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Abruzzese L'industria Culturale
Abruzzese L'industria Culturale
Tracce e immagini di
un privilegio.
Premessa
Ricchezza e privilegio
Una storia dell’industria culturale non può coincidere solo con la storia dell’industria ma ne
è anche la sua quintessenza. Questo lavoro intende narrare e commentare la straordinaria
avventura che attraverso lo snodo dello sviluppo industriale ha fatto funzionare la
“macchina” dell’immaginario collettivo e individuale dalle sue più lontane origini a oggi.
Il nostro corpo, qui e ora, appartiene a questa lunga avventura come un organismo vivente
appartiene alla sua placenta nutritiva. L’abbiamo nutrita e ne siamo nutriti. L’abbiamo
preceduta e adesso ne siamo il compimento. Appartiene all’estensione spaziale e
temporale dell’industria culturale, ai suoi apparati di produzione e consumo, alle sue opere
e alle sue identità, alle sue strategie sociali.
Tecnoculture
La dimensione individuata del termine industria culturale sta per lasciare il posto ad una
diversa dimensione socio-antropologica in cui il bene di consumo è la tecnologia in quanto
tale. Una stessa tecnologia per qualsiasi bisogno.
La vicenda semantica del concetto di industria definisce sin dall’inizio una differenza, una
diffidenza, tra identità e macchina, tra interiorità del soggetto ed esteriorità del suo fare. La
costruzione della parola industria sottolinea l’originario carattere pre societario e anti
societario di macchinazione, di trama ordita dai costruttori, dai tecnici, al di fuori e talora ai
danni della comunità. Technites era infatti considerato nella civiltà greca l’uomo dalla forte
caratterizzazione individuale, portatore di un sapere o di una forma di vita misteriosa e
potenzialmente ostile all’ assemblea sociale.
Il concetto di cultura rimanda invece ad una sfera di attività di natura squisitamente
sociale: la socializzazione stessa, l’atto di rendersi partecipe del mondo e insieme di
rendere il mondo partecipe di sé.
La definizione classica di industria culturale si basa su due assunti pregiudiziali: il primo è
che l’industria, in quanto macchinazione che risponde immediatamente ad interessi privati,
colonizza la cultura nel senso di renderla anch’essa una forma separata dalle reali
esigenze del corpo sociale; il secondo è che la componente operativa e tecnica presente
nel concetto di coltivazione soffoca ed estingue la parte che nello sviluppo delle forme
espressive e comunicative gioca la dimensione ideativa e simbolica, legata alle sfere della
cultura e del culto.
Al termine postmoderno di tecnologia culturale potremmo dunque pervenire, centrando la
qualità di un processo che mira a sovvertire i due assunti impliciti nella definizione di
industria culturale, da una parte rivelando quando e come la dimensione culturale dei
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consumatori tenda a condizionare e a ridimensionare il primato dell’attività industriale dei
produttori, dall’altra recuperando l’originaria indifferenziazione, nel concetto di cultura, di
pratiche materiale e aspetti ideali.
Lavoro e svago
L’industria culturale mette terminologicamente insieme due concetti apparentemente
antitetici: ciò che si “costruisce” per lavoro e ciò che si “coltiva” per svago.
La manipolazione degli oggetti è lavoro quando è finalizzata alla produzione di oggetti
d’uso, ma è un gioco dissipativo quando è contatto, esplorazione e familiarizzazione con
l’ambiente circostante.
Poesia e realtà
L’industria culturale ha intrecciato in poderose forse sintetiche i linguaggi del corpo, della
voce, della musica e dell’immagine. Ha praticato questa sapiente sintesi ponendosi il
problema di fondare il senso dentro i confini di una società di massa. Ha raccolto in questo
progetto moderno tutte le tradizioni del passato, anche quelle apparivano tra loro diverse.
Ha creato, così facendo, le grandi architetture dell’immaginario collettivo industriale, i
luoghi con cui la percezione del corpo si esercita su piani distinti del mondo sociale e dalle
sue forme di produzione e di controllo. È riuscito a farlo organizzando una macchina
complessa di relazioni reciproche tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra l’esteriorità
delle cose e l’interiorità che le fa vivere, tra le astrazioni sociali e la concretezza del corpo,
la superficie della materia e i simboli della sua artificializzazione.
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Ogni nuova tecnologia accresce ed intensifica lo svolgimento di un’attività umana. Ne
consegue che le tecnologie che precedentemente vi erano impiegate sono destinate man
mano a divenire obsolete e a scomparire, anche se è tutt’altro che infrequente che nuove
e vecchie tecnologie convivono anche per lungo tempo e si ibridino reciprocamente.
L’intero processo, infine, non avviene quasi mai in modo lineare, dal momento che
l’invenzione di una nuova tecnologia non si limita a fare meglio e con minore sforzo i
compiti già svolti dalle tecnologie precedenti, ma modifica la natura, le condizioni e le
finalità abituali per cui essi erano realizzati, determinandone il capovolgimento in una
nuova forma.
Il corpo
Produzione di oggetti e creazione di linguaggi costituiscono il processo di costruzione della
realtà, l’insieme di operazioni necessarie ad abitare. Questo processo e sin dall’inizio
multimediale e interattivo. All’inizio è il corpo. Possiamo rappresentare l’evolversi della
corporeità del soggetto come il processo metamorfico di un organismo che sviluppa
artificialmente i suoi sensi e le sue protesi sensoriali in combinazioni che tengono di volta
in volta conto delle necessità ambientali del lavoro comunicativo: la qualità dei rapporti di
potere, delle distanze, dei materiali da manipolare.
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Capitolo I
Origini
1.1 Figure, immagini e voci
La nascita dell’industria culturale è antichissima, una storia che affonda le sue radici in un
tempo immemorabile. In un certo senso essa comincia circa 50.000 anni fa con
l'invenzione” delle mani. Le mani sono indubbiamente una dotazione naturale del corpo
umano. Ma costituiscono anche la prima di una lunga serie di protesi e di tecnologie
artificiali che hanno reso possibile, consolidato e perfezionato la comunicazione dell’uomo
con l’ambiente naturale e con gli altri uomini.
La conquista della stazione eretta provocò conseguenze straordinarie per l’evoluzione
umana. Per la prima volta le mani furono liberate da funzioni deambulatorie e poterono
essere impiegate per le attività di manipolazione tecnica. La conquista delle mani liberò a
sua volta la bocca da mansioni come afferrare, strappare, aggredire, e ne rese possibile la
specializzazione come apparato fonatorio. Il ridimensionamento delle funzioni fisiche della
bocca dovette comportare verosimilmente la modifica della struttura del cranio ponendo le
condizioni per l’aumento del volume cerebrale.
Lo sviluppo di una cultura relativamente complessa non era effettivamente possibile in
un’epoca basata sulla comunicazione per segni e segnali.
Insieme alla parola si svilupparono in questa fase l’agricoltura, l’allevamento e le prime
tecniche di riproduzione di immagini. A differenza di tutti gli altri animali che agiscono
determinati e protetti da automatismi istintuali, l’uomo è un “essere organicamente
carente”, sempre soggetto al rischio ed esistenzialmente aperto, privo di organi
specializzati e quindi obbligato ad inventarsi costantemente il proprio destino.
La sua natura consiste nel non avere una natura determinata e il suo essere dipende dal
suo fare tecnico, con cui cerca di rendere durevoli e virtualmente disponibili le risorse
necessarie alla sopravvivenza. L’allevamento e l’agricoltura, ad esempio, sono attività che
garantiscono un sostentamento più sicuro e prevedibile che non la caccia e la raccolta.
Per garantire la controllabilità del mondo l’uomo sopperisce alla mancanza di
determinismo istintuale mediante le istituzioni. Mediante, cioè, la costruzione di un
ambiente di vita artificiale che lo esonera dalla complessità dei condizionamenti naturali
dotandolo di rappresentazioni e modelli culturali stabili e tali da poter essere
continuamente rimessi in gioco grazie al linguaggio.
Come l’agricoltura e l’allevamento, anche la raffigurazione per immagini è una vera e
propria istituzione sociale. La sua funzione è di stabilizzare il mondo esterno
immagazzinando sullo sfondo informazioni che sono costantemente recuperabili nel
momento del bisogno. La comunicazione umana assicura l’evoluzione della specie con
altri mezzi, dal momento che è efficace dove invece l’ereditarietà biologica fallisce. In
particolare, attraverso le immagini che rappresentano scene di caccia la necessità di
coordinare l’azione collettiva per organizzare strategie di comportamento efficaci “penetra
nella coscienza”. L’immagine non ha a che fare soltanto con la formazione della società.
Essa consente anche un primo passo per l’elaborazione della psiche soggettiva.
Esteriorizzando le pulsioni mediante la loro rappresentazione.
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1.2 I miti
La creazione di miti moderni, nati in relazione all’avvento della folla metropolitana e delle
forme di credenza “superstiziosa”, affonda le proprie radici nelle sostanze più profonde
dell’esperienza umana, nelle sue grandi paure: i segreti della natura, il sacro, il trauma
della nascita, la morte, il mutamento.
In una qualche misura si tratta di un movimento inverso al processo di mondanizzazione e
di desacralizzazione che aveva caratterizzato lo sviluppo occidentale e le sue forme di
socializzazione.
Alcuni miti antichi funzionano splendidamente da sottotraccia per i nodi esistenziali a cui
gli apparati dell’industria culturale tentano di dare una risposta o quantomeno fornire uno
spazio di rielaborazione simbolica.
Sono miti che spiegano le ragioni che hanno governato scelte e valori dei media di massa:
dal centauro (forma simbolica del corpo artificiale nella sua primitiva congiuntura tra
animale e uomo, istinto e linguaggio) ad Estia ed Ermes, in quanto coppia emblematica
del rapporto tra interno domestico ed esterni, tra focolare e commercio, comunicazione,
delitto; tra femminile e maschile, continuo e discontinuo. Estia è la divinità che presiede al
culto della dimora. Hermes abita oltre la soglia dell’abitare; è il dio della strada, del trivio, il
dio disonesto. Divinità, la prima, dell’esserci; divinità, l’altro, dell’andare, dell’informazione,
dello straniero. L’uno non può fare a meno dell’altro. L’opposizione e la sintesi sempre
conflittuale tra queste due figure si proietta nella dimensione moderna, sulle differenze tra
razionalità e irrazionalità, sicurezza e pericolo, ordine e disordine, essere e apparire;
differenze che si incarnano e si riproducono nelle forme di comunicazione tra interno e
esterno.
Orfeo e Dioniso incarnano le dimensioni originarie dell’arte, le forme iniziatiche del rito, la
sacralità della morte e del corpo.
L’indicazione per noi più sconvolgente viene dai racconti in cui la pittura è il risultato di un
desiderio altrimenti incolmabile, la compensazione di un’assenza. Essi infatti narrano di
personaggi che per ricordare, anzi vedere, “tenere con sé”, l’amato assente, costruiscono
simulacri e con essi, trasgredendo l’ordine naturale delle cose, si intrattengono come se
fossero corpi veri e vivi. Eloquente la leggenda medievale di Lancillotto che affresca le sue
stanze riproducendo la storia del suo incontro con l’amata Ginevra per alleviare la
sofferenza della loro separazione.
All’universo dei miti antichi dobbiamo una prima grande elaborazione dell’esperienza
vissuta e dei suoi misteri. Gli archetipi dell’industria culturale appartengono a questo
universo. Le sue diverse prestazioni hanno un nome inscritto nell’Olimpo: la sua capacità
di trasformare continuamente le sue raffigurazioni simboliche si chiama Proteo; la sua
efficienza nel fare viaggiare oltre ogni limite e desiderio si chiama Ulisse, la sua vocazione
ad intrattenere si chiama Omero. Omero non è un dio dell’Olimpo, ma mitologica è la
costruzione della sua figura di poeta. Poeta cieco: ancora il rapporto tra linguaggio e
immagine.
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Perché gli uomini potessero concepire e realizzare gli oggetti fu necessario innanzitutto
che li rappresentassero attraverso i gesti delle mani. Parole e oggetti furono dunque
emanazione e conseguenza di un’esperienza unica e unitaria, cioè del rappresentare con
le mani.
Il mito dei centauri allude al processo di trasformazione dell’animale in uomo grazie alla
parola, ma nello stesso tempo sottolinea il rapporto di stretta contiguità biologica ed
ontologica che esiste fra l’uno e l’altro. La comunicazione orale avviene in un sistema di
prossimità e in un ambiente cognitivo che Pierre Lévy ha definito spazio antropologico
della Terra, nel quale l’uomo vive in un rapporto di immediatezza simbolica con la natura e
il cosmo.
Per quanto concerne le prime forme di comunicazione orale, il pensiero, l’essenza
spirituale, non viene espresso dal linguaggio, ma il pensiero è immediatamente il
linguaggio. Significa che inoltre la parola ha potuto essere concepita come segno
estrinseco e convenzionale delle cose soltanto quando è diventata essa stessa una cosa,
cioè quando è stata scritta. La scrittura costituirebbe una sorta di peccato originale
linguistico, per il quale le parole cominciano ad essere usate come segni trasportabili per
comunicare qualcosa al di fuori di sé stesse, delle intenzioni dei parlanti e dei contesti di
presenza in cui erano pronunciate.
La scrittura ha mutato largamente le routine sociali, gli abiti cognitivi e gli schemi d’azione
delle culture ad oralità primaria, cioè pre alfabetiche. Secondo Lévy la scrittura
corrisponde all’avvento dello spazio antropologico del Territorio, caratterizzato dal fatto
che l’uomo non si rapporta più semplicemente al cosmo ma si definisce secondo
l’appartenenza ad un’entità territoriale. Il passaggio che si compie attraverso la scrittura è
in sintesi la transazione della presenza della Terra alla différance del Territorio [Différance:
Derrida chiama la différance, un termine da lui coniato che include i due significati
cristallizzati nel verbo "differire". In un primo senso, esso implica che il segno è differente
da ciò di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l'essere a cui esso rinvia c'è sempre
una differenza, uno scarto che non può mai essere definitivamente colmato, ma lascia
sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni.
Ma, in un secondo senso, "differire" significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere
una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo]. Nell’idea di différance si
conserva il senso del temporeggiare, del rimandare ad un altro tempo. E possiamo
renderci conto dei problemi che le civiltà ad oralità primaria dovevano affrontare per
conservare e trasmettere il sapere condiviso se ad esempio consideriamo che in ebraico il
termine dabar vuol dire sia “parola” che “evento”. Ciò testimonia che la parola parlata è
evanescente e scompare nel tempo una volta emessa, mentre quella scritta è fungibile
perennemente dal momento che viene trasformata in immagine ed inscritta nello spazio di
un supporto materiale.
