Sei sulla pagina 1di 39

Riassunto "Gli strumenti della

poesia" Beltrami
Stilistica
Università degli Studi di Padova
38 pag.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
Gli strumenti della poesia Pietro G.
Beltrami

Capitolo 1: Perché studiare la metrica, introduzione.


Il testo poetico è fatto di quello che si dice e di come lo si dice, proprio il “come” costituisce la
compiutezza del significato, pertanto la metrica è una parte fondamentale degli aspetti formali;
inoltre è necessario studiare la metrica all’interno delle diverse situazioni storiche: solo in questo
modo possiamo conoscere i margini entro i quali il discorso poetico si muove.
La metrica è fortemente legata alla musica, in quanto in origine i testi in versi erano testi per la
musica. Nonostante ciò le norme metriche non sono uguali a quelle della musica, tuttavia la metrica
– come la musica – organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni mettendoli in relazione tra
loro secondo rapporti di tempo e di qualità sonora. Parlando di metrica è possibile fare una
distinzione fondamentale fra:
▲ Metrica regolare: quella tradizionale, classica;
▲ Metrica libera: la poesia del Novecento si è liberata della metrica tradizionale, anche se
comunque continua a organizzare il discorso secondo rapporti di numero di sillabe, di
posizioni di accento, di ricorrenza di suoni etc. La novità, perciò, consiste nel fatto che il
testo è costruito secondo un progetto individuale, entro il quale possono esserci delle forme
tradizionali che però vengono trattate come un materiale di cui si può disporre in modo
libero e individuale.
A questo punto è utile puntualizzare anche di cosa si occupa la metrica e pertanto è necessaria una
precisazione terminologica: ossia la distinzione fra poesia e versificazione:
▲ Versificazione: intendiamo un fatto tecnico che riguarda certe caratteristiche formali del
discorso;
▲ Poesia: concetto culturale più complesso che riguarda il discorso nel suo insieme, infatti non
tutti i tersi in versi sono considerati poesia e si può parlare di poesia anche per i testi in
prosa, esiste poi anche la poesia visiva o multimediale etc.
La metrica dunque si occupa della versificazione, ossia di tutti i discorsi in versi, poetici o meno,
tuttavia è pur vero che il centro dei suoi interessi sono i testi che appartengono alla storia della
poesia. Di conseguenza si può dire che la metrica studia la poesia negli aspetti che rendono il
discorso in versi differente da quello in prosa e si possono indicare due limiti estremi di interesse
fra cui questa disciplina si colloca: da un lato lo studio linguistico (es. la sillabazione) e dall’altro lo
studio linguistico.
Come accennato precedentemente è importante analizzare la metrica all’interno delle diverse
situazioni storiche, infatti è chiaro che si possa parlare di un “prima” ossia di un momento in cui ci
sono regole ben codificate, e di un “dopo” ossia di un campo aperto alla sperimentazione più varia.
Nel Novecento infatti manifestare la propria libertà delle regole era diventata – paradossalmente –
una regola: tra secondo Ottocento e inizio Novecento la poesia occidentale ha infatti subito un
profondo cambiamento di prospettiva per cui le forme tradizionali vengono utilizzate solo in modo
critico e con grande libertà. In questi anni scrivere un testo con le sillabe contate e con tutti gli
accenti e le rime ai loro posti desterebbe sospetto. Dunque è evidente che studiare gli aspetti metrici
equivale anche a capire in che modo essi siano usati nelle varie epoche: un endecasillabo è sempre
tale, eppure il suo valore cambia in base al contesto in cui esso viene scritto e recepito. Se pensiamo
1

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
ad esempio a quello utilizzato da Petrarca, che verrà assunto come modello fino all’Ottocento, è
differente da quello di Leopardi, secondo cui ha regole semplici e precise, e da quello di Montale
che può permettersi di scrivere endecasillabi che in altri tempi sarebbero stati considerati
“sbagliati”.
Quando si studia la metrica ci si imbatte necessariamente in una terminologia complessa che va a
formare una griglia per la descrizione dei testi e dei loro elementi metrici, di seguito si riportano
alcuni concetti chiavi:
A. Il verso
Noi identifichiamo il verso con una “riga di scrittura” interrotto da un a capo, tuttavia la
consuetudine di scrivere i versi in colonna non esiste da sempre (es. manoscritti medievale
che scrivono i versi come in prosa), tuttavia per un copista identificare con chiarezza il
limite fra un verso e un altro non era complicato in quanto il verso aveva una struttura ben
definita e distinguibile. Oggi giorno non si potrebbe fare ugualmente in quanto i versi non
sono così distinguibili e pertanto la scrittura in colonna è imprescindibile. Una definizione
di verso nella versificazione classica può essere quella di “un segmento di discorso
organizzato secondo determinate regole”; mentre nella versificazione libera il verso, pur
avendo una sua struttura, non parte da un modello e la disposizione sulla pagina diventa
indispensabile al lettore per identificare il verso e interpretarne la struttura. La versificazione
tradizionale e quella libera tuttavia hanno un tratto in comune, nonché quello più generale:
ossia il principio secondo cui il discorso è scandito non solo in segmenti sintattici (frasi) ma
anche in segmenti non sintattici. Il discorso in versi ha una scansione puramente formale che
è indipendente dalla struttura sintattica. Pertanto i discorsi in versi sono quelli la cui
struttura è motivata anche da principi formali estranei al significato, a differenza di quelli in
prosa la cui struttura p motivata dal significato. In questo senso è possibile definire il verso
come l’unità minima che può teoricamente costituire da sola un discorso in versi
compiuto. Può trattarsi, in breve, di una serie di sillabe strutturata secondo determinate
regole (nella versificazione tradizionale) oppure di una serie di sillabe liberamente formata
(nella versificazione libera).

B. La strofa

La sequenza dei versi può essere ininterrotta, oppure può articolarsi in strutture intermedie,
ossia in strofe. Questa struttura è propria dei testi in rima (rima: identità di suono della parte
finale di due versi dall’ultima vocale tonica compresa). Le forme strofiche sono perlopiù
strutture di versi con un determinato schema di rime (es. distico AA, terzina ABA, quartina
ABAB o ABBA o AAAA, sestina ABABCC, ottava ABABABCC). Tuttavia la strofa può
essere anche senza rima e può essere identificata dalla successione regolare di più tipi di
versi (es. 3 endecasillabi e 1 quinario: strofa saffica) o può consistere di versi tutti uguali.
Infine le strofe possono trovarsi anche nei testi di struttura libera e in questo caso esse sono
sezioni del discorso segnalate con la divisione grafica. Precisazione terminologica: a rigore,
bisognerebbe definire forma strofica solo quella in strofe dello stesso numero di versi,
composte dagli stessi tipi di versi e con lo stesso schema di rime (es. canzone, ballata ma
non il sonetto), tuttavia ora indichiamo con il termine forme strofiche tutte quelle che sono
divise in strofe secondo una struttura regolare.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
C. Metro e ritmo
Ritmo: il disporsi nel tempo di elementi riconoscibili e significativi, che in questo caso
sono le sillabe toniche e atone che si dispongono nel tempo reale della dizione o nel tempo
virtuale della lettura mentale.
Metro: la norma entra la quale il ritmo si realizza, ossia l’insieme delle regole che
definiscono un modello. Ma questo vale solo per la poesia regolare, in quanto in quella
libera non esiste un modello definito e perciò in tal caso il metro si riduce al fatto che il
discorso si articola in versi, anche se pure in questi casi è possibile riconoscere delle
regolarità metriche.
Es. settenario: il metro consiste nelle 7 sillabe e nel fatto che la sesta è tonica, mentre il
ritmo definisce la disposizione degli altri accenti.
Es. sonetto: il tipo e il numero dei versi (14 endecasillabi), l’articolazione in due parti e gli
schemi di rime riguardano il metro, mentre quello che riguarda la costruzione del discorso
e il mood con cui questo si articola nel metro (es. pause) appartengono al ritmo.
Quindi il ritmo coincide con il discorso nel suo insieme in quanto esso è pensato in
relazione ad una forma metrica.

D. Prosodia

I fatti metrici sono di 2 tipi:


• Ad un livello superiore ci sono le forme metriche
• Ad un livello inferiore c’è tutto ciò che riguarda gli elementi di suono che formano il
verso (sillaba, accento) e ciò che lo mettono in relazione con altri versi (rima).
Quando parliamo di questo secondo livello, parliamo di prosodia: insieme delle regole
riguardanti la quantità delle sillabe e la combinazione di esse in piedi, metri e versi.

E. Un catalogo di forme
Se il livello inferiore dei fatti metrici corrisponde alla prosodia, a livello superiore è
possibile riconoscere un catalogo di forme che sono state disponibili ai poeti nelle varie
epoche. Per creare questo catalogo ci avvaliamo di un criterio simile a quello utilizzato da
Bembo (nelle Prose della volgar lingua 1525) che distingueva le forme metriche in:
regolate (di struttura fissa), libere (di struttura variabile) e mescolate (sottoposte ad alcune
regole). Qui usiamo un criterio analogo:

• Forme regolate: esistono regole strutturali che però lasciano un margine di libertà.
Parliamo di: canzone petrarchesca, ballata, canzone-ode e ode-canzonetta, madrigale
nella forma trecentesca, strambotto, distico a rima baciata, quartina, serventese, terza
rima, ottava rima e endecasillabo sciolto.

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Forme fisse: quelle che hanno uno schema vincolante. Quella per eccellenza è il
sonetto, poi c’è la sestina lirica (che originariamente è una variante della canzone). Se si
intende la forma fissa considerando piuttosto il fatto che lo schema sia precostituito e
assunto dall’autore in virtù del suo prestigio allora possiamo inserire in questa categoria
anche la terzina dantesca, l’ottava rima, la strofa saffica e la quartina savioliana.
• Forme libere: affidate alla liberta inventività degli autori, forme per cui c’è poco da
descrivere dal punto di vista delle regole. Quella più importante è quella del discorso
libero in endecasillabi e settenari per cui l’unica limitazione è che vengono usati questi
due versi. Altra forma libera è la polimetria, ossia la commistione di più misure
metriche nel testo o con l’alternanza di schemi metrici diversi.

F. Metrica e generi letterari


È utile inoltre considerare il rapporto tra forme metriche e generi letterari, capendo quali
forme metriche sono adatte ad un determinato genere letterario e, all’inverso, quali generi
letterari sono consoni ad una determinata forma metrica.
Esempi di forme metriche considerate adatte per un determinato genere letterario:
• poema del 300 fino al 500 scritto in terza rima o ottava rima, poi nel 500 nasce
un’ulteriore possibilità ossia l’endecasillabo sciolto;
• poesia drammatica predilige la polimetria;
• poesia lirica per Dante si esprime nella canzone, nella ballata e nel sonetto; Petrarca
aggiunge la sestina e il madrigale.
Per considerare l’aspetto contrario, ossia capire quali generi letterari siano consoni ad una
determinata forma metrica c’è bisogno di una considerazione. Infatti non si può dire che
l’uso di una forma metrica è limitata ad un solo genere, però si può porre una distinzione tra
forme liriche e discorsive.
• Forme liriche: quelle brevi dotate di una certa compattezza e dedicate a temi amorosi,
morali, politici, d’occasione e d’intrattenimento. Inizialmente erano destinate al canto,
infatti la prima scuola poetica italiana prende le mosse proprio dalla poesia dei trovatori
provenzali; anche se c’è da precisare che non è sicuro che la poesia dei Siciliani e dei
poeti toscani del Duecento fosse musicata. Dunque sono forme liriche:
a. Canzone (in tutte le forme assunte nel tempo)

b. Ballata
c. Sonetto

d. Madrigale
e. Strambotto

• Forme discorsive: quelle lunghe della poesia narrativa, epica e didascalica. Sono ad
esempio:
a. il distico;

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
b. la terza rima;
c. l’ottava rima;

d. l’endecasillabo sciolto.

• Tra forme liriche e discorsive ci sono ampie zone di sovrapposizione: spesso infatti la
poesia italiana ha adottato per la poesia discorsiva forme derivate dalla poesia lirica. La
poesia discorsiva delle origini non aveva, ad es. le rime, mentre queste poi vengono
inserite in virtù dell’influenza della poesia lirica. Inoltre anche la terza rima e l’ottava
rima, forme discorsive, hanno delle origini controverse che però rimandano a forme
liriche.

G. Metro e sintassi

C’è una tendenza di base per cui si fa spesso coincidere il limite di verso con un limite
sintattico, quando ciò non accade abbiamo un’inarcatura, enjambement. In Italia non c’è
mai stato un vero e proprio rifiuto di esso, anzi nell’endecasillabo sciolto, ad es., appare
necessario. In ogni caso l’enjambement tra versi è molto ricorrente, mentre lo è molto meno
tra unità metriche di livello superiore (es. strofe).

Capitolo 2: Contare le sillabe.


