + vocale del latino (es. chiave da clavem);
4. Delle volte il nesso fra due vocali è solo grafico (es. minaccia) in quanto la “i” è un
segno diacritico per indicare il suono palatale di c, g, l. In questo caso di norma non
si separa (eccezioni rarissime).
1. I nessi a, e, o + vocale tonica sono di norma bisillabici (es. paese, paura, maestro,
leone);
2. Nessi di due vocali separate da “i” consonantica sono generalmente bisillabici (es.
gioia, -aio); anche se in questo caso è frequente la sineresi (per influenza del
provenzale in cui queste parole sono monosillabiche, es. joi) sia nella poesia antica,
sia – seppur in frequenza minore – nei tempi recenti.
Esiste poi anche la sinalefe tra due versi, detta anasinalefe o episinalefe, usata anche da
Pascoli.
• Dialefe: caso in cui la vocale finale di una parola e l’iniziale della successiva valgono due
sillabe. Caso più raro, limitato in Petrarca e ancor più nel 500 in poi, la rifiuta soprattutto
l’800. È invece più usata nella poesia del Duecento, in Dante, nella poesia tre-
quattrocentesca che non risente di Petrarca. Casi in cui è più possibile che ci sia:
1. Dopo vocale tonica (anche in Petrarca)
2. Con i nessi di vocale tonica + atona finali di parola: in questo caso può esserci o
sinalefe (es. ve / drai I / ta /lia) o dialefe (voi / ar / ma / ta)
3. Dopo alcuni monosillabi, anche nell’uso di Petrarca, tra cui ma, che, se, o.
Altri fenomeni:
• Apocope: caduta della vocale finale, spesso troviamo l’alternanza di forme apocopate e non
(es. vuol e vuole);
• Epìtesi: aggiunta di una vocale in fine di parola per evitare le finali tronche e ottenere versi
piani (es. tue per tu)
• Sincope: caduta di vocale interna di parola (es. lettre per lettere); esistono anche quelle
apparenti in francesismi (es. guerrò per guerirò)
Come dev’essere la lettura dei versi che contengono questi fenomeni (sinalefe, dialefe, dieresi e
sineresi)? È desiderabile che l’esecuzione rispecchi il computo delle sillabe e ciò è abbastanza
facile nel caso della dieresi e nella dialefe, mentre invece per la sineresi e sinalefe in alcuni casi si
creano dei problemi: sineresi ad es. –aio molto complicata da far sentire, però sono rare sineresi del
genere. Per la sinalefe invece la situazione è ancora più problematica es. dolci acque, se si
pronuncia senza far sentire la sinalefe si fa diventare il verso un ottonario, mentre se si pronuncia
con la sinalefe non suona bene la parola. Con questi presupposti si consiglia spesso di far sentire le
due vocali, anche perché eliminando quella finale si potrebbero perdere alcune informazioni
grammaticali, ma così facendo si crea l’equivalente di una sineresi. In ogni caso questi problemi si
presentano più riflettendo sulla scansione del verso che nella pratica della lettura.
▲ La cesura: è un limite di parola che cade all’interno dell’unità metrica detta piede anziché
alla fine; un verso può averne più di una, ma ci sono delle norme per alcuni versi, es.
esametro e da esso nasce la pratica di chiamare cesura la sillaba finale di parola che segue
una sillaba tonica o coincide con essa. Parlando di cesura, analizziamo alcuni fenomeni:
• I versi doppi (il più importante è il settenario doppio): versi articolati in due parti
chiamate emistichio, la divisione tra queste due parti è detta cesura;
c. La cesura italiana: cesura apparente alla 5° sillaba creando così due serie da 5+5.
d. La cesura epica: parola piana con la tonica sulla 4° e atona sulla 5° e poi secondo
emistichio di 6 sillabe. Molto rara.
L’endecasillabo ha quindi una cesura o sulla 4° o sulla 6°, la funzione dell’accento sulla
4° deriva dal modello francese, mentre l’accento sulla 6° è sì dovuto all’imitazione del
dècasyllabe ma è anche dovuto alla predilezione italiana per l’accostamento del
settenario all’endecasillabo: mettendo l’accento sulla 6° infatti l’endecasillabo
corrisponde nella sua prima parte ad un settenario.
Quando parliamo invece di cesura in senso ritmico intendiamo la presenza di una pausa
o sintattica o di intonazione, che tendenzialmente cade a metà verso. Questo tipo di
pausa però non è obbligatoria, può essere di diverso grado o mancare del tutto.
▲ Isosillabismo e anisosillabismo
La tradizione metrica italiana è isosillabica nel senso che i versi dello stesso tipo hanno
sempre lo stesso numero di sillabe. Quando un verso è troppo lungo (ha una sillaba in più) si
dice ipèrmetro, mentre quando ha una sillaba in meno si dice ipòmetro. La poesia lirica
antica però non è sempre isosillabica: questo tipo di versificazione convive con una
anisosillabica ossia con forme di versificazione nelle quali una certa escursione nel numero
delle sillabe non altera la forma metrica del testo. L’anisosillabismo è tipito della
versificazione giullaresca il cui verso più caratteristico oscilla fra 8 e 9 sillabe, con
escursioni fino a 10. Questo tipo di verso è comune anche nella laude.
Capitolo 3: l’accento.
▲ Sillabismo e accento.