In secondo luogo, il concetto di différance aggiunge alle nozioni di dissomiglianza e di
differimento temporale anche quella di conflittualità. Due cose, due entità, due popolazioni
sono antagoniste per il fatto stesso di essere diverse, anzi tendono a elaborare le loro
differenze attraverso il conflitto. E con questa nozione di différance si spiega una delle
caratteristiche primarie dello spazio antropologico del Territorio, la guerra tra popoli che si
riconoscono in quanto tali per effetto della logica includente/escludente della frontiera.
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1.4 La scrittura
Sia rispetto alla comunicazione orale che alla comunicazione attraverso immagini, la
scrittura rappresenta un passo ulteriore verso l’acquisizione di forme più complesse di
autocoscienza. È, infatti, una tecnologia di rappresentazione del mondo assai più pratica e
duttile rispetto all’immagine. L’innovazione introdotta quasi tremila anni fa con il sistema
alfabetico greco è stata quella di scomporre le parole in suoni semplici e di identificare
ogni suono con un segno. Si tratta di una soluzione che, riducendo la complessità del
rappresentare, aumenta enormemente le possibilità di rappresentare.
Come la mano anche la pittura è un artefatto che si innerva nell’apparato cognitivo
dell’uomo. Essa non è semplicemente linguaggio orale reso visibile, ma un nuovo
strumento di memorizzazione, organizzazione e recupero della conoscenza che modifica
profondamente il modo di esprimere e di pensare sé stessi e il mondo.
La scrittura alterò profondamente i fini e in contenuti dei discorsi, i quali progressivamente
cessarono di essere realistici e ridondanti e cominciarono ad estendere la semantica del
dicibile fino a comprendere concetti astratti e originali. Con la possibilità della notazione
alfabetica la poesia fu esonerata dalle funzioni di trasmissione della tradizione culturale,
ma conobbe una nuova dimensione sviluppandosi quale fenomeno estetico purificato
perché apparentemente disinteressato, cioè non legato ad occasioni determinate e a rituali
fissi. L’arte poetica può essere considerata ciò che rimase dell’oralità una volta che questa
fu disinvestita dalle funzioni sociali prese in carico dalla scrittura. L’esonero dall’obbligo del
ritmo poetico, accanto al linguaggio, liberò anche la mente.
La parola scritta aveva oggettivato e reso visibile memoria e linguaggio. A questo snodo
andrebbero ricondotti anche la nascita del concetto di io, sorto nel momento in cui il
linguaggio poté essere superato dalla persona che lo pronunciava, nonché l’idea di verità
come cosa oggettiva, stabile e presente.
La forma rituale segnava l’apertura di una discussione pubblica sui rapporti sociali e sui
valori culturali della comunità, ed eventualmente la sperimentazione e la ricerca di modi di
vita alternativi. Il rito è probabilmente la più antica arena di comunicazione collettiva dei
gruppi umani. Implica una precisa divisione ed organizzazione sociale del lavoro tra
produttori sacri e consumatori profani, necessita di un linguaggio specifico distinto da
quello della vita quotidiana, dà luogo ad una trasformazione espressiva fatta di archetipi
come di luoghi comuni, fonda una vera e propria specializzazione professionale. Tutto
questo ci autorizza a parlare del rito come dell’industria culturale delle società primitive e,
d’altra parte, del sistema dei media come del rito della nostra società. Esattamente come i
riti anche i programmi televisivi rappresentano una sorta di arena pubblica, di “foro
culturale”, attraverso cui vengono esibiti mondi narrativi che invitano l’audience ad
immaginare ed esplorare altri scenari d vita. E proprio come i riti anche i media lubrificano
il mutamento sociale, promuovendo la conoscenza di mondi culturali diversi dal proprio ed
abbattendo le resistenze nei confronti di situazioni, valori e modi d’essere estranei.
I processi di comunicazione sono stati rappresentati attraverso due classi di metafore. La
prima riconduce la comunicazione alla nozione di trasporto di informazioni
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preconfezionate: l’assunto è che i significati della comunicazione siano prodotti in un luogo
esterno a essa, e da qui trasferiti diffusamente nello spazio circostante per esercitarvi
forme di controllo e di influenza.
Horkheimer e Adorno sono stati i primi ad avere usato la definizione di industria culturale
per descrivere il sistema dei mass media. Secondo il loro punto di vista il divertimento che
l’industria culturale propinare ai consumatori è solo un “prolungamento del lavoro sotto il
tardo capitalismo”: la fabbrica capitalista è la struttura dove si producono i significati e i
media sarebbero lo strumento con cui questi vengono trasmessi alla società a fini di
persuasione e di controllo.
La seconda metafora descrive la comunicazione in termini di comunione. I riti non mirano
ad estendere messaggi nello spazio, bensì ad assicurare il mantenimento dell’integrazione
sociale di una cultura nel tempo. I significati della comunicazione non sono recepiti nella
forma in cui vengono prodotti dalla fonte, ma sono il risultato di una correzione
intersoggettiva. Il senso si produce nella comunicazione al punto che la comunicazione è il
senso. Di conseguenza il divertimento è una forma autonoma di “lavoro”, dotata di una
logica peculiare e tale da produrre effetti sulla società e sul lavoro stesso.
Lo spettacolo rituale è un dispositivo escogitato dai sistemi sociali per assicurare una
soluzione incruenta e simbolica dei conflitti interni. Durante le cerimonie rituali, la società
comincia a esercitare il gioco delle regole, e quindi a distanziarsi, a virtualizzare la reale
società, cioè a comprendere che essa non è una struttura necessaria ed immutabile, ma
una delle forme possibili per abitare il mondo. Dalla consapevolezza della contingenza dei
sistemi sociali traggono origine i generi performativi ed espressivi dell’industria culturale
del teatro fino alla realtà virtuale.
1.6 Il teatro
Man mano che i gruppi sociali diventano più grandi e più complessi avvertono la necessità
di istituzionalizzare dei luoghi deputati a comunicare sui modi e le forme delle loro stesse
pratiche comunicative.
Mentre la comunicazione assorbe completamente chi comunica al suo interno, la
metacomunicazione (comunicazione sulla comunicazione) costituisce un sofisticato
dispositivo di riflessività che separa e differenzia il soggetto della comunicazione
dall’azione comunicativa. Ma perché questo sia possibile è indispensabile che l’azione
comunicativa sia esteriorizzata proprio in quanto azione comunicativa.
Questa fase cruciale dell’evoluzione umana è avvenuta in tempi relativamente recenti,
precisamente ad Atene intorno alla fine del VI secolo a.C. in concomitanza con il
perfezionamento di tecnologie cognitive e comunicative complementari e sinergiche: la
scrittura, il teatro e il mercato. (Altri collocano questo passaggio più avanti, quando il
processo di modernizzazione è pienamente realizzato).
Una delle metafore che hanno attraversato nei secoli l’immaginario letterario
dell’Occidente è quella del theatrum mundi, del mondo come palcoscenico teatrale in cui
gli uomini recitano la loro parte davanti agli occhi di Dio.
La rappresentazione teatrale della civiltà greca può essere interpretata come una
tecnologia cognitiva complementare alla scrittura alfabetica, dal momento che entrambe
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sono rese possibili e, dal canto loro, concorrono a rendere una radicale trasformazione
della vita psicologica e sensoriale.
Il teatro greco nasce dall’interazione della memoria orale che si fonda sulla gestualità e sui
ritmi del corpo con la memoria artificiale assicurata dalla scrittura alfabetica.
L’esteriorizzazione della memoria al di fuori del corpo consente loro la possibilità di
disidentificarsi dalle vicende rappresentate e di contenere le reazioni emotive del proprio
corpo. Perché si possa verificare il fenomeno teorizzato da Aristotele della catarsi, ovvero
la purificazione dei fruitori delle passioni oggetto del dramma, è necessario che la
prospettiva dello spettatore sia a sua volta esteriorizzata. Il coro assolve precisamente alla
funzione di rappresentare le reazioni emotive del pubblico di fronte allo spettacolo e
contemporaneamente di caratterizzare la categoria di pubblico in quanto entità oggettiva
proprio perché passionalmente distaccata dalla rappresentazione drammatica.
1.7 Il mare
Dopo la scrittura e il teatro, la terza grande tecnologia cognitiva perfezionata dai Greci e
che sta alla base della comunicazione occidentale è la navigazione.
Il mare in greco è pòntos, ponte fra le terre, mezzo di comunicazione per eccellenza che è
relativizza ogni unidimensionalità. Il mare, infatti, consente di guardare alla terraferma
nativa come un oggetto e quindi di esteriorizzarla come altro da sé.
Navigare è un’attività innaturale che conduce a violare i confini stabiliti, ad unire i popoli
che la divinità ha diviso, a trasgredire i limiti dei bisogni naturali.
Il mare è soprattutto il luogo privilegiato del commercio. Commercio in greco si dice
emrion, luogo nel passaggio e del passaggio, il luogo del rischio, del pericolo costituito dal
viaggio e dall’incontro con lo straniero. Luogo fatidico dell’esplorazione,
dell’apprendimento e dell’esperienza, dunque. Esperienza che il sistema sociale
acquisisce e che precursore di mutamento. Il nesso tra passaggio e commercio, tra
comunicazione e consumo è dunque antichissimo.
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Alcuino di York, animatore della rinascenza carolingia, considerava l’immagine sacra
come uno strumento di pedagogia cristiana.
Le immagini sacre erano “discorsi” da leggere piuttosto che “figure” da fruire. Perché
questa soluzione fosse ritenuta accettabile fu necessario ricorrere alla distinzione
semantica fra “immagini” riproducenti oggetti reali e perciò considerate ammissibili, e
“idoli” fantastici di esseri inesistenti, che andavano censurati e combattuti in quanto non
derivavano da ciò che esiste ma costituivano la materializzazione di “ciò che la mente
oziosa e curiosa ha trovato entro sé stessa”.
Nel 1025 si sancì ufficialmente il principio dell’educazione delle masse di analfabeti
mediante le figure. Le cattedrali sono state definite come delle immense enciclopedie di
pietra.
1.9 Il castello
Così come nel caso delle immagini sacre il problema dei teologi medievali era di utilizzarle
per diffondere il Verbo evitando il pericolo che fossero percepite come fonte di godimento
sensibile, allo stesso modo le forme del territorio erano configurate con l’obiettivo di
distinguere con la massima perspicuità lo spazio sacro dallo spazio secolare, il luogo della
vita interiore da quello dell’esperienza mondana, insomma la verità dall’apparenza.
Sia il castello che la cattedrale medievale esprimono urbanisticamente questo conflitto fra
la sicurezza e l’ordine che regnano nel mondo interno, da una parte, e il caos e i pericoli
che provengono da quello esterno, dall’altra. Sia il castello che la cattedrale possono
essere considerati come il prodotto dell’irriducibile frattura che pensatori cristiani come
Agostino hanno teorizzato fra la città celeste e la città terrena, fra la piazza e il trivio, fra il
sé e il mondo, frattura alla quale risalirebbero la paura moderna di esporsi e la relativa
concezione dell’abitare come rifugio dalla complessità e dai pericoli della vita pubblica.
Il castello entra nel territorio medievale nella duplice funzione di residenza e di
fortificazione. Centro del potere locale e della sicurezza del territorio circostante, esso
rappresenta un microcosmo autosufficiente e a forte struttura gerarchica.
Il dato che bisogna sottolineare è la condivisione del medesimo spazio abitativo tra i
numerosi uomini presenti nel castello e l’unica corteggiatissima castellana. In mancanza di
tale caratteristica non si riuscirebbe a rendere conto adeguatamente di un fenomeno come
l’amor cortese che ha giocato un ruolo importante nello sviluppo delle dinamiche del lusso
e delle prime forme di accumulazione capitalistica.
In questo tipo di società articolata in microuniversi isolati e distanti il bardo, ossia il poeta
itinerante dell’epoca, assolveva in un certo senso la funzione di tessuto connettivo e di
arena pubblica garantita oggi dell'intrattenimento televisivo.
Nato dalla medesima paura di esporsi e dal medesimo atteggiamento di allontanamento
dal mondo che ha prodotto le cattedrali, il castello, attraverso i suoi riti, i suoi valori, e le
sue tradizioni cavalleresche, costituisce tuttavia un’importante cellula propulsiva di
mondanizzazione dell’esistenza umana.
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Prima della fine del XII secolo l’uomo medievale era abituato a vivere la propria esistenza
come un’effimera parentesi terrena in vista del Giudizio universale. Il destino che
comprensibilmente poteva aspettarsi di guadagnare nell’aldilà era o la beatitudine celeste
del Paradiso o la dannazione eterna dell’Inferno.
La divisione della società oltremondana fra bene e male esprime una semantica tipica di
una società a struttura rigorosamente binaria. La società feudale era infatti caratterizzata
da una stratificazione sociale rigida ed essenzialmente dicotomica: da una parte, la classe
dei rentiers, cioè dei proprietari terrieri non lavoratori, dall’altra la massa dei contadini
affittuari obbligati ad una serie di onerose prestazioni feudali.
A partire dal Duecento avviene una significativa trasformazione che testimonia sul piano
simbolico ed immaginario un mutamento profondo della società feudale legato all’ascesa
del “popolo grasso”, ovvero dei ceti borghesi intermedi tra i signori e i contadini.
Nel pensiero teologico e nell’immaginario popolare si comincia a delineare un corpo
complesso di norme, simboli, dottrine e narrazioni che accreditano l’esistenza del
Purgatorio come luogo oltremondano intermedio tra l’Inferno e il Paradiso. Questo vuol
dire che bene e male per la prima volta sono sovrapposti e coabitano in uno stesso luogo.
Il commercio e l’usura sono attività negative per la città di Dio ma insieme positive per
l’economia della città terrena. Dedicarsi è pur sempre un peccato, ma un peccato veniale
redimibile in Purgatorio. In altre parole, il Purgatorio si presta a legittimare ideologicamente
il nascente capitalismo urbano del Duecento.
Il Purgatorio non è solo un luogo intermedio tra i beati e i dannati, ma anche un tempo di
attesa intermedio fra la morte degli individui e il Giudizio finale. Questo tempo di attesa
diventa il centro delle preoccupazioni dei vivi: la vita terrena cessa di essere un episodio
insignificante in rapporto a quella ultraterrena, dal momento che i vivi sanno di poter
influenzare con i loro suffragi le sorti delle anime del Purgatorio.
La paura della morte, cioè di rinunciare a questi valori, tende progressivamente a sostituire
la paura dell’Inferno.
Sia il Purgatorio come anticamera del Paradiso, sia il frontespizio come portale d’accesso
alla lettura, mentre incarnano ritualità e pratiche di contaminazione, esprimono
contemporaneamente anche una forte volontà sociale di governare e controllare dall’altro.