La sillaba è una nozione complessa, possiamo definirla come unità ritmica della catena parlata,
ossia l’elemento minimo che in condizioni normali può esser pronunciato da solo, costituito almeno
da una vocale e preceduto o seguito, non obbligatoriamente, da consonanti o semi-consonanti.
Nella metrica italiana due versi sono dello stesso tipo se hanno lo stesso numero di sillabe e questo
perché esiste l’isocronismo sillabico, ossia il fatto che le sillabe sono percepite come se fossero
tutte uguali per durata.
▲ Concetto di sillabismo

Due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa
posizione, quindi per stabilire il numero di sillabe di un verso si contano le sillabe fino
all’ultima tonica. Possono esserci 3 casi:

• Verso piano: dopo l’ultima tonica c’è una sillaba atona


(Es. a / che / ri / spuo / ser / tut / te / le / ca / rò / le)

• Verso tronco: il verso termina con l’ultima tonica


(Es. Sp / rent / in / te’ / di / so / pr’ a / noi / s’ u / dì)

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Verso sdrucciolo: dopo l’ultima tonica ci sono due atone
(Es. Già / non / com / pie’ / di / tal / con / si / glio / rén / de / re)

C’è quindi un’equivalenza nella misura tra versi piani, tronchi e sdruccioli. Questo principio
di computo sillabico deriva dalla metrica provenzale e francese antica.

▲ Parisillabi e imparisillabi

Parisillabi sono i versi di numero pari e imparisillabi sono i versi di numero dispari, Dante è
il primo a distinguerli e aggiunge anche un giudizio di valore assumendo che gli
imparisillabi (tranne il novenario) sono adatti allo stile elevato, mentre i parisillabi sono più
rozzi. Inoltre la tradizione italiana non usa la commistione di parisillabi e imparisillabi.

▲ Problemi di computo delle sillabe

Si creano dei problemi in particolar modo quando ci sono due o più vocali consecutive,
pertanto parliamo di alcuni fenomeni:

• Dièresi: caso in cui un nesso di due vocali entro la parola vale due sillabe, può esser indicata
con due puntini sovrapposti, detti dieresi grafica.

• Sinèresi: caso in cui un nesso di due vocali entro la parola vale una sillaba.

Approfondiamo questi due fenomeni in determinati casi:


a. Nessi di vocale tonica + atona

Questi nessi (mia, mai, lei, mie, reo, sua, fui) in fine di parola valgono due sillabe se
sono alla fine del verso, una sillaba se sono all’interno di esso. Ci sono delle eccezioni:
all’interno del verso possono valere due sillabe nella poesia petrarchesca e
petrarchistica anche se molto raramente, mentre accade più spesso nella poesia
d’origine, in Dante e nella poesia meno influenza da Petrarca. Questa figura si dice
dieresi d’eccezione ed è più frequente davanti a parole inizianti per s + consonante. Se
questi nessi non sono in fine di parola, il trattamento è lo stesso.

b. Regola etimologica

Principio per cui si identifica la dieresi con una scansione latineggiante: la dieresi
divide in due sillabe un nesso che ne valeva due in latino e si è ridotto a una in italiano.
Questa regola etimologica non vale per i nessi di vocale tonica + atona: in fine di verso
voi (da vos) vale due sillabe esattamente come suo (da suum).
6

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
c. Nessi teoricamente inscindibili

1. Quando iè, uò derivano da “è” e “ò” latini (es. pèdem > piede), questi valgono
sempre una sola sillaba;
2. Il dittongo au (dal latino “au”) è regolarmente monosillabico, ma ci sono delle
eccezioni, esattamente come eu;
3. Una i consonantica (ossia articolata come una consonante) non ha mai valore di
sillaba, pertanto non c’è dieresi nei nessi di consonante + i + vocale derivata da
consonante + l + vocale del latino (es. chiave da clavem);
4. Delle volte il nesso fra due vocali è solo grafico (es. minaccia) in quanto la “i” è un
segno diacritico per indicare il suono palatale di c, g, l. In questo caso di norma non
si separa (eccezioni rarissime).

d. Nessi (quasi) sempre bisillabici

1. I nessi a, e, o + vocale tonica sono di norma bisillabici (es. paese, paura, maestro,
leone);
2. Nessi di due vocali separate da “i” consonantica sono generalmente bisillabici (es.
gioia, -aio); anche se in questo caso è frequente la sineresi (per influenza del
provenzale in cui queste parole sono monosillabiche, es. joi) sia nella poesia antica,
sia – seppur in frequenza minore – nei tempi recenti.

e. Nessi di scansione variabile


1. Quando i e u atone sono seguite da vocale tonica (eccezione per iè > è e uò > ò)
l’uso è oscillante, anche se è comune la dieresi (es. chiunque, viaggio);
2. Quando le vocali atone, seguire da vocale tonica, sono diverse da i e u l’oscillazione
è maggiore (es. beato);
3. I nessi di i atona + vocale atona in fine di parola sono di norma monosillabici, anche
se nell’uso dantesco non è esclusa la dieresi (es. accidia, ambrosia)

Analizziamo ora altri due fenomeni:


• Sinalefe: caso in cui la vocale finale di una parola e l’iniziale della successiva valgono una
sillaba. Riguarda il computo delle sillabe, ma è anche possibile che ci sia:
1. Elisione: soppressione della vocale finale (nostr’)

2. Aféresi: soppressione della vocale iniziale (‘ngombra)

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
3. Crasi: fusione di vocali (mâ che sta per ma a)

Esiste poi anche la sinalefe tra due versi, detta anasinalefe o episinalefe, usata anche da
Pascoli.
• Dialefe: caso in cui la vocale finale di una parola e l’iniziale della successiva valgono due
sillabe. Caso più raro, limitato in Petrarca e ancor più nel 500 in poi, la rifiuta soprattutto
l’800. È invece più usata nella poesia del Duecento, in Dante, nella poesia tre-
quattrocentesca che non risente di Petrarca. Casi in cui è più possibile che ci sia:
1. Dopo vocale tonica (anche in Petrarca)
2. Con i nessi di vocale tonica + atona finali di parola: in questo caso può esserci o
sinalefe (es. ve / drai I / ta /lia) o dialefe (voi / ar / ma / ta)
3. Dopo alcuni monosillabi, anche nell’uso di Petrarca, tra cui ma, che, se, o.

Altri fenomeni:
• Apocope: caduta della vocale finale, spesso troviamo l’alternanza di forme apocopate e non
(es. vuol e vuole);
• Epìtesi: aggiunta di una vocale in fine di parola per evitare le finali tronche e ottenere versi
piani (es. tue per tu)
• Sincope: caduta di vocale interna di parola (es. lettre per lettere); esistono anche quelle
apparenti in francesismi (es. guerrò per guerirò)

Come dev’essere la lettura dei versi che contengono questi fenomeni (sinalefe, dialefe, dieresi e
sineresi)? È desiderabile che l’esecuzione rispecchi il computo delle sillabe e ciò è abbastanza
facile nel caso della dieresi e nella dialefe, mentre invece per la sineresi e sinalefe in alcuni casi si
creano dei problemi: sineresi ad es. –aio molto complicata da far sentire, però sono rare sineresi del
genere. Per la sinalefe invece la situazione è ancora più problematica es. dolci acque, se si
pronuncia senza far sentire la sinalefe si fa diventare il verso un ottonario, mentre se si pronuncia
con la sinalefe non suona bene la parola. Con questi presupposti si consiglia spesso di far sentire le
due vocali, anche perché eliminando quella finale si potrebbero perdere alcune informazioni
grammaticali, ma così facendo si crea l’equivalente di una sineresi. In ogni caso questi problemi si
presentano più riflettendo sulla scansione del verso che nella pratica della lettura.

▲ La cesura: è un limite di parola che cade all’interno dell’unità metrica detta piede anziché
alla fine; un verso può averne più di una, ma ci sono delle norme per alcuni versi, es.
esametro e da esso nasce la pratica di chiamare cesura la sillaba finale di parola che segue
una sillaba tonica o coincide con essa. Parlando di cesura, analizziamo alcuni fenomeni:
• I versi doppi (il più importante è il settenario doppio): versi articolati in due parti
chiamate emistichio, la divisione tra queste due parti è detta cesura;

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Endecasillabo: bisogna distinguere la cesura come fatto metrico e come fatto sintattico/
ritmico. Come fatto metrico l’endecasillabo si divide in due emistichi di 4 e di 6 sillabe
così da poter riconoscere intuitivamente la misura del verso. Vari tipi:
a. Il tipo più comune di cesura è quella maschile o tronca alla 4° sillaba tonica (che /
nel / pen / sier).
b. La cesura lirica: alla 4° sillaba atona preceduta dalla 3° tonica (per / lo / fur / to).

c. La cesura italiana: cesura apparente alla 5° sillaba creando così due serie da 5+5.

d. La cesura epica: parola piana con la tonica sulla 4° e atona sulla 5° e poi secondo
emistichio di 6 sillabe. Molto rara.
L’endecasillabo ha quindi una cesura o sulla 4° o sulla 6°, la funzione dell’accento sulla
4° deriva dal modello francese, mentre l’accento sulla 6° è sì dovuto all’imitazione del
dècasyllabe ma è anche dovuto alla predilezione italiana per l’accostamento del
settenario all’endecasillabo: mettendo l’accento sulla 6° infatti l’endecasillabo
corrisponde nella sua prima parte ad un settenario.
Quando parliamo invece di cesura in senso ritmico intendiamo la presenza di una pausa
o sintattica o di intonazione, che tendenzialmente cade a metà verso. Questo tipo di
pausa però non è obbligatoria, può essere di diverso grado o mancare del tutto.

▲ Isosillabismo e anisosillabismo

La tradizione metrica italiana è isosillabica nel senso che i versi dello stesso tipo hanno
sempre lo stesso numero di sillabe. Quando un verso è troppo lungo (ha una sillaba in più) si
dice ipèrmetro, mentre quando ha una sillaba in meno si dice ipòmetro. La poesia lirica
antica però non è sempre isosillabica: questo tipo di versificazione convive con una
anisosillabica ossia con forme di versificazione nelle quali una certa escursione nel numero
delle sillabe non altera la forma metrica del testo. L’anisosillabismo è tipito della
versificazione giullaresca il cui verso più caratteristico oscilla fra 8 e 9 sillabe, con
escursioni fino a 10. Questo tipo di verso è comune anche nella laude.

Capitolo 3: l’accento.

▲ Sillabismo e accento.
I versi italiani sono caratterizzati dal numero di sillabe ma abbiamo visto che il numero di
una serie di sillabe dipende dalla posizione dell’ultima tonica, pertanto definiamo la metrica
italiana non solo sillabica ma anche accentuativa. L’accento è la caratteristica per cui una
sillaba è articolata con più energia delle altre: questa si dice tonica, le altre atone. L’accento
può essere detto ictus per distinguerlo fra gli accenti della prosa. Gerarchia di importanza:
• Obbligatori: accenti la cui presenza rende il verso corretto (es. endecasillabo il 10° e il
4° o il 6°).
9

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Principali: accenti la cui presenza fa passare il verso da un tipo istituzionale ad un altro
(es. endecasillabo se la tonica obbligatoria è la 4° allora l’accento principale cade
sull’8° o sulla 7°).
• Secondari: tutti gli altri, che sono però comunque importanti per il ritmo.
La disposizione degli accenti nel verso si chiama schema accentuativo e nel descriverlo
prendiamo in considerazione solo quelli obbligatori e quelli principali.
A tal proposito dobbiamo fare un’ulteriore distinzione:
• Versi ad accentazione fissa: ossia quei versi che si sono stabilizzati in una forma con
accenti fissi, ossia con una distribuzione rigida delle sillabe toniche. Sono il decasillabo
(3°-6°-9°), il novenario (2°-5°-8°), il senario (2°-5°) che sono stabili fin dal 700, 800, e
l’ottonario (3°-7°) la cui stabilizzazione è presente fin dalle origini.
• Versi ad accentuazione variabile: quei versi che hanno accenti variabili, sono
l’endecasillabo (10 °+ 4° o 6°), il settenario (6° e poi indifferente) e il quinario (4° + 1°
o 2°).
Due versi dello stesso numero di sillabe sono alternabili tra di loro anche se presentano una
diversa posizione degli accenti non obbligatori secondo la norma adottata dall’autore.

▲ L’interpretazione ritmica del verso.


Come si individuano gli accenti?
• Il problema dei diversi schemi accentuativi si pone con maggiore difficoltà per
l’endecasillabo, sia per la sua dimensione, sia per la prevalenza che ha avuto rispetto
agli altri. Tantissimi autori si sono cimentati nella creazione di questo verso creandone
così una propria esecuzione nella quale è inevitabile un margine di scelta soggettiva,
che però è limitata da criteri. Un criterio possibile è assumere che l’accento metrico
coincide con un accento di parola e per tanto bisogna definire quali tipi di parola
possono esser considerati privi di accento e quindi atoni: articoli, preposizioni,
congiunzioni, non in posizione non rilevante, aggettivi personali monosillabici, ausiliari
monosillabici seguire da un participio, aggettivi monosillabici etc.
• Nella lingua poetica spesso si trovano parole con accento spostato rispetto alla lingua
più usuale, lo spostamento in avanti si dice diàstole (es. umìle, simìle), mentre lo
spostamento indietro si dice sìstole (es. pièta).
• Breve approfondimento sugli accenti consecutivi: secondo una teoria prosodica non
sono possibili né due toniche consecutive né tre atone consecutive, pertanto se si
incontrano due accenti uno dei due dovrebbe esser soppresso o spostato. Qui invece si
assume il punto di vista secondo cui sono possibili sia due toniche consecutive, che tre
atone consecutive. Nel caso di accenti consecutivi essi possono essere realizzati con una
lieve pausa fra l’uno e l’altro, mentre nel caso di più atone consecutive potrebbe esserci
un appoggio della voce su alcune di esse.

