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Dario Bacchini

LO SVILUPPO MORALE

Cap. 1 L’approccio cognitivo-evolutivo


Inizio con Piaget: 1932 “Il giudizio morale del fanciullo” (Piaget pioniere studio sviluppo morale)
Anni ’60: Teoria dello sviluppo morale di Kolbergh (esegeta: sviluppo tesi piagetane, prospettiva
sociomorale)
Piaget: structure d’ensemble: singola funzione cognitiva e ragionamento morale non possono svilupparsi in
maniera indipendente, ma deve armonizzarsi all’interno di una più ampia struttura cognitiva che funga da
principio organizzatore.
Ogni organizzazione successiva rappresenta un superamento e un miglioramento di quella precedente.
Nozione di giustizia del bambino: giustizia retributiva e distributiva.
Due fasi della morale: l’autonomia e l’eterenomia.
Suddivisione tripartitica dello sviluppo morale:
1. Fase premorale, fino all’età di 5 anni (no regole etiche)
2. Realismo morale, fino agli 8-10 anni (principio di autorità)
3. Soggettivismo morale, dopo i 9-10 anni (autonomia della morale, istanza interiore)

Kohlberg negli anni 60 elaborò una teoria sistemica dello sviluppo morale.
Concetti chiave:
 L’universalità (caratteristiche comuni in tutto il genere umano)
 Il principio gerarchico (livelli più avanzati e maturi)
 La stadialità (il pensiero morale progredisce per stadi)
 Il primato della cognizione (strutture che sottendono una presa di decisione)
 Il conflitto sociomorale (dilemmi morali)
 Primato delle analisi delle strutture o forme del pensiero morale (analisi delle strutture pensiero)
 Rifiuto del relativismo culturale ed etico
 Il concetto di self (concetto di identità)
 Il role taking (assumere la prospettiva dell’altro)

Il punto di partenza: Il dilemma di Heinz (1969); rubare la medicina (non avendo tutti i soldi dato che il
farmacista la vendeva dieci volte in più di quella che gli costava) per salvare la moglie dalla morte per una
particolare forma di cancro. In base alle risposte Kohlberg identificò tre livelli di ragionamento morale,
ognuno suddiviso in 2 stadi – 3 livelli – 6 stadi

1. Livello preconvenzionale, 1° stadio: orientamento premio-punizione; 2° stadio: orientamento


individualistico/strumentale
2. Livello convenzionale, 1°stadio: orientamento del bravo ragazzo o del conformismo;
2° stadio: sistema sociale e coscienza (prospettiva societaria)
3. Livello post-convenzionale, 1° stadio: contratto sociale e dei diritti individuali (valori universali) 2°
stadio: principi etici universali (leggi da rispettare se fondati su di essi).
Confronto tra Piaget e Kohlberg:
Piaget: autonomia morale rappresenta un carattere soggettivistico/relativistico
Kohlberg: a livelli più elevati gli ideali morali hanno carattere universale
Piaget: riconduce la coscienza e pratica allo sviluppo cognitivo
Kohlberg: approccio modulare: riconosce autonomia ai processi di pensiero che sovraintendono e regolano
il giudizio morale.
Critiche a Kohlberg
1. Inadeguatezza del metodo: i dilemmi vennero ritenuti poco validi dal punto di vista ecologico, in
quando le situazioni presentate troppo lontane dalla vita reale.
2. Differenze di genere: primi studi realizzati solo su soggetti di sesso maschile (Gilligan 1982,
ragionamento morale femminile teso al prendersi cura degli altri)
3. Differenze culturali: stadi più elevati del ragionamento morale modellati su modalità di pensiero
tipiche delle culture occidentali (culture orientali collettivistiche; primato degli interessi della
collettività sul singolo
4. Sovrapposizione degli ambiti: critica avanzata dagli studiosi delle teoria degli ambiti; errore di
Kohlberg nel ritenere il ragionamento convenzionale e post-convenzionale divise in due fasi di
sviluppo. Secondo questi studiosi essi sono due diverse modalità di ragionamento applicabili a due
ambiti diversi ma presenti contemporaneamente: ambito convenzionale relativo a norme sociali,
ambito morale attiene a questioni relative al benessere, ai diritti e alla giustizia che è presente
molto più precocemente di quanto ritenga Kohlberg.
5. Il comportamento morale: una delle principali critiche afferma che essa non fornisce una base
consistente per spiegare l’effettivo comportamento morale. L’azione morale è determinata da una
pluralità di fattori fra cui anche il ragionamento morale, la cui influenza non è sempre rilevante. Il
critico più radicale è stato Bandura con la sua teoria social-cognitiva, ritenne insostenibile l’idea di
uno sviluppo morale universale senza tener conto del ruolo svolto dai modelli di socializzazione e
dagli apprendimenti che avvengono nel corso della crescita che influenzano gli stadi del
ragionamento. Inoltre evidenziò la mancanza di un modello teorico che spiegasse il divario trai i
principi morali professati ed il suo effettivo comportamento.
6. Il ruolo limitato dell’affettività: l’attenzione prevalente agli aspetti cognitivi della moralità ha
indotto Kohlberg a dare poco peso al ruolo dell’affettività.

Il modello bifasico di Gibbs: autore che ha sviluppato maggiormente il modello di Kohlberg in riferimento
all’anti-socialità adolescenziale nella sua opera principale: Moral Development and reality. Critiche a
Kohlberg: stadi più elevati ad appannaggio di una ristretta popolazione in possesso di particolari
caratteristiche culturali e di istruzione; ciò mina l’aspirazione universalistica del modello.
Gibbs distingue due dimensioni dello sviluppo morale:
1. Fase standard
2. Fase esistenziale
La fase standard comprende i processi base della comprensione morale e presiedono all’azione morale.
La fase dello sviluppo esistenziale riguarda le abilità di riflessione contemplative e metaetiche, che
consentono di elaborare filosofie e principi morali.
Lo sviluppo morale standard è suddiviso in 2 stadi: immaturi e maturi.
Gli stadi immaturi, che emergono nella prima infanzia e declinano con l’adolescenza, comprendono 2
sottostadi:
1. Il primo sotto-stadio è definito anche della centrazione e riguarda lo sviluppo morale
2. Il secondo sotto-stadio è quello dello scambio pragmatico (nuove abilità cognitive; perspective
taking, inferenze logiche di tipo pragmatico ecc.)
Gli stati maturi compaiono nella tarda fanciullezza e nell’adolescenza; basi ideali intangibili (fiducia
reciproca, cura, rsipetto), relazioni sociali regolate secondo principi morali. Concetto guida: reciprocità.
Il passaggio agli stadi più maturi è reso possibile dalle abilità meta-cognitive (pensare
sull’oggetto/contemplazione).
Il terzo stadio è definito delle mutualities, ossia della reciprocità tra individui.
Il quarto stadio dei sistemi: estensione dalla dualità verso la condivisione di valori accettati da tutto il
sistema sociale.
La quarta fase: lo sviluppo esistenziale. Non è presente in tutti gli individui, ma non è considerata
un’evoluzione dell’ultimo livello della fase standard. E’ come una sorta di valore aggiunto. Richiede il
raggiungimento di elevate competenze cognitive, empatiche e logiche, coinvolge una contemplazione
ipotetica, riflessioni meta-etiche, principi morali o filosofie, ricerca spirituale.
Cap. 2 La teoria degli ambiti
Alcuni studiosi (Nucci, 2001/02, Smetana 1995, Turiel 2002/6) hanno proposto un. Modello dello sviluppo
morale alternativo a quello di Kholberg denominato teoria degli ambiti. Secondo questro approccio, il
mondo sociale è regolato è regolato da una serie di attese e regole che si presentano in contesti differenti.
Ma non tutte le regole sociali sono morali. Diversamente da quanto sostenuto da Piaget e Kohlberg, essi
sostengono che i giudizi dei bambini sulla condotta morale non sono basati sul rispetto o sulla riverenza
verso l’adulto, ma sulle conseguenze che l’atto offensivo potrebbe avere sulla vittima.
L’assunto fondamentale di questa teoria è che i bambini distinguano precocemente fra i vari domini sociali,
e che quindi differenti schemi o strutture cognitive sovraintendano il giudizio in un ambito o in un altro.
Sulla base di ciò gli individui regolano il proprio comportamento sociale sulla basa di 4 distinti ambiti:
1. Morale (giustizia, benessere, diritti)
2. Convenzionale (autorità, tradizione e norme sociali)
3. Personale (personale valutazione)
4. Prudenziale (integrità fisica e psicologica)
Uno degli assunti basi di questa concezione è la specificità di dominio.
Essi concordano che non possa esserci un relativismo morale, in quanto i principi che definiscono la
moralità sono espressione di una proprietà naturale della mente umana.
Caratteristica fondamentale dei principi morali sono la prescrittività e l’universalità.
L’ambito morale ha queste caratteristiche:
 Obbligatorietà (prescrittività intrinseca)
 Generalizzabilità (valore universale)
 Impersonalità (indipendente da autorità o gruppi che l’hanno istituita quindi non modificabile)
Per l’ambito convenzionale diversamente dalle regole morali sono:
 Stabilite di autorità
 Non universali
 Non generalizzabili
Ambiti misti e controversie nella classificazione. Non sempre una regola è facilmente collocabile in uno
specifico ambito. I fattori che determinano questa difficoltà sono di 2 ordini: il primo riguarda il fatto che
nella realtà non tutte le situazioni sociali presentano una netta distinzione tra dominio morale e
convenzionale; il secondo è che le persone possono valutare diversamente l’ambito in funzione del proprio
status.
Divergenze genitori-figli nell’attribuzione degli ambiti. È soprattutto in relazione all’ambito personale che
si osservano maggiori contrasti. Durante l’adolescenza la conflittualità genitori-figli è molto accentuata in
relazione ai confini del dominio personale e la negoziazione risulta difficile perché i figli non riconoscono
più l’autorità dei genitori e i genitori non riconoscono ai figli una totale autonomia decisionale.
Sono stati condotti studi che forniscono interessanti indicazioni circa le strategie educative. Va ricordato
che sebbene le normo morali possiedono un’intrinseca superiorità rispettare le norme convenzione è
necessario per il mantenimento dell’ordine sociale e sono soprattutto queste ultime ad essere apprese nel
corso del processo di socializzazione.
Le implicazioni sul piano educativo
Nucci (2001) ritiene che un educatore, neo riguardi di una violazione, può intervenire in 5 modi:
1. Evidenziare che il comportamento è in sé dannoso ed ingiusto;
2. Indurre in bambino ad assumere la prospettiva dell’altro;
3. Ribadire la norma:
4. Evidenziare che il comportamento è fuori luogo;
5. Chiedere in modo perentorio di interrompere il comportamento.
Quando i rimproveri degli adulti sono pertinenti all’ambito della violazione, il bambino è agevolato nel
compito di distinguere chiaramente i due ambiti. In caso di trasgressione di regole convenzionali, ci si
attende quindi che la reazione dei genitori siano costituite da un’ingiunzione nell’interrompere quel
comportamento (smettila di disturbare!), mentre nel caso di violazioni di regole morali si porrà l’accento
sulle conseguenze delle azioni con espressioni del tipo: “pensa come ti sentiresti se fossi tu ad essere preso
in giro dall’altro bambino!”. I genitori sembrano preoccuparsi di più delle norme di tipo convenzionale,
funzionali al modo giusto di comportarsi in società. Immaginiamo 2 diverse situazioni in ambito scolastico:
1. Carlo prende in giro Maria per il suo abbigliamento
2. Mario si alza spesso dal banco durante la lezione
Nel primo caso si tratta di una violazione di una norma morale e le strategie più adeguate sono quelle di
evidenziare che il comportamento in sé e dannoso e ingiusto, invitando il bambino ad assumere un punto di
vista diverso dal suo.
Nel secondo caso non avrebbe senso mettere l’accento sulle conseguenze negative dell’azione su di una
vittima. Più efficace sarebbe un intervento volto a ribadire la norma secondo la quale in classe non ci si può
alzare quando si vuole e che è molto maleducato alzarsi senza permesso, oppure una severa ingiunzione:
“torna la tuo posto!”
Influenza della cultura sull’interpretazione degli ambiti sociali. Differenze osservate in diversi contesti
culturali. In alcune culture c’è una maggiore tendenza a moralizzare le convenzioni sociali, a considerarle
meno modificabili e a generalizzarle a contesti differenti.
La teoria degli ambiti in un’ottica evolutiva. Secondo il percorso evolutivo proposto da Nucci (2001) il
giudizio morale si origina nei primi anni di vita, quando il bambino diviene consapevole delle conseguenze
negative di una determinata azione.
 Fino a 7 anni: preservare il proprio benessere ed evitare di danneggiare gli altri.
 Fra 8-10 anni: garantire una parità di trattamento improntata ai concetti ancora embrionali di
giustizia e reciprocità
 10-12 anni: garantire l’equità di trattamento, considerata ora in maniera più evoluta
 12-14 anni: integrare il concetto di equità con gli aspetti universali e prescritti dalla morale
 14-17 anni: garantire ciò che è giusto. Approfondimento del concetto di giustizia.
 17-20 anni: possibile concezione relativistica della morale.
 20 anni in poi: agire nel rispetto dei principi universali di equità e giustizia che trascendono norme e
rapporti specifici. Applicazione di principi etici nel ragionamento sistema sociale.
I metodi di ricerca: vengono presentate delle situazioni prototipiche inerenti ai diversi domini e si chiede ai
bambini di formulare giudizi su ciascuna situazione.