L’arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola, queste tre cose mutarono l’assetto del
mondo tutto.
Fu probabilmente l’invenzione della stampa a carattere mobili ad opera di Johann
Gutenberg che determinò i mutamenti più significativi del mondo moderno a partire dal
1455, anno della pubblicazione della cosiddetta Bibbia a 42 linee. Non furono nuovi
messaggi, dunque, ma un nuovo mezzo di comunicazione a rivoluzionare profondamente
il corso della storia, cambiando i modi di pensare, apprendere ed esprimere dei lettori, e
trasformando radicalmente la natura della memoria collettiva. La scrittura tipografica deve
essere considerata piuttosto un perfezionamento tecnologico dell’immagine che una sua
alternativa funzionale.
Nel comparto della stampa nacquero e si diffusero le prime forme di organizzazione
industriale capitalistica della produzione automatizzata e su vasta scala. Al punto che
proprio l’avvento della stampa può essere considerato l’evento periodizzante che segna
l’inizio dell’epoca moderna. Dall’altra parte, come ha sottolineato McLuhan, i principi della
continuità, dell’uniformità e della ripetibilità derivanti dalla tecnologia della stampa non
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possono non aver giocato un ruolo rilevante nella razionalizzazione delle procedure di
produzione e di vendita, che è alla base del capitalismo.
La stabilità tipografica fu tra le caratteristiche della stampa verosimilmente quella più
densa di conseguenze: fenomeni culturali in precedenza transitori e circoscritti poterono
diventare permanenti e diffusi, una volta che ebbero dato luogo a libri stampati. Quando i
libri cominciarono a essere prodotti in serie, uno fra gli effetti culturali prodotti dalla
standardizzazione fu, per controverso, la dilatata consapevolezza della singolarità e delle
differenze individuali in ogni attività umana. Anche l’idea di autore come genio creatore,
unico responsabile dell’opera e legittimo beneficiario dei proventi della sua
commercializzazione comincia a diffondersi parallelamente all’affermazione del libro come
merce e al consolidarsi delle dimensioni imprenditoriali dell’industria della stampa.
(Copyright Act 1709).
Il culto rinascimentale dell’individuo è dunque connesso all’imprenditorialità dei mercanti
editori del Cinquecento e alla mercificazione della produzione intellettuale.
Della stabilità tipografica è certamente figlia la Riforma luterana. Di eresie dottrinali se ne
contano decine nel Medioevo, eppure nessuna di esse ha potuto contare su un fattore di
diffusione e di cristallizzazione culturale come la stampa.
Quanto alla nascita della scienza moderna, possiamo avere un’idea dei vantaggi connessi
alle modalità di recupero e di raccolta delle informazioni consentite dalla stampa pensando
al ruolo svolto oggi dai computer nella ricerca scientifica. In entrambi i casi la ridefinizione
della divisione del lavoro fra componente umana e componente meccanica ha significato
la riduzione delle attività di routine e l’estensione di quella ideativa e teorica.
Quella che McLuhan ha definito “gabbia tipografica”, cioè la composizione uniforme e
regolare della scrittura, fornisce una rappresentazione visiva della res cogitans, della
razionalità pura ed astratta dalla corporeità empirica dello scrittore. Ciò produce
conseguenze significative sul rapporto e sull’esistenza che l’uomo tipografico intrattiene
con l’alterità: è legittimo ritenere che il sospetto cartesiano che gli altri non siano esseri
pensanti dotati di coscienza ma automi meccanici, sia un effetto di modalità fruitive in cui
l’autore in carne ed ossa si assenta dal pubblico dei lettori per rendersi percepibile soltanto
in forma vicaria e fantasmatica.
La mutazione culturale di grande portata che si verifica con la stampa consiste nella
possibilità che migliaia di persone tra loro sconosciute interagiscono, ciascuna dal proprio
spazio privato, mediante l’accesso comune ad un identico testo, vera e propria “folla
solitaria”.
In altre parole la stampa ristruttura e ridefinisce l’identità di gruppo, al punto che senza la
stampa saranno impensabili sia il senso comune, ovvero il sapere che ciascuno sa che gli
altri hanno, sia l’opinione pubblica, cioè l’organizzazione a fini di interlocuzione politica di
tale sapere condiviso.
L’opinione pubblica può essere considerata una sorta di versione secolarizzata delle
divinità.
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Capitolo II
Spettacolo e metropoli
Le dinamiche di sviluppo che spingono le società occidentali a portare a termine tra il XVIII
e il XIX secolo il loro definitivo processo di modernizzazione sfruttando le risorse della
rivoluzione industriale, della fabbrica e del mercato dipendono da fenomeni che sono
riconducibili al Rinascimento, ai suoi mutamenti della mentalità e della visione del mondo
terreno rispetto a quello celeste.
La trasformazione definitiva dei sistemi di vita tradizionali in società complesse attraversa
quindi un lungo periodo in cui i fattori innovativi agiscono in opposizione ai valori pre
moderni del sacro e delle forme “chiuse” del potere, rigidamente gerarchiche e legate a
privilegi ereditari.
I piaceri della lussuria avrebbero promosso e coltivato le raffinatezze del lusso, e la
domanda di beni di lusso avrebbe a sua volta consegnato un immediato sbocco di
mercato alle prime forme di accumulazione capitalistica.
Tutto comincia nel XII secolo quando vicende immaginarie come quelle dell’amore
adulterio fra Tristano e Isotta testimoniano un evidente fenomeno di secolarizzazione
dell’amore.
Si va affermando una nuova etica per la quale è legittimo l’amore profano, anche
extraconiugale, perché fondato sulla passione autentica ed assoluta verso l’amato. La
passione mondana accende lo splendore degli oggetti e si rivela un potente impulso allo
sviluppo delle pratiche di lusso: il corteggiamento è una forma di relazione tra sessi che
nasce nella corte dei signori, dove le regole della cortesia impongono di dissipare enormi
patrimoni in doni prestigiosi pur di conquistare i favori delle cortigiane.
Il Rinascimento segna, accanto ad un profondo mutamento nella concezione dei rapporti
fra mondo celeste e mondo terreno, anche un forte impulso verso l’autonomizzazione
espressiva del sensibile. La vita terrena non è ormai più considerata come la parentesi
momentanea che precede il giudizio universale, ma la realtà più propria in cui si svolge
l’esistenza degli uomini. Si trasforma di conseguenza anche lo statuto dell’immagine, la cui
funzione principale diventa “produrre il visibile in quanto tale, invece di scriverlo”.
(Esempio: Masaccio autore della Trinità e degli affreschi della Cappella Brancacci).
L’arte sacra, gli affreschi delle chiese e la loro funziona narrativa e illustrativa di tipo
comunitario, è dunque il luogo in cui sin dal Quattrocento i processi di modernizzazione
del Settecento e dell’Ottocento, quando i linguaggi del lusso, delle mode e dei consumi si
fanno pienamente consapevoli e socialmente strutturati.
L’individuo cerca nella vita quotidiana, e non al di là del mondo sensibile, i surrogati di ciò
che le religioni ed i rituali tradizionali non erano più in grado di soddisfare interamente.
Abbiamo visto che il percorso moderno dei rapporti tra comunicazione e consumo inizia
quando la pittura sacra rinascimentale comincia a far regredire sullo sfondo le figure che
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rimandano alla narrazione cristiana e a mettere in primo piano la sontuosità delle vesti e
delle stoffe, la varietà della scena urbana, della ricchezza delle merci.
È la pittura a documentare e interpretare lo sviluppo di dispositivi, i mercanti e le fiere,
fondamentali per comprendere il loro punto di arrivo nell’universo ottocentesco delle merci.
In queste raffigurazioni la scena della piazza-mercato esplode oltre i confini urbani, si
colloca come la festa periodica e pagana, in luoghi di incrocio “fuori le mura”: la tradizione
iconologica (L'iconologia è una branca della storia dell'arte che si occupa di ricercare la
spiegazione delle immagini, dei simboli e delle figure allegoriche dell'arte) sacra si
confronta con uno slittamento dei suoi soggetti verso l’ostentazione delle merci e delle
relazioni, la presenza della folla, la distrazione ora centripeta ora centrifuga dei giochi e
degli spettacoli che sfruttano l’occasione festiva per aggregare pubblico, gli imbonitori e le
maschere che si sostituiscono al ruolo comunicatore di Cristo.
2.3 Il collezionismo
2.4 La festa
14
Nelle società dell’ancien régime l e celebrazioni festive erano eventi quasi mai spontanei,
anzi controllati se non proprio organizzati allo scopo di consolidare sul piano simbolico
l’assetto dei poteri esistenti. Le feste di ancien régime erano concepite come spettacoli in
cui i sudditi erano spettatori e il potere l’unico e assoluto oggetto di esibizione e di
celebrazione.
La fine dell’ancien régime c oincide con una radicale trasformazione del significato della
festa. Gli Illuministi non guardano più alla festa come uno strumento di ostentazione né
tanto meno di conservazione dell’ordine sociale, bensì come una pratica comunicativa
necessaria al rinnovamento dell’immaginario collettivo e alla costruzione di una nuova
società. La festa rivoluzionaria è un mezzo di comunicazione che enfatizza il valore dello
spazio omogeneo contro i particolarismi e i privilegi dell’età pre rivoluzionaria. La festa,
infatti, realizza un atto comunicativo collettivo, che coinvolge un ingente numero di
persone nello stesso tempo e nello stesso spazio consolidando sensibilmente la comunità,
l’essere in comune.
In questo clima si spiega la polemica dei philosophes contro gli spettacoli rappresentati
durante l’ancien régime. Il filosofo Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, esprime una
netta condanna morale del teatro, in quanto istituzione che costringe il pubblico al ruolo
passivo dello spettatore e ne sollecita curiosità morbosa e spirito di pettegolezzo. Secondo
Rousseau gli spettatori devono essere essi stessi gli attori della festa.
La festa dunque, sottratta alle sue conformazioni tradizionali che avevano mediato e
regolato nell’ordine della Chiesa o del principe i contenuti primordiali dei riti pagani di
iniziazione, diventa il prototipo dell’industria dell’immaginario, strumento di propaganda
ante litteram, luogo, nella sua prima rielaborazione illuminista, di educazione civica e di
formazione dell’uomo nuovo.
Agli occhi di un osservatore come il filosofo Immanuel Kant il fatto davvero nuovo della
rivoluzione francese non consiste tanto nello sconvolgimento degli eventi che provocò,
quanto piuttosto nell’inedito clima di partecipazione, emotiva prima ancora che politica,
che essa fu in grado di suscitare anche presso i contemporanei che non vi erano coinvolti
in prima persona. L’autentica novità della rivoluzione francese fu per gli uomini del XVII
secolo la problematizzazione del presente in quanto evento in cui si sentivano parte ed in
rapporto a cui erano chiamati a situarsi. La rivoluzione fu per loro uno spettacolo vissuto,
oggetto di comunicazione ed occasione di costruzione di appartenenze e identità
collettive.
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Con l’avvento della macchina a vapore la cellula del sistema produttivo non fu più soltanto
la famiglia, ma la fabbrica ne assunse il lavoro, il sistema di relazioni e la capacità di
socializzazione.
La macchina a vapore sancì la scomparsa del lavoro a domicilio e rese economica la
concentrazione dei lavoratori in un unico luogo produttivo: era nata la fabbrica.
Nella fabbrica ciascun operaio forniva una prestazione limitata ad una singola fase della
lavorazione del prodotto perdendone di vista il progetto e la logica complessiva. Inoltre,
mentre prima la casa privata era contemporaneamente nucleo abitativo e lavorativo, sede
di funzioni private e pubbliche, gli operai cominciarono a percepire nettamente la
differenza fra tempo trascorso in fabbrica e tempo trascorso in casa, fra tempo del lavoro e
tempo libero.
La macchina a vapore fu la prima grande fonte di energia quasi completamente artificiale
e meta territoriale, nel senso che poteva essere installata ovunque a prescindere dai
condizionamenti dell’ambiente e delle risorse locali.
La rivoluzione industriale non avrebbe potuto assicurare la libera circolazione delle merci
teorizzata da Adam Smith se non fosse stata accompagnata da una imponente rivoluzione
dei trasporti. Fino a quell’epoca il mezzo di locomozione più rapido era il cavallo. Nel 1819
Robert Fulton inventò il primo battello a vapore che attraversò l’Atlantico e nel 1825 si
ebbe la realizzazione del primo tronco ferroviario in Inghilterra ad opera dell’ingegnere
George Stephenson.
L’accelerazione dei trasporti di beni e di persone e la concentrazione delle distanze che ne
derivò non solo agevolarono e potenziare gli scambi commerciali, ma furono strumento di
unificazione politica.
Dobbiamo valutare ancor più l’influenza che i viaggi ferroviari ebbero summa mentalità e
sull’immaginario ottocentesco. Lo sguardo “panoramico” dai finestrini dei treni in corsa
costituì l’esperienza archetipica dello spettacolo delle immagini in movimento realizzato al
cinema.
Nel 1844 Samuel Morse trasmise a scopo dimostrativo un versetto della Bibbia da
Washington a Baltimora servendosi del telegrafo elettrico da lui stesso inventato. Prima
del telegrafo, comunicare era sinonimo di trasportare, dal momento che ogni trasmissione
presupponeva lo spostamento fisico di un messaggero. Con l’avvento del telegrafo
elettrico fu possibile per la prima volta inviare messaggi a distanza in tempo reale e senza
mobilitare intermediari.
Il sistema industriale necessitava di una quantità di investimenti che solo un sistema
creditizio articolato su base internazionale era in grado di movimentare. E affinché tale
sistema funzionasse al meglio era necessario che le operazioni finanziarie avvenissero in
tempi sempre più contratti per battere la concorrenza. Solo su questo tipo di
comunicazione il vecchio sistema dei trasporti e i viaggi di commercio avrebbero potuto
effettivamente svilupparsi e intensificarsi.
Attraverso il telegrafo fu possibile conoscere istantaneamente i prezzi delle merci su
ciascun mercato locale, e fu così che per la prima volta si realizzarono le condizioni di
trasparenza e di razionalità liberiste. Ne conseguì che i prezzi cominciarono a livellarsi ed i
mercati locali furono soppiantati dall’istituzione di un mercato globale.
La società dell’ancien régime era una società a scarsa mobilità verticale, nel senso che
coloro che nascevano in una certa condizione non avevano tendenzialmente nessuna
possibilità di accedere a livelli superiori o di regredire a livelli inferiore. Con la fine
dell’economia di sussistenza il destino degli individui non fu più sentito come statico ed
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inevitabile. Ciascuno poteva legittimamente pensare di raggiungere il successo e la
promozione sociale in virtù delle sue sole capacità personali, a prescindere dalle
appartenenze di nascita e di ceto come da ogni qualità ascritta.