10

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
Capitolo 4: i versi italiani.
1. L’endecasillabo.

È il verso più importante della tradizione italiana sia perché ha avuto una lunga frequenza
sia perché è evidente misura di riferimento anche per la versificazione libera del 900. È un
verso che ha come ultima sillaba tonica la 10° e, per quanto riguarda l’endecasillabo
canonico, ha tonica o la 4° o la 6°. Tre tipi di endecasillabo:

• Endecasillabo a minore: la tonica è la 4° e il ritmo iniziale corrisponde a quello di un


quinario. In questo caso esistono due tipi prevalenti, ossia il 4°-8°-10° che è quello più
frequenta dalle origini e quello “non marcato” nel seno che può essere usato senza alcun
tipo di connotazione stilistica in ogni genere poetico, e il 4°-7°-10° molto meno usato
da Petrarca e sentito come un verso poco adatto allo stile elevato quindi più adeguato
alla poesia discorsiva e nello stile comico;
• Endecasillabo a maiore: la tonica è la 6° e il ritmo iniziale corrisponde a quello di un
settenario. Di solito è tonica almeno una sillaba che precede la 6°, di solito o la 2° o la
3°, è infatti raro che non sia preceduto neppure da un accento rilevante ed è raro anche
il caso in cui la 6° sia anticipato solo dall’accento di 1°.
• Endecasillabo non canonico: sono atone sia la 4° sia la 6°. Molto raro, relativamente
più frequente nella poesia delle origini mentre viene escluso dall’osservanza
petrarchistica. Ricompare con maggiore frequenza nella versificazione libera moderna.

2. Il decasillabo.

Un verso che ha come ultima tonica la 9°. Nella poesia antica questo verso è usato con una
libera disposizione, ma dal secondo Settecento in poi si consolida la forma con accenti fissi:
3°-6°-9°. Compare poi anche come quinario doppio con anisosillabismo, o come variante
anisosillabica del novenario o dell’endecasillabo. Un uso particolare di questo verso viene
fatto da Pascoli che inserisce decasillabi con accento sulla 4°-6°-9°.

3. Il novenario.
Un verso che ha come ultima tonica l’8°. Nella poesia antica il novenario si trova molto
raramente nella poesia lirica, mentre è più frequenta nella poesia giullaresca e/o religiosa del
Duecento con accentazione sostanzialmente libera. Dalla seconda metà dell’Ottocento
invece si stabilizza la forma con accenti fissi: 2°-5°-8°, forma sfruttata in particolare da
Pascoli.
Esiste poi il novenario doppio, anche se la questione è controversa per quanto riguarda i
testi antichi, mentre nella poesia recente lo troviamo in Gozzano che usa distici di novenari
che però possono mancare di una sillaba.
4. L’ottonario.
Un verso che ha come ultima tonica la 7°. Il tipo più normale è quello con accento fisso
sulla 3°: nella poesia antica non è una regola in quanto si trovano anche ottonari con
accentazione diversa, mentre ora è diventata una vera e propria regola piuttosto che una
11

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
semplice tendenza. Pascoli ne fa un uso tradizionale 3°-7°, accostando spesso a ottonari
1°-4°-7°.
Esiste poi anche l’ottonario doppio che però è molto raro, lo troviamo in Carducci.

5. Il settenario.

Un verso che ha come ultima tonica la 6°. È un verso a schema libero, quindi possiamo
trovare uno o due accenti interni liberamente, eccezion fatta solo per la 5° che di solito è
atona. Inoltre è raro anche che l’accento sulla 1° sia seguito direttamente da quello della 6°
o che l’accento sulla 6° sia il primo di tutto il verso. È un verso che gode di grande fortuna
in quanto è congiunta con quella dell’endecasillabo, di cui il settenario può esser considera
una parte (la prima di un endecasillabo a maiore o la seconda di un endecasillabo a minore).
La composizione di settenario con endecasillabo è frequente in tutta la poesia italiana,
mentre l’uso del settenario da solo è meno frequente, ma comunque normale.
Parliamo ora del settenario doppio. Esistono vari tipi:
• un primo tipo in cui il primo settenario è sempre sdrucciolo (tonica + 2 atone) e il
secondo è sempre piano (tonica + atona);
• Un secondo tipo, che deriva dall’alessandrino francese, ha il primo settenario che può
essere piano o sdrucciolo e il secondo che è sempre piano.
• Un terzo tipo è entrato nell’uso nel Sei-Settecento nell’ambito della versificazione
teatrale, è detto martelliano da Pier Jacopo Martello che lo introdusse nelle sue
tragedie. In questo tipo di settenario doppio, i due settenari sono piani entrambi.

6. Il senario.

Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 5°. Ha un accento fisso sulla 2° (Pascoli), ma è
stato usato anche senza esso non solo nella poesia antica.
Esiste anche il senario doppio, con entrambi i senari accentati sulla 2° e sulla 5°, ed è stato
usato soprattutto nella poesia romantica (Manzoni).

7. Il quinario.

Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 4°. Questo può essere l’unico accento del verso
oppure può essercene uno o sulla 1° o sulla 2°, più raro che ci sia nella 3°. Questo tipo di
verso è presente nel Duecento per la canzone (prima che si stabilizzasse nell’endecasillabo
e settenario), nel Cinquecento per il discorso libero in endecasillabi e settenari e nel
repertorio dell’ode-canzonetta.
Esiste anche il quinario doppio, che si distingue dal decasillabo perché l’accento cade
sempre sulla 4° creando così una divisione fra le due parti costanti. Si trova nella poesia
religiosa con anisosillabismo, nel repertorio canzonettistico e melodrammatico del
Settecento, nella ballata romantica ottocentesca e in Pascoli.

12

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
8. Il quadrisillabo.

Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 3° ed è usato soprattutto in combinazione con altri
versi, tra cui l’ottonario (3°-7°).

9. Il trisillabo.
Un verso la cui ultima sillaba tonica è la 2°, come verso a sé è recente es. Pascoli lo
inserisce con il senario o con il novenario.

Capitolo 5: La rima.
La rima è l’identità di suono della parte finale di due o più parole, a partire dalla vocale tonica
compresa, o di due o più versi a partire dall’ultima vocale tonica compresa. Inoltre questo termine,
dal suo significato etimologico, indica anche le poesie rimate in italiano. La disposizione delle rime
viene detto schema delle rime.
Fino al 500 la poesia è sempre in rima, essa è infatti stabilmente associata alla fine del verso e ha
funzione demarcativa: favorisce la percezione della divisione in versi. Nella poesia isosillabica la
funzione demarcativa della rima ha meno importanza e si sposta all’interno in quanto una rima
interna può individuare un verso minore all’interno di uno maggiore.
Per classificare le rime possiamo usare diversi criteri; il primo che usiamo è la funzione strutturante
in base alla quale distinguiamo:
a. Rima baciata (AA BB CC …) che ha come forma strofica più collegata il distico. Inoltre la
rima del tipo AA può essere continuata lungo tutta una strofa (monorima) e ciò si trova nella
quartina monorima.

b. Rima alternata (ABAB CDCD EFEF …) che viene usata in particolare nella quartina.
Questa rima alternata per 8 versi crea l’ottava siciliana, quando invece gli ultimi due versi
sono a rima baciata (ABABABCC) si dice ottava toscana, se invece i versi a rima alterna
sono 4 (ABABCC) + la rima baciata si parla di sestina.

c. Rima incrociata (ABBA CDDC EFFE …) usata spesso nelle quartine, due quartine a rima
incrociata con le stesse rime (ABBA ABBA) formano la prima parte del sonetto.

d. Rima incatenata (ABA BCB CDC …) usata per la terzina dantesca. Inoltre questa rima
può essere: replicata (ABC ABC) o invertita (ABC CBA).

13

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
e. Rima costante quella che collega tutte le strofe di un testo nella stessa posizione.

Possiamo poi classificare le rime in base alla loro funzione ritmica o associativa (la ripetizione di
suoni associa tra loro due o più parole ponendo in relazione anche significato e funzione sintattica):
1. Rima facile: quella per cui sono disponibili molte parole. Di questo tipo ricordiamo
soprattutto la rima desinenziale (fra parole con uguale desinenze, es. –ire), la rima suffissale
(fra parole con uguale suffisso, es. avverbi in –mente).

2. Rima difficile (o rara): quella per la quale è difficile trovare parole, cara soprattutto alla
poesia antica.

3. Rima derivativa: quella fra due parole di cui una deriva dall’altra (es. degna/disdegna),
anche di derivazione apparente (es. membra/rimembra). Inoltre questi sono casi anche della
rima inclusiva in cui una parola è contenuta nell’altra.

Possiamo poi classificare le rime in base all’identità di suoni all’interno di essa. In questo caso:

▲ Rime fonetiche

• Rima perfetta: quella con identità di tutte le vocali e le consonanti a partire dall’ultima
vocale tonica del verso.
• Rima imperfetta: se questa identità non è completa si parla di rima imperfetta. Il caso
più rilevante è l’assonanza (identità rigorosa delle sole vocali, es. dice/venisse).
Un’assonanza può essere a sua volta imperfetta se è uguale solo l’ultima vocale tonica.
Se invece l’identità rigorosa riguarda le sole consonanti si parla di consonanza, anche se
quest’ultima non è mai usata al posto della rima a differenza dell’assonanza che invece
spesso è inserita al posto della rima (soprattutto in generi come la lauda, il serventese
etc.).
Approfondimento: la nozione di identità non è solo fonetica, ma anche culturale. Non a
caso nella tradizione italiana è perfetta la rima di è chiusa con è aperta e iè (es. vede/piede
o verde/perde) e di o chiusa con o aperta e con uò (es. amore/cuore e corto/porto), mentre
in tutte le altre metriche romanze ciò non accade. La spiegazione di questo fenomeno vede
coinvolti due fattori: in primis l’uso della rima della poesia latina medievale in cui la e/o
lunghe rimano con e/o brevi, inoltre c’è da ricordare che i primi modelli di poesia italiana

14

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
sono in siciliano e hanno agito in Toscana tramite copie toscanizzate. In siciliano non esiste
opposizione tra e/o chiuse o aperte.
• Rima siciliana: è un tipo di rima culturale, riguarda la i con è (chiusa) e la u con o
(chiusa) (es. desse/venisse). Questo tipo di rima va fatta risalire alla toscanizzazione
della poesia siciliana: rime perfette in siciliano es. taciri/diri sono diventate tacere/dire.

• Rima guittoniana: si tratta di un’estensione della rima siciliana per cui la i rima non
solo con è (chiusa) ma anche con è (aperta) e idem per la u.

• Rima francese: a + nasale con e + nasale (es. amante/avenente).

▲ Rime piane, tronche e sdrucciole

• Rima piana: rima composta da parole piane (tonica + atona) è la più comune in
italiano.

• Rima tronca: rima composta da parole tronche (ultima tonica). Molto rara fino al XVI
secolo, usata sporadicamente nella Commedia e nel Canzoniere. Più frequenti nel
genere della ballata e dello strambotto. La rima tronca in consonante (es. amor) è
ancora più rara nella poesia antica, mentre si usa nella poesia per musica
quattrocentesca e diventa comune solo dopo Chiabrera.

• Rima sdrucciola: rima composta da parole sdrucciole (tonica + 2 atone). Rara nel
Duecento e in Dante, diventa più frequente nel Trecento e entra inoltre frequentemente
nei generi musicali. Nel Quattrocento era frequente l’idea per cui questo tipo di rima
avesse un sapore popolareggiante.

▲ Rime tecniche

• Rima ricca: rima arricchita da un’estensione all’indietro del segmento identico prima
dell’ultima vocale tonica del verso. Comporta cioè l’identità di uno o più suoni
precedenti l’ultima vocale tonica, es. sentero/altero. Si possono considerare ricche
anche le rime che si estendono al di là della parola in rima, es. l’ore/colore (rima
contraffatta).

15

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Rima grammaticale: rima complicata da forme aggiuntive di relazioni fra parole che
rimano. Non è propriamente una rima, ma un rapporto di derivazione o parentela
grammaticale, es. clami/ami/clama/ama. Rara nella tradizione italiana e limitata alla
poesia antica.