I versi italiani sono caratterizzati dal numero di sillabe ma abbiamo visto che il numero di
una serie di sillabe dipende dalla posizione dell’ultima tonica, pertanto definiamo la metrica
italiana non solo sillabica ma anche accentuativa. L’accento è la caratteristica per cui una
sillaba è articolata con più energia delle altre: questa si dice tonica, le altre atone. L’accento
può essere detto ictus per distinguerlo fra gli accenti della prosa. Gerarchia di importanza:
• Obbligatori: accenti la cui presenza rende il verso corretto (es. endecasillabo il 10° e il
4° o il 6°).
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È il verso più importante della tradizione italiana sia perché ha avuto una lunga frequenza
sia perché è evidente misura di riferimento anche per la versificazione libera del 900. È un
verso che ha come ultima sillaba tonica la 10° e, per quanto riguarda l’endecasillabo
canonico, ha tonica o la 4° o la 6°. Tre tipi di endecasillabo:
2. Il decasillabo.
Un verso che ha come ultima tonica la 9°. Nella poesia antica questo verso è usato con una
libera disposizione, ma dal secondo Settecento in poi si consolida la forma con accenti fissi:
3°-6°-9°. Compare poi anche come quinario doppio con anisosillabismo, o come variante
anisosillabica del novenario o dell’endecasillabo. Un uso particolare di questo verso viene
fatto da Pascoli che inserisce decasillabi con accento sulla 4°-6°-9°.
3. Il novenario.
Un verso che ha come ultima tonica l’8°. Nella poesia antica il novenario si trova molto
raramente nella poesia lirica, mentre è più frequenta nella poesia giullaresca e/o religiosa del
Duecento con accentazione sostanzialmente libera. Dalla seconda metà dell’Ottocento
invece si stabilizza la forma con accenti fissi: 2°-5°-8°, forma sfruttata in particolare da
Pascoli.
Esiste poi il novenario doppio, anche se la questione è controversa per quanto riguarda i
testi antichi, mentre nella poesia recente lo troviamo in Gozzano che usa distici di novenari
che però possono mancare di una sillaba.
4. L’ottonario.
Un verso che ha come ultima tonica la 7°. Il tipo più normale è quello con accento fisso
sulla 3°: nella poesia antica non è una regola in quanto si trovano anche ottonari con
accentazione diversa, mentre ora è diventata una vera e propria regola piuttosto che una
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5. Il settenario.
Un verso che ha come ultima tonica la 6°. È un verso a schema libero, quindi possiamo
trovare uno o due accenti interni liberamente, eccezion fatta solo per la 5° che di solito è
atona. Inoltre è raro anche che l’accento sulla 1° sia seguito direttamente da quello della 6°
o che l’accento sulla 6° sia il primo di tutto il verso. È un verso che gode di grande fortuna
in quanto è congiunta con quella dell’endecasillabo, di cui il settenario può esser considera
una parte (la prima di un endecasillabo a maiore o la seconda di un endecasillabo a minore).
La composizione di settenario con endecasillabo è frequente in tutta la poesia italiana,
mentre l’uso del settenario da solo è meno frequente, ma comunque normale.
Parliamo ora del settenario doppio. Esistono vari tipi:
• un primo tipo in cui il primo settenario è sempre sdrucciolo (tonica + 2 atone) e il
secondo è sempre piano (tonica + atona);
• Un secondo tipo, che deriva dall’alessandrino francese, ha il primo settenario che può
essere piano o sdrucciolo e il secondo che è sempre piano.
• Un terzo tipo è entrato nell’uso nel Sei-Settecento nell’ambito della versificazione
teatrale, è detto martelliano da Pier Jacopo Martello che lo introdusse nelle sue
tragedie. In questo tipo di settenario doppio, i due settenari sono piani entrambi.
6. Il senario.
Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 5°. Ha un accento fisso sulla 2° (Pascoli), ma è
stato usato anche senza esso non solo nella poesia antica.
Esiste anche il senario doppio, con entrambi i senari accentati sulla 2° e sulla 5°, ed è stato
usato soprattutto nella poesia romantica (Manzoni).
7. Il quinario.
Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 4°. Questo può essere l’unico accento del verso
oppure può essercene uno o sulla 1° o sulla 2°, più raro che ci sia nella 3°. Questo tipo di
verso è presente nel Duecento per la canzone (prima che si stabilizzasse nell’endecasillabo
e settenario), nel Cinquecento per il discorso libero in endecasillabi e settenari e nel
repertorio dell’ode-canzonetta.
Esiste anche il quinario doppio, che si distingue dal decasillabo perché l’accento cade
sempre sulla 4° creando così una divisione fra le due parti costanti. Si trova nella poesia
religiosa con anisosillabismo, nel repertorio canzonettistico e melodrammatico del
Settecento, nella ballata romantica ottocentesca e in Pascoli.
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Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 3° ed è usato soprattutto in combinazione con altri
versi, tra cui l’ottonario (3°-7°).
9. Il trisillabo.
Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 2°, come verso a sé è recente es. Pascoli lo
inserisce con il senario o con il novenario.
Capitolo 5: La rima.
La rima è l’identità di suono della parte finale di due o più parole, a partire dalla vocale tonica
compresa, o di due o più versi a partire dall’ultima vocale tonica compresa. Inoltre questo termine,
dal suo significato etimologico, indica anche le poesie rimate in italiano. La disposizione delle rime
viene detto schema delle rime.
Fino al 500 la poesia è sempre in rima, essa è infatti stabilmente associata alla fine del verso e ha
funzione demarcativa: favorisce la percezione della divisione in versi. Nella poesia isosillabica la
funzione demarcativa della rima ha meno importanza e si sposta all’interno in quanto una rima
interna può individuare un verso minore all’interno di uno maggiore.