La società di massa del XIX secolo giunge a dotarsi di forme espressive e di
un’organizzazione culturale adeguata al mutato contesto industriale, caratterizzato da un
incremento vertiginoso della produzione e del consumo delle merci. Per fornire a ciascuno,
anche al più umile degli artigiani, l’opportunità di gettare di tanto in tanto “qualche sguardo
avido e furtivo nel mondo superiore dell’intelligenza” è necessaria una rivoluzione
industriale nel sistema della comunicazione e della circolazione culturale, analoga a quella
che ha reso disponibili per tutti merci di ogni genere nel campo dei beni materiali.
La cultura cessa di essere monopolio di un ceto ristretto di intenditori che hanno costruito
la loro raffinata competenza letteraria grazie al privilegio dell’esenzione dalle
preoccupazioni materiali, e comincia invece a diventare una merce da vendere al maggior
numero possibile di acquirenti che dispongono verosimilmente di poco tempo libero per
dedicarvisi. Essa viene così sottoposta ad un trattamento industriale che ne modifica
natura, funzione e formai espressivi.
Nella merce culturale viene valorizzata la quantità a scapito della qualità. Si tratta di una
produzione culturale che non si rivolge ad un pubblico che già esiste e che ha un gusto
ben definito; essa deve creare dal nulla il proprio pubblico, trasformare cioè lavoratori
incolti e illetterati in altrettanti potenziali consumatori di prodotti culturali. Deve inventare
forme espressive capaci di catturare impulsivamente l’attenzione di borghesi solitamente
affaccendati e distratti.
La nascita dei generi di massa si inserisce nel contesto di una riorganizzazione del lavoro
letterario, per cui la produzione del testo viene razionalizzata, standardizzata e fondata
direttamente sui modelli del consumo. Abbiamo detto che in una società democratica l’arte
non è più strumento di esibizione di un contenuto ideale ma mezzo di comunicazione con
il pubblico.
La letteratura di genere accoglie nuovi contenuti e nuovi bisogni proiettandosi già oltre la
dimensione del medium libro. La pagina della scrittura seriale di consumo si popola di
dispositivi che non appartengono alle regole della comunicazione alfabetica, ma a quella
del corpo, del look, della chiacchierata, del tempo libero, del desiderio incontrollato di vita
vissuta.
Il letterato e giornalista Edgar Allan Poe in uno scritto intitolato Filosofia della
composizione (1846) fa riferimento ai formati della fruizione e ad una strategia testuale
consapevolmente mirata al coinvolgimento immaginifico e “nervoso” del lettore/spettatore.
La letteratura di Poe è un’arte che ricerca l’effetto, concepita per incontrare il giusto e per
assecondare i ritmi di un pubblico borghese che ha poco tempo da dedicare alla lettura. Di
qui la preferenza accordata al racconto piuttosto che al romanzo, alla poesia breve
piuttosto che al poema epico. Con Poe l’arte diventa un fatto tecnico e l’autore un
produttore ispirato.
Quanto al contenuto ideologico, la scrittura della società borghese articolata secondo una
rigida separazione tra ricchi e poveri è riflessa tanto nel mondo narrativo di Dickens
quanto nel montaggio parallelo di David Griffith, uno dei grandi personaggi degli albori del
cinema americano, in cui due correnti non convergono mai.
18
Nell’ambito del rapporto tra forme dell’abitare e linguaggi espressivi un discorso a parte
merita il genere poliziesco. Il detective risulta dalla trasformazione della figura dell’uomo
baudelairiano che, aggirandosi nella folla della metropoli, la osserva con distacco e ne
subisce profondamente la fascinazione. Il detective rappresenta la razionalità
scientifico-industriale di fronte alla complessità del vissuto metropolitano.
Il genere fantastico rappresenta invece la traduzione della fiaba nel mondo della metropoli
ottocentesca: con la differenza che, mentre la fiaba è separata dalla realtà, il fantastico
prende spunto e si confonde costantemente con la vita vissuta. Il fantastico, secondo
Todorov, è l’irruzione di un evento inspiegabile in un mondo familiare. Il fantastico è
l’esitazione provata da un essere vivente il quale conosce soltanto le leggi naturali, di
fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale.
Allo sviluppo del sistema industriale durante tutto il XIX secolo sono associati processi di
riduzione del tempo di lavoro e di aumento dei salari, che alimentano la domanda di beni
di consumo legati al tempo libero. In questa condizione sorgono le prime grandi case
editrici all’estero e in Italia. In Italia il processo di industrializzazione dell’editoria libraria si
è sviluppato fra molte difficoltà.
L’oggettiva ristrettezza del mercato era aggravata, secondo Antonio Gramsci, dalla storica
incapacità delle élite intellettuali italiane di esercitare una funzione nazional-popolare e di
interpretare i gusti e bisogni dei lettori. La conseguenza di questa situazione era che il
pubblico italiano non solo leggeva poco in rapporto a quello degli altri paesi europei, ma
per giunta preferiva indirizzarsi sugli scrittori stranieri.
La scoperta più importante dell’economia capitalistica è stata quella del mercato di massa,
in cui la vendita a prezzi contenuti di merci standardizzate e prodotte a macchina con
bassi margini di profitto risulta più remunerativa delle vendite limitate di beni di alta qualità
con profitti alti. Nell’economia capitalistica i bisogni sono sollecitati al di là delle risorse di
cui si dispone, cosicché ciascuno preferisce soddisfarli in modo incompleto ed
immaginario piuttosto che rinunciarvi del tutto. A queste nuove pulsioni del desiderio
devono il loro successo i prodotti dell’industria culturale.
Se con il Romanticismo l’attore sociale tende a evadere nel ruolo di spettatore estetico,
l’industria culturale di massa, che si alimenta di molti motivi e sostanze immaginarie tipiche
del repertorio romantico, si fa strumento di una sorta di ribaltamento, cioè rimette in gioco
le forme dello spettacolo non come assenza ma presenza consolante, facendone un
segmento produttivo all’interno del sistema sociale. Secondo Hauser la sospensione
dell’incredulità, l’illusione inconscia e lo stordimento dei sensi che provano gli spettatori dei
film sono effetti che risalgono all’arte romantica.
A cavallo tra i secoli XVIII e XIX gli autori cessano di essere prestatori di opere intellettuali
al servizio delle corti aristocratiche. Con la dissoluzione dell’ancien régime v iene elaborato
sul piano ideologico il concetto romantico di autore in quanto soggetto autonomo di
creazione. L’autore, mentre si libera da vincoli personali non sempre graditi, subisce un
processo di proletarizzazione diventandone un semplice produttore, assoggettato come
tutti alle regole del mercato. Da prestazioni personali il prodotto letterario diventa merce
impersonale, il cui valore è funzione della richiesta sul mercato libero.
Il pubblico dei lettori si è ampliato e l’autore non ha più conoscenza diretta ed immediata
con il suo lettore. Con la nascita degli apparati della grande distribuzione editoriale di
massa si afferma la figura del critico letterario di professione. L’intellettuale diventa
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operatore culturale, un professionista stabile e regolare, non più o non solo intento
all’elaborazione di grandi opere ma stipendiato da case editrici per attività di consulenza,
traduzione e correzione di bozze. A partire da questo momento la storia dei processi
culturali e delle forme estetiche non sarà più storia degli autori, ma degli apparati, della
distribuzione e del pubblico.
L’industrializzazione della cultura tra Sette e Ottocento comporta che le produzioni di
merci come romanzi, riviste e giornali risultino dalla collaborazione di più lavoratori
intellettuali, ciascuno con una competenza specifica e settoriale. Tale innovazione nelle
modalità organizzative del lavoro intellettuale sarà intensamente impiegata nel cinema e
nella televisione con modelli analoghi alla produzione seriale della fabbrica.
Nel XIX secolo il dilettantismo si rivelava come una delle strade attraverso cui la fruizione
estetica si avvia a diventare vero e proprio consumo produttivo. Un diverso percorso
estetico, che tuttavia porta al medesimo risultato di enfatizzare la soggettività del fruitore, è
la poetica del sublime.
Cominciava a profilarsi con chiarezza la funzione mediale dell’opera d’arte, non più
oggetto di contemplazione metafisica ma strumento di comunicazione umana.
In questo contesto un discorso particolare va fatto per le immagini delle rovine, la cui
moda si era andata particolarmente diffondendo a partire dal neoclassicismo
settecentesco. Il concetto di rovina è una costruzione sociale da cui dipende la
trasformazione del territorio vissuto in territorio fruito, dall’ambiente dove si abita, nella
scenografia che si ammira. Da questo punto di vista il dispositivo simbolico che produce la
rovina in quanto bene di consumo può essere considerato come una sorta di anticamera
della civiltà dello spettacolo. Ma c’è un’altra ragione per annoverare le rovine tra le
seduzioni visive che alimenteranno il repertorio dell’industria culturale. Secondo il
sociologo Georg Simmel il significato estetico delle rovine consiste nella esibizione, ma
anche nella pacificazione, del conflitto fra l’opera formatrice dell’uomo e l’azione erosiva
della natura.
L’immagine di antichi edifici trasformati in rovine decadenti entra di diritto nelle
manifestazioni sette-ottocentesche del sublime, dal momento che testimonia della rivincita
che la natura onnipotente si prende rispetto allo spirito dell’uomo che ha voluto imprimere
le sue forme nell’ambiente. I ruderi, cosi come il collezionismo, non risultano solo immagini
del passato e neppure una congelata visione del presente, ma già funzionano come
moderne attrezzature tecnologiche dell’immaginario fondate sulla forma del consumo:
dispositivi ludici che usano pezzi di memoria.
Capitolo III
Poteri: massa e merci
Secondo Hegel l’arte non è tanto diletto dei sensi quanto organo di conoscenza del vero,
“intuizione sensibile dell’idea” che si realizza attraverso l’armonia perfetta tra apparenza
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sensibile e realtà spirituale, forma particolare e contenuto universale. Questa armonia
perfetta è il correlato sul piano del linguaggio espressivo di un’altrettanta perfetta
comprensione e identificazione tra l’artista e la sua comunità, tra l’opera e il suo pubblico
sul piano della pratica sociale dell’arte. Questa è per Hegel la sola arte autentica,
storicamente identificabile con la forma d’arte classica.
La qualità dell’arte dipende dal livello di adeguatezza della forma rispetto all’idea. Sulla
base di questo criterio Hegel distingue tre grandi epoche nella storia dell’arte:
-La prima è quella dell’arte simbolica (per esempio quella egizia) in cui l’idea è ancora
tanto astratta e indeterminata che la forma è incapace di rappresentarla se non nel modo
imperfetto e allusivo del simbolo.
-L’arte classica è invece espressione immediata dell’idea in una forma ad essa adeguata.
-Infine l’arte romantica esprime un insanabile dissidio fra l’io e il mondo, fra le forme
estetiche e l’esperienza sociale. È secondo Hegel il momento di una crisi storica: la morte
dell’arte. Tendenza alla degradazione dell’arte sia nei contenuti tematici che nei materiali
compositivi.
Il fatto sociologico nuovo che si può cogliere attraverso la riflessione hegeliana è l’avvento
di un pubblico esteso ben oltre il complesso medio ed altoborghese. Un pubblico allargato
alla massa dei proletariati, portatori di esigenze sociali ed espressive alquanto “degradate”
rispetto ai modelli formali che l’Antico aveva trasmesso al Moderno.
Il luogo che va assorbendo le pratiche espressive e comunicative della tradizione
preindustriale è il pubblico della massa metropolitana, un’inedita entità collettiva figlia
dell’organizzazione industriale e dell’incremento demografico che essa provoca. La massa
viene percepita come una forma di una vita inferiore in quanto non “si fonda sulla
personalità dei suoi membri, ma solo su quelle parti che accomunano l’uno a tutti gli altri
ed equivalgono alle forme più primitive e infime dell’evoluzione organica.”
Per Gustave Le Bon vale l’equazione tra folla e criminalità, nella convinzione che ciò che
accomuna gli individui di una folla sono i loro istinti più regressivi e violenti. Le Bon
definisce pessimisticamente l’età moderna come l’“epoca delle folle” in cui la coscienza
chiara e distinta dell’individuo è minacciata dalla brutale irrazionalità della folla.
Gabriel Tarde un sociologo contemporaneo a Le Bon, considera, invece, l’epoca moderna
come “l’era del pubblico o dei pubblici”, nella quale la folla indifferenziata, grazie ai
linguaggi della riproducibilità tecnica, si sarebbe potuta aggregare in una “comunità
puramente spirituale (fatta) di individui fisicamente separati”, capace di scelte ponderate e
di una prassi razionale e tollerante.
L’Ottocento segna il definitivo sopravvento del mercato autoregolato sui residui sistemi di
protezione della società tradizionale. Il fulcro delle attività economiche si è spostato nelle
città, che cominciano ad esercitare un forte richiamo per le masse di disoccupati residenti
nelle zone rurali. Accanto a fenomeni di degrado urbano e di criminalità la massiccia
irruzione di nuovi ceti nello spazio della metropoli determina una forte differenziazione
della società e di conseguenza sollecita nuovi bisogni comunicativi.
In una società che si va facendo sempre più complessa le interazioni faccia a faccia degli
attori sociali non bastano più a garantire la visibilità dei soggetti ed il controllo del mondo.
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Ciascun individuo si trova coinvolto nel corso di una giornata in numerosi ruoli sociali.
Educazione, lavoro, famiglia e divertimento cominciano a costituire province di significato
autonome ed incomunicabili, dando luogo, secondo Durkheim, ad una situazione ad alto
rischio di anomia e di ingovernabilità.
La relazione comunicativa dal vivo non ha più la capacità di farsi carico dei compiti e delle
funzioni della socializzazione. Ne consegue che il ricorso all’immagine, ossia ad una forma
di comunicazione mediata ed artificiale, appare come il più naturale tentativo di restituire
coesione ad un mondo che, differenziandosi, è diventato opaco ed inquietante.
All’immagine si richiede di funzionare come punto di unione fra mercato e consumo, fra
pubblico e privato, fra il mondo della necessità sistemica e lo spazio della scelta
individuale.
L’immagine spettacolare traduce il sacro nella dimensione mondana della modernità
dando corpo ad una nuova mitologia che compensa il disincantamento del mondo e
surroga valori di cui l’uomo moderno sente la mancanza e prova nostalgia.
La metropoli moderna è stata definita come un “bazar archeologico”, ovvero uno spazio in
cui il tempo veloce delle innovazioni tecnologiche tende a decontestualizzare gli oggetti e i
monumenti ereditati dal passato producendo frammenti che non fanno in tempo a
sedimentarsi nella memoria e nella coscienza degli uomini.
