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Sbobinatura integralmente

esaustiva di storia del diritto


romano pubblico e privato
Storia del Diritto Romano
Università degli Studi di Napoli Federico II (UNINA)
103 pag.

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Storia del diritto 1

romano pubblico e
privato
proF.cHiara corbo anno accademico 2021/2022

PIANO DI STUDI:
1. L’età regia
2. L’età repubblicana
3. Il principato
4. La tarda antichità
5. Istituzioni:
A. La repressione criminale
B. Il processo civile
C. Le persone
D. Le successioni
E. I diritti reali
F. Le obbligazioni
6. La tutela del decoro urbano in Roma antica

introduzione al corSo

Che cos’è il diritto? Il diritto è un insieme di norme giuridiche che regolamenta la vita sociale. È un insieme
di regole giuridiche che disciplina i rapporti fra gli individui che costituiscono una comunità. Sono norme di
comportamento poste a garanzia di una vita sociale pacificata. È quindi una forma di disciplinamento sociale.
Umanità e socialità sono due concetti che intersecano quello del diritto. Umanità del diritto, nel senso che il
diritto nasce con l’uomo, nasce per l’uomo, ed è imprescindibilmente collegato all’uomo e alle vicende umane
nel tempo e nello spazio. Il diritto si è consolidato hominum causa. Socialità del diritto, nel senso che il diritto
è una dimensione intersoggettiva, riguarda cioè è una relazione tra più soggetti. Ci sono delle dimensioni
umane che riguardano il singolo individuo, che vivono all’interno del singolo soggetto, come la dimensione
religiosa o etica; esse certamente possono avere ed hanno manifestazioni anche all’esterno, ma riguardano la
sfera privata del soggetto, le sue scelte personali, il proprio io. Il diritto ha bisogno invece dell’incontro tra
soggetti umani. Si propone come una dimensione di inter-relazione.
Qual è il rapporto tra diritto e società? È un rapporto sicuramente strettissimo, inscindibile. Dal momento
stesso in cui l’uomo ha preso coscienza della necessità di una dimensione giuridica, il diritto ha sempre
accompagnato il divenire storico dell’uomo. Ciò accadeva, ovviamente, in sistemi sempre più complessi ed
evoluti. Il referente essenziale del diritto è la società. La società viene intesa come una dimensione complessa
ed articolata, che il diritto viene chiamato ad ordinare. Il diritto, dunque, ha una funzione essenzialmente
ordinatrice della società. Il diritto non è una realtà mite, perché glielo impedisce la sua funzione ordinante;
essa gli impone di essere rigido e rigoroso. Il diritto appartiene alla fisiologia, non solo alla patologia; il
momento patologico sicuramente lo rende più evidente, ma il diritto attiene sicuramente alla fase fisiologica,
perché è fondamentale per la società alla sua stessa sopravvivenza. Il diritto non vive lontano dalla società che

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lo utilizza: all’evoluzione della società corrisponde imprescindibilmente un cambiamento del diritto. Il diritto
segue le trasformazioni sociali, muta con il mutare della società. Esso, dunque, si evolve e progredisce,
parallelamente alle nuove esigenze che emergono dal sociale. Nuovi rapporti richiedono una disciplina ex
novo, o una disciplina più puntuale, o più aggiornata. Si pensi al campo medico, al campo tecnologico; il diritto
segue la velocità della scienza e a volte, a causa della velocità di questi progressi, li insegue.
Qual è il rapporto tra diritto e storia? Tutto ciò proietta inevitabilmente il diritto anche in una dimensione
storica. Se il diritto è finalizzato ad organizzare il sociale, è chiaro che ha in sé una vocazione ad incarnarsi
nella storia, nel divenire storico degli uomini. Il diritto vive una sua storia, ma la vive ben inserito nel tessuto
sociale, economico, politico, della società. Paolo Grossi storico del diritto, maestro della scienza giuridica, ha
scritto efficacemente “il diritto non è una nuvola che galleggia sopra un paesaggio storico, è il suo stesso
paesaggio, o se vogliamo sua componente fondamentale e tipizzante”. Il rapporto tra diritto e storia è anch’esso
importante e imprescindibile, perché in sostanza il diritto, l’ordinamento giuridico, è un concetto che ha un
carattere fondamentalmente storico, perché dipende da valutazioni contingenti, che, cioè, cambiano e variano
nel tempo e nello spazio. Il diritto è una realtà soggetta al divenire della storia. Un grande storico e giurista
tedesco, diceva “il diritto non ha un’esistenza a sé stante, ma è piuttosto costituito dalla stessa vita degli
uomini, osservato da un particolare angolo visuale; ogni esperienza giuridica ha una sua peculiare fisonomia
storica”. Il diritto è una realtà incarnata nella storia.
In sintesi, possiamo quindi dire: il diritto è una forma di disciplinamento sociale. Il diritto è la proiezione
giuridica della società e del suo evolversi. Il diritto è una realtà soggetta inevitabilmente legata al divenire
storico. Il diritto è una realtà che si incarna nella storia. È una realtà transeunte, mutabile, perché frutto di
circostanze contingenti che variano e possono variare nel tempo. Ci sono principi fondamentali in ogni
ordinamento giuridico, la cui validità resta indiscussa; le singole norme, invece, possono variare e variano nel
tempo e nello spazio.
Perché studiare oggi il diritto romano? I romani sono i nostri antenati, indiscussi inventori del diritto e della
scienza giuridica. Non a caso la civiltà romana è considerata la civiltà più aperta del mondo antico, la più
evoluta dal punto di vista giuridico. Noi non possiamo non riconoscere al mondo romano il metodo di aver
costituito una delle più incisive civiltà giuridiche della storia occidentale di ogni tempo. Da un punto di vista
più concreto potremmo dire che lo studio del diritto romano può essere utile da un punto di vista culturale.
Conoscere le proprie radici giuridiche ha sicuramente una funzione formativa. Lo studio del diritto romano è
importante anche perché può costituire un’ottima palestra per allenarsi al ragionamento giuridico. Lo studio
del diritto romano può essere utile al futuro giurista in considerazione dell’iter logico-giuridico seguito dai
giuristi romani. I prudentes, grandi giuristi di Roma, offrono grandi spunti formativi per il ragionamento
giuridico sotteso alle soluzioni. Oggi è giurista l’interprete del diritto nel senso più ampio del termine. Non
solo un mero tecnico del diritto, un meccanico applicatore della legge, ma deve essere un interprete a tutto
tondo in grado di leggere, capire e decodificare un testo normativo.
Il corso di “storia del diritto romano pubblico e privato” parte dal termine “storia”. È un esame di storia, ma
della storia giuridica di Roma. È la storia del diritto di una società che nel suo svolgersi produce diritto e quel
diritto riflette su essa. La grande novità è che si crea una scientia iuris, nasce la scienza giuridica. È una storia
del diritto di Roma, che non può essere isolato dagli eventi e dagli uomini che gli hanno dato vita nel corso del
tempo. Anche quel diritto è il riflesso di una società che si evolve. Luigi Amirante sottolineava in maniera
molto efficace (cfr.Storia Giuridica di Roma) “la storia di un diritto è anzi tutto la storia di come esso viene
messo in essere; poi, di come viene osservato e solo dopo la storia dei suoi contenuti. La centralità delle loro
fonti è tutt’uno con la storia del diritto che esse pongono in essere e con la storia delle situazioni alle quali
quelle fonti sono legate da un forte senso dialettico”. Il senso di questa disciplina nasce innanzitutto dal suo
essere storia. Non è però corretto avvicinarsi alla storia come ci si approccia alla conoscenza di un mondo
lontano a noi, perché tutti noi siamo storia, siamo immersi nel mare della storia. Come non è possibile isolare
le onde dal mare, così nulla è isolabile nel mare della storia. L’uomo si struttura nel fruire della storia, per cui
noi possiamo ben dire che l‘uomo ha una natura definibile in senso assoluto, ma ha una storia e questa storia
è in perenne divenire; si costruisce cioè, giorno dopo giorno. L’uomo ha un’identità dinamica, che si costruisce
giorno dopo giorno all’interno di una realtà perennemente in movimento.

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Schlegel, padre del romanticismo tedesco, ha definito acutamente lo storico “un profeta con lo sguarda rivolto
all’indietro”. Questa definizione dello storico apparentemente paradossale, indica che lo sguardo rivolto
all’indietro, al passato, è profetico perché ogni nuova comprensione del passato determina una nuova
prospettiva per il futuro ed entrambe si traducono in un impegno per il presente. Lo sguardo dello storico verso
il passato, che si apre al futuro, non può non essere incarnato nel presente. Lo storico, come ogni atro essere
umano, non può prescindere dalla propria esperienza attuale. Gadamer, padre indiscusso dell’ermeneutica
contemporanea nella sua “Il problema della coscienza storica” si esprime così “Contrariamente a ciò che si è
spesso immaginato, il tempo non è un precipizio che si deve superare per ritrovare il passato... esso è in realtà
il terreno portante del divenire”. La coscienza storica stringe insieme le opposte polarità della dimensione
temporale, passato e futuro, in modo da restituirci l’unità e la continuità del mondo. Eraclito di Efeso diceva
“La via verso l’alto e la via verso il basso sono la stessa cosa”; questo aforisma si potrebbe applicare anche
al mondo storico: nello sguardo profetico dello storico che si proietta verso il passato si apre al futuro e innerva
nuova linfa ne presente, ne emerge in realtà l’unità e la continuità della storia, che è fissa fittiziamente nella
nostra mente. Questa continuità, questo divenire, sono particolarmente evidenti nel campo culturale: si pensi
alla storia della scienza, della filosofia, del diritto. Quello che abbiamo detto sinora sul senso della storia in
generale, ci aiuterà a capire meglio i caratteri peculiari della storia del diritto romano. L’uomo in quanto
animale sociale e politico è sempre stato produttore di norme, tessitore di regole, che dovevano garantire la
resistenza della società. Anche nelle società più antiche troviamo un’embrionale rete normativa; un insieme di
norme più o meno articolare, poste dagli uomini per disciplinare i rapporti fra gli individui. Questo insieme di
regole, anche se embrionale, può essere chiamato diritto. Il diritto però, come inteso oggi, è un’invenzione
romana (crf.Aldo Schiavone “Ius: l’invenzione del diritto nel mondo occidentale”). Solo all’interno del mondo
romano il diritto acquista una propria ed autonoma fisionomia epistemologica rispetto ad altri ambiti culturali,
in cui, in altre società resta imbrigliato. Il diritto è una forma di disciplinamento sociale, inventata dai romani.
A Roma nasce il diritto come forma specifica di disciplinamento sociale, staccata dalla religione, dall’etica,
dalla politica. Schulze in “Principi del diritto romano” ha affermato che “ il grande merito del diritto romano
è stato quello di distinguere il diritto dal non diritto, di delimitare il campo del diritto… Esso è geneticamente
congiunto con il non diritto, nell’età giovanile dei popoli diritto e costume sono sempre intrecciati tra loro,
ma i romani hanno cominciato ben presto a mettere in atto il separamento tra diritto e non diritto” Luigi
Amirante ha scritto significativamente “Solo lungo il corso del Tevere, breve tra i colli di quei primi
insediamenti, alla confluenza di etnie diverse, alcuni uomini hanno cominciato a crear diritto, sul diritto
contemporaneamente riflettendo. Essi, soltanto essi, nella già lunga storia dell’uomo si dimostrarono capaci
di cogliere e dimostrare la ratio di un comportamento”. Se in Occidente è stato merito della cultura greca dare
al mondo una coscienza filosofica e aver saputo leggere il mondo in termine matematico con Euclide e
Pitagora, è un assoluto merito dei romani aver letto il mondo in termini giuridici. A Roma appare per la prima
volta un personaggio nuovo, il giurista. Accanto al pensiero filosofico, accanto al pensiero matematico, si
poteva legittimamente parlare di un pensiero giuridico. Non è possibile comprendere fino in fondo il significato
delle attuali istituzioni giuridiche, prescindendo dalla storia del diritto romano pubblico e privato. Sono le
fonti a parlare allo storico, che deve procedere con rigore scientifico.

Oggetto del corso di studi


Questo corso intende esaminare l’ordinamento giuridico di Roma nel suo complesso, negli aspetti pubblicistici
e negli aspetti privatistici. I profili che metteremo a fuoco saranno:
• Istituzionale: inquadreremo l’assetto politico, le varie forme istituzionali: l’assetto monarchico,
repubblicano, ecc..
• Giuridico: le fonti del diritto, qual è lo ius che Roma produce nella sua lunghissima esperienza
• Giurisprudenza: il ruolo dei giuristi a Roma
• Profili privatistici: gli istituti elaborati dai romani nel corso del tempo; la proprietà, il testamento, le
servitù.
• Profili pubblico: tutto ciò che concerne il diritto pubblico romano

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PERIODO STORICO

Il periodo storico di cui ci occuperemo ricopre un arco temporale vasto, l’arco in cui il diritto romano è stato
costruito, elaborato e sperimentato: si tratta di 13 secoli di storia. Ci occuperemo del periodo che va dalla
nascita di Roma (VIII secolo a.C.; anno 754/753) fino al regno di Giustiniano (VI secolo d.C, anno 565, data
di morte dell’Imperatore). Qualsiasi periodizzazione è sempre convenzionale, frutto di un’interpretazione, una
ricostruzione a posteriori. Individueremo quattro grandi epoche storiche:
1. Età arcaica: è la età delle origini, l’età dei Re. È il periodo che va dall’VIII secolo a.C., al VI secolo
a.C; esattamente dal 754/753 a.C. al 509 a.C., anno della cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il
Superbo.
2. Età repubblicana: è l’età della res publica, un’epoca centrale. È il periodo che va dal VI secolo a.C.
al I secolo a.C. L’età repubblicana va dal 509 a.C. con il primo consolato di Bruto e Collatino fino al
27 a.C. anno della ascesa di Ottaviano, che riceve il titolo di Augusto. Con lui si assiste alla nascita di
una nuova forma Costituzionale, il Principato. È il primo princeps, con lui nasce il principato, che
ruota attorno alla figura del principe.
3. Età imperiale: è l’età del principato. Va dal I secolo a.C. al III secolo d.C. L’età imperiale va dal 27
a.C., fino al 284 d.C., inizio del regno di Diocleziano.
4. Età tardoantica: è l’età tardo-imperiale, l’età del così detto dominato. Va dal III secolo d.C. al VI
secolo d.C. Va dal 284 d.C., fino al 565, anno della morte di Giustiniano.

METODOLOGIA
Ciascun periodo, a seguito dell’analisi storica verrà analizzato nel seguente modo: analisi del profilo
istituzionale del periodo, della struttura costituzionale, analisi delle fonti del diritto e la loro evoluzione, analisi
dei singoli istituti elaborati dai romani nel corso del tempo. Analizzati i singoli periodi storici, sarà
fondamentale comprendere l’evoluzione dell’ordinamento romano.

ORDINAMENTO
L’ordinamento romano non è unitario. Una caratteristica essenziale è il fatto che si configuri come un insieme
di sistemi giuridici; si tratta di una pluralità di diritto. Si tratta di diritti che convivono e coesistono, integrandosi
ed evolvendosi nel corso della storia. Alcuni di questi sistemi convivono perché sono contemporanei; altri
sistemi giuridici, invece, nascono in epoche successive. Questi sistemi successivi operano rispetto ai sistemi
pregressi o in funzione di integrazione o in funzione di sostituzione. Alcune fonti, nel corso del tempo, si
eclissano, lasciando il posto ad altre e nuove fonti, meglio rispondenti alle necessità della società. I sistemi
successivi eliminarono dei sistemi precedenti solo ciò che appariva superato dal tempo. Le principali masse
giuridiche, i principali sistemi giuridici sono:
o Lo Ius Civile, al quale è collegato il così detto diritto giurisprudenziale. È il diritto della civitas, detto
anche Ius civitatis; è il diritto che regola i rapporti tra i cives romani. È il diritto più antico; esso si è
posto storicamente per primo. È il tronco originario del diritto romano. Ha come sua fonte principale
i così detti mores maiorum. Sono le usanze degli antenati, le consuetudini antiche. Essi sono precetti
antichissimi, che si riteneva derivassero direttamente dalle divinità; dunque, erano considerati sacri,
immutabili, immodificabili. Venivano rispettati con la convinzione di ubbidire ad una norma giuridica.
Questa importantissima massa giuridica dello ius civile comprende, oltre ai mores (nucleo originario
dello Ius civile), anche le famose XII tavole. Le XII tavole sono il primo testo scritto di leggi della
storia di Roma (metà del V secolo a.C.). Rientrano anche le leges pubblicae e i plebisciti, le
deliberazioni del popolo, cioè approvate dalle assemblee del popolo.
o Lo Ius honorarium: è il diritto onorario, che deriva da una carica magistratuale. Il termine honos,
honoris, indica la carica magistratuale. È un diritto di origine giurisdizionale, un diritto che scaturisce
dall’attività del magistrato giusdicente: l’attività del magistrato che è investito della funzione
giurisdizionale, cioè che amministra la giustizia, che fa lo iuris dictio, dà vita allo Ius honorarium.
Fondamentalmente parliamo del pretor urbanus, il pretore urbano: è un’importantissima carica
magistratuale dell’età repubblicana, nata nel 367 a.C. A lui viene affidato il compito di amministrare
la giustizia e dirimere le controversie tra cives romani. All’interno dello Ius honariurm è presente

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anche il diritto degli edili cururi; magistrati repubblicani che avevano una limitata competenza
giurisdizionale, limitata alle liti di mercato. Lo Ius honorarium è costituito dal così detto editto del
pretore urbano e dagli editti degli edili cururi. Con gli editti, il magistrato indicava i criteri di
composizione delle controversie, le regole che avrebbe applicato nella risoluzione dei casi concreti
sottoposti alla sua attenzione. Queste norme di ius honorarium, non ebbero carattere abrogativo
rispetto alle norme dello ius civile, ma fu un sistema parallelo, alternativo in qualche modo.
o Lo Ius giurisprudenziale: è un diritto molto vario. Il diritto giurisprudenziale è il diritto elaborato e
creato dai giuristi, i così detti prudentes (da ciò iuris prudentes, esperti del diritto). I prudentes sono
coloro che studiano il diritto, lo interpretano e lo aggiornano. L’attività fondamentale, dunque è
l’interpretazione: a tal proposito si parla di interpretatio iuris. È un’interpretazione creatrice,
evolutiva, del diritto. È essa a consentire al diritto di aggiornarsi, di evolversi. La giurisprudenza in
sostanza, interpreta e filtra i mores, traducendoli in parole e regole, che serviranno a consolidarsi,
adattarsi e a proiettarsi al futuro. Il diritto giurisprudenziale è costituito dai così detti responsa
prudentium, le risposte degli esperti. Sono in sostanza pareri giurisprudenziali, risposte date ad un caso
giuridica. È dunque resposa prudentium ad una questio iuris da parte degli iuris prudentes.
o Lo Ius gentium: è il diritto delle genti civilizzate a quel tempo. È il diritto comune ai popoli del
Mediterraneo. Serviva a regolare i rapporti (soprattutto di natura commerciale), tra cives romani e
peregrini, ai quali non era applicabile lo ius civile. Anche lo Ius gentium è un diritto di origine
giurisdizionale. Anche lo Ius gentium è un diritto creato da un magistrato giusdicente, il pretor
peregrinus (pretore peregrino). Il pretor peregrinus è un altro magistrato repubblicano, che nasce nel
III secolo a.C., nel 242 a.C, con il compito specifico di dirimere le controversie insorte tra romani e
stranieri. È un diritto che nasce nel tribunale del pretore peregrino per risolvere rapporti giuridici nuovi,
sconosciuti allo ius civile; nascono nei rapporti commerciali tra romani e Mediterraneo. Anche questa
carica magistratuale è frutto di un’esigenza specifica, così come le norme che nascono in seno al
tribunale del pretor peregrinus.
o Lo Ius principale, o diritto Imperiale. A partire dall’età del principato, troviamo questo nuovo sistema
giuridico, costituito dallo ius principale, un diritto che deriva dal principe. Anche questo diritto nasce
in un secondo momento. È quel diritto che trova la sua fonte esclusiva nella volontà del principe, che
costituisce il perno dell’assetto costituzionale-imperiale e tardoimperiale. È l’organo fondamentale
dell’assetto costituzionale del principato. Esso è costituito essenzialmente dalle Constitutiones
principum, le leggi degli imperatori. Sono atti normativi imperiali, che hanno forma ed efficacia
diversa: il potere normativo dell’Imperatore si esplicherà in una pluralità di atti normativi e per questo
è opportuno parlare di Constitutiones. Bisognerà distinguere: edicta, decreta, rescripta, epistulae e
mandata.

MEZZI
Nel corso ci serviremo delle fonti. Le fonti sono i documenti, le testimonianze, o comunque elementi
fondamentali per ricostruire un determinato segmento di storia passata. Ci sono fonti scritte (su qualunque
materiale), o fonti materiali, quindi i reperti archeologici (monete, vasi, armi , gioielli) o ancora le fonti visive
(graffiti, dipinti, raffigurazioni) e orali (racconti trasmessi oralmente da una persona all’altra). Le fonti sono
certamente di vario tipo e vario genere.

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1. l’età regia
È stato possibile ricostruire la nascita di Roma attraverso testimonianza posteriori. Tra le fonti che narrano
delle origini di Roma, ricordiamo Livio e Dionìgi di Alicarnasso. Sia Livio che Dionigi sono storici vissuti
nell’età di Augusto. Entrambi utilizzano le notizie degli annalisti, storici che hanno riportato e rielaborato i
ricordi della tradizione, notizie tramandate da generazione in generazioni. Gli annalisti si sono serviti degli
annali pontificali, registri in cui i pontefici riportavano anno per anno gli eventi più importanti accaduti in città.
Gli annalisti riportavano le notizie anch’essi anno per anno, ad imitazione degli annalisti pontificali. Le opere
degli annalisti sono un’esposizione cronachistica degli eventi, senza respiro storico. Livio parla di vicende
poco chiara, oscure, fonti scarse, scritti scarsissimi anche a causa dell’incendio di Roma ad opera dei Galli nel
IV secolo a.C. Sulla base di queste scarse notizie Livio e Dionigi sostengono che Roma sarebbe stata fondata
da Rolo nell’anno 754 o 753, probabilmente il 21 aprile, giorni di festa dei pastori del Lazio (si è pensato che
questa data fosse stata scelta per celebrare la mitica fondazione di Roma). La tradizione ci fornisce
un’immagine di questo fondatore di Roma, Romolo, molto particolare: secondo la tradizione, Romolo non solo
avrebbe fondato materialmente la città, ma avrebbe dato a Roma anche una prima organizzazione sociale e
delle prime istituzioni politiche. Romolo avrebbe individuato il territorio, precingendolo con le mura; in origine
Rom era un insieme di villaggi, stanziatesi sui colli, i famosi colli di Roma. La Roma arcaica non era altro che
questo: un insieme di comunità insediatesi sui colli.

Organizzazione sociale
Per organizzazione sociale si intende la divisione dei cittadini in patrizi e plebei: i patrizi erano i membri delle
famiglie più ricche, i plebei la parte più numerosa del popolo, in questa fase persone di modeste condizioni
economiche, che svolgevano i lavori più umili. Questa distinzione corrisponde, secondo Dionigi, ad una
differenza di ruoli e compiti nella civitas: ai plebei sarebbe spettato il lavoro dei campi, della terra e sarebbero
stati esclusi dagli affari pubblici e dai posti di rilevo, che sarebbero stati di competenza esclusiva dei patrizi,
ai quali era riservato il ruolo di sacerdoti, collaboratori del rex. La tradizione propone un modello compiuto di
organizzazione sociale fin dalla nascita di Roma. C’è dunque una netta distinzione tra patrizi e plebei. Secondo
le fonti Romolo avrebbe dato ai patrizi un’organizzazione gentilizia, raggruppando i patrizi in gentes. La gens
è un orgasmo di carattere parentale, composto da più famiglie; un insieme di famiglie unite della coscienza di
avere una comune discendenza, cioè appartenere e discendere dallo stesso ceppo. Queste famiglie erano unite
anche dalla comunanza del nomen, il cos’ detto nomen gentilitium, unite dai culti, i sacra, e dalla comunanza
dei sepolcri. Romolo, in più, avrebbe aggregato i plebei in condizione di dipendenza (con il nome di clientes)
alle varie gentes patrizie. I clientes si ponevano sotto la protezione di un membro di una gens patrizia: essi
lavoravano la terra del padrone, gli prestavano dei servizi in cambio di protezione e di un sostegno. Nel sistema
sociale della Roma arcaica posizione dei clientes era molto particolare, perché in sostanza erano soggetti liberi
che si ponevano sotto la protezione di un membro di una gens patrizia; quello che rende assolutamente
singolare il rapporto di clientela è il fatto che si istaura un rapporto di tipo bilaterale. La fiducia su cui si basava
questo rapporto era un vincolo reciproco. Da un lato il cliens era tenuto al rispetto e all’obbedienza, ma il
patrono doveva fornirgli il necessario per vivere e la sua protezione dalle prepotenze di altri potenti,
garantendogli anche, per esempio, un’assistenza processuale. Questo rapporto era singolare anche perché
assumeva quasi i connotati di un vincolo di sangue, perché il cliente abbandonava completamente il suo culto
domestico e si riconosceva pienamente negli dei protettori della gens, i lares (gli spiriti degli antenati defunti,
dei protettori della famiglia e della casa). Secondo il racconto delle fonti, Romolo avrebbe ancora distribuito e
diviso i cittadini in tre tribù genetiche, alle quali si apparteneva in base alle proprie origini:

1. Ramnes: coloro che discendevano dai Latini


2. Thities: coloro che discendavano dai Sabini
3. Luceres: coloro che discendevano dagli Etruschi

Bisogna sempre tenere a mente che i Romani nascono dalla mescolanza di popoli diversi; i Romani sono un
popolo di sangue misto. Ciascuna delle tre tribù sarebbe stata a sua volta frazionata in dieci unità, dette curie

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( da co-viria, insieme di uomini), che corrispondevano sostanzialmente ai quartieri, i distretti. Romolo, dunque,
avrebbe dato un vero e proprio reticolo distributivo della popolazione. C’è un dato importante da sottolineare:
le fonti si ricordano questa divisione in tribù, ma ricordano il collegamento tra queste tribù e l’assetto militare.
In questa fase l’esercito romano era costituito da una sola legione, formata da tremila fanti e trecento cavalieri;
ogni tribù avrebbe dovuto fornire un determinato contingente militare. Ogni tribù avrebbe dovuto fornire 1000
fanti e 100 cavalieri. All’interno della tribù, però, c’erano le singole curie: erano loro a dover fornire un
determinato contingente militare, 100 fanti e 10 cavalieri. Dunque, dal punto di vista dell’organizzazione
sociale, Romolo avrebbe realizzato un modello compiuto.
Organizzazione politica
Politicamente avrebbe creato le prime forme politiche della città: Romolo avrebbe creato due organi, il così
detto Consilio dei patres e il Comizio curiato. Il Consiglio dei patres era il consiglio degli anziani, i notabili
della città. Esso era formato in origine da cento patres, scelti probabilmente proprio da Romolo, primo re di
Roma, fra coloro che erano a capo delle gentes più illustri e potenti della Roma nascente. È un consesso
importante perché rappresenta il nucleo fondamentale del Senato repubblicano. Il Comizio curiato prende vita
e forma nella civitas arcaica ed è in sostanza la prima assemblea dei cittadini, è la riunione delle trenta curie
nelle quali era divisa la popolazione.

Attendibilità delle fonti storiche


Il racconto ha un fondo di criticità, ma ci sono tante incongruenze, elementi inverosimili, a cominciare dalla
figura di Romolo, mitico fondatore della città. Intorno a queste vicende ( le origini di Roma) , si è sviluppato
un dibattito storiografico molto acceso (nel ‘900), con la peculiarità di un atteggiamento dubbioso, di
scetticismo; alla fine del ‘900, però, si passsa ad una sostanziale fiducia, una rivalutazione di quel racconto. Il
‘900 si apre con un’aspra critica delle fonti: il racconto viene rifiutato, considerato pura leggenda; quello stesso
ecolo, però, si chiude con l’ammissione ampia che in realtà non siamo di fronte ad accadimenti che vanno
considerate con attenzione, m non rifiutate in toto. Ciò accade perché si arrivò alla collaborazione
interdisciplinare: Roma fu un civiltà che abbracciò i più diversi campi, e lo studio di diversi settori disciplinari
di questa civiltà, hanno permesso di costruire un quadro più preciso di Roma. Sono tre le questioni spinose da
affrontare:

o La figura di Romolo: è poco credibile, inverosimile, che una sola persona abbia fondato fisicamente e
materialmente Roma, dandole le prime istituzioni sociali e politiche. Molto probabilmente si è trattato
di un processo graduale. La suddivisione dei cittadini nelle tre tribù genetiche e la stessa
organizzazione in gentes sono molto probabilmente precedenti, già presenti prima della nascita di
Roma, nella fase pre-cittadina. Si tratterebbe dunque di una condizione preesistente aa Romolo, poi
inglobata nella nuova civitas. Tonio Guarino, grande nome della romanistica napoletana, ha insistito
mlto sull’origine pre-cittadina delle tribù genetica e delle gentes. Secondo Guarino, le tre tribù
genetiche, in realtà dovettero costituire delle autonome comunità, stanziatesi sui colli, poi unitesi in
confederazione. Che le tribù siano state create da Romolo è un’ipotesi che contrasta con un fatto: la
breve durata delle tribù all’interno della civitas. Esse verrano presto sostitute da tribù diverse, più
numerose e di differente natura. Ciò sottolinea l’inadeguatezza di quella tribù con la Roma unificata.
o La nascita delle gentes: prima della nascita di Roma le gentes erano dei gruppi seminomadi , dediti
soprattutto alla pastorizia ( anche questa ipotesi condivisa da Guarino). Che Romolo abbai creato le
gentes è un’ipotesi inverosimile; si pensa per lo più che la nascita delle gentes sia per lo più un
fenomeno naturale, formatesi attraverso l’impulso nature delle famiglie che fanno parte dell stesso
ceppo a considerarsi facenti parte di una stessa comunità.
o La data di fondazione della città: Roma nasce realmente nel 754/753? Nasce realmente alla metà
dell’VIII secolo a.C.? Qui vengono in soccorso le fonti materiali, le fonti archeologiche. Le fonti
materiali ci attestano che proprio alla metà dell’VIII secolo, risalgono resti di villaggi costruiti sui
colli, la civitas arcaica. La Roma delle origini era infatti un insieme di villaggi: il nucleo originale,
con ogni probabilità, è stato identificato sul Palatino, dove sono state trovate le tracce di villaggi più
antichi. Prima di Roma ci fu la lega del septimontium, la lega dei sette colli: era una lega che riuniva
insieme i villaggi costruiti sui colli in confederazione. Varrone scrisse ( II-I secolo a.C.) “Dove adesso

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c’è Roma, un tempo c’era il septimontium, così chiamato per il numero di colli, che inseguito la città
incluse all’interno delle sue mura”
o Il ruolo degli Etruschi nella fondazione di Roma: nel periodo coevo alla fondazione di Roma, gli
Etruschi si spostarono dall’Etruria (odierna Toscana), verso sud (il Lazio). Si può ipotizzare che si
siano interessati a Roma, però c’è un dato sicuro: gli Etruschi dominarono Roma, anche se non c’è
certezza che l’abbiano formata. C’è stato un dominio etrusco durante l’età monarchica, sebbene non
fosse una vera e propria dominazione, ma un predominio politico etrusco. Si tende ad escludere che il
periodo etrusco della monarchia romana abbia rappresentato un assoggettamento dei romani ad una
dominazione straniera, ma è plausibile pensare che gli etruschi si siano impadroniti del potere, ma
dall’interno: essi erano già presenti a Roma, in loco, e sono saliti al governo.

La Monarchia
La monarchia è da indentificarsi con quel periodo che va dall’VIII secolo a.C. (754/753) al VI secolo a.C. (509
a.C.). Nella storia della Monarchia romana, la storia ricorda la tradizione di sette re; in realtà il numero dovette
essere molto maggiore, perché, se attribuiamo al periodo monarchico un periodo di circa due secoli e mezzi,
ogni re dovrebbe essere durato mediamente 35 anni, fatto implausibile per le aspettative di vita del tempo. La
tradizione attesta una frattura fra i primi quattro re (origine latino-sabina) e gli ultimi tre (origine etrusca): si è
solito distinguere all’interno del periodo monarchico una prima fase latino-sabina o pre-etrusca, e una seconda
fase etrusca.
La prima fase della monarchia romana è la fase che va dalla fondazione alla fine del VII secolo a.C. (non
abbiamo una data precisa, ma circa il 617/616 a.C.) ; per questa prima fase, la tradizione riporta il nome di
quattro re:
1. Romolo (latino)
2. Numa Pompilio (sabino)
3. Tullio Ostilio (latino)
4. Anco Marcio (sabino)
In questa fase inziale, il re non si pone ancora come un dominus assoluto, ma si presenta piuttosto come un
primus inter pares, una guida della comunità. La più antica struttura di potere che possiamo individuare in
questa prima fase è costituita dal rapporto fra il re e i sacerdoti. In questa prima fase, dunque, c’è una
collaborazione, un intreccio tra potere militare (rex) e culti sacerdotali. Il re è capo militare e capo religioso.
Anche la morte di Romolo è avvolta nella leggenda.
Si ritiene che, oltre Romolo, i re di questi primo periodo esistettero realmente. Numa Pompilio viene descritto
dalle fonti come un re religioso. Avrebbe dato le prime istituzioni religiose alla città ed introdotto i primi
collegi sacerdotali, il collegio degli àuguri (sacerdoti divinatori) preposti a trarre pronostici interpretando il
volere degli dèi, e il collegio delle vestàli, giovanissime fanciulle di nobili famigli. L’immagine che ci viene
restituita di Numa Pompilio è quella del re sovrano religioso.
Il suo successore, Tullo Ostilio, viene descritto come il re guerriero, perché ha sconfitto Alba Longa, la città
più potente del Lazio, a capo della Lega latina, e ha deportato a Roma gli abitanti.
Il successore Anco Marcio viene descritto dalle fonti come un re pacifico che si sarebbe dedicato ad ingrandire
la città, ampliare il territorio includendovi altri colli, fondatore di Ostia, prima colonia romana. Avrebbe
avviato una politica di controllo dl Tevere. Con Anco Marcio si chiude la prima fase della monarchia romana.

La seconda fase è la fase etrusca, che va dalla fine del VII secolo alla fine del VI secolo (509 a.C.). La
tradizione, per questa fase etrusca, ricorda il nome di soli tre re:
1. Tarquinio Prisco
2. Servio Tullio (il più importante dei re di Roma)
3. Tarquinio il Superbo (figlio di Tarquinio Prisco)
Si parla della grande stagione etrusca di Roma, la grande Roma dei Tarquini. In questa fase, Roma diventa la
città più grande del Lazio, sia per la crescita interna della popolazione, sia per l’afflusso di abitanti di altre
zone. Roma nasce dall’incrocio fra etnia, la mescolanza fra i popoli. In questo periodo i re sono capi
particolarmente autoritari, dispotici, a tratti tirannici. Il re è il dominus; essi sono però anche grandi riformatori.
A partire da Tarquinio Prisco, la regalità assume dei connotati diversi, perché il re, pur essendo ancora

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sacerdote, è soprattutto comandante militare. Questa fase è costituita dal forte rapporto tra potere politico e
militare, il rapporto re-esercito, che in qualche modo sostituisce il rapporto re-sacerdoti; è il rapporto politico
militare che prevale sul rapporto politico-religioso. Il monarca non cessa di essere sacerdote, ma il profilo che
si accentua è quello militare. Si è pensato che vi sia stato un passaggio dalla così detta potestas dei re latino-
sabini al così detto imperium dei re etruschi. La potestas indica l’autorità necessaria per esercitare una
funzione. L’imperium è un termine più tecnico che indica il supremo comando, che evidenzia maggiormente
il potere militare del sovrano. Con questo termine indichiamo non soltanto l’autorità necessaria ad esercitare
una funzione, ma anche la facoltà di far eseguire i propri ordini. Il termine imperium è il termine tecnico
utilizzato anche per indicare il potere dei supremi magistrati della Roma repubblicana, i consoli. Anche i segni
esteriori dell’imperium sono di matrice etrusca e saranno trasmessi ai consoli; così come è di origine etrusca
anche l’usanza di far precedere il titolare dell’imperium da una sorta di guardia, costituita da dodici ufficiali
subalterni, i littori, che precedevano il titolare dell’imperium, il rex, dotati del così detto fascio littorio. Anche
questa usanza si trasmetterà in epoca repubblicana.

Tarquinio Prisco
È il primo re di origine etrusca. Intraprese un enorme programma di opere pubbliche. Procedette ad una
fondamentale opera di urbanizzazione della città, fondamentale per una città che stava prendendo forma. Fece
costruire acquedotti, fognature (cloaca maxima, ancora funzionante), luoghi di culto (Tempio di Giove),
l’Ippodromo, il Circo Massimo. A Tarquinio Prisco si deve anche l’opera di pavimentazione delle strade, che
rese il foro il centro di tutti gli affari, pubblici e privati, data anche la maggiore facilità di raggiungere il luogo.
Tarquinio Prisco elevò il numero dei patres da 100 a 300 membri. Questo dato è importante perché Tarquinio
Prisco scelse i membri del consiglio dei patres non soltanto tra coloro che erano a capo delle gentes più
importanti, ma scelse anche tra coloro che si erano distinti nella milizia o nella vita politica. Inserì nel consiglio
degli anziani anche i non patrizi, facenti parte di un ceto benestante che stava prendendo forma, intermedio tra
patrizi e plebe. Il rapporto rex-popolus acquista maggiore importanza dal regno di Tarquinio Prisco, in qualche
modo di pari passo con il ridimensionamento del ruolo delle gentes. I re etruschi appoggiarono i ceti popolari,
laddove i re latino-sabini avevano appoggiato esclusivamente i patrizi e gli aristocratici. Sempre Tarquinio
Prisco raddoppiò il numero dei cavalieri, da 300 a 600. Tarquinio Prisco morirà di una congiura ordita dai
patrizi, probabilmente i figli di Anco Marcio.

Servio Tullio
Secondo la tradizione è il più grande dei re di Roma. A lui si devono importantissime riforme politico-sociali
che sono destinate a sopravvivere in età repubblicana, perfezionandosi. La tradizione ascrive a Servio la
creazione di due ordinamenti: l’ordinamento tributo (divise la popolazione in tribù territoriali) e l’ordinamento
centuriato (così chiamato perché formato dalle centurie dell’esercito). Divise in particolare la popolazione in
cinque classi di censo. Secondo la tradizione, Servio Tullio distribuì il così detto ager publicus, i territori
conquistati dai Romani. Lo fece mediante l’assegnazione di singoli lotti agli agricoltori. Non è un caso.,
dunque, che Servio Tullio venga considerato il migliore dei re. In sostanza si presenta come il sovrano
democratico, che promosse l’ascesa di gruppi sociali emergenti, fino a quel momento completamente esclusi
dalla vita politica. Si trattava in sostanza di gruppi emergenti, i quali, pur non essendo patrizi, rappresentavano
un ceto benestante: possedevano beni sufficienti ad acquistare l’armatura militare, onere del cittadino romano.
Comprese che continuare ad escludere i gruppi sociali emergenti avrebbe comportato rischi per la monarchia,
dando vita a riforme politico-sociali per far sì che, non solo i patrizi, ma anche questi altri gruppi, potessero
partecipare alla vita politica.
• Ordinamento tributo: è un’importante riforma, ascritta e attribuita dalla tradizione a Servio. Consiste
nella sostituzione delle tre tribù genetiche con altre diverse e numerose tribù territoriali. Servio
avrebbe, in un primo momento, creato quattro tribù urbane, che raggruppavano la popolazione
stanziata nell’Urbe; successivamente avrebbe aggiunto un numero imprecisato (forse diciassette) di
tribù rustiche, le così dette tribù extra-urbane, nelle quali era raggruppata la popolazione stanziata nelle
campagne. Avrebbe suddiviso i cittadini in ventuno tribù, quattro urbane e diciassette rustiche. Quando
furono introdotte le quattro tribù urbane ed esistevano solo queste quattro, il criterio di appartenenza
era basato sul domicilio. Quando furono aggiunte le tribù rustiche, il criterio di appartenenza si fondò

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sulla proprietà terriera: i cittadini venivano iscritti nell’una o nell’altra tribù a seconda della
localizzazione del fondo di propria proprietà. Chi non aveva proprietà terriera era iscritto nelle tribù
urbane. Ciò ci lascia immaginare che nel VI secolo a.C., con Servio, Roma aveva già raggiunto una
notevole estensione e un’accentuata urbanizzazione; questa riforma di Servio presuppone chiaramente
la distinzione tra città e campagna, che è possibile solo quando c’è un centro urbano ben evidente.
• Ordinamento centuriato: la tradizione attribuisce a Servio Tullio anche la creazione di questo nuovo
ordinamento, detto appunto ordinamento centuriato. Esso nasce come ordinamento militare in origine.
Si parlava di exercitus centuriatus. Era fondamentalmente l’esercito diviso per centurie (le centurie
erano reparti dell’esercito, composto ognuno da cento militari). Questo ordinamento sarà alla base del
Comizio centuriato di età repubblicana, la più importante assemblea politica di quel periodo. I cittadini
erano divisi in cinque classi di censo: a ciascuna classe era attribuita un certo numero di centurie. La
struttura di questo ordinamento centuriato è attesta nelle fonti anche molto dettagliatamente, ma la
configurazione che ci attesta Livio risale all’età repubblicana. Le fonti ci descrivono l’ordinamento
centuriato, guardando a come esso appare in un’epoca successiva, quella repubblicana. Quando
parleremo dettagliatamente della struttura, lo faremo al momento dell’età repubblicana. Al di là della
configurazione che aveva in quest’epoca, qualcosa di importante dovette accadere già con Servio
Tullio, dato che le fonti insisto nell’indicarlo come creatore di questo ordinamento. È possibile che
Servio abbia introdotto a Roma, nel VI secolo a.C., la scala censitaria, cioè la divisione dei cittadini in
base al censo ( e, come detto, ad ogni censo apparteneva una quantità di centuriati). È difficile invece
pensare che nel VI secolo a.C. l’ordinamento centuriato avesse già quella concretezza e
determinazione di cui parlano le fonti facendo riferimento al periodo repubblicano.

La riforma centuriata di Servio è così importante, però, perché introduce a Roma anche un arruolamento su
base censitaria, non solo la scala censitaria: è questo che dovette sembrare rivoluzionario al tempo. L’ingresso
nell’exercitus non dipendeva più dalla discendenza, ma dalla ricchezza posseduta. È questo che bisogna
cogliere della riforma centuriata di Servio, a prescindere dalla forma che l’ordinamento centuriato prenderà in
futuro.
Servio, però, introduce due ordinamenti: quello centuriato, ma anche quello tributo. In realtà sono
complementari. Sulla base della ricchezza accertata dai possedimenti terrieri nel distretto territoriale, infatti,
veniva inserito il cittadino in una delle cinque classi di censo. In questa fase, peraltro, si teneva conto
particolarmente degli iugeri posseduti.
Questi due ordinamenti sopravvivono in età repubblicana, sebbene si tratti di un modello più maturo rispetto
a quello ideato da Servio. Però, la paternità di questi ordinamenti va riconosciuta a Servio. In sostanza, sulla
base delle fonti che insistono su questi punti, è Servio il padre dell’introduzione del sistema censitario, alla
base dell’ordinamento censitario e l’introduzione del criterio territoriale, che è alla base dell’ordinamento
tributo. Quel che muta con Servio sono anche le strutture di inquadramento dei diversi cittadini, il chè resterà
anche in età repubblicana.
Anche Servio Tullio morirà vittima di una congiura ordita dai Patrizi, in particolare dal figlio di Tarquinio
Prisco, Tarquinio il Superbo.

Tarquinio il Superbo
Tarquinio il Superbo è l’ultimo nome tra i re di Roma che ci giunge. Accentuò così tanto il carattere autoritario,
da provocae una rivolta in città, che condusse ad espellere il re da Roma, determinando la fine della monarchia
e l’instaurazione di una nuova forma costituzionale, la res publica. La rivolta fu guidata da Bruto e Collatino,
che saranno i primi due consoli della storia di Roma. Questa rivolta sarebbe stata determinata da una reazione
del patriziato contro la monarchia popolare dei re etruschi. La reazione violenta incluse anche altre forze: il
patriziato strumentalizzò, in chiave antimonarchica, il diffuso malcontento popolare dovuto dal carattere
tirannico che aveva assunto il regno di Tarquinio il Superbo. Alla base del trapasso istituzionale da monarchica
a repubblica, c’è una certa ambiguità, dovuta alla molteplicità di forze eterogenee. Nel 509, quindi, a seguito
della rivolta, viene cacciato l’ultimo re di Roma.

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L’assetto costituzionale
Guardiamo quali sono gli organi operanti in età regia. Sono sostanzialmente tre:

• Il rex: capo indiscusso della comunità. Il re è indubbiamente l’asse portante di questo assetto
costituzionale. Nel rex coesistevano diverse sfere di potere: potere militare, politico e religioso. Il re
si presenta come il ductor, colui che guida l’esercito. Il re, però, è anche il capo politico della civitas,
il supremo regolatore della vita cittadina. Il re è anche il capo religioso della comunità: si potrebbe
dire che il momento di saldatura tra la sfera militare è la sfera civile è costituita dal potere religioso:
in sostanza è il mediatore tra gli uomini e gli dèi. In questa fase il re deve garantire la pax deorum, il
costante buon rapporto che deve sussistere tra gli uomini e gli dèi, considerato al tempo necessaria alla
sopravvivenza della città. Il re, quindi, deve interrogare gli dèi, attraverso gli auspicia,
l’interpretazione dei segni divini, attraverso i quali si riteneva che si manifestasse la volontà degli dèi.
È chiaro che in quella civiltà tutto era considerato collegato alle divinità: avvenimenti naturali e
avvenimenti umani. Tutto era visto come risposte degli dèi ai comportamenti umani; dunque, bisogna
evitare di offendere le divinità per non incorrere in conseguenze cruente; bisogna mantenere la pax
deorum. Il re accentua in sé una pluralità di poteri:

1. Il re è il sommo sacerdote di Roma. Secondo la testimonianza di festo, nella gerarchia


sacerdotale romana al vertice vi è il rex. Seguiva al secondo posto il Flamen Vialis (il sommo
sacerdote di Giove,), poi il Flamen Martialis (sommo sacerdote di Marte) e ancora il Flamen
Quirinalis (sommo sacerdote di Quirino, identificato molto probabilmente come il padre del
popolo romano, Romolo). Infine, al quinto posto di questa gerarchia sacerdotale troviamo il
Pontefice massimo.

2. In campo militare si avvale dell’aiuto di due ausiliari: il Magister populi e il Magister equitum.
Il Magister populi è in sostanza il sostituto del re nel supremo comando militare. Populus qui
va inteso come popolo, ma nel suo assetto militare. Il Magister equitum era il comandante
della cavalleria.

3. In campo civile, il re, come capo politico, ha compiti di amministrazione e direzione della
città. Questo potere comprende anche il potere legislativo e il potere giudiziario: ha potere di
emanare delle statuizioni normative (le così dette leges rege) e di amministrare la giustizia.
Per amministrare la giustizia si avvale della cooperazione di alcuni ausiliari: i due questores
parricidii, competenti in merito al parricidium, l’omicidio del pater familias, reato
gravissimo. Si avvaleva poi della cooperazione i altri due ausiliari, i duumviri perduellionis,
ausiliari competenti in materia di perduellio, l’alto tradimento, l’attentato alla comunità
politica.

Emerge che il re, in questa fase, si pone come la guida della comunità ad ampio specchio. La carica
del rex è chiaramente vitalizia e monocratica. Secondo alcuni studiosi il re sarebbe stato eletto dai
Comizi curiati, ma si dubita di una vera e propria funzione elettorale da parte dei Comizi curiati in
questa fase. Altri studiosi hanno ipotizzato che il re venisse nominato dall’inter-re. Alla morte del re
era soprattutto il Consiglio dei patres ad assumere i poteri e a gestirli collettivamente. L’interegnum è
quel periodo che intercorre tra la scomparsa di un re e la nomina del suo successore. I poteri venivano
affidati ad una rappresentanza di patres, dieci patres, che rappresentavano l’intero consesso. Essi
esercitano i poteri a turno, cinque giorni ciascuno, fino alla designazione del nuovo monarca. Il nuovo
sovrano veniva nominato da uno di questi dieci intereges, non appena i segni divini lo avessero reso
possibile. Attraverso l’istituto dell’interegnum, l’aristocrazia gentilizia si era riservato il monopolio
della scelta del monarca, dato che l’inter-re era un membro del Consiglio dei patres e quindi
rappresentate del patriziato. Questo sistema di designazione del re è attestato per la fase latino-sabina
ed è definito creatio, ma per la fase etrusca non abbiamo testimonianze certe; potrebbe essere stato
diverso, potrebbe essersi trattato su un principio di discendenza, perché c’è un rapporto di parentela

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tra i tre etruschi (Servio Tullio era genero di Tarquinio Prisco, Tarquinio il Superbo era suo figlio).
Potrebbe anche essere ipotizzato che si sia adottato un sistema di consenso popolare, ipotesi che
sarebbe in linea con il ridimensionamento del ruolo delle gentes che si ha durante il periodo etrusco.
Il meccanismo che era alla base della nomina del sovrano era un meccanismo complesso; infatti, le
fonti attestano la necessità costante del consenso divino e la partecipazione del popolo. Per consenso
divino si intende la inauguratio del rex, una solenne cerimonia religiosa, ricca dii simbolismo, che si
svolgeva dinanzi alla comunità, durante la quale l’àugure (sacerdote divinatore) interrogava gli dèi,
chiedendo loro il consenso. Le fonti attestano altresì che questo processo di nomina abbia la necessità
della partecipazione del popolo; in particolare, i cittadini, riuniti nel Comizio curiato approvavano la
così detta lex curiata de imperio, un atto di investitura formale del sovrano. Attraverso questa lex il
Comizio curiato conferiva i poteri sovrani al nuovo re. In sostanza, il processo di nomina del sovrano
era complesso e articolato: ad esso partecipava l’intere, espressione dei patres, il Comizio curiato,
espressione del popolo e gli dèi, elemento divino, attraverso gli àuguri. Si è pensato che probabilmente
ci fosse una triplice investitura del sovrano, sulla base dei diversi poteri del rex. Si è pensato che il
potere civile discendesse dalla creatio, il potere militare dalla lex curiata de impero, il potere religioso
sarebbe acquisito dal rex attraverso l’auguratio.

• Il Consiglio dei patres: era il consesso, la riunione dei notabili della città. In origine questo consiglio,
probabilmente creato dallo stesso Romolo, era costituito da cento membri, scelti dal rex tra coloro che
erano a capo delle gentes patrizie più importanti della città. I membri venivano scelti tra coloro che
godevano di una particolare posizione sociale. Nel corso dell’età monarchica, probabilmente con
Tarquinio Prisco, il numero fu elevato a 300 e i membri venivano scelti anche tra quanti si erano
distinti per capacità militari o attitudini politiche. Il consiglio dei patres era l’organo consultivo del
re. Come seconda funzione aveva quella dell’interegnum, di cui si è largamente parlato. Questo
organo, dunque, partecipa al processo di investitura del sovrano. Si discute in merito ad una terza
prerogativa di questo organo, la così detta auctoritas patrumn: si tratta del potere di ratifica dei patres,
in merito alle delibere del Comizio curiato. Giacché si tende ad escludere in questa fase regia una
funzione legislativa e/o elettorale dei Comizi Curiati viene meno conseguentemente di una successiva
ratifica di quelle delibere da parte dei patres. Parliamo di auctoritas patrum, ma solo con il Senato
repubblicano romano; si tende ad escludere che avesse già questa prerogativa in età monarchica.

• Il Comizio curiato: prima assemblea dei cives. In origine era proprio la riunione delle trenta curie,
nelle quali era divisa le popolazioni. Ogni curia si ritiene raggruppasse più gentes patrizie; se nelle
curie erano raggruppate le gentes, si può immaginare che i Comizi curiati fossero aperti solo ai membri
delle varie gentes patrizie. Quando si ritenne opportuno far partecipare alla vita politica anche altre
classi sociali, si crearono nuovi ordinamenti. La funzione principale era l’approvazione della lex
curiata de imperio. Anche questo organo partecipa al processo di investitura del monarca. La
inauguratio del re si svolgeva davanti al Comizio curiato. Questa assemblea aveva anche funzioni
rituali, legate alla vita sociale: il Comizio curiato presenziava ad alcuni atti di diritto privato
fondamentali nella vita di una città. Esempio di questi atti potrebbe essere il testamentum calatis
comitis, la più antica forma testamentaria. Era il testamento fatto davanti ai comitia calata, il Comizio
Curiato in adunanza pubblico-religiosa, sotto la presidenza del pontefice massimo: avveniva due volte
l‘anno, il 24 marzo e il 24 maggio di ogni anno. Il testatore faceva testamento dinanzi alla comunità
che assisteva; dichiarava le sue ultime volontà davanti al popolo. Questo testamento sarà poi sostituito
da forme diversa già dall’età repubblicana.

Le fonti
Partiamo con il chiederci qual è il primo ius di Roma, quali sono le fonti più remote dello ius cittadino. Il
nucleo originale del nucleo di Roma è costituito dai mores maiorum; ai mores va poi aggiunto il diritto
pontificale, il diritto che deriva dal collegio pontificale, che ha a Roma un ruolo di estrema importanza. Infine,
le leges rege, statuizioni normative dei Re.