Per classificare le rime possiamo usare diversi criteri; il primo che usiamo è la funzione strutturante
in base alla quale distinguiamo:
a. Rima baciata (AA BB CC …) che ha come forma strofica più collegata il distico. Inoltre la
rima del tipo AA può essere continuata lungo tutta una strofa (monorima) e ciò si trova nella
quartina monorima.
b. Rima alternata (ABAB CDCD EFEF …) che viene usata in particolare nella quartina.
Questa rima alternata per 8 versi crea l’ottava siciliana, quando invece gli ultimi due versi
sono a rima baciata (ABABABCC) si dice ottava toscana, se invece i versi a rima alterna
sono 4 (ABABCC) + la rima baciata si parla di sestina.
c. Rima incrociata (ABBA CDDC EFFE …) usata spesso nelle quartine, due quartine a rima
incrociata con le stesse rime (ABBA ABBA) formano la prima parte del sonetto.
d. Rima incatenata (ABA BCB CDC …) usata per la terzina dantesca. Inoltre questa rima
può essere: replicata (ABC ABC) o invertita (ABC CBA).
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Possiamo poi classificare le rime in base alla loro funzione ritmica o associativa (la ripetizione di
suoni associa tra loro due o più parole ponendo in relazione anche significato e funzione sintattica):
1. Rima facile: quella per cui sono disponibili molte parole. Di questo tipo ricordiamo
soprattutto la rima desinenziale (fra parole con uguale desinenze, es. –ire), la rima suffissale
(fra parole con uguale suffisso, es. avverbi in –mente).
2. Rima difficile (o rara): quella per la quale è difficile trovare parole, cara soprattutto alla
poesia antica.
3. Rima derivativa: quella fra due parole di cui una deriva dall’altra (es. degna/disdegna),
anche di derivazione apparente (es. membra/rimembra). Inoltre questi sono casi anche della
rima inclusiva in cui una parola è contenuta nell’altra.
Possiamo poi classificare le rime in base all’identità di suoni all’interno di essa. In questo caso:
▲ Rime fonetiche
• Rima perfetta: quella con identità di tutte le vocali e le consonanti a partire dall’ultima
vocale tonica del verso.
• Rima imperfetta: se questa identità non è completa si parla di rima imperfetta. Il caso
più rilevante è l’assonanza (identità rigorosa delle sole vocali, es. dice/venisse).
Un’assonanza può essere a sua volta imperfetta se è uguale solo l’ultima vocale tonica.
Se invece l’identità rigorosa riguarda le sole consonanti si parla di consonanza, anche se
quest’ultima non è mai usata al posto della rima a differenza dell’assonanza che invece
spesso è inserita al posto della rima (soprattutto in generi come la lauda, il serventese
etc.).
Approfondimento: la nozione di identità non è solo fonetica, ma anche culturale. Non a
caso nella tradizione italiana è perfetta la rima di è chiusa con è aperta e iè (es. vede/piede
o verde/perde) e di o chiusa con o aperta e con uò (es. amore/cuore e corto/porto), mentre
in tutte le altre metriche romanze ciò non accade. La spiegazione di questo fenomeno vede
coinvolti due fattori: in primis l’uso della rima della poesia latina medievale in cui la e/o
lunghe rimano con e/o brevi, inoltre c’è da ricordare che i primi modelli di poesia italiana
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• Rima guittoniana: si tratta di un’estensione della rima siciliana per cui la i rima non
solo con è (chiusa) ma anche con è (aperta) e idem per la u.
• Rima piana: rima composta da parole piane (tonica + atona) è la più comune in
italiano.
• Rima tronca: rima composta da parole tronche (ultima tonica). Molto rara fino al XVI
secolo, usata sporadicamente nella Commedia e nel Canzoniere. Più frequenti nel
genere della ballata e dello strambotto. La rima tronca in consonante (es. amor) è
ancora più rara nella poesia antica, mentre si usa nella poesia per musica
quattrocentesca e diventa comune solo dopo Chiabrera.
• Rima sdrucciola: rima composta da parole sdrucciole (tonica + 2 atone). Rara nel
Duecento e in Dante, diventa più frequente nel Trecento e entra inoltre frequentemente
nei generi musicali. Nel Quattrocento era frequente l’idea per cui questo tipo di rima
avesse un sapore popolareggiante.
▲ Rime tecniche
• Rima ricca: rima arricchita da un’estensione all’indietro del segmento identico prima
dell’ultima vocale tonica del verso. Comporta cioè l’identità di uno o più suoni
precedenti l’ultima vocale tonica, es. sentero/altero. Si possono considerare ricche
anche le rime che si estendono al di là della parola in rima, es. l’ore/colore (rima
contraffatta).
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• Rima equivoca: rima che consiste nell’identità di suono delle parole in rima. Nella rima
equivoca abbiamo due parole omofono che devono differire tra loro o perché di
significato diverso o perché di categoria grammaticale diversa, o perché di diverso
genere, numero, modo verbale. Il caso estremo è la rima identica, in cui una parola rime
con sé stessa. L’uso sistematico della rima equivoca è proprio del Duecento e poi
sempre più saltuario.
• Rima in tmesi: divide una parola in fine di verso. Il caso più comune è la divisione
degli avverbi in –mente (es. differente- / mente … veloci e lente). Una vera spezzatura
di parola è propria del Duecento.