• Rima equivoca: rima che consiste nell’identità di suono delle parole in rima. Nella rima
equivoca abbiamo due parole omofono che devono differire tra loro o perché di
significato diverso o perché di categoria grammaticale diversa, o perché di diverso
genere, numero, modo verbale. Il caso estremo è la rima identica, in cui una parola rime
con sé stessa. L’uso sistematico della rima equivoca è proprio del Duecento e poi
sempre più saltuario.

• Rima composta/spezzata: rima in cui una parola in rima è ottenuta artificiosamente


sommando parole distinte, es. oltre/soltre che sta per sol tre. Questa rima talvolta viene
considerata un uso particolare di rima per l’occhio (rima nella quale l’identità nella
parte finale di due versi è grafica, ma non fonetica).

• Rima in tmesi: divide una parola in fine di verso. Il caso più comune è la divisione
degli avverbi in –mente (es. differente- / mente … veloci e lente). Una vera spezzatura
di parola è propria del Duecento.

• Rima ipèrmetra: figura tipicamente pascoliana (es. tàcita / tenàci), ossia una rima di
parola sdrucciola (tonica + 2 atone) con una parola piana (tonica + atona), che sarebbe
perfetta sopprimendo l’ultima sillaba della sdrucciola. Si dice ipèrmetra in quanto si fa
riferimento alla sillaba in più della parola in rima, non del verso. Molta fortuna nel
Novecento.

▲ Rime interne

• Rima al mezzo: rima che divide il verso in emistichi (in cesura nell’endecasillabo)
• Rima interna: non corrisponde a tale divisione.
Entrambe non impediscono mai la sinalefe. È frequente fino a Dante, poco usata in Petrarca
e poi di uso sempre raro. Nel caso di questi due tipi di rime è frequente la rima sineretica:
tra la forma bisillabica di un nesso di vocale tonica + atona in fine di verso e la forma
monosillabica all’interno (es. che leggiadri a / disvia cotanto …). Inoltre è molto
convenzionale anche il caso della rima interna o al mezzo con apocope (es. dottare/portar).

▲ Rima irrelata

16

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
Rima del verso che non rima con nessun altro. Nella canzone del Duecento sono comuni i
casi in cui uno o due versi restano senza rima in tutte le strofe.
• Petrarca, pur non ammettendo questa possibilità, lascia irrelato il primo verso del
congedo;
• nella ballata spesso resta senza rima il primo verso della ripresa;
• nell’ode-canzonetta è frequente la presenza di versi anche piani senza rima in posizione
fissa nello schema;
• nel discorso libero in endecasillabi e settenari è istituzionale il rapporto variabile tra
versi rimati e non rimati.

Capitolo 6: Verso e rima nella storia della metrica regolare italiana.


▲ Dalle origini al Cinquecento

Fin dalle origini la metrica italiana si fonda sul modello della poesia provenzale e francese,
in quanto fra il XII e il XIII – periodo in cui in Italia si scrivono i primi testi in versi volgari
– nelle zone francesi già si era prodotta una ricca letteratura in versi che diventa un vero e
proprio modello. È da questa dimensione che provengono, ad es., le regole metriche
fondamentali come l’isosillabismo, anche se va sottolineato come questo modello sia
seguito, dai poeti italiani, non attraverso un’imitazione pedissequa, ma anzi con molta
creatività.
Per quanto riguarda il Duecento si può parlare di una “prosodia antica” ed è frequente
l’anisosillabismo (possibilità per il verso di oscillare di una o due sillabe rispetto alla misura
di base). Con Dante e Petrarca, invece, si codifica l’endecasillabo in forma canonica
(accento sulla 4° e/o 6° oltre che sulla 10°), c’è però da dire che nel Trecento e Quattrocento
si impone il modello toscano pre-petrarchesco che ha certamente regole codificare, ma che
presuppone ancora una certa libertà nel computo delle sillabe e nella posizione degli accenti,
soprattutto al di fuori dei generi poetici “maggiori”. Per quanto riguarda Petrarca invece, che
sarà il modello principale, possiamo parlare di una sensibilità prosodica ben precisa. Egli è
restio allo iato e pertanto evita la dieresi e la dialefe e conta per una sillaba il trittongo e la
vocale iniziale della parola seguente. Infine è proprio con Dante e Petrarca che culmina la
tendenza alla riduzione delle forme: Dante prevede ancora il quinario anche se lo usa
pochissimo, Petrarca usa solo endecasillabi e settenari. L’endecasillabo trionfa anche nella
poesia discorsiva anche se spesso accoppiato con il settenario. Ciò che con queste due
autorità non cambia è l’uso della rima: fino ai primi del Cinquecento, infatti, il verso non
rimato è inconcepibile, inoltre per la poesia alta è ammessa solo la rima piana, mentre quelle
sdrucciole e tronche sono molto meno usate, se non nella poesia di intonazione
popolareggiante.

▲ Dal Cinquecento all’Ottocento

Petrarca si afferma, sempre di più, come modello e nel Cinquecento il suo valore esemplare
diviene evidente e questo fatto viene codificato da Bembo nelle Prose della volgar lingua
17

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
(1525), è in quest’opera ad esempio che si stabilisce la forma canonica dell’endecasillabo.
Quest’opera però segna anche un'altra novità: per molto tempo l’italiano viene considerato
inferiore rispetto al latino, inferiorità che viene accentuata dall’umanesimo latino del
Quattrocento e superata solo nel Cinquecento, proprio grazie a Bembo. Le prose infatti
segnano il compiersi di questo superamento e l’obbiettivo dell’autore è quello di dotare
l’italiano di una regolarità grammaticale paragonabile a quella del latino. Con tutti questi
presupposti, il Cinquecento apre un secondo grande periodo della metrica italiana, che
giunge fino all’Otto Novecento. L’aspetto più evidente della metrica italiana di questo
periodo è senz’altro la sua sovrapposizione con la metrica latina, questa tendenza è
evidente se guardiamo a due aspetti: ci sono ricorrenti tentativi di produrre nuovi metri
italiani fondati sulle regole latine e ci sono rielaborazioni di forme ereditate dalla tradizione
precedente (es. canzone) in nuove forme ispirate alla poesia greca e latina (es. canzone
pindarica). Altro aspetto fondamentale è senz’altro l’idea che la poesia può essere senza
rima (sempre su modello di quella classica).
Fra Cinque e Seicento nella poesia lirica ci sarà un rinnovamento profondo della prosodia
dovuto in primis a Gabriello Chiabrera che traendo ispirazione delle odi greche scriverà
alcune odi-canzonette, dettandone anche gli aspetti fondamentali. Egli ammette l’uso di ogni
tipo di verso, abbandona l’esclusività della rima piana, inserisce versi irrelati nei vari schemi
metrici e inserirà l’uso della rima tronca in consonante (es. amor); a tal proposito l’uso
sistematico di questo tipo di rima è legato all’evoluzione della musica, in quanto la poesia
musicale necessita di parole tronche molto più numerose di quanto ne offre l’italiano.
Nonostante queste novità, la tendenza petrarchesca ad evitare lo iato fra parole è una regola
fino all’Ottocento, pertanto abbondano le sinalefi e le epitesi (es. virtute 1 per virtù davanti a
vocale); più complesso è invece il discorso per quanto riguarda gli incontri di vocali
all’interno di una parola (sineresi e dieresi).

▲ Tra secondo Ottocento e Novecento.


Nella seconda metà dell’Ottocento c’è in Italia una forte esigenza di rinnovamento della
forma poetica pertanto avranno molto spazio i rifacimenti in italiano di metri latini, sulla
scia di Carducci. Nella sua metrica barbara possiamo distinguere due aspetti:
• Costruisce le forme di ode oraziana (saffica, alcaica e asclepiadea) facendo
corrispondere ai versi oraziani versi italiani correnti nella tradizione, oppure
combinazioni di versi italiani. Il modello è senz’altro Chiabrera che aveva sperimentato
forme analoghe.
• “Inventa” l’esametro e il pentametro italiani, combinando versi italiani. Questi versi
hanno però un numero di sillabe oscillante, motivo per cui la sua esperienza
dell’esametro e del pentametro italiani è stata recepita da molto come un avvio alla
versificazione libera.
Altra figura importante è senz’altro Pascoli che ha perseguito una prosodia molto rigorosa.
Egli apporta due grandi novità:
• Oppone fra loro con alternanza regolata versi della stessa misura ma di diverso schema
accentuativo oppure complesse costruzioni strofiche in cui i versi che occupano lo

1 Forme in – ute invece che –ù rimangono correnti fino all’Ottocento, sia in fine di verso per evitare versi
tronchi sia all’interno del verso per consentire la sinalefe.
18

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
stesso posto in strofe diverse hanno non solo la stessa misura ma anche gli accenti nelle
stesse posizioni.
• Ricerca della naturalezza pertanto rifiuta la sillabazione dei nessi di vocali interni di
parola, elimina le forme auliche e arcaiche (es. caritade), elimina la rima tronca in
consonante e tutto ciò che allontana la lingua poetica dalla lingua parlata.

Capitolo 7: Forme regolate e forme fisse.


▲ Forme regolari della poesia lirica

A. Canzone

Le forme della canzone attraversano tutta la storia della poesia italiana, la canzone
antica o petrarchesca è il metro di maggiore prestigio nella poesia dei primi secoli, dura
fino a Tasso e conosce ancora riprese fino a Carducci e D’Annunzio. La canzone
pindarica, la canzone-ode e l’ode-canzonetta sono frutti del rinnovamento
cinquecentesco e le ultime due sono le forme portanti della poesia lirica fino all’avvento
della versificazione libera.

a. Canzone antica o petrarchesca

Viene elaborata nel Duecento ma codificata da Dante e Petrarca. La struttura che la


compone è la strofa, detta stanza, che viene ripetuta alcune volte, mentre la
conclusione è una stanza ridotta detto congedo. La stanza osserva delle regole di
costruzione, seppur variabile:
• Nel Duecento si usano tutti i tipi di versi, fra Due e Trecento si usa
ancora il quinario mentre da Petrarca in poi la stanza è composta solo da
endecasillabi e settenari, la stanza in cui prevalgono gli endecasillabi è
sentita più solenne di quella in cui prevalgono i settenari. È rara la stanza
in versi di un solo tipo.
• La stanza è articolata in due parti principali, la prima consta di due piedi
(serie di versi dello stesso tipo e nello stesso ordine) e la seconda è detta
sirma ed è indivisibile. Pertanto si parla di una stanza tripartita (I piede,
II piede, sirma).
• Di solito la seconda stanza ha lo stesso schema della prima, ma con rime
diverse.
• I piedi hanno lunghezza variabile così come è variabile lo schema delle
rime, ma alla fine del secondo piede nessun verso dev’essere senza
corrispondenza di rime.

19

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• La stanza indivisibile è rara nella poesia italiana, il caso più comune è
quello della sestina lirica in cui nessun verso rima con gli altri nella
stanza ma tutti trovano corrispondenza di rima nelle altre stanze.
• Quando il primo verso della sirma rima con l’ultimo del secondo piede si
parla di concatenatio (molto comune) o chiave: dopo di essa è prevalente
l’uso di non riprendere nella sirma altre rime già presenti nei piedi.
• Lo schema della sirma è libero però ci sono alcune forme frequenti come
ad es. la rima baciata finale (fF) o la quartina a rima incrociata (deeD),
oppure la serie di distici a rima baciata.
• Il congedo di solito riprende la forma degli ultimi tre versi della stanza e
innova le rime, ma non è infrequente che il congedo abbia invece una
struttura propria, più breve comunque della stanza.