A partire dal Rinascimento si registra una netta differenziazione concettuale tra produzione
di oggetti artistici e produzione di oggetti di uno comune. Tale differenziazione semantica,
che definisce l’arte come attività umana deputata a creare un’opera di bellezza, è la spia di
una serie di mutamenti avvenuti nella condizione sociale dell’artista e nel suo rapporto con
la committenza. Prima del rinascimento gli artisti operavano per lo più collettivamente
associati in una corporazione. La figura di artista che agisce in proprio ed è dotato di
personalità individuale ed autonomia espressiva tende ad affermarsi a partire dal XIV e XV
secolo in Italia, dove le numerose corti signorili alimentano una forte domanda di beni
d’arte per motivi che oggi denomineremo di immagine. Alla specializzazione estetica
dell’artista fa riscontro parallelamente la specializzazione tecnica dell’artigiano, e questa
divaricazione fra tecnica artistica e tecnica produttiva si accentua ulteriormente nel XVIII
secolo quando il lavoro artigianale comincia ad essere rimpiazzato dal lavoro industriale.
Questa acquisizione teorica costituì lo sfondo entro cui si legittimò l’affermazione dell’art
nouveau, movimento artistico francese che, in polemica con le correnti classicistiche del
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secolo XIX, mirava ad allestire un repertorio stilistico innovativo senza alcun riferimento ad
epoche precedenti e soprattutto a qualificare esteticamente gli oggetti di uso quotidiano.
L’art nouveau non si rivolge più semplicemente al pubblico dell’arte quanto piuttosto al
pubblico in quanto tale, al pubblico dei consumatori di merci, di utensili pratici e funzionali.
Nasceva il design moderno.
La società di massa ha bisogno di opinion leader. I suoi flussi di consumo hanno bisogno
di essere orientati da avanguardie, segnalazione luminose e seduttive.
I dispositivi di cui l’Ottocento si era servito per propagare e rendere visibili le merci sono
l’evoluzione spettacolare del negozio e delle sue forme di relazione con il consumatore.
Vetrine, grandi magazzini, grand hotel non sono soltanto l’ovvio scenario di narrazioni che
abitano la modernità, ma parti sostanziali del senso del racconto e spesso anzi l’entità
effettivamente protagonista, il vero soggetto del film. La macchina da presa mette in scena
corpi che non avrebbero natura espressiva se non appartenessero a questi spazi, se
questi spazi non avessero corpo.
Centro di raccolta e diffusione di modelli di vita, il grand hotel si fa emblema della
macchina metropolitana, modello aristocratico di una sorta di industria dell’abitare
provvisorio e sradicato, che, per quanto esclusivo, funge da universo rivelatore dello spirito
del tempo.
Molto più provvisoria e disomogenea la comunità ed anzi il flusso che popola i grandi
magazzini, in cui il consumatore ottocentesco può trovare il mondo degli oggetti, dal più
minuto attrezzo al più grande prodotto della civiltà industriale. È il contrario del museo:
accoglie le creazioni del presente e vende ciò che contiene. Eppure espone le mercanzie
secondo un paradigma abbastanza simile. Il grande magazzino offre al pubblico la visione
della contemporaneità grazie all’esposizione scenica, all’accumulo ostentato, alla
mappatura di tutto quello che serve, di tutto quello che si desidera. Il suo accesso è libero:
a stabilire la selezione dei pubblici che vi transitano sono i prezzi dei prodotti in vendita, i
loro contesti di appartenenza, il loro gusto. Un popolo di commessi fa funzionare
l’apparato.
La sensazione che quasi tutti i frequentatori dei primi grandi magazzini ci hanno trasmesso
era come di avere grazie ad essi il mondo a portata di mano. Nasce però una nuova
malattia, la cleptomania.
La data di nascita di questi grandi apparati di distribuzione e consumo viene generalmente
indicata nel 1852, quando Aristide Boucicaut aprì a Parigi il Bon Marché.
I negozi tradizionali facevano vedere la merce esponendola fuori dell’ingresso. Poi poco a
poco emerge un uso sempre più mirato della vetrina come informazione ma anche
trasparenza seduttiva. Nell’Ottocento le metropoli sono isolate rispetto al mondo. Ecco
allora che la stampa svolge il suo ruolo di comunicazione e di rappresentazione, di messa
in scesa, simulando gli accessi al negozio e realizzando forme di commercio per
corrispondenza. I cataloghi dei grandi magazzini compensarono grandi e piccole distanze.
A fornire le immagini della merce è il disegno, ma la dimensione comunicativa di questi
cataloghi ci spiega le ragioni sociali e culturali della fotografia, il suo incrociarsi con
l’imperfezione della pittura come copia della realtà, il suo diventare lo sguardo veritiero
sulle cose e sulle loro relazioni.
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Capitolo IV
Le forme della metropoli
La storia dell’industria culturale moderna nasce come storia del corpo metropolitano, si
sviluppa nella storia del corpo cinematografico e si conclude nel pieno avvento della storia
televisiva, a sua volta dando luogo a un altro ciclo. Ciascuna di queste fasi esibisce
tensioni interne verso quella successiva, l’anticipa forzando sino all’estremo i materiali di
cui dispone.
Il cinema nasce alla fine dell’Ottocento, ma la forma cinema si era andata facendo
necessità espressiva già molti anni prima della sua effettiva nascita.
Cinematografo è la parola di derivazione greca il cui significato letterale è “scrittura del
movimento”. Ciò significa che rispetto alla posa ottenuta attraverso la ricerca di forme
immobili ed estreme, il cinema valorizza la temporalità mondana ed effimera dell’istante
“qualsiasi”.
Secondo il sociologo Georg Simmel il carattere specifico della condizione moderna risiede
nel movimento, nella ricerca e nell’impossibilità tragica di approdare ad una forma
compiuta e definita. Questa perenne ed inquieta mobilità della vita interiore è evidente ad
esempio nella scultura di un artista come Auguste Rodin. La scultura di Rodin non si è
limitata ad estendere la sfera dei contenuti rappresentabili a situazioni ed ambiti di vita
considerati esteticamente poco significativi (ad esempio il lavoro e la vita quotidiana),
bensì ha modificato la forma stessa del rappresentare.
Le pagine di Simmel che analizzando la scultura di Rodin preannunciano l’espressività
cinematografica vanno confrontate con le riflessioni che il critico letterario Gyorgy Lukàcs
dedica all’estetica del cinema e al suo rapporto con il teatro. Mentre il teatro è “presente
assoluto” che vive nella dimensione dell’hic et nunc m a “si cristallizza e diventa eterno”, il
cinema invece è l’”assenza di questo presente” e la sua temporalità è “movimento in sé,
eterna modificazione, incessante evolversi delle cose”. Ma c’è una fondamentale
differenza tra le posizioni di Simmel e di Lukàcs: per Simmel uno “specchio più mosso” è
uno specchio più vero, invece per Lukàcs il cinema si avvicina all’esperienza della favola e
del sogno dove “tutto è possibile”. Per Simmel il cinema è strumento di presa della realtà
in un mondo che è diventato favola, per Lukàcs è soltanto intrattenimento fantastico,
evasione.
La crisi dei linguaggi estetici tradizionali, la loro tendenziale perdita di forma e di cornice,
esprima tensioni analoghe a quelle sostanze profonde e diffuse che hanno prodotto
l’avvento del cinema. Per dare il senso di questa crisi possiamo far riferimento al romanzo
di Balzac Il capolavoro sconosciuto (1832), che ha per tema il rapporto fra arte e vita. La
vicenda narrata da Balzac è emblematica della crisi dell’artista moderno che non riesce
più a comunicare con il pubblico né a rendere visibile con gli strumenti espressivi che ha a
disposizione della realtà della vita.
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A Simmel sembrava che la musica, “la più mossa fra tutte le arti”, fosse la forma estetica
moderna per antonomasia.
Nella tensione romantica verso un linguaggio della parola simile alla resa sublimata del
linguaggio musicale, l’artista romantico immagina un teatro in cui il corpo dell’attore possa
essere liberato da ogni concreta identità e appartenenza (a sé stesso o al pubblico) e, così
alienato, consegnarsi dunque (come fosse creta da plasmare) all’intensione scenica,
intensione pre-scritta e pre-vista dall’autore. È Lukàcs a suggerire il rapporto di continuità
che esiste fra il teatro romantico e il linguaggio cinematografico: “nel cinema potrebbe
trovare realizzazione tutto ciò che il romanticismo chiese invano al teatro: la più spinta e
sfrenata dinamicità delle forme, la completa animazione e vitalizzazione”.
L’idea di un attore tanto passivo da rendere possibile una formalizzazione integrale della
scena secondo tempi e misure prestabilite, riconduce al modello della fabbrica fordista e
all’idea di una società eterodiretta, in cui gli attori sociali si fanno strumenti duttili nel
sistema produttivo e dei suoi linguaggi. Ma al contempo, proprio l’esito dell’astrazione del
corpo dal vivo nel corpo cinematografico operata da Hollywood mostra quanto la figura
fantasmatica che ne deriva, appunto il divo, non potrebbe esistere se non come
incarnazione del pubblico e dunque espressione di un suo desiderio di rappresentazione
interiore che contratta ritualmente la propria esistenza con le forme di potere che lo
governano socialmente.
Sennett ricorda la presenza della Regina Vittoria come testimonia della grande
esposizione universale londinese del 1851 e come ritratto di “madre” nell’interno
domestico degli inglesi.
Il circo è uno degli apparati ottocenteschi che meglio definiscono la produttività simbolica
degli spaesamenti metropolitani. Il primo circo equestre stabile viene realizzato a Londra
nel 1770. Il circo si afferma essenzialmente come apparato mobile, transumante, destinato
a organizzare nei modi seriali dell’industria dello spettacolo il gusto cittadino per l’esotico e
per l’estremo, per la paura della morte e per la messa a rischio del corpo. Gli ingressi del
circo nello spazio metropolitano erano l’annuncio di quanto il progresso delle tecnologie
aveva rimosso: la natura selvaggia delle bestie feroci, le fascinazioni dei costumi orientali,
la forza del corpo, le forme mostruose della vita.
Molto celebre fu il circo allestito nel 1871 dall’impresario Phineas Taylor Barnum che fu
definito lo “Shakespeare della trovata pubblicitaria” per aver saputo trasformare il circo in
uno spettacolo di massa attraverso il gusto del colossale e del mostruoso. A lui si deve
l’invenzione del side-show (spettacolo annesso), uno spettacolo in cui sotto un tendone
separato si esibivano creature mostruose (freaks) , come coppie di fratelli siamesi.
La strategia dei numeri di attrazione che si ricompongono in un contenitore ma offrono
consumi differenziati caratterizzò anche le forme della messa in scena teatrale, in cui l’uso
di affiancare il formato comico al formato tragico aveva già una lunga tradizione. La
grande diffusione dei circuiti teatrali di programmazione miste è un fenomeno
tipologicamente ottocentesco.
Il varietà fu una forma di spettacolo articolata in canzonette, numeri d’acrobazia e atti
comici, che svolse un ruolo importante nel rinnovamento del teatro dal momento che,
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come scrisse un critico dell’epoca, “in nessun luogo, come là, l’immagine della vita
moderna appare più completa nella sua molteplicità”.
Anche il teatro lirico, fondato su funzioni di socializzazione dell’identità nazionale, tende
progressivamente a trasformarsi. È significativa la teoria wagneriana che intese l’opera
lirica come sintesi di tutte le arti e quindi come esperienza globale dei sensi, linguaggio
universale, di cui, non a caso, si ricorderanno alcuni teorici del cinema per il quale la
settima arte realizzava la rappresentazione totale dell’anima e del corpo. Richard Wagner
concepiva l’avvento dell’“opera d’arte totale” come la soluzione espressiva più idonea a
superare la separazione romantica tra artista geniale e pubblico degradato. Era questa la
via che avrebbe condotto ad istituire forme di comunicazione estetica nazionali e popolari.
Comprendere in una sola dimensione spazio-temporale, sia esteticamente che
sensorialmente, l’eterogeneità del pubblico e la complessità del mondo nell’unicità totale
dell’opera d’arte fu l’essenza del progetto di dramma wagneriano.
L’Ottocento, soprattutto nella sua seconda metà, aveva dunque costruito una rete
territoriale di consumi spettacolari estremamente complessa e interconnessa. Il teatro
borghese slittava nelle forme del teatro popolare; la musica classica in quelle della musica
di intrattenimento; la musica lirica in quelle del varietà e dell’operetta.
Quando nascerà il cinema, le sue prestazioni spettacolari verranno inizialmente recepite
come un numero di attrazione che si allineava agli altri e poteva quindi essere incorporato
nei luoghi della festa, nelle fiere ed esposizioni, nel teatro di varietà. Ma ben presto il
linguaggio filmico avrà una capacità di attrazione superiore e i circuiti teatrali verranno
progressivamente trasformati in sale cinematografiche.
Nello spazio “sospeso” delle sale cinematografiche ritroveremo, come attratte da un
vortice, le forme espressive che nell’Ottocento avevano fatto da contenuto e cornice alla
spettacolarizzazione dell’intrattenimento e alla festivizzazione del tempo libero. Oltre che
per l’immagine filmica il cinema è una novità in quanto rappresenta la forma spaziale di un
nuovo modo di stare in società, uno spazio atopico, un non-luogo dove si realizza una
comunità provvisoria tra diversità sociali e culturali, tra alfabetizzati e analfabeti, tra
cittadini e stranieri.
4.4 La stampa
1833 pubblicazione negli USA del quotidiano “New York Sun”. È il primo giornale che
riesce a raggiungere una grande tiratura, per l’effetto contaminatore del modesto prezzo di
vendita (un penny, da cui viene la definizione penny press) e del livello facile e popolare
degli articoli pubblicati. Altro anno fondamentale per lo sviluppo del giornalismo moderno è
il 1886, quando viene brevettata la linotype, macchina che accelera i tempi della
composizione tipografica assicurando maggiore tempestività alla diffusione delle
informazioni. Nel XIX secolo comincia una nuova era del giornalismo.
La funzione principale del quotidiano non è più quella di assicurare all’opinione pubblica
uno strumento di controllo e di precisione sul potere politico, come la stampa fino a tutto il
XVIII secolo, ma di reperire, costruire e diffondere notizie, per lo più di cronaca e con uno
stile sensazionalistico. In questo modo il giornale cessa di essere esclusivamente organo
della competizione politica, sorta di quarto potere, per diventare un’impresa che produce
informazione e che opera in una dimensione di mercato.