• Rima ipèrmetra: figura tipicamente pascoliana (es. tàcita / tenàci), ossia una rima di
parola sdrucciola (tonica + 2 atone) con una parola piana (tonica + atona), che sarebbe
perfetta sopprimendo l’ultima sillaba della sdrucciola. Si dice ipèrmetra in quanto si fa
riferimento alla sillaba in più della parola in rima, non del verso. Molta fortuna nel
Novecento.
▲ Rime interne
• Rima al mezzo: rima che divide il verso in emistichi (in cesura nell’endecasillabo)
• Rima interna: non corrisponde a tale divisione.
Entrambe non impediscono mai la sinalefe. È frequente fino a Dante, poco usata in Petrarca
e poi di uso sempre raro. Nel caso di questi due tipi di rime è frequente la rima sineretica:
tra la forma bisillabica di un nesso di vocale tonica + atona in fine di verso e la forma
monosillabica all’interno (es. che leggiadri a / disvia cotanto …). Inoltre è molto
convenzionale anche il caso della rima interna o al mezzo con apocope (es. dottare/portar).
▲ Rima irrelata
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Fin dalle origini la metrica italiana si fonda sul modello della poesia provenzale e francese,
in quanto fra il XII e il XIII – periodo in cui in Italia si scrivono i primi testi in versi volgari
– nelle zone francesi già si era prodotta una ricca letteratura in versi che diventa un vero e
proprio modello. È da questa dimensione che provengono, ad es., le regole metriche
fondamentali come l’isosillabismo, anche se va sottolineato come questo modello sia
seguito, dai poeti italiani, non attraverso un’imitazione pedissequa, ma anzi con molta
creatività.
Per quanto riguarda il Duecento si può parlare di una “prosodia antica” ed è frequente
l’anisosillabismo (possibilità per il verso di oscillare di una o due sillabe rispetto alla misura
di base). Con Dante e Petrarca, invece, si codifica l’endecasillabo in forma canonica
(accento sulla 4° e/o 6° oltre che sulla 10°), c’è però da dire che nel Trecento e Quattrocento
si impone il modello toscano pre-petrarchesco che ha certamente regole codificare, ma che
presuppone ancora una certa libertà nel computo delle sillabe e nella posizione degli accenti,
soprattutto al di fuori dei generi poetici “maggiori”. Per quanto riguarda Petrarca invece, che
sarà il modello principale, possiamo parlare di una sensibilità prosodica ben precisa. Egli è
restio allo iato e pertanto evita la dieresi e la dialefe e conta per una sillaba il trittongo e la
vocale iniziale della parola seguente. Infine è proprio con Dante e Petrarca che culmina la
tendenza alla riduzione delle forme: Dante prevede ancora il quinario anche se lo usa
pochissimo, Petrarca usa solo endecasillabi e settenari. L’endecasillabo trionfa anche nella
poesia discorsiva anche se spesso accoppiato con il settenario. Ciò che con queste due
autorità non cambia è l’uso della rima: fino ai primi del Cinquecento, infatti, il verso non
rimato è inconcepibile, inoltre per la poesia alta è ammessa solo la rima piana, mentre quelle
sdrucciole e tronche sono molto meno usate, se non nella poesia di intonazione
popolareggiante.
Petrarca si afferma, sempre di più, come modello e nel Cinquecento il suo valore esemplare
diviene evidente e questo fatto viene codificato da Bembo nelle Prose della volgar lingua
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1 Forme in – ute invece che –ù rimangono correnti fino all’Ottocento, sia in fine di verso per evitare versi
tronchi sia all’interno del verso per consentire la sinalefe.
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A. Canzone
Le forme della canzone attraversano tutta la storia della poesia italiana, la canzone
antica o petrarchesca è il metro di maggiore prestigio nella poesia dei primi secoli, dura
fino a Tasso e conosce ancora riprese fino a Carducci e D’Annunzio. La canzone
pindarica, la canzone-ode e l’ode-canzonetta sono frutti del rinnovamento
cinquecentesco e le ultime due sono le forme portanti della poesia lirica fino all’avvento
della versificazione libera.
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Nel Duecento inoltre si incontra un altro tipo di divisione della stanza: la prima parte
viene divisa in due piedi come abbiamo visto, mentre la seconda si divide in due
volte, ossia in due serie di versi dello stesso tipo nello stesso ordine: in tal modo la
stanza è quadripartita. Altro tipo di divisione della stanza è quella in una prima parte
indivisibile, che Dante chiama fonte, e in una seconda divisibile in due volte. Nel Sei
e Settecento si scriveranno poi numerose canzoni in stanze non divisibili
regolarmente secondo la norma Dantesca, ma che si presentano come elaborazioni
della stanza petrarchesca. Esse possono esser collegate tra loro o attraverso le rime o
attraverso altri artifici: uso come prima rima della stanza dell’ultima rima
precedenze, la ripresa nel primo verso della stanza di una parola contenuta
nell’ultimo verso della precedente o l’uso di marcate analogie nella forma dell’inizio
di ogni stanza.
b. Stanza
La stanza della canzone può costituire da sola un testo. Uso molto frequente nella
poesia provenzale, meno in quella italiana: i casi più illustri sono canzoni interrotte
(Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti di Cavalcanti e Sì lungiamente m’à tenuto
Amore di Dante).
c. Discorso
È una forma musicale tipica dei trovatori provenzali e francesi, in Italia ha avuto una
fortuna limitata nel periodo delle origini. È formata da stanze ognuna delle quali
presenta forme di simmetria interna, ma ha uno schema diverso dalle altre.