Capitolo 3. Empatia e prosocialità


La componente affettiva della morale.
L’esperienza morale non può essere pienamente compresa se si si limita alla sola componente cognitiva
senza considerare il ruolo delle emozioni. La passione con cui si difende una posizione più giusta, la rabbia
nell’assistere impotenti a un’ingiustizia, la compassione di aiutare qualcuno in condizioni di bisogno ecc.
definiti hot cognitions (cognizioni calde).

Definizioni di empatia. Il termine empatia deriva dal greco. En= dentro e pathos = sofferenza o sentimento
e veniva usato per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo
pubblico. In ambito psicologico, gli studi sull’empatia risalgono a Titchener (1909), il quale conia il termine
empahty come traduzione dal tedesco Einfuehlung, letteralmente immedesimazione, usato in riferimento
al godimento estetico.
Le componenti principali del processo empatico sono tre: affettiva, cognitiva e fisiologica.
Nella dimensione affettiva va intesa come condivisione emozionale.
In termini cognitivi è intesa come comprensione dell’esperienza di un altro (perspective taking/role taking)
La componente fisiologica dell’empatia si riferisce al coinvolgimento di funzioni legate all’attività del
sistema nervoso autonomo, che operano nell’indurre un individuo a comportarsi e a sentire in modo
speculare a un’altra persona. Secondo Hoffmann l’empatia è l’attivazione di processi psicologici che fanno
si che una persona abbia sentimenti simili all’altra persona. Il focus viene posto sul processo che ha luogo
sul soggetto che empatizza piuttosto che sull’esito.
L’empatia è considerata da Hoffman l’origine, il processo e il motore che rende possibili il prendersi cura
dell’altro e, in definitiva la convivenza tra le persone. E’ un tipo di esperienza emotiva universale e si trova
in molte specie non umane.
Il modello teorico di Hoffman
Martin Hoffman è lo studioso che più di altri ha tentato di sistemare i diversi contributi relativi al ruolo
dell’affettività sullo sviluppo della vita morale, proponendo un coerente modello teorico.
Attività trentennale di ricerca sul tema pubblicata nel volume “Empathy and moral development” (2000)

 Simpatia: viene tradotto dall’inglese sympathy in compassione. In ambito scientifico il


termine simpatia è frequentemente utilizzato nell’eccezione anglosassone e ha un valore
semantico più ampio rispetto a “compassione”
Per comprendere il modello di Hoffman, occorre esaminare la natura multiforme dell’esperienza empatica,
i modi attraverso cui viene attivata e la sua evoluzione nel corso dello sviluppo.
Hoffman distingua tra:
 Modalità primitive che comprendono la mimesi (mimicry), il condizionamento classico e
l’associazione diretta;
 Modalità mature che comprendono l’associazione mediata e la capacità di assumere la
prospettiva dell’altro (perspective taking)
Le modalità primitive si caratterizzano per essere delle risposte automatiche, rapide ed involontarie che
rendono possibile al bambino di empatizzare con qualcuno in stato di sofferenza anche in una fase
preverbale dell’esistenza.
 La mimesi (mimicry) è resa possibile da 2 processi che operano in rapida sequenza.
È l’imitazione spontanea, meccanismo in base al quale tendiamo ad imitare l’espressione, la gestualità, la
postura, di chi è dinanzi a noi, senza alcun controllo della coscienza. Questa tendenza appare molto presto
nel corso della vita: già da poche settimane il neonato cerca di imitare le espressioni facciali delle loro
madri.
 Il feedback: gli individui non si limitano ad imitare a imitare l’espressione esteriore, ma a essa si
associa lo stato d’animo corrispondente.
 Il condizionamento classico: secondo i principi del condizionamento l’empatia primitiva è una
condizione appresa in seguito ad uno stimolo che è temporaneamente associato allo stato d’animo
precedente di un’altra persona (prime relazioni madre-bambino).
 L’associazione diretta: ha luogo quando l’esperienza della vittima evoca un’esperienza analoga
vissuta dal testimone.

Le modalità mature dell’attivazione empatica implicano il ricorso a più sofisticati processi cognitivi e ad
abilità metacognitive. Richiedono intermediazione di carattere cognitivo per differenziare il proprio punto
di vista da quello dell’altro.
1. L’associazione mediata: il potere che hanno le parole di evocare emozioni e stato d’animo.
L’osservatore deve codificare, nel senso di processare mentalmente ed interpretare, l’esperienza
della vittima, correndo il rischio di compiere errori di valutazione: le parole non sono l’esperienza
vissuta ma solo una loro rappresentazione.
2. L’assunzione di ruolo (role taking): in questa fase ci si immagina di essere al posto di un’altra
persona. Questa modalità richiede processi cognitivi più sofisticati e può avvenire in 2 modi. Nel
primo caso l’attività di perspective taking può essere centrata sul sé: l’osservatore immagina come
si sentirebbe se si trovasse nella situazione dell’altro. Nel secondo caso può essere centrata
sull’altro: l’osservatore immagina come si stia sentendo l’altra persona in quella particolare
situazione.
Gli stadi evolutivi del distress empatico.
Hoffman come Kohlberg ritiene che le fasi della moralità matura si raggiungano in adolescenza.
Diversamente da Kohlberg però Hoffman ritiene che le caratteristiche di uno stato precedente non siano
mai del tutto abbandonate né che costituiscano il fondamento per lo stadio successivo. In termini evolutivi
su può distinguere tra stati maturi ed immaturi dell’esperienza empatica.
Gli stati immaturi che compaiono già nel primo anno di vita, sono caratterizzati da una superficiale
distinzione sé-altro e dall’assenza della mediazione linguistica. Essi comprendono:
1. Stadio 0: il pianto reattivo del neonato (contagio emotivo predisposizione innata all’isomorfismo
tra i membri della stessa specie;
2. Stadio 1: distress empatico egocentrico (intorno ai 6 mesi, il neonato non ha del tutto chiaro se a
soffrire è l’altro oppure lui e cerca di consolare soprattutto sé stesso);
3. Stadio 2: distress empatico quasi egocentrico (intorno ai 2 anni, distingue tra sé e l’altro ma non è
ancora in gradi di comprendere i reali bisogni dell’altro.
Secondo Kohlberg, a differenza di Piaget, già alla fine del secondo anno di vita il bambino abbandona la
prospettiva egocentrica infantile in quanto comincia a distinguere tra sé e l’altro, ciò dà l’avvio a quella
trasformazione dell’esperienza empatica che Hoffman descrive come passaggio dall’empatia egocentrica a
quella simpatetica, nel senso che il bambino desidera aiutare l’altro perché oltre a condividere
empaticamente la sofferenza della vittima, prova un reale dispiacere (compassione) per l’altro. Il nesso tra
empatia e moralità segue 2 percorsi distinti: il primo di tipo egoistico (alleviando la sofferenza dell’altro di
conseguenza si allevia pure quella dell’osservatore), il secondo di tipo altruistico (la condivisione empatica
si associa a un sentimento di cura e sollecitudine).
Gli stati maturi comprendono:
1. Stadio 3: distress empatico in risposta alla situazione di un altro (empatia veridica: aderente alla
reale situazione) dal consolidamento della teoria della mente fino ai 12-13 anni con l’ingresso
nell’adolescenza, si diviene consapevoli che lo stato d’animo di una persona non è sempre legato
alla situazione contingente.
2. Stadio 4: distress empatico per la condizione esistenziale dell’altro. E’ lo stato più maturo e implica
capacità astratte di pensiero. Non si attiva solo di fronte al disagio dell’altro, ma avviene in
rapporto alle condizioni generali di vita dell’altra persona (es. vista di un mendicante per strada).
Questo livello di attivazione empatica richiede una valida abilità immaginativa e si consolida
durante l’adolescenza grazie alle maggiori capacità di astrazione proprie di questo periodo.

Le limitazioni dell’empatia
Senza i correttivi cognitivi, l’empatia potrebbe non essere in grado di condurci ad azioni moralmente
corrette. Hoffman inquadra questo fenomeno come limitazioni all’empatia suddivisi in 2 principali
categorie: quelle concernenti il fenomeno dell’over-arousal empatico e quelle che riguardano i cosiddetti
bias empatici.

 L’over-arousal (sovrattivazione empatica) accade soprattutto quando i problemi della vittima ci


coinvolgano direttamente. Si verifica un fenomeno che Hoffman chiama deriva egoistica causata da
un’eccessiva focalizzazione su di sé dell’osservatore che lo induce a sentire l’esperienza empatica
troppo onerosa sul piano emotivo e a distanziarsene. Può accadere persino che il distress
dell’osservatore ecceda quello della vittima creando un effetto paradosso e ciò può essere anche
determinato da un’esposizione cumulativa a situazioni di sofferenza. Questo tipo di esperienza è
molto comune negli operatori sanitari a contato con pazienti affetti da patologie molto gravi.
 Bias empatici. Consiste nel privilegiare gli interessi del proprio gruppo (ingroup) specie in situazione
nelle quali le risorse sono limitate. Il contrappeso negativo è quello di indurci a non tenere in
considerazione i bisogni dell’altro se esso entra in competizione con un vincolo di parentela
(familismo amorale). Un altro limite è rappresentato dal qui ed ora, ossia siamo più propensi ad
aiutare persone presenti piuttosto che quelle più lontane anche se maggiormente bisognose.

3.3.5. Dall’empatia alla moralità – Ruolo delle attribuzioni casuali e delle inferenze sull’ingiustizia
La cognizione svolge un ruolo decisivo nel trasformare o meno l’empatia in simpatia per la vittima e nel
motivare all’azione prosociale. Il primo meccanismo è quello dell’attribuzione casuale; processi semi-
automatico attraverso cui gli individui tendono a dare una spiegazione (ad individuarne le cause) degli
eventi relativi al sé e ad altre persone. Le analisi causali possono essere classificate come interne o
esterne al soggetto e controllabili o incontrollabili. Un fattore che favorisce la trasformazione
dell’empatia in simpatia è che le cause de distress siano percepite esterne alla vittima e da questa non
controllabili. La regola generale è dunque che se si ritiene che la vittima sia in qualche modo
responsabile della sua situazione, il distress empatico che si prova sarà inferiore, ma se si ritiene che la
vittima abbia subito ingiustamente un torto, il distress empatico tenderà ad incrementarsi. I percorsi
dell’empatia possono essere vari. Essa può trasformarsi in rabbia empatica rivolta ad una terza persona
ritenuta responsabile della sofferenza della vittima. L’attribuzione casuale è determinante anche ai fini
di quel fenomeno che Hoffman chiama: ingiustizia empatica che si attiva quando si ritiene che la
vittima ha ricevuto un danno senza aver fatto del male a nessuno. Il concetto di reciprocità ha molta
importanza nella formulazione dei giudizi morali e ciò da una spinta motivazionale per ristabilire una
condizione di equilibrio dinamico fra le parti.
Secondo Hoffman l’empatia da sola non sarebbe sufficiente ad intraprendere un’azione morale senza
l’intervento dei principi morali o ideali filosofici la cui principale funzione è quella di porre rimedio ai
limiti dell’empatia. (over/under arousal empatico).
Secondo la tesi di Hoffman i principi morali svolgono la funzione di stabilizzare gli affetti empatici, sia
nel senso ridurne l’intensità sia di aumentarla. I valori morali si legano dunque all’empatia e
costituiscono uno script morale (Gibbs 2003), dapprima si attiva il distress empatico, successivamente
entrano in azioni i principi morali individuali che, a loro volta, vengono caricati empaticamente. La
risposta empatica diviene così meno dipendente dallo stato d’animo della vittima.