27
In America sin dall’inizio chiunque può fondare un giornale senza doversi procurare
licenze o autorizzazioni governative. Spesso si tratta di piccoli giornali locali che vivono
esclusivamente di introiti pubblicitari. Perciò mirano a raggiungere il più largo numero di
lettori possibile a prescindere dalle divisioni culturali o di partito.
L’incredibile proliferazione di quotidiani spiega una delle caratteristiche peculiari della
stampa di massa, ovvero la sua incapacità di mobilitare grandi correnti di opinioni intorno a
questioni civili o politiche. Il fatto è che “le opinioni personali espresse dai giornalisti non
hanno alcun peso agli occhi dei lettori. Quello che essi cercano in un giornale è la
conoscenza dei fatti: e non è alterando o snaturando questi fatti che il giornalista può
ottenere qualche influenza”.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con variazioni, il modello della penny press
americana si afferma anche nel vecchio continente. Lo accolgono dovunque allarmate
deplorazioni che accusano la stampa popolare di banalizzare e di imbarbarire il confronto
politico attraverso la pubblicazione di notizie tese sollecitare le curiosità più estrinseche e
superficiali dei lettori. Ma non mancò già da allora chi sottolineava che la stampa di massa
contribuisce a rendere più accessibile e quindi a democratizzare la politica, avvicinandola
ai bisogni e agli interessi della gente comune.
Si trattò, come di vede, di una polemica che accompagna tutta la storia delle
comunicazioni di massa fin quasi ai nostri giorni e che trova la sua ragione di essere nel
fatto che qualità e quantità sono sentiti come valori opposti, inconciliabili, reciprocamente
esclusivi.
In altre parole, l’avvento della stampa di massa spinge a riconoscere che in regime di
pluralismo le opinioni non si confrontano le une con le altre in uno scambio e in un dibattito
di natura dialettica, razionale e costruttiva. Le opinioni tendono invece a permanere
identiche a sé stesse, tra loro reciprocamente indifferenti ed incommensurabili, quasi
fossero espressione di preferenze personali piuttosto che di argomentazioni razionali.
Direttamente connessa a questa polemica è la questione relativa al fatto che in queste
situazioni non si pone più il problema di garantire l’accesso alle informazioni, ma al
contrario quello di limitare, selezionare e difendersi dall’eccesso di informazioni dalla
ridondanza, dall’entropia che tale eccesso comporta.
28
Doré invece viene dall’esercizio accademico. Si assunse un compito straordinario: la
traduzione al presente metropolitano di tutto l’immaginario letterario prodotto dal mondo
civile. Doré illustrò la Divina Commedia, Poe la Bibbia. Il prodotto del suo lavoro fu, sul
piano della stampa, quello che le grandi esposizioni universali furono come costruzione di
un territorio immaginario, risultato dalla contaminazione e integrazione di stili, forme,
narrazioni, di corpi sradicati dai loro contesti originari; strappate ai soggetti, ai tempi e ai
luoghi che li avevano prodotti.
Le copertine dei libri fanno da richiamo e da anticipazione, da veduta d’insieme, da
riassunto. L’immagine disegnata fa da tessuto connettivo di linguaggi e di luoghi di
consumo diversi. L’illustratore è una sorta di regista: mette in scena le forme che possono
attrarre lo spettatore; traduce nello spazio dei suoi sguardi ogni spazio espressivo.
L’immagine ha dunque iniziato la sua fortunata funzione pubblicitaria. Sono l’anticipazione
degli spot televisivi in un territorio che ancora coincide con quello fisico della metropoli. E
sono anche al punto di congiunzione tra le arti che si commercializzano e il commercio
che si estetizza.
Il pittore della vita mondana è Baudelaire colui che mira ad “estrarre l’esterno dal
transitorio”, progetto che si traduce nel declinare le forme estetiche verso gli aspetti
effimeri del sociale.
Vi è un nesso intricato tra impressionismo e civiltà metropolitana. La pittura impressionista
è apparsa a Walter Benjamin una delle forme d’arte che meglio ha saputo interpretar ed
esprimere sul piano percettivo l’esperienza della vita nella metropoli, caratterizzata
abitualmente dallo spettacolo di un’indistinta folla in movimento: “la tecnica della pittura
impressionistica, che ricavava l’immagine dal caos delle macchie di colore, sarebbe quindi
un riflesso di esperienze divenute familiari all’occhio dell’abitante di una grande città”.
Un gran numero di stampe, caricature e fotografie documenta ciò che, a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento, esplode nel rapporto tra esposizioni e pubblico, innovazione
e gusto, nei mercati dell’arte, segmento non irrilevante di una società dello spettacolo che
marcia verso l’immagine pubblica del cinema e del consumo collettivo: “ Manet fu il
protagonista indiscusso del Salon des Refusés del 1863, il suo Déjeuner sur l’herbe
suscitò l’ammirazione di pochi ma soprattutto l’ilarità di molti”. L’inserimento del nudo, che
veniva considerato un genere a sé, in un certo contesto moderno scioccò i contemporanei.
L’animazione dell’illustrazione genera in particolare due linguaggi di grande efficacia per
l’industria culturale del Novecento: il fumetto e il cartone animato. Due apparati espressivi
che attraverso l’industria avviata da Walt Disney dominano ancora il presente ed anzi
annunciano il loro ingresso nella dimensione della grafica computerizzata.
Così come il libro ottocentesco aveva aperto le sue pagine scritte all’illustrazione, anche i
quotidiani vivono un processo di contaminazione della lettura con il fumetto.
Il fumetto si chiama così per sineddoche, figura retorica che indica la definizione del tutto
tramite una parte. Ed infatti “fumetto” è propriamente la nuvoletta di fumo che contiene la
parola, il balloon. Negli Stati Uniti, invece, il fumetto viene definito comics in riferimento al
fatto che le prime storie a fumetti sono tutte di contenuto umoristico.
Si può dire che i fumetti siano nati da una costola del quotidiano, sul finire dell’Ottocento i
quotidiani avevano tentato di incrementare la tiratura della domenica pubblicando la
riproduzione di famose opere d’arte, ma l’iniziativa non aveva dato risultati soddisfacenti. Il
primo fumetto, il celebre Yellow Kid disegnato da Richard Felton Outcault, nacque nel
29
1896 come supplemento domenicale del “New York World”. Riscosse subito un enorme
successo riuscendo ad affermarsi come linguaggio di massa e ad intercettare il pubblico
dei numerosi lavoratori di recente immigrazione che a malapena intendevano qualche
parola di inglese.
Il fumetto corrisponde ad un periodo in cui si va consolidando l’affermazione della società
dell’immagine, la parola si fa immagine e l’immagine prende la parola per soddisfare i
bisogni comunicativi di un pubblico eterogeneo e semianalfabeta.
Il fumetto si sviluppa particolarmente negli Stati Uniti. In Europa, invece, le “nuvolette”
tardano ad affermarsi e per lungo tempo si continuano a mantenere separati testi ed
immagini. Il primo giornale italiano di fumetti è il “Corriere dei piccoli” pubblicato nel 1908
come supplemento del “Corriere della Sera”, e che per molto tempo i personaggi e le
storie che vi sono raccontati sono adattamenti sa serie americane.
Il fumetto è un mezzo di comunicazione di massa dotato di una specifica ed articolata
gamma di possibilità semantiche ed espressive: per limitarci a qualche esempio, è noto
che il balloon può essere indirizzato con una freccia verso un personaggio e allora ne
indica le parole, oppure può essere accompagnato da bollicine nel caso che ne esprima il
pensiero.
È un tipo di testo di facile ed immediata leggibilità, ma tale da sollecitare continuamente la
cooperazione e l’intervento del lettore. Il fumetto educa e prepara i lettori alla sintassi
percettiva e cognitiva del neonato spettacolo cinematografico (e viceversa).
Il cartone animato è un genere espressivo che si sviluppa all’interno del cinema
d’animazione, il quale si distingue dal cinema fotografico “dal vero” in quanto “prescinde
sia dalla riproduzione meccanica della realtà fenomenica sia, in casi estremi, dalla stessa
macchina da presa”. Rispetto al cinema fotografico, che si avvale di un lavoro di équipe di
tipo industriale, quello d’animazione ha una dimensione artigianale in quanto può essere
realizzato anche da un singolo e mediante una strumentazione povera.
Il primo cartone animato vero e proprio è considerato il breve film del francese Emile Cohl
Fantasmagoria, del 1908. Ma la definitiva consacrazione del cartone animato come
spettacolo di largo consumo arriva con la produzione di Walt Disney che coincide con
l’avvento del sonoro: Mickey Mouse che nasce nel 1926 diventa presto un successo
mondiale. Sempre a Walt Disney si deve negli anni Trenta la produzione dei primi
lungometraggi a cartoni animati tra cui il celebre Biancaneve e i sette nani. Di fatto, in
questo periodo il cartone animato gioca un ruolo di primo piano nello spettacolo
cinematografico e funziona talora come luogo di elaborazione e di sperimentazione di
innovazioni e tecnologiche: basti pensare che Fantasia di Disney del 1941 è il primo con
colonna sonora stereofonica.
I disegni animati di Disney esprimono negli anni Trenta una tensione immaginaria verso
l’elasticità dinamica e la plasmabilità infinita delle forme, quasi per reazione compensatoria
ai caratteri di standardizzazione e di meccanizzazione che in quegli anni vanno
consolidandosi nella società americana. Anche la tendenza all’antropomorfizzazione degli
animali e all’animazione della natura va letta come un indicatore della sensibilità critica
che l’industria culturale elabora e diffonde circa i processi di disumanizzazione che
investono le relazioni sociali. “I film della Disney sono una rivolta contro suddivisioni e
legislazioni. È un sogno ad occhi aperti. Senza frutti e senza conseguenze. Sono “sogni
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d’oro” dove vi rifugiate, come altri mondi dove tutto è diverso, dove siete liberi da ogni
catena, dove potete girare e fare il pagliaccio”.
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energie umane e non solo carbone. E tuttavia il transatlantico offre uno straordinario
modello sociale insieme al suo privilegio, al suo lusso.
È la massima ottimizzazione dello spazio e delle funzioni: in forma di festa e di svago, il
suo è un viaggio del razionalismo. Luogo, quindi, di comunità stratificate ma occasionali.
Nel 1886 l’ingegnere tedesco Carl Benz brevetta la prima automobile della storia.
Nell’automobile il motore non sostituisce la vela ma i cavalli, la carrozza. È un dispositivo
familiare, un’unità di trasporto per pochi. La risorsa che la alimenta non è quella delle
fabbriche a carbone, ma è la benzina. Si serve di un motore che funziona, dopo l’avvio,
completamente da solo. Un motore che, acceso, prende vita autonoma. Non ha bisogno di
operai: è la potenza di tanti cavalli messi insieme, energie che nel passato potevano
essere costruite da tanti schiavi, messi al servizio di un unico viaggiatore.
È l’italiano Mario Morasso, in un saggio intitolato La nuova arma (la macchina), a cogliere
l’aspetto rivoluzionario sul piano delle relazioni sociali, del comportamento, del costume,
dei codici comunicativi, della produzione culturale: “la macchina sarà il principale
modellatore delle future coscienze, il più profondo ed efficace educatore della società
umana, l’emblema, il perno della forma di civiltà che si sostituirà alla nostra”. L’automobile
è l’espressione tecnologica che meglio soddisfa l’accelerazione della vita quotidiana,
segnando l’inizio della velocità artificiale dell’individuo e la conseguente intensificazione
dei rapporti spazio-temporali come vocazione moderna.
È stato osservato che l’automobile è nata dal matrimonio della scienza con il desiderio:
“Spesso manifesta il suo incitamento alla trasgressione, alla liberazione del barbaro che
cova dentro ogni individuo con i suoi istinti aggressivi. Sfide temerarie con il tempo si
trasformano in veri e propri duelli con la morte”.
L’abbandono delle rotaie e il superamento della carrozza aprono agli uomini del XX secolo
un territorio sconosciuto: la libertà di scelta dei luoghi, delle stazioni, delle velocità, delle
fermate; il maggior inserimento nel territorio fisico, la sua visibilità e tangibilità, vicinanza,
la privatizzazione del veicolo. Il simbolo di status e il design come identità del conducente.
L’auto si presenta quindi sin dalle sue origini come uno strumento di trasporto che anticipa
alcune caratteristiche della radiotelevisione in quanto esternalizzazione del nucleo
domestico e allo stesso tempo interiorizzazione del territorio e del mezzo che ne consente
la praticabilità. Ad ogni modo, l’automobile marcia parallelamente allo sviluppo del cinema,
ed infatti diventerà, tra l’altro, uno degli oggetti di consumo e di vita più rappresentati e
simbolicamente rielaborati dal cinema. Visto dall’abitacolo delle macchine il territorio si
trasforma in un flusso mutevole ed istantaneo di stimoli visivi, esattamente come il mondo
guardato attraverso il tubo catodico della televisione. L’esperienza del telespettatore e
dell’autista porta a compimento e radicalizza la fenomenologia del blasé descritta da
Simmel, ossia dell’uomo che intorpidisce la sua attenzione percettiva per difendersi dal
bombardamento di sollecitazioni sensoriali cui è sottoposto nella metropoli moderna.
Capitolo V
Primo Novecento
Anche l’epoca moderna elabora i suoi miti e le sue rappresentazioni collettive. Il mito
svolge una doppia funzione: mentre sembra limitarsi a constatare i significati, di fatto li
afferma performativamente, e mentre si dà come strumento per comprenderli in realtà li
impone. Studiare l’industria culturale significa principalmente risvegliare le metafore
assopite e cristallizzate che circolano nel consumo culturale diffuso per rendere visibile i
condizionamenti sociali, strategie simboliche, itinerari interpretativi che sono alla base
delle forme espressive del moderno.
Il mito per antonomasia dell’epoca moderna è quello del dottor Faust. Esprime il dramma
tutto moderno della tensione verso lo sviluppo infinito delle potenzialità umane e della
distribuzione illimitata dell’universo sociale e naturale che esso comporta. Emblema della
volontà di potenza disposta a dannare se stessa e a calpestare gli altri pur di conquistare
e trasformare il mondo, nel mito di Faust sono condensati i motivi e le aspirazioni tipiche di
un’epoca in cui “ tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”: non solo attraverso lo
sconvolgimento dei rapporti sociali e delle tradizioni culturali, ma anche in virtù di una vera
e propria trasformazione fisica del mondo mediante la realizzazione di grandi riti di
trasporto e di comunicazione planetaria.
Il mito di Don Giovanni, figura archetipica di trasgressore delle leggi in nome del
desiderio, ci serve ad illustrare alcuni fermenti epocali della tarda modernità. Il
personaggio di Don Giovanni incarna il principio moderno della mobilità delle forme.