d. Sestina lirica
È una forma di canzone in stanze indivisibili. In Italia nasce con Dante che imita uno
schema di Arnaut Daniel, dal quattrocento in poi diventa una forma fissa che ha
esercitato il suo fascino anche sui moderni. Essa ha delle regole ben precise:
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e. Canzone pindarica
Detta anche ode pindarica, introdotta nei primi del Cinquecento da Trissino,
Alamanni e Minturno, si ispira alle Odi di Pindaro in cui ad una strofe seguono
un’antistrofe (con lo stesso schema di versi e rime) e un epòdo con uno schema
diverso, l’insieme definito triade può esser ripetuto più volte. Questa struttura
triplice è propria anche della stanza di piedi e sirma della canzone petrarchesca ma la
differenza importante p nel rapporto che si istituisce con la poesia classica. Di tale
struttura se ne serve Chiabrera e, fra i moderni, Pascoli che però guarda direttamente
al modello greco.
f. Canzone-ode
È una forma di canzone in stanze semplificate, elaborata dal primo Cinquecento. Per
es. si prende a modello l’ode oraziana (composta da strofe di 4 versi) e si afferma la
quartina di endecasillabi rimati ABBA o ABAB (Bembo e Trissino) che apre una
tradizione che giungerà fino all’Ottocento. Si tratta dunque di una stanza breve di
endecasillabi o endecasillabi e settenari senza articolazione interna e ciò si affermerà
in particolare con Chiabrera.
g. Ode-canzonetta
Ci si riferisce ad un ampio repertorio di forme che hanno avuto corso nella poesia
italiana da Chiabrera all’Ottocento. Parte di questi testi sono canzonette, ossia testi
leggeri fatti per essere cantati, mentre altri sono odi, in quanto testi di argomento e
stile elevato. Il principio fondamentale è che il testo è costituito da strofe (stesso
numero di versi dello stesso tipo nello stesso ordine e con lo stesso schema di rime),
ma i versi possono essere di tutte le misure, le rime sono anche tronche e sdrucciole,
ci sono molti versi irrelati e sono frequenti le rime tronche in consonante. La strofa
dell’ode-canzonetta, come quella della canzone-ode, non ha articolazione interna.
Vediamo alcuni schemi utilizzati:
• Strofe di tutti i settenari (La musica, Parini);
• Strofe di settenari sdruccioli non rimati alternati a settenari piani rimati
(è la quartina saviolana, da Ludovico Savioli Fontana);
• Strofe di quinari (Inno a Satana, Carducci);
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h. Aria
L’aria è prima di tutto una forma musicale che può presentarsi anche
indipendentemente dalla struttura del melodramma e della cantata. Dal punto di vista
metrico le forme dell’aria sono uguali a quelle dell’ode-canzonetta, in genere però
sono limitate a due strofe collegate tra loro.
B. Sonetto
Nome provenzale che nel Duecento usato per testi di vario tipo, poi si è stabilizzato
come nome di una precisa forma metrica che secondo i più è stata estranea alla musica
fin dalle origini (posizione discussa). È una forma italiana, nata nella Scuola siciliana
probabilmente ad opera di Giacomo da Lentini, poi frequentissima in tutte le epoche.
Esso infatti è stato adottato in tutti i livelli di stile e per ogni genere di poesia (anche nel
Novecento, in piena versificazione libera). Nella forma canonica esso è composta da 14
endecasillabi ed è diviso in due parti, due quartine (fronte, anche se nella poesia antica
era sentita divisa in 4 distici) e due terzine (sirma). La fronte può avere lo schema
ABABABAB (più antico) o ABBA ABBA (che suggerisce una divisione in due quartine,
schema più frequenta), sono possibili poi altri schemi ma sono molto rari); la sirma
invece ha lo schema CDE CDE o CDC DCD (i più frequenti in Petrarca), in
quest’ultimo caso può avvenire che le rime siano le stesse delle quartine e allora si
chiama sonetto continuo.
C’è sicuramente una prossimità tra il sonetto e la stanza della canzone, seppur in una
somiglianza strutturale non perfetta: il sonetto infatti occupa nel sistema dei generi del
Duecento il posto della stanza: per es. è il metro proprio della tenzone (dibattito con
risposta per “le rime”), inoltre l’uso di variare la struttura del sonetto dimostra che esso
è sentito come una stanza.
Vediamo le varianti rispetto al sonetto canonico:
• Nell’uso di Guittone si aggiungono dei distici AB alla fronte e dei distici
CD alla sirma;
• Nel sonetto rinterzato è aggiunto un settenario (in rima con il verso
precedente) dopo ogni verso dispari dell’ottava e dopo il primo e il
secondo verso delle due terzine;
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C. Ballata
Forme nata per la musica e destinata al canto e alla danza, si sviluppa in Italia non con i
siciliani, ma nel secondo Duecento nella poesia toscana sia nel genere religioso (lauda)
sia nella poesia amorosa per cui, per un arco di tempo, è un serio concorrente della
canzone. È un testo in stanze la cui struttura è simile a quella della canzone. C’è però
una ripresa, ossia un ritornello che precede il verso, viene cantato tra una strofa e l’altra
e alla fine. Di solito tutte le stanze terminano con la stessa rima, ma nella ballata profana
di solito troviamo una sola stanza. Vediamo i vari tipo di ballata:
a. Zagialesca
Riprende il metro di ampia diffusione europea medievale, ossia la strofa zagialesca,
che deriva da un metro arabo. Lo schema tipico consiste di una ripresa di due versi a
rima baciata e in strofe di 4 versi in cui i primi tra sono in rima tra loro e il quarto è
in rima con il distico. I versi possono essere di varia misura, prevale
l’anisosillabismo.