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I mores sono i costumi degli antenati, le vecchie tradizioni. Si trattava di regole di comportamento, che si
riteneva risalissero agli antenati, i maiores. Erano norme di condotta circondate da un’aurea di sacralità: si
riteneva che questi precetti derivassero direttamente dalle divinità, perché gli antenati erano deificati. Queste
regole di comportamento, in realtà si traducevano in rituali, gesti precisi da compiere, parole precise da
pronunciare. Questi rituali venivano rispettati da generazioni ed erano osservate spontaneamente, con la
convinzione di ubbidire ad un precetto giuridico. In sostanza queste regole di comportamento erano considerate
vere e proprie leggi, per cui, vincolanti ed inviolabili. Giacchè questi precetti erano ritenuti sacri, erano
considerati anche immutabili. La conoscenza di questi precetti era affidata a coloro che avevano un particolare
rapporto con la divinità, i pontefici. Sono i pontefici i depositari della conoscenza dei mores.
Per ius pontificium, diritto pontificale, intendiamo i così detti responsa pontificum, le risposte date dai pontefici
riuniti nel Collegio pontificale. Questo primo ius fu per tutta l’epoca arcaica patrimonio esclusivo dei pontefici,
custodito dal Collegio pontificale, istaurato d Numa Pompilio. Bisogna fare una premessa iniziale. La Roma
arcaica è caratterizzata da un intreccio strettissimo fra phas e ius, sacro e diritto. Più che di una stretta
connessione sarebbe più corretto parlare di commistione. Siamo alle origini ed è ancora un tutto indifferenziato,
che comprende, accanto alle norme giuridiche, quelle religiose (così Schulse: “Il diritto è geneticamente unito
con il non-diritto). Però, le fonti di cui disponiamo mostrano di considerare phas e ius come due concetti
nettamente distinti, lex divina e lex humana. Come leggere questa apparente discrasia? Secondo la convincente
ipotesi di A. Guarino, lo ius è un’evoluzione del phas; lo ius è un sistema distinto dal phas, ma in qualche
modo ad esso collegato, perché è un concetto più evoluto che si sùrroga al phas nella produzione di norme.
Non è una vera propria antitesi tra le due, ma, in sostanza, il diritto nasce come espressione di un’attiva umana,
che si inserisce in un contesto di supremazia divina (sono sempre gli dèi che permettono agli uomini di darsi
delle norme). I pontefici, insieme con i flamini, gli auguri e le vestali costituiscono il più anziano sistema
sacerdotale di Roma, che è per lungo tempo riserva del patriziato. Si dovrà attendere il 300 a.C. per avere
l’accesso dei plebei ai collegi sacerdotali. All’interno del collegio sacerdotale si è ipotizzata una divisione di
compiti; in particolare, i pontefici avevano il compito di custodire i mores, interpretarli e trasmettere, laddove
i flamini si occupavano del culto della divinità, erano addetti alle modalità di svolgimento dei riti in onore
delle divinità. Ancora: gli auguri erano cinque sacerdoti divinatori, che traevano pronostici interpretando i
segni attraverso i quali la società romana credeva che gli dèi inviassero segnali agli uomini, il volo degli uccelli.
Agli auguri spettava l’inauguratio del rex. Le vestàli erano sacerdotesse di Vesta, dea del focolare domestico;
avevano il compito di custodire il fuoco sacro, che doveva restare perennemente acceso per il bene della città-
In origine le vestali erano tre fanciulle giovanissime (tre i 6 e i 9 anni), che avevano il dovere di conservare la
castità per trenta anni. Ora possiamo tornare ai pontefici e al Collegio dei pontefici. I pontefici, guidati dal
pontefice massimo, erano i sapienti della città, esponenti della cultura e del sapere antico della civitas arcaica.
Inoltre, i pontefici riportavano gli eventi più importanti avvenuti nella città in appositi registri: gli annali
pontificali, così chiamati perché gli eventi venivano riportati anno per anno. In età monarchica probabilmente
questo collegio fu costituito da tre membri, tutti patrizi, forse uno per ogni tribù. Il numero salirà a 5, finché in
età repubblicana arriverà ad 8 e i nuovi posti saranno destinati ai plebei. I pontefici erano in modo particolare
i depositari del sapere giuridico: sono i primi giuristi nella storia di Roma. Non a caso si parla di giurisprudenza
pontificale. Dobbiamo subito comprendere che nella Roma arcaica la conoscenza del diritto era affidata al
collegio pontificale, ma consisteva nella conoscenza dei mores maiorum. Livio afferma che “lo ius civile è
conservato (repositum) negli archivi segreti dei pontefici”; anche lo storico Valerio Massimo ricorda: “Ius
civile per multa secula solis pontificibus notum”. Nella Roma arcaica, lo strumento di cui si servivano i
pontefici per manifestare all’esterno il proprio sapere ed esercitare una funzione ordinatrice, era il responsum,
la risposta data ad un quesito rivolta al collegio da un cittadino. Il cittadino chiedeva cosa fosse ius, giusto,
quale comportamento adottare in una specifica circostanza nel rispetto dei mores. I pontefici, quindi,
indicavano i rituali ai quali attenersi, da seguire per dare una forma giuridica corretta alla propria condotta. I
responsa sono risposte orali, indiscutibili e immotivate. Sono date oralmente dal Collegio in uno stile che si
potrebbe definire oracolare, come se si rivelasse all’esterno una verità conosciuta nota solo al Collegio. Il
cittadino non poteva contestare la pronuncia del Collegio, e i pontefici non erano tenuti a spiegare la propria
risposta, perché era manifestazione di un sapere segreto noto solo ai membri del Collegio. L’eventuale
inosservanza del responso pontificale non veniva direttamente punito dai poteri della città, ma questa condotta
in realtà comportava una disapprovazione sociale; il soggetto veniva emarginato, laddove il rispetto del

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responso gli conferiva potenza e protezione. Consentiva al soggetto di partecipare pienamente alla sfera del
magico di cui erano espressione i pontefici e la protezione degli dèi, di cui i sacerdoti erano intermediari.
Rispondere alle domande rivolte dai cittadini divenne un compito molto frequente nella civitas romana.
Quando parliamo di ius pontificum, ci riferiamo proprio ai responsa pontificum. I responsa pontificum erano
certamente la regola vivente della città arcaica, ma non erano regole generali. I responsi valevano solo per il
caso concreto che si era sollevato nella domanda rivolta al Collegio. Non carattere generale, ma carattere
particolare. La conoscenza del diritto si manifestava, in questa fase, nelle risoluzioni di casi singoli e concreti.
Il caso concreto genera il responsum; il pontefice, rispondendo, prescrive, dà la norma valevole per quel caso
singolo. I pareri per i casi singoli non venivano dimenticati: la memoria di queste risposte era affidata al
Collegio pontificale, che, in qualche modo, trasmetteva di generazioni in generazione i pareri già dati. Ogni
nuova domanda che veniva rivolta al Collegio veniva confrontata con eventuali precedenti analoghi, sui quali
il collegio si era già espresso. Così, gradualmente, iniziò a formarsi un sapere casistico, fondato sulle fattispecie
singole dei casi concreti. Era un sapere essenzialmente orale, intriso di ritualità. Schiavone parla di “catene di
responsa memorizzati”. Un responso poteva esaurirsi nel momento della pronuncia se riguardava fattispecie
particolarissime, che non si sarebbero ripetute in futuro, ma poteva anche essere memorizzato e rivivere nel
ricordo, in modo da applicarlo nel futuro ai casi analoghi.
C’è una tradizione di età repubblicana, secondo la quale, accanto a diritto pontificale, sarebbero coesistite altre
disposizioni normative provenienti direttamente dall’autorità politica, le famose e discusse leges rege. Il
termine lex è un termine antico che rinvia ad un atto di imperio proveniente dal potere cittadino; il termine
agisce u un piano esclusivamente umano ed è dotato della forza di una sanzione. L’inosservanza, il mancato
rispetto di queste prescrizioni comportava l’irrogazione di una sanzione a differenza del responso pontificale.
Ci sono dubbi circa l’esistenza, ma anche circa il contenuto di queste leggi. Probabilmente riguardavano i
rapporti di parentela, la disciplina dei funerali, la repressione criminale e la materia religiosa. Una parte degli
studiosi ha ritenuto che le leges rege riguardassero principalmente argomenti sacrali; questi precetti sarebbero
stati emanati dal re, ma in quanto sommo sacerdote di Roma e interprete del volere degli dèi. Il punto più
complesso riguarda l’esistenza dubbia di due fantomatiche raccolte di queste leges rege; secondo la tradizione
sarebbero esistite due raccolte monarchiche, risalenti al 6 secolo a.C. Una di queste raccolte risalirebbe all’età
di Servio Tullio e avrebbe raccolto le prescrizioni di Romolo e di Numa Pompilio. La seconda raccolta
risalirebbe all’età di Tarquinio il Superbo e raccoglierebbe tutte le prescrizioni normative dei re, realizzate da
un tale Sesto Papirio (forse un Pontefice massimo). Sesto Papirio raccolse tutte le leggi nell’opera “Ius
papirianum”. Un primo dubbio riguarda certamente l’epoca di questa raccolta di leggi, perché è difficile
credere che già in epoca monarchica si sia proceduto ad una raccolta di disposizioni, dato che si crede che la
raccolta sia posteriore. È stata referita all’età regia retrodatando un lavoro più recente. Alla fine dell’età
repubblicana, però, questo è certo, c’era una raccolta di leges rege, che fu commentata da Flacco e consultata
di giuristi romani (come il giurista Paolo). Un secondo dubbio sorge circa le modalità di approvazione delle
leges rege: è difficile credere che queste leggi emanate dai re, venissero anche approvate dai Comizi Curiati.
Anche qui si tratta probabilmente della trasposizione delle lex populus repubblicana al periodo monarchico. Si
può pensare che queste leggi fossero effettivamente emanate dal sovrano e che venissero comunicate ai cives,
rappresentati nel Comizio curiato, affinché potessero essere rese note ai cittadini, ma non in cerca della loro
approvazione. Che venissero riportate dalle fonti anche come leges curiate, è dovuto proprio a questa lettura.
Si tratta di precetti normativi emanati autocraticamente dal sovrano. In sostanza quello che possiamo ritenere
dominante in età monarchica è il meccanismo lex-rex. Solo successivamente e in età repubblicana, questo
legame originale cambia e il meccanismo diventa lex-populus.

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2. l’età repubblicana 15

Sappiamo che con la cacciata di Tarquinio il Superbo nel 509 a.C., si apre una nuova fase della storia di Roma,
la storia repubblicana. È un periodo che va dalla fine del VI secolo a.C., alla fine del I secolo a.C., esattamente
dal 509 a.C. al 27 a.C., con il principato di Augusto. Anche il passaggio dal regnum alla res publica è avvolto
dal mistero e dall’imprecisione. Le fonti che ci informano su questi avvenimenti sono ancora Livio e Dionigi
di Alicarnasso. Secondo la tradizione, nell’anno 509 sarebbe scoppiata in città una violenta rivolta che avrebbe
portato alla cacciata del re dalla città. Sarebbe stata dichiarata caduta la monarchia e eletti due magistrati ( i
primi due consoli), affinché assumessero il comando e facessero quel che facevano i re. Alla base di questa
rivolta antimonarchica ci sarebbe stato un diffuso malcontento popolare, dovuto e determinato dal carattere
dispotico e tirannico che aveva assunto il regno di Tarquinio il Superbo, strumentalizzato dai patrizi, che
avrebbero tratto da un episodio interno alla famiglia del re il movente per capeggiare la rivolta e cacciare il re
dalla città. Si tratta di un grave oltraggio recata dal figlio di Tarquinio il Superbo, un tale Sesto Tarquinio, ad
una donna, Lucrezia, moglie di suo cugino Collatino. Dunque, Collatino, insieme con Bruto, avrebbe
capeggiato la rivolta per vendicare l’onore della sua consorte. Deduciamo che secondo la tradizione sarebbe
finita violentemente nel 509 a.C.; in concreto, Collatino avrebbe fatto votare dai Comizi curiati la decisione di
cacciare il re dalla città, delegando al nuovo esercito centuriato la nomina di due nuovi magistrati, che
dovevano assumere il potere in luogo del rex espulso da Roma. Bruto e Collatino sono eletti come primi due
consoli della storia di Roma. Il dato essenziale sul quale soffermarsi è che la tradizione parla di un passaggio
repentino, improvviso e violento. È chiaro che la caduta della monarchia non si può considerare di una vendetta
personale, ma questi fatti sottendono interessi molto più generali. In merito alla questione del trapasso regno-
repubblica, abbiamo tre principali linee interpretative:
1. Secondo questa prima tesi, il racconto della tradizione è pura leggenda. Contesta il racconto della
tradizione e l’elemento centrale di quel racconto; secondo questa tesi non ci sarebbe stato un assaggio
traumatico, repentino, ma piuttosto un passaggio lento, graduale e progressivo. Si ipotizza una
rivoluzione lenta e graduale, non un passaggio brusco. Il dato su cui fa leva questa ricostruzione è una
circostanza: l’esistenza in età repubblicana del rex sacrorum. Il rex sacrorum era colui che si occupava
dei sacrifici pubblici, ed era preposto agli atti di culto agli dèi. Secondo questa tesi, il re sarebbe stato
lentamente esautorato. I successori del rex sarebbero i comandanti militari, il magister populi e il
magister equituum; ci sarebbe stata una coppia diseguale in luogo del re. Da questa coppia, sarebbero
nati i consoli, ma solo dopo il passaggio di tempo.
2. La seconda linea interpretativa accoglie la sostanza del racconto delle fonti. Accetta l’idea di fondo:
effettivamente ci fu un passaggio ex ab rupto, brusco e violento, dall’uno all’altro assetto. L’esistenza
del rex sacrorum non è considerato un fattore discriminante, perché sopravvive, ma con un luogo
ridimensionato. È anzi possibile che gli autori della rivolta antimonarchica abbiano deciso di separare
le due sfere, il potere politico da quello religioso, affidando ai nuovi magistrati solo il potere politico
e conservando agli affari religiosi il vecchio rex. Secondo questa ipotesi ricostruttiva ci sarebbe stato
un passaggio brusco, ma non un passaggio democratico: questo cambiamento istituzionale andrebbe
collegato ad una ripresa delle gentes, l’aristocrazia patrizia che era stata messa da parte dai re Etruschi.
Sarebbero stati i patrizi a gestire la reazione antimonarchica, imponendo nuovamente il loro potere
politico-economico. Dunque, una rivolta sì, ma oligarchica. Una res publica che nasce, ma che si
forma ancora su un ristretto gruppo di persone,
3. Quest’ultima ipotesi collega il cambiamento istituzionale ad un mutamento sociale, uno spostamento
di equilibri interni alla societas romana. Questa terza tesi ritiene che la monarchia sia stata distrutta
per il venire alla ribalta di due elementi: l’esercito e la plebe. Roma è percepita quasi come un
accampamento militare, pronto a far guerre a tutti, una città conquistatrice, tutt’altro che pacifica.
Infatti, Roma fin dall’origine è impegnata in guerre di conquista. Quando c’è una tendenza
imperialistica, anche in politica prevale, perché bisogna approvare sempre più persone. Il primo
elemento è rappresentato dall’esercito. La plebe, entrando a far parte dell’esercito, dopo l’ordinamento
centuriato introdotto da Servio, vuole contare anche nella vita politica. La plebe partecipava al
pagamento dei tributi ed entrava nell’esercito: sulla plebe gravavano solo gli oneri della vita pubblica,
non gli onori. È chiaro che iniziò ad avanzare pretese e rivendicazioni: si muoverà, sempre in maniera
più forte, verso la parificazione con il patriziato.

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16

Analizziamo ora le ipotesi accettate; è plausibile pensare che fin da subito si sia sostituita al monarca una
coppia di magistrati temporanea, da una carica monocratica a vita ad una magistratura collegiale e temporanea.
È anche plausibile pensare che la nomina di questi due nuovi magistrati sia stata affidata al popolo, inteso
come exercitus centuriatus, non come assemblea del popolo. Le perplessità permangono sui poteri di questi
due magistrati che avrebbero sostituito il rex: è difficile credere che fin da subito questa coppia consolare
avesse i connotati e le prerogative che caratterizzeranno la magistratura consolare repubblicana. Il principio
collegiale paritario, in particolare, si affermerà successivamente.
Livio ci dice: “L’origine della libertas va cercata nella durata annua del potere consolare, piuttosto che in una
diminuzione della potestà regia”: secondo Livio la matrice della libertà repubblicana è la durata limitata nel
tempo della magistratura consolare, non i poteri che i consoli assumevano (che erano comunque molto grandi).
La temporaneità è quello che viene a connotare questa nuova magistratura; per la pari collegialità dovremo
attendere.
La costituzione repubblicana non nasce improvvisamente sulle ceneri della Monarchia, ma è il prodotto di una
continua evoluzione. Non nasce di colpo, sovrapponendosi alla Costituzione precedente.
La res publica nasce con un carattere ambiguo, perché suono ambigue le forze che hanno appoggiato il colpo
di Stato antimonarchico, un malcontento popolare strumentalizzato dal patriziato. È un’ambiguità che
caratterizza questa fase, ma che in qualche modo si spingerà anche nei secoli di storia repubblicana successiva.

Contesto storico
Il periodo che va dal 509 a.C. fino al 451/450 a.C (biennio del decemvirato legislativo e della pubblicazione
delle XII tavole) vede l’emergere del conflitto sociale tra patriziato e plebe. Questo conflitto domina la storia
di Roma per secoli interi, dal V secolo a.C. al III secolo a.C. C’è un dato che emerge dal racconto degli autori
antichi: un ceto aristocratico ricco saldamente strutturato in gentes, il patriziato, che si contrappone a gruppi
molto più numerosi di cittadini, definiti plebs (multitudo plebs), in condizione di inferiorità non solo
economica. Si può ipotizzare l’origine di questa distinzione sociale. Secondo la tradizione sarebbe stato
Romolo a distinguere la popolazione in patrizi e plebei. È difficile credere che questa distinzione sia stata
operata artificialmente dall’esterno, tanto più da Romolo. Invece, ampia parte della storiografia ritiene che la
distinzione tra patrizi e plebei sarebbe stata di origine etnica: patrizi e plebei discenderebbero da popolazione
di stirpe etnica differente, i patrizi dai sabini o forse dagli etruschi, mentre i plebei discenderebbero dai latini.
Sono due le motivazioni che ci spingono a formulare questa distinzione etnica:
1. Patrizi e plebei veneravano divinità diverse: i patrizi venerano la triade capitolina, Giove, Giunone e
Minerva. Il tempio dedicato alla triade capitolina fu edificato proprio sul colle capitolino, il
Campidoglio, nel V secolo a.C. da Tarquinio Prisco. I plebei avevano il culto di un'altra triade,
costituita da Cerere (dea dei campi), Libero e Libera (dei della fecondità). Sono divinità legate alla
terra, protettrici dei campi. Il culto di questa triade si svolgeva sull’Aventino, colle plebeo per
antonomasia. Su questo colle era edificato anche il tempio dedicato a Diane, dea del bosco e della
caccia, il cui culto è certamente di origine latino.
2. Le fonti attestano l’esistenza del divieto di matrimonio tra patrizi e plebei: le fonti attestano per lungo
tempo questo divieto di matrimonio. Ancora nelle XII tavole ancora era sancito il divieto di
matrimonio. Si dovrà attendere la lex canuleia la quale abolirà il divieto. Uno dei requisiti necessari
per poter contrarre un matrimonio legittimo, le iuste nuctie era il così detto connubium, la reciproca
capacità patrimoniale. Le unioni tra patrizi e plebei erano prive del connubium e dunque erano unioni
illegittime. Anticamente si riteneva che i matrimoni dovessero aver luogo tra soggetti appartenenti alla
stessa koinè, identità culturale.
Altri studiosi hanno sottolineato il diverso luogo assolto da patrizi e plebei in ambito economico. I patrizi sono
essenzialmente legati alla proprietà terriera, sono latifondisti, i plebei sono legati alla pastorizia e, in origine,
svolgevano i lavori più umili. I patrizi erano i discendenti degli appartenenti alle gentes che avevano
partecipato alla fondazione di Roma e potevano vantare un’illustre discendenza; molti ci dicono che i patrizi
discendevano dai patres, probabilmente i 100 patres che Romolo aveva scelto come suoi consiglieri. In realtà
è abbastanza sicura l’origine dei patrizi, a differenza di quella dei plebei, molto più discussa e dibattuta. È
sicuro che la plebe in una fase iniziale costituisse un ceto economicamente più debole, però con il passare del
tempo, accanto ai plebei più poveri e i nulla tenenti troviamo gradualmente e progressivamente plebei abbienti,

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commercianti, artigiani, agricoltori, che riescono, attraverso queste attività, una certa posizione economica. A
differenza del patriziato, che costituisce il gruppo dominante saldamente organizzato, la plebe non si presenta
come un blocco omogeneo e compatto, ma è un gruppo sociale eterogeneo, composito e variegato. Quello che
dobbiamo rivelare fin da ora è che, a prescindere dalla comune estraneità alle gentes patrizie, possiamo
distinguere almeno due diversi gruppi sociali: da un lato gruppi economicamente forti, potenzialmente
competitivi con il patriziato sotto il profilo economico (sono quei gruppi che guidano la lotta per
l’equiparazione sul piano politico), dall’altro lato gruppi economicamente più deboli, che mirano in primis ad
un miglioramento delle loro condizioni economiche. Da questa condizione l’intreccio di pretese diverse,
ispirate a logiche differenti. Da un lato la lotta per la parificazione politica, dall’altro la lotta per un
miglioramento delle condizioni economiche. La plebe, con una fisionomia certamente meno chiara, si
contrappone, compatta, come forza antagonista del patriziato. La plebe stessa è il risultato di una serie di
cambiamenti interni alla società romana, successivi mutamenti delle strutture sociali di Roma.
Dopo queste nozioni, possiamo vedere quali sono le ragioni alla base di questo conflitto patrizi-plebei. I motivi
sono molteplici e concernono più piani:
1. La questione dell’ager publicus: si tratta in sostanza del problema dello sfruttamento della terra
coltivabile. L’ager publicus è costituito dai territori sottratti ai nemici in seguito alle guerre di
conquista. I romani consideravano l’ager publicus come ager occupatorius, un territorio che poteva
essere occupato da qualsiasi cittadino, il quale ne acquistava il possesso, non la proprietà. Dal punto
di vista formale, l’ager publicus apparteneva alla res publica. In concreto era lasciato allo sfruttamento
da parte dei privati. Ci chiediamo chi potesse in concreto occupare la terra e come. È il bestiame che
consente di occupare la terra e a Roma erano pochissime le famiglie che lo possedevano; famiglie
ricche e patrizie. Così si vennero a formare i primi latifondi, grandi appezzamenti di terra, nelle mani
di pochi, i più ricchi. Ai plebei, nella migliore delle ipotesi, rimaneva una domus, una piccola casa con
annesso un piccolo orto, l’herendium. In questo contesto la plebe rivendica la distribuzione delle terre,
richiedevano piccoli appezzamenti di terra.
2. La questione dei debiti: i debiti erano un flagello che gravava soprattutto sui ceti più poveri; bastava
un’annata di scarsi raccolti per avviare un processo di indebitamento. Il debitore dava a garanzia del
pagamento del debito sé stesso (diventando necti, soggetti auto vincolati al creditore), se non aveva
alto. Alla scadenza del termine per il pagamento, se il debitore era in grado di pagare, anche mediante
il lavoro prestato, veniva liberato (necti liberatio, liberazione del debitore); se non fosse stato in grado
di pagare, avrebbe potuto essere venduto come schiavo al di là del Tevere, thrans Thiberium, e il
prezzo ricavato dalla vendita avrebbe soddisfatto i creditori. Le fonti attestano questa situazione di
grave disagio economico nel quale vessavano i plebei, perché i necti furono quasi esclusivamente
plebei. È in questo contesto che la plebe inizia a chiedere un miglioramento della propria condizione
debitoria, con una minaccia, quella di sottrarsi alla leva militare, mettendo così in pericolo l’intero
sistema data la centralità dell’exercitus a Roma. Nell’anno 455, dopo la ribellione dei necti che si
sottrassero alla leva militare, fu emanato un editto dal console Servilio: “Nessuno tenga incatenato o
rinchiuso un cittadino romano, togliendogli la possibilità di dare il suo nome per la leva militare, e
nessuno venda i beni o trattenga i figli o i nipoti di chi sta in guerra”. Questo editto sospette lo ius
retinendi, il diritto dei creditori di trattenere presso di sé i debitori. La plebe, per il momento, reagisce
bene e si arruola.
3. La questione del connubium: le fonti attestano l’esistenza del divieto di matrimoni misti. Qualora si
fosse contratto matrimonio privo del connubium, esso sarebbe stata un’unione illegittima. La
conseguenza era grave per la prole di un’unione illegittima: questo figlio avrebbe acquistato lo stato
sociale inferiore, la condizione del genitore socialmente inferiore, dunque è plebeo. La legittimità del
matrimonio è dunque il presupposto imprescindibile per l’ammissione al patriziato; è possibile che il
divieto di matrimonio tra patrizi e plebei servisse proprio ad escludere dalle gentes patrizie i figli nati
da unioni illegittime, miste. In questo modo si conservava la purezza del sangue dell’aristocrazia
patrizia, non ammettendoli. Questo divieto di matrimonio (che rimarrà fino al 445 a.C) causa una sorta
di cristallizzazione delle classi sociali, un immobilismo sociale: in questo contesto la plebe lotta e
chiede l’abolizione del divieto.

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4. La questione dell’incertezza del diritto: nel periodo più arcaico della storia di Roma, il diritto era
costituito dai mores, che erano considerati sacri, inviolabili e immutabili. Essi venivano costituiti e
interpretati da chi aveva un particolare rapporto con le divinità, i pontefici. La criticità sta nel fatto che
i pontefici furono patrizi fino al 300 a.C., e i collegi sacerdotali erano riserva del patriziato. Per questo
motivo, i pontefici tendevano a proteggere i patrizi, interpretando il diritto a vantaggio degli esponenti
del proprio ceto. In questo quadro la plebe chiede una maggiore certezza del diritto, cioè che si giunga
ad una legge scritta. Con una legge scritta si avrebbe sottratto all’arbitrio parziale pontificale
l’interpretazione dei mores; i pontefici sarebbero partiti da un precetto scritto noto a tutti, chiaramente
più sicuro rispetto a consuetudini orali più facilmente deformabili. Solo con le XII tavole si arriva al
primo testo di leggi scritte, alla metà del V secolo a.C.
5. La questione della parificazione sul piano politico: tutti i plebei erano esclusi dalla vita politica e dal
governo della res publica. Partecipavano all’esercito, contribuivano al pagamento dei tributi senza
poter entrare a far parte di magistrature o sacerdozi: su di essi gravano solo gli oneri e non gli onori. I
plebei più ricchi, quindi, aspirano ai collegi sacerdotali, alle cariche da magistrato, vogliono avere lo
stesso spessore politiche dei patrizi.
Le rivendicazioni riguardano quindi il piano economico, il piano sociale, il piano giuridico, il piano politico.
Sono coinvolte una pluralità di sfere, perché queste rivendicazioni sono il riflesso dell’eterogeneità della
composizione della plebe, ciò nonostante, coeso e compatto nella lotta contro il patriziato. Le prime due
questioni sono sicuramente gli obiettivi primari degli strati più deboli della plebe. Il matrimonio, l’incertezza
giuridica, sono obiettivi condivisi da tutti i plebei. La questione della parificazione politica è l’obiettivo
primario dei plebei più abbienti. Questa originaria antitesi patriziato-plebe sfocerà ben presto in una lotta
sociale.
Per raggiungere i propri obiettivi, l’arma della plebe è la renitenza alla leva, non risponde alla chiamata alle
armi; arriverà poi alla secessione, l’allontanamento dalla città. Livio racconta di una secessione della plebe nel
494 sul monte Aventino, così come Pomponio riferisce di una secessione, ma sul monte Sacro. Questa prima
secessione sarebbe stata la conseguenza della riforma militare serviana, con l’ordinamento centuriato. Questa
secessione è il frutto della riforma centuriata, perché i plebei non hanno trovato altro strumento di pressione
sul patriziato. I motivi della lotta plebea evidenziano una diversità di interessi all’interno della classe, la cui
compattezza va individuata nel contrasto netto con il patriziato. Le tappe del conflitto patrizio-plebeo sono
tante, ma un primo momento importante è proprio la Secessione dell’Aventino: sul monte (Sacro o Aventino)
si dà una propria organizzazione. Crea una propria Assemblea e dei propri magistrati. Prende forma una
comunità diversa a quella che governa la civitas. Vedremo che accanto a magistrati e assemblee valide per
tutto il popolo, vennero create assemblee e magistrati validi solo per la plebe. Tutto avviene in modo
rivoluzioanrio. L’ assemblea, il conciliuum plebis, approva i così detti plebiscita (da plebis-scita, le delibere
assunte dai plebei in seno alla propria assemblea); i magistrati erano due edili plebei, addetti ai templi (in latino
edes) e 2/3 tribuni della plebe, magistrati nati per difendere la plebe dai soprusi dei patrizi. Secondo le fonti,
nell’accordo concluso tra i due ordini sociali per mettere fine alla Secessione, furono riconosciute due
particolari prerogative ai tribuni della plebe: l’auxilii latio e la sacrosanctitas. L’auxilii latio è il diritto di
intervenire in soccorso e in aiuto di un singolo cittadino minacciato dall’imeprium consolare, il potere dei
consoli. Da questa facoltà originaria dei tribuni, si arriverà al così detto ius intercessionis, il potere principale
dei tribuni, l’essenza stessa di quella carica, che consiste nel diritto di bloccare le decisioni degli altri
magistrati, talora fossero lesive degli interessi plebei. La sacrosanctitas è l’inviolabilità dei tribuni, nel senso
che se qualcuno attentava alla persona del tribuno, qualunque cittadino avrebbe potuto uccidere impunemente
l’attentatore, considerato homo sacer, uomo consacrato alla divinità insieme con i suoi beni. In seguito alla
prima secessione della plebe, quindi, i patrizi decidono di giungere ad un accordo, riconoscendo l’istituzione
dei tribuni e degli edili.
Le fonti ricordano una deliberazione assunta dai plebei su proposta di un tribuno, un tale Bolerone, nel 471
a.C. Forse questa decisione fu assunta in occasione di una seconda secessione. Questa decisione è conosciuta
come “plebiscito Bolerone”. Questo plebiscito avrebbe stabilito che gli edili e i tribuni volevano essere eletti
dall’Assemblea della Plebe, ripartita in tribù territoriali. Prima del 471 tutti i plebei indistintamente
partecipavano alle Assemblee, compresa la parte di plebei nullatenenti. La maggior parte dei plebei
nullatenenti, però, erano clientes ed esprimevano il proprio voto in base agli interessi del proprio padrone

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patrizio. Dopo il 471 la partecipazione all’Assemblea fu riservata ai plebei aventi diponibilità di un fondo, di
qualsiasi dimensione. Erano coloro che potevano esprimere realmente il proprio voto in assemblea, tutelando
realmente la propria classe di appartenenza. Il conflitto tra patrizi e plebei, però, continuò: qualche anno dopo,
Terentilio Arsa, tribuno della plebe, presenta una richiesta ufficiale in nome della plebe, affinché si giunga ad
una legge scritta mediante un’apposita commissione, che avrebbe avuto il compito di scrivere le leggi per
limitare il supremo potere dei consoli. L’opposizione a questa richiesta della plebe è feroce da parte dei patrizi,
e, per il momento questa richiesta non viene approvata. La situazione cambierà nel biennio 451-450 a.C.
All’inizio del 451 vengono sospese le magistrature ordinarie della città; viene sospeso il consolato, la
magistratura suprema. Si sostituisce il consolato ad u collegio decemvirale, a cui viene affidato il compito di
scrivere le leggi; infatti si parla dei così detti decemviri legibus scribundis Avrebbe dovuto trasformare in legge
scritta il diritto pontificale, sostituire le pronunce pontificali orali e valevoli per il caso concreto con precetti
normativi veri e propri, scritti e generali. Secondo le fonti, Roma avrebbe indicato un’ambasceria ad Atene in
Grecia, nella culla della civiltà antica, con il compito di ispirarsi dalla legislazione attica di Solone. Questo
dato non è sicuro, perché in qualche modo è inverosimile l’idea che fosse stata inviata un’ambasceria in Grecia
in un’epoca in cui Roma non aveva ancora una propria flotta e non aveva rapporti diretti con la Grecia. Si è
pensato che l’ambasceria fosse stata inviata piuttosto in Magna Grecia, ove vigevano corpi di leggi che si
ispiravano alla legislazione di Solone. Questo primo collegio decemvirale (esclusivamente patrizio)
amministra bene la città, con democrazia, e pubblica ben 10 delle 12 famose tavole. Al termine del mandato,
chiedono un anno di proroga affinché il lavoro potesse dirsi completo; nel 450 viene indetto un secondo
collegio decemvirale, che, a differenza del primo, accentua i tratti dispotici del governo, soprattutto nella
persona del suo presidente Appio Claudio. A tal proposito, Cicerone parlerà di appietas come sinonimo di
ferocia, assenza di qualsiasi sentimento umano. Questo secondo collegio decemvirale verrà deposto con ferocia
e nel 449 si tornerà alla magistratura, con i consoli Valerio e Orazio. A questo secondo collegio vengono
attribuite le ultime due tavole, l’XI e la XII tavola.

La natura di questa opera


Le XII tavole sono un testo posto alla conoscenza dell’intera comunità. Siamo di fronte ad un complesso di
regole scritte accessibili a tutti. A Roma le leggi si incidevano sulle tabulae, di legno o anche di bronzo, che
venivano annesse nel foro, in modo che tutti potessero prenderne visione. Il foro è anche il luogo adibito al
mercato, momento di aggregazione importante. Le “leges duodecem tabularum” o le “duodecem tabulae”
sono un punto obbligato della storia del diritto romano, perché rappresentano il primo testo di leggi scritte. Il
primo codice di leggi imperiali ufficiali (fatte promulgare dall’imperatore) si avrà nel V secolo d.C. Prima
delle XII tavole, solo mores, un diritto consuetudinario, orale, filtrato dalla giurisprudenza pontificale, il che
comportava un arbitrio assoluto da parte di questo collegio riserva del patriziato per decenni interi.

Carattere
In merito alla conoscenza delle XII tavole, è opportuno specificare che non abbiamo il testo integrale delle XII
tavole, per cui le notizie che abbiamo ci derivano da citazioni di fonti posteriori, ad esempio Cicerone o anche
il giurista repubblicano Sesto Elio. Sesto Elio nella sua “Tripertita” commentò le XII in quest’opera divisa in
tre parti. Nella prima parte riporta il testo, nella seconda parte l’interpretazione pontificale e nella terza parte
le clausole delle così dette legis actiones, azioni di legge (primo sistema di risoluzione delle controversie tra
privati). Le fonti posteriori non citano integralmente le disposizioni delle XII tavole. L’assenza della versione
originale e integrale comporta diversi problemi. Un primo problema linguistico, perché il latino utilizzato nel
V secolo a.C. è diverso da quello delle citazioni posteriori del II, I secolo a.C. In molti casi il significato di una
parola era oscuro agli stessi eruditi repubblicani. Cicerone racconta che quando era fanciullo era stato costretto
ad imparare a memoria i versetti delle XII tavole e non sempre ne capiva fino in fondo i significati, perché era
usato un latino diverso; Cicerone dice di aver imparato i versetti come un carmen necessarium, una poesia
indispensabile. Il vocabolo carmen fa quasi pensare ad una struttura ritmica dei versetti, che favoriva
l’apprendimento retorico: dal punto di vista stilistico, è possibile che si trattasse addirittura di una prosa ritmica.
La conoscenza delle XII tavole era necessaria, anche per i bambini del I secolo a.C.

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Subito dopo la promulgazione delle XII tavole, i pontefici ripresero il sopravvento, evidenziando
immediatamente il ruolo di custodi ed interpetri del sapere giuridico. In sostanza, la cultura laica della città,
non era ancora matura, non riusciva a interpretare il contenuto di quei precetti. Schiavone sottolinea che “le
XII tavole smisero ben presto di aver un’esistenza davvero autonoma: con il tempo il lavorio esegetico dei
sacerdoti se ne appropriò del tutto. La trama esplicativa delle pronunce pontificali si appropriò anche dei
precetti decemvirali”, che vennero esemplificati nuovamente dalle pronunce dei pontefici. I pontefici finiscono
per diventare i custodi di una legislazione che non hanno contribuito a creare.
Molti precetti delle XII tavole ci sono giunti in due versioni differenti. Una versione filtrata dalla
giurisprudenza e un’altra attestata dai retori (versioni retoriche). Se vi è differenza tra queste due versioni,
quale presumere più aderente al testo originale? La versione retorica, perché i grammatici, gli oratori, citavano
i precetti in maniera più conservativa, testualmente o aderente al testo originale, laddove i giuristi invece
citavano i precetti decemvirali in vista di una funzione pratica. Se ci fosse una discrasia, si dovrebbe presumere
più aderente la versione retorica.
Livio definisce le XII tavole “fonte di tutto il diritto pubblico e privato”. Secondo Guarino le XII tavole
diventarono oggetto privilegiato della riflessione dei giuristi. La giurisprudenza repubblicana interpretò con
grande libertà questi precetti, arrivando a soluzioni originali, operando come rinnovamento. Anche in questo
caso è un’interpretatio creatrice del diritto.

XII tavole: codice, carta costituzionale, strumento di emancipazione sociale?


Se si vuole definire codice le XII tavole, bisogna chiarirsi sul significato di questa espressione. È improprio
dire che le XII tavole sono un codice, se intendiamo con codice il nostro codice moderno. Il codice moderno
tende a dare una normazione completa, dettagliata di un determinato settore. Il codice moderno tratteggia il
singolo istituto in tutti i suoi molteplici aspetti. Questo nelle XII tavole non c’è, assolutamente non c’è. Le XII
tavole contengono brevi precetti, che danno qualche indicazione su questo e quell’istituto (non tutti gli istituti
di un determinato settore), senza trattarlo in tutti i suoi profili. Toccano alcuni settori di un ordinamento, ma
non li trattano con esaustività. Non costituiscono un codice nel senso moderno del termine: dire che le XII
tavole sono un codice, significherebbe dire che le XII tavole sono un complesso di precetti. La lacunosità delle
notizie in merito alle XII tavole potrebbe portarci a ritenere che magari il testo integrale fosse più completo.
In realtà, si ha l’impressione che le XII tavole non intendessero regolare tutto il diritto esistente, ma buona
parte di esso aveva ancora origine consuetudinaria, affidata ancora ai pontefici. Nella storia giuridica di Roma,
la lex occupa solo una parte dell’ordinamento giuridico: il resto dell’ordinamento viene lasciato
all’interpretatio della giurisprudenza (che in una prima fase è costituita dai collegi pontificali, ma
successivamente sarà rimpiazzata dai giuristi laici). La polarità, il complesso rapporto ius-lex attraverserà tutta
la storia giuridica d Roma.
Anche considerare le XII tavole una legge Costituzionale è relativamente errato. Non contenevano norme
relative ai rapporti tra i cittadini e il potere, al funzionamento degli organi pubblici come le magistrature, alla
repressione criminale da parte degli organi pubblici. Le XII tavole disciplinavano quasi esclusivamente i
rapporti familiari e patrimoniali tra cittadini, concernevano principalmente il diritto privato. Per questo è stata
considerata piuttosto enfatica l’affermazione di Livio.
Le XII tavole non sono del tutto uno strumento di emancipazione sociale della plebe. Non introducono dei
cambiamenti significativi o delle innovazioni rilevati rispetto alla tradizione o rispetto ai mores, si limitano in
qualche modo a metterli per iscritto. Soprattutto, non dobbiamo pensare che contenessero delle norme di
particolare favore per i plebei. Però, non possiamo negare che costituiscono un traguardo della plebe nella lotta
verso la parificazione con il Patriziato. Da questo momento, le disposizioni contenute nelle XII tavole, si
sarebbero applicate ugualmente a patrizi e plebei. La vera novità sta proprio nell’egualitaria applicazione dei
precetti ai patrizi e ai plebei. Da un punto di vista formale, garantivano l’isonomia, nel senso che garantivano
l’uguaglianza formale di tutti i cives di fronte alla legge.
Schiavone definisce le XII tavole “i primo Statuto della società romana”. Guardando ancor più a largo respiro,
le XII tavole rappresentano il primo nucleo del diritto occidentale.

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Contenuti

1. Tavole I-III: conterrebbero norme riguardanti il diritto processuale, le legis actiones, primo sistema di
legge per la soluzione di controversie fra privati
2. Tavole IV-VII: norme relative al diritto di famiglia, diritto reale, diritti relativi (obbligazioni) e diritto
ereditario
3. Tavola VIII: contiene norme sulla repressione di alcuni illeciti privatistici, i così detti delicta. Il sistema
delle XII tavole sembra già contenere una distinzione che caratterizzerà il diritto romano penale, la
distinzione tra illeciti privati e illeciti pubblici. Gli illeciti privati sono illeciti civilistici, classificati
tecnicamente come delicta, sono illeciti che ledono solo un interesse eminentemente privato, del
singolo. Dunque, sono perseguiti dal privato, il soggetto offeso, attraverso un processo civile. Sono
puniti con una pena privata, una pena pecuniaria. Diverso il discorso relativo agli illeciti pubblici,
classificati come crimina. Il crimen lede un interesse non solo privato, ma pubblico, dell’intera
comunità. Sono perseguiti dal potere centrale attraverso un processo pubblico e sanzionati con una
pena pubblica. La pena pubblica può consistere in una pena pecuniaria da versare nelle casse del potere
centrale, ma può consistere anche in una pena corporale, dalla fustigazione all’uccisione.
Le XII tavole si occupano di due delicta, le lesioni corporali e il furto.
4. Tavole IX-X: contengono norme sacrali, relative soprattutto alla disciplina dei funerali. Il contenuto
di queste tavole è il più incerto e dibattuto.
5. Tavole XI-XII: secondo le fonti sarebbero frutto del secondo decemvirato. Vengono definite tabulae
iniquae, tavole ingiuste, non favorevoli alla plebe. Sono una sorta di appendice, contengono norme
varie di contenuto disparato, non riconducibili ad un determinato argomento. È proprio nell’XI tavola
che contenuto ancora il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei.

Dobbiamo sottolineare che talvolta nelle XII tavole convivono quasi in maniera stratificata norme più arcaiche
norme più arcaiche e norme più moderne, come quelle relative al debitore insolvente. Tra le norme più arcaiche
e brutali, va ricordata una disposizione che viene recepita dalle XII tavole e che concerne l’uccisione del
debitore insolvente e addirittura la divisione del suo corpo tra i vari creditori. Nessuna fonte attesta che si andò
oltre la prigionia; però, c’era la minaccia dell’uccisione del debitore, che non è altro che l’emblema della fides.
La fides è un valore cardine della società romana; un valore supremo, quello della solidarietà sociale. Qui viene
posto in bilico con il valore essenziale della vita. Sono in gioco la fides, che impone di onorare l’impegno
assunto, dall’altro lato la vita umana, valore essenziale da proteggere e tutelare. Questa norma convive con
norme più moderne relative al debitore insolvente: viene recepita anche la norma relativa alla vendita del
debitore insolvente thrans Thiberim. Infatti, quello che è un dato sicuro, è che le XII tavole e il loro contenuto,
per quanto ricostruito con estrema difficoltà, rispecchiano la società del V secolo a.C. Sono specchio delle
strutture dell’epoca in cui furono redatte, ma recepiscono altresì l’esperienza giuridica anteriore. C’è in molti
casi una coesistenza di vecchio e nuovo e dunque una stratificazione di norme.

Pochi anni dopo le XII tavole, nel 445 a.C., con la lex Canuleia, viene abolito il divieto delle unioni tra patrizi
e plebei. Durante il IV secolo a.C., nel 367 a.C., abbiamo il così detto “compromesso Licinio Sestio”, i plebei
accedono al consolato. È un compromesso patrizio-plebeo, perché quasi per compensare i patrizi della perdita
del monopolio della magistratura suprema, i plebei acconsentono alla creazione di un nuovo magistrato, tratto
dall’ordine patrizio, il pretore, a cui viene affidata la funzione giurisdizionale. Per circa trent’anni, fino al 337
a.C., i pretori saranno tutti patrizi. Nell’anno 300 a.C., ci fu il Plebiscito Ogulnio, con l’accesso dei plebei ai
sacerdozi, ai massimi collegi pontificali (da 4 diventano 8) e collegi degli auri (da 5 diventano 9). Nell’anno
287 a.C. viene emanata la così detta Lex Orthensia, che parifica i plebisciti alle leggi. Dal 287 le delibere
assunte dai plebei avrebbero vincolato tutto il popolo, patrizi e plebei. Dal III secolo a.C., quando si può
ritenere raggiunto il pareggiamento tra patrizi e plebei, muta la storia del rapporto tra patrizi e plebei. Nasce,
dal III secolo, una nuova classe dirigente, una nuova aristocrazia, la nobilitas patrizio-plebea, che contiene,
accanto ai patrizi, i più ricchi plebei. Il pareggiamento politico vede la nascita e l’affermarsi di una nuova
aristocrazia, che contiene ricchi plebei che fanno parte del Senato e possono aspirare ed ottenere le magistrature

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cittadine, prima riserva del patriziato. Dopo l’accesso al consolato, quindi, i plebei avranno accesso anche alle
varie magistrature. Si assiste ad un’unione di ricchezze: i plebei abbienti vengono integrati progressivamente
nella classe dirigente. Nasce una nobiltà del denaro, che sostituisce la nobiltà di sangue, che aveva
caratterizzato i primi tempi della storia di Roma. Ai margini della vita politica restano i più poveri, i
nullatenenti. A partire dal III secolo, a Roma si determinò una concordia ordinum, la concordia tra gli ordini
sociali, con la nascita della nobilitas patrizio-plebea.

aSSetto coStituzionale

Si parlerà di magistratura, di assemblee e del Senato. La res pubica romana si fonda sulla interazione tra
magistrati, assemblee e Senato. Sono questi gli organi che costituiscono la trama istituzionale della Roma
repubblicana. Bisogna fare un’osservazione preliminare. L’assetto costituzionale della res publica romana non
nasce d’un colpo con una determinata fisionomia sulle ceneri della monarchia. Vi è un lento e progressivo
costituirsi degli organi costituzionali. In realtà si assiste ad un lento costituirsi dell’assetto costituzionale
repubblicano nel suo complesso. Tuttavia, dobbiamo anche sottolineare che il 367 a.C. segna un momento
importante, perché non segna solo l’accesso dei plebei al consolato, ma anche il raggiungimento di un assetto
costituzionale più maturo e stabile. La costituzione repubblicana, dal 367, in qualche modo si consolida. Gli
organi costituzionali si assestano, fino alla fine dell’età repubblicana.

LE MAGISTRATURE

Le magistrature non furono create tutte nello stesso momento. I consoli nascono proprio nel 509 a.C., la coppia
consolare va a sostituire il rex. I censori, invece, nascono nel corso del V secolo a.C., più o meno nel 443. Da
quanto detto sinora, anche il pretore, che nasce nel 367 a.C. Il pretore peregrino addirittura nel III secolo a.C.
Dobbiamo sottolineare le caratteristiche che connotano tutte le magistrature repubblicane in generale. Sono
quattro:
• La gratuità: la carica magistratuale era conferita a titolo di onore, i magistrati non recepivano alcuna
retribuzione. La carica magistratuale era indicata a Roma con il termine “honor”. Solo i ricchi, dunque,
potevano intraprendere la carriera politica.
• La temporaneità: magistrati repubblicani duravano in carica per un tempo limitato, solitamente un
anno. Per i censori, la carica durava fino all’espletamento delle loro funzioni di censimento. Tuttavia,
dal 434 fu inserito un limite massimo di 1 anno e mezzo.
• La elettività: i magistrati repubblicani vengono eletti dal popolo. I Comizi centuriati eleggevano i
magistrati superiori, consoli, pretori e censori. Invece, i Comizi tributi eleggevano i magistrati
inferiori, edili, questori. L’assemblea della plebe, il conicliuum plebis, eleggeva i magistrati plebei, gli
edili plebei e i tribuni plebei.
• La collegialità: le magistrature repubblicane sono collegiali, perché abbiamo una pluralità di titolari
della stessa magistratura. 2 consoli, 2 censori, 2 o 3 tribuni. Fa eccezione la carica magistratuale del
pretore, perché la pretura non è una magistratura collegiale. Anche quando fu creato ilk pretore
peregrino, i due pretori non costituirono una magistratura collegiale, perché vi erano sfere di
competenza completamente diverse.
È possibile distinguere nell’ambito delle magistrature repubblicane, tra magistrati superiori e magistrati
inferiori. I magistrati superiori sono titolari non solo della potestas, ma anche dell’imperium. Fanno eccezione
i censori, che per la specificità delle loro funzioni, non erano titolari di imperium, che spettavano a coloro che
si dedicavano alle questioni militari. I magistrati inferiori erano titolari solo di potestas. Richiamiamo la
distinzione tra potestas e imperium. La potestas è la facoltà di poter esprime con la propria volontà quello della
res publica stabilendo diritto e obblighi. L’imperium, termine più tecnico, indica il supremo comando, un
potere quasi indefinito, perché tendenzialmente illimitato; un potere così esteso, che si può determinare solo

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indicandone i limiti. Si distingue in imperiuum domi, potere civile di governo della città, esercitato all’interno
della città (pomerium, il recinto sacro della città), e imperium militiae, potere militare, che poteva essere
esercitato al di fuori del pomerium. Una delle manifestazioni più evidenti dell’imperium è lo ius coercitionis,
un potere di polizia.
Il Consolato è la magistratura suprema. I magistrati, due, erano eponimi, davano,
1. CONSOLATO cioè, il nome all’anno. I consoli erano titolari sia della potestas, si dell’imperium
(domi e militiae). Il simbolo esteriore della titolarità dell’imperium era il fatto che
i consoli erano accompagnati dai littori, ben dodici per console. Pomponio ci dice che i consoli dovevano
“consulere”, “provvedere” alla repubblica al massimo grado, svolgendo qualsiasi funzione fosse necessaria. Il
consolato, dunque, era caratterizzato dalla generalità della competenza: tutto quello che non era devoluto ad
altri magistrati, spettava ai consoli.
Il consolato è una magistratura gratuita, temporanea (annuale), elettiva (veniva eletta dal Comizio centuriato),
collegiale (sono due consoli). Ciascuno dei due consoli era formalmente titolari di tutto l’imperium, e ciascuno
dei due consoli poteva porre il veto agli atti dell’altro console: vi era una intercessio reciproco. È collegiale ed
articolata in questo modo, perché si vuole evitare che ciascuno dei consoli esercitasse un potere in sostanza
monarchico, data l’ampiezza dei poteri loro riconosciuti. Per poter governare bene ed equamente, i due consoli
dovevano prendere decisioni di comune accordo, concordate preventivamente. Il meccanismo dell’intercessio
funziona se c’è una sostanziale pace. Dovevano condividere le proposte di legge da presentare all’approvazione
del popolo, ai Comizi. C’è però una criticità. Questo meccanismo poteva esporre al pericolo di una paralisi, un
dissidio paralizzante, ciascun console bloccava gli atti degli altri. Per evitare i pericoli insiti nella magistratura
collegiale, si fece ricorso abitualmente al così detto sistema del turno. In sostanza, i consoli si dividevano il
tempo: di solito per l’imperium domi un mese ciascuno, per l’imperium miltiae un giorno ciascuno. Questo
meccanismo prevedeva un previo consenso di ciascun console alle azioni compiute dagli altri. Questi pericoli
vennero superati anche grazie all’opera del Senato. Il Senato che aveva di fatto la direzione politica della res
publica trovava sempre il modo di evitare dissidi, o comunque di superare eventuali contrasti. Il Senato riesce
nello scopo, perché i consoli erano magistrati che duravano in carica per un tempo limitato; essi aspiravano ad
entrare in Senato e quindi dovevano avvertire l’influenza di questo organo, del quale avrebbero voluto far
parte. È chiaro che i consoli erano molto motivati a superare eventuali contrasti seguendo i consigli del Senato.
I consoli, in quanto titolari dell’imperium militiae, potevano ordinare la leva militare, guidare l’esercito e
punire i subalterni. In quanto titolari dell’imperium domi, avevano il così detto ius agendi cum patribus, il
diritto di convocare il Senato, per chiedere il parere dei senatori, i patres, in merito a questioni fondamentali
per la vita della città. I consoli avevano anche lo ius agendi cum populo, il diritto di convocare le assemblee
del popolo, per poter presentare proposte di legge ai Comizi, sottoporre proposte di legge all’approvazioni
comiziali, o anche per sottoporre nominativi dei futuri consoli. I consoli avevano il potere di nominare il
dictator, un magistrato straordinario, al quale si faceva ricorso solo in particolari circostanze. Il dictator era
una magistratura di nomina consolare. I consoli avevano i così detto ius auspiciorum, il diritto di interrogare
ed interpretare la volontà degli dèi, come il vecchio rex. I consoli avevano il così detto ius coercitionis o
coercitio: un diritto consistenze nel potere di coercizioni, polizia, il potere di punire il cittadino che avesse
impedito al magistrato il regolare esercizio delle sue funzioni, direttamente, senza un regolare processo.
Vi erano poi delle competenze che spettavano ai consoli solo in una prima fase; esse saranno poi devolute ad
altri magistrati. Ne ricordiamo tre:
1. Amministrazione della giustizia: fino al 367 a.C. spettava ai consoli, poi con la nascita del pretore si
spostò la funzione giurisdizionale. Era una funzione divenuta molto gravosa e avrebbe comunque
richiesto una magistratura specifica.
2. Censimento: in una prima fase si occupavano anche del censimento dei cittadini. Svolgono questa
funzione fino alla creazione dei censori, V secolo a.C. (443 circa).
3. Scelta dei senatori, lectio senatus: questa funzione era di competenza consolare, fino al IV secolo a.C.,
il 318 o il 312 a.C., anno in cui il plebiscito Ovinio, attribuì la lectio senatus ai censori.
Da questo esame dei poteri consolari, si intende l’ampiezza delle loro prerogative. Vi erano dei limiti, però,
all’imperium consolare: l’intercessio tribunizia e la provocatio ad populum. L’intercessio tribunizia era il
diritto dei tribuni della plebe a porre il veto agli atti dei magistrati, qualora l’atto fosse palesemente lesivo agli
interessi della plebe. Era in qualche modo un’evoluzione dell’auxilii latio, prerogativa originaria dei tribuni

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della plebe all’epoca della prima secessione. L’altro di questi due limiti (potremmo dire garanzie
costituzionali), la provocatio ad populum, è il diritto del cittadino ad appellarsi al popolo, affinché possa avere
un processo, essere giudicato davanti al popolo. È in sostanza il diritto del cittadino a non essere condannato,
se non proprio davanti al popolo; è un’opposizione vera e propria alla coercitio consolare.

2. PRETURA Questa carica ha avuto una particolare importanza per due motivi. In primo luogo, per il
ruolo che ha svolto nell’ambito della giurisdizione civile, ma anche per il ruolo che ha nel
campo delle fonti del diritto, perché il diritto pretorio è la parte più importante dello ius onorario. È collega
minore solo rispetto ai consoli e, come loro, è titolare dell’imperium; è accompagnato da sei littori.
La pretura è una carica magistratuale gratuita, annuale, eletto dal Comizio centuriato; non è però una
magistratura collegiale, anche quando fu creato il pretore peregrino nel III secolo. Ogni pretore aveva il
rispettivo ambito di competenza.
Il pretore nasce nel 367 a.C., in occasione del compromesso patrizio-plebeo, per compensare i patrizi della
perdita del monopolio della magistratura suprema. Pomponio scriveva: “Poiché i consoli erano usualmente
distolti dalle guerre con i popoli confinanti, e non vi era alcuno che in città potesse rendere il diritto, si stabilì
di creare un pretore, denominato “urbano” “. Il primo pretore veniva denominato “urbano”, perché doveva
amministrare la giustizia nell’Urbe, in città. Il pretore si sarebbe quindi occupato dello iuris dictio civile.
Doveva dire il diritto ai cives che avrebbero sottoposto alla sua attenzione controversie di diritto privato. I
pretori, come i consoli erano titolare dell’imperium, in particolare dello ius agendi cum populo, per sottoporre
proposte di legge, anche se, lo usava di rado, perché l’iniziativa legislativa spettava principalmente ai consoli.
Spettava, però, ai pretori la convocazione del popolo per l’espletamento delle funzioni giurisdizionali in
materia della repressione criminale. Si svolgeva davanti al popolo il così detto “processo comiziale”. Il pretore
aveva lo ius agendi cum patribus, ma anche questo potere lo utilizzava raramente se erano presenti a Roma i
consoli. In virtù dell’imperium domi, poteva, in casi eccezionali, sostituire i consoli nelle funzioni di governo
e. in quanto titolare dell’imperium militiae, poteva essere incaricato dal Senato di condurre l’esercito insieme
con i consoli. Il principale compito dei pretori, però, è certamente la funzione giurisdizionale,
l’amministrazione della giustizia inter cives romanus. Quando fu creata questa carica i pretori furono patrizi,
solo dal 337 a.C., con Publilio Filone iniziarono ad esserci pretori plebei. La pretura non diverrà collegiale
nemmeno quando fu creato il pretor peregrinus, con il compito di dirimere le controversie tra cives e peregrini,
cittadini romani e stranieri. Questa magistratura nasce proprio per questo intensificarsi in seguito
dell’espansione di Roma nel mediterraneo. Pomponio ci dice che ad un certo punto il pretore urbano non
sarebbe stato più sufficiente alle esigenze della giurisdizione civile, perché arrivava a Roma un grande numero
di peregrini. Era un nuovo magistrato giusdicente, che esercitava funzioni autonome rispetto al pretore urbano.
Entrambi avevano le proprie materie specifiche. Il pretore ha un ruolo fondamentale nell’ambito della
giurisdizione civile, ma un ruolo fondamentale anche nell’ambito delle fonti. Il pretore, prima quello peregrino,
poi quello urbano, cominciò ad emanare un editto, nel quale indicava i principi generali, ai quali si sarebbe
ispirato nell’esercizio della giurisdizione civile. All’inizio quest’editto venne emanato episodicamente, poi con
regolarità invalse la prassi che ogni anno all’inizio del mandato, il pretore emanasse un editto, nel quale
indicava i criteri giurisdizionali ai quali si sarebbe attenuto nella risoluzione delle controversie sottoposte alla
sua attenzione. Questo editto fu definito edictum perpetum, editto perpetuo nel senso di annuale, valevole per
tutto l’anno di carica del pretore che aveva emanato l’editto. Gli editti sono così importanti perché sono fonte
dello ius honorarium, una massa giuridica importantissima, così definita perché discende dalla carica
magistratuale, in questo caso dalla carica del pretore. A Roma, il pretore non era un tecnico del diritto, un
esperto, ma un magistrato, non un giurista: i giuristi sono gli unici cittadini privati che studiano e
approfondiscono il diritto, dando responsa. I primi giuristi sono i pontefici, ma nel tempo ci sarà una
progressiva laicizzazione. In realtà i giuristi influenzavano gli stessi pretori nella loro attività, a Roma
mettevano il proprio sapere giuridico a servizio degli stessi pretori, i quali si avvelavano delle competenze
tecniche dei prudentes.