Nel Duecento inoltre si incontra un altro tipo di divisione della stanza: la prima parte
viene divisa in due piedi come abbiamo visto, mentre la seconda si divide in due
volte, ossia in due serie di versi dello stesso tipo nello stesso ordine: in tal modo la
stanza è quadripartita. Altro tipo di divisione della stanza è quella in una prima parte
indivisibile, che Dante chiama fonte, e in una seconda divisibile in due volte. Nel Sei
e Settecento si scriveranno poi numerose canzoni in stanze non divisibili
regolarmente secondo la norma Dantesca, ma che si presentano come elaborazioni
della stanza petrarchesca. Esse possono esser collegate tra loro o attraverso le rime o
attraverso altri artifici: uso come prima rima della stanza dell’ultima rima
precedenze, la ripresa nel primo verso della stanza di una parola contenuta
nell’ultimo verso della precedente o l’uso di marcate analogie nella forma dell’inizio
di ogni stanza.

b. Stanza
La stanza della canzone può costituire da sola un testo. Uso molto frequente nella
poesia provenzale, meno in quella italiana: i casi più illustri sono canzoni interrotte
(Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti di Cavalcanti e Sì lungiamente m’à tenuto
Amore di Dante).

c. Discorso
È una forma musicale tipica dei trovatori provenzali e francesi, in Italia ha avuto una
fortuna limitata nel periodo delle origini. È formata da stanze ognuna delle quali
presenta forme di simmetria interna, ma ha uno schema diverso dalle altre.

d. Sestina lirica

È una forma di canzone in stanze indivisibili. In Italia nasce con Dante che imita uno
schema di Arnaut Daniel, dal quattrocento in poi diventa una forma fissa che ha
esercitato il suo fascino anche sui moderni. Essa ha delle regole ben precise:

20

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Nessun verso rima all’interno della stanza, ma tutti trovano
corrispondenza di rima nelle altre stanze;
• Le rime sono tutte parole – rima (tutti i versi che rimano fra loro
terminano con la stessa parola);
• La posizione delle parole-rima è ruotata di strofa in strofa (es. terra/sole/
giorno/stelle/selva/alba … alba/terra/selva/sole/stelle/giorno);
• Il congedo di tre versi ha in rima tre delle parole-rima della sestina e le
altre tre all’interno del verso.

e. Canzone pindarica

Detta anche ode pindarica, introdotta nei primi del Cinquecento da Trissino,
Alamanni e Minturno, si ispira alle Odi di Pindaro in cui ad una strofe seguono
un’antistrofe (con lo stesso schema di versi e rime) e un epòdo con uno schema
diverso, l’insieme definito triade può esser ripetuto più volte. Questa struttura
triplice è propria anche della stanza di piedi e sirma della canzone petrarchesca ma la
differenza importante p nel rapporto che si istituisce con la poesia classica. Di tale
struttura se ne serve Chiabrera e, fra i moderni, Pascoli che però guarda direttamente
al modello greco.

f. Canzone-ode
È una forma di canzone in stanze semplificate, elaborata dal primo Cinquecento. Per
es. si prende a modello l’ode oraziana (composta da strofe di 4 versi) e si afferma la
quartina di endecasillabi rimati ABBA o ABAB (Bembo e Trissino) che apre una
tradizione che giungerà fino all’Ottocento. Si tratta dunque di una stanza breve di
endecasillabi o endecasillabi e settenari senza articolazione interna e ciò si affermerà
in particolare con Chiabrera.

g. Ode-canzonetta

Ci si riferisce ad un ampio repertorio di forme che hanno avuto corso nella poesia
italiana da Chiabrera all’Ottocento. Parte di questi testi sono canzonette, ossia testi
leggeri fatti per essere cantati, mentre altri sono odi, in quanto testi di argomento e
stile elevato. Il principio fondamentale è che il testo è costituito da strofe (stesso
numero di versi dello stesso tipo nello stesso ordine e con lo stesso schema di rime),
ma i versi possono essere di tutte le misure, le rime sono anche tronche e sdrucciole,
ci sono molti versi irrelati e sono frequenti le rime tronche in consonante. La strofa
dell’ode-canzonetta, come quella della canzone-ode, non ha articolazione interna.
Vediamo alcuni schemi utilizzati:
• Strofe di tutti i settenari (La musica, Parini);
• Strofe di settenari sdruccioli non rimati alternati a settenari piani rimati
(è la quartina saviolana, da Ludovico Savioli Fontana);
• Strofe di quinari (Inno a Satana, Carducci);
21

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Strofe di settenari piani e tronchi (Libertà, Metastasio);
• Strofe di endecasillabi e settenari in cui si alternano versi tronchi o
sdruccioli (All’amica risanata, Foscolo);
• Strofe di endecasillabi con ottonari e quadrisillabi;
• Strofe di tutti ottonari (Le nozze, Parini);
• Strofe di tutti senari (A Nice, Metastasio).

h. Aria

L’aria è prima di tutto una forma musicale che può presentarsi anche
indipendentemente dalla struttura del melodramma e della cantata. Dal punto di vista
metrico le forme dell’aria sono uguali a quelle dell’ode-canzonetta, in genere però
sono limitate a due strofe collegate tra loro.

B. Sonetto
Nome provenzale che nel Duecento usato per testi di vario tipo, poi si è stabilizzato
come nome di una precisa forma metrica che secondo i più è stata estranea alla musica
fin dalle origini (posizione discussa). È una forma italiana, nata nella Scuola siciliana
probabilmente ad opera di Giacomo da Lentini, poi frequentissima in tutte le epoche.
Esso infatti è stato adottato in tutti i livelli di stile e per ogni genere di poesia (anche nel
Novecento, in piena versificazione libera). Nella forma canonica esso è composta da 14
endecasillabi ed è diviso in due parti, due quartine (fronte, anche se nella poesia antica
era sentita divisa in 4 distici) e due terzine (sirma). La fronte può avere lo schema
ABABABAB (più antico) o ABBA ABBA (che suggerisce una divisione in due quartine,
schema più frequenta), sono possibili poi altri schemi ma sono molto rari); la sirma
invece ha lo schema CDE CDE o CDC DCD (i più frequenti in Petrarca), in
quest’ultimo caso può avvenire che le rime siano le stesse delle quartine e allora si
chiama sonetto continuo.
C’è sicuramente una prossimità tra il sonetto e la stanza della canzone, seppur in una
somiglianza strutturale non perfetta: il sonetto infatti occupa nel sistema dei generi del
Duecento il posto della stanza: per es. è il metro proprio della tenzone (dibattito con
risposta per “le rime”), inoltre l’uso di variare la struttura del sonetto dimostra che esso
è sentito come una stanza.
Vediamo le varianti rispetto al sonetto canonico:
• Nell’uso di Guittone si aggiungono dei distici AB alla fronte e dei distici
CD alla sirma;
• Nel sonetto rinterzato è aggiunto un settenario (in rima con il verso
precedente) dopo ogni verso dispari dell’ottava e dopo il primo e il
secondo verso delle due terzine;

22

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Dante scrive due sonetti nella Vita Nova in cui inserisce un settenario
dopo ogni verso dispari dell’ottava, ma nelle terzine solo dopo il
secondo, questo tipo è detto sonetto doppio;
• Esistono delle varianti che consistono nell’aggiunta di un’appendice ai
14 versi canonici, appendice che può essere costituita o da un verso
conclusivo detto ritornello o da un distico, detto ritornello doppio. La
forma più importante è il sonetto caudato la cui coda è formata da un
settenario in rima con l’ultimo verso delle terzine e da un distico a rima
baciata.
• Il sonetto minore è quello in versi minori dell’endecasillabo, è molto
raro nella poesia antica, ma più usato nel Settecento e Pascoli ne farà un
uso personale.

C. Ballata
Forme nata per la musica e destinata al canto e alla danza, si sviluppa in Italia non con i
siciliani, ma nel secondo Duecento nella poesia toscana sia nel genere religioso (lauda)
sia nella poesia amorosa per cui, per un arco di tempo, è un serio concorrente della
canzone. È un testo in stanze la cui struttura è simile a quella della canzone. C’è però
una ripresa, ossia un ritornello che precede il verso, viene cantato tra una strofa e l’altra
e alla fine. Di solito tutte le stanze terminano con la stessa rima, ma nella ballata profana
di solito troviamo una sola stanza. Vediamo i vari tipo di ballata:

a. Zagialesca
Riprende il metro di ampia diffusione europea medievale, ossia la strofa zagialesca,
che deriva da un metro arabo. Lo schema tipico consiste di una ripresa di due versi a
rima baciata e in strofe di 4 versi in cui i primi tra sono in rima tra loro e il quarto è
in rima con il distico. I versi possono essere di varia misura, prevale
l’anisosillabismo.

b. Ballata “italiana”
Definita anche “antica”, si sviluppa nel Duecento, cade poi in disuso e tra Otto e
Novecento ritornerà in auge grazie all’interesse per le forme antiche manifestato da
Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Solitamente si compone di soli endecasillabi e
settenari, ma nella lauda si trovano anche altre misure con anisosillabismo. La stanza
è divisa in due parti: la prima è divisa a sua volta in due mutuazioni o piedi (serie di
verso dello stesso tipo nello stesso ordine, rimati variatamente ma in modo di non
lasciare versi senza rima), la seconda parte è detta volta ed è composta dallo stesso
numero di versi, dello stesso tipo e nello stesso ordine e lo stesso schema di rime
della ripresa. Solitamente il primo verso della volta rima con l’ultimo della seconda
mutazione e la rima dell’ultimo verso è quasi sempre uguale all’ultima rima della
ripresa. Una possibile classificazione fra le forme della ballata italiana è possibile in
virtù della forma della ripresa:
• Ballata mezzana: ripresa di 3 versi
23

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
• Ballata grande: ripresa di 4 versi; spesso ambiguità tra essa e quella
mezzana
• Ballata minore: ripresa di 2 versi
• Ballata minima: ripresa di un verso, si può dire però ballata piccola
quando la ripresa è di un solo endecasillabo e ballata minima quella con
ripresa di un solo verso minore dell’endecasillabo
• Ballata stravagante: quella che non entra nei casi descritti (es. ripresa di
un endecasillabo e 5 settenari in Cavalcanti)
La ripresa può contenere versi che non rimano con nessun altro nella ripresa stessa,
se il verso in questione è l’ultimo esso non rimane irrelato nel testo (perché rima con
il verso finale di ogni stanza), mentre se è il primo allora resta irrelato. Fra le riprese
moderne della ballata italiana ricordiamo Pascoli (ballata piccola e minima).

c. Barzelletta

Ballata polistrofica di ottonari o settenari, di destinazione musicale diffusa tra Tre e


Quattrocento. È composta anch’essa di una ripresa e di una stanza composta, a sua
volta, da due mutazioni e una volta.
d. Canzonetta
La maggior parte delle canzonette sono scritte sotto forma di ballate, ne esistono vari
tipi in particolare secondo l’origine regionale: esistono infatti la ciciliana, la
viniziana, la napoletana, la calavrese etc. e ricordiamo la giustiniana che avrà grande
fortuna nel 400. Caratteristica è che gli ultimi due versi delle riprese e delle stanze
formano sempre un endecasillabo.

D. Madrigale trecentesco

È una forma breve di poesia per musica, elaborata nel Trecento. In questa fase della sua
storia è costituito da 2 a 5 terzine concluse da un distico, un doppio distico o da un verso
isolato. Gli schemi delle rime sono vari e i versi possono essere endecasillabi o
endecasillabi e settenari. Questa forma lascerà poi nel Cinquecento ad un tipo senza
alcuno schema, mentre nel secondo Ottocento verrà ripreso lo schema classico, citato da
Petrarca.

E. Rondò
Forma breve di poesia per musica, caratterizzato da ripetizioni di interi versi secondo
uno schema stabilito. Proprio della poesia francese, molto raro in quella italiana,
ricordiamo quello di Boiardo. Verrà poi ripreso da Carducci e D’Annunzio.

F. Strambotto e rispetto

Nomi usati indistintamente per un tipo di poesia per musica quasi sempre di otto versi
con schema ABABABAB (ottava siciliana) o ABABABCC (ottava toscana), mentre altri
24

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
schemi sono molto più rari. Il nome di rispetto viene frequentemente dato all’ottava
toscana e in questa forma spesso più rispetti possono essere collegati insieme soprattutto
nella poesia amorosa quattrocentesca di tono popolareggiante. Sarà Pascoli a riusare
questo rispetto di tipo popolare.

G. Stornello
Con questo nome si designano vari tipi di testo breve, popolare, di tre o anche due versi
che sono caratterizzata da una rima e una consonanza, oltre che da una breve
invocazione iniziale (spesso ad un fiore).

▲ Forme regolari della poesia discorsiva.


A. Lassa
Consiste in una serie di versi in numero variabile, uniti dalla stessa rima o assonanza. È
tipica della poesia epica antico-francese, mentre in Italia ha avuto scarse applicazioni,
ricordiamo il Libro di Uguccione da Lodi (testo lombardo del primo Duecento in
endecasillabi e alessandrini fortemente divisi in due parti con frequente cesura epica) e,
in epoca moderna, ricordiamo Carducci con la Canzone di Legnano, Pascoli con la
Canzone dell’Olifante e D’Annunzio con Notte di Caprera.
B. Distico

Solitamente nella poesia italiana antica per i generi discorsivi si usa il distico a rima
baciata (AA BB CC …) che può essere o in settenari (es. Tesoretto di Brunetto Latini) o
in alessandrini (es. Splanamento de li Proverbi de Salamone di Girardo Patecchio) o in
ottonari-novenari (questo è il metro con il quale la poesia giullaresca imita il distico
francese) o, molto più raramente, in endecasillabi. Nonostante ciò la poesia discorsiva
italiana non è particolarmente favorevole al distico in rima baciata, eccezion fatta per la
versificazione teatrale del Settecento: Pier Jacopo Martello userà, infatti, proprio il
distico di alessandrini a rima baciata per le due opere e da questo momento in poi
rimarrà un metro disponibile per il teatro, di cui ne farà uso anche Carlo Goldoni.

C. Quartina
La forma più rilevante è la quartina monorima di alessandrini, che in Italia è il metro
tipico della poesia didascalica settentrionale, usato per es. da Giacomino da Verona. La
quartina monorima può essere anche di endecasillabi (res. Poemetto veronese
duecentesco Della caducità della vita umana) o di ottonari-novenari (es. nell’Anonimo
Genovese).