b. Ballata “italiana”
Definita anche “antica”, si sviluppa nel Duecento, cade poi in disuso e tra Otto e
Novecento ritornerà in auge grazie all’interesse per le forme antiche manifestato da
Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Solitamente si compone di soli endecasillabi e
settenari, ma nella lauda si trovano anche altre misure con anisosillabismo. La stanza
è divisa in due parti: la prima è divisa a sua volta in due mutuazioni o piedi (serie di
verso dello stesso tipo nello stesso ordine, rimati variatamente ma in modo di non
lasciare versi senza rima), la seconda parte è detta volta ed è composta dallo stesso
numero di versi, dello stesso tipo e nello stesso ordine e lo stesso schema di rime
della ripresa. Solitamente il primo verso della volta rima con l’ultimo della seconda
mutazione e la rima dell’ultimo verso è quasi sempre uguale all’ultima rima della
ripresa. Una possibile classificazione fra le forme della ballata italiana è possibile in
virtù della forma della ripresa:
• Ballata mezzana: ripresa di 3 versi
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c. Barzelletta
D. Madrigale trecentesco
È una forma breve di poesia per musica, elaborata nel Trecento. In questa fase della sua
storia è costituito da 2 a 5 terzine concluse da un distico, un doppio distico o da un verso
isolato. Gli schemi delle rime sono vari e i versi possono essere endecasillabi o
endecasillabi e settenari. Questa forma lascerà poi nel Cinquecento ad un tipo senza
alcuno schema, mentre nel secondo Ottocento verrà ripreso lo schema classico, citato da
Petrarca.
E. Rondò
Forma breve di poesia per musica, caratterizzato da ripetizioni di interi versi secondo
uno schema stabilito. Proprio della poesia francese, molto raro in quella italiana,
ricordiamo quello di Boiardo. Verrà poi ripreso da Carducci e D’Annunzio.
F. Strambotto e rispetto
Nomi usati indistintamente per un tipo di poesia per musica quasi sempre di otto versi
con schema ABABABAB (ottava siciliana) o ABABABCC (ottava toscana), mentre altri
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G. Stornello
Con questo nome si designano vari tipi di testo breve, popolare, di tre o anche due versi
che sono caratterizzata da una rima e una consonanza, oltre che da una breve
invocazione iniziale (spesso ad un fiore).
Solitamente nella poesia italiana antica per i generi discorsivi si usa il distico a rima
baciata (AA BB CC …) che può essere o in settenari (es. Tesoretto di Brunetto Latini) o
in alessandrini (es. Splanamento de li Proverbi de Salamone di Girardo Patecchio) o in
ottonari-novenari (questo è il metro con il quale la poesia giullaresca imita il distico
francese) o, molto più raramente, in endecasillabi. Nonostante ciò la poesia discorsiva
italiana non è particolarmente favorevole al distico in rima baciata, eccezion fatta per la
versificazione teatrale del Settecento: Pier Jacopo Martello userà, infatti, proprio il
distico di alessandrini a rima baciata per le due opere e da questo momento in poi
rimarrà un metro disponibile per il teatro, di cui ne farà uso anche Carlo Goldoni.
C. Quartina
La forma più rilevante è la quartina monorima di alessandrini, che in Italia è il metro
tipico della poesia didascalica settentrionale, usato per es. da Giacomino da Verona. La
quartina monorima può essere anche di endecasillabi (res. Poemetto veronese
duecentesco Della caducità della vita umana) o di ottonari-novenari (es. nell’Anonimo
Genovese).
D. Serventese
Termine usato nel Tre Quattrocento per indicare una pluralità di forme che hanno come
unico tratto in comune il fatto di non appartenere alla lirica illustre. Lo stesso nome è
usato nel provenzale per indicare, però, un testo in forma metrica di canzone, di
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b. Il capitolo quadernario.
c. La terzina doppia.
È quella usata da Cecco d’Ascoli nell’Acerba (poema didascalico incompiuto per la
morte dell’autore nel 1327). Lo schema è ABA CDC DED FEF … ed è in relazione
con la terza rima dantesca, però rispetto ad essa la terzina di Cecco è caratterizzata
dalla chiusura dei blocchi di 6 versi (invece che dalla catena di terzine che si
conclude solo alla fine di ogni canto). Questo schema viene ripresa da Pascoli.
Si tratta di una forma in cui lo schema è ABA BDB CDC … YZY Z, normalmente tutti
endecasillabi. In ogni terzina i due versi esterni rimano fra di loro mentre quello interno
rima con i due esterni della successiva: in tal modo i versi sono uniti a tre a tre nella
strofa e a tra a tra dalla rima ma a cavallo fra una strofa e l’altra, alla fine inoltre c’è un
verso isolata che rima con il secondo dell’ultima terzina (la rinuncia a questa
conclusione è molto rara). Questa forma di afferma con la Commedia ed è un’invenzione
di Dante, che usa come modelli il serventese caudato, le terzine del sonetto e la forma
della canzone. Dopo Dante, la terza rima viene molto usata per tutti i generi della poesia
discorsiva, nella poesia allegorica, nel genere del capitolo didascalico, storico, satirico e
moraleggiante o burlesco, nell’egloga volgare. Verrà poi recuperato da Pascoli e da
Pasolini (con grande libertà nelle rime, nella misura e nel ritmo dei versi).