L’orientamento morale prosociale: il contributo di Eisenberg


Il comportamento prosociale è una condotta volta ad arrecare beneficio a un’altra persona
indipendentemente dalle motivazioni sottese che possono essere perfino di tipo egoistiche. Correlato
alla prosocialità è l’altruismo motivato da valori internalizzati. È un approfondimento della linea
tracciata da Hoffman che per oggetto il nesso esistente tra prosocialità, empatia e ragionamento
morale. L’autore più rappresentativo è Eisenberg che ha approfondito il ruolo delle emozioni centrate
sull’empatia, sullo sviluppo dei valori, delle motivazioni e dei comportamenti prosociali. Nella
riflessione di Eisenberg moralità e prosocialità sono intrinsecamente connesse, per cui l’autrice fa
spesso riferimento al costrutto globale di orientamento morale prosociale. L’interesse verso il
comportamento prosociale si colloca all’interno di una più vasta corrente psicologica che va sotto il
nome di psicologia positiva, il cui campo di indagine è costituito da esperienza soggettive come i l
benessere, l’ottimismo, la capacità di amare, il perdono, la speranza, l’analisi di virtù civiche che
consentono una migliore convivenza sociale.

La distinzione tra empatia, simpatia e personal distress


La simpatia è una risposta affettiva che frequentemente ha origine dall’empatia, ma può derivare
direttamente dalla prespective taking o da altri processi cognitivi; essa consiste in un sentimento di
pena o preoccupazione per l’altro che vive in una condizione di disagio o bisogno ed è quindi
concettualmente diversa dall’empatia che è solo la condivisione dello stato emozionale dell’altro.
Anche il personal distress deriva dall’esposizione ad uno stato di sofferenza di un’altra persona;
differisce dalla simpatia in quanto si tratta di uno stato mentale focalizzato su sé (self-focused), analogo
a quella condizione che Hoffman definiva di overarousal empatico, ed è una reazione emozionale
avversiva al condividere vicariamente la sofferenza di un altro. Nel personal distress si assiste a un
fallimento del processo di trasformazione dell’empatia in principi e comportamenti di tipo morale
prosociale. Uno dei fattori alla base di questo fallimento è una ridotta capacità di regolazione emotiva,
la cui origine può risiedere in fattori temperamentali o in inadeguati modelli di socializzazione
educativa messi in atto dai genitori. In particolare questo ultimo aspetto sembra svolgere un ruolo
decisivo. La capacità dei genitori di esprimere un’emozionalità positiva e creare un clima emotivo
caloroso e supportivo in famiglia risulta essere correlata allo sviluppo di tendenze prosociali nei
bambini. Viceversa, quando le madri enfatizzano la necessità che i propri figli esercitino un forte
controllo sulle proprie emozioni negative (es. tristezza e ansietà), la capacità di regolazione emotiva
risulta meno efficace. È fondamentale che i genitori, specie le madri, riescano ad accogliere le emozioni
dei propri figli in situazioni che evocano stress empatico. È stato osservato che se le madri comunicano
con semplicità le emozioni vissute alla visione di un film e le collegano alle esperienze vissute dai
bambini, questi ultimi tendono ad esibire più chiaramente una vasta gamma di esperienze emozionali;
è stato inoltre rilevato che se le madri tendono a porre domande ai loro bambini sul loro stato emotivo,
questi mostreranno più alti livelli di empatia. I bambini prosociali hanno in genere bassi livelli di
impulsività e sono in grado di modulare efficacemente i propri stati emotivi. Questa associazione non
sorprende perché il comportamento prosociale non regola soltanto le emozioni negative, ma
presuppone anche la capacità di regolare gli stati emotivi altrui. È stato osservato che quando i genitori
riescono ad insegnare ai propri figli a gestire l’ansia con opportune strategie di coping, questi sono
meno vulnerabili emotivamente, più capaci di tollerare l’overarousal empatico e più propensi ad
aiutare altri in difficoltà.
La risposta simpatetica comporta un attivo coinvolgimento della persona che esprime interesse e
preoccupazione per l’altro, mentre l’empatia può costituirne un antecedente ma anche coesistere con
essa. Si può ad esempio condividere lo stato d’animo di un amico che è triste per un cattivo voto a
scuola e solo successivamente preoccuparsi per lui cercando di dargli una mano ad alleviare la sua
sofferenza. Hoffman riteneva che una certa dose di over-arousal empatico fosse utile alla messa in atto
di azioni prosociali, mentre per Eisenberg ha carattere disfunzionale, dal momento che, secondo la
studiosa, per attuare un’efficace risposta di aiuto è necessario operare un decentramento rispetto al sé,
distinguere i problemi propri da quelli dell’altro e analizzare con adeguati strumenti di valutazione
cognitiva la situazione.
Andamento evolutivo della prosocialità
Sul piano evolutivo, il comportamento prosociale si manifesta già nei primi anni di vita e tende ad
aumentare durante la scuola primaria e secondaria fino all’adolescenza vi è una grande varietà inter-
individuale per quanto concerne l’epoca di comparsa e la frequenza di comportamenti prosociali nei
bambini. Eisenberg, Fabes, Spinrad (2006) hanno indicato come il comportamento prosociale tenda ad
aumentare nel corso dell’infanzia fino all’adolescenza, anche se questo è vero solo per alcune tipologie
di azione: si incrementano i comportamenti quali il condividere o donare propri oggetti ad altri, mentre
non aumentano con l’età i comportamenti tendenti a dare cura e conforto. Altri studi hanno messo in
luce due importanti caratteristiche del comportamento prosociale: la prima riguarda le differenze
individuali, nel senso che alcuni bambini si mostrano più prosociali di altri; la seconda riguarda la
stabilità, ossia quei bambini che si rilevano più prosociali degli altri durante la scuola primaria
tenderanno ad una maggiore prosocialità anche negli anni successivi.

Cap. 4. Approccio biologico ed evoluzionistico

Principi generali: le varie teorie dello sviluppo morale concordano sull’idea che gli esseri umani
possiedano una disposizione innata a dare vita a emozioni, apprendimenti, cognizioni e azioni inerenti a
quel campo dell’esperienza che chiamiamo morale. Ci sono 3 principali filoni di ricerca sul rapporto tra
sviluppo morale e biologia. Il primo si colloca sul paradigma evoluzionistico, focalizzandosi in
particolare su meccanismi di natura affettiva, che spingono i membri di una specie a mettere in atto
comportamenti prosociali e ad avere cura gli uni degli altri. Il secondo si concentra sulla dimensione
cognitiva della moralità differenziando la specie umana da quella animale ed il terzo si focalizza sui
correlati neuroanatomici, biologici e temperamentali della moralità. Obiezione che lo sviluppo morale
abbia una base del tutto biologica: l’esposizione ai principi morali della comunità è responsabile della
diversità, mentre il substrato biologico può essere considerato il fattore alla base delle strutture
invarianti, affettive e cognitive, dello sviluppo morale.
La base evoluzionistica della preoccupazione degli altri
I principali argomenti a sostegno di un’origine naturale della morale sono:
 Varie specie animali condividono con gli esseri umani una propensione a prendersi cura degli
altri attraverso comportamenti che possono definirsi prosociali e altruistici;
 Vi sono evidenze che i bambini iniziano a preoccuparsi molto precocemente degli altri
Nella cornice teorica darwiniana esisterebbero due tipi di comportamento altruistici, quelli self-serving o
self-destructive, i primi servono solo ad un guadagno personale, i secondi invece un guadagno solo alla
specie. I comportamenti altruistici si manifestano anche al di là della parentela in base al principio di
reciprocità. L’altruismo tra i membri di una specie non legati geneticamente aumenta le probabilità di
riproduzione e sopravvivenza della specie intera.
In altri termini, l’empatia, la simpatia e il comportamento prosociale emergono dai processi basici delle
emozioni nei mammiferi primitivi, sono inizialmente legati al legame di parentela, ma tendono ad
estendersi a una rete più vasta di relazioni sociali nelle quali l’essere umano è inserito, fino a coinvolgere
tutti gli individui con i quali sente di condividere qualcosa come la religiosità, l’etnia, lo status
socioeconomico, le personalità, fino all’idea di umanità intera (Rusthon 1989).

Menti morali: il contributo di Hauser


Pubblicato nel 2006, menti morali di Marc Hauser. L’autore ipotizza che l’acquisizione della morale segua
un programma innato come accade per il linguaggio, secondo l’approccio neurolinguistico di Chomsky.
Nella nostra mente esiste una grammatica morale che ci consente di apprendere rapidamente le norme
sociali di una cultura e che si attiva ogni volta che si viene esposti a una situazione che implica la
categorizzazione di un’azione nei termini di permissività, obbligatorietà o proibizione, senza che ciò richieda
il coinvolgimento di processi mentali più elevati. Esiste un organo morale che dipende da un sistema
neurale specifico. La coscienza servirebbe non ha guidare il comportamento bensì a dare una spiegazione a
posteriori delle nostre azioni.
L’istinto morale
Il metodo di indagine è basato sull’analisi delle risposte degli individui a dilemmi morali, ma lui
diversamente da Kohlberg non è interessato ai gradi di ragionamento morale, bensì nel cogliere il
funzionamento di quella grammatica morale che guida, inconsapevolmente, i giudizi delle persone.
Secondo Hauser tutti gli esseri umani hanno la facoltà di valutare inconsciamente ed automaticamente
un’illimitata varietà di azioni in base ai principi che stabiliscono ciò che è lecito, ciò che è obbligatorio e ciò
che è proibito. (azione personale/azione impersonale). Riferimento alla teoria di Rawls che tra l’altro per
primo propone un’analogia tra lo sviluppo del senso morale ed il linguaggio umano.
I 4 modelli proposti da Hauser per spiegare la moralità umana:
1. Nel modello Kantiano-kolberghiano è il ragionamento ad orientare il giudizio e a determinare lo
stato emozionale corrispondente.
2. Nel modello Humaniano-hoffmaniano è l’emozione a precedere il giudizio, a cui poi si accompagna
un ragionamento giustificativo. In seguito alla percezione di un evento viene generata un’emozione
che a sua volta da origine ad un giudizio morale.
3. Nel modello misto, emozione e ragionamento lavorano in sinergia (attribuzione causale in
Hoffman). Miscela di emozioni e ragionamento del tipo: uccidere è sbagliato, ma qualche volta
potrebbe essere lecito al fine di ottenere un bene maggiore.
4. Nel modello rawlsiano, che è quello a cui aderisce Hauser, i giudizi di eticità emergerebbero da una
grammatica morale universale, fatta di principi condivisi, consistenti in una serie di regole implicite
per analizzare una specifica azione morale in base a principi che stabiliscono ciò che è lecito,
obbligatorio e proibito e infine seguono stati emotivi e ragionamenti morali. Una delle regole della
grammatica morale è la dimensione personale o impersonale dell’azione. Tra le norme di base vi
sono 2 principi: quello della proibizione dell’aggressione intenzionale, che vieta un contatto
corporeo, illecito, che comporta un danno fisico; quello del doppio effetto secondo il quale atti
proibiti possono essere giustificati, se il danno che causano non è intenzionale o gli effetti positivi
previsti e deliberati superano quello negativi previsti.
In sintesi l’idea di Hauser, ripresa anche in successivi contributi, è che la facoltà morale ci rende capaci di
produrre giudizi morali sulla base delle cause e delle conseguenze dell’azione.