D. Serventese

Termine usato nel Tre Quattrocento per indicare una pluralità di forme che hanno come
unico tratto in comune il fatto di non appartenere alla lirica illustre. Lo stesso nome è
usato nel provenzale per indicare, però, un testo in forma metrica di canzone, di
25

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
contenuto politico, morale o d’occasione. Il Beltrami colloca, sotto la rubrica di
serventese, queste forme:
a. Il serventese caudato.
Forma metrica in strofe composte da una serie di versi lunghi (ottonari-novenari,
endecasillabi o settenari doppi) rimati fra loro e di un verso breve (quadrisillabo-
quinario o settenario) conclusivo, che rima con i versi lunghi della strofa successiva.
La forma più comune nel Trecento è quella in tre strofe di 3 endecasillabi e un
quinario. Esiste poi quello bicaudato che ha la forma AAAbAb BBBcBc…

b. Il capitolo quadernario.

È una forma Tre Quattrocentesca di serventese in strofe di 4 versi, di cui il terzo è un


settenario e gli altri sono endecasillabi, consiste in una serie di rime baciate, disposte
in modo da legare insieme le strofe, di solito il verso iniziale rimane irrelato.

c. La terzina doppia.
È quella usata da Cecco d’Ascoli nell’Acerba (poema didascalico incompiuto per la
morte dell’autore nel 1327). Lo schema è ABA CDC DED FEF … ed è in relazione
con la terza rima dantesca, però rispetto ad essa la terzina di Cecco è caratterizzata
dalla chiusura dei blocchi di 6 versi (invece che dalla catena di terzine che si
conclude solo alla fine di ogni canto). Questo schema viene ripresa da Pascoli.

E. Terza rima (terzina dantesca o incatenata)

Si tratta di una forma in cui lo schema è ABA BDB CDC … YZY Z, normalmente tutti
endecasillabi. In ogni terzina i due versi esterni rimano fra di loro mentre quello interno
rima con i due esterni della successiva: in tal modo i versi sono uniti a tre a tre nella
strofa e a tra a tra dalla rima ma a cavallo fra una strofa e l’altra, alla fine inoltre c’è un
verso isolata che rima con il secondo dell’ultima terzina (la rinuncia a questa
conclusione è molto rara). Questa forma di afferma con la Commedia ed è un’invenzione
di Dante, che usa come modelli il serventese caudato, le terzine del sonetto e la forma
della canzone. Dopo Dante, la terza rima viene molto usata per tutti i generi della poesia
discorsiva, nella poesia allegorica, nel genere del capitolo didascalico, storico, satirico e
moraleggiante o burlesco, nell’egloga volgare. Verrà poi recuperato da Pascoli e da
Pasolini (con grande libertà nelle rime, nella misura e nel ritmo dei versi).

F. Ottava rima (stanza)


È una strofa di tutti endecasillabi rimati ABABABCC, i testi più antichi con questa
forma sono il Filostrato di Boccaccio e il cantare di Fiorio e Biancifiore. Proprio a tal
proposito è una questione ancora discussa se l’invenzione del metro risalga a Boccaccio
o se esso si sia prima affermato nei cantari che avrebbero poi sviluppato la tradizione
26

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
delle laude. Queste due ipotesi divergono dal punto di vista storico-letterario in quanto
se fosse un’invenzione di Boccaccio allora significa che l’ottava rima deriva dalla
canzone e quindi ciò comporta un’origine letteraria, mentre se l’ottava rima deriva dalla
lauda allora ciò comporta un repertorio di impronta popolare. In ogni caso nel repertorio
laudistico l’ottava rima è frequente nella lauda drammatica (o sacra rappresentazione)
del Quattrocento, ma è presene anche nel teatro profano del tardo Quattrocento. L’ottava
ha avuto poi grande fortuna nella poesia narrativi (Boiardo, Ariosto, Tasso).

G. Sesta rima (sestina narrativa)


È una strofa di schema ABABCC, metro poco usato nella tradizione italiana, nel
Quattrocento lo troviamo per le laude e per la poesia drammatica, per il Sette Ottocento
invece citiamo il poema Gli animali parlanti di Giambattista Casti e le Favole esopiane
di Gian Carlo Passeroni.

H. Nona e decima rima


Non sono mai state delle forme istituzionali, la nona rima è il metro dell’Intelligenza
(poemetto anonimo del Due o Trecento) con lo schema ABABABCCB (tutti
endecasillabi) ed è interpretabile come una stanza di canzone. Stesso discorso vale per la
decima rima che troviamo, ad esempio, in quella di Auliver (inizio XIV secolo) in stanze
di ABABABCCDD.

I. Endecasillabo sciolto.
È l’endecasillabo in serie continua senza rima, la sua storia comincia nel Cinquecento
con Trissino che ne propugna l’uso come equivalente di genere dell’esametro latino e
come verso adatto al teatro. Poi Giovanni Rucellai e Luigi Alamanni lo impongono nella
poesia didascalica. Questo metro diventa quello di maggior prestigio in tutti i campi
della poesia discorsiva, consacrato definitivamente da Parini e da Foscolo e poi, dal
Settecento, inizia ad essere impiegato anche nella poesia lirica, grazie a Leopardi.

Capitolo 8: Forme libere della metrica tradizionale.


▲ Polimetria.
La polimetria è la libera alternanza tra versi di più tipi o di più forme metriche in un testo
che viene detto polimetro. Bisogna però distinguere tra polimetria e anisosillabismo:
quest’ultimo è un’oscillazione nel numero delle sillabe in versi che comunque vengono
considerati dello stesso tipo. Altra distinzione da fare è quella fra un polimetro e un testo nel
quale i versi sono di diverse misure ma sono inseriti in strutture strofiche regolari (strofa
eterometrica che si contrappone a quella monometrica).

27

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
A. Mottetto

Questo nome spetta originariamente ad un genere musicale liturgico francese del XII e
XIII secolo che non ha una forma regolare (a differenza delle ballate o dei rondò).
Questo nome poi è stato dato da Francesco Barberino a 50 testi polimetrici in strofe
isolate da 2 a 8 versi, caratterizzati da grande varietà di misure e di schemi di rima, in tal
caso il termine significa “breve poesia sentenziosa”.

B. Frottola

a. Frottola
È un genere di poesia-spettacolo che oscilla fra la dimensione ludica e quella
sentenziosa; la tradizione va da Antonio da Tempo a Pietro Aretino. La caratteristica
fondamentale è la prevalenza del valore della rima rispetto alla misura del verso: i
versi oscillano con grande libertà (seppur prevalgano quelli brevi), mentre le rime
procedono regolarmente a coppie, terne o in serie più ampie e servono da aggancio
fra le articolazioni di un discorso divagante, con frequenti salti logici: un membro
del discorso finisce con una rima e il successivo riparte agganciandosi alla stessa.

b. Canzone frottola
È quella inserita da Petrarca nel Canzoniere intitolata Mai non vo’ più cantar com’io
soleva (Rvf. 105). Lo schema è quello di una canzone, ma ha delle caratteristiche
tipiche della frottola tra cui: il discorso divagante, l’insistiti ripercussione delle rime
e la presenza della rima tronca.

c. L’endecasillabo “frottolato”
A partire dal testo di Petrarca la tradizione della frottola ha subito una
normalizzazione dando vita a delle forme regolari in endecasillabi sempre interrotti
da rima al mezzo col verso precedente alla 7° sillaba, che viene detto endecasillabo
frottolato (si trova non solo nella frottola ma anche nella poesia bucolica, es. Arcadia
di Sannazzaro).
C. Poesia drammatica e per musica

La polimetria intesa come alternanza di forme metriche diverse è propria della poesia
drammatica (per es. nei testi quattrocenteschi è frequente l’alternanza di ottava e terza
rime, polimetriche sono le sacre rappresentazioni, l’egloga quattrocentesca. Una forma
di polimetria, inoltre, è l’inserzione di parti liriche (canzoni) tra le parti recitate in
endecasillabi e settenari e l’alternanza di arie e di recitativi in endecasillabi e settenari
nel melodramma.

▲ Discorso libero in endecasillabi e settenari.

28

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
A. Madrigale cinquecentesco

È una forma breve di poesia per musica in endecasillabi e settenari con una
configurazione fortemente libera sia per quanto riguarda la proporzione fra i due versi,
sia per quanto riguarda lo schema delle rime e la presenza e proporzione di versi irrelati.
Di norma è più breve del sonetto e non supera gli 11/12 versi; nonostante questa estrema
libertà del metro non significa che non si possano riconoscere struttura di versi e rime
attentamente studiati.

B. Poesia drammatica e per musica


La poesia scenica, dal 500, è un campo di elaborazione del discorso in endecasillabi e
settenari a schema libero. Per quanto riguarda la tragedia un momento importante è la
Canace di Sperone Speroni (1542). Importante è anche il dramma pastorale (es. Aminta
di Tasso e il Pastor fido di Guarini) in cui l’azione scenica è in endecasillabi e settenari
mentre i cori sono forme liriche (canzone petrarchesca). Questa struttura è alla base
anche del melodramma, per cui ricordiamo Metastasio. Una struttura simile la troviamo
nel genere Sei Settecentesco della cantata: composta da un recitativo in endecasillabi e
settenari e dalle arie (che sono forme brevi dell’ode-canzonetta).

C. Canzone libera

Nel Sei Settecento il discorso libero in endecasillabi e settenari viene introdotto anche
nella canzone: in questa forma, le stanze differiscono per dimensione (in un certo senso
esse sono dei madrigali), alternanza dei versi, schemi di rime e versi irrelati. Modello
indiscusso di ciò è senz’altro Leopardi che nelle prime canzoni riprende la
sperimentazione sei-settecentesca di stanze irregolari rispetto a quelle petrarchesche
(stanze ampie, complesse, indivisibili e con rime irrelate). La prima canzone libera
leopardiana è A Silvia (1828) in cui l’unico elemento fisso è che l’ultimo verso di ogni
stanza è sempre un settenario non irrelato (in rima con un verso precedente).
Successivamente, alla fine di un complesso percorso sperimentale, egli immette nella
canzone le forme del discorso libero proprie del madrigale cinquecentesco, del dramma
pastorale, del melodramma e dell’idillio, in alcune sue canzoni libere l’ultimo verso di
ogni stanza è un endecasillabo non irrelato; tutto il resto è molto variabile: la dimensione
della stanza, l’alternanza dei versi, la disposizione delle rime, il numero e la posizione
dei versi irrelati.

Capitolo 9: Imitazioni della metrica classica (“metrica barbara”)

▲ Metrica italiana e metrica classica

Un aspetto importante per quanto riguarda la storia della cultura poetica europea è senz’altro
l’influsso esercitato dalla metrica classica sulla metrica moderne, in quanto i classici antichi
non hanno mai smesso di essere i modelli più autorevoli. È, in particolare, nell’Umanesimo
che c’è un forte spirito di riappropriazione della letteratura classica e talvolta questa
“riappropriazione” si porta sul terreno della poesia in italiana, nel senso che c’è da un lato

29

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
l’aspirazione a riprodurre i metri classici anche in lingua italiana e dall’altro la tendenza a
pensare i metri italiani in termini di analogia con la metrica latina.
Il problema sta nel fatto che la prosodia latina è totalmente differenza da quella dell’italiano.
Il latino, infatti, oppone vocali brevi a vocali lunghe (opposizione quantitativa) con valore
significativo, di conseguenza anche le sillabe sono distinte in brevi e lunghe: sono brevi ( ˘ )
le sillabe aperte e lunghe ( 27 0B ) quelle chiuse. Il verso latino pertanto si fonda sulla quantità
delle sillabe: certe posizioni possono essere occupate solo da sillabe lunghe e viceversa,
brevi e lunghe sono sostituibili solo in certi casi etc… c’è, insomma, un complesso sistema
di regole. L’unità metrica è il metro che può coincidere con un piede e essere formato da
più di essi. Il piede è un insieme di sillabe divise in due elementi detti arsi (il tempo forte, in
cui la voce si alza) e tesi (il tempo debole, in cui la voce si abbassa). I piedi più importanti
sono:
• Il trocheo: 27 0B ˘

• Il giambo: ˘ ⁻

• Il dattilo: 27 0B ˘ ˘

• L’anapesto: ˘ ˘ ⁻
• Lo spondeo: ⁻ ⁻

• Il coriambo: ⁻ ˘ ˘ ⁻

Nel latino parlato tardo la quantità vocalica non ha più valore significativo e la posizione
dell’accento di parola non dipende più dalla quantità della penultima sillaba. La metrica
quantitativa classica continua ad esistere, ma si fonda sulla conoscenza scolastica della
quantità latina, piuttosto che su una percezione linguistica. La poesia romanza perciò fonda
la sua metrica basandosi non su questo tipo di metrica, ma sulla poesia latina rhythmica dai
trattatisti medievali che si basa sul numero delle sillabe, sull’accento e sulla rima.
Tutto ciò ci fa capire che la differenza fra la metrica italiana e quella latina è motivata da
ragioni linguistiche e ha radici storiche remote. I tentativi di riprodurre in italiano i metri
classici sono di vario tipo:
1. Imitare le strutture strofiche classiche utilizzando i versi latini (es. canzone pindarica,
canzone-ode che ricalca le odi di Orazio);
2. Comporre versi in italiani secondo le regole latine. All’insieme di questi tentativi si dà il
nome di metrica barbara, in virtù delle Odi barbare di Carducci che costituiscono
l’episodio più importante. in questo caso si possono distinguere due modi per fare ciò:
a. Individuazione di versi italiani da considerare equivalenti dei versi latini

b. Assegnazione di regole quantitative all’italiano per ottenere degli equivalenti esatti


dei versi latini (questo percorso dà dei risultati approssimativi e non seguiti
successivamente).