I. Endecasillabo sciolto.
È l’endecasillabo in serie continua senza rima, la sua storia comincia nel Cinquecento
con Trissino che ne propugna l’uso come equivalente di genere dell’esametro latino e
come verso adatto al teatro. Poi Giovanni Rucellai e Luigi Alamanni lo impongono nella
poesia didascalica. Questo metro diventa quello di maggior prestigio in tutti i campi
della poesia discorsiva, consacrato definitivamente da Parini e da Foscolo e poi, dal
Settecento, inizia ad essere impiegato anche nella poesia lirica, grazie a Leopardi.
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Questo nome spetta originariamente ad un genere musicale liturgico francese del XII e
XIII secolo che non ha una forma regolare (a differenza delle ballate o dei rondò).
Questo nome poi è stato dato da Francesco Barberino a 50 testi polimetrici in strofe
isolate da 2 a 8 versi, caratterizzati da grande varietà di misure e di schemi di rima, in tal
caso il termine significa “breve poesia sentenziosa”.
B. Frottola
a. Frottola
È un genere di poesia-spettacolo che oscilla fra la dimensione ludica e quella
sentenziosa; la tradizione va da Antonio da Tempo a Pietro Aretino. La caratteristica
fondamentale è la prevalenza del valore della rima rispetto alla misura del verso: i
versi oscillano con grande libertà (seppur prevalgano quelli brevi), mentre le rime
procedono regolarmente a coppie, terne o in serie più ampie e servono da aggancio
fra le articolazioni di un discorso divagante, con frequenti salti logici: un membro
del discorso finisce con una rima e il successivo riparte agganciandosi alla stessa.
b. Canzone frottola
È quella inserita da Petrarca nel Canzoniere intitolata Mai non vo’ più cantar com’io
soleva (Rvf. 105). Lo schema è quello di una canzone, ma ha delle caratteristiche
tipiche della frottola tra cui: il discorso divagante, l’insistiti ripercussione delle rime
e la presenza della rima tronca.
c. L’endecasillabo “frottolato”
A partire dal testo di Petrarca la tradizione della frottola ha subito una
normalizzazione dando vita a delle forme regolari in endecasillabi sempre interrotti
da rima al mezzo col verso precedente alla 7° sillaba, che viene detto endecasillabo
frottolato (si trova non solo nella frottola ma anche nella poesia bucolica, es. Arcadia
di Sannazzaro).
C. Poesia drammatica e per musica
La polimetria intesa come alternanza di forme metriche diverse è propria della poesia
drammatica (per es. nei testi quattrocenteschi è frequente l’alternanza di ottava e terza
rime, polimetriche sono le sacre rappresentazioni, l’egloga quattrocentesca. Una forma
di polimetria, inoltre, è l’inserzione di parti liriche (canzoni) tra le parti recitate in
endecasillabi e settenari e l’alternanza di arie e di recitativi in endecasillabi e settenari
nel melodramma.
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È una forma breve di poesia per musica in endecasillabi e settenari con una
configurazione fortemente libera sia per quanto riguarda la proporzione fra i due versi,
sia per quanto riguarda lo schema delle rime e la presenza e proporzione di versi irrelati.
Di norma è più breve del sonetto e non supera gli 11/12 versi; nonostante questa estrema
libertà del metro non significa che non si possano riconoscere struttura di versi e rime
attentamente studiati.
C. Canzone libera
Nel Sei Settecento il discorso libero in endecasillabi e settenari viene introdotto anche
nella canzone: in questa forma, le stanze differiscono per dimensione (in un certo senso
esse sono dei madrigali), alternanza dei versi, schemi di rime e versi irrelati. Modello
indiscusso di ciò è senz’altro Leopardi che nelle prime canzoni riprende la
sperimentazione sei-settecentesca di stanze irregolari rispetto a quelle petrarchesche
(stanze ampie, complesse, indivisibili e con rime irrelate). La prima canzone libera
leopardiana è A Silvia (1828) in cui l’unico elemento fisso è che l’ultimo verso di ogni
stanza è sempre un settenario non irrelato (in rima con un verso precedente).
Successivamente, alla fine di un complesso percorso sperimentale, egli immette nella
canzone le forme del discorso libero proprie del madrigale cinquecentesco, del dramma
pastorale, del melodramma e dell’idillio, in alcune sue canzoni libere l’ultimo verso di
ogni stanza è un endecasillabo non irrelato; tutto il resto è molto variabile: la dimensione
della stanza, l’alternanza dei versi, la disposizione delle rime, il numero e la posizione
dei versi irrelati.
Un aspetto importante per quanto riguarda la storia della cultura poetica europea è senz’altro
l’influsso esercitato dalla metrica classica sulla metrica moderne, in quanto i classici antichi
non hanno mai smesso di essere i modelli più autorevoli. È, in particolare, nell’Umanesimo
che c’è un forte spirito di riappropriazione della letteratura classica e talvolta questa
“riappropriazione” si porta sul terreno della poesia in italiana, nel senso che c’è da un lato
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• Il giambo: ˘ ⁻
• Il dattilo: 27 0B ˘ ˘
• L’anapesto: ˘ ˘ ⁻
• Lo spondeo: ⁻ ⁻
• Il coriambo: ⁻ ˘ ˘ ⁻
Nel latino parlato tardo la quantità vocalica non ha più valore significativo e la posizione
dell’accento di parola non dipende più dalla quantità della penultima sillaba. La metrica
quantitativa classica continua ad esistere, ma si fonda sulla conoscenza scolastica della
quantità latina, piuttosto che su una percezione linguistica. La poesia romanza perciò fonda
la sua metrica basandosi non su questo tipo di metrica, ma sulla poesia latina rhythmica dai
trattatisti medievali che si basa sul numero delle sillabe, sull’accento e sulla rima.