I correlati biologici
Influenze genetiche
Nel valutare le 3 diverse componenti dell’empatia quali la simpatia, la perpective taking e il personal
distress, è stato riscontrato che l’ereditarietà agisce su 2 componenti a maggiore valenza affettiva (simpatia
e personal distress), ma non su quella cognitiva, questo in accordo con la teoria evoluzionistica, secondo cui
ad essere trasmessa per via genetica è soprattutto una propensione spontanea a prendersi cura degli altri,
che trova il suo radicamento in parti più arcaiche del cervello umano come il sistema limbico (geni deputati:
dopamina). Componente ereditaria molto forte nei primi 20 mesi di vita attenuandosi per affetto di
socializzazione ed apprendimento.
Il ruolo del temperamento: è un elemento delle personalità legato allo stile comportamentale del soggetto
piuttosto che alle sue abilità o al contenuto stesso del comportamento. Si ritiene che abbia una forte base
costituzionale e che le differenze temperamentali siano di natura genetica. Secondo Rothbart il
temperamento riguarda le diversità tra individui in relazione a 2 dimensioni: la reattività e le funzioni auto-
regolatorie, presenti su base costituzionale ma influenzabili nel corso del tempo dalla maturazione e
dall’esperienza. Gli studi che hanno indagato il rapporto fra temperamento e morale si sono focalizzati
soprattutto su come alcune caratteristiche fondamentali possono influire sullo sviluppo della
preoccupazione per gli altri e sul comportamento morale in generale. Nessun autore sostiene una diretta
relazione fra temperamento e morale, solo talune caratteristiche del temperamento vengono integrate
nell’ambiente di riferimento. Rothbart parla di bambini con stile temperamentale di tipo inibito che l’autore
classifica come soggetti con scarsa autoregolazione emozionale. Questi bambini di fronte a situazioni nuove
faticherebbero a mettere in atto giuste risposte di coping e specie in situazioni tempestive di aiuto si
rivelano scarsamente prosociali. Tuttavia se sono in presenza di una figura familiare la loro risposta diviene
più adattiva e prosociale. I bambini con temperamento difficile, caratterizzato da emozionalità negativa,
mostrano generalmente scarsa empatia e poche azioni prosociali. Sono stati fatti pochi studi e soprattutto
sul temperamento difficile.
Il ruolo del sistema nervoso autonomo
L’esperienza empatica e le condotte prosociali attivano il sistema nervoso autonome (SNA) come accade
per l’esperienza emozionali. In linea generale da alcuni studi risulta che l’accelerazione cardiaca sia
associata e alti livelli di personal distress e connessa a una ridotta sensibilità prosociale; al contrario una
decelerazione cardiaca sembra essere associata a una più elevata disposizione empatica e a condotte
prosociali. Alta conduttività cutanea associata a personal distress, bassa associata ad azioni prosociali.
I correlati neuroanatomici e i neuroni specchio
Le regioni prefrontali interagiscono con molte altre strutture cerebrali nella valutazione dei segnali e del
comportamento; in particolare i poli frontali, le aree temporali, il cingolato anteriore, l’insula e soprattutto
l’amigdala, contribuiscono ad una rete neuronale ampiamente connessa implicata nei diversi aspetti della
cosiddetta “cognizione sociale”. La recente scoperta dei neuroni “specchio”, individuato per la prima volta
da un gruppo di ricerca italiano guidato da Giacomo Rizzolatti sono un tipo di neuroni collocati nella neo-
corteccia, nel percepire un’azione o uno stato emotivo di un altro individuo. Essi si attivano in modo del
tutto speculare ai neuroni del soggetto che compie l’azione. Grazie a questi meccanismi neurali possiamo
immaginare, come se li compissimo noi stessi, l’azione di un’altra persona. Gli studi sul contagio emotivo
(Hatfield, Cacioppo, Rapson 1994) hanno dimostrato come le persone tendano spontaneamente a imitare
le espressioni altrui di dolore, imbarazzo, gioia e che tale attitudine ha una forte valenza comunicativa
perché l’altro ha la sensazione di essere stato capito. Molti studiosi ritengono che i neuroni specchio
svolgano un ruolo sia nella comprensione delle emozioni altrui che nel porsi in empatia con esse. È stato
empiricamente dimostrato che i soggetti più empatici sono quelli le cui aree dei neuroni specchio si
attivano più intensamente.
Neuroetica: una nuova frontiera?
La neuroetica è il programma di ricerca che tenta di coniugare le scoperte provenienti dalle neuroscienze
con quelle derivanti dallo studio dei processi affettivi e cognitivi soggiacenti alla comprensione e all’azione
morale. È un campo emergente di ricerca nell’ambito degli studi sulla moralità e consente di gettare nuova
luce su alcuni punti controversi relativi al rapporto tra ragionamento e intuizione morale, cognizione ed
emozione, forme implicite ed esplicite di ragionamento. Gli studi di neuroscienze hanno arricchito le
conoscenze sulla moralità in 3 modi:
1. Hanno dimostrato che il funzionamento morale richiede l’integrità del funzionamento cerebrale; si
è visto che alcuni tipi di danno cerebrale causano disfunzioni morali nell’ambito di un normale
funzionamento psicologico.
2. Hanno gettato nuova luce sui processi di base che presiedono al funzionamento morale, talvolta
validando alcuni concetti tradizionali, altre volte contraddicendoli.
3. Hanno aperto la strada all’ipotesi che alcuni interventi correttivi sulle funzioni cerebrali attraverso
dispositivi di tipo chirurgico, farmacologico o altro possono essere utilizzati per correggere un
malfunzionamento morale.
Gli studi condotti dalle neuroscienze hanno evidenziato che quelli che consideriamo ragionamenti e giudizi
morali non sarebbero governati da processi razionali, ma da molteplici sistemi inconsci che operano in
parallelo, spesso automaticamente al di fuori della consapevolezza.
Critiche all’approccio neuroetico:
 compiti cognitivi adatti ad adulti e non ai bambini che possiedono una rappresentazione del mondo
ed un linguaggio diversi da quelli degli adulti.
 Gli studi non approfondiscono che cosa esattamente si intende per moralità
 Gli studi interessati quasi sempre ad esplorare il processo di decisione morale, danno poco peso
alla motivazione sottostante una scelta invece che un’altra
Seguito uno studio pubblicato sulla rivista Nature sono stati sottoposti ai dilemmi del treno 6 pazienti con
danni bilaterali della corteccia prefrontale ventromediale, un’area deputata alla generazione di emozioni, in
particolare di quelle sociali come compassione, colpa ecc. questi pazienti non riscontravano differenze fra i
2 dilemmi (locomotiva che uccide 1 persona per salvarne 5 oppure uccidere una persona per salvarne 5
dalla morte) e rispondevano in maniera utilitaristica per cui sarebbe stato meglio sacrificare una persona
per salvarne 5. La conclusione a cui giunsero gli autori è che il danno avuto da questi pazienti ha
compromesso l’emozione per cui non sussiste alcuna differenza fra i 2 dilemmi al contrario delle persone
sane che hanno risposto negativamente allo scenario più coinvolgente e sconvolgente di spingere una
persona sui binari.

Cap. 5. Universalismo e relativismo morale – universalità o relatività della morale?


Lo sviluppo morale presenta caratteristiche universali, indipendenti dal contesto culturale oppure l’idea
stessa della moralità è soggetta al variare del tempo (la storia) e dello spazio (le diverse culture nel
mondo)? l’idea che alcuni principi siano più giusti di altri porta a pensare che i valori di una cultura siano
superiori a quella di un’altra, ciò giustificherebbe le varie forme di aggressioni (colonizzazioni, crociate,
guerre sante) sulla convinzione che i principi morali degli aggressori sono superiori alle loro vittime. D’altra
parte appoggiare un relativismo morale condurrebbe a porre sullo stesso piano qualsiasi pratica sociale e
culturale anche quelle violente e di non rispetto verso le donne e bambini, in nome del principio
dell’armonia sociale.

Tre orientamenti
Per sintetizzare i vari orientamenti presenti in letteratura sul rapporto tra sviluppo morale e contesto
culturale, si possono individuare schematicamente 3 punti di vista.
1. Un orientamento universalistico “puro”, che richiamandosi all’assunto kantiano dell’universalità
della morale, trova la sua più compiuta espressione in ambito psicologico nella teoria kolberghiana,
secondo cui la sviluppo della morale di dispiega in tutti gli individui in modo analogo, sia per le
tappe di sviluppo morale, sia per i contenuti e le strutture mentali specifiche di ogni fase di
ragionamento morale. Le differenze culturali agiscono solo per favorire o meno tutte le fasi dello
sviluppo morale ma strutture e forme del ragionamento non variano tra le culture.
2. Un orientamento culturalista che enfatizza le diversità trai i codici morali presenti nelle diverse
culture. Il paradigma teorico di riferimento è quello culturalista o del costruzionismo sociale,
secondo cui all’interno della cornice culturale di riferimento vengono elaborati i diversi significati.
Per cui il significato dei principi, validi per una determinata cultura, potrebbero non esserlo per
un’altra
3. Un orientamento misto, che tiene conto sia della presenza di alcune invarianti dello sviluppo
umano sia delle differenze culturali. Questo punto di vista parte dalla constatazione che i principi
morali sono declinati nei vari contesti culturali, ma al tempo stesso le forme con cui essi si
esprimono non sono infinite, bensì limitate da una serie di vincoli, soprattutto di ordine biologico,
che accomunano tutto il genere umano.

L’assunto universalistico. Tra le varie criticità della posizione kolberghiana 2 sembrano essere quelle
principali: 1) riguarda gli strumenti di misura utilizzati che secondo alcuni ricercatori non catturano
efficacemente l’oggetto del ragionamento morale da misurare (i dilemmi morali);
2) riguarda l’effettiva generalizzabilità del modello a diversi contesti; individui che vivono in contesti
occidentali, con più elevato livello di istruzione, raggiungono con maggiore frequenza li stadi più elevati di
ragionamento morale, mentre quelli appartenenti a una cultura non occidentale tendono a fermarsi
solitamente agli stadi 3 e 4. Per questo Kolbergh venne accusato di etnocentrismo.
In difesa del modello universalistico. Gibbs (2007) ritiene, che pur essendo necessari dei correttivi alla
teoria di base del metodo di indagine kolbeghiano, gli assunti fondamentali dell’approccio cognitivo
evolutivo mantengano la loro validità. L’aspirazione universalistica era dettata dal desiderio di fondere in
un unico modello teorico 2 principali fonti di ispirazione. La teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget e la
teoria morale di Dewey. Da quest’ultimo egli riprende una concezione tripartita del giudizio morale, basato
rispettivamente sull’impulsività, sul conformismo al gruppo e sulla riflessione. Gibbs ritiene che i risultati
delle ricerche longitudinali si adattino maggiormente al modello di Piaget, centrato sul passaggio da stati
immaturi a stati maturi. Poiché lo sviluppo standard coincide con lo stadio 4 di Kolbergh, (sistema sociale e
coscienza: rispettare gli impegni e le leggi) e in tutte le culture questo stadio viene raggiunto da una
discreta percentuale di individui, si può affermare l’universalità del modello. Rimane però la convinzione
che lo stadio 3 (orientamento del bravo ragazzo/vivere in conformità delle leggi) sia più adeguato a società
meno avanzate, tradizionali o di piccoli villaggi. La moralità esistenziale invece può essere ritenuta
un’espressione culture-centered tipica di alcuni tipi di società, specie quelle occidentali che raggiungono un
giudizio morale maturo in senso più pieno.
Una riformulazione critica del modello universalistico.
La revisione di Snarey del 1985 prese in esame 45 studi realizzati in 27 nazioni diverse. Tutte le ricerche
avevano fatto uso dei dilemmi morali, codificati in base alle norme previste dallo Standard Issue Scoring
della Moral Judgment Interview. Al termine della sua revisione Snarey confermò l’esistenza e l’universalità
dei primi 4 stai dello sviluppo morale, compresa l’età di comparsa e venne confermato anche la maggior
parte di gruppi culturali che vivevano nei villaggi fallivano nel raggiungere lo stadio 5 del livello
postconvenzionale. Egli non condivideva l’idea che un contesto culturale che raggiungeva gli stadi 5/6
doveva essere considerato più complesso o più avanzato, secondo l’interpretazione di Kolbergh; bensì ogni
tipo di società avrebbe dovuto essere un grado di consentire ad alcuni suoi membri di raggiungere i più
elevati stadi di ragionamento morale. La proposta di Snarey fu quella di riformulare lo stadio 5 di Kolbergh
includendo risposte compatibili con altre tradizioni filosofiche e per fare questo era necessario introdurre
delle modifiche nel manuale e nei sistemi di scoring.