▲ Metri latini in italiano

30

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
A. Forme non strofiche

I primi tentativi di metrica quantitativa italiana sono di Leon Battista Alberti e Leonardo
Dati, successivamente ricordiamo Minturno: tutti cercarono di definire dei criteri per cui
le sillabe italiane si possano considerare brevi o lunghe. I primi due, ad esempio,
stabilirono che se la parola italiana corrisponde chiaramente ad una latina si assume che
le sillabe abbiano la stessa quantità etc.

a. Esametro

Consta di 6 piedi, di cui i primi 5 dattili (27 0B ˘ ˘) sostituibili con spondei (27 0B 27 0B ) e il
sesto trocheo (27 0B ˘) o spondeo (27 0B 27 0B ). In tal caso accento di parola e tempi forti dei
piedi tendono a non coincidere nei primi 4 piedi, mentre negli ultimi due sì. Pertanto
il ritmo della fine dell’esametro può esser reso in italiano con una successione di
sillabe toniche (+) e atone (_): + _ _+ _. È questa la soluzione tentata da Carducci il
cui esametro è l’unico che ha avuto successo: egli adotta un verso composto da due
versi italiani, la cui la prima parte è un settenario (più raramente un senario o
ottonario) e la seconda invece un novenario con accenti di 2°-5°-8° (o 3°-5°-8°).

b. Pentametro
Carducci lo rende con un doppio settenario o con un quinario + settenario. Talvolta
Carducci tenta di riprodurlo rendendo con l’uscita tronca degli emistichi i tempi forti
dei due mezzi piedi finali.

c. Endecasillabo
Paolo Rolli si ispira all’endecasillabo falecio di Catullo: il suo endecasillabo rolliano
ha l’accento sulla 4° sillaba portato da una parola sdrucciola. Egli usa questi versi in
terzine nelle quali il primo e il terzo verso rimano fra loro, mentre nel secondo gli
emistichi sono invertiti.

B. Forme strofiche

a. Strofa saffica

Metro catulliano e oraziano, sviluppato nella poesia mediolatina, è composto da


3 saffici minori (⁻ ˘ ⁻ ⁻ ⁻ / ˘ ˘ ⁻ ˘ 27 0B 27 0B ) e un adònio (27 0B ˘ ˘ 27 0B 27 0B ).
Alcuni tentativi di riproduzione si ebbero con Leonardo Dati e Claudio Tolomei. La
forma più comune della strofa saffica italiana è una strofa composta da 3
endecasillabi (con accento sulla 4°) e un quinario (accentato sulla 1°), rimata ABAb.
Carducci usa questa strofa senza rima, mentre Pascoli la mantiene. Inoltre la strofa
saffica rimata ABAb, fra Sette e Ottocento si presenta con le rime ABBa.
31

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
b. Strofa alcaica

Metro oraziano formato da due alcaici endecasillabi (⁻ ⁻ ˘ 27 0B 27 0B / 27 0B 27 0B


˘ ˘ 27 0B 27 0B ), un alcaico enneasillabo (27 0B 27 0B ˘ 27 0B 27 0B 27 0B ˘ 27 0B 27 0B ) e un alcaico decasillabo (27 0B ˘
˘ 27 0B ˘ ˘ 27 0B ˘ 27 0B 27 0B ).
Carducci rende l’acaico endecasillabo con un quinario doppio (con il primo
emistichio piano e il secondo sdrucciolo), l’enneasillabo con un novenario di
2°-5°-8° (o con la 2° o 5° o entrambe atone), il decasillabo con un decasillabo
italiano di 3°-6°-9° (o con la 3° o la 6° o entrambe atone). Rolli invece, prima di lui,
ha usato due settenari come terzo e quarto verso.

c. Strofa asclepiadea
Metro oraziano che si presenta con varie combinazioni di asclepiadei minori (27 0B
⁻ ⁻ ˘ ˘ ⁻ / ⁻ ˘ ˘ ⁻ ˘ ⁻), con il gliconeo (⁻ ⁻ ⁻ ˘ ˘ ⁻ ˘ 27 0B ) e con il ferecrateo
(27 0B 27 0B 27 0B ˘ ˘ 27 0B 27 0B ).
Carducci rende l’asclepiadeo minore con l’endecasillabo sdrucciolo oppure con un
quinario doppio (con entrambi gli emistichi sdruccioli), il gliconeo con un settenario
sdrucciolo e il ferecrateo con un settenario piano. Vari tipi di questa strofa:

• Strofa asclepiadea di 3 asclepiadei e un gliconeo: è resa o con


endecasillabi sdruccioli o con quinari doppi.
• Strofa asclepiadea di 2 asclepiadei, un ferecrateo e un gliconeo: resa o
con quinari doppi (Carducci) o con due settenari piani a rima baciata o
con un settenario piano e un settenario sdrucciolo (ma con i versi piani
rimati tra loro).
• Strofa asclepiadea di 2 gliconei e 2 asclepiadei: resa con versi pari
rimati tra loro oppure con endecasillabi sdruccioli anziché doppi quinari.
• Strofa asclepiadea di 4 asclepiadei: resa con endecasillabi sdruccioli.

d. Sistema giambico

Metro oraziano che consta in latino di distici formati da un trimetro giambico (27 0B 27 0B ˘
x3) e da un dimetro giambico (27 0B 27 0B ˘ 27 0B x2).
20
7B

Questo verso è reso con distici raggruppati in terzine oppure con una quartina di
endecasillabi e settenari a rima alterna.

Capitolo 10: Le forme metriche nella storia della poesia italiana.


▲ Dalle origini al Cinquecento

32

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
La prima enunciazione di un canone delle forme metriche duecentesche è stato fatto ad
opera di Dante nel De vulgari eloquentia: qui vengono inserite la canzone per lo stile
elevato, la ballata per lo stile medio e il sonetto per lo stile umile come forme regolari,
mentre accenna ad altre forme metriche “senza leggi né regole” che non analizza.
La canzone, ci dice Dante, è un componimento destinato al canto ma, intesa come forma
dello stile elevato, è una concatenazione in stile tragico (cioè elevato) di stanze uguali, senza
ripresa, in funzione di un pensiero unitario. La canzone ha imitato e sviluppato in Italia la
tradizione dei testi lirici provenzali riconducibili al tipo della canzone (cansò) nei temi
propri della poesia medievale dello stile elevato (amorosi, morali e politici). La tradizione
italiana è caratterizzata da una forte sperimentazione nella costruzione delle stanze, nel
Duecento la ricerca di nuovi schemi era un aspetto tipico dell’inventività poetica, mentre
con la codificazione dantesca e petrarchesca lo sperimentalismo cessa di esistere e si
prendono a modello, in particolar modo, lo schema di Così nel mio parlar voglio esser aspro
di Dante e, nel Quattro Cinquecento, Chiare, fresche ed dolci acque di Petrarca.
La ballata viene considerata da Dante inferiore alla canzone e la motivazione che egli ci dà
è il fatto che la ballata è destinata alla danza, il che ne farebbe un testo poetico non
autosufficiente. Essa è, in effetti, una forma musicale fin dalle origini e rimane legata a
questa caratteristica (mentre nella canzone diventa subito preponderante l’aspetto letterario,
non a caso la ballata solo per un breve momento fu una forma potenzialmente alternativa ad
essa). La ballata è il metro più frequente nei vari tipi di canzonetta, ma anche nella lauda.
L’uso di cantare laude si diffonde nel Duecento e ricordiamo Garzo, Guittone d’Arezzo e
Iacopone da Todi, anche se la produzione laudistica che va dal Due al Quattrocento è per la
maggior parte opera di anonimi.
Il sonetto è specificamente italiano, la sua funzione di genere letterario è in origine
l’equivalente italiano della cobla esparsa provenzale, ossia della stanza isolata di canzone
usata nella poesia “minore”, motivo per il quale Dante dà per scontata la sua inferiorità
rispetto alla canzone e alla ballata. Nonostante ciò però il sonetto diventa immediatamente
una forma adatta anche allo stile elevato e dispone di una completa disponibilità a tutti i
livelli di stile (es. è la forma dominante nel Canzoniere ma è anche la forma più comune
della poesia comica, satirica, sentenziosa e d’occasione).
Dante non parla del serventese, ma ne parlerà per primo Antonio da Tempo che lo designa
come forma adatta ad una pluralità di forme, insistendo anche sulla popolarità del genere. Il
serventese caudato, presente nel Duecento, ha largo corso nel secolo successivo nella poesia
non lirica, il capitolo quadernario invece è in uso anche nella poesia amorosa e per musica
fino alla fine del Quattrocento.
Le forme della poesia non lirica del Duecento sono quelle istituzionali della poesia francese
e provenzale dei primi secoli: la lassa di endecasillabi o alessandrini, il distico a rima
baciata di novenari (o ottonari-novenari), il distico a rima baciata di settenari nella poesia
didascalica, la quartina monorima di alessandrini o di altre misure.
Nel Tre Quattrocento però il campo della poesia discorsiva e di ampio respiro è divisa tra
due forme. La prima è l’ottava rima, essa prevale nella poesia narrativa e caratterizza i
cantari, ossia poemi di argomento cavalleresco, storico e novellistico concepiti per
l’esecuzione orale con accompagnamento musicale (detta anche ottava canterina). L’ottava
inoltre viene usata anche nelle sacre rappresentazioni quattrocentesche e nel teatro profano.
Boccaccio, inoltre, allarga totalmente il marchio di letterarietà di questo metro, aprendo una
tradizione alta, ben lontana dalla versificazione popolareggiante dei cantari.
33

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
La seconda forma per la poesia discorsiva è la terza rima, che ha avuto una diffusione
enorme dopo Dante diventando il metro per la poesia allegorica, didascalica, storica,
satirico-moraleggiante. Leon Battista Alberti inoltre la utilizza nell’elegia (genere amoroso
e sentimentale ispirato all’elegia classica) e nell’egloga (genere anch’esso di ispirazione
classica che rappresenta un mondo pastorale, agricolo, idealizzato).
Se Dante adotta un canone abbastanza ristretto, Petrarca sicuramente ne dilata i confini, ma
sarà Antonio da Tempo nella sua Summa (1332) a creare un canone molto più ampio,
manifestando un fusto opposto a quello selettivo e classicheggiante petrarchesco. Inserirà
infatti:
a. Il rondò: la citazione di questa forma rappresenta un omaggio alla poesia francese,
genere che in Italia ha una presenza trascurabile.
b. Il madrigale: caratterizzata dall’aspetto musicale, non a caso molti madrigali del Tre
Quattrocento sono tramandati in manoscritti musicali, nonostante ciò la forma musicale
è autonoma. Dal punto di vista metrico già quello del Trecento è una forma molto libera,
nel Cinquecento poi prenderà ancora più libertà, anche se i versi usati sono sempre gli
endecasillabi e settenari.
c. Il serventese.

d. Il moto confetto: non è altro che la frottola, genere corrente nella poesia spettacolo
cortigiana del Tre Quattrocento.
Altro genere del Trecento legato alla musica polifonica profana è la caccia che però non si
lega ad una forma metrica precisa. Altre due forme da tenere in considerazione sono la
barzelletta: una forma regolare di ballata, generalmente di ottonari; la canzonetta che
rispetto al madrigale ha una caratterizzazione di genere più popolareggiante e lo strambotto
(o rispetto), genere che ha avuto grande fortuna nella poesia musicale del Tre e soprattutto
Quattrocento.