Tutto ciò ci fa capire che la differenza fra la metrica italiana e quella latina è motivata da
ragioni linguistiche e ha radici storiche remote. I tentativi di riprodurre in italiano i metri
classici sono di vario tipo:
1. Imitare le strutture strofiche classiche utilizzando i versi latini (es. canzone pindarica,
canzone-ode che ricalca le odi di Orazio);
2. Comporre versi in italiani secondo le regole latine. All’insieme di questi tentativi si dà il
nome di metrica barbara, in virtù delle Odi barbare di Carducci che costituiscono
l’episodio più importante. in questo caso si possono distinguere due modi per fare ciò:
a. Individuazione di versi italiani da considerare equivalenti dei versi latini
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I primi tentativi di metrica quantitativa italiana sono di Leon Battista Alberti e Leonardo
Dati, successivamente ricordiamo Minturno: tutti cercarono di definire dei criteri per cui
le sillabe italiane si possano considerare brevi o lunghe. I primi due, ad esempio,
stabilirono che se la parola italiana corrisponde chiaramente ad una latina si assume che
le sillabe abbiano la stessa quantità etc.
a. Esametro
Consta di 6 piedi, di cui i primi 5 dattili (27 0B ˘ ˘) sostituibili con spondei (27 0B 27 0B ) e il
sesto trocheo (27 0B ˘) o spondeo (27 0B 27 0B ). In tal caso accento di parola e tempi forti dei
piedi tendono a non coincidere nei primi 4 piedi, mentre negli ultimi due sì. Pertanto
il ritmo della fine dell’esametro può esser reso in italiano con una successione di
sillabe toniche (+) e atone (_): + _ _+ _. È questa la soluzione tentata da Carducci il
cui esametro è l’unico che ha avuto successo: egli adotta un verso composto da due
versi italiani, la cui la prima parte è un settenario (più raramente un senario o
ottonario) e la seconda invece un novenario con accenti di 2°-5°-8° (o 3°-5°-8°).
b. Pentametro
Carducci lo rende con un doppio settenario o con un quinario + settenario. Talvolta
Carducci tenta di riprodurlo rendendo con l’uscita tronca degli emistichi i tempi forti
dei due mezzi piedi finali.
c. Endecasillabo
Paolo Rolli si ispira all’endecasillabo falecio di Catullo: il suo endecasillabo rolliano
ha l’accento sulla 4° sillaba portato da una parola sdrucciola. Egli usa questi versi in
terzine nelle quali il primo e il terzo verso rimano fra loro, mentre nel secondo gli
emistichi sono invertiti.
B. Forme strofiche
a. Strofa saffica
c. Strofa asclepiadea
Metro oraziano che si presenta con varie combinazioni di asclepiadei minori (27 0B
⁻ ⁻ ˘ ˘ ⁻ / ⁻ ˘ ˘ ⁻ ˘ ⁻), con il gliconeo (⁻ ⁻ ⁻ ˘ ˘ ⁻ ˘ 27 0B ) e con il ferecrateo
(27 0B 27 0B 27 0B ˘ ˘ 27 0B 27 0B ).
Carducci rende l’asclepiadeo minore con l’endecasillabo sdrucciolo oppure con un
quinario doppio (con entrambi gli emistichi sdruccioli), il gliconeo con un settenario
sdrucciolo e il ferecrateo con un settenario piano. Vari tipi di questa strofa:
d. Sistema giambico
Metro oraziano che consta in latino di distici formati da un trimetro giambico (27 0B 27 0B ˘
x3) e da un dimetro giambico (27 0B 27 0B ˘ 27 0B x2).
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7B
Questo verso è reso con distici raggruppati in terzine oppure con una quartina di
endecasillabi e settenari a rima alterna.
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d. Il moto confetto: non è altro che la frottola, genere corrente nella poesia spettacolo
cortigiana del Tre Quattrocento.
Altro genere del Trecento legato alla musica polifonica profana è la caccia che però non si
lega ad una forma metrica precisa. Altre due forme da tenere in considerazione sono la
barzelletta: una forma regolare di ballata, generalmente di ottonari; la canzonetta che
rispetto al madrigale ha una caratterizzazione di genere più popolareggiante e lo strambotto
(o rispetto), genere che ha avuto grande fortuna nella poesia musicale del Tre e soprattutto
Quattrocento.
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▲ L’ottocento
Quando facciamo riferimento a questo secolo non possiamo non citare le canzoni
leopardiane: esse hanno come punto di riferimento la tradizione delle canzoni sei-
settecentesche che non rispettano l’articolazione petrarchesca della stanza, Leopardi attinge
a quel repertorio metrico selezionandolo e trattandolo in modo originale rispetto ai suoi
contemporanei. Parliamo dunque di canzone libera: essa non è di per sé una novità, ma la
novità consiste nella strada che Leopardi usa per giungere a questo esito, strada attraverso la
graduale dissoluzione dall’interno degli schemi delle canzoni regolari con il recupero della
tradizione cinque-settecentesca del discorso libero in endecasillabi e settenari. In tal modo la
strofa leopardiana non è più un’impalcatura preesistente al ritmo, ma è generata dal
movimento ritmico del testo.
Appartengono al repertorio settecentesco anche le liriche dell’ode-canzonetta (es. odi di
Foscolo e gli Inni sacri di Manzoni), la ballata romantica: in Italia essa riprende i modelli
nordici, sono testi che si richiamano per lo più alle tradizioni popolari o a miti storici
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