3. LA CENSURA Sono magistrati superiori come i consoli e i pretori, ma non sono titolari di
imperium, per la specificità delle funzioni svolte. I censori, pur essendo

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magistrati superiori, non sono titolari di imperium, ma solo di potestas (si parlava proprio di potestas
censorium).
È incerta la data precisa di istituzione di questa magistratura. Però è sicuro che non nasce nel momento della
istaurazione della repubblica, non nasce da subito. Nasce probabilmente nel corso del V secolo; la data più
plausibile è il 443 a.C o forse i 434 a.C.
È una magistratura gratuita e onoraria, temporanea (duravano in carica fino all’espletamento delle loro
funzioni, quindi non una carica annuale; ciò fino al 434, quando una lex Emilia stabilì la durata massima della
censura in 18 mesi), elettiva e quindi eletta dal Comizio centuriato ogni cinque anni. Per prassi i censori
venivano scelti tra coloro che avevano già ricoperto il consolato, perché la carica di censore, in qualche modo
viene considerata il completamento del cursus honorium. Diventò la più importante magistratura sul piano
della dignitas. Rappresentava il coronamento di una carriera politica già splendida. È una carica collegiale, i
censori sono due, e dovevano lavorare sempre di comun accordo. Proprio per la peculiarità dei compiti assolti,
non erano sottoposti ad intercessio, neppure dai tribuni della plebe.
Sono tre i principali compiti dei censori:
1. censimento: a Roma il censimento aveva un significato molto diverso. Non era solo la conta dei cives
(come oggi), ma anche lo schedamento della popolazione, insieme con i patrimoni di ciascuno di loro.
Era necessario schedare i cittadini, per poi dividerli nelle varie classi rispetto al censo. Essere inseriti
in una classe piuttosto che in un’altra, significava pesare di più o di meno nella vita politica.
L’attribuzione fondamentale dei censori era la compilazione della così dette liste censorie, dove
venivano registrati i cittadini insieme al loro patrimonio. Le liste censorie fotografavano l’assetto
sociale della civitas. Dalle liste censorie si ricavava l’assetto sociale. Tutto lo svolgimento era
disciplinato dagli stessi censori, attraverso la così detta formula census, nel quale i censori indicavano
il giorno stabilito per il censimento, che di solito aveva luogo in Campo Marzio, e indicavano i criteri
ai quali si sarebbero attenuti nella valutazione de patrimoni. Queste operazioni di censimento, che
duravano per un periodo notevole, si concludevano con una cerimonia religiosa di purificazione, detta
lustratio. La lustratio aveva il significato di mostrare agli dèi, che nelle liste censorie non era stato
inserito nessun cittadino indegno. In concreto, i censori in primo luogo registravano le dichiarazioni
dei cittadini rese sotto giuramento, relative alla composizione della famiglia e la consistenza dei
patrimoni. I censori, poi (seconda operazione) procedevano ad onerare ciascun cittadino di determinati
tributi, in proporzione alle sue ricchezze. Infine, il censore assegnava il cittadino alla rispettiva classe
di censo.
2. scelta dei senatori, la lectio senatus: la scelta dei sanatori fu affidata ai censori a partire dal IV secolo
a.C. Inizialmente era una prerogativa consolare; con il plebiscito Ovinio tra il 318 e il 312 a.C., la
scelta spettò ai censori. Questa scelta doveva essere fatta tra coloro che avessero operato bene,
distinguendosi e tenendo un comportamento congrui. Secondo le fonti, i censori avrebbero dovuto
scegliere i senatori tra i migliori dei due ordini sociali, il patriziato e la plebe. Di norma (è qui la prassi
che viene a consolidarsi) venivano scelti tra i senatori. A Roma non c’è una Costituzione scritta che
delinea le funzioni con i vari obblighi, ma c’è una prassi costituzionale, comportamenti che si reiterano
nel tempo e si consolidano
3. controllo della moralità, la cura morum: i censori avevano il compito di controllare il comportamento
pubblico privato dei cittadini, colpendoli, se necessario, con la così detta e temutissima nota censoria.
Questa nota comportava, tra l’altro, il declassamento sociale del cittadino. Con la nota censoria, si punì
la condotta immorale, quello che si riteneva fosse un comportamento socialmente riprovevole, non in
linea con i valori dominanti: l’ozio, l’ostentazione del lusso, l’inosservanza dei doveri militari, la falsa
testimonianza. La nota censoria era scritta materialmente nella lista censoria accanto al nome del
cittadino sanzionato. La nota censoria comportava l’ignominia, la disistima sociale e chiaramene il
declassamento. La nota censoria non era definitiva; i censori eletti successivamente a quelli che aveva
nominato la nota censoria, potevano o rinnovarla o cancellarla, sulla base di un’autonoma valutazione,
in merito al comportamento del cittadino. I censori sono garanti della moralità dei cittadini e dunque
valutavano la condotta morale di tutti i cittadini, anche dei Senatori; per cui, anche se i Senatori in
linea di principio erano inamovibili, perché Senatori a vita, potevano essere esclusi (attraverso
l’eiectio) dal consesso senatorio se ritenuti indegni. Cicerone diceva “i censori sorveglino la morale

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del popolo e non lascino un indegno in Senato”. L’adesione a determinate norme di comportamento è
considerato fondamentale per tutti. In definitiva, dal rispetto e dall’osservanza di queste norme,
dipendeva si l’accesso in Senato, sia l’eventuale permanenza nel consesso senatorio. In realtà,
attraverso il giudizio censorio, lo iudicium de moribus, la classe dirigente orientava il comportamento
dei cittadini. L’élite al governo è come se imponessero l’osservanza di un determinato modello di
comportamento in linea con i valori egemoni dell’età repubblicana. Uniformare in qualche modo il
proprio stile di vita ad un modello di comportamento considerato eticamente irreprensibile, contribuì
a saldare la compattezza della classe dirigente e del ceto medio romani; fu anche in forza di questa
adesione morale che Roma riuscì a diventare la potenza mondiale che conosciamo.

4. TRIBUNI DELLA PLEBE. A metà strada tra magistrature superiori e magistrature inferiori, si
collocano i tribuni della plebe. Nascono come magistrati
rivoluzionari, in occasione della prima secessione della plebe. Con il tempo, però, divennero dei veri e propri
leader politici della classe plebea. Contribuirono in maniera efficace sia al raggiungimento del compromesso
Licinio Sestio nel 367, sia al pieno pareggiamento tra i due ordini nel 287 a.C. Guidano dunque la lotta plebea
fino al pareggiamento. Partecipano alla gestione della res publica, perché si affiancano alla classe dirigente, la
nuova nobilitas patrizio-plebea. Assumono una posizione adeguata all’importanza che la plebe ha acquisito
sotto il profilo militare e politica. C’è una peculiarità da sottolineare di questa magistratura: ha una posizione
nella civitas singolare ed anomala, perché, dopo la parificazione, opera come una magistratura cittadina, ma
strutturalmente resta plebea. I patrizi non potevano accedere a questa carica a magistratuale; una magistratura
che nasce rivoluzionaria, diventa cittadina, ma strutturalmente resta plebea. Ricorrono per il tribunato della
plebe i caratteri visti per le magistrature repubblicane in generale. è una magistratura gratuita, temporanea
(annuale), elettiva (veniva eletta dall’Assemblea della plebe, il Concilium plebis), collegiale (sul numero dei
tribuni si discute, perché variò nel corso del tempo: da quando fu istituita salì, fino ad arrivare a a dieci. Ciò
non è altro che il riflesso dell’importanza che la plebe e questa magistratura stavano acquisendo), In merito
alla collegialità, vigeva il principio della pari potestà tra i tribuni. Potevano esercitare anche individualmente
il famoso ius intercessionis. Un’altra peculiarità è che i tribuni della plebe potevano esercitare i propri ptoeri
solo a Roma e avevano l’obbligo di rimanere nell’Urbe.
Questa magistratura ha svolto un ruolo d gran rilievo per molto tempo, dall’istituzione nel V secolo, fino al II
secolo a.C. Le cose cambiano nel I secolo a.C., nel corso del quale i tribuni della plebe persero gran parte della
lor importanza, perché, in età Sillana, Silla privò i tribuni della plebe dello ius intercessionis. Il tribuno diventa,
dal I secolo a.C., un’imago sine re, un’immagine senza sostanza, una maschera vuota. Dunque, tra i poteri dei
tribuni ricordiamo:
1. Ius intercessionis, il potere sicuramente più importante di questa carica magistratuale. Lo ius
intercessionis è il diritto di veto, il potere di bloccare qualsiasi atto magistratuale che fosse contrario
all’interesse della plebe. Il diritto di intercessio è lo sviluppo dell’originario auxilii latio, un potere di
intervento riconosciuto ai tribuni, nei confronti di un singolo plebeo minacciato soprattutto
dall’imperium consolare (infatti si parlava di auxilii latio adversus consules). Questo strumento fu
utilizzato come impareggiabile strumento di lotta sociale da parte dei tribuni, perché molto spesso fu
sufficiente minacciare di ricorrere all’intercessio per scendere a patti.
2. Ius agendi cum plebe: i tribuni avevano il potere di convocare l’assemblea della plebe, per l’elezione
dei magistrati plebei, i tribuni, gli edili plebei, sia per presentare alla plebe delle proposte legislative,
che se approvate dall’assemblea, diventavano plebiscita, delibere che vincolavano i plebei. Dopo il
287 a.C., con la lex Orthensia, però, avrebbero vincolato tutti i cives, al pari delle leggi Comiziali.
Diventerà addirittura il modo più frequente di legiferare a Roma; era più semplice perché non era
necessario prendere gli auspicia, e perché i Tribuni della plebe erano sempre a Roma, a differenza
degli spesso assenti Consoli, erano costretti a rimanere nell’Urbe.
3. Ius senatus abendi: a partire probabilmente dal 287 a.C., fu riconosciuto ai tribuni anche il potere di
convocare il Senato. Questo segna l’inizio di una forte collaborazione tra Senato e Tribuni. Il Senato
si servì spesso degli ampi poteri tribunizi per spingere all’ubbidienza qualche singolo magistrato
troppo indipendente rispetto alle delibere senatorie.

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4. Summa coercendi potestas: i tribuni non sono titolari di imperium, ma hanno una particolare coercitio,
la summa coercendi potestas. Con il riconoscimento del sacro sanctitas (inviolabilità) della figura del
tribuno, fu riconosciuta una sempre maggiore coercitio. Questo riconoscimento si basava su una
disposizione unilaterale della plebe, assunta in sede rivoluzionaria (Monte Sacro o Aventino) dai
plebei. Nel 449, una lex Valeria-Orazia, fatta approvare dai consoli Valerio e Orazio, eletti dopo la
parentesi del decemvirato legislativo, dà efficacia vincolante per tutto il popolo ad un riconoscimento
che la plebe aveva già fatto nel 494. Questa legge trasforma la decisione unilaterale, basata su un
giuramento della plebe, in un riconoscimento da parte di tutta la collettività basata su una lex vera e
propria. Data la lor inviolabilità, i tribuni potevano arrestare chiunque si fosse opposto al loro potere,
irrogare multe, irrogare anche la pena di morte all’attentatore, la così detta precipitatio ex
satio(l’attentatore veniva lanciato da una rupe). Fu riconosciuto ai tribuni anche il potere di
promuovere processi criminali; i tribuni potevano presentare l’accusa dinanzi all’Assemblea della
plebe, nel caso di processi multatici, relativi a reati puniti con multe. Con il tempo potranno
promuovere davanti ai Comizi centuriati anche processi per reati politici.

GLI EDILI Inizialmente gli Edili sono magistrati di origine plebea, nascono dalla I secessione del 494
a.C., quando la plebe si diede una propria organizzazione, creò una propria assemblea e si
diede i propri magistrati, tribuni e due edili. Inizialmente coadiuvavano i Tribuni; erano custodi dei templi
(edes, templi), in particolare di quello di Cerere. In quel tempio era custodito il tesoro plebeo. Nel 367 a.C.,
però, in occasione del Compromesso Licinio Sestio, l’edilità estende le sue competenze, ampliando le
competenze amministrative a tutta la città. Aumenta il numero degli edili, vengono creati due nuovi edili
patrizi, gli edili curuli. A partire del IV secolo, per compensare i patrizi della perdita del monopolio del
consolato, fu creato il pretore e due edili curuli. Dal IV secolo, questa magistratura diventa una magistratura
mista, formata da due coppie di magistrati: una coppia di edili plebei, di più antica istituzione, più due nuovi
edili patrizi, gli edili curuli. Vediamo se anche per questa magistratura ricorrono i caratteri generali delle
magistrature. Questa magistratura è gratuita nel senso che gli edili non percepiscono retribuzione; è una
magistratura annuale; è elettiva, gli edili plebei vengono eletti dalla plebe, dal Conciulium plebis, mentre i due
edili patrizi vengono eletti dai patrizi, dal Comizio tributo. È una magistratura composta da due coppie di
magistrati, ma per quanto riguarda il lavoro collegiale bisogna fare una precisazione: si ritiene che queste due
coppie di edili non formarono un collegio magistratuale unico, ma operavano a seconda delle loro funzioni, o
singolarmente o in coppia o collegialmente. Abbiamo sostanzialmente tre sfere di competenza:
• La cura urbiis: gli edili si occupavano della vigilanza della città, dell’ordine pubblico della civitas,
anche in luoghi chiusi. Avevano un compito importante anche in merito alle misure antincendio. È
possibile che questa funzione venisse svolta singolarmente da ciascuno degli edili, a cui veniva affidato
un quartiere della città, le regiones urbane.
• La cura ludorum: gli edili avevano competenza anche in merito al mantenimento dell’ordine pubblico
durante gli spettacoli. Fu attribuita, poi, agli edili anche l’organizzazione dei ludii. È possibile che
nell’esercizio di questa funzione, gli edili operassero a coppie.
• La cura annone: gli edili avevano la competenza in merito all’approvvigionamento alimentare della
città, in merito alla distribuzione delle scorte di cereali e anche alla sovraintendenza sui mercati. Il
mercato, come detto, è un momento di grande importanza della vita cittadina, e gli edili
sovraintendevano sui mercati e sul controllo dei prezzi dei beni alimentari. Nell’esercizio di questa
funzione lavoravano collegialmente.
Sappiamo che sono magistrati minori, e, dunque, non sono titolari dell’imperium, ma solo della potestas.
Tuttavia, avevano un particolare ius coercitionis; potevano irrogare multe ai contravventori, i disturbatori
dell’ordine pubblico. Il ricavato di queste multe era destinato ad una cassa speciale, utilizzata per l’allestimento
dei giochi pubblici. C’è un profilo di particolare rilievo, che concerne specificamente gli edili curuli; le
competenze erano pressoché uguali, ma gli edili patrizi hanno bisogno di un approfondimento. Gli edili patrizi
venivano detti curuli, perché avevano diritto, come pretori e consoli, alla sella curulis, una sedia simbolo del
potere giudiziario. Infatti, gli edili curuli avevano una limitata iuris dictio e, in questo ambito, lo ius edicendi,
il diritto di emanare editti. Avevano un potere giurisdizionale limitato alle liti di mercato. Avevano il diritto
di emanare editti (ius edicendi), così come i pretori; infatti, i diritti emanati dagli edili patrizi fanno parte della

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massa dello ius honorairium. Nel loro editto indicavano i criteri ai quali si sarebbero attenuti nella risoluzione
delle controversie sottoposte alla loro attenzione, le liti di mercato. Nell’editto degli edili curuli, vengono
indicati i criteri ai quali gli edili si sarebbero ispirati in caso di liti nate da vizi occulti della merce. Per esempio
qualora il venditore avesse taciuto volontariamente un difetto della merce venduta, si sarebbe riconosciuta al
compratore la possibilità di poter agire contro il venditore in modo da ottenere o una diminuzione o, addirittura,
la restituzione del prezzo pagato.

QUESTORI Hanno origine antichissima, non certa. A Roma, avevano soprattutto potestà finanziarie. La
questura rappresenta il primus gradus del cursus honorum, laddove la censura rappresenta
il coronamento della carriera politica. È una magistratura gratuita, onorifica e onoraria, annuale, eletti dal
popolo (dal Comizio tributo). Probabilmente, in origine, i questori venivano nominati direttamente dai consoli,
in quanto erano una sorta di collaboratori dei consoli. Poi, assumono una fisionomia autonoma. È una
magistratura caratterizzata sicuramente da una pluralità di titolari: inizialmente erano due, ma nel corso del
tempo il numero si moltiplicare, fino ad arrivare a venti questori. Operano sostanzialmente nel settore
economico:
• Controllavano l’erario (casse) del popolo romano, il così detto erarium saturni, perché custodito
presso il tempio di Sturno.
• Vigilavano sull’adempimento degli oneri tributari, sulla base dei tributi stabiliti nelle liste censorie.
• Perseguivano gli eventuali evasori fiscali, i debitori dello Stato.
• È possibile che i questori ebbero anche una limitata competenza nell’ambito della repressione
criminale. Curavano la fase istruttoria dei così detti “processi capitali”, cioè relativi a reati
particolarmente gravi, puniti con la pena di morte. Erano tenuti a ricercare l’autore del reato e le prove
a suo carico. Questor, in realtà deriva di querere, cercare, nel senso di ricercare l’autore del reato e le
prove della sua colpevolezza.
I primi due questori erano detti questores urbanii o erari, perché preposti al controllo dell’erario. Operavano
in ambito civile, restavano permanentemente a Roma. Furono poi aggiunti due questori militari, che si
occupavano sempre dell’ambito economico-finanziario, ma in ambito militare, in merito all’esercito e alle
legioni. Successivamente, probabilmente dal III secolo a.C, furono introdotti ai due urbani e ai due militari
altri quattro questori, i questores provinciali. Erano magistrati chiamati a coadiuvare i governatori provinciali
in campo economico-finanziari. Nel corso del I secolo a.C., il numero dei questori salirà a 20, come
conseguenza dell’espansione territoriale di Roma, con una crescente creazione di province e di conseguenza
una crescente creazione di questori provinciali. Aumentare il numero dei magistrati, indica che erano
aumentate le esigenze finanziare, amministrative, data l’espansione di Roma. Non solo per i questori, a ogni
magistratura ha la sua ragion d’essere: è una risposta organizzativa ad un’esigenza sociale.

Ci sono tante altre magistrature minori sulle quali non ci tratterremo. Le nuove esigenze creavano la necessità
di creare nuove figure magistratuali, molto spesso come cariche di supporto delle magistrature vere e proprie,
che con il tempo otterranno la propria autonomia. Tra le tante possiamo citare i triumviri monetales, magistrati
minori preposti al controllo della zecca e i tresviri capitales, magistrati minori addetti all’esecuzione delle pene
capitali. I tresviri capitales erano anche chiamati tresviri nocturni, perché si occupavano della vigilanza
notturna della città.

Tutte quelle trattate sinora sono magistrature repubblicane ordinarie, elette periodicamente, annualmente nella
maggior parte dei casi. Sono magistrature che ad assetto costituzionale maturo, venivano elette dal popolo con
regolarità. Oltre alle magistrature ordinarie, dobbiamo occuparci di una magistratura straordinaria, alla quale
si faceva ricorso in determinate circostanze: la dittatura, con la figura del dictator.

LA DITTATURA Il dictator è un magistrato straordinario, eletto in situazioni straordinarie. Era dotato


di summa potestas e di summum imperium: un potere addirittura superiore a quello dei
consoli. Era accompagnato da 24 littori, il doppio di ciascun console, simbolo della concentrazione del suo
potere. Vediamo se ricorrono alcuni ei caratteri evidenziate per le magistrature repubblicane ordinarie. Era una
carica gratuita, temporanea, addirittura più breve: poteva durare in carica per soli sei mesi. Non era una carica

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elettiva, è una carica di nomina consolare. È una carica magistratuale non collegiale, monocratica, anche se
viene coadiuvato da un magister equituum, una sorta di vice dittatore, subordinato, da lui nominato. In
relazione a questa figura magistratuale, si suole distinguere tra i così detto dicator optimo iure, con pieni poteri,
e il dictator imminuto iure, con poteri ridotti. Il primo era la figura tipica di dictator, sulla quale si è modellato
il regime di questa magistratura, nominato in occasione di pericoli gravi per la vita interna o la vita esterna.
Veniva nominato in circostanze di particolare gravità, che in sostanza richiedevano una direzione unica, la
concentrazione del potere in un’unica persona per fronteggiare l’emergenza. Il dictator imminuto iure, è il
dittatore con un potere circoscritto limitato ad una determinata funzione da svolgere, che poteva riguardare il
campo sacrale, amministrativo, ecc. Considerando il dictator optimo iure, i poteri sono:
• Suprema potestas
• Supremo imperium, imperium domi e imperium militiae
• Ius agendi cum patribus
• Ius agendi cum populus
• Piena coercitio, quale attributo del suo assoluto imperium.
Insomma, durante il semestre del dictator, erano sospese le due massime garanzie costituzionali repubblicane,
l’intercessio tribunizia e la provocatio ad populum, il diritto del cittadino di appellarsi al popolo. L’unico limite
di questa magistratura è la minima durata a fronte dell’intensità dei poteri del dictator. Questa magistratura
nasce probabilmente tra la fine del VI secolo a.C. e l’inizio del V secolo a.C., in concomitanza con l’istaurarsi
di questo nuovo assetto costituzionale. Livio parla di un novum genus imperii, una nuova forma di potere, non
diversa da quella appena abolita dei re, in quanto ad ampiezza dei poteri, ma caratterizzata e connotata dalla
breve durata. Le ultime dittature risalgono al III secolo a.C; nel corso del II secolo non si fa più ricorso alla
dittatura, ma nel I secolo a.C., questa magistratura straordinaria del dictator viene strumentalizzata: rivive, ma
assolutamente snaturata, perché sia Silla, sia Cesare, faranno rivivere la dittatura. Silla diviene dittatore a vita,
diventa una dittatura senza limiti di tempo. Anche a Cesare nel 48 gli viene attribuita una dittatura a tempo
indeterminato, nel 44 a.C., una dittatura in perpetum, a vita. Dopo Cesare, infatti, non si ricorrerà più a questo
istituto e nel 44, Marco Antonio farà approvare una legge sull’abolizione di questo istituto.

Abbiamo visto che i caratteri generali individuati per le magistrature repubblicane, in qualche caso subiscono
delle eccezioni; questo non ci deve meravigliare, perché le magistrature repubblicane nascono in momenti
diversi, gradualmente, e quindi ciascuna magistratura ha una sua ragion d’essere storica. Ogni magistratura
risponde esigenze di una società in continua evoluzione. Le trasformazioni sociali arriveranno a tal punto da
richiedere un nuovo mutamento istituzionale.

LE ASSEMBLEE POPOLARI

Oltre agli antichi Comizi Curiati, che sopravvivono con una specifica funzione, operano a Roma ben tre altre
Assemblee. Anch’esse nascono in momenti diversi con peculiari funzioni. Sono:
• Comitia centuriata, il Comizio centuriato, l’assemblea più importante
• Comitia tributa, il Comizio tributo
• Concilia plebis, il Concilio della Plebe
Il Comizio centuriato e il Comizio tributo sono assemblee relative al popolo nel suo insieme, mentre il Concilio
della plebe è un’assemblea della sola plebe.
Il Comizio Curiato, intanto, sopravvive: nasce come prima riunione dei cittadini riuniti in curie. Abbiamo
visto che molto probabilmente, questa assemblea in età monarchica non aveva potere deliberativo, ma con la
lex curiata de imperio, conferiva i pieni poteri al rex. Questa assemblea, in età repubblicana, aveva il compito
di conferire formalmente l’imperium ai magistrati superiori, approvando la lex curiata de imperio. Quindi, non
ha nemmeno in età repubblicana un potere deliberativo. Giacché in età repubblicana era venuta meno
l’organizzazione in Curie, questi comizi si riunivano attraverso i 30 littori, in ricordo delle antiche trenta curie;
probabilmente, quindi, non c’era un intervento attivo dei cittadini, si riunivano solo simbolicamente i littori.
In merito al Comizio Centuriato, dobbiamo riconoscere l’origine di questa Assemblea nell’ordinamento
centuriato, creato da Servio Tullio. L’ordinamento centuriato aveva un’origine militare, la Centuria era un

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reparto dell’esercito. In età repubblicana, molto probabilmente nel corso del V secolo a.C., l’ordinamento
centuriato viene posto alla base della più importante delle assemblee politiche del popolo romano: al suo
interno venivano ascritti i cives atti alle armi, ossia i cives di sesso maschile dai 17 ai 60 anni. Era un
ordinamento su base censitaria. La composizione dei Comizi centuriati si assestò anch’essa gradualmente, nel
corso dell’età repubblicana, parallelamente alla fase di assestamento della res publica. Le fonti ci descrivono
la struttura di questo Comizio fornendoci uno schema dettagliato, così come appariva alla loro epoca. Il dato
che emerge è che i cittadini erano divisi in classi, in base al censo, e a ciascuna delle cinque classi, spettava un
determinato numero di centurie. Il numero totale delle Centurie era 193, diciotto di cavalieri, centosettanta
centurie di fanti e cinque centurie di inermi. Al vertice di questo ordinamento vi erano le diciotto centurie dei
cavalieri, gli equites. Vi rientravano i cives più ricchi e ragguardevoli della città, i più altri rappresentanti della
nobilitas patrizio-plebea. Si dotavano non solo dell’armatura, ma anche del cavallo. Seguivano centosettanta
centurie di fanti, suddivisi in cinque classi di censo:
1. La classe: cittadini con patrimonio almeno pari a 100.000 assi. È assegnato un numero di centurie pari
ad ottanta alla prima classe.
2. II classe: cittadini con un patrimonio almeno pari a 75.000 assi. A questa classe sono assegnate venti
centurie.
3. III classe: cittadini con un patrimonio almeno pari a 50.000 assi. A questa classe sono assegnate venti
centurie
4. IV classe: cittadini con patrimonio almeno pari a 25.000 assi. Anche la quarta classe ha venti centurie.
5. V classe: cittadino con patrimonio almeno pari a 11.000 assi. È assegnato un numero di centurie pari
a trenta.
Chiudono l’ordinamento centuriato cinque centurie di inermi, che non avevano un patrimonio tale per entrare
nella quinta classe e non potevano comprarsi l’armatura. Sono le cifre che ci riportano gli autori più attendibili.
Nelle fonti, il censo è calcolato in valori monetari; c’è una scala di censo con uno scarto anche minimo tra
l’una e l’altra classe. Venendo alle cinque centurie di inermi, che chiudono quest’ordinamento, vediamo da chi
erano costituite: due erano centurie di artigiani, fabbri (genio militare), altre due di musicisti (fanfara militare),
e l’ultima dagli immunes militia, soggetti esenti dal servizio militare e in guerra svolgevano qualsiasi mansione
venisse loro dedicata (entravano a far parte degli inermi non in base al censo, ma al caput, alla loro persona).
C’è chiaramente una prevalenza del numero di centurie assegnate ai più ricchi. Non c’era un numero fisso di
persone appartenenti alla centuria, ma andava in base alle persone classificate nella determinata classe.
Potevano essere convocati solo da coloro che avevano lo ius agendi con populo, ciò da chi aveva l’imperium:
consoli, pretori e dictator. Si riunivano nel Campo Marzio, al di fuori della città, dato il carattere militare
dell’ordinamento. Il Comizio Centuriato aveva una triplice funzione:
• Elettorale: è il Comizio Centuriato ad eleggere i magistrati superiori: consoli, pretori e censori.
• Legislativa: è il Comizio Centuriato ad approvare le leggi ed emanarle. Sono le così dette leges
centuriate. Dovevano esprimersi su una rogatio, la proposta di legge erogata dai magistrati superiori.
I consoli, per esempio, titolari del potere di iniziativa legislativa, sottoponeva la sua proposta alla
votazione del Comizio. Così come poteva approvare la proposta, poteva respingerla, ma non poteva
emendarla, cioè non poteva attuare dei cambiamenti. Il potere di emendare spettava sempre al
magistrato.
• Giurisdizionale: il Comizio Centuriato, svolgeva anche una funzione giurisdizionale nel campo nella
repressione criminale. Era competente nei processi capitali, i più gravi, relativi a crimina puniti con la
pena capitale. Era il popolo, chiamato ad emanare una sentenza di assoluzione o di condanna
dell’accusato.
Modalità di votazione
La Centuria era l’unità votante. Per approvare una delibera, era necessaria la maggioranza del voto espresso
dalle centurie. Il singolo cittadino votava certamente all’interno della Centuria di appartenenza, ma il suo voto
serviva a formare la maggioranza all’interno della Centuria, poi l’unità votante era la Centuria. Ciò significa
che una delibera veniva approvata con il voto favorevole di 98 centurie su 193. Da questo deduciamo solo una
parte del nostro discorso, perché dobbiamo sottolineare qual era l’ordine della chiamata al voto. In realtà erano
chiamate a votare le Centurie, ma non contemporaneamente. L’ordine della chiamata al voto rispecchiava
l’ordine di censo. Erano chiamati a votare per prima i cavalieri, gli equites, le diciotto centurie di cavalieri al

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vertice di questo ordinamento. Seguivano le ottanta centurie assegnate alla prima classe. Se il voto dei cavalieri
delle diciotto centurie fosse stato concorde con il voto dei cittadini della prima classe, gli altri cittadini non
venivano chiamati ad esprimersi, il loro voto non avrebbe cambiato la situazione. È solo una democrazia
apparente. Livio scrive: “solo eccezionalmente vennero chiamati alla votazione gli appartenenti alla seconda
classe; quasi mai si fecero votare i cittadini della classi inferiori e forse mai si scese così in basso da pervenire
agli ultimi (ad infimos)”. Questo sistema dei Comizi era ovviamente favorevole ai più ricchi, alle classi più
abbienti, perché godevano della quasi totalità delle centurie, pur essendo numericamente inferiori. È chiaro
che è un assetto fortemente connotato in senso timocratico e manifestamente favorevole ai più ricchi e i più
abbienti. Proprio per temperare e mitigare questo meccanismo così palesemente a favore dei più ricchi, le fonti
attestano due riforme che sarebbero state promosse. Ricordiamo chi si occupava di assegnare i cives nelle varie
classi: i censori, in sede di censimento quinquennale, inseriscono i nominativi dei cives insieme con i loro
patrimonio. Il patrimonio era calcolato soprattutto in base alla ricchezza immobiliare; alla fine del IV secolo,
però, sarebbe stata promossa da un censore un’importante riforma che incise immediatamente sulla
composizione delle classi. Questa riforma risalirebbe al 312 a.C., quando il censore Appio Claudio stabilì che
il patrimonio dovesse essere calcolato sulla base del patrimonio complessivo del cittadino, non solo
immobiliare, ma anche mobiliare. Questa riforma è un riconoscimento delle nuove realtà economiche: dà
riconoscimento ai ceti emergenti che erano soprattutto dediti al commercio. Le fonti attestano anche una
seconda riforma “democratica”, una riformazione del Comizio centuriato in senso più democratico. Allo stato
delle fonti a nostra disposizione non possiamo dire con precisione la data di questo atto riformatore, ma
possiamo collocarlo attorno alla metà del III secolo a.C. Non possiamo nemmeno ricostruire i dettagli di questa
riforma, ma il contenuto sostanziale. Dionigi di Alicarnasso ricorda che questa riforma era già operante alla
sua epoca (I secolo a.C.): la struttura essenziale del Comizio resta inalterata, ma una prima modifica avrebbe
riguardato le centurie dei fanti e la loro distribuzione, una seconda modifica avrebbe riguardato l’ordine della
chiamata al voto. L’assetto essenziale fondamentale resta inalterato, rimangono 193 centurie, così come le
diciotto centurie al vertice e le cinque centurie di inermi; la modifica avrebbe riguardato le 170 centurie di
fanti. Alla prima classi sarebbero state sottratte dieci centurie (passando da ottanta a settanta), le restanti 100
divise equamente nelle altre classi, venticinque centurie ciascuno. È importante perché ora i cavalieri e i fanti
della prima classe non avevano più la maggioranza assoluta, erano 88 e almeno veniva chiamati
necessariamente a votare gli appartenenti alla seconda classe. Per questo può essere definita “democratica”,
perché allargava il voto (che era aperto a tutti gli appartenenti alle centurie, ma con i limiti precedentemente
delineati) alla seconda classe di fanti. C’è anche un’altra modifica in merito all’ordine della chiamata al voto.
Gli equites perdono il privilegio di votare per primi; questo privilegio sarebbe stato conferito ad una fra le
settanta centurie (centuria prerogativa), estratta a sorte. Si dava particolare importanza al presagio, l’omen: si
riteneva che il primo voto avesse una capacità orientativa e un valore simbolico rispetto all’esito finale.
Possiamo qualificare questa riforma “democratica” solo entro certi limiti, perché il Comizio Centuriato rimane
connotato in senso timocratico e resta favorevole alle classi più abbienti, nonostante questi due correttivi in
senso democratico.
Il Comizio tributo, la cui genesi tanto si discute, nasce nel corso dell’esperienza repubblicana, forse nel IV
secolo. È una nuova assemblea di tutto il popolo, basata sulle tribù territoriali. Vediamone l’origine. È incerta
la sua origine, sia cronologicamente sia in merito alla specifica identità di questo Comizio. Si è discusso in
particolare riguardo ad una possibile identificazione di questo Comizio Tributo con l’Assemblea della Plebe,
anch’esso tributum. Abbiamo in sostanza tre ipotesi ricostruttive:
1. Alcuni studiosi il Comizio tributo si identifica con l’Assemblea della Plebe fin dalle origini. Si
tratterebbe della stessa assemblea, nata nel 494 a.C., in occasione della prima secessione.
2. Secondo altri studiosi si tratterebbe della stessa assemblea plebea, ma dopo il 287 a.C. Sarebbe una
nuova denominazione dell’Assemblea della plebe, dopo la parificazione degli ordini sociali. Quando
l’Assemblea diventa organo cittadino in grado di emanare provvedimenti per tutto il popolo, avrebbe
perso la sua natura di organo politico di classe.
3. In realtà, però, si esclude per lo più che i due consessi si identifichino e sovrappongano. Ci sono almeno
tre elementi che inducono a ritenere che ci troviamo difronte ad Assemblee differenti. In primo luogo,
la composizione dei due consessi: il Concilio della plebe è formato dalla sola plebe, il Comizio tributo
è formato da tutto il popolo, patrizi e plebei. In secondo luogo, cambiano i magistrati convocanti: il

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Concilio della plebe è convocato dai magistrati plebei, dai Tribuni o dagli Edili, mentre il Comizio
Tributo è convocato dai magistrati dotati dello ius agendi cum popolus, consoli, pretore e dictator.
Infine, i Concilia plebis potevano essere convocati senza la necessità di prendere gli auspicia, mentre
il Comizio tributo, al pari del Comizio centuriato poteva essere convocato avendo preso
precedentemente gli auspicia. Questo dubbio si giustifica perché nelle fonti in qualche caso
circoscritto si parla di Comizio tributo in riferimento all’Assemblea della plebe, ma questa indicazione
può probabilmente giustificarsi perché ad un certo punto la composizione di questi due consessi venne
a coincidere nella pratica, pur restando formalmente distinti e separati. In seguito alla rarefazione dei
gruppi gentilizi è la plebe che viene quasi a coincidere con la stessa popolazione. Nel III secolo a.C.,
su una popolazione di 300.000 cittadini, i patrizi furono circa qualche centinaio/migliaio
Sappiamo che la tradizione ascrive a Servio Tullio anche l’ideazione dell’ordinamento tributo. Addirittura,
risalirebbe al VI secolo a.C., in età monarchica. È stato Servo Tullio a sostituire le tre vecchie tribù genetiche
con diverse tribù territoriali. In un primo momento, le quattro tribù urbano sostituirono nell’immediatezza le
tre tribù genetiche, poi furono introdotte tribù rustiche alle quali si apparteneva in base alla localizzazione del
fondo. Questo ordinamento tributo nel corso dell’età repubblicana viene posto alla base di una nuova
Assemblea del popolo, il Comizio tributo. È incerta la data precisa della nascita di questa Assemblea, che
presumibilmente possiamo collocare nel IV secolo a.C. Poteva essere convocato da consoli, pretore e dictator,
titolari dell’imperium. Il luogo di riunione del Comizio tributo era il foro. Anche il Comizio tributo svolgeva
una triplice funzione:
• Elettorale: eleggeva i magistrati minori, gli edili curuli e i questori
• Legislativa: votava le leggi, dette leges tribute. Furono probabilmente di numero maggiore rispetto
alle leges centuriate. I due Comizi erano titolari di un identico potere legislativo: il magistrato poteva
indifferentemente presentarne la sua proposta di legge al Comizio centuriato o al Comizio tributo, ad
eccezioni di due leggi di competenza esclusiva del Comizio centuriato. Sono la lex de bello indicendo,
con la quale il popolo deliberava l’entrata in guerra e la lex de potestate censoria, con la quale il popolo
conferiva formalmente la potestas ai censori.
• Giurisdizionale: la competenza del Comizio tributo era in merito ai così detti processi multatici,
processi relativi a reati puniti solo con multe pecuniarie, in questo caso irrogate da magistrati patrizi.
Modalità di votazione
L’unità votante era la tribù. Il singolo votava all’interno della propria tribù e il suo voto contribuiva a formare
la maggioranza all’interno della sua tribù; ai fini della delibera però si considerava il voto espresso dalla tribù.
Nel 241 a.C., le tribù pervennero al numero definitivo di 35: 4 tribù urbane e 31 tribù rustiche. Dalla metà del
III secolo a.C., il voto concorde di 18 tribù su 35 costituiva la maggioranza. Questo Comizio sembra ispirato
ad una maggiore democraticità rispetto al Comizio Centuriato, perché tutti i cittadini venivano chiamate al
voto contemporaneamente, sebbene priva delle attività di votazione si sorteggiasse la tribù i cui risultati
dovevano essere proclamati pubblicamente per prima. Le fonti ricordano due importanti riforme del Comizio
tributo, entrambe risalenti al IV secolo a.C., una al 312 a.C., promossa sempre dal censore Appio Claudio,
l’altro al 304 a.C., promossa del censore Fabio Rulliano. In merito alla prima riforma, Livio afferma che
“Appio distribuì gli umili in tutte le tribù e corruppe il foro e il Campo”: Appio avrebbe inciso in maniera
rilevante sulla struttura di entrambi i Comizi, centuriati e tributo, corrompendo, sconvolgendo gli equilibri
interni alle due Assemblee. Stravolse la struttura dei due consessi accogliendo e distribuendo i nullatenenti in
tutte le tribù. Anche Diodoro Siculo ricorda la riforma di Appio, che avrebbe concesso a tutti i cittadini il diritto
di scegliersi la tribù di appartenenza. Secondo la testimonianza di Livio e di Diodoro, Appio avrebbe concesso
ai nullatenenti di entrare a far parte delle tribù, però, nel 304 a.C. Fabio Rulliano, per ristabilire la concordia
avrebbe separato i nullatenenti, inserendoli nelle sole 4 tribù urbane, in contrapposizione alle restanti tribù
rustiche nelle quali venivano iscritti i proprietari terrieri. Quali sono i requisiti richiesti per l’accesso alle tribù
territoriale prima e dopo Appio? In che senso Rulliano sarebbe intervenuto per ristabilire la concordia? Per la
maggior parte degli studiosi è possibile pensare che prima di Appio partecipassero alle tribù territoriali solo i
proprietari terrieri, ma con Appio i nullatenenti furono ammessi e inseriti in una qualunque delle tribù
territoriali. Rulliano avrebbe preso una decisione con il fine di ristabilire la concordia, perché avrebbe mediato
fra due condizioni estreme: l’esclusione totale dei nullatenenti dalle tribù territoriali (prima di Appio) e la
indiscriminata ammissione dei nullatenenti in qualsivoglia tribù territoriale (dopo Appio). Lo avrebbe fatto,

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decidendo di ammettere i nullatenenti nelle tribù, ma relegandoli nelle sole quattro tribù rubane; per questo
parliamo di compromesso, di concordia. Osserviamo due aspetti: certamente nel Comizio tributo anche i
piccoli proprietari terrieri avevano la possibilità di far sentire il proprio peso politico; anche loro erano inserite
in una delle numerose tribù rustiche, che arrivano al numero definitivo di trentuno nel 241 a.C.
Indipendentemente dall’estensione del proprio fondo, ma solo in base alla localizzazione i porprietari vengono
inseriti nelle tribù: anche il piccolo proprietario terriero esprimeva il proprio voto all’interno della propria tribù
e cotnribuiva a formare la maggioranza al pari dei grandi proprietari. Questa considerazione ne andrebbe
aggiunta un’altra: gli umili, e più in generale i non possidenti, erano delegati nelle solo quattro tribù urbane,
incidendo ben poco in questo Comizio. Sebben fossero ammessi a partecipare a questa Assemblea, avevano
uno scarso peso politico, disponevano in totale di 4 voti. Il loro peso politico era scarso rispetto ai proprietari
fondiari che dominavano le trentuno tribù rustiche. In definitiva, si può parlare anche per il Comizio tributo di
una democrazia apparante e comunque solo entro certi limiti. I nullatenenti, infatti, non erano in grado di
incidere realmente nella votazione.
L’ultima assemblea è il Concilio della Plebe, i così detta Concilia plebis tributa. Il Concilio della Plebe è
l’assemblea della plebe, costituita dai soli plebei, a differenza del Comizio Centuriato e del Comizio tributo.
Va sottolineata anche la diversa denominazione: il Comizio indica l’assemblea di tutto il popolo, mentre il
Concilio solo della plebe. Il Concilio della plebe nasce in occasione della prima secessione dei plebei, allor
quando la plebe si da una propria organizzazione, con una propria assemblea e propri magistrati. La plebe era
convocata per tribù territoriali: questa misura fu stabilita nel 471 a.C., in seguito al plebiscito Bolerone. Il
plebiscito Bolerone è una deliberazione che la plebe avrebbe assunto, in base alla quale i magistrati plebei
(tribuni ed edili), dovevano essere eletti da un’assemblea della plebe convocata per tribù territoriali. Questa
struttura comportava una selezione all’interno della classe plebea: i plebei nulla tenenti sarebbero stati esclusi
dalla partecipazione all’Assemblea della plebe, e poi, successivamente anch’essi regalati nelle sole quattro
tribù urbane. I Concili della Plebe potevano essere convocati solo dai magistrati plebei. Questa assemblea, tra
l’altro, poteva essere convocata senza prendere precedentemente gli auspici. In origine si riunivano
sull’Aventino, poi, nel corso dell’età repubblicana nel foro. Anche il Concilio della plebe ha una triplice
funzione:
• elettorale: eleggono i magistrati plebei: i 10 tribuni della plebe (dal 449) e i 2 edili plebei.
• legislativa: i Concili della Plebe approvano le delibere della plebe, i plebis-scita (decisioni della plebe).
Esse vincolavano solo i plebei fino al 287 a.C.; in seguito alla lex Orthensia i plebisciti furono
equiparati alle leggi approvate dai Comizi, iniziando a riguardare tutto il popolo.
• giurisdizionale: anche i Concilia plebis tributa hanno una competenza in ambito giurisdizionale; sono
competenti nei processi multatici, processi relativi a reati meno gravi, puniti con multe.
I Concili della Plebe, dopo il 287 a.C., acquistano un peso sempre maggiore all’interno della civitas. Diventa
in sostanza come un organo cittadino; non siamo più di fronte ad un organo rivoluzionario, così come è nato.
C’è una peculiarità: quest’organo, pur funzionando come un organo cittadino, resta plebeo. Si assiste in
sostanza ad un fenomeno importante, alla ricezione da parte delle civitas, di un organo proprio della plebe. È
possibile che nel tempo le due assemblee tribute, i Comizi tributi e il Concilio della plebe, pur teoricamente
sempre distinte, vennero a coincidere nella sostanza. La plebe cresce numericamente e finisce con il coincidere
quasi con tutto il popolo. Ovviamente, in seguito ad un graduale venir meno delle gentes patrizie.

Sottolineiamo adesso due connotati comuni a tutte e tre le assemblee repubblicane di cui ci siamo occupati:
1. CONVOCAZIONE: tutte e tre le Assemblee repubblicane, non potevano auto-convocarsi. Era sempre
necessaria l’iniziativa di un magistrato.
2. TRIPLICE FUNZIONE: tutte e tre le Assemblee avevano funzione elettorale, legislativa e
giurisdizionale.

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IL SENATO
In qualche modo il Senato è il baricentro dell’equilibrio istituzionale, tra le Assemblee e le magistrature. Anche
se sul piano costituzionale furono le assemblee a porsi come centro propulsivo dell’organizzazione del
governo, poiché avevano tre funzioni essenziali, dal punto di vista politico fu il Senato a porsi come organo
mediatore di questo assetto istituzionale. Rappresentò la stabilità politica di Roma e assicurò una linea di
continuità duratura che i magistrati non potevano assicurare: è un organo statico e permanente, a fronte della
temporaneità delle cariche magistratuali. Inizialmente era costituito da 100 patres, probabilmente scelto dallo
Stesso Romolo, tra le genti più esposte del patriziato. In età repubblicana erano 300, scelti tra coloro che
avevano già intrapreso la carriera politica. La lectio senatus, la scelta dei senatori, ine età monarchica spettava
al rex, in età repubblicana spettava ai consoli. Tuttavia, dal IV secolo a.C., in seguito al plebiscito Ovinio, la
competenza nella scelta dei senatori fu attribuita ai censori. Venivano scelti gli optimi, dovevano avere un
comportamento irreprensibile: in linea di principio qualunque cittadino avrebbe potuto essere senatore. In
pratica, si venne ad affermare la prassi secondo la quale i censori dovevano scegliere i senatori tra gli ex-
magistrati. Si venne a creare una sorta di gerarchia, all’interno del senatori: censorii (ex censori), consulares
(ex consoli) , i pretorii ( ex-pretori) e così via. Il princeps senatus era il più anziano tra gli ex censori, ed aveva
la prerogativa di votare per primo. Non tutti gli ex magistrati, però, entravano in Senato, non era un diritto:
piuttosto esisteva un dovere per i censori di scegliere tra color che oltre ad aver tenuto una condotta
irreprensibile avevano già tenuto cariche magistratuali.
Il Senato divenne l’organo più prestigioso, perché non era nell’interesse del magistrato in carica diminuire il
prestigio del Senato, e rispettavano le indicazioni: gli stessi magistrati, infatti, volevano entrarne a far parte. Il
numero di 300 senatori restò stabile per circa 5 secoli, dal VI secolo a.C al I secolo a.C. Nel primo secolo,
prima Silla e poi Cesare, aumentarono il numero di Senatori; progressivamente passò da 300 a 600 e da 600 a
900. Avvenne che il Senato fosse inflazionato dalla presenza di elementi anche non derivanti dalla carriera
magistratuale. Così iniziò anche la decadenza del declino di questo istituto.
I senatori avevano un ruolo vitalizio, si restava senatori a vita. Dobbiamo comunque sottolineare che i senatori
non erano assolutamente inamovibili. In linea di principio si restava senatori a vita, ma ogni 5 anni, quando vi
era la lectio senatus, i censori avrebbero potuto escludere qualche senatore per indegnità. Abbiamo parlato, a
tal proposito di eiectio. È quindi una carica a vita, ma non è assolutamente inamovibile, essendo anche il
senatore soggetto al giudizio censorio. Il Senato poteva essere convocato solo dai magistrati titolari di ius
agendis cum patribus: console, pretore e dictator. Tuttavia, dal 287 a.C., fu riconosciuto anche ai Tribuni della
plebe il potere di convocare il Senato e partecipare alle sedute. Il Senato si riuniva nella così detta Curia
Ostilia, forse edificata dal terzo re di Roma, Tullo Ostilio, situata nel cuore della città, vicino al foro. La seduta
si apriva con una relatio, una relazione del magistrato che convocava, il quale illustrava l’argomento sul quale
i Senatori avrebbero dovuto discutere ed esprimersi, dando il proprio consultum (parere). Seguiva una
discussione: ogni senatore esprimeva il proprio parere, in ordine di rango. Il primo ad esprimere il parere era
il princeps senatus. Essendo trecento, si votava per discessionem, con la materiale separazione da un lato e
dall’altro dell’aula, dei senatori favorevoli e dei senatori contrari. Seguiva poi la relazione del testo del Senatus
consultum: esso veniva conservato nel tempio di Saturnio.
Le funzioni sono molteplici. Esamineremo però solo le tre fondamentali. Veniamo alle funzioni:
• Interegnum: la più antica attribuzione del Senato rimase a lungo la proditio inter regis, la designazione
di un inter-re tra i membri del Senato. Si trattava di una figura al quale affidare il governo della civitas
in caso di mancanza di entrambi i consoli. Si instaurava un interregnum, una fase di transizione tra la
scomparsa dei consoli in carica e l’elezione dei nuovi consoli. L’inter-re esercitava potere per cinque
giorni, trascorsi i quali, il potere veniva trasferito ai nuovi consoli. Spettava all’inter-re la
convocazione del Comizio centuriato per l’elezione dei nuovi consoli, il che avveniva quando i segni
divini lo avessero permesso. Anche in età repubblicana è il Senato, attraverso la proditio inter regis, a
fronteggiare l’emergenza istituzionale, causata dal venir meno della magistratura suprema.
• Actoritas patrum: è un potere di ratifica, da parte dei Senatori, delle delibere comiziali, legislative ed
editoriali. Le delibere comiziali, solo con l’actoritas patrum entrava in vigore. In un certo senso,
perfezionava la decisione comiziale, era integrativa. Dobbiamo precisare che in un primo momento

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l’auctoritas patrum era una ratifica successiva della delibera comiziali, una ratifica ex post: in sostanza
il Senato poteva controllare la validità formale della delibera. Nel IV secolo a.C, questo istituto subì
una modifica sostanziale: in seguito ad una lex publilia filonis nel 339 a.C, l’auctoritas patrum diventò
da successiva a preventiva. Dopo il 339 a.C., divenne un parere preventivo su una proposta di legge,
non su una legge presentata in sede comiziale ed approvata. Questa legge del 339 a.C., riguardava in
particolare le delibere legislative; fu stabilito che il magistrato rogante avrebbe dovuto chiedere
l’auctoritas prima, e non dopo. Durante il III secolo, una lex Menia, avrebbe esteso questa innovazione
anche alle proposte elettorali; da questo periodo anche la lista dei candidati alle elezione doveva essere
sottoposta preventivamente al parere del Senato.
• Senatus consulta: era l’attività più importante. L’attività consultiva si estrinseca attraverso i Senatus
consulta. Questa funzione è fondamentale, perché è attraverso l’attività consultiva che il Senato
domina la vita politica di Roma; in questo modo si pone come l’organo di direzione politica. Infatti,
sono la consulta a permettere al Senato di dirigere le decisioni. Erano pareri dati ai magistrati supremi
che ne facevano spontaneamente richiesta, o su sollecitazione dello stesso Senato. È attraverso questa
attività di consulenza che il Senato si trasforma da organi di consulenza a vero e proprio organo di
governo. Questi autorevoli consigli influenzano chiaramente l’attività di governo. I consulta, però,
non sono vincolanti giuridicamente, ma potremmo dire che sono politicamente obbligatori. Sono
obbliganti politicamente, i magistrati sono esecutori del volere dei senatori (così le fonti sui magistrati:
“in potestate senatus”). È il Senato l’organo che ha le redini dell’attività di governo. L’obbedienza alle
direttive senatorie, in realtà si giustificava perché il magistrato era consapevole che uniformandosi al
consulto senatorio, in primo luogo avrebbe tratto vantaggi per la sua carriera politica, in quanto,
essendo un aspirante senatore, avrebbe tratto vantaggi in vista del suo futuro e auspicato ingresso nel
consesso. In età imperiale, il Senato consulto diverrà giuridicamente vincolante e acquisisce potere
normativo diretto.
Ricordiamo tra le altre molteplici funzioni, che al Senato spettava il controllo finale, la supervisione di tutte le
entrate e uscite finanziarie della res publica; ancora, la competenza in politica estera, per le relazioni
diplomatiche, che determinava una forte ingerenza del Senato in campo militare. Venne molto spesso a
coordinare le operazioni belliche. In momenti di crisi per la res publica, il Senato si servì del Senatus
consultum ultimum: nell’imminenza di un pericolo gravissimo, il Senato sospendeva le due massime garanzie
costituzionali repubblicane, la provocatio ad popolum e l’interecessio. Il Senato, attribuisce ai consoli in carica,
poteri straordinari di azione, fino ai limite del lecito. I consoli avrebbero dovuto fare tutto ciò che fosse
necessario per salvare la res publica. È in qualche modo l’organo pilastro di tutto il sistema repubblicano.

Fonti del diritto

Tra le fonti del diritto individuiamo sicuramente le XII tavole, che rappresentano il primo testo scritto della
storia delle leggi di Roma. Sono una risposta concreta a quella domanda di certezza del diritto, avanzata dalla
plebe. Sono collocabili alla metà del V secolo a.C. 451/450 a.C. Ci dobbiamo occupare però anche delle leges
pubblicae, approvate dalle assemblee (compresi i plebiscita), gli edicta magistratuali e i responsa prudentium,
dei primi giuristi laici romani. Inquadreremo la giurisprudenza laica, che si sostituisce alla giurisprudenza
religiosa.

LEGES PUBBLICAE Partiamo da alcune definizioni della lex, che troviamo nelle fonti. Analizzeremo
tre definizioni molto significative:
1. Ateio Capitone (I a.C- I d.C): da Aulo Gellio (Noctes Atticae) “ Lex est generale iussum populi aut
plebis rogante magistratu” ( La legge è il comando generale del popolo o della plebe su proposta di
un magistrato ). Già da questa definizione conosciamo che la legge è mediazione tra magistrato e
popolo.
2. Gaio (II secolo d.c): dalle Insititutiones, un’opera a scopo didattico in quattro libri. “Lex est quod
populus iubet atque constituit” (La legge è ciò che ordina e stabilisce il popolo),

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3. Papiriano (II-III secolo d.C.): la legge è “commune preceptum et communis reipubblicae spontio” 8
(regola generale e impegno comune della repubblica). Per communis spontio, Papiriano vuole indicare
che si tratta di un atto comune che vede la partecipazione di tutti i cives, dal quale sono tutti vincolati.
Il genitivo “rei pubblicae”, poi, sottolinea che non si tratta di un atto privato, ma un atto della res
publica, diremo oggi di “Stato”. È un atto che vede la partecipazione di tutto l’apparato costituzionale
repubblicano, nelle sue componenti basilari: magistrato, Comizio, Senato. La lex, insomma si pone
come un momento di convergenza istituzionale: pur nella loro diversità, partecipano alla formazione
di questo atto tutti i principali organi, nell’interesso della comunità. Il magistrato ha l’iniziativa
legislativa, il popolo organizzato in Concili e Comizi ha la potestà legislativa (approva o meno), il
Senato ha il potere di ratifica (fino al 339 a.C., quando il potere divenne preventivo).
La definizione di Papiriano, si rispecchia nei vari momenti dell’iter di formazione della lex. Vediamo da vicino
qual è l’iter legis. Prenderemo come modello la lex centuriata, legge per antonomasia. L’iter formativo della
lex pubblica è piuttosto lungo ed articolato:
1. Annuncio della convocazione del Comizio e la contemporanea pubblicazione della proposta di legge,
la rogatio: il magistrato doveva pubblicare un editto nel quale veniva indicato il luogo della riunione,
la data della riunione e l’ordine del giorno. La data per la riunione formale doveva essere fissata
almeno 24 giorni dopo. Contemporaneamente all’annuncio della convocazione, si procedeva alla
pubblicazione scritta della proposta di legge (la promulgatio). Il popolo, prima di riunirsi formalmente,
doveva essere messo a conoscenza del contenuto della legge. La proposta di legge veniva scritta su
delle tavole di lego, che venivano esposte in un luogo pubblico (solitamente il foro) al servizio di tutti
coloro che volessero vedere la proposta. Per tutto il periodo che intercorreva tra l’annuncio della
convocazione e l’effettiva riunione le tavole dovevano rimanere esposte.
2. Illustrazione e discussione della proposta di legge: la rogatio veniva illustrata dal magistrato rogante
ai cives e veniva discussa dal popolo in riunioni informali, a cui partecipavano i cittadini, esprimevano
la propria opinione, sotto la moderazione del magistrato. Questa conversazione si svolgeva durante il
trinundinum, il periodo di 24 giorni che intercorre tra l’annuncio e la pubblicazione alla riunione del
Comizio. Per trinundinum si intende un periodo di “tre mercati”, dal totale di 24 giorni.
3. Assunzione degli auspicia: passati i 24 giorni, il magistrato provvedeva all’assunzione degli auspicia,
alla vigilia del giorno fissato per la riunione formale, la notte precedente.
4. Riunione formale del Comizio e dunque la votazione: solitamente il Comizio si riuniva all’alba. Un
araldo chiamava a raccolta il popolo e l’unione formale era annunciata con il suono di una tromba di
guerra. Il magistrato che presiedeva l’assemblea, leggeva formalmente la rogatio.Non c’è discussione,
si passa direttamente ai voti. Per un lungo periodo, il voto era orale e pubblico, ma fu poi introdotto
dalle leges tabellariae il voto scritto e segreto. Ricordiamo in particolare una lex papiria tabellaria
(131 a.C.), che introdusse proprio il voto scritto. Veniva segnato il voto su una tavoletta cerata, poi
inserita all’interno di urne, le cistae. I cittadini, ricordiamolo, potevano votare solo pro o contro la
proposta di legge. Il potere di emendare spettava solo al magistrato: in caso di rigetto, il magistrato
poteva approntare tutte le modifiche che riteneva congrue, per poi ripresentarlo all’assemblea,
ricominciando tutto l’iter.
5. Spoglio dei voti, proclamazione ed entrata in vigore della legge con pubblicazione del testo: lo spoglio
dei voti, conosciuta come diribitio, era seguita dalla proclamazione del risultato finale, la renuntiatio,
l’annunciazione pubblica dell’esito della votazione. Se l’esito fosse stato positivo, avrebbe seguito
l’entrata in vigore della legge, subito dopo l’auctoritas patrum fino al 339 a.C; dopo quella data, subito
dopo l’annunciazione entrava immediatamente in vigore essendo stata già preventivamente sottoposta
al Senato dal magistrato al momento della rogatio.
Una copia della lex veniva custodita nell’Herarium Saturni, dove veniva conservato il testo anche dei consulta
del Senato. Emerge proprio la convergenza dei vari organi, ciascuno con i propri specifici ruoli.

Struttura
Il testo della lex era formato da tre parti essenziali: la praescriptio, la rogatio e la sanctio.
Nella praescriptio vengono indicati dati tecnici per identificare la legge e classificarla: il nome del magistrato,
la carica ricoperta, la data della riunione formale e il luogo della riunione.

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La rogatio contiene i precetti, le disposizioni dettate dalla legge. La rogatio conteneva anche l’eventuale
sanzione. È il cuore pulsante della legge.
Nella sanctio, non è contenuta la sanzione. È l’ultima parte della lex, che contiene una serie di clausole (una
in particolare) poste a protezione della legge, per evitare qualsiasi conflitto tra leggi successive. Sono clausole
che mirano ad inquadrare la legge nuova correttamente all’interno dell’ordinamento. Una clausola in
particolare è di grande rilievo, la così detta clausola di impunità: il caput tralaticium de impunitate. Era una
clausola che garantiva l’impunità a chi, per ubbidire alla nuova legge, avesse trasgredito la vecchia norma.
Stabiliva che chi obbediva ala nuova legge, non incorreva nelle sanzioni previste dalla legge precedente. A
Roma la vecchia norma non viene abrogata formalmente; vive, ma viene posta in letargo. L’efficacia
temporanea della lex, a Roma, era praticamente perpetua. Il diritto repubblicano non conosce l’abrogazione di
una legge in seguito ad una legge nuova: la vecchia norma si considerava solo tacitamente superata dalla legge
posteriore. Si tratta di un’abrogazione per così dire, nel senso che la legge superata restando formalmente in
vita, teoricamente avrebbe potuto anche riassumere la sua funzione. Ecco perché era sempre considerato
imprescindibile l’inserimento nella sanctio della nuova legge del caput tralaticium de impunitate.