Il primato della cultura


Negli ultimi decenni vi è stata un’attenzione particolare alla cultura sfociata nel paradigma di riferimento
della psicologia culturale o culturalismo, citando Bruner (2003) tra i più autorevoli esponenti di questo
approccio. La psicologia culturale studia il modo in cui mente e cultura interagiscono ed il termine più
rivelatore è quello di costruttivismo: la realtà è un costrutto, una concezione forgiata dal potere della
mente umana, ma anche in conformità con le credenze trasmesse storicamente che sono alla base di
qualsiasi cultura umana. La cultura e il contesto non vanno messi in contrapposizione a ciò che è biologico,
né come una realtà esterna all’individuo, in quanto i 2 concetti sono costruiti, come indicato da Bruner,
dagli esseri umani. Secondo l’approccio culturalista, la mente umana emerge dalla rete di significati, valori,
discorsi e pratiche, in una parola dagli artefatti culturali. L’individuo non esiste isolatamente dagli altri
individui e la sua mente, i suoi pensieri, i suoi discorsi e le sue pratiche sono il risultato
dell’interconnessione con altri essere umani e della cultura nella quale egli è inserito. Un’ attenzione
particolare è data al linguaggio, in quanto è proprio dall’analisi delle produzioni discorsive che è possibile
comprendere i significati propri della cultura nella quale gli esseri umani interagiscono fra loro. In relazione
allo sviluppo morale porre attenzione alla cultura significa indagare le specifiche produzioni culturali di un
gruppo umano e comprendere le funzioni che uno specifico set di regole valori morali ricoprono in dato
contesto. I culturalisti hanno criticato l’approccio universalistico di Kolbergh giudicandolo etnocentrico
(propria cultura superiore ad altre) e superficiale, non capace di cogliere cioè nel dettaglio il valore
prescrittivo che le pratiche morali hanno in un particolare contesto culturale. Essi hanno sposato il modello
relativistico che si fonda sull’idea che le culture dovrebbero essere trattate come diverse e quindi sullo
stesso piano gerarchico, ciascuna delle quali deve essere accettata come funzionale in rapporto agli
standard morali propri di quel sistema (Turiel 2006).

La teoria della comunicazione sociale: il contributo di Schweder


Schweder è l’autore che tra primi, in ambito psicologico, ha formulato in modo sistematico una teoria
dell’esistenza di diversi codici morali nel suo fondamentale lavoro “Culture and moral development” dove
vengono messe a confronto 2 contesti culturali radicalmente diversi: statunitensi e indiano. L’originalità del
contributo risiede in un’analisi accurata del linguaggio utilizzato per parlare delle pratiche morali e dei
discorsi dove loro argomentano, giustificano e difendono i comportamenti che regolano l’interazione
quotidiana fra di loro.
Schweder propone un modello teorico che definisce teoria della comunicazione sociale. In contrasto con
Kolbergh egli ritiene che sin dall’infanzia gli individui percepiscono un sentimento di obbligatorietà
intrinseca a non violare alcune norme di comportamento che non trae origine dal timore di punizioni o dal
riconoscimento di un’autorità, come per Turiel, però Schweder non pensa che quelle regole che Turiel
chiama convenzionali siano meno importanti per i bambini; invece per Schweder sono una variante del
dominio morale. Quindi non devono essere ritenute convenzioni sociali, ma principi morali a sé stanti.
L’idea stessa dell’esistenza di più domino sarebbe per Schweder un artefatto culturale delle società
occidentali. La derivazione etimologica della parola morale – mores che significa costume, usanza rimanda
alla concezione relativistica della morale, dal momento che i costumi e le usanze fanno la differenza fra
culture.
I 3 codici morali: i big three
Schweder e collaboratori dopo risultato studio sui 2 contesti culturali statunitense ed indiano, costruiscono
una tassonomia costituita da 3 diversi codici morali universali (i cosiddetti big three) essi si riferiscono a una
concezione tripartitica della conoscenza morale, dove ciascun concetto rinvia a un preciso presupposto
ontologico.
1. Etica dell’autonomia: il mondo morale è costituito da esseri singoli il cui scopo è promuovere scelte
e competenze individuali; il ragionamento morale riguarda questioni relative al benessere, alla
libertà, alla giustizia e si diritti del singolo. In questo caso un’azione è sbagliata quando limita la
libertà/ferisce un’altra persona.
2. Etica della comunità: secondo questo codice morale, il mondo non è un insieme di individui ma di
istituzioni, famiglie, tribù. Il ragionamento morale fa riferimento agli interessi collettivi, al
benessere del gruppo, alla lealtà e all’interdipendenza. In questo caso un’azione è sbagliata perché
una persona non riesce a farsi carico dei suoi doveri all’interno della comunità nel quadro di un
ordine sociale gerarchico.
3. Etica della divinità: lo scopo della moralità è quello di proteggere l’anima, lo spirito, al fine di
evitare il peccato. La concezione di sé è connessa a qualcosa di sacro o al naturale ordine delle
cose. Per decidere se un’azione è sbagliata, quando una persona manca di rispetto alla sacralità del
dio e con il suo comportamento è causa di impurità e degradazione per se stesso e per gli altri.
Emozioni morali e cultura: il contributo di Haidt
Haidt amplia la ricerca di Schweder proponendo un modello che integra una teoria centrata sulle emozioni
con quella dei codici morali. Il retroterra teorico di Haidt è quello del cosiddetto intuizionismo cognitivo o
sociale, secondo cui le valutazioni morali non emergono sulla base di riflessioni o ragionamenti, ma sono
generate da processi mentali che avvengono in modo rapido ed automatico. Gli approcci intuizionisti in
psicologia morale implicano l’idea che le intuizioni ed emozioni morali sorgono prima del giudizio e ne sono
la causa diretta. Per cui il giudizio morale in definitiva è conseguente ad un processo di intuizione cognitiva.
Secondo l’approccio intuizionista l’esperienza emotiva è decisiva per la soluzione di problemi relativi alle
relazioni interpersonali. Colpa, gratitudine e compassione sono emozioni morali prosociali, ma anche il
disprezzo, l’indignazione ola xenofobia hanno una connotazione morale perché agiscono sulla rete di
relazioni interpersonali che possono promuover tanto la dissoluzione quanto la coesione sociale. Haidt
classifica le emozioni morali considerando 2 specifiche componenti che costituiscono l’esperienza
emozionale: 1) la situazione elicitante, che ha a che fare con l’evento (interno o esterno al soggetto); 2) la
tendenza all’azione, che riguarda i comportamenti che seguono una particolare esperienza emotiva. Il
punto di vista di Haidt è che quanto più un’emozione viene attivata da condizioni elicitanti lontane dagli
interessi del soggetto tanto più essa può essere considerata un’azione prototipica. Per quanto riguarda la
tendenza all’azione le emozioni morali prototipiche sono quelle che spingono le persone a condotte
prosociali. Non c’è sempre una netta distinzione tra emozioni morali e non morali perché ogni emozione
può assumere una valenza morale in funzione del contesto. Haidt propone una tassonomia delle emozioni
morali includendole in 4 distinte famiglie:
1. Emozioni di condanna verso gli altri: rabbia, disprezzo, disgusto
2. Emozioni autoconsapevoli: vergogna. Imbarazzo, colpa
3. Emozioni relative alla sofferenza altrui: empatia, compassione, simpatia
4. Emozioni relative all’apprezzamento altrui: gratitudine, ammirazione
Uno dei contributi più originali di Haidt è stato quello di considerare morali anche le emozioni semplici.
Molte emozioni morali hanno dei precursori che si presentano in forma rudimentale (ad es. la rabbia) e
sitrovano sia nei bambini piccoli sia in alcuni primati non umani.
Il legame tra emozioni e cultura: la triade CAD
Un approfondimento particolare viene condotto sulla famiglia di emozioni denominata di “condanna verso
gli altri” indicata con l’acronimo CAD dalle iniziali in lingua inglese delle tre emozioni: disprezzo (Contempt),
rabbia (Anger) e disgusto (Disgust). Ognuna di queste emozioni si associa a una delle 3 culture etiche
descritte da Schweder.
1. Il disprezzo è connesso all’etica della comunità. Emozione elicitata in relazione a. un
comportamento che viola una regola fondamentale del gruppo o della società
2. La rabbia è connessa all’etica dell’autonomia. Viene elicitata al cospetto di un’ingiustizia che
riguarda una violazione dei diritti personali.
3. Il disgusto è connesso all’etica della divinità. Viene attivato da un comportamento di trasgressione
associato alla degradazione morale, alla corruzione dell’anima e alla negatività esistenziale.
Accade che in alcuni contesti/culture alcuni emozioni compaiano più frequentemente di altre.

I 5 codici della teoria dei fondamenti della morale (Big Five)


Haidt ha poi convalidato un nuovo paradigma sullo sviluppo morale a cui viene dato il nome di “teoria dei
fondamenti della morale” (Moral Foundations Theory). Vengono ampliati i codici della classificazione di
Schweder da 3 a 5, i cosiddetti Big Five. I 5 codici morali vengono da Haidt cosi definiti:
1. Cura/danno: questioni morali che hanno a che fare con la sofferenza di altri individui. I valori
principali sono la virtù e la compassione.
2. Equità/reciprocità: questioni morali dove si è verificato un trattamento ingiusto o un inganno a
danno di una persona. Preoccupazioni morali sui temi della giustizia e dei diritti
3. Ingroup/lealtà: sentimento di obbligazione di un membro del gruppo verso la propria comunità. I
valori dominanti sono costituiti dall’autosacrificio e dalla vigilanza verso i traditori
4. Autorità/rispetto: preoccupazioni morali legate al mantenimento dell’ordine sociale e sono
caratterizzate dalle obbligazioni verso le relazioni gerarchiche. I valori dominanti sono l’obbedienza,
il rispetto e l’adempimento dei doveri.
5. Purezza/santità: preoccupazioni relative a contaminazione con persone e pratiche ritenute impure.
Il riferimento valoriale è ai principi della castità, della salubrità e del controllo dei desideri.

Capitolo 6 – sviluppo morale e comportamento anti-sociale


Nella prospettiva cognitivo-evolutiva. Kolbergh analizzò la modalità di ragionamento morale di giovani
delinquenti. Egli sosteneva che il livello di giudizio morale influenzi il comportamento, perché le persone
cercano da avere condotte coerenti con gli ideali professati; al tempo stesso riteneva che un adeguato
ragionamento morale sia una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché abbia luogo
un’azione morale. Per tradurre un pensiero morale in azione morale c’è bisogno che la persona possegga
valide capacità esecutive che gi consentano di attuare con successo un’azione morale. Il passaggio dal
pensiero all’azione si articola in più momenti.
1. Interpretazione della situazione:
2. Decisione;
3. Giudizio morale (obbligatorietà ad agire o meno)
4. Abilità esecutive (autocontrollo, autostima, intelligenza, energia necessaria all’azione ecc.)