Questo mito si rivela straordinariamente produttivo, che anticipa le seduzioni e le
simulazioni del computer, l’infinita moltiplicazione di maschere della rete telematica, la
testualità instabile dei linguaggi digitali. Don Giovanni rappresenta l’apparire di una
soggettività rimossa. In base ad esso i principi primi della vita (l’arte, la religione, la
filosofia) sono avvicinati all’esperienza vivente. Don Giovanni è un vero e proprio cyborg
(cybernetic organism) ante litteram.
Anche il mito di Frankenstein, reso popolare dal romanzo di Mary Shelley, è costruito
intorno al sogno di infondere la vita alla materia inanimata. Nel mito viene espressa
l’ossessione tipica dell’immaginario ottocentesco di fronte al processo di
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autonomizzazione dell’artificio tecnico che si sottrae al controllo umano. L’automa vivente
creato dal dottor Frankenstein è un’arte-fatto espropriato di volontà e di un’intelligenza, è
un insieme coerente di mezzi di produzione separati dal cervello dell’attività produttiva, è
azine totalmente alienata; ma quando l’automa pretende di dominare se stesso, di
realizzare la sua autonomia appropriandosi del suo corpo, scopre all’opposto di essere
volontà e intelligenza privata dagli strumenti linguistici e sociali necessari al dominio
tecnico della macchina in quanto tale. Il mostro di Frankenstein esprime simbolicamente il
conflitto tra un lavoro interamente asservito (tuttavia produttivo) ed una coscienza
interamente separata dai suoi stessi mezzi di produzione e perciò socialmente
improduttiva, mostruosa rispetto alla dimensione economica del lavoro, negativa verso i
rapporti sociali.
Particolarmente emblematico di alcune dinamiche della comunicazione moderna è poi il
mito del conte Dracula, romanzo del 1897 di Bram Stoker. Il vampiro, com’è noto, si nutre
del sangue di giovani donne, la sua vita si alimenta del sacrificio di altre vite. Come la
vicenda del vampiro Dracula, anche il linguaggio fotografico manifesta un evidente punto
di tangenza con l’immaginario della morte. A differenza del ritratto che cerca di rendere
l’essenza intemporale del soggetto, la fotografia si limita a catturarne l’attimo effimero e
contingente. Per questa ragione, così come Dracula vive della morte altrui, anche
l’immagine fotografica è un parassita che vive a spese del reale, e in un certo lo
vampirizza. Linguaggio dell’istante assoluto, la fotografia è destinata a rappresentare il
reale allo stato passato, nel senso che il momento che vediamo, non è già più. Questa è la
ragione per cui la fotografia non ci può restituire ciò che qualcuno è stato , ma soltanto
certificare il fatto che qualcuno è stato, in un certo momento davanti ad un certo obiettivo.
Dracula è esattamente questo, un’ “immagine viva di una cosa morta”.
Il mito di Superman ci introduce al paradosso che risiede nel nucleo simbolico della civiltà
di massa. A differenza del superuomo nicciano che ci sottrae alle obbligazioni della
morale, Superman è si un eroe dotato di poteri eccezionali, ma anche un uomo comune e
ordinario come l’impacciato ed inibito giornalista Clark Kent. Questa doppia natura del
supereroe, che richiama i due corpi, divino ed umano, è particolarmente congeniale ad
esprimere i sogni e le aspirazioni in cui si riconoscono gli individui di una società
massificata. Nella società di massa ciascuno desidera essere diverso dagli altri, ma è
proprio questo che fatalmente lo accomuna ad essi. Particolarmente interessante dal
punto di vista ideologico è poi la circolazione che Clark Kent, l’uomo che fa vivere il
supereroe, sia professionalmente un giornalista: apparentemente antieroe della società
della comunicazione di massa e simbolo della proletarizzazione del lavoro intellettuale,
Kent è colui che, proprio in quanto giornalista, assicura la circolazione della dimensione
eroica.
Altri simboli densi ed eloquenti della civiltà industriale, infine, sono le coppie
uomo/prostituta e assassino/detective. Nelle grandi città la prostituta è più che una
merce, è un vero e proprio articolo di massa. Su di essa si condensano simbolicamente
temi legati nel modo più squisito all’immaginario capitalista come la mercificazione del
piacere, la serializzazione dell’atto sessuale, l’alienazione della volontà, la divisione del
lavoro e la strutturazione meccanica e ripetitiva del corpo. Essa fa parte dell’inter-zona di
devianze e di desideri estremi in cui si generano i modelli sociali.
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L’assassino, il mostro, il serial killer. Ricordiamo la figura del “folle” Moosbrugger, così
come la descrive Robert Musil nel romanzo L’uomo senza qualità. Al processo in cui è
accusato di aver fatto a pezzi una prostituta, il giudice ricostruisce la sua intera vita
trovando in ogni episodio il chiaro e coerente delinearsi di un’identità criminale. La vicenda
processuale di Moosbrugger testimonia dello scontro di due modelli di soggettività che si
fronteggiano nella società moderna, rappresentati rispettivamente dall’inquisitore che
legge e scrive la biografia dell’imputato con gli strumenti della chiarezza e della
distinzione, e del serial killer la cui individualità sbiadisce negli ingranaggi anonimi e
spersonalizzanti della società di massa. Né la legge né la scrittura riescono a rendere
conto adeguatamente dell’ “intero mondo” dell’assassino, occorrono altri linguaggi e
dispositivi di visibilità per dar corpo all’ossessione metropolitana del delitto e rendere
leggibile la personalità di Moosbrugger.
La prima metà del XX secolo è stata definita come l’epoca del consolidamento della
cultura di massa dovuta al processo di inclusione delle classi subalterne nella vita pubblica
e alla conseguente estensione di consumo delle informazioni.
Opposte tendenze interpretative hanno caratterizzato a lungo il dibattito sull’industria
culturale nella sua fase di gestazione e di sviluppo, anche se entrambe si trovavano già
espresse nella riflessione ottocentesca di Tocqueville. Come abbiamo visto, lo studioso
francese non solo aveva descritto con acuta sensibilità sociologica l’integrazione fra
cultura delle classi dominanti e cultura popolare negli Stati Uniti del XIX secolo, ma aveva
anche fornito dei preziosi elementi di valutazione complessiva di tale fenomeno
giudicandolo sia come fattore di promozione dell’uguaglianza sociale sia, d’altra parte,
come causa di invidia generalizzata e di conseguenza come minaccia per il legame
sociale.
L’opinione su cui concordano pressoché tutti gli studiosi della società di massa è che in
essa tende a scomparire ogni forma di separazione tra cultura alta e cultura bassa. La
fruizione di prodotti cultuali ritenuti di qualità non è più necessariamente appannaggio solo
delle classi dominanti. La diffusione della cultura non avviene più secondo una struttura
piramidale per cui un vertice ristretto elabora gusti e valori che, una volta consumati e
divenuti obsoleti, sono fatti propri dalla base, ma riproduce piuttosto il modello di una
cultura a mosaico in cui convivono più fonti e più centri di elaborazione culturale, dall’alto
verso il basso così come dal basso verso l’alto.
La produzione della cultura nella società di massa è organizzata secondo criteri di tipo
industriale e come tale soggiace ad un sistema di condizionamenti sociali. Ad esempio, un
artista non dipende più da una corporazione o da un mecenate, ma è condizionato
direttamente dai vincoli del mercato artistico. Ciò significa che tendenzialmente gli autori si
trasformano in produttori salariati, i testi sono standardizzati ed elaborati in forme che
assicurino la massima diffusione possibile.
Questa situazione crea le premesse per la radicale esteriorizzazione del sapere rispetto al
sapiente e la sua trasformazione da strumento di educazione spirituale a dispositivo di
comunicazione sociale. Il rapporto fra la conoscenza ed i suoi fornitori ed utenti tende e
tenderà a rivestire la forma di quello che intercorre fra la merce ed i suoi produttori e
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consumatori, vale a dire la forma valore. Il sapere viene e verrà prodotto per essere
venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione:
in entrambi i casi, per essere scambiato.
In queste condizioni il concetto di cultura tende a sfumare in quello di comunicazione. Ed è
per questo che l’espressione “comunicazione di massa” viene spesso adoperata come
sinonimo di “cultura di massa”.
Secondo il sociologo Edgar Morin la comunicazione di massa produce due processi che
sono complementari ed inscindibili, e che giungeranno ad una completa maturazione solo
negli anni Trenta del XX secolo. Da una parte, la “moltiplicazione pura e semplice” sia dei
flussi informativi che dei destinatari dei messaggi. Dall’altra, la volgarizzazione dei loro
contenuti, ossia la loro preventiva “trasformazione in vista della moltiplicazione”: il che vuol
dire semplificazione, stilizzazione, attualizzazione e modernizzazione dei messaggi.
La cultura di massa pullula di stereotipi, di cliché. Lo stereotipo è un luogo che offre
radicamento ed abitabilità, un oggetto rassicurante che funziona come ambiente
connettivo dell’interazione sociale. Gli stereotipi esibiscono la ricorrenza di luoghi
frequentati e frequentabili dell’immaginario collettivo, percorsi che aiutano ad entrare in
relazione comunicativa con gli altri e le cose. È grazie alla forza degli stereotipi agiti dalla
stampa e dalla televisione che si sono rese possibili su larga scala operazioni diffuse di
modernizzazione e socializzazione che altrimenti sarebbero state irrealizzabili. La loro
sapienza è quella di far riconoscere le abitudini socio-psicologiche dell’individuo, le sue
architetture e mappe mentali ed emotive, e di farsi riconoscere a loro volta, cioè di rendersi
visibili ai bisogni di significazione dell’esperienza.
5.5 Le estetiche
La storia della sensibilità estetica può essere considerata in un certo senso come la storia
dei rapporti tra le forme ordinate e simmetriche del bello e gli effetti disarmonici del brutto.
Rapporti che vanno dalla totale contrapposizione nel mondo classico fino alla piena
integrazione e mutua fungibilità nell’epoca moderna.
L’estetica nasce come disciplina filosofica e si caratterizza essenzialmente per il tentativo
di coniugare la conoscenza intellettuale basata sui concetti universali ed astratti con la
conoscenza sensibile del particolare concreto. La rivalutazione della conoscenza sensibile
promossa dall’estetica produce due ordini di conseguenze.
In primo luogo, mette in crisi la concezione classica per la quale il bello costruiva il risvolto
sensibile del vero e del buono, e con essa anche la tradizione gerarchica dei sensi. Il
privilegio accordato ai due sensi pubblici della vita e dell’udito è dovuto al fatto di essere
ritenuti adatti alla percezione del bello perché facilmente traducibili dall’intelletto. Ma in età
moderna si passa ad un sempre maggiore apprezzamento verso sensi più vaghi e
soggettivi, come appunto l’odorato, il tatto e il gusto, al punto che gusto diventa la parola
che definisce per antonomasia il giudizio estetico.
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In secondo luogo, l’orientamento moderno legittima di fatto l’estensione dello sguardo e
dell’attenzione degli uomini su un vasto ambito di fenomeni smisurati e brutti,
tradizionalmente rimossi ed ignorati nell’arte classica.
La modernità si inaugura con l’estetica e l’estetica a sua volta si inaugura con la
soggettività del giudizio di gusto e con la progressiva scoperta e legittimazione del brutto.
La categoria del bello non basta più da sola a spiegare i fenomeni artistici nelle nuove
condizioni che caratterizzano il rapporto fra autore e pubblico, fra testo e lettore nella
società moderna. Così, nel Settecento viene elaborato il concetto di sublime che, a
differenza di bello che si fonda sul piacere, deriva propriamente dalla contemplazione del
dolore altrui, in cui ci si compiace di non essere coinvolti. Il sublime, come pure il brutto, il
dissonante e il caotico, appare come un “piacere negativo”, ovvero come minaccia
evocata ma tenuta a distanza e metabolizzata attraverso l’arte.
Il pubblico cerca nell’arte non più i valori della orma bensì emozioni forte ed esperienze
impressionanti.
Abbiamo detto che dopo l’evento epocale della rivoluzione francese gli individui non si
percepiscono più come spettatori isolati e al sicuro dagli eventi della storia, ma tendono a
considerarsi direttamente gli attori.
Ebbene, il sublime in arte rappresenta l’ultima tenue frontiera di cui si muniscono i moderni
per poter continuare a godere della serena condizione descritta da Hans Blumenberg.
Quando successivamente anche quella tenue frontiera sarà abbattuta e si farà strada la
consapevolezza che non ci si può tirare fuori dal naufragio poiché la vita stessa è rischio
ed instabilità, lo spettatore sarà snidato dalla sua comoda postazione e chiamato a
misurarsi direttamente con le potenze del brutto e del negativo perdendo ogni residua
possibilità di riscatto estetico. In quel momento il brutto avrà completamente soppiantato il
bello diventando l’autentico motore segreto della produzione e del consumo di arte. Da
quel momento l’immaginario letterario si popola, come si è visto, di fantasmi, vampiri,
personaggi deformi e mostruosi.
Per Marcuse l’arte che rappresenta una realtà ideale e bella produce falsa coscienza,
ossia costruisce un tipo di cultura “affermativa” che serve a rendere sopportabile la
non-libertà dell’esistenza sociale borghese, al punto che “gli uomini possono sentirsi felici,
anche se non lo sono affatto”.
Anche secondo Adorno il concetto classico di bello risulta inadeguato, fittizio e
mistificatorio rispetto all’esperienza sociale ed esistenziale del mondo moderno. Secondo
Adorno l’arte, per mantenere la sua carica di “inattualità” critica nei confronti della realtà
esistente ed evitare di ridursi ad una consolatoria quanto superficiale domenica della vita,
non deve temere di avventurarsi nei territori del deforme e del dissonante, perché solo
così è in grado di denunciare la violenza e l’irrazionalità che regnano nel “mondo
amministrato” del sistema capitalistico. Anche per Adorno, in definitiva, l’arte risiedono sia
l’opportunità per un’esperienza autentica e non alienata sia lo spiraglio per poter insorgere
contro le forme degradate della società borghese.
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Sigmund Freud ha osservato che l’era del progresso scientifico e tecnologico non avrebbe
di fatto aumentato la felicità degli uomini. Le tecnologie comunicative si limitano a
procurarci una sorta di “godimento a buon mercato”. L’osservazione di Freud mette in
evidenza la relazione di compensazione che esiste tra lo sviluppo delle tecnologie dei
trasporti che dilatano il mondo e quello delle tecnologie comunicative che tendono invece
a contrarlo. Si è detto della funzione compensatoria del cinema.