Ruolo
Nel lunghissimo periodo in cui furono operanti le assemblee, la produzione legislativa fu scarsa. L’attività
legislativa comiziale fu sorprendentemente esigua. Conosciamo solo poche centinaia di leggi per tutta l’età
repubblicana, per circa 500 anni di storia. Nell’ambito delle fonti di produzione del diritto, la lex occupa un
posto quantitativamente modesto. Conosciamo non più di 800 leggi, poco più di una legge all’anno. A questo
proposito, un grande studioso del diritto romano del XX secolo, Schulze, ha sottolineato che in epoca
repubblicana, lo strumento più adatto all’evoluzione del diritto non fu la legge, ma la giurisprudenza. È grazie
all’attività interpretativa dei giuristi che il diritto romano trova linfa vitale. Schulze, quindi afferma: “il popolo
del diritto non è il popolo della legge”. Questa famosa affermazione di Schulze impone una riflessione
sull’accezione di due termini: ius e lex. Sono due termini, tra i quali si stabilisce una sorta di dualismo, che
non viene teorizzato espressamente, ma soltanto sentito dalla cultura romana.
Ius: il diritto concerne i rapporti privati tra i cives.
Lex: la legge concerne l’ambito pubblico, i rapporti tra i cittadini e il potere politico.
Ius e lex, insomma, sembrano operare in ambiti separati da un confine pressoché invalicabile. Si è rilevato che
soprattutto la lex pubblica ha riguardato quasi mai temi che rientravano nell’ambito del diritto privato. Emerge
una separazione tendenziale tra ius e lex, un “latente dualismo” (cfr.Schiavone): non è un dualismo teorizzato
in modo esplicito, ma una separazione tendenziale avvertita dalla cultura romana. Lo ius era il patrimonio dei
pontefici, poi dei giuristi laici; esso è connesso al responsum, prima pontificum, poi prudnetium. Il reponsum
è la risposta ad un caso concreto, espressione del sapere casistico dei giuristi. Allo ius, così inteso, era riservato
l’ambito privato. Alla lex sarebbe invece intesa come espressione del popolo, della volontà dei cives e del
magistrato rogante. Quindi, la lex va intesa e collegata ad un comando generale: non siamo di fronte alla
situazione a carattere particolare, come nel caso dello ius. Riguarda il rapporto tra il potere centrale ed i cives
il funzionamento degli organi costituzionali, la repressione criminale. Perché, però, parliamo quindi di
separazione tendenziale? Ci sono state delle eccezioni: questa separazione fu raramente oltrepassata. Furono
pubblicate delle leges che invasero il campo del diritto privato, come la lex Cincia del 204 a.C., in materia di
donazioni. In alcuni casi, la lex publica invase il campo del diritto privato, ma allo stesso tempo accadde che i
giuristi esercitassero la propria attività interpretativa sulle leges: anche il testo scritto di leggi venne
interpetrato. Iniziò un lento processo di progressiva qualificazione come ius anche delle disposizioni poste
dalle leges pubblicae, che costituivano i così detto ius publicum. Fu un processo lento, che si consolidò solo
in età imperiale. In conclusione, questo rapporto tra ius e lex non va visto nella prospettiva di una rigida
contrapposizione, ma piuttosto nella prospettiva di una equilibrata convivenza, una necessaria coesistenza tra
due sistemi diversi. Entrambi si pongono come fine la pacifica convivenza tra cives.

EDICTA MAGISTRATUM Il diritto pretorio rappresenta la parte più consistente dello ius honorarium. I
magistrati che esercitano la iuris dictio erano i pretori, soprattutto, e gli edili
curuli. Gli edicta sono importantissimi perché stabilirono lo ius honorarium, così definito perché derivano
dall’honor, la carica magistratuale. Sappiamo che il pretor nasce nel 367 a.C., in occasione del Compromesso

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Licinio Sestio. La prima figura, quella del 367 è il pretore urbano, che deve dirimere le controversie tra i cives
romani. Il pretore doveva ius dicere inter cives romani; i consoli, infatti, erano ormai impegnati sempre più
sotto il profilo amministrativo e militare. Più di un secolo dopo, precisamente nel 242 a.C., viene creato il
pretor peregrinus, al quale viene affidato il compito specifico di dirimere le controversie tra romani e stranieri.
Anche il pretore peregrino nasce per una specifica esigenza: si erano intensificati oltremodo i traffici
commerciali tra romani e stranieri, data l’espansione di Roma. Il pretore urbano operò in una procedura detta
per legis actiones, per azioni di legge, derivanti dalla legge. Erano azioni che ebbero la prima regolamentazione
nelle XII tavole. Questo primo processo era bifasico: una prima fase, in iure, si svolgeva dinanzi al pretore, il
quale impostava giuridicamente la controversia, una seconda fase apud iudicem, dinanzi ad un giudice privato,
che risolveva la controversia e diramava la sentenza. A questa procedura, dal 242 a.C., si affiancò una nuova
procedura, più moderna: il così detto processo per formulas. Anche questo fu un processo bifasico, sempre
costituita da una prima fase in iure dinanzi al pretore, e una seconda fase in giudice dinanzi ad un giudice
privato. Questo secondo processo iniziò a prendere forma nel tribunale del pretore peregrino, perché
accessibile anche ai peregrini, laddove le azioni di legge, essendo azioni di diritto civile, erano applicabili sono
ai cittadini romani. Con il tempo fu utilizzata anche dal pretore urbano; ricordiamo una lex Ebutia, collocabile
verso la metà del II secolo a.C., che avrebbe autorizzato il pretore ad utilizzare la procedura formulare su
richiesta delle parti. Il processo per legis actiones, era basato sulle certa verba, parole certe, prescrizioni rituali
ben precise. In questa procedura, in sostanza, le pretese delle pati in causa, si riducevano a parole precise da
pronunciare e gesti precisi da compiere. Il pretore doveva controllare che le parole fossero state correttamente
pronunciate e i gesti correttamente compiuti. Questa procedura manifestò come più grande difetto il problema
di non poter seguire le esigenze della società, perché le parti erano obbligate ad esprimere le proprie necessità
in antiquate certa verba. Dai certa verba del processo per legis actiones passiamo ai concepta verba del
processo per formulas, parole concordate caso per caso dalle parti e dal pretore. Si passa sostanzialmente alla
formula, dagli schemi rigidi e formali della precedente procedura. Ogni qualvolta si addiveniva
all’individuazione di una formula e di una regola di giudizio che potesse fungere dal modello anche per altri
casi futuri ed analoghi e veniva inserito in un editto. La formula, è una regola di giudizio valido per casi futuri
e dunque inserita nell’editto.
Fatta questa premessa, vediamo più da vicino cos’è l’editto e qual è il suo contenuto. Il periodo che va dalla
fine del II secolo a.C., alla fine del I secolo a.C (120 a.C.-20 a.C), può definirsi il “secolo dell’editto”: l’editto
è al centro dell’innovazione giuridica. Cicerone, che scrive nel I secolo a.C., dice proprio che l’editto riveste
ormai, per il diritto della città, la stessa importanza avuta un tempo dalle XII tavole. Ebbene, a partire dal III
secolo a.C. (242 a.C.), il pretore cominciò ad emanare un editto, nel quale fissava i principi giurisdizionali ai
quali si sarebbe ispirato nell’esercizio della giurisdizione. Non è facile individuare una data di inizio di
emanazione degli editti, perché all’inizio fu emanato con sporadicità, occasionalmente, Successivamente, a
partire dal II secolo a.C. circa, l’editto iniziò ad essere emanato con regolarità: invalse l’uso che il magistrato
giusdicente emanasse un editto con il suo programma giurisdizionale. Questa esigenza, fu dovuta al
perseguimento della risoluzione uniforme di casi più ricorrenti. Il pretore, ogni anno, all’inizio del suo anno di
carica, emanava il suo editto, che fu chiamato edictum perpetuum, annuale, valevole per tutto l’anno di carica
del pretore che l’aveva emanato. Conteneva il programma giurisdizionale che intendeva adottare il pretor:
conteneva le formule processuali, degli schemi astratti di giudizio. Si trattava di regole di giudizio, criteri di
composizione delle controversie. Questa funzione giusdicente, che si estrinsecava attraverso gli edicta, viene
messa in luce da Pomponio (dal Digesto di Giustiniano): “I magistrati amministravano la giustizia e
pubblicavano gli edicta, affinché i cittadini sapessero quale soluzione ciascuno avrebbe potuto dare ad ogni
questione giuridica e potessero tutelarsi”. Conosciamo diversi tipi di edicta; Gaio nelle Institutiones scriveva
“Hanno il diritto di emanare editti i magistrati del popolo romano, ma il più grande diritto (amplissimus ius)
si ritrova negli editti dei due pretori, urbano e peregrino, la iuris dictio dei quali, nelle provincie, spetta ai
governatori. Parimente negli editti degli edili curuli, la iuris dictio dei quali spetta, nelle province, ai
questori.” Quindi:
• Editto dei pretori (edictum praetorium): poteva essere del pretore urbano o del pretore peregrino.
• Editto degli edili curuli (edictum edilium curulium)
• Editto dei governatori provinciali (edictum provincialem): si rifaceva all’editto pretorio, in provincia.
• Editto dei questori provinciali (edictum questorium): si rifaceva all’editto curulio, in provincia.

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Dobbiamo porci una domanda. Gli editti vincolavano i pretori? I pretori erano tenuti ad attenersi a criteri
giurisdizionali fissati all’interno del loro editto? L’editto, in realtà, è espressione di un’auto limitazione del
potere discrezionale del magistrato giusdicente. È il pretore, con l’editto, a porre dei limiti alla sua
discrezionalità. Non li vincolavano formalmente, il pretore non aveva dovere giuridico di attenersi a quei
criteri, ma sicuramente morale. In concreto, l’opinione pubblica era molto attenta all’operato dei magistrati, in
particolare dei pretori. Gli edicta, così come le leges, venivano pubblicati, scritte su tavole di legno e affissi
nel foro. Era un controllo che l’opinione pubblica faceva, e dunque i pretori si attenevano al loro programma
giurisdizionale. Nel I secolo a.C., una lex Cornelia de edictus praetorium, stabilì che i pretori si dovessero
attenere al programma giurisdizionale indicato nel proprio editto. Tuttavia, questa legge non fu dotata di
sanzioni, fu una legge a carattere esortativo, una norma di condotta. La lex Cornelia era una lex imperfecta,
perché manchevole di effettività.
Con il tempo, si fece in modo che il testo dell’editto venisse trasferito da pretore a pretore. Con il trascorrere
del tempo si venne a formare il così detto edictum tralaticium: un nucleo fondamentale e costante di regole di
giudizio, che passava inalterato da un pretore all’altro. Il nuovo pretore non riscriveva l’editto ex novo, ma
ritoccava, integrava l’editto con altre formule.
Se all’attenzione del pretore si presentava una fattispecie che non aveva previsto nell’editto perpetuum, il
pretore poteva certamente concedere una nuova formula, una nuova regola di giudizio. Poteva farlo in due
modi diversi: attraverso il decretum o attraverso l’edictum repentinum. Il decretum è un provvedimento a
carattere particolare, con efficacia limitata al caso concreto. Non poteva applicarsi ad altri casi futuri. Se il
pretore avesse deciso di provvedere con l’edictum repentinum, la formula contenuta sarebbe potuta essere
concessa anche per i casi futuri analoghi, che si fossero presentati all’attenzione del pretore. È un editto
improvviso, pubblicato nel corso dell’anno di carica, per far fronte a casi specifici; cosituisce un’integrazione
dell’edictum perpetuum. La formula decretale, poteva essere eventualmente inserita nell’editto perpetuo del
nuovo pretore: poteva trasformarsi da formula decretale a forma edittale, qualora avesse avuto buoni esiti nella
prassi.
Un ultimo profilo riguarda la codificazione dell’editto. È opinione dominante tra gli studiosi, che sotto il
principato di Adriano (II secolo d.C.), per iniziativa dell’imperatore, il giurista Salvio Giuliano svolse un’opera
di riordino dell’editto pretorio procedendo ad una codificazione. Probabilmente siamo tra il 134 e il 138.
Avrebbe creato un testo unitario e duraturo del testo edittale, il così detto edictum perpetuum di Salvio
Giuliano. Ora perpetuum ha un’accezione diversa: avrebbe stabilizzato il testo pretorio, non più per un anno,
per perpetuamente. Diverse opinioni non coeve, ma tardoantiche, sebbene in minima parte, hanno messo in
dubbio questa codificazione, perché non vi sono fonti coeve dell’avvenuta codificazione dell’editto. Un dato
importante però è un imponente scritto di Pomponio, 150 libri di commento all’editto, vicino alla data
ipotizzata per l’edictum perpetuum di Salvio Giuliano. Da questa circostanza possiamo dedurre elementi a
sostegno di questa presunta codificazione, perché i giuristi erano soliti lavorare su materiale consolidatosi nel
tempo, ed era dunque molto difficile occuparsi degli editti che “valevano lo spazio di un mattino”, quelli
dell’anno di carica dei pretori. Il fatto che Pomponio si sia dedicato solo dopo l’editto di Salvio Giuliano al
commento, starebbe a significare che solo in quel momento l’editto era addivenuto ad una condizione di
stabilità e precisione. Non è infatti un caso che a partire dal principato di Adriano, il ruolo del pretore si
ridimensiona notevolmente: si può parlare di una situazione giuridica pretoria solo fino all’età adrianea. Dopo
l’editto perpetuo di Salvo Giuliano, l’editto non è più uno statuto in continua formazione, arriva ad una
condizione definitiva, per tanto, si esaurisce la fonte di produzione del diritto. Si può parlare di produione
giuridica pretoria fino all’età adrianea.

IUS HONORARIUM E IUS GENTIUM Gli edicta magistratuali hanno lasciato un’impronta molto
significativa nella storia del diritto onorario. Il diritto onorario
è il diritto che nasce dall’attività dei magistrati giusdicenti. Sappiamo che non è un caso che lo ius honorarium
sia definito così, perché deriva dall’honor, la carica magistratuale. Pomponio, giurista del II secolo d.C., ci
dice “edicta praetorum ius honorarium constituerunt. Honorarium dicitur quod ab honore praetoris venerat”
(gli editti dei pretori costituirono il diritto onorario. Era detto onorario perché venerato dalla carica dei

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pretori). Ancora, le fonti riportano: “Ius praetorium et honorrium dicitur, ad honerem praetorium sic
nominatum” (Il diritto pretorio è detto anche onorario ed è così nominato dalla carica del pretore) VERIFICA
CITAZIONI E TRADUZIONE. Il diritto onorario nasce quando il pretore iniziò ad emanare il diritto con la
procedura per formulas. Nella prima fase non era inteso già come un sistema giuridico autonomo a sé stante.
Lo ius honorarium inteso come sistema giuridico che nasce dall’attività del pretore, non assume subito una
sua autonomia scientifica. Cicerone, che scrive nel I secolo a.C., non fa alcuna menzione specifica allo ius
honorarium, pur parlando degli edicta magistratuali. Non si intravede ancora, nel I secolo a.C., alcun
riferimento al fatto che, attraverso l’attività giurisdizionale ed edicente del pretore, si stava sviluppando un
autonomo e diverso sistema giuridico. Questa prospettiva ciceroniana resta immutata per lungo tempo. Ancora
in Gaio e Pomponio, giuristi dell’età degli Antonini, non emerge la netta contrapposizione ius civile-ius
honorarium. Solo in Papiniano, nel III secolo d.C., si rileva per la prima volta questa netta contrapposizione.
Gaio, autore delle Institutiones, inserisce gli edicta nel suo catalogo delle fonti (Iura populi romani), che
derivano dalle leggi, dai plebisciti (dopo la parificazione con le legge), i consulti del Senato (in età imperiale,
quando assumono un vero e proprio valore normative, dalle leggi imperiali, “edictis eorum qui ius edicendi
habet” appunto, e i responsi dei prudentes, i giuristi. Elenca le fonti, ma non c’è un riferimento esplicito allo
ius honorarium. Questa espressione appare poche volte nell’opera gaiana.
Pomponio, invece parte da un altro angolo visuale: parla dell’editto, si sofferma su di esso, ma come strumento
volto a portare a conoscenza dei cittadini il diritto, che sarebbe stato loro applicato dal magistrato durante
l’anno di carica. La contrapposizione ius civile-ius onorario non appare nemmeno in Pomponio.
La distinzione appare però in Papiniano, nel III secolo d.C. Scrive: “Ius civile est quod ex legibus, plebiscitis,
senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit”; “Ius praetorium est quod pretores
introduxerunt” (Il diritto civile è ciò che deriva dalle leggi, dai plebisciti, dai Senato consulti, dalle
disposizioni imperiali e dall’autorità dai giurisiti deriva. Il diritto pretorio è quello che introdussero i
pretori”. Abbiamo due dizioni: ius honorarium, più ampia e generale, che indica il diritto che discende dalla
carica magistratuale, e riguarda sia l’attività del pretore, sia l’attività degli edili curuli. La seconda dizione ius
praetorium è definita esclusivamente al praetor, il fulcro dello ius honorarium. L’interesse di questa
testimonianza deriva anche dal fatto che Papiniano, in questo brano enuncia le finalità e gli obiettivi dello ius
honorarium. Papiniano continua poi in merito allo ius praetorium: “adiuvandi vel supplendi vel corrigendi
iuris civilis gratias propter utilitatem publicam” (nell’interesse dei cittadini per rafforzare, integrare,
correggere il diritto civile”). Questo passo dà tutti gli elementi per comprendere le finalità di questa massa
giuridica. Lo ius honorarium vuole “adiuvare” rafforzare, prevedendo una maggiore tutela per fattispecie già
previste dallo ius civile. Vuole integrare, colmando eventuali lacune, prevedendo una normazione per casi non
previsti dallo ius civile: questa seconda funzione mira ad offrire una tutela giuridica ad ipotesi non previste
dallo ius civile, ma emerse nella società. Lo ius honorarium vuole poi “corrigere” correggere le possibili
deviazioni, superando alcuni profili della disciplina civilistica, considerati ormai insoddisfacenti. Tuttavia,
dobbiamo specificare, perché il diritto pretorio non può abrogare la norma civilistica, ma la può solo
disapplicare, rendendola inoperante in sede processuale. Il diritto pretorio, dunque, ha una triplice funzione
pratica, rafforzativa, integrativa, suppletiva dello ius civile, a seconda dei casi. Dobbiamo intendere che lo ius
honorarium agisce in sede processuale, opera in ambito giurisdizionale. Lo ius honorarium crea tempi
temporanei di tutela processuale.
C’è un’ultima testimonianza del giurista severiano Marciano (III secolo d.C). “Ius honorarium est viva vox
iuris civilis” (il diritto onorario è la viva voce del diritto civile). Con questa espressione lapidaria Marciano
intende che il diritto onorario è l’applicazione in sede processuale del diritto civile. Deduciamo un senso di
interdipendenza tra questi due sistemi. Senza lo ius civile, lo ius honorarium, non avrebbe ragion d’essere.
Presuppone lo ius civile, lo rafforza, lo integra, lo corregge, ma comunque lo presuppone. Allo stesso tempo,
senza lo ius honorarium, lo ius civile non sarebbe più in grado di comunicare con la società che cambia. Quindi,
lo ius civile, a sua volta, necessita dello ius honorarium. In sostanza, il pretore adatta lo ius civile ai casi
concreti che sono sottoposti alla sua attenzione.
In conclusione, qual è lo scopo dello ius honorarium? Rafforzare, integrare e correggere lo ius civile; quindi
riguarda rapporti giuridici e materie già regolate dallo ius civile. C’è possibilità di antitesi tra i due sistemi,
poiché disciplinano le stesse materie. Solo grazie all’attività del pretore nasce l’ampio sistema dello ius
honorarium, che senza abrogare le norme civilistiche vi contrappose regole diverse ed alternative.

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Dall’attività del pretore peregrino nascerà anche il così detto “ius gentium”. Lo ius gentium può essere
considerato un fenomeno parallelo allo ius honorarium; entrambi questi sistemi traggono la loro esistenza
dall’attività giurisdizionali del pretore. Verranno poi a distinguersi, dando vita a due sistemi diversi, a sé stanti.
Lo ius gentium nasce già dal II secolo a.C., all’interno del tribunale del pretore peregrino. Nasce dai rapporti
tra romani e peregrini: sono obbligazioni, relativi ad entrambe le parti. Si parla prevalentemente di
compravendita, locazione, società e mandato. Nascono nel tribunale del praetor peregrinus. La iuris dictio
peregrina era singolare: non si richiamava ad un diritto preesistente, perché tra romani e straneri non c’era
comunanza di regole. Lo ius civile, infatti, era applicabile solo ai cives. Fino all’istituzione del pretore
peregrino (242 a.C.), questi rapporti erano regolati sulla base della buona fede (bona fides), dal pretore urbano.
Lo ius gentium era così chiamato poiché applicabile a più popoli. Gli studiosi hanno parlato di una sorta di
diritto commerciale romano: un diritto che si articolava sostanzialmente attorno a quattro contratti
fondamentali (compravendita, locazione, società e mandato) e a tre principi guida: il consensualismo, la
buonafede e la reciprocità. Per consensualismo si intende il valore dell’accordo raggiunto tra le parti, il
consenso raggiunto tra le parti di una transazione: i quattro contratti nascono dal consenso, comunque espresso.
Il principio della buonafede riguarda l’obbligo delle parti a tenere un comportamento corretto, non
ingannevole, secondo buonafede. C’è poi la reciprocità, che indica la simmetria tra le prestazioni delle parti
convolte nella transazione: alla prestazione onerosa di una delle parti, deve corrispondere una
controprestazione dell’altra parte. Lo scopo dello ius gentium, insomma, è quello di regolare i rapporti giuridici
consensuali, che lo ius civile non contempla. Se lo scopo dello ius gentium è questo, non c’è possibilità di
antitesi tra ius civile e ius gentium: sono due sistemi che riguardano in qualche modo campi diversi. Dobbiamo
fare una precisazione; le norme dello ius gentium nascono certamente per regolare i rapporti tra romani e
stranieri, e quindi in un primo momento sono applicate solo nel tribunale del pretore peregrino. Tuttavia, con
il tempo queste norme saranno applicate anche ai rapporti tra cittadini romani; saranno adottate per i rapporti
tra cives ed applicate anche nel tribunale del pretore urbano, che adatterà a sua volta le norme enucleate dal
pretore peregrino. Questi nuovi istituti, che nascono nell’ambito dello ius gentium, anche solo i quattro contratti
consensuali, finirono con il tempo per essere accolti nello ius civile. Furono ritenuti una parte dello ius civile,
un settore specifico di esso. Lo ius gentium non deroga allo ius civile, riguarda rapporti nuovi e non disciplinati
e non può entrare a contrasto con lo ius civile. Guarino a proposito di ius gentium, parla di “ius civile novum”.
Nuovo perché riguarda materie nuove, ma anche perché è applicabile anche agli stranieri, a differenza
dell’antico ius civile. È cioè, una parte specifica dello ius civile. Per cui, la contrapposizione ius civile e ius
gentium vale, ma vale solo se intendiamo lo ius civile vetus, cioè quella parte dello ius civile applicabile solo
ai romani: se però intendiamo lo ius civile novum, allora intendiamo anche lo ius gentium. Lo ius gentium,
quindi, con il tempo entrerà a far parte dello ius civile, lo ius honorarium invece no, sarà sempre un soggetto
distinto, perché le materie oggetto dello ius honorarium sarà sempre o stesso oggetto dello ius civile. Gaio
afferma “Il popolo romano utilizza in parte il diritto che gli è proprio (ius civile), in parte il diritto che è
comune a tutti gli uomini (ius gentium)”. Cicerone: “I nostri progenitori vollero distinguere tra ius gentium e
ius civile, però lo ius civile non deve identificarsi senz’altro nel diritto delle genti, mentre è lo ius gentium che
deve essere considerato parte dello ius civile”. Possiamo sottolineare che questa ulteriore massa giuridica,
viene progressivamente ad assumere tre diverse accezioni:
1. diritto che nasce dall’attività del pretore peregrino per regolare i rapporti tra romani e stranieri
2. quella parte dello ius civile novum che è applicabile anche agli stranieri
3. quel diritto comune a tutti i popoli civili, che si basa su una naturalis ratio, la naturale aspirazione di
tutti gli uomini alla giustizia. Gaio denomina lo ius gentium, non a caso, anche ius naturale. Si arriva,
dunque, quasi ad un’accezione filosofica.
Sarò merito della giurisprudenza giungere ad unificare diversi sistemi giuridici ed in età tardoantica sbiadirà,
fino a scomparire, la distinzione tra ius gentium e ius honorarium.

I giuristi
Aldo Schiavone ha affermato “Il carattere originale più importante del mondo giuridico romano, anzi uno dei
tratti fondamentali dell’intera romanità, è costituito dal primato della formazione del ius del sapere giuridico e
dei suoi cultori privati”. Il primato dei giuristi è rispetto ai dati normativi, provenienti direttamente dalle

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istituzioni politiche, per esempio le leggi, frutto delle Assemblee. C’è un primato nella formazione dello ius,
da parte dei giuristi. Ci siamo soffermati a lungo sul rapporto lex-ius e abbiamo sottolineato come la lex abbia
un ruolo quantitativamente esiguo. Non può che ritornare alla nostra mente, l’affermazione di Schulz: “Il
popolo del diritto non è il popolo dello ius”. Poniamoci un quesito: come si aggiornava il diritto a Roma e chi
lo faceva? Il pretore e il giurista aggiornano il diritto; il pretore è un magistrato giusdicente, eletto dal popolo,
che fa la iuris dictio, il giurista è un cittadino privato, esperto di diritto, colui che fa la iuris intepretatio. I primi
giuristi della storia di Roma sono i pontefici: questo è il primo esempio di giurisprudenza romana. La
giurisprudenza pontificale interpretava, però, i mores maiorum. Il pontefice parte a una regola non scritta, ma
orale: l’attività di interpretazione, quindi, era estremamente ampia. I pontefici partono da un precetto orale ed
hanno un ampio margine di interpretazione del diritto, avevano quasi il monopolio del diritto. Il responsum,
poi, diventava la regola vivente della società. Ricordiamo anche che fino al IV secolo tutti i pontefici erano
esclusivamente patrizi. Nel corso dell’età repubblicana si assiste al così detto fenomeno della laicizzazione
della giurisprudenza. Si intende il passaggio da una giurisprudenza pontificale ad una giurisprudenza laica.
Questo passaggio avvenne a partire dal III secolo a.C. Per un lungo periodo di tempo, la giurisprudenza è
ancora pontificale, anche in età repubblicana. Fra la fine del IV secolo a.C. e il III la figura del giurista pontefici
si eclissa a favore dell’aristocratico sapiente, il giurista laico. Tuttavia, in questo passaggio c’è l’elemento che
resta costante: la conoscenza del diritto e la connessa attività respondente restano un privilegio aristocratico.
Prima sono i patrizi, ora la nobilitas patrizio-plebea, legata alla nobiltà del denaro. Non c’è più un rapporto
diretto con la sfera della religio. Ora la conoscenza del diritto è legata ad un ambiente laico, ma pur sempre
elitario. La forza del responsum, non si fonda più non si basa più sul rapporto della religio con la sfera del
sacro, ma su un insieme di nozioni giuridiche, svincolato ormai dalla sfera del sacro. Il giurista agisce sempre
come un privato: la sua eventuale attività giurisprudenziale è separata dalla carica eventualmente ricoperte
volta in volta. Possono coesistere giurista e ruolo politico, ma le due attività sono distinte. Sacerdotio e
professione giuridica, in questo periodo si separano. Prima solo un membro del collegio pontificale poteva
essere giurista: ora, la conoscenza del diritto può essere un’ulteriore qualificazione della carica sacerdotale,
ma prescinde da essa, non è un requisito necessario. È il rapporto sacerdotio-professione giuridica che si
separa. Quello che resta costante è che la giurisprudenza laica, come quella pontificale, è aristocratica.
Vediamo più da vicino questo processo di laicizzazione. Nell’ambito di questo processo di laicizzazione
possiamo individuare tre momenti importanti e cronologicamente successivi:
1. Metà del V secolo a.C., 451/450 a.C: redazione delle XII tavole. Sono frutto del decemvirato
legislativo; anche dopo la pubblicazione delle XII tavole, continua l’attività interpretativa da parte
della giurisprudenza pontificale. Sono leggi che non avevano contribuito a creare, ma che erano
chiamati ad interpretare perché la cultura laica non era ancora pronta a sostituirsi. Ora, però,
l’interpretatio parte da un dato scritto.
2. IV secolo a.C., 304 a.C.: pubblicazione dei formulari delle legis actiones ad opera di Gneo Flavio,
scriba del giurista Appio Claudio Cieco. Gneo Flavio sottrasse i formulari della legis actiones dagli
archivi pontificali e li pubblicò. La “Ius flavianum”, opera di Flavio, è un formulario delle clausole
attinte dai repertori pontificali.
3. III secolo, 250 a.C.: Tiberio Coruncanio, giurista di origine plebea, primo pontefice massimo plebeo,
che comincia a dare per la prima volta responsa pubblicamente. Decide di professare pubblicamente
il suo sapere giuridico, violando la segretezza che aveva caratterizzato l’attività giurisprudenziale
pontificale.
Quando parliamo di laicizzazione, intendiamo proprio questo passaggio della conoscenza giuridica da un ceto
aristocratico sacro religioso, ad un’aristocrazia laica. È possibile distinguere due fasi della giurisprudenza:
• V e IV secolo a.C.: fase della giurisprudenza pontificale
• Dal III secolo: il passaggio dello ius nelle mani di una giurisprudenza laica, in teoria aperta a tutti
cives, ma in pratica riservata al ceto aristocratico. Fu compiuta un’amplissima attività di sviluppo del
diritto. Per questo motivo può essere considerato il centro propulsivo del diritto.
Ci sono due tratti tipici della giurisprudenza repubblicana: la gratuità e la pubblicità. Il giurista repubblicano
non riceve alcun compenso per l’attività svolta. Come detto, in teoria tutti potevano essere giuristi, ma in
pratica solo chi apparteneva a famiglie ricche, giacché non era fonte di guadagno: un po’ ciò che accadeva per
le cariche magistratuali. Era un’attività che non poteva correre il rischio di perdere di dignitas attraverso una

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retribuzione. Poi, il giurista repubblicano laico, svolge la sua funzione consultiva pubblicamente. Svolge
pubblicamente la sua opera di interpretatio iuris. Deve però essere chiaro che il giurista non fa teoria del diritto,
ma risponde ad un caso reale, ad una fattispecie concreta, singola, sottoposta alla sua attenzione dal privato.
Parte da un caso reale e dà il suo responsum, la soluzione tecnica a quel caso giuridico, frutto dell’interpretatio
iuris. Vediamo più da vicino le funzioni del giurista repubblicano. L’attività della giurisprudenza repubblicana
e laica, si incanalò in un triplice direzione, la stessa seguita dalla giurisprudenza pontificale. Cicerone delinea
tre principali tipi di intervento dei giuristi nella prassi. Possiamo utilizzare tria verba per riassumere le funzioni
dei giuristi repubblicani: respondère, cavère, àgere. I tre verbi sono:
1. respondère: rispondere. Dare responsa, i così detti responsa prudentium, le risposte dei giuristi, gli
esperti del diritto. Sono le risposte ai quesiti giuridici sottoposte all’attenzione del giurista, dai singoli
cittadini. Il giurista forniva una soluzione alla questio iuris. Dal I secolo a.C, si moltiplicò il numero
dei giuristi e iniziarono ad essere argomentati i propri responsa, per farli prevalere su quelle di altri
giuristi sulla stessa questio, ma divergenti. Dal responsum sintetico ed orale, si passerà quindi alla
risposta scritta ampiamente argomentata. Furono messe per iscritto su tavolette cerate munite di sigillo
a garanzia dell’autenticità di quel responsum e per poterla esibire in giudizio. Lo stesso nume del
giurista in latino, iuris consultus, indica la centralità della funzione di repsondère. Gli altri termini
iuris prudentes, iuris periti, alludono alla competenza nella disciplina.
2. Cavère: è un’attività di supporto che il giurista offriva gratuitamente nella preparazione negli schemi
negoziali. Alcuni negozi giuridici richiedevano una conoscenza tenica e una competenza specifica che
il cittadino comune non aveva: emancipare un figlio, affrancare uno schiavo, contrarre matrimonio,
fare testamento. Proprio per questo, veniva aiutato dai prudentes. L’ausilio dei giuristi era
indispensabile in un ambiente ancora poco alfabetizzato; ricorrere ad un negozio giuridico dell’antico
ius civile, spesso ridotto a schemi formali che devono essere esattamente ripetuti, richiedevano
certamente il supporto di un esperto.
3. Àgere: agire: siamo sempre di fronte ad un caso di consulenza, ma in ambito processuale. È la
consulenza offerta dal giurista in merito all’actio, l’azione da usare nella fase in iure del processo.
Questa attività ebbe una grandissima importanza soprattutto dal II secolo a.C, quando si affermò il
processo per formulas: le parti erano impegnate insieme con il pretore alla ricerca di una formula che
fosse adatta alla situazione messa in campo. Le parti non potevano far altro che rivolgersi ai giuristi
nella scelta della formula più idonea.

A queste due principali attività se ne aggiungono altre due a partire dal I secolo a.C.:
4. Consulenza offerta direttamente ai magistrati giusdicenti, i pretori tra tutti: i pretori potevano non
essere esperti di diritto, non aver conoscenze giuridiche. Molto spesso avevano solo competenze
generiche. Invalse l’uso che i pretori si formasserro una sorta di consilium di consulenti.
5. Attività didattica: l’insegnamento del diritto comincia a diffondersi soprattutto dal I secolo a.C.. Non
nel senso che i giuristi repubblicani insegnarono all’interno di scuole di diritto (il ché accadrà in
seguito), ma la fama dei giuristi più illustri cominciò ad attrarre attorno ad essi gruppi di discepoli, i
così detti auditores, coloro che ascoltavano il maestro. In sostanza, questi gruppi di discepoli
trascorrevano la giornata ad ascoltare il proprio maestro, che dava i responsa. Durante il tempo libero
dei maestri ponevano delle questiones, ai quali venivano date delle risposte su casi immaginari. Sono
a tutti gli effetti esempi di scuola. Le prime opere giuridiche repubblicane, infatti, non furono altro che
raccolte casistiche, o di responsa o di questiones.

Il giurista opera all’interno della città; in sostanza la sua casa privata è il foro. L’ si trovavano i privati e gli
auditores. Il respondère e il docère si compiono insieme: il responsum diventa anche un momento di
esplicazione dell’attività di insegnamento. Ogni aspirante giurista imparava direttamente dalla voce del suo
maestro nello svolgimento della sua attività.

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Arrivati a conclusione del percorso sulla Roma repubblicana, possiamo distinguere tre fasi:
I FASE (V-IV SECOLO A.C): fase di assestamento della res publica neonata. È una fase caratterizzata dal
lungo conflitto patrizio-plebeo.
II FASE (III-II SECOLO A.C): fase dell’apogeo della res publica romana, in cui Roma, forte della sua
organizzazione militare, diventa dominatrice del mondo mediterraneo.
III FASE (II- I SECOLO A.C.): fase della crisi repubblicana. È la fase connotata da turbolente vicende, e segna
la fine dalla res publica romana basata sulla libertas e la nascita del principatus. Se volessimo dare riferimenti
più precisi diremmo 130 a.C.-27 a.C.

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3. l’età del principato


IL PASSAGGIO DA REPUBBLICA A PRINCIPATO

Nel corso della sua smisurata espansione territoriale, Roma conserva le strutture costituzionali e
amministrative cittadine. In questo quadro, erano diversi i fattori di debolezza, che minavano l’assetto
repubblicano. Tra i diversi fattori di debolezza, certamente vi era la mancanza di un governo centrale forte
come centro di controllo. Mancava, soprattutto, un sistema efficacie di organizzazione delle provincie. Le
provincie erano i territori via via conquistati da Roma, che diventano sempre più numerose. In sostanza,
continuavano a sussistere come ordinamenti collegati in modo precario (solo attraverso la figura del
governatore provinciale, il cui operato in molti casi fu discutibile) al potere centrale. Una simile situazione
determinò una conseguenza. Ci fu una sempre crescente disfunzione degli organi cittadini, non più idonei a
gestire un Impero così vasto. L’assetto costituzionale repubblicano, che nasce per l’amministrazione della
città-Stato, non era in grado di reggere il peso della gestione di un Impero così vasto territorialmente, che ormai
richiedeva una gestione unitaria. Ci fu una forte spinta alla centralizzazione. Alla base della crisi della res
publica, non c’è un unico fattore, ma varie cause interdipendenti. Una serie di concause, che però discendono
tutte da questo enorme accrescimento territoriale. Di qui la ricerca di una nuova forma di Governo che fosse
in grado di controllare territori lontani e governare popoli diversi. Questa nuova forma di governo è il
principato. Questo periodo storico riguarda un periodo che va dal 27 a.C., fino alla fine del III secolo d.C (284-
285 d.C.)., ossia dall’ascesa di Augusto a quella di Diocleziano, dal quale si fa iniziare un ultimo periodo
storico, l’età tardo-imperiale.

Il principato di Augusto va dal 27 a.C., al 14 d.C., anno in cui Augusto muore ultrasettantenne dopo un regno
lunghissimo di circa quarant’anni. Le fonti utili alla ricostruzione di questo periodo sono molteplici, ma
ricordiamo soprattutto le “Res Gestae Divi Augusti”, un’autobiografia di Augusto, che ci è pervenuto
epigraficamente. Le Res Gestae costituiscono un documento importantissimo per la conoscenza e per la
valutazione del principato di Augusto. È un’opera di grande interesse, perché ci offre l’opportunità di
ricostruire il percorso politico-istituzionale che segnò il tramonto della res publica e l’affermarsi del principato,
non osservandolo attraverso il filtro degli storici, ma attraverso la voce del suo protagonista. È un testo
epigrafico, un’inscrizione. Un esemplare molto ben conservato è stato rinvenuto ad Ancira, in Turchia (attuale
Ankara): per questo motivo l’opera è ricordata anche come Monumentum anciranum. Era scolpito sulle pareti
di un tempio; l’originale, incisa a Roma, è andato perduto. Conosciamo l’opera, perché ne furono incise varie
copie. Non a caso il testo è scritto sia in latino che in greco, perché doveva essere compreso dai cittadini di
tutto l’Impero. È Augusto, con uno stile scarno, ma incisivo, a raccontare le sue imprese, il suo percorso, il suo
optimus status: delinea un’immagine molto suggestiva della sua persona. Le Res Gestae si compongono di 35
capitoli, ma nella ricostruzione della personalità di Augusto, bisogna prendere le mosse dal capitolo XXXIV,
perché di fondamentale importanza per comprendere sia la definizione del potere del princpes, sia per
l’individuazione della sua fonte.
Capitolo XXXIV
(1) Augusto dice di aver ottenuto il consenso di tutti e trasferì la res publica dalla sua potestà alle libere
determinazioni del Senato e del popolo romano
(2) 2)“Per questo mio gesto venni chiamato Augusto, per decisione del Senato”. Ottaviano, in una famosa
seduta del Senato, tenutasi nel gennaio del 27 a.C., compie un gesto eclatante e a tratti teatrale; in un
lungo discorso dichiara di voler restituire la res publica ai soggetti che ne erano stati titolari
precedentemente: il Senato e il popolo. Per questo gesto, tre giorni dopo (16 gennaio 27 a.C.) il Senato
gli conferì il titolo di Augustus, in segno di riconoscenza.
Augusto non intende presentarsi come un rivoluzionario, ma come colui che, avendo restituito la pax, vuole
ridare linfa alle vecchie istituzioni repubblicane: vuole apparire come un restauratore dell’antica sovranità, non
un rivoluzionario. Non vuole essere visto come un rex, un dictator, un tirannus o un dominus, ma come
princeps. Tacito, nei suoi famosi Annales, affermerà “Non con il regno, né con la dittatura aveva costituito la
res publica, ma con il nome di princpes” (Non regno, neque dictaturam, sed princeps nomine…). Se Augusto

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ha potuto inaugurare un regno così lungo è proprio perché tutto si svolge nel consensum universorum. È una
sua caratteristica la mediazione politica: è amico del Senato, è amico del popolo, ma dà anche nuova linfa ai
ceti emergenti.
(3) “Da allora superai tutti quanto ad auctoritas, ma non ebbi maggiore potestas rispetto a coloro che
mi furono colleghi nelle varie magistrature”. La superiorità riguarda l’auctoritas, ma afferma di avere
pari potestas rispetto agli altri. Appaiono due termini fondamentali, due pilastri del vocabolario
augusteo: auctoritas e potestas, appunto. Sono concetti, che sono ancora sotto certi profili, sfuggenti
nei lor contorni. L’autoctoritas, come anche Augusto, deriva dal verbo augeo, accresco; indica dunque
una superiorità su un piano metagiuridico. L’auctoritas è dunque una qualità personale di Augusto, il
suo carisma, il suo prestigio personale, la sua autorevolezza morale. Non ha un fondamento giuridico
in senso stretto, ma un fondamento metagiuridico, perché si riferisce alla persona di Augusto, alle sue
virtù e doti. In sostanza, l’auctoritas augustea, che indica il suo carisma, gli consente di eccellere sugli
altri: è l’asse portante di questo equilibrio difficile, ma perseguito tenacemente da Augusto, tra un
potere sostanzialmente monarchico e una costituzione formalmente repubblicana. È l’auctoritas a
porsi a fondamento tra una nuova realtà monarchica nella sostanza e le vecchie forme repubblicane
che restano in vita. Il termine potestas indica il potere giuridico, che l’ordinamento giuridico già
conosce, ma in Augusto il termine indica il potere giuridico connesso alla carica, tuttavia svincolato
dalla carica stessa. La potestas di Augusto, cioè, indica un potere che prescinde dal rivestimento della
carica magistratuale. Ha la tribunicia potestas, ma non ricopre il tribunato. Si è parlato in dottrina di
astrattizzazione, in riferimento ad una potestas singolare, svincolato dai limiti delle cariche
magistratuali (in primis la temporaneità) e dalla carica stessa. La potestas di Augusto trascendeva le
attribuzioni delle singole cariche magistratuali, giacché il principe cumulava nella sua persona le
attribuzioni di più cariche magistratuali. L’assommarsi nella persona di Augusto di più poteri rendeva
la sua posizione assolutamente preminente rispetto agli altri organi governanti. Non c’è un’alterazione
del contenuto dei singoli poteri magistratuali, ma una concentrazione delle varie attribuzioni delle
varie cariche. Perde di veridicità quanto da lui affermato in merito alla potestas. L’intento di Augusto
è evidente: vuole affermare la legittimità cosetituzionale della propria posizione, richiamando il
principio della pari potestà; il suo obiettivo è quello di presentare il principato, il novus ordo (nuovo
ordinamento); come un continuum formale della res publica. Questo novus ordo si caratterizza perché
c’è l’innesto di un organo monocratico (princeps) all’interno dell’apparato repubblicano. Si parla a tal
proposito di un “progetto di ingegneria costituzionale”, ove all’interno delle forme repubblicane
prende forma un nuovo potere sempre più monocratico.

Poteri di Augusto
Nel 27 a.C., Ottaviano riceve il titolo di Augusto e un imperium speciale, un imperium pro consulare decennale
sulle provincie non pacificate, quelle più turbolente, che necessitavano di contingenti militari in loco. Appena
quattro anni dopo, nel 23 a.C., si delineano più chiaramente i connotati della figura del princeps. Si arriva ad
una più chiara precisazione istituzionale; Augusto depone il consolato, che aveva rivestito per vari anni, dal
31 a.C. ininterrottamente. Gli vengono conferiti i due poteri che costituirono i pilastri incrollabili del suo
principato: l’imperium pro consulare maius et infinitum e la tribunicia potestas.
Il primo è il potere militare superiore a quello degli altri governatori provinciali ed infinito sia dal punto di
vista spaziale, sia dal punto di vista temporale.
Il secondo potere, la tribunicia potestas ha una particolare intercessio univoca e potenziata, univoca, senza
reciprocità. Augusto poteva opporla a qualunque altro magistrato, ma nessuno poteva opporla a lui.
Augusto tra il 27 e il 23 a.C., porta a compimento il suo progetto politico, inaugura il principato, che però non
emerge immediatamente, ma gradualmente. È un assetto che si differenzia da quello repubblicano, perché si
innesta all’interno del vecchio apparato un nuovo organo, permanente, il princeps: costituzionalmente ha il
compito di coordinare non solo gli organi cittadini, ma anche i rapporti tra il potere centrale e i poteri periferici.
La tribunicia potestas assicura ad Augusto il predominio cittadino; l’imeprium pro consulare maius et
infinitum, consente ad Augusto di dominare le provincie. La tribunicia potestas è lo strumento per il controllo
del centro; l’imperium pro consulare è lo strumento per il controllo delle provincie; con la tribunicia potestas
Augusto si avvale delle attribuzioni dei poteri dei tribuni e grazie ad essa controlla l’ordinamento cittadino,

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con l’imperium pro consulare Augusto unifica i poteri dei governatori provinciali e controlla i territori
provinciali. Possiamo insomma dire che la tribunicia potestas è la base di controllo del popolo, la base
costituzionale del suo potere, mentre l’imperium pro consulare maius et infinitum è lo strumento militare del
suo potere.
La peculiarità del potere di Augusto è proprio che ebbe questi poteri avulsi dalle cariche magistratuali. Fu
provvisto delle attribuzioni delle prerogative, fu investito delle funzioni ed esercitò i poteri connesse alle
cariche, ma pur non ricoprendole. In questo modo, era anche svincolato dai limiti delle cariche magistratuali
temporanee. Lentamente, in questo modo, si cominciò a delineare il potere imperiale, nella sua essenza e nella
sua sostanziale diversità. Con Augusto certamente riprendono vita i poteri repubblicani, ma vengono
profondamente mutati, in seguito al concentrarsi nelle mani di una sola persona, per giunta senza limiti
temporali. Quindi, in realtà, non si assiste ad una alterazione dei singoli poteri repubblicani nel loro contenuto
specifico, ma ad un assommarsi di questi poteri nelle mani di un solo uomo.
Augusto muore nel 14 d.C., dopo un regno lunghissimo, di circa 40 anni, avendo inaugurato una nuova forma
costituzionale. Questa nuova forma Costituzionale, che viene gradualmente a profilarsi si basa su un
compromesso tra forme repubblicane e potere monocratico. Tacito nei suoi Annales afferma molto
efficacemente che con l’avvento del principato, le vecchie magistratura si erano ridotte a meri vocaboli, forme
svuotate dei loro poteri. Non possiamo che riconoscere che quella di Augusto è una creazione politica originale,
sintesi di vecchio e nuovo. Un nuovo ordinamento verrà a sovrapporsi al vecchio ordinamento repubblicano,
che sarà l’impalcatura all’interno della quale si consolida il potere monocratico. Santo Mazzarino ha parlato
con grande efficacia a proposito del potere di Augusto, di un potere in cui la forma repubblicana è conservata,
la base monarchica è assicurata. Siamo di fronte ad un regime volutamente ambiguo, frutto di una consapevole
scelta politica di Augusto. È estremamente difficile esprimere un giudizio univoco sul principato; Augusto è
un genio politico e la sua esperienza è un unicum. Emilio Betti, nel 1915, parlava a proposito del potere di
Augusto di una forma di potere che ha “una faccia rivolta verso il passato, ed un’altra verso l’avvenire”.

IL PRINCIPATO L’età del principato è il periodo che abbraccia circa 3 secoli di storia, che va dal 27
a.C. al 284 d.C. (avvento di Diocleziano, dal quale si fa iniziare l’età del tardo-
impero).
Abbiamo sottolineato quale sia stata la genesi del nuovo assetto costituzionale inaugurato da Augusto.
Dalla morte di Augusto (14 d.C.) fino all’avvento di Diocleziano passano circa 270 anni nei quali non si scorge
alcuna regolamentazione giuridica in merito al meccanismo successorio imperiale. L’impero non ebbe una
Costituzione scritta e si comprese subito che il meccanismo successorio era il punto debole del nuovo
ordinamento costituzionale. Era il problema centrale, si trattava di un nodo che bisognava scogliere
determinando i criteri di successione per garantire e dare stabilità all’istituzione imperiale. Ciò perché il
momento del trapasso era fonte di instabilità, precarietà del sistema. Il problema della trasmissione del potere
era il momento più delicato, il momento del vuoto al vertice. Sono sostanzialmente due i criteri di successione
ai quali si fece ricorso in questo lungo arco temporale: si assiste all’affermazione del principio della
successione naturale, in sostanza il criterio ereditario, basato sui rapporti di parentela, in base ai legami di
sangue. A questo criterio fanno ricorso sia la dinastia dei Giulio-Claudia, sia la dinastia dei Flavi, ma anche i
Severi nel III secolo d.C. Fanno eccezione gli Antonini (che regnano nel II secolo a.C.), che ricorreranno al
cosiddetto criterio adottivo, cioè basato sull’adoptio del migliore, del più meritevole. In sostanza, ciascuno
degli imperatori Antonini adotterà come figlio il più degno dei propri collaboratori a prescindere dai legami di
parentela. Ricordiamo che dopo la morte di Augusto, si succedettero al trono imperiale 4 dinastie: Giulio-
Claudia (regna nel I secolo d.C., dal 14 al 78), figure di imperatori alquanto discutibili (Tiberio, Caligola,
Claudio e Nerone). Dopo un anno di anarchia militare, l’anno dei famosi 4 imperatori (78-79), sale al potere
la dinastia Flavia (regnano nel I secolo d.C., dal 79 al 96): Vespasiano, Tito, Domiziano. Dopo la dinastia
Flavia salgono al potere gli Antonini (regnano nel II secolo d.C., dal 96 al 192), che regnano durante il secolo
d’oro di Roma, in cui raggiunge la massima espansione territoriale. Sono gli unici a seguire il criterio adottivo;
sono Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo (figlio naturale di Marco Aurelio,
quindi si ritorna al criterio dinastico). Dopo gli Antonini salgano al potere i Severi (regnano dalla fine del II
secolo e l’inizio del III secolo d.C., 193 al 235): Settimio Severio, Antonino Caracalla, Macrino, Eliogabalo e
Alessandro Severo*

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Dopo si ha un periodo di anarchia militare, dal 235 al 268 d.C., caratterizzato dalla lotta tra i comandanti delle
legioni romane per il conseguimento della carica suprema. Si succedono diversi imperatori in questo lungo
trentennio. Dal 268 abbiamo il periodo degli imperatori illirici, provenienti dall’illiricum, le regioni della
penisola Balcanica. Il più importante è l’ultimo imperatore, Diocleziano, un generale di origine dalmata. Egli
ascende al trono nel 284 e governa per circa 30 anni, fino al 305 (IV secolo d.C.) e dal suo regno inizia una
nuova epoca storica: l’età del tardo impero.
A parte la dinastia degli Antonini, ricorsi al criterio adottivo, i Romani sembrano indirizzare il loro favore
verso il criterio dinastico, ereditario. Ciò perché questo criterio dinastico appariva più compatibile al nuovo
assetto costituzionale, perché l’applicazione di questo criterio sembrava offrire maggiori garanzie di stabilità,
offrendo maggiori possibilità di evitare conflitti, contese e lotte per il conseguimento della suprema carica. Il
potere imperiale non si trasferì mai automaticamente da un imperatore all’altro, perché si ritenne sempre
necessario un atto di investitura formale del nuovo principe, da parte degli organi titolari del potere (il Senato,
il popolo). Il ruolo dell’esercito nel meccanismo successorio divenne importante dal III secolo d.C., quando
l’esercito diventa arbitro dell’avvicendamento al trono, perché l’elemento militare diventa determinante nella
scelta dell’imperatore. Già Vespasiano nel 79 d.C. era stato acclamato imperatore dai soldati. Ma è dal III
secolo che questo principio si consolida, nel periodo che va dal 235 al 284 d.C.

aSSetto coStituzionale

Uno dei connotati essenziali di questo nuovo assetto costituzionale è costituito dalla coesistenza tra vecchio e
nuovo: un nuovo ordinamento prende forma e si sovrappone all’ordinamento repubblicano (dualità di
ordinamenti). Il potere imperiale certamente nasce e si sviluppa all’interno delle strutture repubblicane. Fatta
questa premessa dobbiamo porci due interrogativi:
1. Qual è il destino dei vecchi organi repubblicani all’interno del nuovo assetto?
Restano formalmente in vita tutti gli organi costituzionali dell’età repubblicana (le magistrature, le assemblee
e il Senato), ma le funzioni che questi svolgono nel nuovo ordinamento non sono più quelle adempiute in età
repubblicana. Si assiste ad una modifica, a delle notevoli e sempre maggiori limitazioni delle funzioni degli
organi, che vengono gradualmente depotenziati delle loro prerogative. In sostanza, il meccanismo di
svuotamento delle prerogative era ormai scattato ed irreversibile: tuttavia non avviene tutto insieme, ma
gradualmente, progressivamente. Anche Tacito negli Annales sottolinea che le magistrature repubblicane si
ridurranno a dei puri vocabula.
Le magistrature finirono a svolgere delle funzioni amministrative di facciata: si ridurranno a meri titoli
onorifici, di prestigio:
I consoli verranno nominati fino al VI secolo (fino a Giustiniano), fino alla piena tardo-antichità, ma si
riducono gradualmente ad una funzione onorifica. L’attribuzione più importante restò l’eponimia, questi
continuarono a dare i nomi all’anno, ma questa carica subì un radicale e progressivo svuotamento del contenuto
politico, degli effettivi poteri dei consoli, in concorrenza con la figura sempre più assorbente dell’imperatore.
C’è anche una modifica importante per quanto riguarda la durata: da annuale divenne semestrale (e dal III
secolo, con i Severi, divenne bimestrale). Coloro che entravano in carica il 1° gennaio erano i consoli eponimi,
che davano il nome all’anno e venivano chiamati “consoli ordinari”; quelli nominati nel corso dell’anno erano
i consoles sunfecti, cioè i consoli che subentravano nel corso dell’anno al posto dei consoli ordinari.
La pretura conserva la sua competenza giurisdizionale fino all’età di Adriano, al II secolo d.C. (117 al 138
d.C.), quando comincia la decadenza di questa carica. Ciò è dovuto alla concorrenza della funzione
giurisdizionale svolta direttamente dal principe e dai suoi funzionari, nell’ambito della cosiddetta cognitio
extra ordinem, un nuovo tipo di processo che nasce nel principato e che prima si affianca alla procedura
formulare e poi la soppianterà definitivamente. In età tardo-antica l’unico procedimento esistente sarà questo.
La carica del pretore sopravvive, quindi, con le sue funzioni fino al II secolo d.C. e si ridurrà all’allestimento
dei giochi pubblici.
La censura viene assorbita nella somma dei poteri imperiali, nel senso che il potere censorio, la potestas
censoria, viene assunta direttamente dagli imperatori, fa parte delle prerogative che verranno assunte
dall’imperatore.