Gli studi meta-analitici


Un primo contributo è quello di Blasi, secondo il quale la valutazione di ciò che è morale deve tener conto
di 2 fattori:
1. L’azione morale, senza la quale il giudizio si ciò che è morale è senza sostanza;
2. Le motivazioni morali: costituite dal complesso di sentimenti, ragionamenti, dubbi e processi
decisionali che sottendono l’azione, perché non si può definire un’azione morale senza analizzare i
processi che la determinano.
Secondo Blasi nel valutare l’atto morale possono essere presi in esame 2 punti di vista.
1. L’azione morale è essenzialmente irrazionale e si differenziale da un’azione neutrale solo per la
motivazione sottesa;
2. L’azione morale prodotto di una decisione razionale dell’individuo, spino ad agire per realizzare una
congruenza fra le proprie azioni e categorie di ragionamento morale.
Blasi propende per questa seconda posizione e analizza 47 studi condotti attraverso un classico strumento
di valutazione, la Moral judgment interview. L’analisi conferma in linea generale l’esistenza di una
correlazione significativa tra comportamenti ritenuti non morali e i punteggi conseguiti alla MJI il 70/80%
dei soggetti si colloca a un livello preconvenzionale, ma se da un lato gli studi hanno dimostrato che il
ragionamento morale esercita una qualche influenza sulla condotta morale, dall’altro vi sono ulteriori
fattori, indipendenti dal giudizio, che agiscono in maniera influente sul comportamento individuale.
A circa 30 anni di distanza, in una successiva meta-analisi Stams et al (2006) hanno realizzato nuovamente
gli studi sul rapporto tra morale e anti-socialità. Gli autori ribadiscono che nell’ottica dell’approccio
cognitivo-evolutivo, un comportamento può dirsi morale solo se è precedeuto da un giudizio morale
organizzato intorno ai principi di imparzialità, universalità e capacità di assumere la prospettiva dell’altro.
Quei soggetti che giungono alle soglie dell’adolescenza senza aver raggiunto almeno lo stadio 3, quello
della comprensione mutualistica della vita sociale, sono pertanto più e rischio di coinvolgimento in
condotte antisociali e di essere influenzati da pari devianti. Se si prendono però in esami alcuni elementi
che intervengono nel moderare la relazione tra ragionamento e azione, quali so status socio-economico, il
background culturale, il genere, l’età, l’intelligenza, il tipo di offesa o l’esperienza di istituzionalizzazione,
l’influenza del livello di ragionamento morale sull’azione sarà maggiore.
Gli effetti di moderazione
 Fattori economici, sociali e culturali: In generale l’esclusione e la marginalità sociale, la
disoccupazione e la mancanza di opportunità sociali positive rappresentano la componente più
influente nello sviluppo di condotte anti-sociali: crescere in un contesto socioeconomico degradato,
dove illegalità e devianza hanno un’elevata diffusione e la violenza rappresenta la modalità più
comune di affrontare e risolvere i conflitti, agisce sui comportamenti antisociali attraverso vari
meccanismi. Uno di questo è dato dalla costruzione, negli anni dello sviluppo, di una serie di
credenze e valori tendenti a giustificare le condotti antisociali e a sottovalutarne le implicazioni
negative. In uno studio condotto nel contesto italiano (Bacchini, Affuso 2006) è stato osservato che
l’esposizione in adolescenza a elevati livelli di violenza ambientale inducendoli ad impiegare più
spesso meccanismi di disimpegno morale e a valutare meno gravemente la violazione delle norme.
Anche la frequentazione di pari devianti gioca un ruolo deciso soprattutto per i giovani che
presentano un ritardo nello sviluppo morale che tendono ad essere più vulnerabili alle pressioni dei
simili.
 Età dei soggetti: Un ritardo nello sviluppo morale può avere un maggiore effetto sulla condotta
delinquenziale nella tarda adolescenza piuttosto che nella prima adolescenza, poiché aumentano le
capacità esecutive ed il divario con i propri pari diviene più marcato
 Intelligenza: i soggetti con maggiori abilità cognitive hanno più probabilità di incrementare il
proprio livello di giudizio morale; insieme a un buon livello di istruzione, a buone capacita di
pensiero astratto, fattori decisi per il raggiungimento di alti stadi di sviluppo morale
 Il genere sessuale: analisi successive hanno disconfermato la presunta superiorità maschile della
prospettiva kolbeghiana. È però un dato oggettivo che i maschi siano più coinvolte delle femmine in
comportamenti delinquenziali. Mentre il genere femminile è più propenso alla cura dell’altro
 L’istituzionalizzazione: l’esperienza carceraria ha una grande influenza sul comportamento
delinquenziale dei ragazzi che non traggono giovamento da tale sanzione penale. L’aggregazione
con pari devianti in carcere finisce per inforzare i problemi comportamentali. Inoltre una
prolungata esperienza carceraria limita lo sviluppo delle capacità di role-taking e problem solving
necessarie al raggiungimento di più elevati livelli di moralità
 La psicopatia: una diagnosi clinica di personalità antisociale si associa quasi sempre a
comportamenti delinquenziali.
 La natura della violazione: pochi studi hanno analizzato il rapporto tra giudizio morale e condotta
morale in relazione al tipo di reato commesso. Kohlbergh aveva osservato che i consumatori di
droga possedevano più elevati livelli di moralità rispetto ad individui colpevoli di altri reati.
Il legame circolare tra giudizio e comportamento antisociale
Il nesso tra ragionamento ed azione non è necessariamente unidirezionale, non sempre il primo influenza il
secondo. Se è vero che gli individuo agiscono secondo le proprie convinzioni, è anche vero che dopo aver
agito cercano argomenti razionali che giustifichino la propria condotta, allo scopo di ridurre la dissonanza
cognitiva. La relazione tra pensiero ed azione potrebbe essere di tipo circolare, come emerge da uno studio
(Brugman, Aleva 2004) in cui è stata analizzata la relazione fra giudizio morale e comportamento
delinquenziale, ponendo particolare attenzione alle conseguenze della reclusione. L’esperienza della
prigione costrinse il giovane a vivere in contatti con un ambiente caratterizzato da un basso livello di
atmosfera morale, inducendo col tempo una sorte di auto-etichettamento involontario.

Il modello delle 3 D di Gibbs


Nell’ambito del modello cognitivo-evolutivo, si colloca il contributo di Gibbs, che individua una serie di bias
cognitivi alla base delle condotte antisociali. Il modo di organizzare le cognizioni sulla moralità in soggetti
antisociali viene schematizzato da Gibbs nel modello delle 3 D:
1. Ritardo (delay) nello sviluppo morale;
2. distorsioni (distorsions) cognitive di tipo egoistico (self-serving);
3. limiti (deficiencies) delle abilità sociali (social skills)
Ritardo nello sviluppo morale
Gibbs riprende le tesi di Kolbergh, secondo cui alla base del comportamento antisociale c’è un’immaturità
morale caratterizzata da un pronunciato bias egocentrico e da un superficiale giudizio morale. Gli
adolescenti che permangono ai 2 stadi inferiori della classifica di Kolbergh hanno più possibilità di essere
implicati in comportamenti delinquenziali, in quanto i loro giudizi morali sono focalizzati sul rapporto
costo/benefici e sul principio della reciprocità pragmatica, piuttosto che su uno standard regolatorio della
condotta.
Distorsioni cognitive di tipo egoistico
Le inadeguate capacita di perspective taking conducono ad ina visione particolare del mondo, interamente
centrata su di sé, dove i bisogni e i desideri altrui sono tenuti in scarsa o nessuna considerazione, mentre è
presente una sorta di immagine grandiosa di sé, che spinge a trattare gli altri come fossero più deboli e da
sottomettere. In alcuni casi i ragazzi hanno un’immagine di sé molto vulnerabile e ciò li induce in uno stato
di continuo allarme, pronti a reagire con violenza alle provocazioni reali o presunte dell’ambiente
circostante.
Distorsioni primarie autocentrate (self-centered). Si tratta di una sorta di prolungamento della tipica
centrazione cognitiva della prima infanzia, sintetizzabile nell’ingiunzione: “voglio tutto e subito”. Negli anni
successivi questo schema tende a stabilizzarsi e di conseguenza i propri desideri/aspettative/bisogni sono
ritenuti più importanti di quelli degli altri ed è quindi legittimo pretenderne il soddisfacimento. Molti
comportamenti antisociali si rimandano a questo schema.
Se prevale la grandiosità gli altri sono utilizzati ai fini del soddisfacimento dei propri bisogni; se predomina
la vulnerabilità, gli altri sono percepiti come una potenziale minaccia. In ambito clinico questo bias
cognitivo è tipico del disturbo narcisistico della personalità.
Distorsioni cognitive secondarie. È considerata secondaria quella classe di distorsioni cognitive, per dirla
con Hoffman, servono a proteggere il soggetto dallo sperimentare il dolore che potrebbe attivarsi in seguito
alle sofferenze inflitte agli altri con il proprio comportamento. Tra le varie distorsioni cognitive una è la
tendenza ad incolpare gli altri (blaming others) per il proprio comportamento, che può essere semplificata
col motto: “è la vita che mi ha reso così”. Un’altra tipica modalità di pensiero è quella di aspettarsi sempre il
peggio consistente nell’aderire ad una prospettiva dell’esistenza apocalittica e negativa dove l’unico modo
per difendersi è quello di assumere condotte rischiose e trasgressive. Il fine di questi meccanismi di
distorsione cognitiva è consentire di regolare o neutralizzare quegli effetti che possono interferire con gli
scopi antisociali.
Limiti delle abilità sociali
Gibbs afferma che i comportamenti antisociali vengono messi in atto quando un soggetto non è in grado di
fronteggiare una provocazione senza ricorrere ad atteggiamenti (entrambi inefficaci) di reazione aggressiva
o sottomissione. Molto spesso il coinvolgimento in azioni antisociali può avvenire per mancanza di abilità
nel resistere alla pressione dei pari che spingono a comportarsi in modo negativo o per reazione a
provocazioni reali o presunte.
Credenze normative ed elaborazione dell’informazione sociale
Le credenze normative sono convinzioni, idee e standard comportamentali relativi a ciò che l’individuo
ritiene giusto o sbagliato fare in una determinata circostanza. Le credenze normative non sono innate ma
costruite ed apprese nel corso degli scambi sociali e routine quotidiane a cui i bambini sono esposti. Se un
bambino è esposto a elevati livelli di violenza intra-familiare o ambientale, finirà con il ritenere normale
ricorrere alla violenza per risolvere situazioni conflittuali.
Il modello dell’elaborazione dell’informazione sociale, denominato SIP (Social Information Processing);
Crick, Dodge 1994, è uno dei paradigmi interpretativi più consolidati a livello di ricerca empirica per
comprendere la relazione tra processi cognitivi e comportamento aggressivo. Secondo il modello Sip, il
comportamento umano può essere letto alla stregua di una strategia di problem solving, che avviene
attraverso successivi step di elaborazione delle informazioni che danno luogo alla costruzione di veri e
propri script del comportamento aggressivo.
1. Attivazione selettiva e codifica: quando uno stimolo interno o esterno al soggetto altera lo stato di
equilibrio, l’evento associato allo stimolo viene codificato in termini di alta o bassa rilevanza per il
soggetto.
2. Attribuzione di intenzioni: l’individuo tenderà a valutare se l’evento sia avvenuto per caso o sia
frutto di un comportamento intenzionale da parte di qualcun altro.
3. Accesso a obiettivi: gli obiettivi dei bambini aggressivi sono diversi da quelli non aggressivi. Il
bambino aggressivo non cerca di affrontare la situazione contingente alla luce di una prospettiva
più ampia, ma il suo interesse è trovare al più presti una soluzione
4. Accesso a risposte: in questa fase, l’individuo è alla ricerca del comportamento più adatto alla
situazione contingente. Le soluzioni non sono infinite, ma limitate a quelle a cui si ha accesso nel
proprio magazzino della memoria. I bambini più aggressivi, accedono di solito ad un numero
limitato di soluzioni, per lo più di natura aggressiva.
5. Presa di decisione: a questo punto entrano in gioco i valori morali, che orientano la risposta in base
a ciò che si ritiene giusto o sbagliato. Un altro elemento che entra in azione è l’aspettativa del
risultato cioè la valutazione delle conseguenze che una determinata azione potrebbe avere si di sé
e sull’altro. Un altro fattore è la valutazione della propria capacità di dare corso ad una determinata
azione (es. idea di colpire il compagno ma non avendone il coraggio decide di cambiare strategia). È
stato osservato che i bambini aggressivi tendono ad analizzare in modo erroneo le conseguenze di
un comportamento aggressivo, sottostimandone le conseguenze negative.
6. La messa in atto del comportamento: al termine del processo di elaborazione il soggetto prenderà
la sua decisione mettendo in atto uno specifico comportamento. Da quanto si evince i bambini
aggressivi interpretano in maniera distorta gli eventi inducendoli in comportamenti aggressivi. Per
questo motivi essi possiedono un deficit nell’elaborazione delle informazioni (social skills deficit
model)
Il contributo di Arsenio e Lemerise

Arsenio e Lemerise (2004) hanno coniugato i contributi che provengono dalla teoria degli ambiti i il modello
Sip. Gli autori riprendono dal modello Sip le strutture mentali latenti e il processamento in tempo reale
delle informazioni da cui dipende la scelta comportamentale e dalla teoria degli ambiti, gli ambiti morale,
convenzionale e personale; esse sono cioè associate ad uno specifico dominio e influenzano il
processamento in tempo reale dell’informazione in corrispondenza dei diversi step previsti dal modello Sip.
Rivestono un ruolo importante gli eventi cosiddetti “misti”, in cui sono presenti contemporaneamente
aspetti propri di ambiti diversi; le differenze individuali emergono soprattutto quando si ha a che fare con
situazioni in cui l’ambiguità non riguarda solo le intenzioni del trasgressore, ma anche la natura mista
dell’evento. L’utilizzo del paradigma integrato inoltre chiarisce in che modo la conoscenza morale e il
processamento dell’informazione ai diversi step, contribuiscono alla scelta di privilegiare un ambito
piuttosto che un altro oppure ad integrarli.