▲ Dal Cinquecento all’Ottocento


La novità del Cinquecento di maggiore rilevanza è l’endecasillabo sciolto che comporta
l’idea che la poesia possa essere senza rima, congiuntamente all’aspirazione al recupero
della poesia classica in italiano. Secondo Trissino (personaggio fondamentale che propugnò
l’idea di una poesia senza rima) la forma più adatta alla poesia “eroica” è l’esametro latino,
ma poiché questo in italiano non esiste, l’endecasillabo appare il sostituto più conveniente.
La discussione sulla poesia in rima o senza rima accompagna la storia dell’endecasillabo
sciolto. Quello che cerca Trissino è una forma non più libera, ma più elevata perché più
vicina alla poesia classica e la colpa “irrimediabile” della rima è quella di non appartenere a
quella poesia, inoltre l’endecasillabo sciolto permette di seguire l’esempio degli antichi i cui
versi teatrali sono simili al parlare comune; d’altra parte il problema è che il verso senza
rima appare troppo facile e troppo simile alla prosa e ciò non è adatto ad una forma elevata.
Detto ciò, nel genere del poema permane l’ottava rima, mentre l’endecasillabo sciolto lo
troviamo nella poesia didascalica di ispirazione classica e nelle traduzioni. Ancora nel
Settecento c’è una forte opposizione alla poesia senza rima, si pensi alle parole di Beretti
secondo cui il verso sciolto è frutto di poltroneria e scempiaggine ed è contrario alla poesia
italiana, che vuole la rima come la poesia latina vuole la struttura quantitativa. Questo forte
attacco è senz’altro fuori tempo, però egli coglie il fatto che la legittimazione del verso

34

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
sciolto passa attraverso un assiduo lavoro di ricerca stilistica (che arriverà ai suoi maggiori
risultati con Parini e Foscolo e nella poesia drammatica con Alfieri) delle strutture
sintattiche e del rapporto fra sintassi e schema metrico, con il ricorso all’enjambement per
mantenere la tensione ritmiche che la mancanza della rima rende, altrimenti, problematica.
Per quanto riguarda la poesia lirica in stile elevato, il genere guida alle soglie del
Cinquecento è la canzone petrarchesca, nella forma della stanza di piedi e sirma. Un aspetto
importante è che Bembo, nel descrivere questo genere, trascura la struttura della stanza e da
come regola il solo fatto che i versi siano endecasillabi e settenari e che tutte le stanze
seguono lo stesso schema nell’ordinamento dei versi e delle rime. I nuovi sviluppi
cinquecenteschi della canzone hanno poi in comune il fatto che al modello petrarchesco si
affianca quello della poesia classica. Ricordiamo a tal proposito la canzone pindarica, su
modello di Pindaro e la canzone-ode su modello di Orazio. È Chiabrera a sperimentare per
primo con successo una trasposizione italiana degli schemi oraziani imitando il numero
delle sillabe e il ritmo. La sua esperienza rimane fondamentale per i poeti che dopo di lui
imitano la poesia classica, ma è grazie a Carducci che si imporrà la metrica barbara, seppur
per un breve periodo.
È sempre sulla base di un classico, questa volta Anacreonte, che si sviluppa un’altra forma
di grande successo: l’ode-canzonetta, sempre di Chiabrera. In realtà il modello di genere è
offerto da poesia falsamente attribuite ad Anacreonte, mentre gli aspetti a cui Chiabrera
guarda sono appartenenti alla poesia francese di Ronsard e della Pléiade. La forma dell’ode-
canzonetta ha grandissima fortuna nella poesia per musica, ma è sul piano letterario che
occupa uno spazio più ampio (è ad es. disponibile per la poesia di impegno civile delle Odi
di Parini).
Tra le innovazioni della poesia musicale cinquecentesca, inoltre, un ruolo fondamentale
senz’altro è ricoperto dalla nuova forma del madrigale: senza più struttura strofica, in
endecasillabi e settenari disposti liberamente, con rime e versi irrelati liberi, è insomma la
prima forma lirica veramente libera della tradizione italiana.
Infine l’elaborazione del discorso ibero in endecasillabi e settenari ha dal Cinque al
Settecento un campo privilegiato di elaborazione nella poesia scenica e per musica, è inoltre
viva nella poesia narrativa e idilliaca.

▲ L’ottocento
Quando facciamo riferimento a questo secolo non possiamo non citare le canzoni
leopardiane: esse hanno come punto di riferimento la tradizione delle canzoni sei-
settecentesche che non rispettano l’articolazione petrarchesca della stanza, Leopardi attinge
a quel repertorio metrico selezionandolo e trattandolo in modo originale rispetto ai suoi
contemporanei. Parliamo dunque di canzone libera: essa non è di per sé una novità, ma la
novità consiste nella strada che Leopardi usa per giungere a questo esito, strada attraverso la
graduale dissoluzione dall’interno degli schemi delle canzoni regolari con il recupero della
tradizione cinque-settecentesca del discorso libero in endecasillabi e settenari. In tal modo la
strofa leopardiana non è più un’impalcatura preesistente al ritmo, ma è generata dal
movimento ritmico del testo.
Appartengono al repertorio settecentesco anche le liriche dell’ode-canzonetta (es. odi di
Foscolo e gli Inni sacri di Manzoni), la ballata romantica: in Italia essa riprende i modelli
nordici, sono testi che si richiamano per lo più alle tradizioni popolari o a miti storici
35

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
medievaleggianti. Ricordiamo inoltre anche l’endecasillabo sciolto, divenuto ormai il metro
per eccellenza della poesia discorsiva e giunti al suo esito più grande con i Sepolcri di
Foscolo e con gli Idilli di Leopardi. Il nome di idilli riporta agli Idilli greci di Mosco ma
anche ad una tradizione di poesia oggettiva che descrive situazioni e personaggi collocati in
un ambiente campestre o pastorale idealizzato. In tal modo Leopardi fa dell’endecasillabo
sciolto il metro per eccellenza della confessione lirica.
La persistenza delle forme metriche settecentesche nell’Ottocento giunge fino a Carducci.
Il repertorio di quest’ultimo comprende le forme della tradizione più antica (e per questo
aspetto un ruolo importante lo ha avuto la cultura filologica del secondo Ottocento), non a
caso la sperimentazione arcaizzante di Carducci tocca la canzone petrarchesca, la ballata
antica, il madrigale, la sestina e anche il raro rondò. La rivisitazione dei metri della
tradizione italiana è presente anche in altri due autori di questo periodo. Il primo è Pascoli
che lo fa in forma dissimulata e modernizzata, egli manifesta ad es. un notevole interesse
per il madrigale trecentesco di schema ABA CBC DEDE, recupera la terzina doppia etc.
Questi recuperi si inseriscono dentro un’ampia sperimentazione sulle forme liriche,
sperimentazioni che sviluppa anche nel campo dell’endecasillabo sciolto e della terza rima.
Ricordiamo poi D’Annunzio che rivisita i metri della tradizione italiana con compiacimento
estetizzante, il suo repertorio è infatti decisamente di gusto archeologico.
Ritornando a Carducci, la sua operazione più importante è la sua metrica barbara, presente
nelle Odi barbare, pubblicate nel 1877 e rielaborate fino al 1893. La novità non è puramente
tecnica: nuova è la compenetrazione fra la ricerca metrica e l’ideale di una ritrovata
classicità e nuova è anche la centralità che la proposta carducciana riesce ad ottenere, anche
se in un breve arco di tempo.

Capitolo 11: La metrica libera moderna.


Il verso libero si è costruito culturalmente dall’interno del mutamento della poesia (riflesso del
mutamento del mondo) in tutti i suoi aspetti, motivo per il quale è difficile descriverlo se non in
termini di ciò che “non è” rispetto alla metrica tradizionale. Pierre Guiraud in La versification
sostiene che esso in fondo non è un verso, infatti dal punto di vista della percezione culturale il
verso libero e le sue origini sono in effetti intimamente legate con la prosa: non a caso il limite a cui
tende il verso libero è la poesia in prosa che si afferma in Francia con Baudelaire e in America con
Walt Whitman. L’antecedente del verso libero italiano sono le traduzioni di canti illirici e greci
pubblicati da Niccolò Tommaseo nel 1841-42: esse sono scritte in prosa ma l’autore riproduce con
il rigo di prosa la divisione in versi dell’originale così da far dire a Pascoli che non si trattava né di
versi e né di prosa. Altro testo importante per le origini del verso libero moderno sono i Semiritmi
di Luigi Capuana (1888): il primo nucleo di essi è stato pubblicato nel 1882 sulla «Fanfulla della
domenica» con la finzione che si trattasse di traduzioni da un poeta danese: qui i testi erano scritti
di seguito come prosa, ma le divisioni in versi erano segnalate da trattini. Altro precedente è
D’Annunzio con le Laudi (Maia, Elettra, Alcyone 1899-1903; Merope 1911-12): in esse un numero
significativo di testi prevale una versificazione in cui l’isosillabismo non è più rigorosa e la misura
sillabica diventa un punto di riferimento al quale il verso aderisce per approssimazione, oscillando
senza una regola fissa. Nonostante questa libertà, la metrica però tende ad esercitarsi entro strutture
definite (basate su rapporti numerici). Verso libero significa invece rifiuto di ogni struttura definita,
come gesto polemico nei confronti della tradizione poetica. Esiti estremi della liberazione metrica
del primo Novecento sono due:
36

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
▲ Le “parole in libertà” di Marinetti e dei futuristi: qui l’uso intensivo dei differenti corpi
tipografici e la demolizione delle strutture sintattiche, fa uscire la poesia dai limiti della
metrica per diventare arte visiva. La simbiosi della poesia con altre arti si continua nel
secolo poi con la cosiddetta “poesia concreta”. In questo contesto si pone il problema dei
limiti della poesia rispetto a ciò che non è poesia, problema che si pone anche con la…
▲ La poesia in prosa: genere appartenente alla cultura francese per il quale in Italia possiamo
citare, come esempio, i Canti orfici di Campana (1914) nei quali si alternano poesia in versi
e poesia in prosa. In Italia la poesia in prosa però non diventa una linea vincente in quanto
l’aspetto visivo della versificazione è l’aspetto più persistente e generale nell’elaborazione
della poesia libera.
Dopo queste premesse si possono accennare alcuni punti da tenere presente per un esame dei testi
dal punto di vista metrico. La metrica libera nel Novecento non è priva di regolarità, ma bisogna
osservare come primo punto che il concetto di “verso sbagliato” nella versificazione libera non ha
senso: l’unica norma enunciabile è forse quella secondo cui il verso non può essere del tutto
regolare se non per caso, c’è dunque una tensione tra la regolarità della segmentazione del discorso
e l’irregolarità istituzionale dei segmenti, ossia dei versi. La poesia del Novecento non abbandona
le forme metriche tradizionali, ma ne fa un uso critico, inserendo una distanza tra sé e il metro
regolare che dunque viene risuscitato per essere anche negato. Es. nelle Ceneri di Gramsci (1957)
Pasolini usa la terza rima come base dalla quale si allontana liberamente, sia variando la misura del
verso, sia sostituendo le rime con le assonanze, sia lasciando i versi irrelati. Altro esempio è il
sonetto che diventa oggetto di nuove sperimentazioni critiche se si pensa a Caproni, Zanzotto o
Raboni.
In tal modo si può avviare una “tipologia negativa” delle forme del verso libero che va dalle forme
più prossime alla tradizione a quelle più remote da essa.
▲ Nella metrica di Montale sono frequenti gli endecasillabi regolari che però vengono
accostati a versi che sono alterazioni dell’endecasillabo. In altri testi dello stesso invece c’è
una vera e propria polimetria (sono infatti riconducibili a forme di polimetria tutti i versi in
versi liberi in misure inferiori alle 11 sillabe per i quali è sempre possibile un confronto con
i versi regolari);
▲ Ci sono poi alcuni versi non riconducibili alle misure tradizionali, ossia i versi lunghi tra cui
ricordiamo il verso-frase in cui tendenzialmente ogni verso corrisponde ad una frase o
termina con una pausa sintattica forte;
▲ Per alcuni tipi di verso libero si può parlare di verso accentuativo, ossia un verso la cui
struttura si fonda non sul numero delle sillabe ma sul numero degli accenti o su moduli
accentuativi costanti o ben riconoscibili. Es. Poemi lirici di Bacchelli (1914): il verso è
fondato sulla misura di quattro accenti (mentre il numero delle sillabe è variabile); es.
Poesie di Palazzeschi (1925) in cui il verso è formato da gruppi di tre sillabe costantemente
atona-tonica-atona o Lavorare stanca di Pavese (1936) in cui si allineano gruppi di tre
sillabe con la terza tonica in serie di 4, 5 o 6.
Pertanto è possibile definire l’atteggiamento nei confronti del verso: nella versificazione del
Novecento il concetto di unità metrica è sdoppiato fra due poli: da un lato il verso e dall’altro
l’unità ritmica che è autonoma e indipendente dalla forma del verso. Il verso è definito dalla
segmentazione: anche se la fine del verso è identificata solo dall’a capo, diventa significativo il
fatto che la divisione sintattica si adegui alla divisione metrica o vi si ponga in contrasto. Il verso è
a sua volta un contenitore delle unità ritmiche della poesia, esse possono essere liberamente

37

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)
costruite dal poeta anche dentro le forme metriche tradizionali, come invece possono essere
costruite dentro forme a loro volta libere. La rima non è abolita nella versificazione libera, anzi
nella poesia del Novecento è molto presente, seppur con estrema libertà: spesso è, infatti, sostituita
da assonanze, consonanze o versi irrelati, ma rimane comunque una risorsa sempre disponibile, con
una frequenza che varia da autore ad autore. Chi ne fa un uso rilevante è, per esempio Caproni per
cui la rima è una risorsa spontanea.

38

Document shared on www.docsity.com


Downloaded by: vdsl87 (profiloytbpeppe@gmail.com)

Potrebbero piacerti anche