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Il tribunato è la magistratura che risente maggiormente della presenza dell’imperatore, in quanto i poteri dei
tribuni diventano contenuto della carica imperiale, del potere del princeps.
L’edilità esaurisce i suoi compiti gradualmente e scomparirà nel corso del III secolo d.C., poiché le loro
funzioni verranno assorbite da nuovi funzionari imperiali, che saranno addetti alla cura dell’annona, ai compiti
di polizia urbana, di sorveglianza sugli incendi ecc. La cura ludorum sarà affidata ai pretori.
I questori, in totale, sono 20, di cui 8 operano in città, 12 nelle province. Degli 8 questori che operano in città,
2 sono detti questores Augusti perché erano una sorta di segretari personali del principe, addetti alla persona
del principe. Gli altri 12 operavano nelle province coadiuvando il governatore delle province.
Attraverso la gestione delle antiche magistrature repubblicane veniva aperto l’accesso alle nuove funzioni
imperiali, molto ben remunerate.
Le assemblee in un primo periodo (I secolo d.C.) sopravvivono, soprattutto conservano sia la competenza
legislativa sia elettorale, mentre perdono la competenza giurisdizionale in materia criminale. La competenza
legislativa, già dopo Augusto, si eclissa e l’ultima legge di cui abbiamo notizia è della fine del I secolo d.C.,
risalente al principato di Nerva (96-98 d.C., in materia agraria). La competenza elettorale sopravvive per una
prima fase, ma si riduce poi sempre più ad una mera approvazione di una lista di candidati alle magistrature,
predisposta dal principe. I nomi dei candidati erano tanti quanti erano i posti da ricoprire. Anche questa
funzione si esaurirà. Perdono da subito la competenza giurisdizionale in materia criminale (già a partire dalla
metà del II secolo a.C., in età repubblicana, questa competenza viene devoluta alle questiones perpetue, cioè
dei tribunali permanenti, ciascuna competente a giudicare un determinato reato).
Sia nell’ambito della giurisdizione criminale che civile, si affermano nuovi tipi di processi, che prima di
superare i vecchi si affiancano a questi.
Il Senato: Augusto fissò a 600 il numero dei senatori, che venivano scelti dallo stesso principe in forza delle
sue funzioni censorie secondo il metodo repubblicano, cioè tra coloro che avevano svolto una carica
magistratuale. Il senato di occupa dell’amministrazione delle province più antiche, ricche e civilizzate, quelle
più pacificate (Asia, Africa, Grecia). Si occupa anche dei reati politici, ma quest’attività giudiziaria si eclisserà
alla fine del II secolo d.C., perché il tribunale imperiale si sostituirà sempre più spesso al senato. A queste
funzioni se ne aggiunsero di nuove e molto importanti: parallelamente all’eclissi delle assemblee, emerge una
funzione legislativa ed elettorale del Senato. Il Senato, quindi le acquisisce poiché in età repubblicana
spettavano alle assemblee.
La competenza legislativa si afferma tra il I e il II secolo d.C., esercitata attraverso i senatus consulta con
valore normativo. Il Senato consulto, ora, diventa vero e proprio atto di normazione, frutto di una competenza
legislativa del senato. Questa competenza si ridurrà ben presto ad una mera approvazione di una proposta di
legge presentata in Senato dall’imperatore. Si parlerà a proposito di oratio principis in senatu habita, ciò è
importante perché attraverso il senato consulto normativo, si aprirà la strada verso gli atti normativi imperiali,
autonomi del principe.
La competenza elettorale viene assunta dal Senato e si ridurrà all’approvazione di quella lista di candidati già
predisposta dall’imperatore. Infine, è il Senato ad attribuire all’imperatore la tribunicia potestas e l’imperium
pro consolare, è il Senato ad attribuire il fulcro e l’essenza stessa dei poteri del Senato. È il principe, nello
stesso momento, a scegliere i senatori.
2. Quali sono i nuovi organi che nascono nell’età del principato?
Innanzitutto il principe, poi i funzionari imperiali e, infine, il consilium principis.
Il principe è la figura centrale di questo nuovo assetto costituzionale. È un organo monocratico, stabile,
permanente. È un organo vitalizio, non ha limiti temporali; non ha limiti spaziali, i suoi poteri sono sconfinati,
territorialmente illimitati. I due poteri che rappresentano il fulcro della carica sono la tribuicia potestas, cioè
il mezzo per il governo della città, lo strumento per il controllo del centro, mentre l’imperium pro consolare è
il mezzo per il controllo dei territori provinciali, periferici.
La posizione del princeps è considerata legittima perché i poteri gli sono attribuiti, conferiti, con un atto
normativo, con la “lex de imperio”, un atto di delega con il quale il popolo e il Senato trasferivano
all’imperatore ogni prerogativa, ogni funzione di loro pertinenza. Il principe esercita il potere perché è a ciò
delegato dal popolo e dal Senato. Il fondamento del potere imperiale viene, quindi, ricercato nella lex de
imperio. La costituzionalità, la legittimità degli atti normativi imperiali verrà ricercata collegando il potere
normativo del princeps con la lex de imperio.

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Di questi atti di delega ce n’è giunto soltanto uno e per giunta mutilo, cioè non per intero. È la lex de imperio
vespasiani (69 d.C.), incisa su delle lastre di bronzo, ed è la legge con la quale il popolo confermò la decisione
del senato di attribuire a Vespasiano i poteri imperiali, di princeps, dando un aspetto di legalità e legittimità
alla sua posizione. È un’esplicita legalizzazione del potere imperiale, al quale il principe non rinuncerà: esercita
il potere perché gli è stato attribuito, conferito, e non perché l’ha preso lui.
I funzionari imperiali sono i collaboratori del principe, gli ausiliari, per essere coadiuvato nelle sue funzioni,
sempre più ampie, si servì di funzionari, il cui numero crescerà sempre più. Questi avevano tre caratteristiche
che li differenziano dagli antichi magistrati repubblicani:
• sono scelti dall’imperatore, nominati dal princeps, non sono eletti dal popolo (a differenza dei
magistrati repubblicani);
• sono stipendiati, ricevono una retribuzione per lo svolgimento dei propri compiti (non è più una carica
solo onoraria come i magistrati repubblicani, caratterizzati dalla gratuità);
• non sono sottoposti a limiti prestabiliti, predeterminati (a differenza dei magistrati repubblicani che
erano limitati dalla temporaneità e dalla collegialità).
Le più importanti categorie dei funzionari imperiali sono 5:
1. Praefecti;
2. Legati;
1. Procuratores;
2. Curatores;
3. I funzionari che lavorano all’interno delle cancellerie imperiali (officia palatina).
I praefecti sono organi centrali, che sono preposti al controllo del funzionamento dell’apparato statale. Abbiano
4 tipi di praefecti:
- “prefetto del pretorio”, è la carica più importante dopo l’imperatore, il primo dignitario di corte. In origine
era il comandante della guardia imperiale, formata da 9000 uomini. Nasce con questa caratterizzazione
militare, ma poi assume una competenza più ampia, più generale, investendo anche l’ambito civile, diventando
il sostituto dell’imperatore (ad esempio nell’esercizio della funzione giurisdizionale);
- il “praefectus urbi” era un funzionario addetto al controllo di Roma, e aveva sostanzialmente compito di
polizia urbana, era tutore dell’ordine pubblico e in quanto tale aveva anche una giurisdizione nella sfera di sua
competenza.
- “praefectus vigilum” era il comandante dei vigili del fuoco, addetto alla sorveglianza delle misure antincendio
di Roma. Anche questo ha una giurisdizione nella sfera di sua competenza;
- “praefectus annone”, che opera a Roma ed è il funzionario imperiale addetto all’approvvigionamento della
città. Anche questo ha una giurisdizione nella sfera di sua competenza.
I legati sono, invece, organi periferici, operano nelle province: apprendiamo da uno storico dell’età di Augusto
che fu quest’ultimo a dividere le province in province senatorie e imperiali. Le province senatorie erano le più
antiche ed erano amministrate da un governatore provinciale, preses, coadiuvato da un questore provinciale.
Le province imperiali, province principis, erano le province più nuove, di recente istituzione, ancora turbolente,
non ancora pacificate, che richiedevano stanziamenti militari. Queste province erano amministrate
direttamente dall’imperatore attraverso un uomo di fiducia.
I procuratores sono funzionari imperiali preposti all’amministrazione di un patrimonio, svolgevano funzioni
in ambito finanziario.
I curatores erano funzionari che si occupavano di pubblici servizi di grande rilievo, ad esempio i curatores
acquarium, che si occupavano degli acquedotti, o quelli che si occupavano delle opere pubblici.
I funzionari che lavorano all’interno delle cancellerie imperiali (officia palatina) si trovavano negli uffici
amministrativi della corte imperiale. Uno dei compiti più ampi dell’imperatore fu quello di creare un apparato
forte, organizzato in una pluralità di uffici. Questa burocratizzazione inizia con la fase imperiale. Tra questi
uffici ne ricordiamo due: l’officium ab epistulis, cioè la cancelleria imperiale che si occupava delle epistole e
l’officium a livellis, una cancelleria preposta al disbrigo dei libelli, cioè dei documenti scritti che contenevano
istanze e richieste rivolte dai privati direttamente all’imperatore.

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Il Consilium principis è il consiglio del principe, dell’imperatore. In sostanza è l’organo consultivo


dell’imperatore. È l’insieme dei collaboratori più intimi e fidati dell’imperatore. Sono esperti in vari settori di
intervento.
Iniziamo tracciando la storia di questo organo. Nella prima fase del principato vi era una prassi consultiva, nel
senso che non si trattativa di un organismo stabile, ben definito, non nasce fin da subito come un organo
ufficiale di consulenza, ma lo diventerà. All’inizio si ha una prassi consultiva: I principi consultavano I loro
consiglieri anche uno alla volta, non convocando il gruppo. Questo processo di istituzionalizzazione inizia con
Adriano a partire dal II secolo d.C.
Diventa un organo stabile, permanente con funzioni consultive in tutte le materie di competenza del principe.
Era frequentissima la presenza di giuristi, esperti di diritto, erano I consulenti giuridici dell’imperatore. Ad
Adriano si attribuisce la nascita dei consiliarii Augusti. Questi sono stipendiati, ricevono una retribuzione.
Questo processo di istituzionalizzazione prosegue e si conclude con Diocleziano e Costantino, in età tardo
antica. Con Diocleziano si assiste ad un mutamento della denominazione di questo organo: da lui in poi si
parlerà Consistorium, dal verbo cum sisto, cioè stare in piedi insieme. Era chiamato così per alludere a questo
uso, perché I membri erano obbligati a stare In piedi in presenza dell’imperatore.
Costantino, poi, incise profondamente sulla composizione del consistorium, vi fece rientrare 4 alti funzionari
da lui istituiti che diventarono membri fissi.
1. Il Comes sacrarum largitionum, un ministro delle finanze. Un funzionario preposto all’amministrazione
finanziaria dell’impero (controllava il tesoro centrale, le casse imperiali)
2. Il Comes rerum privatarum, un funzionario affetto all’amministrazione della res privata principi, al
patrimonio della corona: un patrimonio di beni del principe;
3. Quaestor sacri palatii, il supremo consulente giuridico dell’imperatore;
4.Magister officiorum, un funzionario che coordina e controlla i più importanti officia palatina (cancellerie);
I Comites consistoriani erano gli altri funzionari, ognuno con diverse funzioni, che facevano parte di questo
organo.
Il Consilium principis (poi consistorium) data la sua composizione (costituito da esperti, tecnici, consiglieri
competenti nei vari settori di intervento) ben rispondeva alla necessità dell’imperatore di avere un aiuto
immediato, un consiglio immediato nell’espletamento delle sue funzioni. Questo tipo di risultato non si sarebbe
conseguito con il Senato, l’organo consultivo dell’età repubblicana (e ancor prima con il consiglio degli
anziani). Nell’età imperiale è tardo imperiale questo risultato si potrà avere solo con il Consilium principis,
che si sostituì gradualmente e poi completamente al Senato.

le Fonti del diritto

Delineato l’assetto costituzionale, ci possiamo occupate delle fonti del diritto in età imperiale.
Il principato è caratterizzato dalla pluralità delle fonti, cioè la continuazione, almeno sul piano formale, del
vecchio apparato costituzionale, fa sì che le fonti preesistenti esistano ancora per un certo lasso temporale. In
epoca Augustea vigono ancora la lex publica, l’editto pretorio e l’attività della giurisprudenza. Tuttavia,
gradualmente, vedremo l’affermarsi del senato consulto normativo e degli atti normativi imperiali. Si può
parlare, per il principato, di una pluralità di fonti, ma in ordine di successione storica: tutte le fonti menzionate
non furono contemporaneamente produttive di norme, cioè gradualmente si esaurisce l’attività legislativa delle
assemblee, quindi scompare la lex; gradualmente si fossilizza l’editto pretorio; il Senato consulto si afferma
ma avrà vita breve (solo nei primi due secoli); su tutte queste fonti prevarrà la Constitutio principis, la
costituzione imperiale. Sopravvive e si potenzia solo la giurisprudenza, l’attività dei giuristi, per il carattere
peculiare e singolare della giurisprudenza (all’emanazione di norme deve sempre conseguire
un’interpretazione). Nei primi tre secoli dell’impero si ha la grande stagione della giurisprudenza romana, il
fiore all’occhiello del diritto romano.
Nel III secolo si ha ormai una bipartizione, un binomio tra imperatore e giurisprudenza. Un binomio che
caratterizzerà anche l’età tardo antica. Si parla di leges e iura, in un significato diverso: leges nel senso di leggi
imperiali, iura nel senso specifico di scritti giurisprudenziali, opere dei giuristi. Quando parliamo di

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giurisprudenza, ci riferiamo al fatto che in quest’ultima viene ricompreso anche il diritto precedentemente
prodotto da tutte le fonti giuridiche che poi si inaridiscono; fonti delle quali si aveva conoscenza attraverso le
opere dei giuristi. In sintesi, il potere normativo imperiale emerge e si afferma in maniera definitiva
parallelamente all’esaurirsi delle altre fonti. La prima domanda che dobbiamo porci è qual è il destino delle
antiche fonti nei primi tempi del principato.

LE LEGES PUBLICAE Augusto tentò di attutare il suo programma usando le antiche leggi comiziali,
tant’è che fece votare numerose leggi dalle assemblee (i rapporti di famiglia, il
risanamento dei costumi e la disciplina del processo, sia civile sia militare). Si ricorda la famosa “Lex iulia de
adulteriis coercendis” (18 a.C.) che considera reato l’adulterio, prevedendo pene severissime e prevedendo
l’istituzione di un’apposita questio, un tribunale permanente che giudicava l’adulterio. Le due leggi molto
importanti in materia di processo sono: le Leges Iuliae iudiciarie, approvate nel 17 a.C.: la prima legge è la
Lex Iulia iudiciorum privatorum. Relativa al processo civile, eliminò il vecchio processo “per leges actiones”.
Rese obbligatorio il processo formulare, al quale si affiancherà la comitio extra ordinem. Lex iulia iodiciorum
pubblicorum, che riguarda il processo pubblico, criminale. Questa riordina la disciplina del processo dinanzi
alle questiones perpetue, alle corte giudiziarie permanenti.
Già dopo il principato di Augusto, che ridà vita all’attività legislativa delle assemblee (scemata nel I secolo
a.C.), le tracce della produzione legislativa delle assemblee si perdono. Non è più possibile costruire con
continuità il percorso: l’ultima legge di cui abbiamo conoscenza risale alla fine del I secolo d.C, tra il 96 è il
98, sotto Nerva.
L’editto
Dal II secolo d.C., dall’età di Adriano e con la codificazione ad opera di Salvio Giuliano, si esaurisce anche la
fonte dell’editto pretorio. Da questo momento, l’editto cessa di essere uno statuto in continua formazione. Si
fossilizza, si cristallizza, si pietrifica. Ciò non deve sorprendere, perché avviene parallelamente con il
ridimensionamento del ruolo giurisdizionale del pretore (che si ridimensiona per la concorrenza del principe).
Dal II secolo scompare anche questa fonte.
Il senato consulto normativo
Si afferma proprio di pari passo con l’esaurirsi dell’attività legislativa comiziale. Un potere che si esprime
attraverso il senato consulto, che in età imperiale diventa vero e proprio atto di normazione, normativo,
giuridicamente vincolante. Le fonti: Gaio inserisce il senato consulto nel suo catalogo delle fonti, tra gli iura
populi romani, e afferma che il senato consulto è ciò che il senato prescrive e stabilisce e ha valore di legge.
Ulpiano afferma categoricamente che il senato può “facere ius”. Le fonti, quindi, attestano il potere del senato.
Durante l’età imperiale, però, sarà l’imperatore a produrre il diritto in senato: il principe presenta una proposta
di legge (Oratio principis in senatu habita) al Senato, che si limitava ad approvarla. Spesso nell’età del
principato, i senati consulti prenderanno il nome dal nome dell’imperatore che ha avanzato la proposta di legge
(ad es. senato consulto Claudiano, del 52 d.C. in materia di unioni fra donne liberi e schiavi). Attraverso il
senato consulto normativo come strumento per porre norme giuridiche, si apriva la strada a quelli che saranno
gli atti normativi autonomi dell’imperatore.
Constitutio principis
Sono gli atti normativi imperiali: consitutiones principum. Le fonti: Gaio la inserisce nel suo elenco delle fonti
e afferma che è ciò che l’imperatore stabilisce tramite decreto, editto ed epistola. Aggiunge che non si è mai
dubitato che essa abbia valore di legge, poiché lo stesso imperatore assume il potere in forza di una lex.
Ulpiano, dopo aver precisato che il potere normativo del principe affonda le sue radici in una lex, afferma che
di qualsiasi cosa l’imperatore dispone mediante epistola, rescritto, decreta o ordina con un editto, risulta che
sia legge “quod principi placuit, legis habet vigorem”. Che vi sia un potere normativo imperiale è acclarato,
ma bisogna capire quando si afferma questo potere. Gli studiosi ritengono che nel primo periodo del principato,
per tutto il I secolo d.C. non si possa parlare di un potere normativo autonomo dell’imperatore. Non si può
parlare di un vero e proprio potere normativo finché gli organi repubblicani furono operanti. Finché i comizi
esercitarono una funzione legislativa, anche se esigua, il potere normativo imperiale non si esplicò. L’idea che
emerge è che il potere normativo sia stata acquisito gradualmente, di pari passo con l’esaurirsi delle precedenti
fonti.

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Come si esplica il potere normativo imperiale? Come si può dedurre dalle fonti, si esplica in diversi tipi di atti
normativi, per la precisione 5:
a. gli edicta;
b. i decreta;
c. le epistulae;
d. i rescripta;
e. i mandata.
a. Gli edicta sono e consistevano in provvedimenti normativi di carattere generale, emanati
dall’imperatore. In sostanza, l’editto è una lex generalis. L’editto contiene, infatti, un generale
preceptum, un precetto generale. L’editto imperiale disciplina delle fattispecie generali ed astratte e
dunque poteva essere applicato analogicamente, ai casi simili, analoghi, a tutti i casi che rientravano
in quella specie generale ed astratta disciplinata nell’editto. Si deve sottolineare che questo tipo di
editto si differenzia per più profili dall’editto pretorio, sia per contenuto, sia per efficacia. In primo
luogo perché l’editto pretorio era un programma giurisdizionale, conteneva i precetti ai quali il pretore
si atteneva nell’anno di mandato; l’editto imperiale disciplinava questioni generali, astratte ed era
vincolante per tutti i cittadini ai quali si rivolgeva. Inoltre, l’editto pretorio era un auto limitazione del
pretore, mentre in quello imperiale venivano regolati i comportamenti dei cives. In secondo luogo,
l’editto pretorio durava un anno, era limitato temporalmente; l’editto imperiale aveva efficacia
perpetua, non si esaurisca con la scomparsa dell’imperatore che l’aveva emanato. C’è anche una
distinzione sull’efficacia territoriale: l’editto pretorio aveva valore solo a Roma e nei confini, quelli
imperiale si estendeva a tutto l’impero (ad es. l’editto di Caracalla, 212 d.C., che estende la civitas
romana a tutti gli abitanti dell’impero).
b. I decreta, in senso tecnico, stanno ad indicare le sentenze imperiali, emanate dall’imperatore
nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale. È la sentenza che chiude un processo, la decisione
che chiude una causa di cui era investito il tribunale imperiale. Siamo di fronte ad un provvedimento
a carattere particolare. Materialmente, il decretum era redatto dall’officium a cognitionibus, che
fungeva da cancellerò del principe come organo giudiziario. Il decretum implicava un’attività
completa da parte del principe, che doveva occuparsi anche all’accertamento delle parti in causa. La
decisione che chiudeva il processo era vincolate, inoppugnabile. È una decisione che concerne un
determinato processo. Nel corso del II secolo d.C., si attribuì al decretum il valore di exemplum, nel
senso di autorevole precedente. Dunque, non formalmente, ma di fatto, vincolante per altri giudici di
processi analoghi, che tendevano ad unificarsi alla decisione imperiale. Il fulcro della decisione,
quindi, pur essendo particolare, viene usata nei casi analoghi.
c. Le epistulae sono un altro tipo di atto. È una lettera, una comunicazione scritta dell’imperatore con
cui il principe rispondeva ad un’altra epistola che gli era stata inviata di norme da un funzionario o un
magistrato per sottoporgli una questione giuridica controversa. Questa questione era essenziale per la
soluzione di una causa pendente di un tribunale diverso da quello imperiale. Con l’epistola,
l’imperatore risolve solo la questione giuridica che gli viene sottoposta, sarà poi il giudice a dover
accettare infatti. La soluzione dell’imperatore è subordinata alla verità dei fatti delle parti in causa.
L’epistola era redatta materialmente dall’ufficio ab epistole. Era un provvedimento a carattere
particolare, valeva solo per la questione giuridica sottoposta al giudice.
d. I rescripta erano pareri dati dall’imperatore, risposte su punti giuridici controversi, su questioni di
diritto controversie rivolte da privati, da cittadini. Le istanze venivano presentate dai privati attraverso
i libelli, uno scritto che contiene l’istanza, la domanda. Il principe, con il rescritto, risponde alla
domanda del privato e viene scritta in calce, sotto il quesito posto. Era redatto materialmente
dall’officium a libellus, che si occupava del disbrigo dei tanti libelli. Anche il rescritto è a carattere
particolare. Le domande rivolte dal privato cittadino all’imperatore erano finalizzate a mettere fine ad
una controversia che pendeva dinanzi ad un altro tribunale, diverso da quello imperiale. Anche in
questo caso la risposta dell’imperatore riguardava solo la situazione di diritto e doveva essere il giudice
ad accertare i fatti di causa. I rescripta ebbero, nel corso del principato, un’importanza sempre
maggiore. Diventarono lo strumento principale di estrinsecazione della volontà del principe (almeno
fino a Diocleziano, fine III secolo d.C.), poi in età tardo antica si ricorrerà prevalentemente all’editto.

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Efficacia: I decreta, i rescripta e le epistole sono particolari e relativi alla sfera giurisdizionale. Il decreto,
essendo una sentenza che chiude uno specifico processo, ha un’efficacia valevole per la precisa situazione. I
rescripta e le epistole erano subordinate alla veridicità dei fatti esposti dalle parti in causa accertati dal giudice.
Queste decisioni imperiali potevano allargare la propria efficacia ed acquisirne una più generale, al di là del
caso concreto? Sia i decreta che le epistulae che i rescripta potevano allargare la loro efficacia attraverso la
mediazione dei giuristi, attraverso la loro attività interpretativa. È stato merito indiscusso dei giuristi che
interpretavano i contenuti degli atti normativi imperiali e delle decisioni adottate in sede giurisprudenziale, di
essere riusciti ad estrarre dal singolo caso il principio genere sotteso a quella situazione. Attraverso l’attività
interpretativa, la singola decisione veniva sollevata dal piano dei provvedimenti giurisprudenziali e veniva
messa sul piano dei provvedimenti normativi. Veniva, quindi, eliminata la fattispecie particolarissima, anomala
ed irripetibile. Venivano eliminati anche quei provvedimenti legati alla decisione di favorire una persona o una
categoria di persone.
e. I mandata sono delle istruzioni, una sorta di direttive, circolari, ordinanze, di carattere generale che
venivano date dall’imperatore ai suoi collaboratori, in particolare ai governatori provinciali. Erano
scritte e trattavano materie diverse: amministrative, processuale, finanziaria ecc. I mandata principum
sono una sorta di circolari, impartite dal principe ai suoi funzionari, in particolare ai governatori
provinciali. Erano istruzioni a carattere generale in diverse materie. I mandata non appaiano
nell’elenco delle fonti di Gaio o in quello di Ulpiano. Solo Marciano, giurista dell’età severiana, nelle
sue Institutiones cita i mandata. Ci si è chiesti quali possono essere i motivi per le quali Gaio e Ulpiano
non li hanno menzionati. È stato ipotizzato dagli studiosi che i mandata non fossero stati indicati
perché riguardano un rapporto interno tra l’imperatore e i suoi funzionari. La fonte normativa non si
rivolge direttamente ai destinatari, ma indirettamente: sono rivolti ai governatori, che devono curare
l’osservanza di quelle norme. Ci sarebbe un legame indiretto tra la fonte normativa e i destinatari. Si
è ritenuto che la mancanza dei mandata sia spiegabile con il legame indiretto e il carattere interno di
queste fonti. A tutto questo dobbiamo aggiungere un’altra osservazione: si era affermato il principio
secondo il quale, tutto ciò che stabilisce il princeps ha forza di legge, in qualsiasi modo: Ulpiano
riportava la massima “tutto quello che dispone il principe ha valore di legge”. Fatta questa riflessione,
facciamo una considerazione sull’efficacia dei mandata. Si ritiene che in una prima fase, il valore dei
mandata fosse limitato alla vita dell’imperatore che l’aveva emanato; nel tempo, le istruzioni più
efficaci, cominciarono a consolidarsi, ad essere trasmesse da un principe all’altro. In origine si trattò
di istruzioni ad personam, date dall’imperatore ad un singolo governatore, poi invalse l’uso di
raccogliere le istruzioni che avevano mostrato una maggiore efficacia nei libri mandatorium. Il liber
o corpus mandatorium era un insieme stabile di istruzioni stabili, che veniva consegnato
dall’imperatore, al governatore in partenza per la provincia.

Nell’età del principato, e ancor più in età tardo antica, il principe si pone come unica fonte di produzione del
diritto; le fonti parleranno di lex animata. Da un diritto giurisprudenziale, arriveremo ad un diritto legislativo,
cioè un diritto che nasce e si origina dall’attività normativa, dell’imperatore. L’Imperatore, però, non è un
giurista, quindi supplisce alle sue carenza avvalendosi ancora dell’attività dei giuristi. I giuristi sono coloro
che conferiscono credibilità all’attività dell’imperatore, dando una forma giuridica corretta alla voluntas
principis.

GIURISPRUDENZA Per poter comprendere fino in fondo il ruolo dei giuristi dell’età del principato, è
imprescindibile inquadrare i rapporti tra principi e giuristi. In questo ambito, si
inquadra il così detto ius respondendi ex auctoritate principis, il diritto di rispondere dall’autorità del principe.
Si tratta di una prerogativa introdotta da Augusto. Augusto, stabilì che determinati giuristi, scelti dal principe,
potessero dare responsa, fondandoli sull’autorità imperiale. I responsa dovevano essere in forma scritta, a
garanzia dell’autenticità, che finirono per essere vincolanti per i giudici nei processi. Questi repsonsa
oltrepassavano i confini del parere puro e semplice e obbligavano i giudici nelle loro decisioni; dovevano
seguire la soluzione proposta e derivante dai giuristi muniti di ius repsondendi ex auctoritate principis. In
teoria si trattava di un titolo onorifico, ma acquisirono un valore giuridico. Erano responsi speciali, rafforzati

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dall’autorità imperiale, che venivano dati in nome del principe. Ovviamente finirono per acquisire un’efficacia
vincolante al pari di tutte le altre manifestazioni di volontà dell’imperatore. I giuristi non muniti di ius
rispondendo ex autcoritate principis, potevano dare responsa, svolgere la propria attività di consulenza,
scrivere opere di diritto, però darono repsonsa fondandoli solo sulla propria autorità. Potremmo dire che davano
reponsa ex propria auctoritate. La mancanza dell’autorizzazione da parte del principio, li emarginava in
concreto dalla discussione forense (disputatio forum), perché i loro pareri non vincolavano i giudici.
Ci sono due motivazioni alla base di questa concessione augustea. Una motivazione politica e un’altra di
esigenza di certezza del diritto. Il provvedimento Augusteo aveva un chiaro rilievo politico, perché attraverso
questo strumento l’imperatore esercitava un controllo politico sulla giurisprudenza. Conferiva lo ius
repondendi solo ai giuristi più graditi e più fidati. Lo ius respondend ex auctoritate principis risponde anche
ad un’esigenza di maggiore certezza del diritto; Pomponio ricorda la ratio di questo provvedimento augusteo
e precisa che lo ius respondendi sarebbe stato concesso per accrescere l’autorità del diritto (ut maior iuris
auctoritas aberetur). Avrebbe ridotto il così detto ius controversum, il diritto incerto. Questo diritto era stato
alimentato nel tempo dall’incertezza relativa all’autenticità dei responsi; vi erano spesso dubbi in merito alla
paternità di un determinato responso. I pareri dati dai giuristi dotati di ius repsondendi erano dati in forma
scritta a garanzia dell’autenticità di quel responsum. I responsi giurisprudenziali, in più, erano molto spesso
contraddittori tra loro. Esprimevano su una questione giuridica soluzioni diverse. Questo tipo di provedimento
mirava anche a garantire una maggiore certezza riducendo lo ius controversum, che poneva grande difficoltà
agli operatori del diritto. Guarino ha parlato di una “patente del buon giurista” in merito allo ius respondendi
auctoritate principis; ricorda che con Tiberio, questo istituto assunse la denominazione di ius pubblicae
respondendi, ex auctoritate principis. Fu un privilegio tale da consentire ai giuristi privilegiati di condere iura,
creare norme. Infatti, Gaio, nelle sue Institutiones, così definisce i responsa: “i pareri di coloro ai quali è
permesso creare diritto”. Con il tempo, però, anche questo sistema manifestò limiti ed inconvenienti, perché
non si poterono evitare conflitti tra i giuristi muniti di ius respondendi; i giudici si videro portare in processo
parare tutti ugualmente autorevoli, ma contraddittori. Già dopo la metà del I secolo d.C., gli Imperatori
limitarono sempre più la concessione dello ius respondendi e Adriano stabilì che i responsa prudentium
avrebbero vincolato i giudici solo se conformi tra loro. Gaio scriveva “ Se i pareri di tutti i giuristi sono
concordi, quello che ritengono tiene il posto della legge; se invece non sono concordi, al giudice è consentito
scegliere quello che vuole. Ciò è ribadito da una decisione del divino Adriano”.
Dato che i pareri giurisprudenziali erano conformi tra loro molto raramente, i privati cominciarono a ricorrere
sempre meno ai reponsa, preferendo portare in giudizio i rescripta principum.
Quando parliamo di giurisprudenza di età Imperiale, ci riferiamo alla giurisprudenza che inizia con Augusto e
finisce con la fine della dinastia de Severi (III secoli d.C.). Questi primi tre secoli dell’Impero, rappresentano
la grande stagione della giurisprudenza romana. Essa si sviluppò in modo significativo già nel I secolo d.C.,
ma raggiunge il culmine nel II secolo d.C, nell’età degli Antonini, secolo dell’apogeo dell’Impero romano. A
partire da Adriano, i giuristi si identificano sempre più con i funzionari imperiali. Entrano a far parte
nell’organo consultivo dell’Imperatore, il consilium principis. Gradualmente vengono a ricoprire posizioni
sempre più di rilievo nell’amministrazione imperiale; con i giuristi severiani si arriverà a ricoprire addirittura
la prefettura del pretorio, la massima carica amministrativa imperiale, dopo la carica del princeps. Una seconda
importante caratteristica è che i giuristi del principato sono stipendiati, retribuiti. Mentre in età repubblicana
svolgevano gratuitamente la loro attività, nell’età del principato possono anche non essere ricchi e benestanti,
potendo vivere dell’attività compiuta. Il respondere, cavere ed agere, attività principali dei giuristi di età
repubblicana, non sempre permangono, ma quando lo fanno, mutano. L’attività di dare responsa rimane, ma
pur partendo dal caso singolo si dà sempre più spazio all’argomentazione giuridica. Cavère è l’attività di dare
consulenze sui negozi giuridici: questa attività si riduce progressivamente, fino a scomparire all’apparizione
dei formulari. L’àgere era l’attività di consulenza in materia processuale, sia in caso di precessi per legis
actiones, sia nel caso di precessio per formulas: questa attività scompare progressivamente, con il
ridimensionamento del ruolo del pretore. La procedura per legis actiones scompare nel 17 a.C., la procedura
per formulas permane, ma và pian piano sempre a diminuire il suo uso. In età imperiale, però , si incrementò
notevolmente l’attività scientifico-letteraria dei giuristi, che si dedicano ad una produzione giuridica ampia e
diversificata. L’attività scientifico-letteraria ha un impulso enorme: abbiamo diverse opere di diritto, in diverse
forme.

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1. Opere casistiche: sono raccolte di casi giuridici. Appartengono a questo genere le raccolte di reponsa,
i libri responsorum, che altro non erano che una raccolta di reponsa dati a casi reali. Appartengono a
questo genere i così detti libri questionum, su casi giuridici, ma fittizi. Appartengono a questo genere
anche le raccolte miste (libri digestorum), di reponsa e questiones
2. Opere di commento: si diffondono opere di commento, ad editti pretori, ad una legge, o commentari
alle opere di altri giuristi.
3. Opere didattiche: sono trattazioni sistematiche e semplici degli elementi del diritto. Potevano essere
destinate all’insegnamento (Institutiones) o rivolte ai pratici, gli operatori del diritto (Libri regularum
o libri sententiarum)
4. Opere monografiche: trattazioni su temi specifici, determinati, ad esempio su singoli istituti (Libri
singulares)
Vediamo alcune figure di giuristi di età imperiale.

Giuristi di età augustea


La giurisprudenza del principato si apre con l’antitesi tra due scuole, quella dei proculiani e quella dei sabiniani.
Si tratta in sostanza di circoli giuridici; Aulo Gellio parla di “stationes”, luoghi di discussione. Questa antitesi
risale alla rivalità tra due giuristi di età augustea, Labeone e Capitone. Questa rivalità non è da condurre ad
una diversità di impostazione metodologica, ma ad una diversa posizione politica dei due caposcuola. Labeone
è un giurista molto originale, ma ha scarsa fortuna politica, perché è un nostalgico repubblicano; per questo fu
ostile al princpeps. Si pensa che abbia scritto addirittura 400 libri. Capitone è un giurista meno originale, ma
fortunato politicamente, perché fu un grande sostenitore di Augusto. Anche la sua produzione spazia, ma è
rivolta soprattutto al diritto pubblico e al diritto pontificale. Labeone fonda la scuola dei proculiani, Capitone
fonda la scuola dei sabiniani. Il primo allievo di Labeone fu Proculo, giurista, autore di opere casistiche, che
diede il nome alla scuola. Il primo allievo di Capitone fu Masurio Sabino, autore di opere casistiche e
soprattutto di tre libri di diritto civile (poi commentati da giuristi successivi), che diede il nome alla scuola.
Non emergono con chiarezza differenze sostanziali tra queste due scuole, ma l’appartenenza all’una o all’altra
scuola era occasionale.

Età dei Flavi


Verso la fine del I secolo d.C., nell’età dei Flavi (che regnarono nell’ultimo trentennio del I secolo d.C.),
emerse la figura di Giavoleno Prisco, giurista autore tra l’altro di 14 libri epistularum ( raccolta di pareri
giuridici, dati molto spesso attraverso epistualae, come risposte a domande rivoltegli da altri giuristi)

Età degli Antonini


Nell’età degli Antonini, c’è l’apogeo della giurisprudenza. In quest’epoca emergono le figure di:
1. Salvio Giuliano: è il più importante dei giuristi dell’età Adrianea, ed è considerato uno dei più
importanti giuristi del mondo romano. Con lui la giurisprudenza tocca l’acmè. Fu allievo di Giavoleno
e fece parte del Consilium principis di Adriano. Fu autore di 90 libri di digesta, nel quali tratta sia dello
ius civile, che dello ius honorarium e delle leggi imperiali. A lui si deve anche la famosa codificazione
dell’editto pretorio ( il così detto editto perpetuo)
2. Pomponio: è autore di 150 libri di commento all’editto, che aveva raggiunto la sua stabilità. È forse lo
scritto più ampio della giurisprudenza romana. A Pomponio si devono opere di commento ad opere di
altri autori; pensiamo all’ampio commento all’opera di Quinto Mucio, autore di 18 libri di diritto civile.
Si deve a Pomponio il così detto “Enchiridion” una storia giuridica di Roma
3. Gaio: autore delle famose “Institutiones”. È un manuale didattico, suddivisa in quattro libri. Gaio si
occupa di persone, cose e azioni nella sua opera. Sono importanti perché sono state ritrovate in un
manoscritto della biblioteca di Verona. È l’unica opera della giurisprudenza romana, che ci è giunta
direttamente: non attraverso i frammenti citati del Digesto di Giustiniano, ma direttamente attraverso
il manoscritto.

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Età Severiana
I giuristi severiani sono giuristi burocrati. I tre più grandi giuristi dell’età dei Severi sono Papiniano, Ulpiano
e Paolo, che arrivano alla prefettura del pretorio. Papiniano è prefetto del pretorio sotto Settimio Severo. È
autore di moltissime opere, soprattutto di carattere casistico. È autore di due libri de adulteriis, che
rappresentano un commento alla lex Iulia de adulteriis, la legge augustea che aveva considerato crimen
l’adulterio. Ulpiano scrive Insitutiones e commenti. Paulo scrive un commento a sabino, opere casistiche,
insitutiones. Autore di tre libri decretorum, raccolta di decreta, sentenze imperiali di Settimino Severo e
Caracalla.
Gli ultimi due giuristi dell’epoca sono Marciano e Modestino.
Risentono del clima instaurato dopo l'editto di Caracalla. Questi due ultimi giuristi si pongono il problema di
divulgare il diritto romano ai nuovi cittadini, i provinciali. Provano a volgarizzare il diritto romano per renderlo
più accessibile. Marciano è un alto funzionario sotto Caracalla e Alessandro Severo. È autore di sedici libri di
Insitutiones, scritto atipico, perché cerca di chiarire i punti più complessi di alcuni settori del diritto. Modestino
scrive sia in latino che in Greco. Autore di varie opere, casistiche e monografiche, in particolare i sei libri “De
Excusationibus. Un'opera sulle cause di estinzione della tutela. Tra giuristi e principi vi è un dialogo
permanente, vi è osmosi

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4. l’età tardo antica


É un'epoca che coincide con quel periodo storico che si era soliti indicare come "tardo impero ". É un periodo
che orientativamente va dall'età di Diocleziano (284/305) fino all'età di Giustiniano (muore nel 565). Riguarda
orientativamente i secoli IV, V, VI. Il termine "tardoantico" fu coniato da uno storico dell'arte del 1800, che
metteva in risalto le differenze artistiche di quei tre secoli rispetto all'età classica. È un'età di cerniera tra
antichità e Medioevo. Da circa 40 anni si è avuto un incremento notevole della riflessione storiografica su
questo periodo storico. Si è adottato un nuovo angolo visuale nello studio di questa epoca: si è messa in
discussione l'idea di decadenza e crisi, che aveva caratterizzato precedentemente l'approccio scientifico a
questa materia. Si è affermata invece un'idea di questo periodo come un periodo di cambiamento. Questo
mutamento di prospettiva ha determinato una nuova considerazione di questa epoca, una rivalutazione. Da
quarant'anni a questa parte, la tardo antichità è considerata come un laboratorio " dove sono state mescolate le
carte della storia ". Si assiste a fenomeni importanti durante questo periodo: per questo si è passata dalla
considerazione del Tardo Antico come periodo di trasformazione. Questo Nuovo approccio ha determinato
anche un nuovo interesse alle fonti, giuridiche e non (epigrafiche, papirologiche, ecc.…). É un periodo che più
che mai necessita uno studio interdisciplinare per essere compreso.

Periodizzazione
Qualsivoglia periodizzazione è sempre convenzionale. Il fluire della storia è ininterrotto, la storia avanza senza
interruzione. Proprio per la Tardo antichità, abbiamo due diverse impostazioni. Una tradizionale, seguita fino
agli anni '70, che individua il termine iniziale nel regno di Diocleziano o Costantino (III-IV secolo); il termine
finale nel 565 in Oriente, nel 568 in Occidente con l'invasione longobarda. Dopo questo incremento della
riflessione storiografica sulla Tardo antichità si è assistito ad un'estensione dei riferimenti temporali di questo
periodo. Il termine inziale potrebbe individuarsi nell'età dei Severi (II-III secolo), il termine finale nel X Secolo,
sino alla vigilia dell'età medievale. Il fulcro del tardo antico è comunque individuabile nel III-IV-V secolo

Fermenti innovativi del tardo antico


Nascono dei fenomeni che si svilupperanno nei secoli a venire, ma che hanno le radici nella tarda antichità.
Nasce la forma del codex, data la necessità di codificazione del diritto. Bisognava raccogliere sistematicamente
il diritto. Si afferma il ruolo centrale della legge generale, la lex generalis. Il precetto normativo, generale ed
astratto, diventerà il mezzo preferito dal legislatore per esprimere la sua volontà. Si delinea un concetto
embrionale di Stato proprio nella tarda antichità, soprattutto per quanto riguarda l'apparato burocratico.
È l'epoca in cui si pongono problematiche di grande attualità; si pensi al tema della libertà religiosa. Nasce
bella tardo antichità lo Stato confessionale. Nel 380 Teodosio I emana il famoso Editto di Tessalonica, che
sancisce la nascita dello Stato confessionale: la religione Cristiana-cattolica diventa la religione di Stato. Ciò
pone problemi sul rapporto Stato-Chiesa, ancora oggi di grande attualità. Ancora, il problema della multietnia,
l'incontro tra popoli diversi.

aSSetto coStituzionale

Si fonda sugli stessi elementi dell'età del principato. Ruota intorno alla figura del princeps, si fonda sui
funzionari imperiali e sull'organo consultivo dell’imperatore, il Consistorium.

1.Princeps
È l'asse portante dell'apparato Costituzionale tardoantico. In questa epoca il sovrano assume sempre di più i
caratteri del dominus: incarna sempre più la figura del monarca assoluto. La carica imperiale acquista un
carattere sempre più atocratico. Viene introdotta l'adoratio, la genuflessione dinanzi all'imperatore, con il bacio
dell'orlo del mantello. L'imperatore è avvolto da una certa sacralità. Questo profilo si riverbera anche sul piano
giuridico. In quest'epoca l'imperatore viene a porsi come indiscussa e unica fonte del diritto.

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2. Funzionari imperiali
Questo periodo vede l'affermarsi definitivo della burocrazia imperiale. Nascono in quest'epoca anche nuove
figure di funzionari: le quattro figure di funzionari imperiali, introdotte da Costantino, il comes sacrarum
largitionum (ministro delle finanze), comes rerum privatarum, quaestor scari palatii (ministro della giustizia,
supremo consulente giuridico), magister officiorum (coordinava gli officia più importanti).

3.Consistorium
È l'evoluzione del Conciliuum Principis, con una fisionomia ben precisa e definita. Anche la denominazione
che assume questo organo a partire da Diocleziano, deriva dal verbo "consisto" stare in piedi insieme , allude
alla prassi secondo la quale bisognava stare in piedi alla presenza dell'imperatore.
Gli organi sui quali si basa l'assetto costituzionale tardoantico sono gli stessi dell'epoca del principato.
Dobbiamo chiederci qual è il destino dei vecchi organi repubblicani; sappiamo già che in età imperiale
sopravvivono ma denaturati e svalutati. Durante il tardo antico:
• Le assemblee: hanno esaurito il loro ciclo vitale, già da secoli. Dopo il principato di Augusto, le attività
del principato diminuiscono. Quasi non si ha più notizia di queste assemblee in età tardoantica.
• Le magistrature: i titoli rimangono, ma solo onorifici. Il consolato rimane la carica più ambita; anche
in età tardo-antica gli anni vengono indicati con i nomi dei Consoli. Sono di diretta nomina imperiale.
La pretura è ormai ridotta ad un mero simulacro. Non è una figura istituzionale attiva. Si limitavamo
ad organizzare i giochi pubblici. La censura da tempo era stata assorbita nelle funzioni del princeps.
Il tribunato della plebe e l'edilità costituivano un titolo onorifico, utile solo per l'accesso al Senato. La
questura sopravvive fino al V secolo, ma perde la sua originaria funzione. In quest'epoca si limitarono
ad occuparsi dei giochi pubblici, accanto ai pretori.
• Il Senato sopravvive in età tardoantica. È un'istituzione molto diversa dal Senato repubblicano e dal
consesso senatorio imperiale. Si avranno due Senati; uno a Roma, antichissimo, uni a Costantinopoli.
Costantino decide di trasformare Bisanzio, città Orientale (odierna Istanbul), in una nuova capitale con
il suo nome. Nel 330, Bisanzio viene inaugurata come Costantinopoli. Nel IV secolo, dunque, si ebbe
uno spostamento del baricentro politico in Oriente, a scapito di Roma e del suo Senato.
Costantino aumentò il numero dei senatori a 2000. I due Senati si occupavano dell'amministrazione delle due
città. Era il Senato ancora a decretare la decisione di erigere statue in onore del sovrano. In casi eccezionali, il
Senato fu anche chiamato ad affiancare il Consistorium, per specificare il reato di lesa maestà (crimen
maiestatis).

Fonti del diritto

L'età tardoantica è caratterizzata dalla dicotomia fra leges e iura, che già è stata trattata alla fine del principato.
Per leges si intendono le costituzioni imperiali, gli iura sono invece gli scritti giurisprudenziali, ossia le opere
dei grandi giuristi del passato. Vengono utilizzate accanto alle leges come diritto vigente. In età tardo-antica è
l'edictum a diventare la strumento privilegiato di manifestazione della volontà imperiale; il rescriptum ha un
ruolo secondario, sebbene sia stato lo strumento principale di manifestazione della volontà normativa del
princeps. Appaiono altre due tipi di costituzioni Imperiali a carattere particolare:
Adnotatio: una risposta data dall'imperatore alle richeiste dei privati; veniva scritta al margine.
Pragamtica sanctio: è una risposta dell’imperatore, di norma ad una istanza che perviene da una collettività.
Diventerà poi, lo strumento con cui gli imperatori comunicavo le proprie disposizioni agli imperatori dell'altra
parte dell'impero. Alla fine del IV secolo, nel 395, l'impero viene diviso tra Arcadio, Imperatore d'Oriente ed
Onorio, Imperatore d'Occidente.
Gli iura sono gli scritti dei giuristi. La tardo antichità è quel periodo storico in cui quell'esigenza di raccolta
del materiale normativo, diventa improcrastinabile. Questa esigenza riguarda sia le leges che gli iura. I giuristi
si inseriscono in questo quadro.

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Si assiste ad un cambiamento del ruolo della giurisprudenza. Si afferma un nuovo modello di giurista. Non
parliamo di un tramonto della giurisprudenza, ma di una trasformazione di essa. Il giurista tardoantico lavora
all'interno delle cancellerie imperiali, in modo molto più anonimo rispetto al passato, ma svolge un rulo di
rilievo. Ciò nonostante non è facile ricostruire in concreto il lavoro svolto dai giuristi, perché la legge imperiale
viene riferita solo all'imperatore. Il prof. Amarelli, parlando della giurisprudenza tardoantica: "Sulle ceneri di
una giurisprudenza caratterizzata dalla peculiarità dei suoi attori (giurisprudenza imperiale) vediamo ora
affermarsi un funzionarismo di corte, in seno al quale viene reinventato il ruolo del giurista, sicché si favorisce
in luogo del protagonismo, l'anonimato". I giuristi svolgono un lavoro di grande importanza, sebbene anonimo.
L'anonimato, dunque è uno dei connotati del giurista tardoantico. Nell'età tardoantica si assiste alla scomparsa
della produzione scientifico-letteraria, i giuristi non sono autori di opere originali. Scompare la funzione
nomogenetica esplicata attraverso l'attività del respondere, a cui era collegata l'interpretazione del diritto. I
giuristi, dunque si dedicarono alla raccolta del materiale normativo e alla rielaborazione dell opere degli antichi
giuristi. L'attività dei giuristi tardo-antichi si incanala in tre direzioni:
1. Didattica: i giuristi si dedicano alle scuole di diritto. Numerose furono a Roma, a Costantinopoli,
Antiochia. I giuristi diventano docenti di diritto. Furono approntate anche delle opere didattiche più
semplici, per agevolare lo studio del diritto. Ricordiamo a tal proposito l'Epitome Gai, una sintesi delle
Intitutiones di Gaio. Ricordiamo anche i "fragmenta Augusto dunentia”; sono dei brani di una parafrasi
scolastica del manuale Gaiano. L'autore è anonimo, ma molto probabilmente legato ad una scuola di
diritto della città gallica chiamata Augusto dunum.
2. Raccolta: è un'attività molto importante, che procede sia nel senso e nella direzione di raccolta delle
leges. Sono i primi codici, il Gregoriano e l'Ermogeniano. La raccolta del materiale normativo si
muove anche predisponendo raccolte miste, sia di leges che di iura. Tra le raccolte miste citiamo la
"Collatio legum mosaicarum et romanarum" (Anche nota come "Lex dei"). È un'opera che istituisce
un confronto tra il diritto romano e il diritto mosaico; l'autore anonimo voleva dimostrare la
derivazione del diritto romano dall'antico diritto mosaico. Intendeva dimostrare la conformità dei
precetti giuridici romani con i precetti del diritto mosaico, le prescrizioni bibliche. Quest'opera, di cui
ci è giunto poco, è divisa in titoli: i titoli si aprivano con una norma del diritto mosaico, che poi si
sviluppava in leges romane e brani giurisprudenziali. Ancora, in questo ambito citiamo e ricordiamo i
così detti "Fragmenta vaticana". Sono frammenti ritrovati dal cardinale Angelo Mai, in un manoscritto
della biblioteca vaticana. Si tratta di circa 341 frammenti, nei quali sono riportati sia brani
giurisprudenziali (soprattutto dei tre grandi giuristi severiani) , sia costituzioni Imperiali ( soprattutto
di Diocleziano).
3. Studio delle antiche opere giurisprudenziali, per predisporne sintesi e semplificazioni. In questo
ambito possiamo ricordare le "Pauli sententiae": è un'opera in 5 libri di brani giurisprudenziali, tratti
da scritti di Paulo. Probabilmente sono comprese anche le opere di altri giuristi, Ulpiano per esempio.
È un'antologia di brani giurisprudenziali, con l'aggiunta successiva di costituzioni imperiali. Ha uno
stile semplice e immediato, che ebbe una grande diffusione nella pratica; gli avvocati lo utilizzavano
come prontario per una rapida consultazione. Ricordiamo ancora i "Tituli ex corpore Ulpiano", brani
tratti dal corpus delle opere ulpianee. Si tratta di una sintesi delle istituzioni di Gaio, con l'aggiunta di
brani tratti dalle opere ulpianee. Anche quest'opera è stata ritrovata in uno manoscritto della biblioteca
vaticana, e non è completa.
I giuristi tardoantici abbandonano la produzione scientifico-letteraria, e si dedicano alla rielaborazione del
patrimonio giuridico pregresso, approntandone sintesi, epitome, parafrasi o antologie. Lo scopo di queste opere
è essenzialmente pratico: volevano agevolare il lavoro degli operatori del diritto o lo studio di esso nelle scuole.
Non sono autori di opere originali, ma la loro originalità vá ricercata altrove: in particolare nella loro capacità
di comprendere le necessità del tempo e dare una risposta a queste esigenze. Ad esempio l'esigenza di
democratizzazione del diritto e di volgarizzazione del diritto. Era giunto il momento di estendere la conoscenza
del diritto da una ristretta cerchia di tecnici ad un pubblico più vasto. Al contempo c'era esigenza di
volgarizzazione, nel senso di semplificazione del diritto: c'era l'esigenza di rendere più semplice un patrimonio
giuridico elaborato e disperso in più testi, in archivi di diversa localizzazione. I giuristi tardoantici ebbero
anche il merito di accompagnare lo spostamento del baricentro della produzione normativa verso il livello
codicistico.

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Abbiamo sottolineato in apertura che l’età tardo antica è l’epoca in cui fu avvertita la necessità di una
sistemazione nel mare magnum di fonti che si era accumulato nei secoli. C’era insomma bisogno di una
codificazione delle fonti giuridiche. Non è un caso che in età tardoantica nasca la forma “codex”. Appaiono le
prime raccolte codici di leggi imperiali. Sono compilazioni che risalgono all’età Dioclezianea. Si tratta in
particolare dei così detti codici “Gregoriano” ed “Ermogeniano”. Questi codici non ci sono pervenuti
direttamente: è stato possibile ricostruirne il contenuto attraverso l’ausilio di fonti posteriori (per esempio
attraverso le leggi romano-barbariche). Raccolgono costituzioni imperiali, soprattutto rescritti ed epistualae,
provvedimenti a carattere particolare: ciò non deve sorprenderci, perché, fino a Diocleziano, furono questi
provvedimenti a carattere speciale ad essere privilegiati. Il testo normativo era ridotto al solo precetto: veniva
eliminato tutto il contorno al precetto vero e proprio. Ciò induce a ritenere che questo primo lavoro di redazione
non si sia limitato a mettere insieme le norme sic et simpliciter, ma che ci sia stato un lavoro interpretativo sui
contenuti delle norme, per eliminare gli elementi superflui.

I CODICI PRIVATI
Codex Gregorianus
Il Codice Gregoriano è stato redatto in Oriente, e fu composto intorno al 292/293. Siamo sul finire del III
secolo d.C., in età Dioclezianea. Fu redatto da un tale Gregorio o Gregoriano, da alcuni studiosi identificato
come un giurista funzionario imperiale dell’epoca. Secondo altri, invece, andrebbe identificato come un
professore di diritto della scuola di Berito. Partì dai rescritti del II secolo d.C., il periodo di Adriano; arrivo
poi alla fine del III secolo d.C. In realtà, la legge più antica contenuta nel Gregoriano, è una legge del 196, di
Settimio Severo, ma si tende a credere che il Gregoriano contenesse anche rescritti precedenti ad Adriano,
perché i commissari del codice di Giustiniano (nei quali ci sono rescritti anche precedenti all’età di Adriano),
hanno attinto ampiamente al Codice Gregoriano ed Ermogeniano. Utilizza uno schema che sarà adottato anche
per i codici successivi. È costituito da 14 o 15 libri, ed ogni libro è suddiviso in titoli, una sorta di capitoli,
ciascuno dei quali fornito di una rubrica, che indica la materia trattata (Sul testamento, sul matrimonio, ecc..).
All’interno dei vari titoli, venivano inserite le Costituzioni imperiali, sistemate per argomento ed in ordine
cronologico, dalla più antica alla più recente. LibriTituliRubrichecostituzioni imperiali in ordine
cronologico. Ogni costituzione era dotata di un’inscritio, che precede il precetto ed una subscriptio, che segue
il precetto. Nell’inscriptio era indicato il nome dell’imperatore che aveva emanato il provvedimento ed il
destinario, nella subscriptio era indicata la data di emanazione.

Codex Ermogenianus
Fu composto in Oriente, introno al 294, appena qualche anno dopo il Codice Gregoriano. Fu redatto
probabilmente da Ermogeniano, il giurista tardo imperiale, funzionario di Diocleziano, autore di un’Epitome
iuris, un compendio giuridico. Contiene solo rescritti dioclezianei, emanati tra il 293 e il 294; si è pensato che
si trattasse di un aggiornamento del Gregoriano; perciò, vi si inseriscono solo rescritti dioclezianei degli anni
successivi al Codex Gregorianus. È composto da un solo libro, e segue la struttura del Gregoriano.

Usi, problematiche e contesto


Si è parlato, a proposito di questi due codici, di “codici privati”. Queste due prime raccolte non sono state
riconosciute dall’Imperatore, che non le ha commissionate. Sono dovuti all’iniziativa di privati cittadini. È
stato sottolineato che, tuttavia, solo personaggi ben inseriti a corti, con un semplice accesso agli archivi
imperiali, avrebbero potuto cimentarsi in una tale opera. Si è pensato che i due privati fossero funzionari
imperiali, autorizzati informalmente alla compilazione di questi due codici. Questi due primi codici privati
ebbero un enorme successo nella pratica; vennero aggiornati anche con l’aggiunta di rescritti più recenti.
Furono ufficialmente riconosciuti solo nel V secolo dall’Imperatore Teodosio II, che quando pubblicherà il
famoso Codice Teodosiano, darà riconoscimento anche ai pregressi codici privati. Saranno infine abrogati nel
VI secolo d.C., con la pubblicazione di Codice di Giustiniano.
Una riflessione, ora, va fatta in merito al contesto storico in cui nascono questi codici, e alle esigenze alle quali
vogliono rispondere. In primo luogo, vogliono risolvere il problema dell’effettiva conoscibilità dei testi:
l’individuazione della norma vigente e la concreta applicazione della norma in sede processuale. La seconda

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esigenza era quella di risolvere la questione della materiale reperibilità dei testi. Per quanto concerne il primo
aspetto, gli operatori tardo-antichi del diritto, si trovavano difronte ad una massa enorme di materiale
normativo. Non era facile orientarsi ed individuare la norma da applicare, perché accanto alle costituzioni
imperiali, le leges, vi erano gli iura.
La seconda questione, quella della materiale reperibilità dei testi, si ricollega al problema che mentre i
funzionari imperiali avevano facile accesso agli archivi, i privati avevano grande difficoltà nel potersi
procurare il testo materiale di una legge. I cittadini parti in causa avevano l’onere di esibire il materiale
normativo sul quale fondavano le proprie ragioni. Dovevano allegare concretamente la costituzione imperiale
o lo scritto giurisprudenziale. Era lasciato ai singoli non solo il reperimento dei testi, ma anche il trarne una
copia da fornire in giudizio. Tutto ciò provocava grandi problemi in merito all’affidabilità dei testi, perché la
riproduzione del testo era sottratta al controllo della pubblica autorità; i cittadini potevano, nel ricopiare il testo
della Costituzione, commettere un errore di trascrizione. Dunque, tuto questo contesto, finiva nel riverberarsi
in sede processuale, con conseguente incertezza in merito agli esiti dei processi.
Nella compilazione di questi primi due codici, venne utilizzato uno strumento editoriale relativamente nuovo,
che agevolò il lavoro compilatorio: il codex. Il codex, inteso qui in senso tecnico, era un libro formato da fogli
separati e legati insieme. Questo strumento venne a sostituire il volumen, il rotolo di papiro, precedentemente
utilizzato. Questo strumento favorì tantissimo il lavoro compilatorio. In ambito giuridico, questo strumento
ebbe una diffusione enorme, proprio a partire dal III secolo d.C. Fu utilizzato per le prime compilazioni di
leggi, al punto che il nome stesso di codex, in ambito giuridico venne ad indicare la raccolta di leggi. Questo
successo fu dovuto al fatto che i lettori tutti, avevano a disposizione, grazie a questi codici, il testo delle
costituzioni imperiali, che altrimenti avrebbero dovuto reperire con difficoltà estreme. Uno strumento questo,
utile anche perché di rapida consultazione, in quanto la struttura favoriva l’utilizzo, dato che le leggi erano
inserite per argomento ed in ordine cronologico.