Moral agency e disimpegno morale: il contributo di Bandura


Bandura fu uno dei critici più accaniti del modello cognitivo-evolutivo di Kolbergh. Lui ha proposto un
modello teorico che va sotto il nome di teoria sociale cognitiva, nel cui ambito si inseriscono le specifiche
riflessioni sulla morale imperniate su 2 costrutti della moral agency e del disimpegno morale. Bandura e
McDonald (1963) contestarono i 2 capisaldi dell’approccio cognitivo-evolutivo; la progressione stadiale
degli stadi di sviluppo morale e l’interdipendenza fra sviluppo cognitivo e sviluppo morale. Secondo la
teoria dell’apprendimento sociale, il ragionamento morale dei bambini è determinato, più che da una
progressione interna al soggetto, dai modelli a cui i bambini sono esposti nell’ambito delle interazioni
sociali
Pensiero morale e azione morale
Una delle principali critiche rivolte all’approccio cognitivo-evolutivo è quella di non aver fornito
un’esauriente spiegazione dei meccanismi che legano il pensiero morale all’azione morale. Kolbergh non
attribuiva importanza alla decisione se rubare o meno il farmaco, ma solo alle motivazioni sottostanti.
Bandura ritiene questa ambiguità inaccettabile perché cosi si rischia di relegare l’azione morale contingente
in secondo piano. Per 2 motivi: 1) possono esistere molti ragionamenti morali per giustificare azioni quali
rubare, mentire o lanciare bombe su vittime civili; 2) il peso di fattori non morali nelle azioni morali, è il più
delle volte decisivo. Esperimenti noti a sostegno del comportamento non morale al di là del giudizio
morale: lo studio della prigione di Stanford (Haney, Zimbardo 1973) costituisce uno degli esempi più
conosciuti della letteratura scientifica. (volontari a cui era stato assegnato il ruolo di secondino si
comportarono in modo sadico, violento, provocatorio, senza che ciò fosse in alcun modo correlato a
precedenti disposizioni di personalità o al loro livello morale). Qualche anno prima Milgram, al fine di
comprendere il comportamento e l’asservimento della popolazione tedesca durante il nazismo, aveva
condotto un esperimento nel quale i soggetti somministravano scariche elettriche ad alto voltaggio su
invito dello sperimentatore, mettendo in luce alcuni meccanismi psicologici che si attivano quando viene
allentato il controllo responsabile sull’azione. Un’ulteriore critica di Bandura a Kolbergh riguarda
l’ambiguità dei dilemmi proposti, i quali non indagano la valutazione delle conseguenze, una componente
del comportamento che ha molta influenza sulla presa di decisione morale. Bandura identifica varie
capacità di base che consentono agli individui di conoscere sé stessi e il mondo e di regolare il proprio
comportamento, come l’abilità di anticipazione delle conseguenze. Più in generale, il riferimento e principi
astratti, cristallizzati è di poco aiuto nel comprendere sia il giudizio sia l’azione morale di una persona, fino a
quando questi principi non si concretizzano in eventi di vita reale. Vista l’ambiguità e la genericità dei
principi morali astratti non sorprende secondo Bandura, che le persone trovino facili strade per giustificare i
loro interessi sotto il mantello della giustizia o del contratto sociale.
L’andamento evolutivo degli standard morali
Secondo Bandura. Il cambiamento più rilevante, che si verifica nel corso dello sviluppo, riguarda
l’acquisizione delle auto-sanzioni morali. Accanto ad un sistema di regolazione esterno, se ne affianca uno
interno basato sulle capacità di simbolizzazione, adesione a standard e anticipazione delle conseguenze.
L’adesione del bambino a standard di comportamento funge da regolatore della condotta e il bambino non
può trasgredire tali modelli senza sperimentare conseguenze negative, a prescindere che la trasgressione
venga o meno scoperta.
Moral Agency
La moral agency è la capacità di agire moralmente. La condotta trasgressiva è regolata da 2 tipi di sanzioni:
sociali e internalizzate, che operano in modo anticipatorio rispetto al comportamento. Le sanzioni sociali
esporrebbero l’individuo a una punizione o a una censura da parte della società, mentre quelle interne
sottoporrebbero il soggetto all’autocondanna e riprovazione per il proprio comportamento, diminuendo il
senso di autostima e auto-rispetto. Sono soprattutto le sanzioni interne a determinare le azioni di un
individuo, perché non c’è punizione più grave dell’autocondanna (Bandura 1991) e le persone agiscono in
modo da avere soddisfazione e autostima da ciò che fanno. La capacità di agire moralmente (moral agency)
è resa possibile da meccanismi di autoregolazione grazie ai quali le persone riescono a vivere in accordo
con i propri principi morali. Due sono gli aspetti della condotta morale da porre in evidenza: la forma
inibitoria e quella proattiva della moralità. La prima si esprime nell’astenersi dai comportamenti
trasgressivi; la seconda si esprime nel potere di comportarsi in accordo con i propri principi morali.
L’anticipazione dei sentimenti di colpa per le azioni immorali e i sentimenti di autocompiacimento per i
comportamenti morali costituiscono i principali meccanismi di autoregolazione della condotta.
I meccanismi di disimpegno morale
Bandura ritiene che i principi morali vengano attivati e disattivati a seconda delle circostanze e della
convenienza personale. Questa operazione è resa possibile dall’azione di alcuni meccanismi autoregolatori
della condotta morale chiamati meccanismi di disimpegno morale, la cui funzione è quella di disimpegnare
temporaneamente la condotta dai principi morali. I vantaggi sono evidenti: disattivando l’istanza auto-
sanzionatoria l’individuo non biasimerà se stesso per aver trasgredito un principio morale, non andrà
incontro ad un calo di autostima e, inoltre avrà potuto conseguire rilevanti vantaggi personali. Si può
concludere che finché le sanzioni interne annullano quelle esterne, il comportamento rimane in linea con
gli standard morali personali; se invece prevalgono le pressioni esterne, il conflitto può essere risolto
attraverso la disattivazione delle sanzioni interne: ciò consente a persone che possiedono buoni principi
morali di trasgredire e comportarsi in modo difforme dai propri standard. Bandura descrive 8 diversi
meccanismi di disimpegno morale, grazie ai quali il controllo interno è selettivamente attivato o
disimpegnato dalla condotta, che agiscono si 3 fasi del processo di regolazione della condotta morale:
a) La valutazione della condotta in sé;
b) La valutazione delle conseguenze;
c) Il giudizio nei confronti delle vittime.
Di seguito una descrizione sintetica di ogni meccanismo:
1. Giustificazione morale: attraverso questo meccanismo viene operata una ridefinizione cognitiva del
comporto trasgressivo che, pur arrecando un danno ad altri, viene considerato moralmente
accettabile (es: per la guerra si giustifica con alti ideali, Dio o la patria; aggredire un compagno per
difendere un amico o la propria famiglia; terrorismo per difendere oppressi o punire gli infedeli)
2. Etichettamento eufemistico: uno dei meccanismi per rendere accettabile un’azione trasgressiva è
quello di attenuare la violenza semantica delle espressioni con cui essa è indicata. (es: danni
collaterali per giustificare l’uccisione di vittime innocenti; bombe intelligenti per minimizzare la
forza distruttiva degli esplosivi; prendere una bustarella evoca più un gioco di società che un reato
penale;
3. Confronto vantaggioso: quando il proprio comportamento viene confrontato con quello degli altri;
il giudizio può cambiare radicalmente. Uno dei modi più efficaci per attenuare il senso di
autocondanna per la propria condotta, è quello di operare un confronto con violazioni più gravi,
agite da altre persone (es: non pagare le tasse è poca cosa rispetto a chi evade milioni di euro;
prendere in giro un compagno non è lo stesso che usargli violenza);
4. Dislocamento della responsabilità: il comportamento morale è legato a quello di responsabilità, se
non viene più riconosciuto un ruolo attivo e consapevole al soggetto durante l’azione, anche la sua
responsabilità e il suo biasimo si attenuano. In questi casi la responsabilità viene attribuita ad altre
figure più autorevoli (es: in guerra il soldato spara per ordine delle gerarchie militari, il giovane
delinquente è stato educato male dalla famiglia o trascinato sulla cattiva strada da compagnie poco
raccomandabili);
5. Diffusione della responsabilità: il controllo morale si indebolisce quando la capacità personale di
agire e le conseguenze negative sulla vittima vengono mascherate dalla condivisione dell’azione
con altri. Il ragionamento implicito è che tutti sono responsabili, nessuno è responsabile. Violenze
negli stadi, stupri collettivi, bullismo di gruppo, sono resi possibili da questo meccanismo per cui
“bravi ragazzi” o irreprensibili padri di famiglia si rendono colpevoli di azioni che non
commetterebbero mai da soli.
6. Non considerazione o distorsione delle conseguenze: questo meccanismo opera attraversa il
misconoscimento delle conseguenze dell’azione. Quando le persone danno corso ad azioni per
perseguire un proprio vantaggio, l’obiettivo è più facilmente raggiungibile se non si considerano le
conseguenze negative che possono derivarne per altre persone. Nel portare a compimento una
truffa ai danni di una società, il controllo morale è allentato dal fatto di non avere un contatto
diretto con le vittime. Nel bullismo tra ragazzi spesso la giustificazione è che si tratta solo di
“scherzi”.
7. Deumanizzazione della vittima: questo meccanismo agisce sul presupposto dell’empatia, cioè che
esista una similarità tra gli esseri umani. Quando la vittima viene degradata al rango non umano,
viene meno il meccanismo della corrispondenza empatica, per cui non è più un essere umano che
soffre. Ma qualcuno che è ritenuto aver perso la propria umanità, appartenente a un livello
inferiore. Gli autori di violenze contro i rom o gli extra comunitari vivono pochi sentimenti di colpa
per le loro azioni, considerando le vittime rappresentanti di un’umanità minore.
8. Attribuzione di colpa: prendersela con gli avversari o le circostanze è un utile espediente per
trovare una giustificazione alla propria azione, determinata da una precedente provocazione. (es:
se l’è cercata; lo stupratore è stato provocato dalla propria vittima ecc.). L’altro non è solo un
avversario ma è anche colpevole e viene percepito come colui che ha innescato per primo la catena
della violenza.