IUS CONTROVERSUM E “LEGGE DELLE CITAZIONI”

In età tardoantica, però, accanto alle leges, sono utilizzati come diritto vigente anche gli scritti
giurisprudenziali, per cui, il problema della certezza del diritto, il problema di un riordino, coinvolgeva anche
gli iura, non solo le leges a cui i codici privati danno una prima risposta. Gli scritti giurisprudenziali, forse,
erano la magna pars del problema. I contrasti fra le opinioni dei giuristi, che sono naturali in un dibattito
giurisprudenziale, davano vita a contraddizione non più accettabili in opere a cui si attribuiva ora valore di
norma. Per gli operatori del diritto tardo-antichi era molto difficile muoversi in questo sconfinato materiale
giurisprudenziale ampio, eterogeneo e contrastante. Le opinioni divergenti che erano state espresse dai giuristi
su singole questioni giuridiche, e quindi anche le contrastanti soluzioni proposte di giuristi, avevano generato
il così detto ius controversum. Ciò comportava che fosse davvero difficile l’impiego pratico degli scritti
giurisprudenziali in ambito processuale. A tutto ciò, si aggiungano anche i problemi concernenti la
conoscibilità dei testi giurisprudenziali e la reperibilità di essi, al pari di quanto accadeva per le leges. Anche i
testi giurisprudenziali non erano facilmente reperibile al di fuori dei grandi centri culturali dell’Impero. Accade
che l’esigenza di un riordino viene a coinvolgere anche gli iura, e vedremo che nel V secolo avremo una
risposta del potere imperiale. Nel V secolo avremo, anzi, due diverse risposte del potere imperiale: una viene
data in occidente da Valentiniano III, in merito agli iura; una seconda risposta viene data da Teodosio II, in
merito alle leges. Un tentativo di soluzione al caos che regnava nei tribunali viene offerto dalla legge di
Valentiniano III nel 426: si tratta di una legge molto ampia, che riguarda più in generale le fonti del diritto.
Tuttavia, la parte più significativa di questo provvedimento concerne gli iura. In questa parte, è conosciuta
come “legge delle citazioni”: contiene una regolamentazione degli iura in sede processuale. Stabilì che le parti
nel processo potevano citare a sostegno delle proprie ragioni solo il parere di cinque giuristi: Papiniano,
Ulpiano, Paulo, Modestino, Gaio. Sono quattro giuristi dell’età severiana, e Gaio, precedente. Vengono scelti
proprio questi cinque giuristi certamente perché erano gli autori più vicini alle esigenze dei tempi, ma
soprattutto perché delle loro opere erano ancora conservati i testi originali. Venivano così eliminati i problemi
di affidabilità e autenticità. Gaio viene scelto in questa rosa di selezionati perché ha uno stile chiaro ed
immediato e l’inserimento tra i cinque giuristi è prova della grande diffusione della sua opera. Questa legge

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non si limita a indicare i giuristi citabili, ma stabilisce altresì quali sono i criteri ai quali il giudice deve attenersi
nel corso del processo in caso di contrasto di opinioni:
• in caso di contrasto di opinione tra i cinque giuristi, prevaleva la maggioranza (criterio di
maggioranza). Supponiamo che su una materia si fossero espressi tutti e cinque i giuristi, tre in un
senso, due in un altro, il giudice si sarebbe rifatto all’opinione di maggioranza.
• Nel caso in cui non ci fosse maggiorana, avrebbe prevalso l’opinione di Papiniano.
• Se non si poteva seguire né il primo criterio, né il secondo criterio, il giudice avrebbe potuto scegliere
l’opinione che riteneva più opportuna.
Viene scelto Papiniano, perché ebbe grande sensibilità giuridica, fu molto originale, il che gli procurò una
grande fortuna in età tardoantica. La legge delle citazioni, indica i giuristi le cui opinioni possono essere citate,
i criteri da seguire in caso di contrasto, ma altresì la possibilità di citare anche altri giuristi oltre ai cinque della
rosa, a due condizioni: in primo luogo l’opinione di questi ulteriori giuristi, doveva essere richiamata nelle
opere di almeno uno dei cinque giuristi indicati dall’imperatore, in secundis doveva esibirsi nel processo il
manoscritto originale, poiché si doveva verificare l’esattezza del riferimento. Si è ritenuto, che quest’ultima
disposizione non facesse parte del testo originale della legge delle citazioni, ma che fosse un’aggiunta
posteriore, inserita al moment dell’introduzione delle leggi delle citazioni nel Codice Teodosiano. Si crede,
infatti, che questa disposizione che amplia il ventaglio dei giuristi che possono essere citati in giuristi, in realtà
rispecchia meglio la condizione della cultura giuridica orientale, più avanzata, al punto di utilizzare le opere
anche di altri giuristi, laddove il mondo occidentale era in una situazione di maggiore declino (nel 576 l’impero
occidentale cadrà). Il primo tentativo di soluzione al caos che regnava nei tribunali fu aspramente criticato: la
soluzione data da Valentiniano III è stata considerata troppo rozza e semplice, ed è stata vista come la
decadenza della cultura giuridica del tempo, perché il meccanismo previsto era troppo semplice. I criteri
adottati erano esclusivamente numerici. Questa legge ridimensionava la discrezionalità del giudice,
limitandola. L’attività del giudice si limitava ad un calcolo numerico il più delle volte. Tutto ciò è vero, ma
dobbiamo inserire la legge delle citazioni nel contesto storico: il legislatore aveva uno scopo assolutamente
pratico, regolamentare l’uso delle opere giurisprudenziali in sede processuale, cioè dare una soluzione concreta
al problema della contemporanea allegazione di pareri contrastanti. Sotto questo specifico profilo, il
meccanismo escogitato da Valentiniano III, appare utile ed efficacie. L’altra soluzione astrattamente adottabile
era quella di procedere ad una grande raccolta di iura, coerente e ragionata, la creazione di un’antologia delle
opere della giurisprudenza del passato. Questa soluzione sarà realizzata, ma da Giustiniano circa 100 anni
dopo, nel 533. All’epoca di Valentiniano III, però, forse i tempi non erano maturi; infatti, un tentativo fu fatto
in Oriente da Teodosio II, ma non andò in porto. In conclusione: questa legge dal 426 (anno della sua
pubblicazione) fino al 533 (anno della pubblicazione del Digesto, l’antologia di Giustiniano), riuscì ad offrire
dei criteri semplici, magari banali, ma chiari, per risolvere i problemi e superare gli ostacoli, che derivavano
dalla contemporanea allegazione in sede processuale di pareri divergenti.

CODEX TEODOSIANO
Questa legge viene recepita nel Codex teodosiano, nonché nel primo codice di Giustiniano, pubblicato nel 529.
Nel secondo codice, del 534, non fu inserito perché perse di validità a causa della pubblicazione del Digesto
del 533. Tre anni dopo la legge delle citazioni, nel 429, in Oriente accade qualcosa. I codici privati si fermavano
alla legislazione di Diocleziano, prevalentemente basata sui rescpripta. I tentativi di aggiornamenti dei codici
privati, non diedero conto di tutta la legislazione successiva a Diocleziano. Ciò significa che nel V secolo fu
avvertita nuovamente l’esigenza di un riordino. Si ripropose il problema della certezza del diritto, legato al
disordine normativo, a sua volta collegato ai problemi relativi alla reperibilità materiale dei testi, alla
conoscibilità dei testi, all’applicazione concreta di quei testi. Tutto il disordine legislativo e normativo, si
traduceva in un caos in sede giurisdizionale: ingiustizie, rallentamenti dei processi, disfunzioni. Il disordine
legislativo, non può che riverberarsi in sede applicativa. A tutto ciò, si aggiunga anche la corruzione dei giudici,
la spregiudicatezza degli avvocati, spesso anche poco preparati. La vita dei tribunali riflette il livello di
funzionamento di un sistema giudiziario: le fonti di età tardoantiche denunciano a più riprese i mali della
giustizia, uno scadimento della vita giuridica e un’immoralità di fondo nella prassi dei tribunali. In questo
quadro, il princeps è considerato come una medicina che deve risolvere i problemi civili. È un rimedio che

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deve ovviare alla confusio del sistema normativo. In questo contesto l’imperatore Teodosio II dà una risposta
all’incessante domanda di risolvere il problema dell’incertezza del diritto. A Teodosio II dobbiamo la
pubblicazione del “Codex Teodosianus”, che entra in vigore il 1° gennaio 439. I lavori iniziano nel 429, ma
entrerà in vigore solo 10 anni dopo. A Teodosio dobbiamo la pubblicazione del primo codice ufficiale di leggi
imperiali. Il lavoro compilatorio inizia nel 429, passando per un primo progetto abortito, ed un secondo
progetto portato a termine. Nel 429, Teodosio decide di iniziare un progetto di ampio respiro e nomina una
Commissione formata da 9 membri, 8 funzionari di palazzo e un maestro di diritto. I suoi commissari devono
compilare due diversi codici, sia per contenuto che per finalità; questo è il progetto iniziale che non andò in
porto. Un primo codice doveva essere rivolto agli esperti del diritto e doveva raccogliere tutte le costituzioni
imperiali da Costantino in poi: sia quelle in vigore, sia quelle abrogate. Questo Codice, doveva servire per
essere consultato nelle scuole, e poteva essere utile conoscere l’iter di un istituto. I commissari dovevano
trascrivere fedelmente le costituzioni, senza manipolarli. Il secondo codice, invece, doveva essere destinato
agli operatori del diritto, ai pratici. Doveva avere carattere più pratico, perché doveva rispondere alle esigenze
della vita dei tribunali, e avrebbe dovuto contenere solo le leggi in vigore, accompagnate dagli iura relativi a
quegli stessi argomenti. Non sappiamo come procedettero i lavori, ma non furono portati a termine, perché (
si crede) ci furono difficoltà oggettive, data la mole dei testi e difficoltà di coordinamento tra le leggi e gli
iura. Si è anche pensato che il fallimento sia dipeso da difficoltà soggettivo, scarsa preparazione dei commissari
nominati; nulla esclude, però, che il fallimento sia motivo di un’unione di entrambe le possibilità. Teodosio II
prende atto di questo fallimento, ma, nel 435, ripiega su un soggetto di minore respiro. Nomina una seconda
commissione (i cui membri vengono elevati a 16, quindici funzionari imperiali e un professore di diritto) e si
rinuncia sia ad arrivare ad una duplice compilazione sia ad inserire gli iura. Si da incarico ai commissari di
procedere ad una raccolta che contenesse solo le leggi imperiali, emanate d Costantino in poi; sia quelle in
vigore, sia quelle abrogate. Questo codice aveva sia funzionalità didattiche sia pratiche e rispecchiava il primo
codice del primo progetto. Questa volta, però, viene dato ai commissari ampio mandato di intervenire sui testi.
I lavori della commissione finiscono nel 437 e il Codice viene pubblicato in Oriente nel febbraio del 438;
entrerà in vigore in tutto l’Impero nel gennaio del 439. Questo Codice si sarebbe affiancato ai due Codici
privati, ai quali Teodosio dà riconoscimento ufficiale: ai due codici privati, si sarebbe comunque dovuto
ricorrere per le leggi precedenti a Costantino. Il Codice teodosiano non ci è giunto integralmente; ne
conosciamo gran parte, ma grazie ai manoscritti e a fonti posteriori (in particolari le leggi romano-barbariche,
la lex romana-visigotorum tra tutte).
Struttura
La struttura è la stessa illustrata per i Codici privati. Il Teodosiano è suddiviso in 16 libri. ciascuno dei quali
suddiviso in titoli, ciascuno munito di una rubrica indicante la materia. All’interno dei titoli si susseguono le
leggi imperiali suddivise per argomento e ordinate cronologicamente, dalla più antica alla più recente.
Ciascuna Costituzione è dotata di una inscriptio, nella quale sono indicati il nome dell’imperatore che ha
emanato il provvedimento e il suo destinatario e una subscriptio, con data e luogo di pubblicazione. Ci sono
tre novità principali rispetto ai codici privati:
• Contiene quasi esclusivamente leges generales, a differenza dei codici privati che contengono
principalmente rescritti
• Riguarda prevalentemente materie di diritto pubblico: undici libri sono dedicate al diritto pubblico,
cinque al diritto privato. I codici privati, invece, erano principalmente privatistici.
• L’ultimo libro del Teodosiano è dedicato ai rapporti Impero-Chiesa, alla materia ecclesiastica. Ciò non
aveva precedenti e riflette l’importanza che la Chiesa stava assumendo.
Il giudizio su questo codice è stato per lungo tempo negativo. Seek, famoso studioso tedesco, lo ha definito
“una pietosa rattoppatura”, per il fallimento del primo progetto, così d’ampio respiro. In secondo luogo, fu
definito negativamente perché si confrontava con il Codice di Giustiniano; è un confronto inappropriato,
infatti, negli ultimi anni si è avuto una rivalutazione. A seguito del rinnovato interesse per la tardo-antichità,
si tende a rivalutare il lavoro dei commissari teodosiani, perché si è evidenziata l’eccezionale novità di questo
codice, prima raccolta di legge voluta da un imperatore (salvo le XII tavole, comunque molto diverse) e sono
state prese in considerazione le notevoli difficoltà dei commissari nei loro lavori. Occorre sicuramente
rivalutare il lavoro dei commissari, collocandoli anche in questo caso nell’epoca in cui vissero: è frutto di
un’epoca, è espressione di un determinato periodo e contesto storico e dunque va valutato nel suo complesso,

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non paragonato ad un Codice di cento anni dopo. Il Codice di Giustiniano raggiungerà livelli più alti di scienza,
ma anche perché si avvarrà del teodosiano.
In Occidente il Codice Teodosiano riesce a sopravvivere alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel
476, perché costituisce la fonte principale delle leggi romano-barbariche, emanate dai re barbari agli inizi del
VI secolo. In Oriente, il Codice teodosiano rimane in vigore per circa novant’anni, fino all’emanazione del
primo codice di Giustiniano, nel 529.

IL CORPUS IURIS CIVILIS

Giustiniano (527-565) fu influenzato dalla moglie Teodora, che sposò tra il 524 e il 525. Era un’attrice di
teatro, che ebbe la fame di essere bellissima, ma dai costumi dissoluti. Morì giovane, nel 548, ma nella sua
azione di governo, oltre al supporto di Teodora, Giustiniano fu affiancato da due importanti consulenti,
Giovanni di Cappadocia e Triboniano. Giovanni di Cappadocia è il consulente politico di Giustiniano, prefetto
del pretorio; è una personalità di grande rilievo, ispiratore di molte riforme e molto attento alla funzionalità
della macchina statale. Fu particolarmente impegnato nella lotta contro la corruzione e la degenerazione
dell’apparato burocratico. Triboniano è il consulente giuridico di Giustiniano, fu questor sacri palatii. Fu
l’architetto e l’esecutore materiale dell’opera codificatori giustinianea. È un uomo molto erudito, dalla
profonda cultura non solo giuridica; la sua era una scientia tale da reggere il confronto con i più grandi giurisit
del principato. Morì, forse, nel 542. Giovanni era molto pragmatico, ed era dotato di una grande competenza
tecnica processuale: le caratteristiche dei due collaborati di Giustiniano si completavano. Da un lato il
pragmatismo di Giovanni, dall’altro l’erudizione di Triboniano.
A Giustiniano si deve la grande compilazione di iura e di leges, denominata per la prima volta “Corpus iuris
civilis” da un giurista svizzero, Dionigi Gotofredo. La grande compilazione di Giustiniano consta di diverse
opere:
1. Codex giustinianus, la raccolta di leges
2. Digesto, la grande raccolta di iura
3. Institutiones, un manuale didattico
4. Novellae (constitutiones), le nuove costituzioni emanate da Giustiniano dopo la pubblicazione del
codex.
Perciò, quando parliamo del Corpus iuris civilis, ci riferiamo al Codex, al Digesto, alle Institutiones e alle
Novellae (sebbene le conosciamo attraverso un’opera privata). Grazie a questa compilazione, Giustiniano ha
offerto ai posteri un patrimonio giuridico di valore inestimabile, ha sottratto all’oblio i tesori della scientia
giuridica, in particolare gli iura.

CODEX Il codex è la raccolta di costituzioni imperiali. Siamo nel febbraio del 528, pochi mesi dopo la
sua ascesa al trono avvenuta nell’agosto dell’anno precedente. La sua costituzione, nota dalle
parole iniziali “haec quae necessario”, fu emanata con il proposito di dichiarare una raccolta di leges che
sarebbe stata realizzata utilizzando i tre Codici di cui abbiamo parlato precedentemente. Lo scopo di
Gisutiniano era quello di sostiutire i tre codici pregressi, arricchiti con la legislatura successiva, in un’unica
opera.
La commissione era composta da dieci membri, di cui sette funzionari imperiali, tra cui Giovanni e Triboniano,
due avvocati e un professore di diritto (Teofilo, professore di Costantinopoli).
Nella Costituzione introduttiva, la “haec quae necessario” è proprio Giustiniano a chiarire lo scopo dell’opera
e il metodo che avrebbero dovuto seguire i commissari nella stesura. Lo scopo è uno scopo pratico,
utilitaristico: Giustiniano voleva ridurre la lunghezza dei processi (“amputare prolictitas litium”), eliminando
l’oscurità determinata dalla molteplicità delle norme esistenti. I commissari di Giustiniano ricevono un ampio
mandato; viene loro concessa la possibilità di intervenire sui testi delle Costituzioni, potevano tagliare le parti
superflue, aggiungere in caso di lacune, modificare le parole in caso di incomprensioni e, soprattutto, dovevano
tralasciare le leggi abrogate. Il codice aveva uno scopo pratico, dunque, le leggi abrogate non servivano. Si
voleva realizzare una raccolta di leggi sicure, certe e vigenti che avrebbero consentito di addivenire ad una più
celere risoluzione delle cause. Il Codex era l’unica base normativa da utilizzare nei tribunali: vieta

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esplicitamente di citare nei processi Costituzioni non inserite nel Codice, o, in una versione diversa da quella
contenuta del Codice. Questo divieto veniva combinato con la pena prevista per il reato di falso, la relegazione
su un’isola.
Questo Codice fu realizzato in tempi molto brevi, poco più di un anno. Fu pubblicato nell’aprile del 529, con
una Costituzione anch’essa nota per le parole iniziali “summa rei pubblicae”. Di questo primo codice, oltre la
Costituzione iniziale, non conosciamo nulla. Cinque anni dopo fu sostituito da una seconda edizione,
aggiornata, ampliata e corretta. Poche notizie sul primo codice si possono ricavare da alcuni frammenti di
papiro, dai quali, però, desumiamo che conteneva la “legge delle citazioni”. La prima compilazione di leges
risale, dunque, al 528-529.
Agli inizi del 534, Giustiniano da incarico a Triboniano di proceder ad una revisione e aggiornamento del
primo codice, che era già apparso superato, dato che la produzione legislativa di Giustiniano, in quei cinque
anni era stata abbondante. Non abbiamo la legge introduttiva, ma la legge con la quale fu pubblicata, nel
novembre del 534; anch’essa è nota con la parola iniziale “cordi”. La Costituzione “cordi” è la Costituzione
con la quale si pubblica il secondo codice.
La commissione è più ristretta: si parla di cinque membri, Triboniano, tre avvocati, e un professore di diritto
(Doroteo, professore di Berito). Questo Codex è definito “Codex repetitae prelectionis”. L’espressione repetita
prelectio è un’espressione utilizzata dagli antichi per indicare la seconda edizione di un’opera. Le leggi
subiscono un processo di sintesi e massimazione. Per procedere all’integrazione del primo codice anche i
commissari della seconda commissione ricevono un ampio mandato. Possono completare le leggi lacunose,
tralasciare le leggi in vigore, chiarire quello poco chiare. Non devono trascrivere fedelmente il testo delle
Costituzioni. Il fine che si vuole perseguire è una raccolta di leggi vigenti, con uno scopo, anche in questo
caso, pratico: maggiore certezza del diritto, maggiore celerità del diritto.
La struttura è la medesima dei codici precedenti. Si tratta di dodici libri; si è pensato ad un richiamo alle XII
tavole. Ciascun libro, diviso in titoli, ognuno dei quali fornito di una rubrica sull’argomento, all’interno dei
quali si trovavano le leggi in ordine cronologico. Ogni legge era dotato di un’inscriptio (imperatore e
destinatario) e subscritio (luogo e data di emanazione).
Questo secondo Codice contiene circa 4200 leggi; la più antica risale ad Adriano (II secolo d.C), la più recente
è di Giustiniano e risale proprio al novembre del 534. Rispetto al Codice teodosiano, raccoglie le costituzioni
in vigore non quelle abrogate. Mentre nel codice teodosiano sono accolte leggi generali, quasi solo edicta, nel
codice di Giustiniano c’erano anche leggi a carattere particolare, che però avevano forza di legge generale,
anche solo per il fatto di essere inseriti nel Codex. In terzo luogo, a differenza del Codice teodosiano, in cui i
rapporti Impero-Chiesa venivano trattati nell’ultimo libro, nel Codice giustinianeo questa materia viene posta
in apertura del Codice, nel I libro. Ancora, una quarta differenza riguarda i contenuti: nel Codex giustinianeo
c’è una prevalenza, non così netta, dell’argomento privatistico (7 libri su 12), mentre nel Codice teodosiano
c’era prevalenza di diritto pubblico. Questo secondo Codice viene pubblicato nel 534, ma Giustiniano regna
fino al 565 e la sua attività legislativa continua. In quel trentennio le nuove leggi furono definite “Novellae
Constitutiones”

NOVELLAE Giustiniano continua a legiferare per trent’anni, emanando le Novellae Constitutiones, le


nuove leggi. L’attività fu particolarmente intensa dal 535 al 542, anno in cui muore
Triboniano. Dopo la morte del suo fedelissimo collaboratore, la produzione legislativa non si esaurisce, ma è
più scarsa. Queste Novellae non furono raccolte in una compilazione ufficiale; conosciamo queste leggi grazie
a delle raccolte private, risalenti al VI secolo d.C. Sono costituzioni scritte per lo più in greco, lingua più diffusa
in Oriente. Le raccolte private grazie alle quali conosciamo le Novellae sono:
1. Epitomae Iuliani: è un’epitome, una sintesi latina di 124 novelle, realizzata un tale Giuliano,
professore di Costantinopoli. Fu composta intorno alla metà del VI secolo.
2. Autenticum: è una raccolta da 134 novelle. Porta una traduzione latina affianco alle Costituzioni
greche. Anch’essa risale al VI secolo. È detta Autenticum, perché dopo essere stata messa in
discussione la sua autenticità, fu rivalutata
3. Collectio greca: è anche detta “Collezione delle 168 novelle” e riporta in lingua originale le novelle,
in greco. Raccoglie sia 158 Costituzioni di Giustiniano, sia Costituzioni di imperatori successivi.
Contiene Costituzioni Giustino (565-578) e Tiberio II (578-582). Fu composta all’epoca di Tiberio.

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Dal punto di vista dei contenuti riguardano sia il diritto pubblico che quello privato. Negli ultimi anni della sua
vita, però Giustiniano si dedicò quasi esclusivamente alla materia religiosa. Dunque, contenutisticamente,
riguardano anche la materia religiosa. Non sono state raccolte in una compilazione ufficiale, e quindi non
hanno subito il processo di massimazione che abbiamo sottolineato nella formazione del Codex. Sono
anticipate da un’ampia introduzione, nel quale è indicato l’iter per addivenire a quella determinata soluzione e
il motivo per cui sono state emanate.

INSTITUTIONES Le Institutiones sono un’opera didattica. Non conosciamo la costituzione introduttiva,


mentre la costituzione con la quale fu emanata è ricordata come “Imperatoriam”, e fu
emanata nel novembre del 533. È indirizzata alla “cupida legum iuventus”, la gioventù desiderosa di
apprendere le leggi.
La commissione incaricata della stesura di questo materiale è composta da soli tre membri: Triboniano, e due
professori di diritto, Teofilo e Doroteo. Nella Costituzione Imperatoriam Giustiniano indica il fine delle
Insitutiones: vuole offrire ai giovani studenti del diritto uno strumento per imparare i primi elementi del diritto.
Infatti, si parla di Insititutiones o di Elementa. Questi elementi dovevano essere appresi direttamente dal diritto
applicato nella vita quotidiana. Questo manuale avrebbe dovuto anche contenere un excursus storico in forma
breve, in merito alla disciplina pregressa dei vari istituti.
Le Institutiones di Giustiniano erano divise in quattro libri, la materia si divide in persone, cose e azioni: la
struttura, dunque, rispecchia la struttura delle Institutiones gaiane. Alla fine del IV libro, c’è solo un titolo
dedicato al diritto e processo criminale, che manca nel manuale gaiano. I commissari attinsero anche da altri
scritti di giuristi del principato, non solo da Gaio; si pensi a Ulpiano o Paulo, anch’essi autori di opere
istituzionali. Nella costituzione imperatoria con cui viene pubblicato il manuale, Giustiniano conferisce a
questo testo valore normativo. Le istituzioni giustinianee, dunque, a differenza di quelle di Gaio, non sono solo
un testo didattico, ma hanno anche valore di legge. All’interno delle Institutiones, infatti, spesso vengono
aggiunte delle riforme su determinate istituzioni. È come se si trattasse di un unico, lungo testo della
costituzione imperiale, scritto dall’Imperatore. Questo manuale era al tempo stesso testo scolastico, manuale
didattico e testo normativo. Si è parlato, a proposito di quest’opera, di manuale polivalente, proprio per la
duplice funzione di essere manuale didattico e testo normativo.
In passato si è esclusa l’effettiva partecipazione di Triboniano alla composizione dell’opera; si è pensato che
Teofilo e Doroteo si fossero divisi il lavoro a metà, redigendo due libri ciascuno. Più di recente, però, si è
sostenuto un ruolo più attivo di Triboniano; è possibile che Triboniano abbia curato tutte le parti storiche, data
la sua erudizione. Triboniano era proprietario di un’enorme biblioteca giuridica personale, che avrebbe
facilitato questo lavoro.
Occorre ricordare che quasi contestualmente alla pubblicazione delle Institutiones, Giustiniano procedette ad
una riforma degli studi giuridica con la Costituzione “omnem”. Introdusse nuovi programmi di studio, perché
intendeva usare anche sul piano didattico tutte le opere sino ad allora predisposte. In sostanza, non era più
possibile studiare sulle opere degli antichi giuristi del passato, come le Istituzioni di Gaio. Il nuovo corso di
studi giuridici aveva una durata quinquennale; durante i cinque anni di studio, gli studenti avrebbe
gradualmente affrontato lo studio delle Institutiones, del Digesto e del Codex.
• I anno: dedicato allo studio delle Institutiones e dei primi quattro libri del Digesto
• II /III e IV anno: dedicati allo studio del Digesto
• V anno: dedicato allo studio del Codex e alla lettura degli ultimi 14 libri del Digesto non studiati negli
anni precedenti
In questo modo, tutta la formazione didattica degli studenti del VI secolo veniva compiuta esclusivamente
sulle opere predisposte sino a quel momento dall’Imperatore.
Giustiniano, per rimarcare la maggiore dignità in questo corso di studi, vietò che gli studenti del primo anno
venissero chiamate con un termine offensivo e derisivo “dupondii”, giovani di poco valore e ordinò che questi
studenti che intraprendevano il nuovo corso di studi fossero invece chiamati “iustiniani novi” i nuovi studenti
di Giustiniano

DIGESTO In Latino l’opera è detta “Digesta “o “Pandecte”. È una compilazione di iura, frammenti
giurisprudenziali. È una grande antologia di brani tratti dalle opere degli antichi giuristi. Siamo

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temporalmente nel dicembre 530; non seguiamo la trattazione delle opere in senso cronologico, ma logico, in
baso agli argomenti. Nel dicembre del 530 Giustiniano emana la Costituzione “deo auctore”, con la quale dà
incarico a Triboniano di procedere ad una grande raccolta di iura. Digesta deriva dal verbo “digero”, ordinare,
Pandecte deriva dal greco, dal verbo pandèkomai, che significa raccogliere insieme.
La Commissione era composta da 17 commissari, di cui due funzionari imperiali (uno dei quali era
Triboniano), quattro professori di diritto (tra i quali Teofilo e Doroteo) e undici avvocati del foro di
Costantinopoli. Il lavoro compilatorio procedette con una grande velocità: i commissari portarono a termine
l’opera in un tempo molto breve, soli tre anni. Infatti, il 16 dicembre del 533 Giustiniano pubblica il Digesto
con la Costituzione bilingue “tanta dèdoken”.
L’opera si compone di cinquanta libri, suddivisi in titoli. Ciascun titolo è connotato di una rubrica che indica
la materia trattata nei vari titoli. Tuttavia, è una raccolta di iura, dunque all’interno dei titoli si susseguono i
frammenti delle opere dei giuristi, ordinati per materia. Ogni frammento è dotato di un inscriptio nella quale
sono indicati il nome del giurista e l’opera da cui quel brano è tratto. Nel Digesto sono raccolti circa 9000
frammenti giurisprudenziali di ben 39 giuristi romani. Di questi frammenti, la maggior parte sono dei cinque
giuristi della “legge delle citazioni”, ovvero Papiniano, Ulpiano, Paulo, Modestino e Gaio. Gli altri, circa 2500
frammenti, sono di altri sette giuristi del principato, tra cui Salvo Giuliano, Pomponio, Marciano. I rimanenti
500 frammenti sono di altri 27 giuristi, anche di altre epoche. Vi sono anche frammenti di alcuni autori di età
repubblicana. La particolarità è che questi frammenti sono stati ricavati da circa 1600 libri, un materiale
sterminato. Del Digesto conosciamo sia la lex introductiva (“deo auctore”) sia la legge con la quale è stata
pubblicata (“tanta dèdoken”).

“Deo auctore” e “Tanta dèdoken”


Nella legge introduttiva ci sono alcuni punti rilevanti Giustiniano nella “deo auctore” afferma il suo proposito
di procedere ad una raccolta di tutto il diritto antico (totum ius antiquo), per riunire in un’unica opera tutto il
materiale giurisprudenziale sparso e distribuito nei diversi volumi. Potremmo dire che Giustiniano intendeva
predisporre una sorta di Testo unico della giurisprudenza romana. Sempre nella “deo auctore” sono indicati i
criteri di massima ai quali la Commissione avrebbe dovuto attenersi nella stesura dell’opera: il materiale
doveva essere tratto dalle opere di giuristi dotati di ius pubbliace respondendi, ma questa indicazione non verrà
rispettata in concreto. Viene dato ai commissari ampio mandato di poter intervenire sui testi per renderli più
chiari e per coordinarli con il diritto vigente. Un punto di enorme importanza della “deo acutore” è che
Giustiniano attribuisce valore di legge agli iura, valore normativo. Afferma la vigenza degli iura che sono
assimilati alle Costituzioni imperiali; è come se le opinioni dei grandi giuristi del passato provenissero
direttamente dalla bocca di Giustiniano. Insomma, tutte le compilazioni di Giustiniano hanno valore
normativo. Un altro punto di rilievo della “deo auctore” è quello in cui Giustiniano sancisce il divieto di
Commentarii, che avrebbero sicuramente provocato nuovo ius controversum. Questo divieto viene ribadito nel
533 nella “tanta dedoken”; ribadisce il divieto sotto la minaccia dell’accuso di falso e dell’irrogazione della
pena prevista per il reato di falso, cioè la deportatio in insulam o addirittura la pena di morte. Sono ammesse
esclusivamente le traduzioni letterali in greco, sunti dei titoli e note di rinvio ad altri titoli. È molto significativo
che al termine della compilazione di quest’opera, sicuramente la più innovativa, senza precedenti, dato che il
tentativo di Teodosio II non andò in proto, venga ribadito e sancito il divieto di Commentarii e di
interpretazione in generale. Giustiniano parla dell’attività interpretativa come di una perversione. Le norme
sono chiare, si devono applicare, non si devono interpretare. L’assolutismo monarchico ormai esige il
monopolio non solo nella produzione delle norme, ma anche nella interpretazione del diritto. Il fine perseguito
dall’Imperatore era quello di creare un ordinamento giuridico organico, coerente e definitivo, un templum
iustitiae eterno ed immutabile: l’imperatore non solo produce le norme, ma le coordina in un sistema stabile e
coerente, formato da tre parti, il Codex, il Digesto e le Institutiones. Queste tre sono le uniche opere che
possono regolare la vita giuridica dell’Impero.
Malgrado i divieti sottolineati, in realtà la giurisprudenza da un lato, il mondo delle scuole di diritto dall’altro,
non esitarono, Giustiniano ancora in vita, ad aggirare quei divieti fino a violarli espressamente. Cominciarono
a circolare traduzione letterari in greco, poi cominciarono ad approntarsi sunti dei titoli sempre meno aderenti
all’originale, fino ad arrivare alle parafrasi e poi ai veri e propri Commentarii.

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Dibattiti storiografici
Ci soffermeremo su due profili maggiormente dibattuti che riguardano la questione sui lavori preparatori al
Digesto e i metodi della codificazione.
È stato oggetto di discussione tra gli studiosi il problema relativo all’esistenza o meno di lavori preparatori al
Digesto, identificati con un gruppo di leggi che va sotto il nome di “quinquaginta decisiones” (cinquanta
decisioni). Il numero cinquanta non si riferirebbe al numero delle Costituzioni, forse inferiore a cinquanta, ma
al numero delle decisioni di Gisutianino: è possibile che in una singola Costituzione Giustiniano abbia dato
due o più indicazioni. Si tratta di Costituzioni emanate da Giustiniano nel 529 e il 530, prima della “deo
auctore”, per risolvere alcuni contrasti giurisprudenziali rinvenibili nelle opere dei giuristi. In merito alla
questione dei lavori preparatori sono state avanzate in dottrina diverse tesi; possiamo soffermarci su tre
opinioni principali:
1. Le quinquaginta decisiones avrebbero avuto lo scopo di agevolare il lavoro dei commissari. È
l’opinione che va per la maggiore. Avrebbero agevolato il lavoro dei commissari, risolvendo
preventivamente alcune controversi giurisprudenziali. Queste costituzioni sarebbero state adottate
proprio in vista del Digesto. Questa tesi fa leva sulla Costituzione “cordii”, all’interno della quale ci
sarà un riferimento alle cinquanta decisioni, indicate proprio come gruppo di Costituzioni per
agevolare il lavoro della Commissione
2. Le quinquaginta decisiones non andrebbero collegate al Digesto. Attraverso queste decisioni, in realtà
l’Imperatore avrebbe solo voluto ovviare ai criteri troppo schematici della “legge delle citazioni”. In
sostanza avrebbe voluto predisporre uno strumento alternativo a quella legge, che ancora regolava gli
iura, individuando dei nuovi criteri. Secondo questa opinione, non andrebbero collegate con il Digesto
3. Le quinquaginta decisiones avrebbero avuto un carattere volutamente transitorio e uno scopo
prettamente pratico. È una tesi intermedia, sostenuta di recente. Sarebbero state adottate per gli
operatori del diritto, nel timore infondato che i tempi per la pubblicazione del Digesto sarebbero stati
lunghissimi.
Veniamo adesso alla seconda questione, in qualche modo più complessa e articolata. Dobbiamo chiederci come
sia possibile che un’opera così ampia sia stata realizzata in un tempo così breve. L’organizzazione del lavoro
dovette essere molto efficiente se si considera la velocità con cui l’opera fu compiuta. Sono due le tesi
principali che si contendono il campo e che provano a spiegare quale sia stata l’organizzazione del lavoro dei
commissari:
1. Teoria delle masse: in un saggio di circa 200 anni fa, uno studioso tedesco, Blume, elaborò la teoria
delle masse blumiane. Blume osservò che all’interno dei titoli del Digesto i frammenti della
Giurisprudenza non erano posti a caso, ma risultavano riuniti in tre masse. Ciascuna massa era relativa
ad un certo tipo di opere giurisprudenziali. In particolare, lo studioso ha ritenuto che tutti gli scritti
giurisprudenziali fossero stati suddivisi in tre gruppi, ciascuno affidato ad una sottocommissione. In
sostanza, la commissione dei 17 membri non avrebbe lavorato tutta insieme, ma suddivisa in tre
sottocommissioni più piccole. La prima sottocommissione si sarebbe occupata della così detta massa
sabiniana, la massa relativa alle opere di ius civile, in particolare i Commentarii a Sabino. La seconda
sottocommissione si sarebbe invece occupato della così detta massa “edittale”, la massa relativa alle
opere dello ius honorarium, soprattutto i commentarii all’editto. La terza sottocommissione si sarebbe
occupata della massa papinianea, la massa comprendente le opere di casistica, soprattutto di Papiniano.
Forse, a lavoro già inoltrata sarebbe stata costituita una quarta massa, detta appendix, che comprendeva
opere giurisprudenziali eterogenei. Queste commissioni avrebbero lavorato parallelamente,
accelerando in questo modo i tempi della compilazione. A lavori completati le sottocommissioni si
sarebbero riuniti per coordinare i risultati. Tony Honorè si è interessato ella composizione delle tre
sottocommissioni; sulla base di rilievi numerici, ha ipotizzato che le tre sottocommissioni fossero state
composte da due membri fissi, tra i funzionari e i professori di diritto. Gli undici avvocati, invece,
sarebbero intervenuti di volta in volta a supporto delle singole sottocommissioni. All’interno delle due
sottocommissioni, i due commissari stabili si sarebbero poi divisi equamente il lavoro; ciò avrebbe
ulteriormente accelerato i tempi. Secondo Honorè, insomma, si sarebbe creata una sorta di
sottocommissione della sottocommissione.

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2. Teoria dei pre-Digesti: questa tesi ipotizza l’esistenza di raccolte di iura precedenti al Digesto. Aspre
critiche furono sollevate alla tesi di Blume, a partire dallo studioso austriaco Hoffmann: ritenne che, a
prescindere dall’efficienza e dall’organizzazione della commissione, fosse inverosimile la creazione
di un’opera di tale portata in soli tre anni. Hoffmann ritenne che i commissari avrebbero utilizzato
raccolte a titolo privato, che avrebbero notevolmente accelerato i lavori della commissione. Peters, un
altro studioso, ha portato alle estreme conseguenze la tesi di Hoffmann, ritenendo addirittura che i
Digesta avrebbero avuto come modello una compilazione di iura risalente al V secolo d.C., redatta ad
uso privato dai maestri della scuola di Berito. In sostanza, secondo Peters, i commissari avrebbero
avuto come modello questa compilazione, che sarebbe solo stata revisionata e ampliata ove necessario.
Questa tesi, in sostanza, esclude che i commissari giustinianei abbiamo effettuato una selezione dei
tesi giurisprudenziali, il che ridimensiona notevolmente il lavoro dei commissari giustinianei. Questa
tesi ha avuto un certo consenso, ma oggi non è molto seguita, perché allo stato delle nostre conoscenze
non abbiamo elementi che provano l’esistenza di tali raccolte.

Il dibattito sulla questione concernente i metodi della compilazione è per certi aspetti ancora aperto.

Considerazioni conclusive
Se guardiamo al Digesto non possiamo negare che gli scritti della Giurisprudenza sono stati frammentati in
vista del disegno unitario di Giustiniano: evidentemente è stata compromessa l’organicità interna della singola
opera. Non è facile seguire la sequenza originaria delle opere originali dei giuristi. Nonostante ciò, non
possiamo negare che la compilazione di Giustiniano ha avuto un merito enorme: ci ha restituito un patrimonio
giuridico di valore inestimabile, che ci ha consentito di ricostruire la storia giuridica di Roma. Giustiniano ha
sottratto i tesori della scienza giuridica romana all’oblio. È grazie a questa compilazione che possiamo
ricostruire la storia del diritto romano, caratterizzato da un destino molto particolare, perché è la storia di un
diritto che è sopravvissuto alla società che lo ha espresso. È un diritto che continua a vivere anche dopo la fine
di quella società che lo ha fatto nascere, lo ha creato e lo ha espresso. Nelle epoche successive resta come
testimonianza viva proprio il suo diritto, che molti secoli prima di Cristo, un gruppo di uomini che si era
insediato sulle rive del Tevere aveva iniziato a creare; non solo, si crea, e su quel diritto si riflette, come mai
fu prima, creando così la scienza giuridica. Hernst Stain arrivò ad affermare che dopo la Bibbia, l’opera di
Giustiniano è stata l’opera che ha maggiormente influenzato la nostra civiltà.

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4. iStituzioni di diritto privato


romano

a. la repreSSione criminale
Parliamo di repressione criminale e non di diritti criminale perché il fenomeno giuridico non ha ancora
raggiunto una sua precisa articolazione, c’è una commistione tra ciò che appartiene alla sfera giuridica e ciò
che appartiene alla sfera religiosa (ius e fas).

Età monarchica:
La regola generale prevedeva la possibilità di agire nei confronti dell’oppressore, la vendetta. Interviene
l’apparato magistratuale quando i cri zmina vengono considerati lesivi di interessi pubblici, ma soprattutto
della pax deorum.Il crimen non ledeva interessi dell’altro oggetto, perché la furia degli dei si ripercuoteva su
tutta la società. Le fonti riferiscono che la disciplina era contenuta all’interno delle leges regiae. Gli studiosi
hanno proposto una distinzione tra misfatti riparabili e misfatti irreparabili, per cui necessitavano un sacrificio.
Una lex regia sanzionava il misfatto compiuto dalla vedova che avesse compiuto un nuovo matrimonio senza
rispettare il tempo che doveva ricorrere con un’offerta compiuta, somma di danaro o sacrificio di animale (in
questo caso una vacca gravida). Soprattutto nell’età arcaica non parliamo di diritto criminale, ma di repressione
criminale, data la forte commistione tra fas e ius. I misfatti irreparabili venivano sanzionati con la consecratio,
la consacrazione di colui che aveva commesso il crimine o con la deo necari, immediata esecuzione capitale.
La consecratio comportava la dichiarazione di homo sacer del reo; aveva come conseguenza la perdita di ogni
diritto politico e civile, l’allontanamento, che gravavano suk reo. Gli dèi avrebbero sanzionato il reo, e
chiunque avrebbe potuto uccidere il reo, senza ricorrere ad alcuna sanzione.
La deo necari comportava l’immediata esecuzione capitale al cospetto della comunità politica. Questi crimini
come la perduellio (quello che definiremmo oggi colpo di Stato), comportavano le lesioni di interessi religiosi,
ma anche di interessi sociali. Il reo veniva sospeso ad un albero sterile e percosso fino alla morte.
L’omicidio
I Romani, già nell’epoca arcaica aveva ben chiara la distinzione tra omicidio colposo e omicidio doloso. Si
distingueva l’omicidio compiuto con volontarietà e l’omicidio non volontario, con cui il risultato è lo stesso,
ma cambia l’elemento soggettivo. Nel primo caso si imponeva ai parenti dell’ucciso di uccidere l’uccisore al
cospetto della comunità, nel secondo caso l’uccisore avrebbe dovuto dare un ariete alla famiglia, affinché fosse
ucciso in modo simbolico. Uccidere l’uccisore, nel primo caso, era obbligatorio: la vendetta era imposta ai
parenti dell’ucciso.

Età repubblicana
In età repubblicana nasce la separazione tra ius e fas. Se il re, all’interno dell’età monarchica goddeva di un
potere politico-militare, ma anche religioso, queste funzioni cominciano ad essere conferiti a poteri diversi. Le
funzioni religiose vengono conferite prima al rex sacrarum, poi al pontifex maximus. I poteri politico-militari
vengono affidati al primo magistrato della repubblica. La repubblica è un periodo ampio, in continuo
cambiamento, per cui in un primo momento il potere militare viene dato ai consoli, dotati di coercitio, la
possibilità di punire misfatti con l’uccisione e con le fustigazioni. Per evitare abusi di potere, veniva
riconosciuta ai consoli la possibilità di porre in essere atti di coercizioni, derivanti dall’imperium magistratuale,
venne predisposta la provocatio ad popolum. È un istituto garantistico, che permetteva al soggetto dell’atto di
coercitio di interpellare il popolo, il Comizio centuriato nella maggioranza dei casi. Attraverso l’istaurazione
di un regolare giudizio, l’Assemblea popolare, dopo aver compiuto accertamenti istruttori, dava il responso.
La provactio ad popolum pone problemi sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista giuridico. Sarebbe
stata relegata da tre leggi Valerio-Orazie. La prima stabiliva l’impossibilità per il magistrato di provvedere alla
concretizzazione di atti di coercizione, senza riconoscere preventivamente la garanzia di ricorrere alla

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provocatio ad popolum. La seconda vietava la creazione di magistrature sine provocatione, la terza riproduceva
il contenuto della prima, stabilendo che il magistrato che non avesse ottemperato alle disposizioni sarebbe stato
classificato come magistrato riprovevole dal punto di vista morale. Erano legge imperfette, prive di effettività.
La provocatio ad popolum viene spesso definita appello a popolo, nel senso però di istaurazione di istaurazione
di giudizio popolare, non nel senso di giudizio di impugnazione.
Il console non esercitava in prima persona l’accusa, ma si avvaleva di questores parricidi, che aveva il compito
di portare l’accusa davanti all’assemblea popolare. Nella stragrande maggioranza dei casi il Comizio
Centuriato era l’organo responsabile, alle volte al Concilium Plebis. La procedura era molto tecnica e lunga:
1. accusa da parte del magistrato
2. Fase istruttoria preliminare
3. Tre riunioni, fissate a distanza di tempo l’una dall’altra. Alla fine di questa riunione era fissata una
quarta riunione a fini deliberativi, per far in modo che il Concilio o il Comizio giungesse alla
deliberazione
Le assemblee erano formate da comuni cittadini, non da tecnici del diritto. Nella maggioranza dei casi erano
devolute cause molto complesse e i giurati non avevano la competenza tecnica per pronunciarsi. Il limite
maggiore, però, che rappresenta il passaggio alle questiones, trova le sue radici in motivi di natura politica:
coloro che commettevano crimini, erano spesso senatori e l’aristocrazia senatoria non voleva che i senatori
venissero giudicati da comuni cittadini, che potevano essere manovrati. Il Senato, quindi, fa un attentato alle
istituzioni, perché comincia a sottrarre la competenza ai Comizi, in materia di reati politici, per fornilarla ad
una certa commissione presieduta da un magistrato. Il primo caso è quello dei Baccanali, un culto orgiastico,
che remava contro i mores maiorum: la competenza dei Comizi viene sottratta e fornita alla Commisione
perseguita da un magistrato o da un senatore. Ciò successe per tutte le questioni extraordinales, perché
l’ordinarietà corrispondeva alla devoluzione della causa ai Comizi o al Concilio. Il crimen repetundarum era
una delle questiones extraordinales, erano crimini ripetuti dai governatori. Si passerà poi al meccanismo delle
questiones perpetuae, relativo alle questiones che spesso venivano devolute alla Commissione. Le questiones
perpaetuae erano divise in tribunali. C’era una lex che istituiva una questio, legittimava l’istituzione di un
tribunale, delimitava l’istituzione del tribunale, predeterminava la legge e le pene da infliggere. Nel 149 a.C.
viene istituito un tribunale per il crimen repetundarum con la Lex Calpurnia. Veniva istituito il tribunale, ma
la procedura era ancora ancorata al profilo privatistico. Solo attorno al 132 a.C., con la Lex Acilia, viene
attribuito al processo un carattere pubblicistico. La pena era di carattere pubblico, corrispondeva alla
devoluzione del duplum, una somma da versarsi nell’erario dello Stato e che poi sarebbe stato devoluto alle
provincie che avevano subito il crimine dei governatori. Non rimaste un caso isolato la repressione del crimen
repetundarum; Silla introduce diverse questiones perpetuae, diversi tribunali competenti e il ruolo dei Comizi
e dei Concili viene meno definitivamente. Anche Cesare nel 59 a.C. emana un lex Iulia, volta a semplificare
la procedura delle questiones perpetuae. Si afferma il carattere accusatorio: se non ci fosse stata una denuncia
da parte di un privato cittadino, il processo non avrebbe potuto essere celebrato; il privato non solo doveva
presentare l’accusa, ma doveva anche sostenerla in giudizio. La denuncia (delatio nominis)costava di quattro
fasi:
1. postulatio: richiesta dell’accusatore di essere riconosciuto legittimo ad accusare
2. in ius eductio: la chiamata in giudizio dell’accusatore nei confronti dell’accusato
3. Interrogatio legibus: un interrogatorio formale dinanzi al magistrato.
4. Nominis raeceptio: iscrizione del nome del reo all’interno dei processi da celebrarsi.
Un privato cittadino presentava l’accusa solo con l’intento di salvaguardare la salus rei pubblicae, salute della
repubblica. Le leggi che istituivano i tribunali istituivano anche un premio per hi presentasse l’accusa; il
motivo, dunque, era meno nobile, e non erano infrequenti le false accuse. Altra questione importante, che ci
porta ad un nuovo mutamento istituzionale, è il fatto che nel principato preesiste una forma repubblicana e una
sostanza autocratica.

Età del Principato


Augusto emana la Lex Iulia iudiciorum pubblicorum nel 17 a.C., insieme con la Lex Iulia iudiciorum
privatorum, che semplifica i processi. Seppure la forma resti repubblicana, il potere viene devoluto al princeps
e ai suoi funzionari. Il sistema repubblicano della repressione criminale era incompatibile con il nuovo assetto

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istituzionale. Si istaura un nuovo processo in ambito civile, la cognitio extra ordinem. È un precosso del tutto
opposto ai due precedenti. Essa prevedeva una devoluzione diretta, di competenza giurisdizionale, al priceps,
che spesso la esercitava tramite i suoi funzionari imperiali. La competenza, dall’altro lato, era riconosicuta
anche al Senato, sebbene apparentemente. Venne riconosciuta per mantenere gli equilibri politici e il princeps,
in virtù della sua tribunicia potestas, poteva bloccare i processi dinanzi al Senato e avvocarli alla sua
competenza. Dall’età dei Severi, la cognitio del Senato scomparirà. Altra caratteristica fondamentale è che si
tratta di un processo inquisitorio, non accusatorio, che prevedeva la libera iniziativa processuale del
funzionario imperiale. La delatio nomins continua a persistere, ma solo per rafforzare l’iniziativa del
funzionario imperiale. Questo principio si consoliderà nelle età successive. All’apice c’era il princeps, poi il
prefetto del pretorio che aveva fortissima presenza nell’ambito della repressione criminale della città, il
praefectus Urbi, fuori della città, praefectus urbi e praefectus annnonis, che sebbene de facto non avessero
funzione giurisdizionali, spesso le ricoprivano comunque in luogo dei funzionari di grado maggiore. Altra
caratteristica era la possibilità di effettuare appello, nel vero senso del termine. La decisione del funzionario
imperiale poteva essere riproposta dinanzi o al funzionario di grado superiore o dinanzi all’imperatore.

Età tardo-antica
Se nell’età del principato c’è un’ambiguità di fondo, nel tardo antico, sia da un unto di vista formale, sia da un
punto di vista sostanziale, vige un principio autocratico. Rappresenta un’epoca ricca di contraddizioni. Ci sono
numerosissimi fattori di trasformazione dal punto di visto politico e sociale; si acuisce il divario tra i ricchi
possessori di oro (honestiores) e gli humiliores, i più poveri. Vi è il riconoscimento della religione cristiana.
Tutto ciò comporta la creazione di fori speciali; viene creato addirittura un tribunale ecclesiastico. In realtà,
vengono creati numerosissimi tribunali, con numerosissimi giudici per numerosissimi reati. Era difficile capire
a che magistrato rivolgersi, e tutto questo, insieme con l’incertezza del diritto tipica di questo periodo, crea un
clima ricco di contraddizioni. Nonostante la cristianità degli imperatori, la repressione criminale si inferocisce
e viene a delinearsi così il divario tra honestiores ed humiliores. A seconda della classe sociale del cittadino,
era prevista una pena diversa per uno stesso crimine. In caso di reati gravi di honestiores, la massima pena era
l’uccisione capitale, non l’ingestione di piombo o la partecipazione a spettacoli gladiatori come nel caso degli
humiliores. È una fase di estrema decadenza dell’Impero, che si sta avviando alla caduta.

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b. il proceSSo civile
L’esposizione dei diversi istituti del diritto romano non può che iniziare con i processi. Roma vide
fondamentalmente tre processi susseguirsi nel tempo:
1. Processo per legis actiones. Il processo per legis actiones trova una prima regolamentazione nelle
dodici tavole. Quando parliamo di lege agere, parliamo di agire secondo quanto stabilito dalla legge.
Questo sistema più antico viene pronunciata la prima volta nella Lex iulia iudiciorum privatorum.
2. Processo per formulas: Il processo per formulas nasce nel III secolo a.C., nel tribunale del praetor
peregrinus. È una procedura che si affianca per lungo tempo alla procedura per legis actiones; poi
sostituirà definitivamente la vecchia procedura. La diffusione ampia di questo tipo di processo si ebbe
in seguito alla Lex Ebutia, che rese facoltativo il ricorso alla procedura formualre, cioè il pretore
urbano fu autorizzato ad utilizzar la procedura formulare anche nella risoluzione delle controversie tra
cives. Questa procedura comincia a decadere nel II secolo d.C. Sarà abolita formalmente solo nel 342
d.C
3. Cognitio extra ordinem: la cognitio extra ordinem, è “extra ordinem”, straordinaria, rispetto alla
procedura formulare. Nasce agli arbori del III secolo d.C. Affiancherà per molto tempo la procedura
formulare, prima di soppiantarla definitivamente diventando l’unico sistema processuale dopo il 342.

Nel diritto romano l’aspetto sostanziale convive con quello formale, il diritto soggettivo, cioè, convive a stretti
legami con il processo. C’è un’attitudine giuspoeitica, l’attitudine a produrre diritto attraverso la giurisdizione.

PROCESSO PER LEGIS ACTIONES


È la procedura più antica, caratterizzata da un rigido formalismo. È un processo dominato dalla ritualità, infatti
viene anche definito processo per “certa verba”, parole certe, cioè parole determinate e gesti fissi
immodificabili e ben precisi. Queste parole e questi gesti, simbolicamente, rappresentavano le pretese delle
parti in causa. Prevede due fasi:
1. in iure: si svolgeva dinanzi al pretore, il magistrato iusdicente
2. apud iudicem: si svolgeva dinanzi ad un giudice privato
Il pretore doveva instaurare formalmente la controversia. Le parti pronunciavano le dichiarazioni solenni, per
cui il pretore in questa fase doveva solo controllare la regolarità formale degli atti compiuti. Era necessaria la
presenza dell’attore e del convenuto, l’actus e il reus. L’attore doveva citare in giudizio il convenuto (vocatio
in ius); se il convenuto si fosse rifiutato di presentarsi dinanzi al magistrato, l’attore doveva far constatare
questo rifiuto e poteva trascinarlo con la forza in giudizio. Se il magistrato avesse ritenuto insensata la richiesta
dell’attore, allora avrebbe ordinato l’intervento del giudice nella seconda fase. Dovevano prima, però,
intervenire due testimoni delle parti, prima di rimettere le parti al giudizio dello iudex privatus. La fase in iure
si chiude con la così detta “litis contestatio”, la presa di conoscenza della controversia da parte dei testimoni.
Durante la seconda fase “in iudicem” si instaura una fase di accertamento. Il giudice veniva scelto tra coloro
che erano iscritti in un apposito albo. Il giudice privato aveva il compito di esaminare le prove prodotte dalle
parti in causa, in relazione alle dichiarazioni affermate nella prima fase. Doveva crearsi un proprio
convincimento e poi emanare la sentenza. Questa seconda fase, dunque, si chiude con la sententia iudicis. È
un atto, però, emanato da un cittadino privato. Questa sentenza aveva tre caratteri fondamentali:
1. non comportava una condanna in forma specifica (in ipsam rem): non comportava una condanna ad
eseguire la prestazione specifica oggetto della controversia; non poteva esservi una condanna in ipsam
rem, ma solo una condanna pecuniaria. Veniva dato l’ordine di pagare una determinata somma di
denaro, che equivaleva al valore della prestazione o dell’oggetto in contestazione. Non poteva imporre
di eseguire precisamente la prestazione dovuta.
2. Non aveva efficacia esecutiva: non era possibile l’esecuzione forzata di questa sentenza. Il giudice non
poteva imporre al soccombente di ottemperare alla sentenza; per questo fine era necessario ricorrere
ad un’apposita azione esecutiva.
3. Questa sentenza era inappellabile.

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Esistevano diverse azioni di legge. Ne analizziamo due: la legis actio per sacramentum (dichiarativa) e la
legis actio per manus inectionem (esecutiva). La prima è un’azione generale, sacramentale perché basata su
un sacramentum, un giuramento sacrale. Questa azione più antica consisteva nella sfida dell’attore con un
giuramento sacrale. L’attore si dichiarava pronto a sacrificare agli dei un certo numero di carri di bestiame o
una certa somma di denaro, qualora risultasse che avesse torto. Il convenuto faceva lo stesso. Questo tipo di
azione si distingueva “in rem” e “in personam”. La legis actio per sacrametnum in rem era un’azione pr far
valere un diritto reale su un determinato bene, cioè l’attore e il convenuto rivendicavano uno stesso diritto su
una res. Nella legis actio per sacramentum in personam si contende circa l’esistenza o meno di un diritto
relativo, di un’obbligazione a carico del convenuto. L’attore afferma che esiste un credito, l’altro afferma di
un essere debitore. Il giudice deve fare solo un accertamento, deve dichiarare quale sacrametnum fosse iustum,
fatto secondo diritto. Il soccombente veniva dichiarato in debito verso l’attore di una determinata somma. Ha
solo funzione dichiarativa, perché il soccombente doveva adempiere spontaneamente all’obbligazione. Se
entra giorni non lo faceva, l’attore poteva agire con la legis actio per manus inectionem, un’azione esecutiva.
Questa azione presuppone il mancato pagamento della somma accertata dalla precedente azione. Questa azione
deve essere svolta dinanzi al magistrato, essendoci già una sentenza di accertamento, pronuncia l’addictio,
l’assegnazione della persona del soccombente all’attore. Era un’assegnazione in stato di prigionia, finché con
il proprio lavoro non avesse pagato la summa accertata.
Man mano che la vita sociale andò evolvendosi, la legis actiones manifestarono un grandissimo difetto: le parti
riversavano le proprie richieste in pochi, rigidi e predeterminati schemi formali. Bisognava imbrigliare la
molteplicità di necessità in rigidi schemi formali, che non erano più in grado di tradurre in termini processuali
le plurime istanze sociali. Di qui, la crescente insofferenza verso questo sistema procedurale vetusto. Le legis
actiones vennero considerate non elastiche, cosicché si affermò una nuova procedura.

LA PROCEDURA PER FORMULAS


Preesistette per lungo tempo con il sistema procedurale per legis actiones, eliminato formalmente solo nel 17
a.C. Dal III secolo a.C. al 17 a.C., coesistono queste due procedure. Questo processo è detto anche processo
per “concepta verba”, parole concordate caso per caso. Le formule sono delle regole di giudizio concepite caso
per caso. Sono formule adattabili al caso specifico. Resta una struttura bifasica:
in iure: si svolge ancora dinanzi al magistrato, ma cambia rispetto alla precedente procedura. Anche in questo
processo era necessaria la presenza di entrambe le parti ed anche in questo processo l’attore compiva la vocatio
in ius. Però, in questo processo, il magistrato valutava il fondamento della pretesa vantata dall’attore. In
sostanza, concedeva il giudizio se la domanda fosse risultata fondata, avrebbe negato l’azione se la domanda
era manifestamente infondata. In sostanza il magistrato doveva determinare le opposte pretese delle parti nella
formula. Le parti in causa collaboravano con il pretore, nella ricerca di una formula idonea, una regola di
giudizio congrua, che potesse ben rappresentare le ragioni affermate. Erano tutti impegnati nella ricerca di una
formula iudicii. Quando una formula si consolidava, veniva inserita nell’editto, diventando formula edittale.
La fase in iure si chiude con la litis contestatio: indica l’accordo trilaterale tra le parti e il pretore sui termini
della controversia. È il momento essenziali in cui si fissano i termini ella controversia in modo definitivo.
apud iudicem: si svolgeva sempre dinanzi ad un giudice privato scelto dall’albo dei giudici. Le parti
producevano le prove in merito alle circostanze affermate. Il giudice valutava ed esaminava le prove addotte
dalle parti. In base all’istruttoria, l’esame delle prove, doveva formarsi un proprio convincimento ed emanare
la sentenza. Questa sentenza doveva seguire dei caratteri:
1. Non era ammessa la condanna in ipsam rem, ma solo la condanna pecuniaria.
2. Non aveva efficacia esecutiva: non era ammessa l’esecuzione forzata della sentenza.
3. Era inappellabile: definitiva.
La seconda fase del processo formulare si chiudeva con l’emanazione della sentenza del giudice.
Non avendo efficacia esecutiva, per procedere all’esecuzione della sentenza occorreva l’actio iudicati, dinanzi
al magistrato. È un’azione fondata su un’obbligazione che nasceva dalla sentenza non adempiuta. Occorreva
che l’attore, trascorsi 30 giorni espedisse l’actio iudicati. È anch’essa un’azione di accertamento, che era in
sostanza intesa ad ottenere una conferma della sentenza per l’attore. Se veniva nuovamente condannato con
l’actio iudicati, allora l’attore poteva chiedere al magistrato l’addictio.

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Dal I secolo a.C. i affermò il processo dell’esecuzione patrimoniale: il magistrato immetteva l’attore in parte
o in tutto il patrimonio del soccombente. Si ricorreva all’addictio solo se il soccombente fosse stato
nullatenente.
Nella formula è possibile individuare diversi elementi:
1. datio iudici: nomina del giudice privato investito della causa. “Sai giudice della causa Tizio”
2. pars pro actore: è la parte della formula in cui si ipotizza che siano fondati gli argomenti addotti
dall’attore e si chiede al giudice di emettere un provvedimento di condanno. “Se in base all’istruttorio
ti sembra che la pretesa dell’attore, allora tu, giudice privato, condanna il soccombente “
3. pars pro-reo: è la parte in cui si ipotizza che gli argomenti dell’attore siano infondate. 2Se ciò non ti
sembra, assolvilo2
4. Iussum iudicandi: l’ordine di giudicare. Il giudice viene investito del potere di decidere e di emanare
la sentenza. “Nella mia qualità di magistrato giusdicente investo Tizio del potere di giudicare”.
Dal punto di vista strutturale è possibile individuare altri 4 elementi, due necessari (intentio e condemnatio) e
due possibili (demonstratio e adiudicatio). L’intentio è la pretesa dell’attore, il diritto vantato dall’attore; essa
poteva essere certa, ben determinata o incerta. Nell’ultimo caso era necessaria la demonstratio: veniva messa
prima dell’intentio ed era un’esposizione articolata dei fatti. La condemnatio era la parte della formula nella
quale si conferiva al giudice il potere di assolvere o di condannare: poteva essere certa, cioè si indicava anche
la somma precisa della condanna, o incerta, si lasciava al giudice il compito di stabilire la somma. L’adiuticati,
aggiudicazione, era la parte della formula con la quale si attribuiva al giudice il potere di assegnare determinati
beni e determinate cose al giudice. Era inserita nei giudizi divisori, di divisione per esempio dell’ereditò. Su
richiesta del convenuto, nella formula subito dopo l’intentio si poteva inserire l’excepetio, con la quale il
convenuto opponeva un principio giuridico affermatosi più di recente di quello dell’attore; poteva anche
opporre una circostanza rilevante per il pretore sulla base dell’equitas.
Questo processo non andò oltre il II secolo d.C., periodo in cui il ruolo dei magistrati iniziò ad essere
ridimensionato e diminuito in favore del potere dell’imperatore e dei suoi funzionari, espresso con la cognitio
extra ordinem.

COGNITIO EXTRA ORDINEM


Con l’affermarsi del principato abbiamo sicuramente un mutamento dell’assetto costituzionale, ma anche un
mutamento del diritto privato e degli strumenti di tutela. L’assolutismo imperiale sul piano legislativo
determinò la sostituzione di tutte le pregresse forme di produzione con l’unicità dell’unica fonte imperiale, sul
piano processuale si addiviene ad una pubblicazione del processo civile. Il processo viene a configurarsi come
un processo pubblico a tutti gli effetti. Il processo civile viene attratto e scivola nella scena pubblicistica, dove
sappiamo esserci il processo criminale: ciò accade perché la sentenza è emanata dal potere pubblico, non c’è
più il giudice privato. Il potere imperiale assume la funzione legislativa, ma anche quella giurisdizionale. La
funzione giurisdizionale diventa funzione pubblica, assolta attraverso organi pubblici.
Il processo rimane privato perché lo mette in moto il singolo privato ed erano dedotti interessi privati, ma il
compito di decidere la lite e il provvedimento decisorio è assunto ora dal potere imperiale, l’organo pubblico.
Questo nuovo tipo di giudizio è così chiamato perché cognitio vuol dire conoscenza (indica l’accertamento dei
fatti e il riscontro della loro rilevanza giuridica), extra ordinem indica che si tratta di una procedura
straordinaria, nasce fuori dall’ordinaria prassi giudiziaria. Extra ordinem indica un distacco dai principi e dai
caratteri della precedente procedura. Inizialmente veniva utilizzata quando i cittadini chiedevano un riesame
della causa o quando preferivano rivolgersi al potere imperiale. Dal II secolo d.C inizia quindi ad assumere
un’importanza tale da soppiantare le decisioni del processo formulare. Esistono tre momenti fondamentali:
1. evocatio: convocazione giudiziaria. Non viene compiuta dal singolo, non c’è più la vocatio in ius, ma
l’evocatio, una convocazione in giudizio. Si trattava di un’intimazione a comparire da parte
dell’organo giudicante. Assume un carattere semi-ufficiale, perché il modo prevalente di convocazione
fu rappresentato dalla così detta evocatio denuntiationis, attraverso la litis denuntiatio. La litis
denuntiatio era un atto fatto dall’attore, approvato dal giudice e da questi notificato al convenuto.
2. causa coniectio: Non è altro che la trattazione della causa. Prevedeva tre momenti, un primo momento
la litis contestatio, in cui si esplicitano le pretese delle parti; l’udienza dibattimentale, la medium litis,

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cioè lo scontro tra la pretesa dell’attore, la narratio, e la difesa del convenuto, la contraddictio. Seguiva
l’ultima fase, udienza finale, in cui le parti chiudevano il dibattimento
3. sententia: è la decisione del giudice, con la quale il giudice conclude il processo. Viene emanata in
pubblico dopo essere stata scritta ed argomentato.
L’assenza del convenuto non impediva la prosecuzione del processo; in questa procedura, che si apre con la
evocatio, il convenuto regolarmente convocato e non presentatosi viene considerato contumace, disobbediente
all’autorità giudiziaria. Si poteva procedere anche in contumacia senza il convenuto.

Notiamo le differenze dalle altre procedure:


1. differenza strutturale: non abbiamo un processo bifasico, ma tutto si svolge davanti al giudice
funzionario investito del caso. Egli si occupa di tutto il processo, dall’istruttoria, alla fase
dibattimentale alla fase decisionale
2. La sentenza è diversa:
a. è ammessa la specificità della condanna, era possibile una condanna nella stessa specifica
prestazione oggetto della controversia. Poteva anche eventualmente tradursi in condanna
pecuniaria se non era più possibile in forma specifica.
b. Aveva efficacia esecutiva, perché era possibile l’esecuzione forzata della sentenza, che era
affidata ai così detti apparitores, una sorta di ufficiali giudiziaria.
c. È impugnabile dinanzi ad un funzionario gerarchicamente superiore. Con la cognitio extra
ordinem nasce l’appello, la possibilità di impugnare la sentenza dinanzi ad un organo
superiore. È la conseguenza dell’affermarsi di un apparato amministrativo gerarchico

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c. le perSone e la Famiglia
La famiglia romana è molto diversa da quella odierna. I componenti della famiglia romana non erano
necessariamente tutti legati da un vincolo di sangue e soprattutto, non tutti coloro che erano legati dallo stesso
vincolo di sangue appartenevano allo stesso gruppo familiare. A Roma la così detta cognatio parentalis, la
consanguineità aveva un rilievo prevalentemente sociale. Ad essere rilevante a Roma era la cognatio civilis,
detta anche l’adignatio. Essa era la parentela in linea maschile, la dipendenza familiare da un capostipite
comune. Gli adignati sono i componenti della famiglia maschi, coloro che sono nati dopo il capofamiglia.
Sono i membri della famiglia sottoposti al pater familias. Gaio afferma: “Si chiamano adignati coloro che
sono unti per parentela legittima (cognatio civilis). La parentela legittima è quella che unisce le persone in
linea maschile”. Ulpiano, invece scrive che la famiglia era un gruppo che comprendeva più persone sottoposte
al potere del pater familias, o in base alla natura o in base al diritto. I membri della famiglia sono
A. Pater familias, il padre
B. Uxor o mulier, la moglie
C. I figli
D. I discendenti dei figli
Il pater familias è la figura centrale della famiglia romana, è l’asse portante. Il pater aveva la piena qualità di
soggetto giuridico. Aveva la capacità di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive. Il pater familias era
in sostanza al centro della vita sociale, era il protagonista non solo del contesto familiare, ma anche di quello
economico, sociale e giuridico. Il pater familias è persona sui iuris, un soggetto giuridicamente autonomo:
non era soggetto alla potestà di nessun altro, non aveva ascendenti maschi che esercitassero su di lui la potestas.
Gli altri membri del gruppo sono persone alieni iuris, di diritto altrui. In concreto, il pater familias aveva uno
spettro ampio di facoltà di poteri:
1. patria potestas sui figli e sui discendenti
2. manus maritalis: la potestà maritale sulla uxor
3. dominica potestas: il potere sui servi, non dissimile da quello che poteva esercitare sulle cose. È una
manifestazione sul diritto di proprietà che si esercitava anche sugli schiavi.
Soffermiamoci sulla patria potestas e la manus maritalis, per capire i rapporti intra-familiari.
Gli oggetti della patria potestas del pater familias sono i figli, sia legittimi sia adottivi. Erano soggetti anche
lla patria potestas i discendenti ulteriori. L’immagine tipica della famiglia romana era quella di un gruppo
familiare molto ampio dominato dal pater familias e comprendente anche 2, 3 generazioni. Era un potere
potenzialmente illimitato sui figli e sui discendenti. Il pater familias aveva una serie di facoltà e poteri molto
ampie, che però con il tempo diventarono più teoriche che pratiche. Tra i poteri vediamo:
1. ius vitae ac necis, il diritto di vita e di morte. Era il potere più duro di tutti. Il padre aveva il potere, se
lo ritenesse necessario, di uccidere i propri figli. Fin dai tempi più antichi il sentimento religioso, la
coscienza sociale limitarono l’esercizio di questo diritto. In età repubblicana l’abuso di questo potere
del pater familias era punito dai censori in sede di censimento con la nota censoria. I censori dovevano
controllare la condotta morale dei cives, anche la condotta dei patres nell’esercizio della patria
potestas. In età imperiale si arrivò ad infliggere la pena della deportatio in insula al pater familias che
avesse ucciso il proprio figlio per futili motivi. Sono però azioni sporadiche. Fu in età tardo-antica,
con l’influsso del Cristianesimo, che questo diritto f notevolmente soppresso fino a scomparire del
tutto. L’Imperatore Costantino, primo imperatore cristiano, stabilì che dovesse considerarsi reato di
omicidio l’uccisione del figlio da parte del padre.
2. ius exponendi, il diritto di esporre. Era il diritto di abbandonare il neonato al momento della nascita.
Lo si esponeva in un luogo pubblico: poteva essere raccolto e allevato da un terzo (nutritor) che poteva
anche tenerlo come schiavo presso di sé. Questa usanza colpì soprattutto i neonati deformi o i figli
illegittimi.
3. ius vendendi, il diritto di vendere. È il diritto di vendere il proprio figlio. Il figlio venduto veniva ad
essere sottoposto ad una particolare potestà dell’acquirente. Il figlio venduto diventava liber in
mancipio: era un particolare stato di soggezione del figlio, sottoposto al mancipium dell’acquirente.

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Era una condizione intermedia tra la posizione di figlio e di schiavo. Era un cittadino libero, ma in
condizione di schiavo, servi loco. Questa scandalosa abitudine di vendere il proprio figlio fu limitata
già dalle XII tavole.
4. ius noxe dandi, il diritto di dare a nossa. Era un diritto di dare a riparazione di un illecito compiuto
dal proprio figlio. La noxe deditio è l’abbandono riparatore del figlio che avesse compiuto un illecito;
il figlio veniva consegnato direttamente dal pater familias al terzo affinché potesse punirlo. Per gli
illeciti privati, che ledevano quindi solo gli interessi privati ed erano puniti con una sanzione
pecuniaria, commessi dai sottoposti, rispondeva il pater familias. Il pater familias aveva la possibilità
di liberarsi dalla responsabilità consegnando il colpevole alla persona offesa, che poteva sia punirlo,
che utilizzarlo come forza lavoro.
La patria potestas si costituiva per diverse cause. Prima di tutto, si costituiva dalla nascita dalle iuste nuctie,
le nozze legittime. Tra le cause di costituzione ricordiamo anche l’adozione, l’adoptio di un figlio altrui.
Dobbiamo ancora annoverare l’arrogazione di un altro pater familas, l’adrogatio. La patria potestas si
estingueva per diversi motivi. Oltre chiaramente alla morte, del padre o del figlio, la patria potestas si
estingueva con l’emancipatio. Il diritto romano riconobbe da sempre la possibilità di far entrare nella famiglia
un estraneo “artificialmente”, in qualità di discendente. Esso entra a far parte dal vincolo di sangue, ma non è
legato da vincoli di sangue. I processi per far entrare un soggetto estraneo all’interno della famiglia sono
proprio l’adoptio e l’adrogatio.
L’adoptio è un atto di trasferimento di una persona alieni iuris da un gruppo familiare ad un altro gruppo
familiare. La funzione inziale di questo istituto era quello di trasferire forza lavoro. Questo istituto fu escogitato
dalla giurisprudenza dopo le XII tavole, perché fu sfruttata una loro regola: la patria potestas si estingueva
dopo tre vendite soggettive da parte del padre, un limite allo ius vedendi. L’acquirente del figlio lo acquistava
e poteva a sua volta vendere il sottoposto o affrancare, liberare. Nel caso dell’affrancazione, il figlio non
acquistava la soggettività giuridica, ma tornava sotto la potestà del pater. Fu la frequenza scandalosa con cui i
capi famiglia vendevano e rivendevano i figli a stabilire il limite delle tre vendite: “Se il padre ha venduto per
tre volte il figlio, il figlio sia libero dalla sua potestà”. Il figlio venduto per tre volte poteva essere
definitivamente liberato se il terzo acquirente lo affrancava, perché non sarebbe più tornato sotto la potestas
del padre. Si procedeva a tre vendite successive per attuare l’adoptio ad un acquirente di fiducia, il fiduciarius.
Prima dell’ultima manumissio, si istaurava un finito processo: si recavano dal pretore l’adottante, il pater
originario e il figlio. Davanti al magistrato l’adottante rivendicava quel figlio come proprio; il pater originario
taceva, non replicava e stava in silenzio. Davanti all’attegiamento passivo del pater, il magistrato dichiarava
l’adottante il titolare della patria potestas. In concreto il magistrato assegnava il filius all’adottante, perché
costui viene riconosciuto fittiziamente come pater: ci si basa sulla regola decemvirale, si istaura un finto
processo, il magistrato sancisce la titolarità della potestas in capo all’adottante.
L’adrogatio era la sottoposizione di un pater familias alla potestas di un altro pater familias. Questo
procedimento era praticato ben prima dell’adoptio, prima delle XII tavole. Era un procedimento in virtù del
quale un pater familias assumeva la patria potestas su un altro pater familias consenziente, detto adrogatus:
esso veniva a subire un mutamento di stato, diveniva alieni iuris. In origine serviva a chi volesse procurarsi un
erede artificialmente, in assenza di un erede naturale: si fondevano due nuclei familiari, perché il pater
adrogatus diventava filius del pater adrogator. Il patrimonio del pater familias adrogatus veniva incamerato
nel patrimonio del pater adrogator. L’adrogator incorpora l’intera famiglia dell’adrogatus, In età arcaica e in
età repubblicana si svolgeva dinanzi al Comizio Curiato, sotto la presidenza del pontefice massimo. Si parlava
di adrogatio per populum; nel corso dell’età repubblicana, quando decaddero i Comizi Curiati, questo
procedimento si tenne dinanzi ai trenta littori. In età imperiale si ammise che l’adrogatio potesse avvenire in
forza di un rescritto imperiale, si parlava di adrogatio per rescriptum principis.
L’emancipatio era l’atto di liberazione del filius dalla patria potestà. Era la volontaria rinuncia del padre alla
patria potestas sul figlio; essa determina l’acquisto da parte del figlio della qualità di soggetto sui iuris. Anche
questo istituto fu creato dalla giurisprudenza dopo le XII tavole, perché sfrutta un precetto decemvirale: il
figlio, dopo la terza vendita diventava sui iuris se affrancato dall’acquirente. Per procedere all’emancipazione
si utilizzava lo stesso precetto dell’adoptio: il padre vendeva il figlio ad un fiduciario; costui lo manometteva
le prime due volte facendolo ritornare dal padre, poi con la terza manomissione lo rendeva libero. In età tardo

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antica, con l’Imperatore Anastasio, fu introdotta l’emancipatio per repscriptum principis o emancipatio
anastasiana.
La famiglia romana appare come una comunità di tipo patriarcale, accomunata dal pater familias. Sarebbe
forviante immaginarsi un tipo di famiglia come quella attuale, fondate su rapporti di amore e rispetto reciproco.
Questi sentimenti c’erano, ma i rapporti intra familiari erano caratterizzati prevalentemente dalla sudditanza
nei confronti del pater familias. Il pater appariva come un padre-padrone nei confronti dei sottomessi.
Il presupposto per la costituzione della famiglia, definita famiglia proprio iure, era il matrimonio legittimo, le
iuste nuctie. Le fonti parlano del matrimonio come un’unione di vita; è celebre la definizione di Modestino
come “Le nozze sono l’unione di un uomo e della donna, consortium omnis vitae (unione di tutta la vita)”;
Giustiniano definisce le nozze nelle Institutiones come l’unione dell’uomo e della donna che implica
un’inseparabile intimità di vita. Il matrimonio dal punto di vista giuridico era l’unione tra uomo e donna, seria,
manifesta e continuata; in sostanza il matrimonio consisteva nella convivenza stabile tra due persone di sesso
diverso, con la volontà seria e costante di essere marito e moglie. Analizziamo presupposti e requisiti del
matrimonio legittimo. Tra i presupposti la monogamia e la esogamia. L’unione matrimoniale era monogamica,
erano assenti precedenti vincoli matrimoniali, i cittadini romani non potevano avere contemporaneamente due
o più unioni matrimoniali. Era esogamica, erano assenti vincoli di parentela tra i congiunti. Tra i requisiti la
capacità sessuale, lo ius connubii e l’affectio maritalis. La capacità sessuale indicava il raggiungimento della
pubertà, per le donne ai 12 anni e per gli uomini 14 (si aggiunge anche l’eterosessualità in questo requisito).
Lo ius connubii era la capacità di contrarre matrimonio e richiedeva la libertà e la cittadinanza romana.
L’affectio maritalis è il consenso dei coniugi, la volontà reciproca di unirsi in matrimonio. Ulpiano afferma
che il matrimonio non si costituisce con la mera convivenza, ma “per effetto del consenso” (“Nuptias non
concubinatus, sed consensus facit”. Tra le cause di scioglimento c’è la morte di uno di questi coniugi, la perdita
di uno dei requisiti o il divortium (da diverte, separarsi), che ricorreva quando in entrambi i codici fosse venuta
meno l’affectio maritalis. Di fatto, il divorzio consisteva nell’interruzione della convivenza stabile, non c’era
bisogno di un atto formale. La moglie, soggetta alla manus maritalis si trovava in una situazione simile a quella
dei figli; si soleva dire che fosse filiae loco, in condizione dei figli. Il diritto romano conobbe due matrimoni:
Matrimonio cum manu: è la forma più antica di matrimonio. È il matrimonio con la costituzione della manus
maritalis. Nel periodo più antico di Roma la manus maritalis accompagnava sempre il matrimonio. La
conventio in manu era proprio il passaggio della donna nella mano maritale e indicava la sottoposizione della
donna alla potestà dell’uomo. La donna che contraeva questo matrimonio usciva dalla sua famigia d’origine
ed entrava a far parte della famiglia del marito, in condizione di sottoposta (filiae loco). La donna perdeva ogni
aspettativa successoria nella vecchia famiglia. La manus maritali si costituisce in tre modi:
1. confarreatio: è una solenne cerimonia religiosa, che prendeva il nome da una focaccia di farro che gli
sposi spezzavano ed offrivano a Giove come simbolo della vita comune che iniziava. Gli sposi si
tenevano per mano e pronunciavano delle formule che manifestavano la volontà di unirsi in
matrimonio. La moglie diceva “Ubi tu gaius, ibi gaia”, dove sarai tu gaio, lì io gaia. Si svolgeva dinanzi
al pontefice massimo e il sacerdote di Giove.
2. Coenptio: è un acquisto della donna a scopo di matrimonio. Si usavano delle formule dedite a far
entrare la donna nella famiglia del marito in condizione di mulier in mano
3. Usus: era la convivenza stabile sotto lo stesso tetto protratta per un anno. Dopo un anno di convivenza
ininterrotta, si riteneva che il marito acquistasse la manus sulla donna. È una particolare forma di
usucapione.
Matrimonio sine manu: dal III/II secolo a.C. si diffonde il matrimonium sine manu, libero, senza la
costituzione della manus maritalis, per evitare che la moglie perdesse i suoi rapporti e legami con la famiglia
di origine e dunque le aspettative successorie. In questo modo, se fosse stata sui iuris, non avrebbe perso la
propria capacità giuridica e il suo patrimonio. A questo scopo si sfrutta ancora una volta una disposizione delle
XII tavole: se la moglie si allontanava per tre notti consecutive dalla casa coniugale (trinoctium), il termine
richiesto per l’acquisto per la manus si interrompeva, spezzando l’anno, e la manus non si acquistava in capo
al marito. In concreto i coniugi si univano tramite l’usus e la moglie si allontanava, in modo che non si compisse
il termine per la manus
Negli ultimi secoli della repubblica i matrimoni sine manu prevalsero; nel principato erano rarissimi e
scomparvero del tutto in età tardo antica. In età tardo antica, per influsso della religione Cristiana cambia la

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concezione del matrimonio, che si configura come rapporto giuridico che nasce dal consenso iniziale; si ritenne
che il matrimonio non possa sciogliersi sic et simpliciter, ma che si estingua solo con la morte di uno dei
coniugi o con l’intervento di una nuova volontà contraria dei coniugi, espressa in modo chiaro e definitiva.
Giustiniano riterrà che la prova della volontà patrimoniale si potesse trarre dalla richiesta di entrambi i coniugi
della benedizione sacerdotale.

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d. le SucceSSioni
Analizzeremo la successio mortis causa. Carlo Falda nella sua opera “Concetti fondamentali del diritto
romano” si chiedeva, “quando l’uomo scompare dalla scena del mondo, qual è la sorte dei diritti che si
riannodano alla sua persona?”. La morte di un soggetto giuridico apre nuovi scenari sul piano del diritto. Sono
diritti che si riannodano, ma non si estinguono. Il diritto successorio indaga questi nuovi scenari. Partiamo
dalla definizione di successio mortis causa. Questa espressione designa il fenomeno del sub-ingresso di un
soggetto giuridico ad un altro soggetto giuridico nella titolarità dei suoi rapporti giuridici patrimoniali
trasmissibili. Un nuovo titolare dei diritti si viene a collocare al posto del precedente titolare. Se scomponiamo
questa definizione nei suoi elementi, possiamo individuare i soggetti coinvolti nella successione e l’oggetto
della successione. Il soggetto che decede, il decuius, era il soggetto al quale faceva capo tutto il complesso dei
rapporti giuridici nella cui titolarità si realizza il sub-ingresso. Decuius è una forma ellittica della forma “is de
cuius eriditate agitur”, colui della cui eredità si tratta. Il soggetto che subentra nella titolarità dei rapporti
giuridici trasmissibili del decuius è il successore, eres, o, al plurale eredes. Il complesso dei rapporti giuridici-
patrimoniali trasmissibili è definito ereditas. Bisogna precisare che la successio mortis causa si distingue in:
1. successione universale (successio in universum ius): è una successione in tutti i rapporti giuridici
patrimoniali trasmissibili, di cui il decuius era titolare. È la successione di tutto il patrimonio del
defunto o una quota di esso se ci sono più eredes.
2. successione a titolo particolare (successio in singulas res): è una successione in determinati rapporti
giuridici. Era la successione che si verificava nel legato. Il legato è un’attribuzione mortis causa a
titolo particolare: in sostanza il legatum consiste in un lascito di un determinato cespite ereditario, un
oggetto, un fondo o un singolo diritto, un credito. Il legatario era il destinatario del legato.
I Romani conobbero due diversi sistemi successori, che non sono antitetici, ma integrativi. Un sistema è
disciplinato dallo ius civile, un altro disciplinato dallo ius honorarium.
Il sistema civilistico contempla due tipi fondamentali di chiamata successoria:
1. successione testamentaria, la vocatio ex testamento: è quella che si apre quando il decuius muore
lasciando testamento
2. Successione intestata, vocatio ab intestato: è detta anche successione legittima, che si apriva qualora
il decuius fosse morto senza aver fatto testamento, intestatus, senza aver testato, fatto testamento.
Si aggiungeva un terzo tipo di successione per casi eccezionali, la successione necessaria, vocatio contra
testamentum: è una successione che aveva luogo eccezionalmente, andando contro la volontà del testatore. SI
aveva solo in determinate ipotesi a favore di determinati soggetti, qualora ricorresero determinate situazioni.
Il sistema disciplinato dallo ius honorarium ebbe lo scopo di integrare la disciplina civilistica, mediante
l’istituto del bonorum possessio, possesso para-ereditario dei beni. Il bonorum possessor non era qualificato
eres, tuttavia era sostanzialmente considerato tale, eredis loco. Anche il sistema successorio pretorio
prevedeva due fondamentali tipi di chiamata successoria:
1. bonorum possessio secundum tabulas: è la bonorum possessio concessa dal pretore in presenza delle
tavole testamentarie
2. bonorum possessio sine tabulis: un bonorum possessio concessa dal pretore in assenza delle tavole
testamentarie.
In casi particolari era prevista la bonorum possessio contra tabulas, in contrasto con le tavole testamentarie.
In età tardo-antica questi due sistemi, quello civilistico e quello pretorio, verranno unificati nella sostanza.
Fatte queste premesse, focalizziamo l’attenzione sulla successione testamentaria, e nell’ambito del diritto civile
e nell’ambito del diritto pretorio.

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SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
La vocatio ex testamento era quella successione che si apriva quando il decuius lasciava testamento. Era raro
che un pater familias morisse senza lasciare testamento: con il testamento l’autorità del pater familias aveva
la possibilità di manifestarsi anche post-mortem. La parola “testamento” deriva da “teste”, perché fin dai
primordi per redigere un testamento vi era necessità di testimoni. Il testamento è l’atto unilaterale mortis causa,
mediante il quale un soggetto dispone il suo patrimonio per il periodo successivo alla sua morte. La capacità
di fare testamento spettava ad ogni cittadino romano maschio, sui iuris, di almeno 14 anni ed intellettualmente
capace, cioè non infermo di mente. Alle donne fu riconosciuta la capacità di testare durante il principato.
Vediamo alla struttura del testamento:

• Contenuto essenziale: la disposizione iniziale era l’eredis institutio, la designazione chiara ed


inequivoca della persona chiamata all’eredità. La mancanza dell’eredis institutio comportava la nullità
del testamento. Gaio definisce l’eredis institutio come “Caput et fundamentum totius testamenti”, la
disposizione inziale e il fondamento di tutto il testamento. IL testatore poteva istituire erede un solo
soggetto o più soggetti. Quando c’era un solo erede si parlava di “eres ex asse”, l’erede a cui andava
tutto l’asse ereditario. Potevano essere istituiti più eredes, nel tal caso si parlava di “eredes ex parte”.
L’eredità di norma si ripartiva in parti uguali o nella misura stabilita dal testatore. Erano previste delle
regole particolari nel caso in cui il testatore avesse dei discendenti in potestà e non intendesse istituirli
eredi, perché era prevista l’espressa diseredazione di costoro, un’espressa exeredatio. Per il principio
civilistico i discendenti in potestà o dovevano essere istituiti eredi o venivano diseredati. Si voleva
richiamare l’attenzione del testatore sulla responsabilità che si assumeva non istituendo eredi i suoi
diretti discendenti. La diseredazione doveva essere fatta “bona mente”, per una buona causa.
L’omissione dei figli maschi comportava l’invalidità del testamento. Nel caso in cui fossero omesse
le figlie femmine o la moglie o i discendenti ulteriori, questa omissione comportava un’invalidità
parziale del testamento. Questi soggetti omessi concorrevano all’eredità insieme con gli eredi istituiti
nel testamento.
• Contenuto eventuale: concerne una serie di disposizioni, che potevano essere inserite o meno, come i
legati. Nell’ambito del contenuto eventuale rientravano anche le manomissioni, l’affrancazione dello
schiavo: doveva essere fatto in forma solenne, doveva essere indicato nominativamente lo schiavo, ed
era necessario, affinché la disposizione fosse valida, che lo schiavo fosse in proprietà del testatore sia
al momento della redazione del testamento, sia al momento della morte.
Dobbiamo distinguere testamenti ordinari e testamenti speciali. I testamenti ordinari sono i testamenti che
possono essere fatti solo da cittadini aventi la capacità di testare; i testamenti speciali potevano essere fatti da
determinati soggetti, come i militari, o in situazioni di gravi problematiche generali. La forma più antica di
testamento ordinario è il “testamentum calatis comitiis”, il testamento davanti ai Comizi curiati, sotto la
presidenza del Pontefice massimo, il 24 maro e il 24 maggio. Il testatore dichiarava le sue ultime volontà
davanti al popolo, la comunità riunita in curie. I cittadini fungevano da testimoni. Questa forma cadde in
desuetudine già con l’età repubblicana.
La forma di testamento tipico più importante dello ius civile fu il “testamento librale”, anche detto “Testamento
per hes et libram”; il testamento pretorio era detto “testamento praetorium facta”. Il testamento librale fu un
testamento creato dalla giurisprudenza dopo l’esperienza delle XII tavole ed è un’applicazione a fine successori
di un atto inter vivos, la mancipatio, il più antico negozio del trasferimento della proprietà. Il testatore
trasferiva il suo patrimonio ad una persona di fiducia, il familiae empto, a cui veniva dato l’incarico di trasferire
questo patrimonio alle persone designate in una contestuale dichiarazione, chiamata nuncupatio testatoris. Il
compratore di fiducia doveva comprare il patrimonio per poterlo trasferire alla morte del testatore. Toccava la
bilancia e consegnava il bronzo a titolo di prezzo. Già in età repubblicana invalse l’uso di scrivere le
disposizioni testamentarie su delle tavolette cerate, la cui autenticità doveva essere garantita dalla presenza di
sette testimoni. L’orale nuncupatio testatoris si ridusse ad un mero rinvio al contenuto delle tavolette, e nel
tempo l’impegno del familiae empto si ridusse alla dichiarazione di voler fare da esecutore testamentario,
curatore dell’esatto adempimento delle disposizioni testamentarie. Il testamento pretorio, richiedeva soltanto
l’esibizione delle tavolette testamentarie, munite dei sette sigilli dei sette testimoni, perché in presenza di questi

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requisiti, il pretore concedeva la bonorum possessio secundum tabulas. Questo testamento era irregolare dal
punto di vista civilistico, perché privo della formalità della mancipatio; viene quindi “salvato” dal pretore. In
età tardo-antica si affermano nuovi tipi di testamento, come il 2testamentum tripertitum,” che richiedeva che
fosse redatto e sottoscritto alla presenza dei sette testimoni, una fusione dei due tipi di testamento precedenti.
Si afferma anche il testamento “per nupationem”, un testamento orale che doveva essere fatto alla presenza di
sette testimoni. Infine, il “testamentum principi oblatum” un testamento che risultava dalle ultime volontà del
testatore, verbalizzate presso una cancelleria imperiale, che raccoglieva le dichiarazioni di ultima volontà; il
testamento veniva poi consegnato al princeps e consegnato in un archivio pubblico.
Alla morte del decuius è necessario procedere all’apertura del testamento. Esso era solitamente depositati
presso i sacerdoti di un tempio o presso un amico di fiducia. In sostanza, consisteva nella rottura dei sigilli e
nella lettura delle disposizioni testamentarie. Per il diritto civile, l’acquisto dell’eredità avveniva in alcuni casi
ipso iure, automaticamente, in altri casi mediante aditio, accettazione. L’acquisto ipso iure avveniva in caso
di eredi discendenti in potestà e gli schiavi manomessi e contemporaneamente eredi nel testamento: essi erano
eredi necessari, non era prevista accettazione, ma non potevano rifiutare. L’aditio era necessaria per persone
non soggette alla potestà del pater familias, che per acquistare l’eredità doveva compiere un atto di accettazione
e potevano quindi scegliere se accettare o meno. Esistono due tipi di aditio in particolare: l’erede poteva
accettare attraverso un’accettazione tacita o solenne e formale. Nel primo caso si parlava di “pro erede gestio”,
un comportamento concreto da erede: il soggetto compiva atti di gestione del patrimonio che manifestavano
in concreto la sua volontà di accettare. L’accettazione formale e solenne era detta cretio ereditatis, un atto
solenne di accettazione dell’eredità; si ritiene che fosse rituale la presenza di testimoni.
Per lo ius honorarium dobbiamo ricordare che per l’acquisto della bonorum possessio era sempre necessaria
un’istanza da parte dell’interessato, detto petitio bonorum possessionis. A questa richiesta doveva seguire la
concessione della bonorum possessio da parte del pretore, che avrebbe dovuto procedere alla datio bonorum
possessionis.

SUCCESSIONE INTESTATA

Aveva luogo quando il decuius fosse morte intestato, senza lasciare testameto, Fu detta ache voacation ex lege,
successione in base alla legge; trovò una prima regolamentazione nell XII tavole. Per lo ius civile, erano
chiamati alla successione tre categorie di persone: “Se taluno muore senza aver fatto testamento e non ha un i
eres sui, abbia i suoi beni l’addegnatus proximus; se non vi è l’addegnatus abbiano i suoi beni i gentiles”.
Distinguiamo tre soggetti:
1. eredes sui:i suoi eredi. Coloro sotto la potestà del patres, i figli e la moglie in manus. Questi soggetti
acquistavano ipso iure, senza atto di accettazione
2. Addegantus proximus: il più vicino parente in linea collaterale. Acquistavano l’eredità mediante
accettazione.
3. Gentiles: i membri sui iuris della gens di appartenenza del defunto. Acquistavano l’eredità attraverso
accettazione.
Se non vi erano gentiles, l’eredità era considerata res nullius, un patrimonio senza proprietà, ed era esposto
all’attenzione di chiunque, in primis ai creditori ereditari. Dall’età del principato iniziarono ad essere
incamerate nell’erario.

Per quanto riguarda lo ius honorarium, la bonorum possessio sine tabulis, veniva riconosciuta ad un novero di
persone più ampio. Il pretore interviene per integrare il sistema civilistico e riconosce la bonorum possessio
sine tabulis ad un novero più ampio. Sono previste quattro categorie di persone:
1. liberi: discendenti del decuius, sia che fossero ancora sottoposti alla potestas del decuius, sia che siano
emancipati. Erano esclusi nell’ambito civilistico.

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2. legittimi: gli addegnati proximi, i parenti collaterali in linea maschile. Avrebbero dovuto essere
ricompresi tutti gli eredi che designavano le XII tavole, ma i gentiles cessarono di esistere e i sui eredes
venivano ricompresi nei liberi
3. cognati: i parenti di sangue in linea maschile e linea femminile, non presi in considerazione nel sitema
civilsitico
4. vir et uxor: marito e moglie. Fu resa necessaria dai matrimoni sine manu.
Giustiniano riformerà il sistema successorio intestato, rivelerà quattro categorie di successibili e la chiamata
dei successibili è formata ormai sulla parentela di sangue, come aveva iniziato a fare il diritto pretorio. Si va
verso la valorizzazione del legame di sangue. Giustiniano prevedeva i discendenti, gli ascendenti e i fratelli
germani (dello stesso padre e della stessa madre); i fratelli unilaterali e infine i collaterali. Il coniuge non appare
ma si ritiene che venisse chiamato alla successione in mancanza di collaterali.
Dall’antico sistema civilistico basato sul vincolo agnatizio, dal diritto pretorio alla base del sistema successorio
c’è la cognatio.

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Relazione giuridica assoluta: soggetto attivo determinato e gli omnes come soggetti passivi. Al soggetto attivo
si riconosce una pretesa giuridica erga omnes, verso tutti. È una pretesa a non essere disturbato nell’esercizio
delle proprie facoltà. Gli altri, gli omnes, erano tenuti e sono tenuti ad un comportamento passivo, di merca
tolleranza e sopportazione.
Relazione giuridica relativa: soggetto attivo determinato e soggetto passivo determinato. Il soggetto passivo è
tenuto ad un atteggiamento satisfattorio, che determina il sotisfacimento dell’interesse del soggetto attivo. C’è
un intervento del soggetto passivo, mirato alla soddisfazione dell’interesse del soggetto attiv

e. i diritti reali

Il diritto reale deriva da una relazione giuridica assoluta. Il prototipo del diritto reale è la proprietà. Situazione
di appartenenza non assoluta di una res, identificano diritti reali limitati (iura in re aliena). La proprietà è il
diritto eminente, perché può insistere in modo esclusivo su una res. I diritti reali limitati si innestano su una
proprietà preesistente: questa proprietà può tornare ad espandersi qualora venga meno il diritto reale limitata,
pensiamo all’usufrutto. Le fonti non ci restituiscono una definizione precisa di proprietà. Il termine più antica
per indicarla era “mancipium”; a Roma, in età arcaica, il primo rapporto giuridico assoluto era il mancipium
(manum-capere, prendere mediante la mano). Era un diritto riconosciuto dall’antico” ius quiritium”, tanto è
vero che si parlava di mancipium quiritium. Lo ius quiritium è il nucleo originario del diritto privato romano,
formato dagli antichi mores. Era così chiamato perché comune agli uomini delle curie. Garantì una civile
convivenza tra le famiglie dalla civitas arcaica. Era un rapporto giuridico assoluto unitario: era
onnicomprensivo, perché vedeva come soggetto attivo il pater familias e come oggetto del mancipium vi era
la famiglia intesa in senso ampio (beni e persone). In età repubblicana, questo potere iniziò a differenziarsi in
una pluralità di potestà diverse a seconda dell’oggetto. Da un lato potestà familiari (patria potestas, manus
maritali), dall’altro poteri dominicali sulle res e sugli schiavi, considerati alla stregua di res. Nel III secolo a.C
nascono nuove figure giuridiche e si assiste ad una variazione dei poteri dominicali. Nascono i diritti reali
limitati, che limitano la proprietà altrui (usufrutto e servitù si innestano sulla proprietà altrui). Si nota subito la
differenza tra diritti assoluti e diritti in re aliena. La proprietà si pone come il fenomeno giuridico più intenso.
Tra II e I secolo a.C., la proprietà assume una nuova denominazione: per indicare il proprietario si utilizzò il
termine “domus”, inteso ora come “titolare del diritto di proprietà”. Il potere del domus viene indicato come
“dominium”. Il diritto privato romano ha conosciuto diversi tipi di proprietà:
1. Dominium ex iure quiritium, domínio quiritário: proprietà civilistica
2. In bonis habere, avere nel patrimonio: proprietà pretoria
3. Possessio vel usufructus: proprietà provinciale
In età tardoantica si arriverà ad un concetto unitario di proprietà; questi tre tipi di proprietà si fonderanno sotto
il termine di “dominium”. Il termine si evolverà in “proprietas”, ancora oggi utilizzato.
Dominium ex iure quiritium
È la proprietà civilistica, derivante dall’antichissimo ius civile, il diritto dei quiriti. I soggetti attivi, titolari di
questo diritto erano solo i cives romani. L’oggetto erano tutte le cose commerciabili: mobili ed immobili, che
fossero situati nel suolo italico. Per i suoli provinciali è previsto un altro ordine proprietario. Le facoltà del
proprietario del dominio quiritario sono illimitate: ius utendi, fruendi, abutendi; usare, sfruttare ed abusare
della cosa. Il dominus aveva facoltà che si estendeva sia al soprasuolo che al sottosuolo.
I modi di acquisto della proprietà sono quei fatti a cui l’ordinamento attribuisce l’effetto di determinare
l’acquisto della proprietà. Oggi distinguiamo tra modi di acquisto della proprietà a titolo originario e modi di
acquisto a titolo derivato. I primi consistono in un rapporto diretto ed immediato della cosa, di cui si acquisisce
immediatamente la proprietà. Con i modi di acquisto a titolo derivativo, la proprietà si acquista per traslazione,
mediante il rapporto con un altro soggetto, già proprietario della cosa. I giuristi romani, invece, individuarono

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i singoli modi di acquisto, senza classificarli come facciamo oggi. Tra i modi di acquisto a titolo originario c’è
la così detta occupatio, vi è la apprensione immediata di una cosa non appartenente a nessuno, una res nullius.
Esempio sono gli animali di cui ci si impadronisce con la pesca o con la caccia. Pensiamo anche alle cose
ritrovate sul litorale marino. Tra gli atti traslativi della proprietà ne individuiamo tre:
1. mancipatio: il più antico atto di trasferimento della proprietà. È un atto traslativo del dominio quiritario
sulle così dette res mancipi. Esse sono le cose di maggiore importanza nella società, legate alla
famiglia e ai bisogni essenziali di essa. Gaio ci fornisce un elenco tassativo delle res mancipi; tutte le
res non ricomprese in questo elenco sono considerate res nec mancipi. Gaio individua: i fondi situati
sul suolo italico, le quattro antiche servitù rustiche, gli schiavi e gli animali addomesticabili, da tiro e
da soma. Tutte le altre res sono considerate res nec mancipi, come i fondi provinciali, gli oggetti di
uso personale, gli animali non addomesticabili. La mancipatio era un atto solenne, che si svolgeva alla
presenza di cinque testimoni, di un libripens (pesatore di bronzo), l’alienante e l’acquirente.
L’acquirente (mancipio accipiens) teneva in mano il bronzo e dichiarava solennemente che quella res
che intendeva acquistare era propria. L’alienante (mancipio dans) taceva, assumendo un attegiamento
passivo, l’acquirente toccava la bilancia con il bronzo e consegnava il bronzo all’alienante a simbolo
del prezzo. Erano molteplice le funzioni della mancipatio, sia per la vendita che per la donazione, in
cui l’acquirente consegnava una monetina simbolica. Questo istituto sopravvive nel principato, ma
scompare in età tardoantica.
2. in iure cessio: è letteralmente la cessione davanti al magistrato, in iure. È un atto traslativo della
proprietà valevole sia per le res mancipi, sia per le res nec mancipi. L’alienante e l’acquirente si
recavano dinanzi al magistrato, l’acquirente rivendicava simulatamente come propria la res che
intendeva acquistare, l’alienante taceva e il pretore riteneva accertata solennemente l’appartenenza
della cosa all’acquirente. Procedeva quindi ad effettuare l’addictio, l’assegnazione della res.
Sopravviverà nel principato, ma anch’esso scompare in età tardo-antica.
3. traditio: la traditio è un atto traslativo della proprietà valevole sulle res nec mancipi. Consisteva
semplicemente nella consegna materiale della cosa da tradente (colui che trasferiva) all’accipiente
(colui che riceve). Era necessario che il primo volesse trasferire e il secondo volesse ricevere. Serviva
la sussistenza di una circostanza oggettiva che giustificasse secondo l’ordinamento il trasferimento
della proprietà sulla cosa. Tra le giuste cause vi era la causa solvendi, per estinguere un’obbligazione.
Sopravvive nel principato, in età tardo-antica e giustinianea, diventando il modo comune di
trasferimento della proprietà, ora per tutte le res.

Lo strumento processuale a tutela del dominium è denominato “rei vindicatio”, azione di rivendica. È un’azione
che può essere esercitata erga omnes. I mezzi processuali a difesa della proprietà furono sostanzialmente volti
a salvaguardare la proprietà da impossessamento da parte di terzi o da tutelare il soggetto anche da
dichiarazioni di un terzo che affermava di essere il vero dominus. È l’azione con la quale il proprietario agiva
contro colui che si fosse impossessato della sua res; il proprietario chiede, con quest’azione, di riottenerne il
possesso o il controvalore in denaro. Questa azione esigeva che il convenuto fosse invitato dal giudice a
restituire la cosa, accertato il dominio in capo all’attore; se non l’avesse restituita il convenuto era condannato
al pagamento di una somma di denaro pari al valore della res.
Tra gli altri mezzi processuali, ricordiamo anche la “actio negatoria”, un’azione che poteva essere esercitata
dal proprietario contro colui che affermasse illecitamente la titolarità di un diritto reale limitato sulla res. Si
chiama actio negatoria, perché il dominus voleva negare l’esistenza di un diritto reale limitato sulla propria
res.
Ricordiamo, infine, la così detto “exceptio iustii dominii”, eccezioni di giusto domini. È un’eccezione che il
proprietario poteva opporre a colui che affermasse di essere il vero proprietario. Il dominus si limitava a negare
la pretesa dell’attore che rivendicava la proprietà sulla res.

In bonis habere
Viene anche definito dominio bonitario. Questa espressione indica il fatto che un soggetto ha una certa cosa
nel suo patrimonio in modo analogo a quello di un bene oggetto del suo dominio. Durava per un anno per i
beni mobili, due anni per gli immobili; era il periodo richiesto per l’usucapione. Questo termine è stabilito

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dalle XII tavole ed è il tempo richiesto per l’acquisto del dominio civilistico sulla res, in conseguenza di un
possesso protetto nel tempo. L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà quale conseguenza del
possesso protratto nel tempo di un bene, mobile o immobile. L’usucapione ha il compito di trasformare l’in
bonis habere, proprietà pretoria, in proprietà civilistica. Questo istituto nasce per iniziativa dei pretori, che
intendevano tutelare i possessori in attesa che si compisse l’usucapione. L’in bonis habere ha carattere
provvisorio e sostitutivo. Vale provvisoriamente fino all’acquisto del dominio civilistico, ed è sostitutivo
perché in questo periodo di attesa si riconosce al soggetto una tutela analoga al soggetto domino civilistico.
L’ipotesi tipica è costituita da un’alienazione di una res solo mediante la traditio; era un trasferimento invalido,
il soggetto acquistava solo possesso e non proprietà.
Gli strumenti previsti a tutela dell’in bonis habens sono:
• exceptio rei vendite et tradite: eccezione di cosa venduta e trasferita. Questa eccezione era concessa
all’acquirente contro il dominus che esercitasse la proprietà serviva a paralizzare l’azione del dominus.
Ciò accadeva quando il giudice convenisse che la res fosse stata consegnata all’acquirente, era stata
venduta e trasferita, ma mancavano requisiti formali.
• Actio Pubbliciana: dal nome del pretore Publicio, che la introdusse nel I secolo a.C. Era un’azione
concessa all’acquirente contro il possessore. Era concessa nell’ipotesi in cui l’acquirente avesse
ricevuto la cosa, ma ne fosse stato spossessato da un terzo o dall’alienante stesse. È un’azione identica
alla “rei vindicatio”, ma in più c’è un invito rivolto al giudice a fingere che fosse già decorso il termine
dell’usucapione. È infatti un’actio ficticia, basata su una fictio.
Notiamo che esistono due distinti piani normativi, uno civilistico, uno pretorio. Questa duplicità spiega
l’esistenza di due diversi tipi di proprietà. Gaio parla di “duplex dominium”. Sia la proprietà civilistica, sia la
proprietà pretoria sono riservate ai cives romani e possono avere ad oggetto i fondi italici.

Possessio vel usufructus


Gaio usa questa endiadi per far riferimento alla proprietà provinciale. Nelle provincie la tessa era considerata
di proprietà pubblica. Nelle provincie, la terra era solo concessa in sfruttamento ai privati, tenuti a pagare un
canone annuale, lo stipendium nelle province senatorie, tributum nelle provincie imperiali. Anche per questo i
fondi senatori erano chiamati previa stipendiaria e i fondi delle provincie imperiali erano chiamati previa
tributaria. Nelle provincie lo sfruttamento dei fondi, dunque, non poteva identificare una vera proprietà; era un
diritto che derivava dall’autorità romana. In merito alla possibilità di sfruttare i fondi provinciale Gaio parla di
“possessio vel usufructus”, espressione che ci fa cogliere che è una situazione giuridica intermedia tra possesso
(materiale disponibilità del fondo) e usufrutto ( un diritto reale limitato). L’oggetto sono i fondi provinciali,
che non possono essere oggetto di dominio civilistico o pretorio.
Agli inizi del principato, i governatori provinciali, nel loro editto, previdero la concessione di due strumenti di
tutela:
actio ad exemplum rei vindicationis: è un’azione imitativa della rei vindicatio. Era esercitata dal titolare della
possessio vel usufructus contro chiunque pregiudicasse l’esercizio del suo diritto. Era un’actio utilis, estesa in
via utile
longi temporis praescrpitio: era un’exceptio eccezione che poteva essere opposta contro eventuali
rivendicazini, contro chi avesse esercitato la rei vindicatio utilis.

Nella tardo-antichità, i fondi italici cominciarono ad essere assoggettati a tassazione; quindi, cade la ragione
della distinzione tra fondi italici e fondi provinciali. Si delinea un tipo unitario di dominium, dovuto alla fusione
di questi tre moduli. Sul dominio civilistico si innestano le due regole dell’in bonis habere del possessio vel
usufructus; permane solo la traditio.

La possessio
I Romani tutelarono anche un’altra signoria sui beni, la possessio. È una signoria di fatto che si manifesta con
un comportamento da proprietario. Consiste nella disponibilità materiale ed effettiva di un bene. I giuristi
individuarono due elementi essenziali affinché si potesse configurare il possesso:
1. Corpus: il corpus possessionis. Era necessaria la materiale disponibilità della res.

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2. Animus: animus possidendi. La volontà di tenere quella res come proprie, voler essere proprietario a
titolo assoluto, cioè possedere intenzionalmente.
Perché si avesse possesso era necessario l’elemento oggettivo materiale e l’elemento soggettivo psicologico. I
giuristi divisero possessio naturalis da possessio civilis. La possessio naturalis, detta anche possessio
corporalis era la mera detenzione sulla res. Vi era solo il corpus, non vi era l’animus possidendi, si riconosceva
la proprietà altrui. La possessio civilis, anche detta ad usucapionem, il possesso idoneo a far acquistare la
proprietà. Trasforma la situazione possessoria in vera e propria proprietà, ma c’era bisogno che:
• la res doveva essere oggetto di dominio
• doveva esservi una ragione che giustificava il passaggio del possesso in proprietà
• vi fossero entrambi gli aspetti, corpus e animus
• vi fosse il decorso del tempo, 2 anni per i beni immobili, 1 anno per i beni mobili
• la buonafede
Era tutelato con i così detti interdicta, interventi pretori qualificabili come provvedimenti di urgenza, concessi
in attesa di un accertamento ero e proprio. Erano emanati dal magistrato su richiesta della parte, per tutelare il
possesso o per recuperarne uno perduto. Si parla di tutela interdettale. Ricordiamo due interdetti:
interdicta retinendi possessionis: interdetti per conservare il possesso. Si distingue l’interdicutm uti possidetis
per le cose immobili e interdictum utubi per le cose mobili.
Interdicta repcuperandi possisionis: interdetti per recuperare possessi, come l’interdictum unde vi.

Diritti in re aliena • Diritti reali di godimento: servitù, usufrutto, superficie, enfiteusi


• Diritti reali di garanzia: pegno ed ipoteca
Quelli che chiamiamo diritti reali di cosa altrui, identificano un fascio di diritti già previsti dall’ordinamento
giuridico romano. Gli iura in re aliena, hanno conservato alcuni caratteri essenziali inalterati, ma sotto alcuni
profili sono distanti dalla configurazione originaria romana, per due motivi:
1. I diritti non furono unificati all’interno di una categoria astratta, non furono inquadrate all’interno di
una classificazione unitaria “iura in re aliena”. Si individuano le singole fattispecie.
2. I diritti reali di godimento nascono in momenti diversi nel corso della storia di Roma e si caratterizzano
per strutture originarie eterogenee. Sono nel tempo acquisiranno una tutela esperibile erga omnes.
Mentre servitù ed usufrutto nascono come rapporti assoluti, altre figure si configurano, solo in un
primo momento, come rapporti relativi.
SERVITÙ PREVIALI
Sono dette “iura previorum”, perché in origine riguardavano i previa, i fondi. La servitù indica la situazione
di subordinazione nella quale si trova a creare un fondo, detto fondo servente, rispetto ad un fondo vicino,
detto fondo dominante, laddove il fondo servente fosse assicurato a fornire un vantaggio oggettivo al fondo
dominante. Le prime servitù si riversarono all’interno del mancipium. Le prime quattro servitù sono dette
servitutes mancipi. Le servitù previali sono state configurate come rapporto assoluto fin dall’origine, fino alla
fine, senza tramutarsi in rapporto relativo, per due motivi: in primo luogo il tradizionalismo romano, per cui
c’è difficoltà a staccarsi dalla configurazione originaria, che era appunto quella di un diritto assoluto, in
secondo luogo, soprattutto, il vantaggio notevole che veniva offerto al proprietario del fondo dominante, dalla
tutela erga omnes, la possibilità di agire con un’actio in rem. Distinguiamo:
 servitutes mancipi:
1. Servitus itineris. La servitù di passaggio che comportava il diritto di passare, a piedi o cavallo,
attraverso il fonde servente altrui.
2. Servitus actus: la servitù di condurre, anch’essa servitù di passaggio. Comportava il diritto di condurre,
animali, gregge, o veicoli, attraverso un fondo altrui

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3. Servitus vie: servitù di strada, anch’essa di passaggio. Comportava il diritto di passare attraverso un
sentiero più ampio su fondo servente, per trasportare carichi più ampi. È sempre una servitù di
passaggio, ma attraverso una strada ampia.
4. Servitus acqueductus: servitù d’acquedotto. Comportava il diritto di far passare acqua attraverso il
fondo servente altrui.
 servitutes nec manicipi
1. Servitus honeris ferendi: comportava il diritto di appoggiare la parete di un proprio edificio alla
parete di un altro edificio vicino.
In base alla funzione economica si distinsero le servitù in servitù rustiche, di campagna, nel senso che
soddisfacevano esigenza dell’agricoltura, e le servitù urbane, che soddisfacevano esigenze dei centri urbani,
dell’edilizia
Modo di costituzione delle servitù: per la costituzione delle servitù era necessario che venisse compiuto uno
degli atti richiesti dallo ius civile: per le servitutes mancipi la mancipatio, per le servitutes nec manicipi era
sufficiente la in iure cessio.
I giuristi individuarono dei principi comuni a tutte le servitù:
1. La servitù non poteva comportare una prestazione di fare, un facere: il proprietario del fondo servente
non poteva essere obbligato a compiere un’attività positiva in favore del proprietario del fondo
dominante, perché il diritto di servitù impone al proprietario del fondo servente un atteggiamento
passivo, di sopportazione.
2. Nessuno può essere titolare di una servitù su una propria res
3. Utilitas: era necessaria l’utilità oggettiva. Il fondo servente doveva essere destinato ad assicurare una
utilità concreta ed oggettiva al fondo dominante
4. Vicinanza dei fondi: la servitù si costituiva tra fondi contigui, in base alla conformazione di essi.
La tutela prevista è principalmente la “vidicatio servitutis”, un’azione modellata sullo schema della “rei
vindicatio”. È l’azione che spettava al proprietario del fondo dominante contro il proprietario del fondo
servente, o di chiunque altro impedisse l’esercizio del diritto di servitù. Era altresì prevista l’”actio negatoria”,
l’azione spettante al proprietario del fondo servente, per negare l’esistenza del diritto di servitù. Era un’azione
svolta ad accertare che il fondo asserito servente, in realtà era libero da servitù.
USUFRUCTUS
È un diritto reale di godimento di cosa altrui, in virtù del quale un soggetto, usufruttuario, poteva godere di
una res altrui, percepirne i frutti, con l’obbligo di restituire la res alla scadenza del rapporto. Il proprietario
della res è il nudo proprietario, nudus dominus. L’oggetto potevano essere cose mobili, cose immobili, in
generale una res inconsumabile e fruttifera. Paulo lo definì come “il diritto di usura e fruire (ius utendi et
fruendi) facendone salva la sostanza”. È stato definito, fin dall’inizio, come un rapporto assoluto, per cui,
all’usufruttario si attribuì un potere e una tutela giuridica simile a quelli riconosciuti al proprietario della
servitù. L’essenza stessa di questo diritto sta proprio nello “ius utendi e ius fruendi”, il diritto di fare pieno uso
della osa altrui e la possibilità di percepirne i frutti. Ci sono due caratteristiche che connotano questo istituto,
la temporaneità e la correlazione con la destinazione economica. Per temporaneità intendiamo il fatto che
l’usufrutto si un diritto limitato nel tempo, che, seppure non avesse un termine preciso, si estinguerebbe con la
morte dell’usufruttario. L’usufruttario può usare i beni, può percepirne i frutti, ma non può mutare la
destinazione socioeconomica del bene, non può compiere atti di disposizione del bene, che deve essere
restituito nelle condizioni in cui è stato ricevuto (correlazione con la destinazione economica).
Modalità di costituzione: si costituiva tramite la “in iure cessio”, poiché era una res nec mancipi. Molto spesso
si costituiva con il legato, la condizione mortis causa a titolo particolare.
La tutela era la coì detta “vindicatio usus fructus”, analoga alla vindicatio servitutis, dunque modellata sullo
schema della rei vindicatio. È un’azione reale, c’è una tutela erga omnes, spettante all’usufruttario, volta alla
difesa del proprio diritto di usufrutto, esercitabile non solo nei confronti del nudo proprietario, ma nei confronti
di chiunque altro intralciasse e ponesse ostacoli al godimento del diritto. Era altresì prevista l’“actio
negatoria”, spettante al nudo proprietario, qualora volesse contestare l’esistenza del diritto di usufrutto.