Disimpegno morale e antisocialità


La relazione tra comportamento antisociale e disimpegno morale è stata confermata da un numero
rilevante di ricerche, che hanno altresì evidenziato come i meccanismi di difesa agiscano già dall’infanzia e
come i loro effetti permangano nel tempo. Se una condotta antisociale trova anche una giustificazione di
tipo morale, le persone potranno metterla in atto più facilmente. Anche comportamenti estremi possono
divenire ammissibili. Una prolungata esposizione alla violenza ambientale determina l’interiorizzazione dei
modelli d’azione (script) violenti che vengono assimilati ed utilizzati da individui più facilmente esposti a
situazioni in cui il comportamento violento può essere elicitato. Quindi le azioni violente sono interiorizzate
come una buona strategia per risolvere conflittualità sociali, di conseguenza viene rafforzata l’azione dei
meccanismi di disimpegno morale e si attiva un tipico processo che diversi studiosi hanno definito. Il ciclo
della violenza. Responsabili sono; quei contesti dove la violazione delle regole sociali è la norma e, alcune
tecniche educative genitoriali basate su un’eccessiva durezza e un’elevata conflittualità coniugale, possono
essere dei precursori del futuro comportamento antisociale.
Bandura riteneva che le persone più empatiche fossero più propense ad impegnarsi nella
personalizzazione. L’essere maggiormente consapevoli dei bisogni altrui inibisce il disimpegno morale. Il
cinismo invece può essere considerato un precursore del disimpegno morale, perché le persone saranno
pronte a mettere in discussione le motivazioni degli altri, a diffondere la responsabilità sulla base del
principio che in fondo ognuno pensa solo a se stesso.
L’immoralità del bullismo
Il tema dell’immoralità del bullismo è stato approfondito dall’omonimo libro di Caravita e Gini (2010).
Alcuni studi hanno messo in evidenza che bulli utilizzano una modalità di ragionamento morale di tipo
egocentrico e sono inclini a minimizzare le conseguenze delle proprie azioni sulla vittima. Altri studi hanno
messo in evidenza che i bulli ricorrono a meccanismi di deumanizzazione della vittima e di giustificazione
morale. Gli aiutanti del bullo invece ricorrono a meccanismi di diffusione della responsabilità. Gli autori
hanno poi osservato che nei più piccoli il comportamento di bullismo è sostenuto da una minore maturità
morale, perché leggono la prevaricazione come una convenzione e ciò elicita meno sensi di colpa, nei più
grandi invece, dal momento che l’interiorizzazione morale è già avvenuta, il processo è più complesso e i
meccanismi di disimpegno tendono a proteggere la persona dallo sperimentare sensi di colpa.

Capitolo 7.2 la socializzazione morale


Il termine socializzazione viene impiegato per indicare i molteplici processi attraverso cui i bambini si
inseriscono nella comunità in cui vivono, facendone propri i valori e le consuetudini predominanti. La
socializzazione riguarda gli ambiti più disparati della vita sociale, dall’abbigliamento, alla scelta dei giochi,
fino ai valori e alle pratiche morali.
In una prima fase dello sviluppo il comportamento del bambino è autoregolato dagli adulti che
intervengono attivamente per indirizzare la condotta verso modalità non rischiose e socialmente
accettabili; in una seconda fase il bambino apprenderà ad autoregolare il proprio comportamento in modo
conforme alle aspettative sociali. Tra le questioni più dibattute in merito al processo di socializzazione vi è
la cosiddetta bidirezionalità delle influenze. In passato si riteneva che i genitori erano gli unici ad avere un
ruolo attivo nel processo di socializzazione e trasmettessero norme di comportamento al bambino che le
recepiva passivamente. Oggi sappiamo che il processo di socializzazione avviene in modo bidirezionale, in
quanto entrambi i partner, bambino e genitori vi contribuiscono attivamente. Obiettivo specifico della
socializzazione morale è quello di far sì che il bambino adotti, rielaborandoli, i valori e le regole di condotta
della comunità in cui vive e agisca in modo conforme a tali principi non per paura della punizione o per
convenienza, ma perché aderisce ad essi con convinzione. Quando avviene il passaggio dall’eterocontrollo
all’autocontrollo i comportamenti indesiderati vengono inibiti anche se la presenza di qualcuno che
supervisioni o minacci una sanzione. Il principale meccanismo è l’internalizzazione, il processo attraverso
cui ciascun individuo acquisisce le norme e i valori stabiliti dagli altri e li adotta come propri come
autogenerati e indipendenti da fattori contestuali.
I modelli classici di socializzazione morale
La teoria freudiana
Nel parlare di socializzazione morale non si può non parlare del contributo della teoria psicoanalitica di
Freud, al processo che conduce alla formazione della coscienza morale più comunemente nota, nel lessico
psicoanalitico come Super-Io, che nasce dalla risoluzione del conflitto tra i desideri personali e le richieste
della società.
Nel modello psicoanalitico, il Super-Io è una costruzione culturale universale che si iscrive nella psiche
individuale, andando a costituire una delle 3 strutture fondamentali della persona insieme all’Io e all’Es.
Nasce dal complesso edipico, in quanto il bambino non potendo competere con il padre nel desiderare la
madre, lo assume come modello e ne interiorizza i valori morali che rappresentano quelli della società nella
versione propostagli dal padre. Per la bambina il processo è meno drammatico in quanto non vi è angoscia
per la castrazione e successivamente si identifica con la madre con i suoi principi e valori. Il Super-Io
eserciterà poi nel corso dello sviluppo un ruolo di controllo sul comportamento.
La teoria comportamentista
Dal punto di vista del comportamentismo la valutazione morale svolge per lo più una funzione di rinforzo
dei comportamenti desiderabili che il bambino dovrà apprendere per inserirsi nella società. Un ruolo
importante svolgono le pratiche disciplinari che Sears, Maccoby e Levin (1957) distinguono in disciplina
orientata all’amore e disciplina materiale. Nel primo caso le tecniche disciplinari si avvalgono di elogi,
evitamento, ragionamento e ritiro dell’amore, nel secondo caso utilizzano ricompense tangibili, sottrazione
di benefici e punizione fisica. Secondo gli studiosi le madri che utilizzano una disciplina orientata all’amore
favoriscono l’identificazione del bambino con i modelli materni e i figli acquisiranno più elevati livelli di
coscienza morale. Successivamente Bandura e Walters (1959) pongono le basi della teoria
dell’apprendimento sociale a partire dagli studi del comportamento aggressivo. Essi preferiscono usare il
termine imitazione piuttosto che identificazione. Secondo la loro teoria dell’apprendimento sociale i
bambini tendono ad imitare il comportamento di un modello perfino in assenza di un rinforzo materiale o
simbolico e nell’ambito morale, apprendono una serie di abilità autoregolatorie, di dilazione della
gratificazione, di resistenza alla tentazione, che costituiscono il campo di applicazione pratico della morale.

Il contributo di Hoffman – il ruolo degli incontri disciplinari


L’incontro disciplinare (Hoffman 2000) assume grande importanza ai fini dell’internalizzazione delle norme
morali, a partire dal primo anno di vita. Con questo termine si fa riferimento a una situazione in cui il
bambino mette in atto un comportamento ritenuto indesiderabile dal genitore, il quale interviene allo
scopo di prevenirlo, reprimerlo o modificarlo. Hoffman descrive 3 diverse modalità: la disciplina basata sul
potere, quella basata sul ritiro dell’amore e quella induttiva.
1. La disciplina basata sul potere: questa modalità viene esercitata attraverso richieste autoritarie,
punizioni fisiche, privazioni o cessazioni di privilegi. Questo approccio disciplinare si caratterizza per
l’assenza di spiegazioni sul significato della norma da osservare che, di conseguenza, il bambino non
comprenderà. Questo approccio ha 2 conseguenze negative: l’attivazione di sentimenti come la
rabbia; difficolta nell’interiorizzazione della norma che verrà rispettata solo in presenza del
controllore esterno o per il timore di una punizione. In altri termini, la motivazione intrinseca del
bambino ad aderire alle richieste dell’adulto non sarà aumentata.
2. La disciplina basata sul ritiro dell’amore: questa tecnica disciplinare può manifestarsi con modalità
esplicite ed implicite. Un approccio esplicito può essere quello del genitore che esprime la sua
disapprovazione verso il comportamento indesiderato del figlio ignorandolo o comunicandogli la
sua delusione. Anche in questo caso non avviene un’internalizzazione dei principi morali poiché il
bambino aderirà alle richieste genitoriali solo per timore.
3. La disciplina induttiva: con questa tecnica i genitori non si limitano a comunicare la loro
disapprovazione verso l’azione sbagliata bensì in primo luogo essi si focalizzano sul distress causato
alla vittima al fine di innalzare il livello di sofferenza empatica; in secondo luogo puntualizzano la
responsabilità del bambino e il suo essere direttamente la causa della sofferenza della vittima.
Questi due aspetti creano le condizioni per una colpa basata sull’empatia, che si accompagna ad un
sentimento di disistima verso sé stessi e di condanna per l’azione che ha ferito l’altro. Solo la
tecnica induttiva favorisce l’internalizzazione dei principi morali perché aiuta il bambino a
generalizzare una norma comportamentale (non ferire l’altro) che può essere applicata
universalmente e non si basa sulla risposta attesa dell’altro.
Tuttavia non bisogna considerare i tre modelli disciplinari di Hoffman come costrutti monolitici perché la
maggior parte dei genitori utilizza tutti e tre gli approcci disciplinari, spesso in modo congiunto.
Grusec e Goodnow (1994) hanno riproposto una riformulazione dei tradizionali approcci alla
socializzazione, ritenendo che non si fosse adeguatamente considerato come i figli percepiscono e valutano
i valori genitoriali. A tal fine analizzano una serie di fattori che influenzano l’internalizzazione dei principi e
dei valori morali dei genitori:
 L’accuratezza della percezione: la chiarezza con cui il figlio percepisce i valori dei propri genitori;
quanto maggiore è l’accordo della coppia genitoriale sui principi da impartire ai figli, tanto più
questi li percepiranno chiaramente.
 La ridondanza: la tendenza dei genitori a ribadire in più occasioni il proprio punto di vista ai figli,
che in tal modo non avranno dubbi su quali siano i principi a cui i genitori aderiscono.
 La coerenza: il principale insegnamento ai figli avviene attraverso l’esempio concreto.
 Un clima affettivo e relazionale positivo: in un clima affettivo positivo il messaggio educativo
raggiunge più efficacemente i figli perché trova un supporto nel legame di fiducia che sostiene le
relazioni fra i membri della famiglia.
 La flessibilità: un’eccessiva rigidità genitoriale può risultare un fattore avversivo per
l’interiorizzazione dei valori morali. Il bambino necessita di comprensione e ascolto dei suoi bisogni,
un atteggiamento intrusivo e controllante si associa di frequente a comportamenti di tipo deviante.
 L’appropriatezza dl messaggio educativo: i bambini riterranno appropriato un intervento di tipo
induttivo, se la violazione è di ordine morale; lo riterranno meno adatto, se la violazione è di tipo
convenzionale, personale o soprattutto prudenziale.
 La compiacenza: molto spesso i bambini aderiscono alle richieste genitoriali al solo scopo di
compiacerli sulla base di una forte corrispondenza empatica; essi percepiscono quali valori sono
importanti per i loro genitori e che comportandosi in modo conforme a tali principi li renderanno
felici.
Il clima familiare

La socializzazione ha più probabilità di avvenire con successo in un clima familiare positivo caratterizzato da
calore e vicinanza affettiva fra i membri. Un buon clima agisce sulla:
 Motivazione: perché i bambini tenderanno a comportarsi in modo conforme ai principi morali per
rendere felici i propri genitori;
 Comunicazione: perché la maggiore prossimità tra genitori e figli favorisce un ascolto attento e
continuativo dei messaggi educativi;
 Fiducia: che aumenta in base al senso di sicurezza e protezione percepito dai figli;
 Autorevolezza genitoriale: perché se i figli riconoscono ai genitori un ruolo positivo nel fornire loro
sicurezza e protezione, è più probabile che li accettino come guida su questioni morali.
I teorici dell’attaccamento hanno dimostrato che un legame sicuro nella prima infanzia crea una relazione
genitori-figli armoniosa e supportiva che rende il bambino più obbediente, cooperativo e responsivo alle
iniziative di socializzazione dei genitori e danno luogo alla formazione di modelli operativi interni che
corrispondono a concezioni di sé, del mondo e della relazione fra sé e il mondo. La teoria dell’attaccamento
fornisce un interessante ponte concettuale tra il comportamento responsivo nelle prime fasi della relazione
con i genitori e la successiva internalizzazione dei principi morali nella coscienza.

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