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SUPERFICIE
È un diritto reale di godimento su cosa altrui, in forza del quale un soggetto, detto superficiario, poteva costruire
e mantenere un edificio su un suolo altrui, con l’obbligo di pagare al proprietario del suolo un canone periodico,
il solarium. Alla configurazione di questo istituto come rapporto assoluto si arrivò tardi, in età tardo-antica, a
seguito di un processo tortuoso e contraddittorio. Il rapporto nasce come rapporto tra superficiario e dominus
soli, proprietario del suolo. Derivava da una locazione del suolo al superficiario. È un processo lento e difficile,
perché vigeva il principio per cui il soprasuolo accede al suolo: il proprietario del suolo era proprietario anche
di quello che si costruisce sul suolo. A correzione di questo principio, invalse l’uso di operare delle concessioni
temporanee di suoli pubblici a privati, dietro un canone da versarsi all’erario. Si concedeva ai privati la
possibilità di costituire una bottega, un magazzino, su suolo pubblico. Quest’uso, in età del principato, fu esteso
anche ai rapporti tra privati.
Modo di costituzione: si costituiva attraverso un contratto di superficie, che conteneva proprio la concessione
del diritto di superficie, che spesso era in perpetuo. Era un contratto che ricalcava gli schemi della vendita. In
un primo momento, il pretore concesse l’“interdictum de loco publico fruendo”, una tutela d’urgenza
dell’esercizio del diritto del superficiario. Quando fu esteso anche ai privati, il pretore concesso l’“interdictum
de superficierus”, che concedeva al superficiario di un suolo privato di respingere qualsivoglia attacco operato
da terzi e che impedisse il godimento del prorpio diritto. Dalla tutela interdittale, in età tardo-imperale si passò
all’”actio superficiaria”, un’azione reale esperibile erga omnes, che consentiva al superficiario l’accertamento
del proprio diritto di superficie. È un’azione specifica, che in qualche modo riflette la concezione, cui addiviene
questo nuovo istituto, che si atteggia ormai a diritto assoluto.
ENFITEUSI
L’enfiteusi è un diritto reale di godimento su cosa altrui, in forza del quale un soggetto, detto enfiteuta, poteva
godere e disporre di un fondo rustico di proprietà di altri, per molti anni o in perpetuo, con l’obbligo di pagare
un canone periodico, detto canon. È un istituto tardo, che ha grande diffusione nel tardo antico e nel medioevo.
Presenta affinità con l’istituto repubblicano “ius in agro vectigali”, diritto su terreno vettigalista. Il nome deriva
dal greco phyteosis, coltivazione. La denominazione indica chiaramente la matrice ellenistica di questo istituto,
che inizialmente si configurò come concessione di terreni pubblici, solitamente incolti. In età tardo antica,
questo istituto fu esteso ai privati. La funzione partica è collegata all’esigenza del proprietario che non erano
in grado di sfruttare e coltivare i propri fondi e intendevano affidarli ad altri, perché li coltivassero e mettessero
a cultura. Una caratteristica è la lunga durata di questo istituto. Aveva uno scopo miglioratizio, l’enfiteuta
doveva apportare delle migliorie al fondo, che con il tempo diventerà un carattere essenziale di questo istituto.
Modalità di costituzione: si costituiva mediante un contratto, il contratto di enfiteusi, tra il proprietario e
l’enfiteuta. Questo contratto presentava i caratteri sia della locazione che della vendita. L’Imperatore Zenone,
nel V secolo d.C., parlò di “mistofrasia”, una locazione mista a vendita. Dietro il pagamento del canone veniva
consentita la possibilità di godimento e utilizzo di un fondo rustico altrui.
Come tutela era prevista una “rei vindicatio utilis”, cioè un’azione reale, estesa in via utile all’enfiteuta ed
esercitabile erga omnes, chiunque ostacolasse l’esercizio del diritto. È un percorso che porta da rapporti relativi
e che porta ad una tutela erga omnes, propria dei diritti assoluti.
PEGNO E IPOTECA
Sono diritti reali di garanzia, rapporti in cui il soggetto attivo è il creditore. Sono rapporti volti ad offrire al
creditore una garanzia reale dei propri crediti. Era una garanzia che si risolveva nel diritto di soddisfarsi
direttamente sui beni del debitore, in caso di inadempimento. In età repubblicana, e in parte in età imperiale,
questo scopo di garanzia era attuato attraverso un particolare istituto la “fiducia cum creditore”, detta anche
proprietà fiduciaria. Esso è il precedente storico del pegno; la fiducia obbligava il debitore a trasferire il
dominio civilistico, la proprietà, di una sua res, con un “pactum fiduciae”, un accordo fiduciario, in base al
quale in caso di adempimento la proprietà della res sarebbe stata restituita dal creditore al debitore, in caso
opposto sarebbe rimasta per sempre del debitore. La proprietà viene trasferita a scopo di garanzia. Il debitore,
però, rimaneva in possesso del bene, pur trasferendo il possesso: se il debitore avesse adempiuto, però, molto
spesso accadeva che il creditore non tenesse fede al patto fiduciario. Il debitore poteva riacquistarne la proprietà
attraverso l’“usu receptio”, l’acquisto mediante l’uso. È un’usucapione anomala, per cui il debitore acquistava
il possesso della res non ritrasferitagli, solo dopo un anno (sia per beni mobili che immobili). Il pretore concesse

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poi l “actio fiducae”, un’azione specifica concessa al debitore per riavere la res nel rispetto di quanto stabilito
nel pactum. Questa prima forma di garanzia, quindi, presentava delle criticità; quindi, lo ius honorarium creò
un nuovo diritto di garanzia, il pignus, la cosa vincolata a garanzia. Il pegno, in età imperiale, assunse una
prevalenza schiacciante rispetto alla fiducia cum creditore; in età tardo-antica, la fiducia fu abolita da
Giustiniano.
Il pegno si distingue in:
1. pegno dato: in latino pignus datum. Si costituisce in base ad una datio pignuris, una consegna della
cosa oppignorata, cioè data a garanzia. Il debitore trasferiva il possesso della res al creditore. Gli
effetti sono che la cosa oppignorata doveva essere restituita in caso di adempimento, veniva
alienata se non veniva adempiuto ( in questo modo il creditore poteva soddisfarsi con la vendita).
2. pegno promesso: in latino pignus conventum, l’ipoteca. Era costituita sulla base di una conventio
pignoris: è un patto di oppignorazione tra il debitore e il creditore. In forza di questo patto, il
debitore si impegnava e si obbligava a tenere a disposizione del creditore una res. Il creditore ne
avrebbe ottenuto il possesso solo in caso di inadempimento, così da poterla alieneare.
In caso di inadempimento, il creditore pignoratizio aveva due poteri: lo ius possidendi e lo ius vendendi.
Poteva possedere il bene vincolato a garanzia; nel pegno aveva il diritto di mantenere il possesso del bene fino
all’adempimento, nell’ipoteca lo ius possidendi entrava in vigore in caso di inadempimento. Aveva ius
vendendi , perché poteva alienare, vendere a terze persone la res vincolata a garanzia per potersi soddisfare sul
ricavato della vendita, restituendo l’eventuale superfluo al debitore. La tutela è costituita dalla “vindicatio
pignoris” o “actio pignoraticia”; era un’azione reale, una tutela erga omnes, riconosciuta al creditore
pignoratizio nei confronti di chiunque si fosse impossessato del bene vincolato a garanzia. Anche nel caso del
pegno, si addiviene ad una tutela erga omnes.

Già nell’ambito dei diritti reali, si nota l’evoluzione della società. Con il tempo si è determinato un
ampliamento dei diritti posseduti rispetto al diritto di proprietà. Furono lentamente previste e tutelate altre
forme di signoria sulle cose; da un lato la possessio, dall’altro gli iura in re aliena.

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F. le obbligazioni

Le obbligazioni sono dei diritti relativi, che possono essere fatti valere erga omnes. I diritti di obbligazione
necessitano di una cooperazione, la cooperazione del soggetto passivo. La realizzazione del diritto del soggetto
attivo necessita di un intervento da parte del soggetto passivo. È un rapporto di debito-credito, tra due o più
soggetti determinati, creditore e debitore. L’oggetto del rapporto obbligatorio è la prestazione, alla quale è
tenuto il debitore nei confronti del creditore. In materia di obbligazioni, a Roma, si è avuto un percorso storico
invertito rispetto alla sequenza con cui noi oggi trattiamo di questa matria. Oggi si parte dal concetto generale
di obbligazione, poi si esamina la nozione contrattuale, infine i singoli fatti specie contrattuali. Dalla singola
fattispecie contrattuale, si arriva alla fine e con fatica all’emergere di una categoria generale di contratto, alla
fine gli elementi essenziali dell’obbligatio.
Per obbligazione oggi intendiamo un vincolo giuridico patrimoniale. A Roma la configurazione originaria
dell’obbligatio, non era quella di un vincolo giuridico, ma nell’età più antica aveva un altro significato. Come
possiamo desumere dall’etimologia della parola obbligato (ob-ligatus, legato a causa di), in origine il termine
obbligatio indicava un debito fisico-materiale: il debitore era fisicamente sottoposto alla potestà del creditore.
Il nexus, l’assoggettato, entrava nella sfera potestativa del creditore, e poteva liberarsi o pagando il debito o
mediante il riscatto da parte di un terzo o svolgendo attività lavorative al servizio del creditore. Si poteva
arrivare alla vendita come schiavo trans-Thiberim, al di là del Tevere. Solo tra il II e I secolo a.C., grazie in
particolare alla riflessione del giurista Quinto Mucio Scevola, si arriva all’idea di un vincolo ideale. La
coscienza sociale era da tempo contro l’assoggettamento personale, ma fu graduale il passaggio all’emersione
di un concetto di obbligatio come vincolo giuridico.
Le definizioni delle fonti:
1. Gaio, Institutiones: ci fornisce una classificazione, divenuta celebre. “Ogni obbligazione nasce o da
contratto o da delitto” (Omnis obbligatio vel ex contractu nascitur vel ex delicto)
2. Paulo, Digesto: “L’essenza delle obbligazioni sta in ciò che non ci rende immediatamente titolari di
un diritto di proprietà di servitù, bensì obbliga un altro a dare, a fare, a prestare qualcosa a nostro
vantaggio”
3. Giustiniano, Institutiones: “L’obbligazione è un vincolo giuridico (iuris vinculum), in forza del quale
siamo obbligati a compiere una prestazione”.
Classificazione
Le obbligationes ex contractu sono le obbligazioni nascenti da contratto, fatto lecito, dette obbligationes
contracte. All’interno delle obbligazioni contracte, distingueremo quattro tipi di obbligazioni: verbali,
letterali, reali, consensuali
Le obbligationes ex delicto, dette anche obbligazioni di responsabilità, nascono da un fatto illecito. Derivano
da furto, rapina, lesioni personali, danneggiamento:

Gaio dice: “Occupiamoci delle obbligazioni che nascono da


OBBLIGATIONES EX CONTRACTU
contratto. Esse si dividono in quattro generi a seconda che
l’obbligazione sorga per la consegna di una cosa o per lo
scambio di parole, o da scritti o dal consenso (re contraiur obbligatio aut verbis, aut litteris, aut consensu)”
Le obbligazioni verbali sono le così dette obbligationes verbis contracte; nascono dalla pronuncia di
determinate parole da parte dei soggetti del rapporto obbligatorio. Un esempio è la stipulatio, formula orale

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mediante la quale il futuro debitore, interrogato dal futuro creditore, risponde, impegnandosi a dare o a fare
una certa cosa.
Le obbligazioni letterali, obbligationis litteris contracte, sono obbligazioni che derivano da un particolare
scritto. Un esempio è l’expensilatio, detta anche nomen transcripticium, la trascrizione del nome del debitore
e della somma da lui dovuta, nel libro contabile (codex accaepti et expensi) del debitore.
Le obbligazioni reali, obbligationes re contracte, nascono da una datio rei, la consegna di una cosa, con la
consegna la cosa venisse restituita dal debitore al creditore, nei modi e nei tempi stabiliti. È un’obbligatio, ad
esempio, il mutuum, mutuo: consiste nel trasferimento gratuito della proprietà o di una somma di danaro dal
mutuante al mutuatario, con l’obbligo di quest’ultimo di restituire il tantundem (altrettante cose dello stesso
genere).
Le obbligazioni consensuali, obbligationes consensu contracte, sono le obbligazioni che nascono dal mero
consenso, dall’accordo delle parti in qualsivoglia forma manifestato. In realtà sono le obbligationes ex
contractu per eccellenza per le loro caratteristiche e specificità. I contratti consensuali in realtà sono quattro
contratti di ius gentium, cioè nascono nel tribunale del pretore peregrino. Inizialmente vedevano coinvolti
romani e stranieri, nei loro rapporti commerciali. Ciò nonostante, sono contratti che già dal II secolo a.C. sono
adottati anche tra cives romani. Lo sviluppo di Roma nel mediterraneo comportò un aumento della qualità e
della quantità dei rapporti commerciali e delle relazioni economiche: ciò impose necessariamente un
ampliamento del ventaglio degli strumenti giuridici. Le attività commerciali erano sempre più variegate ed
eterogenee, quindi necessariamente era necessario ampliare gli strumenti giuridici. I quattro nova negotia che
sebbene si affermarono da tempo nella prassi, rimasero per lungo tempo senza tutela, finché non intervenne il
pretore peregrino, che li ritenne meritevoli di tutela. Il pretore riconobbe sette nuove azioni processuali, a tutela
dei contraenti di questi nuovi contratti. Erano due azioni a tutela dei contraenti della compravendita, due per i
contraenti della locazione, due per i contraenti del mandato, una per i contraenti della società. La
giurisprudenza cominciò un’opera di studio su queste nuove figure contrattuali e diede un contributo enorme
ai magistrati e ai pretori nell’elaborazione e nell’affinamento delle previsioni contenute nell’editto pretorio.
Le quattro obbligazioni consensuali sono:
1. Compravendita (emptio venditio): è un contratto consensuale, che nasce indipendentemente dalla
forma in base al consenso. La compravendita è il contratto tra venditore, venditor, e compratore
emptor, in forza del quale sorgono diverse obbligazioni. In primo luogo, nasce l’obbligo del venditore
di assicurare il possesso della cosa al compratore. Il venditore deve procurare al compratore la piena
e pacifica disponibilità della cosa (vacua possessio, possesso libero e pacifico), attraverso la consegna
della res. Non è la proprietà, ma l’obbligo del venditore è quello di trasferire il possesso della res.
L’obbligo del debitore era quello di trasferire una somma di danaro, a titolo di prezzo. È un contratto
ad effetti meramente obbligatori. Da esso sorgono solo l’obbligazione a carico del venditore e
l’obbligazione del debitore. Questo contratto, insomma, genera solo obbligazioni. Il trasferimento
della proprietà non viene preso in considerazione. Il trasferimento della proprietà deriva solo dagli atti
traslativi del dominium previsti dallo ius civile (iure cessio, mancipatio, traditio). La proprietà della
res passava dal venditore al compratore solo quando veniva posto in essere l’atto traslativo o quando
maturava l’usucapione. La consegna materiale della res, obbligo del venditore, rendeva il debitore
possessore, e questo possesso era un possessio ad usucapionem. La compravendita era una giusta
causa usucapionis. Il problema non si pone per le res nec mancipi, per le quali trasferire il possesso
significava consegnare anche il dominium, ma per le res mancipi. I giuristi tennero sempre ben distinti
il contratto e l’atto traslativo del dominium. Gli elementi essenziali sono, in primo luogo il consenso,
poi la merx, cioè la cosa venduta suscettibile di valutazione economica, e il pretium, una somma di
denaro contante certa o determinabile secondo criteri oggettivi (pecunia numerata).
Abbiamo due azioni a tutela dei contraenti, l’actio venditi e l’actio empti. La prima è a favore del
debitore, contr il compratore, per ottenere il pagamento del prezzo. L’actio empti era a favore
dell’emptor, il compratore e poteva essere esercitata contro il venditore per ottenere l’oggetto del
contratto venduto. Sono actiones bonae fidei, azioni di buona fede che attribuivano al giudice un
grande potere discrezionale nella valutazione, per cui il giudice poteva esaminare in maniera

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approfondita la fattispecie, accertare il comportamento delle parti e poteva, ispirandosi all’equitas,


condannare il convenuto, la parte inadempiente, a tutto ciò che egli avrebbe dovuto fare o dare secondo
la buona fede.
L’obbligo del compratore era quello di pagare un prezzo, una somma di danaro; l’obbligo del venditore
era trasferire il possesso della res, ma aveva la responsabilità per vizi occulti della merce venduta. Il
venditore era responsabile per i danni derivanti al compratore per il fatto che la cosa venduta fosse
stata affetta da vizi o difetti occulti. Gli edili curuli, che si occupavano della cura annonae, il controllo
nei mercati cittadini, stabilirono che vi fosse un obbligo per i venditori di dichiarare i difetti della cosa,
soprattutto se occulti. Gli edili accordano due specifiche azioni a tutela del compratore, l’azione
redibitoria e l’azione estimatoria. L’azione redibitoria è l’azione di restituzione, esercitabile dal
compratore, contro il venditore, entro due mesi dalla scoperta del vizio occulto, per ottenere la
restituzione integrale del prezzo. L’azione estimatoria è un’azione di riduzione del prezzo, che poteva
essere esercitata dal compratore verso il debitore, entro sei mesi dalla scoperta del vizio occulto.
2. Locazione (locatio condutio): è un contratto consensuale, nasce dal consenso delle parti, a prescindere
dalla forma. È un contratto tra locator, locatore e conductor, conduttore, in forza del quale nascono
diverse obbligazioni. La prima obbligazione è quella del locatore di mantenere per un certo periodo di
tempo, a disposizione del conduttore un determinato bene. C’è poi l’obbligo del conduttore di restituire
l’oggetto dopo averlo utilizzato nei modi e per il tempo stabilito in contratto, nonché l’obbligo per il
conduttore di corrispondere al locatore una certa somma di danaro a titolo di corrispettivo, pensio o
merces. La giurisprudenza romana ha ricondotto alla locatio conductio tre figure contrattuali diverse,
cioè tre tipi di locazione. Esiste la locatio rei, la locatio operis e la locatio operarum. L’elemento
comune è il locare, il beneficio che il conduttore trae dall’avere a sua disposizione e quindi utilizzare
o una res, o un’opera altrui o anche attività lavorative altrui, dietro il pagamento di una somma di
denaro. Nel caso della locatio rei la somma di denaro è un fitto, nel secondo è un prezzo, nel terzo
caso è un salario.
La locatio rei si ha quando le parti si accordano affinché l’una conceda l’uso di un bene e l’altra paghi
il canone, il più delle volte è una forma di danaro. Era a termine e la scadenza era stabilita nel contratto.
Obbligo del locatore era procurare la detenzione della cosa locata, per tutto il tempo stabilito nel
contratto. Sono obblighi del conduttore (o locatario) restituire la cosa e pagare il canone. Come
strumento di tutela avevano l’actio locati, a favore del locatore, che poteva essere utilizzata per
ricevere il canone o la restituzione della cosa, l’actio conducti era a favore del conduttore, veniva
esercitata contro il locatore per mantenere la detenzione della res. Sono azioni di buona fede, che
comportano un ampio margine di valutazione discrezionale.
La locatio operis: si ha quando il locatore dà al conduttore una res, perché costui vi eserciti la sua arte.
Un’altra ipotesi di locatio operis si ha quando il locatore commissiona la realizzazione di un’opera. Il
locatore, se si rivolge ad un artifex, deve consegnare la cosa e pagare il prezzo per l’opera; nel secondo
caso può non consegnare la cosa, ma sempre pagare il prezzo. Il conduttore, che fosse artefice o
imprenditore, doveva eseguire il lavoro ad opera d’arte, doveva consegnare l’opera compiuta realizzata
secondo gli accordi. La tutela, anche in questo caso, sono l’actio locati e l’actio conducti.
Locatio operarum: si ha quando un soggetto paga un altro lavoratore, il quale loca le proprie energie
lavorative, dietro il pagamento di un salario. È l’antesignano del contratto di lavoro subordinato. Il
datore di lavoro, conduttore, paga il locatore, colui che presta lavoro. La tutela è la solita: con l’actio
locati il lavoratore può richiedere il salario al conduttore; l’actio conducti è a favore del conduttore, il
datore di lavoro, che agisce per ottenere la prestazione lavorativa.
3. Società (societas): è un contratto consensuale, bilaterale o anche plurilaterale, in forza del quale, due
o più persone si obbligavano a conferire determinati beni o ad effettuare determinate attività, per
raggiungere una finalità patrimoniale di interesse comune e per dividere guadagni e spese. La societas
era un contractus tra due o più socii, in forza del quale ciascuno era obbligato a conferire, cioè mettere
in comune, una certa quantità di beni o anche di servizi, per poi dividere utili e perdite. Lo schema
soicietario, a Roma, ha avuto un’ampia diffusione, per cui non è facile un’ulteriore specificazione nella
definizione generale. Il contratto è consensuale perché nasce dal consenso tra le parti, l’accordo
societario. Da questo accordo si riuscivano ad individuare le obbligazioni dei soci.

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Ha alcuni requisiti fondamentale. In primis, il fine economico dell’accordo societario, la finalità


patrimoniale perseguita dai socii, pena l’invalidità del contratto. Altro requisito è il consenso, cioè la
volontà, l’intenzione individuale di far parte della società. Si parla, a tal proposito, di affectio
societatis, in analogia all’affectio maritalis. È necessario un consenso durevole nella società, un
consenso continuativo, il consensus perseverans. La continuità lo distingue dalla compravendita e
dalla locazione. Nella società, il recesso unilaterale determina l’immediato scioglimento della società,
così come nel matrimonio. La società a Roma è un contratto, non una persona giuridica come oggi. I
terzi avevano rapporti con i singoli soci, non con la società intesa come entità a sé stante. Lo Scopo
economico comune, perseguito dai socii, era sostanzialmente la divisione degli utili dell’attività
commerciale, con la connessa assunzione di rischi: si dividono utili, ma anche le spese. Era un’alleanza
commerciale tra due o più imprenditori. Individuiamo diversi tipi di società, sempre grazie ad una
distinzione di Gaio. Gaio menziona due tipi di società:
 Società universale: è la societas omnium bonorum. È la società nella quale i socii conferiscono
la totalità dei loro beni, l’intero patrimonio. Poteva riguardare lo svolgimento di plurime
operazioni economiche. Questo contratto, in sostanza implicava un transitus legalis, si
instaurava una comproprietà tra i socii, che aveva a soggetto tutti i beni sotto il possesso di
ciascuno dei socii. La proprietà si trafromava in proprietà collettiva sui beni.
 Società speciale: societas unius negotiationis. È una società costituita per lo svolgimento di
un unico tipo di attività commerciale, non una pluralità di operazioni commerciali. Pensiamo
alla societas venaliciaria, una società composta esclusivamente per il commercio degli
schiavi. Vi rientrava anche la societas unius rei volta al compimento di un singolo affare; si
scioglieva immediatamente dopo aver compiuto l’obbligo.
Il socio aveva l’obbligo di conferimento di beni e/o servizi, a seconda dell’accordo. Altro obbligo dei
socii era la ripartizione dei guadagni e delle spese.
A tutela dei socii era prevista l’actio pro-socio, un’azione che poteva essere utilizzata da ciascuno dei
socii; è un’actio bonae fidei, cioè il giudice ha un’ampia discrezionalità nella valutazione. Il giudice
può condannare il convenuto a tutto ciò che deve fare e dare riguardo la buona fede.
4. Mandato(mandatum): deriva da manus-dare dare in mano, affidare. È un contratto consensuale, in
virtù del quale, su incarico di una delle parti, il mandante, l’altra parte, il mandatario, si obbliga
gratuitamente a fare qualcosa. È il contratto da mandator e mandatarius. L’oggetto del mandato,
l’attività può essere materiale, giuridica, purché fatta per conto del mandante. Questo contratto,
anch’esso consensuale, viene perfezionato dall’accettazione da parte del mandatario e genera le
obbligazioni. Anche nel mandato, come nella società, il consenso deve essere duraturo. Requisito
essenziale era la gratuità; era estranea a questa fattispecie la finalità di lucro. Se le parti si fossero
accordate per un compenso, non avrebbe mandato, ma locatio operis.
Il mandatario doveva eseguire l’incarico ricevuto con diligenza, non doveva eccedere i limiti del
mandato, attenendosi alle direttive ricevute. Doveva, altresì, trasmettere al mandante il risultato
conseguito: il mandatario era un rappresentante indiretto, non operava nel campo della rappresentanza
diretta, agiva in nome proprio, ma per conto altrui. Obbliga a sé, ma in forza del vincolo contrattuale,
dovrà trasmettere il risultato giuridico conseguito in capo al mandante. Tra gli obblighi del mandante,
c’è quello di assumere il risultato giuridico del mandatario, sempre che sia stato eseguito secondo le
direttive. Il mandante, in più, doveva rimborsare le eventuali spese sostenute nell’esecuzione
dell’incarico e doveva risarcire gli eventuali danni subiti dal mandatario nell’esecuzione dell’incarico.
In merito al mandato si è discusso che si possa veramente parlare di una bilateralità perfetta. Il
mandato, secondo alcuni, produce obbligazioni prevalentemente in capo al mandatario. Secono alcuni,
quindi, si potrebbe parlare di bilateralità imperfetta. In realtà, dobbiamo considerare che era veramente
raro he non ci fossero spese da rimborsare o eventualmente danni da risarcire. L’evenutalità degli
obblighi del mandante è più teorica che pratica.
Come tutela è prevista l’actio mandati, sia directa che contraria. L’actio mandati directa era a favore
del mandante, contro il mandatario, per ottenere l’esecuzione dell’incarico, o per ottenere la
trasmissione del risultato conseguito. L’actio mandati contraria era a favore del mandatario, nei

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confronti del mandante, volta ad ottenere il rimborso delle spese sostenute e/o il risarcimento dei danni.
Anche l’actio mandati è un’actio bonae fidei.
Hanno delle caratteristiche comuni. La prima caratteristiche è la loro estraneità allo ius civile, poiché sono
regolati dallo ius gentium. Sono tutti accomunati, in secondo luogo, dal nudo consenso, con il quale il contratto
si riteneva perfezionato. Non erano richieste forme particolari. Il consenso, inteso come incontro tra le volontà
dei contraenti, era non solo necessario, ma anche sufficiente. Uno dei tratti originari è l’assenza di formalismo,
l’allontanamento dalle antiche formalità. Non sono richieste formalità verbali o scritte. Al posto del
formalismo, assunsero rilievo i valori della bona fides e dell’equitas. Addiveniamo così alla terza caratteristica,
l’obbligo della bona fides, l’obbligo a tenere un comportamento corretto, non ingannevole, incentrato alla
bona fides. Quarta caratteristica è la bilateralità, la costituzione di obbligazioni reciproche tra i contraenti,
prestazioni simmetriche. Alla prestazione economicamente onerosa di una delle parti, corrispondeva una
controprestazione, una prestazione simmetrica dell’altra parte contraente; questa bilateralità non era sempre
perfetta, alle volte si pagava di bilateralità imperfetta. Ultima caratteristica è la merca obbligatorietà degli
effetti: questi contratti producevano solo ed esclusivamente obbligazioni tra le parti, non producevano effetti
reali. I contratti non comportavano il trasferimento della proprietà; la compravendita aveva effetti obbligatorio,
non un effetto traslativo della proprietà. Perché producessero effetti reali, era necessario che le parti compissero
altri e diversi atti.
Lo ius gentium si è affermato in funzione di una concezione del credito e del fenomeno del credito più aperta.
Esso accrebbe certamente il novero delle obbligazioni, in particolare le obbligationes contracte, ma il
contributo non è solo quantitativo, ma anche e soprattutto sotto il profilo qualitativo: i nuovi contratti avevano
la caratteristica di non essere subordinati a formalità, a differenza delle obbligazioni verbali e letterali. Questi
contratti, non erano subordinati nemmeno alla consegna materiale, si caratterizzarono perché erano contratti
bilaterali, che nascevano solo ed esclusivamente dal consenso, a prescindere dalla forma in cui la volontà
veniva rappresentata. Fu proprio guardando a queste quattro fattispecie contrattuali che i giuristi romani
riuscirono a creare ed addivenire alla categoria unitaria espressa dal termine contractus, negozio obbligatorio
bilaterale. Le obbligazioni consensuali sono le obbligazioni ex contractu per eccellenza, per i connotati
specifici che li contraddistinguono.

OBBLIGATIONES EX DELICTU Sono le obbligazioni di responsabilità, obbligazioni da fatto


illecito. Ci soffermeremo sulle obbligazioni di responsabilità
primaria. Le obbligazioni di responsabilità secondaria sono le
obbligazioni che derivano dall’inadempimento o di un’obbligazione ex contractu, o di un’obbligazione di
debito, o di un’obbligatio ex delictu. Le obbligazioni ex delictu, cioè le obbligazioni di responsabilità primaria,
sono le ongligazioni derivanti dai crimina, gli illeciti civilistici che ledono l’interesse dei privati. Le XII tavole
disciplinano la materia penale, relativa alle controversie tra privati, non la materia criminale, relativa a crimina,
che concerne la reazione da parte dell’organo pubblico. In campo penale vigeva per molto tempo la vendetta
tra privati, le XII tavole prevederono un accordo pecuniario, alternativo alla vendetta. È comunque sicuramente
un lungo percorso evolutivo. Tra gli illeciti privatistici, le XII tavole ne disciplinano solo due (ingiura e furto).
Gli illeciti privatistici che la giurisprudenza ha unanimemente classificato come delicta sono quattro:
1. Furto: è un illecito lesivo del patrimonio. È la sottrazione volontaria, ma non violenta, di cose mobili
altrui, sia una res animata (schiavo, animale) sia una res inanimata. Le XII tavole prevedono due
distinte ipotesi, il furtum manifestum, e il furtum nec manifestum. Il furtum manifestum è il furto
flagrante. Si aveva questa ipotesi quando il ladro veniva colto sul fatto. In questa ipotesi, le XII tavole
prevedono la possibilità per il derubato di uccidere il ladro se: il ladro fosse stato uno schiavo, se il
ladro avesse agito di notte, se il ladro avesse opposto resistenza a mano armata, cioè se si fosse difeso
con le armi. Nelle altre ipotesi, il derubato doveva portare il ladro colto in flagrante dinanzi al giudice,
affinché gli venisse assegnata l’addicitio. Per il furtum nec manifestum, il procedimento p diverso,
perché il derubato doveva citare in giudizio il presunto ladro, dimostrando la sua colpevolezza; il

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giudice avrebbe dovuto accertare la colpevolezza del convenuto. Se il giudice avesse accertato la
colpevolezza, il ladro sarebbe stato condannato al duplum, il doppio del valore della cosa rubata.
La tutela del derubato venne integrata dal pretore con l’actio furti. Era un’azione penale, svolta ad
irrogare al ladro una pena pecuniaria, calcolata nel multiplo del valore della cosa rubata: quadruplo in
caso di furto flagrante, il doppio in caso di furto non flagrante. Si poteva cumulare anche ‘azione
reipersecutoria, la conditio furtiva; era un’azione che poteva esercitare il proprietario della cosa rubata
contro il ladro, per poter ottenere la restituzione della res. Qualora non fosse possibile, il ladro avrebbe
dovuto risarcire l’equivalente in danaro. Questa azione, si somma, si cumula all’azione penale.
2. Rapina: era anche detta bona vi rapta, beni sottratti con la forza. È un’ipotesi aggravata di furto. Non
è disciplinata dalle XII tavole, fu repressa dal pretore e poi inserita tra i delicta per la strettissima
analogia con il furto. Si configurava questo illecito nell’ipotesi di sottrazione di cose altrui con l’uso
della violenza, armi o bande di uomini, nonché bande armate. La giurisprudenza estenderà questa
fattispecie a tutte le ipotesi di sottrazione dei beni mediante l’uso di ogni forma di violenza. La tutela
prevista per il derubato è accordata dal pretore. L’azione prevista per la rapina è l’actio vi bonorum
raptorum, volta ad ottenere una condanna al quadruplo del valore della cosa sotratta con la forza.
Questa azione si prescriveva in un anno; dopo l’anno si trasformava in un’azione volta a restituire solo
il valore della cosa, non il quadruplo. Questa azione aveva una natura peculiare: Gaio, e poi
Giustiniano, la considerarono un’actio mixta, reipersecutoria e penale insieme.
3. Ingiuria (iniuria). Sono le lesioni personali, l’offesa ingiusta. Le XII tavole distinsero tre ipotesi
diverse a seconda della gravità della lesione: il membrum ruptum, lesione più grave, l’os fractum,
l’iniuria simplex. Il memebrum ruptum è la lesione più grave in assoluto, perché era la lesione
permanente di un organo; comportava una menomazione permanente dell’integrità fisica. Era punita
con il taglione, ma le XII tavole prevedono che le parti possano addivenire ad un accordo pecuniairio.
L’os fractum è la lesione di un osso; una lesione grave, ma non tale da determinare la menomazione
permanente dell’integrità fisica. Veniva punita con il pagamento di 300 assi per un uomo libero, 150
assi per uno schiavo. L’iniuria simplex erano tutte le lesioni personali perfettamente guaribili, come le
percosse. È previsto il pagamento di 25 assi, indifferentemente dallo status della vittima. Questo
sistema previsto dalle XII tavole, con il tempo si manifestò inadeguato. Il pretore intervenne,
introducendo un’apposita azione a tutela della vittima dell’illecito, l’actio iniuriarum exstimatoria.
Era un’azione di stima delle ingiurie. Fu così abolita la possibilità dell’accordo pecuniario. Era
un’azione più duttile, perché valeva per tutte le lesioni e mirava ad ottenere dal giudice una condanna
commisurata effettivamente alla lesione subita e al pregiudizio economico arrecato al soggetto.
4. Danneggiamento (damnum iniuria datum): siamo di fronte ad un illecito lesivo del patrimonio. Le
XII tavole non disciplinano questa fattispecie, disciplinano ipotesi particolari, non l’ipotesi generale
del danneggiamento. Le XII tavole prevedono l’actio de pauperie, per esempio: era l’azione che
poteva essere esercitata contro il proprietario di un animale addomesticato, qualora l’animale avesse
arrecato danni a cose o persone. Solo nel corso del III secolo a.C. fu prevista la repressione di questo
delitto, la “Lex Aquilia de damno”. È chiamata dal nome del tribuno della plebe Aquilio, che la
propose. Essa introduce una disciplina organica del danneggiamento. Essa disciplina i danni arrecati
alle res, sia inanimate, sia animate. Fu la base della disciplina costituita poi dai giuristi. La disciplina
del danneggiamento è la base della responsabilità extra-contrattuale, responsabilità civile, tirata in
ballo ogni qual volta un soggetto compie un atto ingiustamente determinativo di un danno economico
di un altro soggetto. Nasce l’obbligazione, a carica del danneggiatore, di risarcire il danneggiato, per
un importo equivalente al pregiudizio subito. La lex Aquilia, al primo caput, prevedeva che “chiunque
avesse ucciso schiavo o animali da gregge, era tenuto a pagare al proprietario il valore più alto
raggiunto da quella res nell’ultimo anno”. Il terzo caput prevedeva che “chiunque avesse compiuto
danneggiamenti di minore entità a schiavi o a bestiame da gregge, oppure avesse ucciso animali non
da gregge, oppure avesse deteriorato res inanimate, era tenuto a pagare il valore più alto raggiunto
dalla res negli ultimo 30 giorni”. Il danneggiamento, in questa fattispecie era imputabile al soggetto
che agisce sia nel caso di dolo, sia in caso di colpa. Si raffina il criterio di imputabilità. Il danneggiatore
deve rispondere dell’evento dannoso, se quest’evento è una conseguenza del suo comportamento: vi
deve essere un nesso di causalità fra l’attività del soggetto e il danno arrecato alla cosa. Era danno

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aquiliano solo quello arrecato alla cosa dall’attività fisica del soggetto agente; non veniva presi in
considerazione i comportamenti omissivi dai quali poteva derivare un danno. Era una concezione un
po’ restrittiva della risarcibilità, che stimolò la riflessione giurisprudenziale e l’intervento dei pretori.
Si estese la nozione del danno risarcibile ad ogni evento dannoso che fosse riconducibile alla condotta
colposa e/o dolosa, del soggetto agente.
Il pretore riconobbe al danneggiato l’actio legis aquiliae, un’azione mista, a scopo afflittivo e a scopo
risarcitorio. Prevedeva la condanna del danneggiatore a pagare una somma di danaro pari al maggior
valore della cosa (nell’ultimo anno per schiavi e animali da gregge, nell’ultimo mese per tutti gli altri
casi). Il carattere penale dell’azione del danneggiamento, via via si stempera, perché prevale la
funzione risarcitoria pura, che lo attrae sempre di più nella sfera privatistica (ancora oggi, c.c art.2043:
risarcimento per fatto illecito). Dei quattro delicta il danneggiamento resta attratto nella sfera
privatistica, gli altri illeciti sono attratti nella sfera pubblicistica, quella dei reati pubblici.
Penalità, nossalità e causalità volontaria sono le tre caratteristiche comuni a queste obbligazioni.
Erano obbligazioni a carica dell’autore dell’illecito, del delictum. Erano poste a titolo di punizione, castigo,
pena. Era una pena, inizialmente fisica, poi pecuniaria. Dal delictum, derivava un’azione, l’actio penalis, con
uno scopo afflittivo-punitivo, esercitabile dalla vittima dell’illecito. Poteva aggiungersi a questa actio penalis,
anche un’azione reipersecutoria, che aveva invece uno scopo risarcitorio. Da un lato un’azione pensale a scopo
afflittivo-unitivo, dall’altro lato o accanto un’azione reipersecutoria volta ad una reintegrazione patrimoniale.
Vi è poi l’actio mixta, che assolveva alla duplice funzione, penale e reipersecutoria.
La nossalità è la dazione a castigo, la dazione a nossa, noxe deditio. È l’abbandono riparatore dell’autore
dell’illecito. Il pater familias poteva abbandonare il reo, consegnandolo alla persona offesa. Se a commettere
uno dei quattro illeciti era un sottoposto alla potestas, allora la parte lesa poteva chiedere il risarcimento
direttamente all’avente potestà, tenuto a rispondere dell’illecito del suo sottoposto, salvo la possibilità della
noxe deditio.
Le obbligazioni da delitto derivavano da un illecito, che doveva essere un fatto volontario (causalità
volontaria). L’autore dell’illecito doveva agire con dolo.
Queste classificazioni sono uno degli esempi più chiari della raffinatezza raggiunta dal diritto romano, perché
frutto della cooperazione tra pretori e giuristi. Come per i diritti reali, l’evoluzione sociale condusse ad
ampliare il ventaglio delle obbligazioni, ciascuno risponde ad una esigenza specifica: il diritto reagisce alle
esigenze della società.

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6. la tutela del decoro urbano in


roma antica

Veniamo ad esaminare i provvedimenti in materia di tutela del decoro urbano della storia di Roma.
Cronologicamente si va dalla fine dell’età repubblicana, fino alla tarda antichità. Ci sono giunte disposizioni
diverse, appartenenti ad epoche diverse, dalla quale emerge l’interesse di salvaguardare le opere
architettoniche. C’è una chiara esigenza di tutelare il patrimonio architettonico, in quanto scrigno di bellezza
della civiltà romana. Il testo si compone di tre capitoli:
1. Maioriano e la legislazione “De edificiis pubblicis”
In questo primo capitolo si analizza la legislazione dell’Imperatore Maioriano sugli edifici pubblici.
Regna dal 457 al 461 d.C, nella parte Occidentale dell’Impero. La legislazione di Maioriano è una
sintesi emblematica dei principi fondamentali che hanno caratterizzato la disciplina romana in materia
di tutela del patrimonio architettonico.
2. Decus urbium in età repubblicana e imperiale.
Nel secondo capitolo lo sguardo viene rivolto al passato. Si guarda ai precedenti interventi normativi
in materia. Si esaminano i vari provvedimenti emanati in materia di tutela del patrimonio edilizio,
soprattutto guardando all’età repubblicana e imperiale. Il fine è quello di ricollegarsi con la
legislazione di Maioriano, che acquista una maggiore chiarezza se viene illuminata dal percorso
normativo precedente.
3. “Il sentimento del bello” nell’universo culturale romano: profili storici e teoretici
Si descrive l’intreccio fra diritto, etica ed estetica. L’obiettivo è quello di cogliere le modalità con cui
nel mondo romano è stato percepito e vissuto il sentimento del bello. Nell’ambito di questo discorso
è apparso imprescindibile una riflessione sul De architectura di Vitruvio, del I secolo a.C. Quest’opera
elabora l’ideale di bellezza in campo architettonico. Quest’ultima tematica ha condotto ad affrontare
una questione come quella della “caducità della bellezza”, che ha portato a riflettere su un saggio di
Freud.

maioriano e la legiSlazione “de ediFiciiS pubbliciS”

Siamo nel 458, l’11 luglio. È l’anno in cui, a Ravenna, fu promulgata una legge sugli edifici pubblici,
indirizzata al prefetto di Roma Emiliano. Dal punto di vista cronologico, siamo appena 18 anni prima della
caduta dell’Impero romano d’Occidente. Maioriano emana la “Novella quattro”, dedicata alla tutela degli
edifici pubblici. Questa Costituzione intercetta esigenze plurime, che si legano idealmente a quelle che sono
le linee portanti della disciplina in materia di tutela del decoro urbano. Nel primo capitolo si fa riferimento ad
un’altra Costituzione di Maioriano, la “Novella uno”, in cui Maioriano enuncia le motivazioni ideale che
sostengono il suo potere politico, le finalità che intende perseguire e le modalità. Questo testo, dunque, assume
un valore propedeutico rispetto alle altre costituzioni di Maioriano, dato che esprime la ratio profonda che
anima la legislazione di questo imperatore. Il fine ultimo dell’azione politica di Maioriano è la publica utilitas.
Maioriano intende arginare un fenomeno grave, quello del degrado degli edifici pubblici di Roma, i quali erano
oggetto di continue spoliazioni da parte dei privati. Il legislatore è cosciente della gravità del fenomeno e
interviene, intendendo rimuovere le cause che avevano consentito il diffondersi di queste pratiche lesive del
decoro urbano. Ammette la colpevole connivenza dei funzionari urbani; in concreto, i privati chiedevano ai
funzionari locali delle autorizzazioni di poter prelevare dalle opere pubbliche blocchi di marmo, di pietra,
elementi decorativi, componenti ornamentali. Le cause di ciò sono chiaramente riconducibili al fenomeno
corruttivo dell’apparato amministrativo. Questo fenomeno è ritenuto a ragione il responsabile principale del
degrado. La legge dice chiaramente che la bellezza dell’Urbs risiede nella magnificenza dei suoi edifici; questa
bellezza è gravemente compromessa dalle attività di prelievo di materiali pregiati.

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La legge prevede sanzioni severissimi:


1. Una pena pecuniaria consistente nel pagamento di una somma di danaro pari a 50 libre d’oro. Era
rivolta al giudice che abbia concesso che gli edifici pubblici fossero spogliati di elementi.
2. Una pena corporale: previste per i funzionari subalterni che avessero eseguito l’ordine senza opporre
resistenza, profanando con le loro mani i monumenti, anziché agire per la loro tutela.
Questi comportamenti, gli illeciti privati, sono da considerarsi strettamente legati alla corruzione pubblica.
Una rete interconnessa, che invece di tutelare gli edifici pubblici, permetta la spoliazione di essi.
Questa novella è l’espressione finale del lungo percorso inerente alla tutela del patrimonio architettonico.
Prima di addentrarci nei provvedimenti delle epoche precedenti, possiamo provare a trovare un filo conduttore
di tutti i provvedimenti di tutela del decoro urbano della storia di Roma. Il filo conduttore è ritrovabile nel
concetto di publica utilitas: è il concetto che rappresenta il movente fondamentale anche nelle disposizioni
normative più antiche.

decuS urbium in età repubblicana e imperiale

Le prime testimonianze in maniera di tutela urbanistica sono desumibili da fonti epigrafiche, risalienti ad un
periodo compreso tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Di questo arco temporale vengono esaminati alcuni
Statuti municipali, che attestano interventi normativi tesi a tutelare l’integrità strutturale di alcune città
dell’Italia e della Spagna. Sono di particolare interesse gli Statuti delle città di Taranto, di Urso e di Malaca.
Questi Statuti rappresentano una risposta del legislatore a determinate problematiche di agglomerati urbani.
Questa normativa tende a regolamentare gli abusi, molto frequenti in campo edilizio, laddove l’attività
costruttiva era spesso accompagnata ad un’attività di destrutturazione di altri edifici. L’attività di
destrutturazione, spoliazione, era fonte di guadagni illeciti, ottenuti lucrando dalla vendita dei materiali edili.
Lo Statuto della città di Taranto, la “Lex municipii Tarentini”, risale al I secolo a.C.: il testo specifica che,
senza l’autorizzazione del Senato locale, nessuno può demoliri detegere, disturbare edifici nel centro urbano
di Taranto. I tre verbi utilizzati nello Statuto indicano comportamenti vietati, lesivi dell’aspetto estetico degli
edifici: è fatto divieto di demolire completamente l’edificio, di privare del tetto (detegere) l’edificio e di
apportare modifiche in senso peggiorativo (disturbare). Non saranno sanzionati questi atti vietati
espressamente, se il proprietario si impegni a riportare l’edificio nel suo stato precedente. In assenza di questa
attività di ripristino, il proprietario era tenuto al pagamento, a favore delle casse municipali, di una sanzione
pecuniaria, flessibile ed elastica in base al valore dell’immobile. Tratti simili si colgono negli Statuti della città
di Urso (I secolo a.C.) e della città di Malaca (I secolo d.C.).
Sulla scia di questi Statuti, dobbiamo ricordare due interventi senatori di più grande respiro. Sono due sanato
consulti, emanati nel I secolo d.C. durante la dinastia Giulio Claudia. Sono i “Senatus consulta de edificiis non
demolendis”. Il primo è il Senato consulto Osidiano, del 47 d.C, il secondo è il Senato consulto Volusiano del
56 d.C. Il Senato consulto Osidiano è così chiamato dal nome di uno dei due consoli in carica, Osidio ed è
emanato sotto il principato di Claudio. Si muove con gli stessi intenti conservativi dell’asseto urbanistico che
abbiamo visto nello Statuto di Taranto. Il Senato consulto Osidiano dichiara l’invalidità di qualsiasi contratto
di compravendita, qualora si accerti che l’emptor, abbia acquistato l’edificio solo con intenti speculativi, come
l’intento di demolirlo per ricavare dalla vendita dei materiali una somma superiore a quella pagata per
l’acquisto dell’edificio. L’emptor, che procede all’acquisto di un immobile solo con scopi speculativi, era
colpito con la pena dupli: doveva versare alle casse dell’Erario una pena pecuniaria pari al doppio del prezzo
stabilito nel contratto di compravendita. Il venditor era sanzionato solo se consapevole degli intenti speculativi
dell’acquirente: in quel caso la vendita veniva dichiarata nulla. Veniamo al secondo senato consulto, quello
Volusiano. Risale al 56 d.C. e prende anch’esso il nome da uno dei consoli, Volusio. Viene emanato durante
il principato di Nerone. Il Senato è chiamato ad esprimersi in materia edilizia ancora una volta. Cornelio e
Volusio, consoli in carica, presentato al Senato una richiesta avanzati dai parenti di una donna Celsilia: questa
donna era proprietaria di costruzioni diroccate, situate nei Campi Macri, vicino Modena. Le costruzioni erano
in condizioni fatiscenti, erano ridotte allo stato di ruderi; non era oggettivamente possibile un’azione di
restauro. I parenti chiedono il permesso di disporre liberamente delle costruzioni presenti in quei terreni, senza

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rischio di incorrere nelle sanzioni dell’Osidiano. Il Senato accoglie la richiesta, perché pensa che la sua
eventuale demolizione non rientrerebbe nella fattispecie prevista dall’Osidiano: quando le costruzioni sono già
in condizioni di rudere, l’eventuale demolizione non è sanzionabile, perché è oggettivamente impossibile
l’azione di ripristino.
Sempre nel I secolo, in età Flavia, l’Imperatore Vespasiano interviene in materia con un editto. La fonte che
ci dà notizie su questo intervento imperiale, però, è di età Severiana, cioè una costituzione del 222 di
Alessandro Severo. Questo testo cita un senato consulto e un editto di Vespasiano. Sono provvedimenti che
vietano non solo la demolizione degli edifici, ma anche la destrutturazione. Si tende ad identificare la
costituzione di Alessandro Severo con l’Osidiano; l’editto di Vespasiano, invece, sarebbe un’integrazione
dell’Osidiano. L’editto di Vespasiano sancì che fosse vietato, non solo demolire, ma anche la spoliazione dei
monumenti. Sulla scia dell’editto di Vespasiano, si pone un altro intervento senatorio del II secolo d.C., il
Senato consulto Aciliano, anche in questo caso dal nome del console Acilio. Viene emanato nel 122, sotto il
regno di Adriano. Abbiamo conoscenza di questa disposizione grazie ad una testimonianza di Ulpiano. Ulpiano
ricorda brevemente la disposizione del senato consulto Aciliano, che fa esplicito divieto di lasciare per
testamento gli elementi strutturali o le componenti ornamentali che siano materialmente congiunte ad un
edificio, cioè sono separabili dall’edificio solo compromettendone l’aspetto originario. Si intende evitare che
il testatore aggiri i divieti vigenti in materia edilizia attraverso atti mortis causa a titolo particolare, aventi ad
oggetto singoli componenti degli edifici.
L’ultimo provvedimento in materia è un rescritto di Antonino Pio (II secolo d.C.), che ci giunge attraverso la
testimonianza del giurista Callistrato (III secolo d.C.). Nel rescritto di Antonino Pio risulta espresso un
principio fondamentale, che resterà centrale anche in età tardo antica: il primato dell’esistente. Si sancisce il
primato dell’esistente rispetto alla costruzione di nuovi edifici. Questo principio porta con sé un altro
fondamentale primato, la priorità da accordare all’attività di restauro, rispetto all’apertura di nuovi cantieri per
costruire nuovi edifici.
I principi cardine che vengono ribaditi dai vari provvedimenti che si susseguono nel corso del tempo sono tre:
1. Publica utilitas: specifica l’obiettivo per cui sono costruiti gli edifici pubblici
2. La volontà di reprimere qualsiasi attività speculativa in campo edilizio.
3. Il primato dell’esistente: dal quale scaturisce il primato da accordare al restauro e dunque al ripristino.

“il Sentimento del bello” nell’univerSo culturale romano: proFili Storici e teoretici

Lo scopo del libro è quello di capire la modalità in cui il mondo romano ha percepito il sentimento del bello.
Vitruvio, architetto e scrittore romano, scrisse il “De architectura” nel I secolo a.C., e quest’opera ci può essere
utile. Esso è un punto di riferimento obbligato nell’elaborazione dell’ideale di bellezza in campo architettonico.
L’attenzione viene rivolta a vari passi dell’opera, ma uno è centrale; in questo passo viene enunciata da
Vitruvio la sua triade: firmitas, utilitas et venustas. Sono le tre categorie alle quali, secondo Vitruvio, bisogna
ispirarsi. I tre ambiti sono quello strutturale (stabilità), a quello funzionale (utilità) e a quello estetico
(bellezza). Nella triade Vitruviana è presente la venustas. Nella lingua latina ci sono due termini che indicano
il concetto di bellezza: pulchritudo e venustas. Il primo termine fa riferimento alla bellezza, allo splendore
oggettivo, la bellezza oggettivamente presente in un’opera, eseguita secondo canoni corretti. La venustas,
invece, indica la bellezza, l’eleganza, la grazia, sotto un profilo che potremmo definire soggettivo: è una
bellezza che si coglie nel rapporto tra soggetto che osserva e opera osservata. La pulchritudo coglie la bellezza
oggettivamente e staticamente, la venustas coglie la bellezza soggettivamente e dinamicamente. Vitruvio ha
ben presente l’importanza del fattore soggettivo nella realizzazione di un’opera architettonica. L’esperienza
del bello architettonico è un intreccio tra elementi oggettivi e soggettivi.
Veniamo, a conclusione del discorso, alla caducità della bellezza. Cercheremo di rispondere ad una domanda,
tornando all’incipit del libro: “Quali possono essere state le motivazioni che hanno portato Maioriano,
imperatore di un Impero che sta andando in frantumi, a legiferare sulla cura del decoro urbano?”. Freud, nel
1915, scrisse un saggio breve su questo tema, intitolato proprio “Caducità”. Nell’incipit di questo saggio, Freud
racconta di una passeggiata in una contrada estiva, insieme con un amico silenzioso ed un poeta. Il poeta,

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invece di gioire nell’ammirare cotanta bellezza, appare triste, turbato, perché lo turbava il pensiero che tutto
quello che lo circondava era destinato a sparire con il sopraggiungere dell’inverno. Freud è scosso
dall’atteggiamento turbato del suo amico poeta e cerca di capire le motivazioni di quella sofferenza. Freud
contesta che la caducità della bellezza implichi un suo svilimento: per Freud la caducità ne aumenta il valore.
Il valore della caducità è un valore di rarità temporale: la limitazione della possibilità di godimento non svilisce
il pregio, ma in qualche modo lo rende possibile, lo amplifica. Questo discorso vale per ogni forma di bellezza,
la bellezza della natura, del corpo umano, di un’opera d’arte, di una creazione intellettuale: nessun tipo di
bellezza è diminuito dalla sua caducità. È sulla base di questa riflessione che l’autore, Chiara Corbo, ha provato
a dare una risposta alla domanda sulle motivazioni di Maioriano. Freud ritiene che la caducità sia un valore
aggiunto, che rende possibile la percezione del bello, e venendo a Maioriano, proprio l’intuizione della
prossima fine dell’Impero, potrebbe aver creato le condizioni per una percezione più chiara del valore della
bellezza. La caducità dei beni architettonici aumenta il valore di quei beni, e spinge il legislatore ad una tutela
sempre maggiore, perché gli edifici in cui risiede tutta la bellezza della Città Eterna, sono il segno concreto
della romanitas. È possibile, dunque, che proprio l’intuizione della fine imminente di un mondo, abbia spinto
l’imperatore Maioriano a preoccuparsi della bellezza degli edifici di Roma, proponendosi di preservarli, perché
espressione materiale di Roma, volto concreto della Storia passata.

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