La rivoluzione dei trasporti modificò sensibilmente le idee di prossimità e di estraneità fra
gli individui. I sistemi di controllo tradizionali, basati sulla prossimità fisica interpersonale
tipica delle comunità chiuse, si rivelarono improvvisamente obsoleti rispetto alla nuova
situazione sociale venutasi a creare in seguito allo sviluppo dei mezzi di trasporto
meccanici. Si diffusero ampie aree di incertezza, contingenza e disorientamento, tali da
produrre il bisogno di una rivoluzione del controllo, ossia di un dispositivo di
compensazione che ristabilisce ad un livello più alto e più potente la visibilità del corpo
sociale. I mezzi di comunicazione fondati sulla qualità mobile e pervasiva dell’immagine,
dalla fotografia fino alla televisione, costituivano una risorsa per aumentare le possibilità di
relazione fra gli elementi dei sistemi sociali caratterizzati da crescente complessità, ossia
diventati “grandi tanto da non poter più collegare ciascun elemento con ogni altro”.
Concetti come privacy e tempo libero non sarebbero stati inconcepibili prima
dell’organizzazione razionale moderna dell’attività capitalistica. Man mano che i processi
di produzione capitalistica impongono il coordinamento e la supervisione delle attività in
pubblico, la sfera privata tende ad acquistare autonomia diventando più intima e meno
prevedibile.
La struttura sociale capitalistica è per gli attori individuali contemporaneamente un vincolo
ed una risorsa. Un vincolo perché regolamenta e disciplina attività tradizionalmente
discrezionali e non sottoposte a norme. Ma anche una risorsa perché abilità e produce
nuovi spazi, nuove pratiche e nuove forme di vita, che di solito si collocano nelle regioni
posteriori dell’interazione sociale, sottraendosi al controllo e alla visibilità pubblica. Tali
ragioni rappresentano un fruttuoso territorio di conquista e di espansione per il sistema
produttivo, un potenziale mercato suscettibile di esprimere nuovi stili di vita e nuovi bisogni
fruitivi.
Ad esso si rivolge l’ondata di innovazioni tecnologiche in campo comunicativo come il
telefono, il grammofono e la pellicola fotografica Kodak. Con questi apparecchi la
produzione industriale, intuendo le grandi prospettive di sviluppo del consumo domestico,
comincia a penetrare nel nucleo familiare.
Abbiamo visto che il mito di Frankenstein condensa le paure ottocentesche rispetto ad
artefatti tecnici che si rendono autonomi dal controllo umano.
È stato osservato che le nuove tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni del XIX
secolo hanno provocato cruciali mutamenti nell’esperienza e nella percezione del tempo e
dello spazio. Ebbene, tanto la privatizzazione dell’esperienza quanto la rivoluzione del
controllo che compensa la dilatazione degli orizzonti spaziali discendono da un nuovo
modo di abitare il territorio da parte degli utenti dei media. Essi esprimono il bisogno che
venga restituita visibilità agli oggetti ed ai soggetti che occupano il proprio ambiente di vita,
che sia, cioè, portato loro il mondo in casa ed a portata di mano.
In uno scritto intitolato Il pubblico moderno e la fotografia Baudelaire esprime la
preoccupazione che in seguito all’avvento della fotografia il gusto del bello possa essere
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soppiantato dal gusto del vero, e che lo spirito artistico venga progressivamente sostituito
dalla tecnologia industriale.
Il saggista americano Oliver Wendell Holmes la elogia invece per la sua capacità di
mettere a disposizione l’immagine dei più celebri capolavori dell’arte mondiale. Mentre il
poeta francese critica la fotografia come un fattore di degradazione estetica, lo scrittore
americano la considera invece un importante strumento di democratizzazione dell’arte.
Questa divergenza si può spiegare alla luce del diverso tipo di rapporto sociale che esiste
fra autore e pubblico in Europa e in America. Se in Europa. Se in Europa l’artista rivolge le
sue opere direttamente a un pubblico di artisti e di facoltosi intenditori, in America invece
produce per un pubblico fatto anche di incolti e di poveri. Questo diverso tipo di rapporto
fra artista e pubblico che esiste in regime democratico condiziona potentemente sia il
modo di produrre e di fruire le opere sia il valore e il significato dell’arte nella società
americana.
Secondo Stieglitz, fondatore della rivista “Camera Work” e padre del movimento Foto
Secessione, le preoccupazioni di Baudelaire sulla minaccia che la fotografia avrebbe
rappresentato per la pittura erano destituite da ogni fondamento dal momento che la
fotografia avrebbe dovuto essere considerata una forma d’arte del tutto autonoma dalla
pittura.
Fino all’invenzione del telegrafo elettrico di Morse (1844) comunicare era sempre stato
sinonimo di trasportare cose o persone nello spazio, mentre da allora ha cominciato ad
essere possibile scambiare informazioni con persone lontane facendo a meno di far
spostare fisicamente nello spazio i supporti materiali che le recano impresse, con grande
vantaggio sia in termini di velocità che di sicurezza delle comunicazioni. A partire dal
momento in cui le informazioni cominciano a viaggiare senza lo spostamento fisico dei loro
supporti, si è verificato un processo di disaggregazione dello spazio dal tempo, nel senso
che la distanza spaziale tra gli individui ha cessato di costituire anche un fattore di
dilatazione temporale nei loro scambi comunicativi. Grazie ai mezzi di telecomunicazione
le interazioni umani sono potute avvenire a distanze sempre maggiori e in tempi sempre
più contratti.
Prima dei mezzi di telecomunicazioni l’esperienza della simultaneità riguardava eventi che
accadevano non solo nello stesso tempo ma anche nello stesso luogo, e viceversa prima
delle tecnologie per la riproducibilità tecnica l’idea di prossimità si riferiva ad eventi
avvenuti non solo nello stesso luogo ma anche nello stesso tempo. Con l’avvento delle
tecnologie di telecomunicazioni e di riproducibilità tecnica gli individui che ne facevano uso
cominciarono a sperimentare la sensazione di essere contemporanei anche di persone o
eventi che non appartenevano al loro stesso ambiente spaziale.
Il telegrafo elettrico rappresentò la conquista dell’istantaneità comunicativa. Ma fu soltanto
per merito del telefono, un apparecchio brevettato nel 1876 dall’inventore Alexander
Graham Bell capace di convertire la voce in impulsi elettrici e viceversa, che la
comunicazione a distanza di avviò a diventare una pratica quotidiana ed universale.
Lo studioso Lewis Mumford ha annoverato il telefono tra i dispositivi tecnologici della
cosiddetta fase neotecnica, che avrebbe avuto inizio nel XIX secolo e sarebbe stata
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caratterizzata dal fatto che le tecnologie non tendevano più a meccanizzare la vita ma, al
contrario, ad avvicinarsi alle forme degli organismi e quindi ad assecondare più
direttamente i desideri immediati e i bisogni quotidiani degli uomini. Con il telefono la
tecnologia si avvicina più direttamente ai corpi degli individui. Il telefono ha dato per la
prima volta voce e cittadinanza comunicativa a soggetti, come ad esempio le donne, cui
era stato tradizionalmente negato il diritto di parlare al di fuori della dimensione privata.
Non è un caso che il telefono sia stato definito come il medium femminile per
antonomasia.
Prima dell’avvento delle reti di telecomunicazioni la distanza spaziale incideva in modo
determinante sui tempi, e quindi anche sui costi, delle interazioni umane. Ebbene, la più
rilevante conseguenza dell’avvento delle reti di telecomunicazioni fu il fatto che, grazie ad
esse, la distanza non costituì più tendenzialmente una barriera alle interazioni umane. Dal
punto di vista tecnico, infatti, i costi delle telecomunicazioni sono pressoché indifferenti alla
distanza.
Soffermandosi in particolare sul telefono, va detto che, rispetto ai modelli culturali proposti
dai media di massa sino alla televisione, esso rappresenta un modo di comunicare
piuttosto in controtendenza. In primo luogo, perché è un mezzo di comunicazione
interattivo ed individuale da un punto ad un altro anziché da un punto a tutti gli altri. In
secondo luogo, perché l’uso sociale lo caratterizza immediatamente come “tecnologia
della socialità” a dispetto delle intenzioni dei progettisti che lo avevano immaginato come
strumento per le emergenze o per la comunicazione professionale su lunghe distanze. Il
telefono è stato definito come un oggetto tecnologico “polimorfo” per eccellenza in quanto
suscettibile dagli usi comunicativi più disparati secondo i contesti sociali in cui è utilizzato:
così, ha potuto stimolare o disincentivare le relazioni sociali, costituire un fattore di ansia o
di rassicurazione psicologica. Ad ogni modo, quello che è certo è che il telefono si diffuse
nella società integrandosi alle sue abitudini comunicative piuttosto che sconvolgendole.
Dal punto di vista sociologico il telefono propone al sistema sociale una situazione
comunicativa assolutamente inedita.
Grazie al telefono vengono rese possibile per la prima volta delle comunicazioni
simultanee tra persone che sono assenti l’una dallo spazio percettivo dell’altra. Si delinea
a partire dal telefono una nuova forma di scambio comunicativo che condizionerà il senso
del luogo e delle interazioni sociali.
5.9 La radio
Al principio la radio viene concepita come un telegrafo senza fili nato per ovviare alle
limitazioni e ai problemi connessi all’uso dei cavi elettrici. Sfruttando il principio della
propagazione delle onde hertziane nell’etere, lo scienziato Guglielmo Marconi compie il
primo passo verso la radio inventando la radiotelegrafia, che consente la trasmissione di
messaggi telegrafici a postazioni irraggiungibili dai cavi, come le imbarcazioni in mare.
Quando nel 1906 il ricercatore Reginald Fessenden riesce a trasmettere via radio la voce
umana, appare chiaro che la radio si è ormai di fatto emancipata dal telegrafo per
diventare un medium dotato di una propria specificità linguistica e tecnologica.
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La radio fin dalle origini assume le qualità potenziali di medium personale, che non solo si
presta ad un ascolto individuale ma che è addirittura possibile costruirsi da sé con pochi
mezzi.
Dopo essere stato considerato a lungo come un perfezionamento del telegrafo e del
telefono, il terzo passaggio verso la forma di radio che ancora oggi conosciamo è
caratterizzato dall’invenzione della radio come mezzo di comunicazione di massa. La radio
è il primo mezzo di comunicazione organizzato in forma di broadcasting. A differenza del
telegrafo che trasmette da punto a punto, le trasmissioni radiofoniche hanno una
diffusione circolare, vale a dire che le può captare chiunque disponga di un adeguato
apparecchio ricevente.
I primi grandi imprenditori radiofonici intuiscono la possibilità di trarre profitti vendendo alle
aziende interessate spazi pubblicitari all’interno dei programmi trasmessi via radio. Il
pubblico ascolta gratuitamente i programmi radiofonici che le emittenti producono. Le
emittenti, dal canto loro, si finanziano vendendo alle aziende produttrici di beni di consumo
la possibilità di accedere via radio direttamente al proprio pubblico, questo negli Stati Uniti.
In Europa, dove la radio viene per lo più organizzata in orma di monopolio pubblico, essa
assolve a funzioni di natura eminentemente politico-sociale.
Secondo McLuhan la radio ha il potere di ritribalizzare l’umanità, ossia di capovolgere
l’individualismo tipico delle culture alfabetiche in nuove/arcaiche forme di collettivismo,
grazie a cui, ciascuno è messo in condizione di partecipare istantaneamente a tutti gli
avvenimenti individuali o collettivi che si svolgono nel “villaggio globale”. Sarebbe poi stato
l’avvento della TV ad assolvere più efficacemente a questa funzione centralinista e
globalizzante, facendo si che la radio evolvesse verso forme private ed individuali di
personalizzazione dell’ascolto.
È noto che McLuhan distingua media caldi e media freddi secondo la partecipazione,
rispettivamente debole e attiva, che esigono dal destinatario. I media caldi fanno appello
ad un solo senso ed implicano un elevato grado di definizione, mentre quelli freddi si
rivolgono a diversi sensi e sono a bassa definizione. Ebbene, la radio è un medium caldo
per eccellenza dal momento che può essere utilizzata come sottofondo sonoro senza
prestarvi particolare attenzione. Il telefono, invece, è freddo perché necessita di una
grande attenzione da parte di chi lo utilizza.
L’intrattenimento pubblico e privato rivela impulsi che tollerano sempre meno le barriere
fisiche interne ed esterne alla cinta urbana e alle pareti di casa. L’industria dell’evasione
quotidiana in spazi divergenti rispetto al principio di realtà si salda con processi di
deterritorializzazione compiuti su scala locale e planetaria, mediante l’acquisizione e il
consumo di beni materiali ma anche mediante surrogati, pure simulazioni, immagini di
superficie, simulacri che si possono incontrare varcando la soglia di casa, ma anche e
sempre più restando nello spazio circoscritto della propria stanza.
Al contempo tutta questa ricchezza simbolica si rovescia sui modi di rivivere i territori fisici.
Vanno qui ricordati i modelli metropolitani e urbani ottocenteschi che avevano tentato di
strutturare all’interno della civilizzazione (apparati, servizi, mercati, istituzioni
amministrative, vie di comunicazione, ecc.) il legame con la natura, mediante la
realizzazione di giardini piuttosto che piazze (è il caso di Londra) e parchi, giardini
zoologico e orti botanici.
Questa vocazione al recupero della dimensione naturale si rifletteva nell’impiego di
surrogati che si riproduceva ed estendeva nell’arredo delle case, nell’adozione di animali
domestici, nella pratica di alcuni sport o intrattenimenti da compiere a diretto contatto con
la natura o con gli animali, nelle immagini o nelle decorazioni floreali o agresti delle pareti,
nel collezionismo di reperti naturali.
Capitolo VI
Territori audiovisivi
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6.1 La metropoli moderna: stile, malinconia e flirt
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In un certo senso, si può affermare che tutti gli strumenti comunicativi dal linguaggio
verbale alla realtà virtuale soddisfano il desiderio primitivo di esporre ed incontrare la
singolarità altrui assente e sconosciuta. Si comunica perché e quando si desidera, si
desidera perché e quando si comunica.
Nel Simposio platinico si racconta che Eros è figlio di Penia, “povertà, mancanza”, ma
anche Poros, “passaggio, espediente, risorsa”. La sua natura rispecchia la qualità
ambivalente del comunicare, sospesa fra i significati socialmente condivisi e l’orizzonte
incommensurabile del senso.
Eros è dunque molto più che godimento del corpo. È medium comunicativo orizzontale tra
gli uomini, ma anche interprete che media verticalmente tra i significati e il senso, tra
l’umano in divino. La comunicazione ha la medesima natura ambivalente di Eros: le
tecnologie della comunicazione per immagini fin dagli spettacoli di fantasmagorie degli
inizi dell’Ottocento ovviano all’assenza degli oggetti e dei corpi reali mediante il
superamento dei luoghi fisici, e tuttavia si limitano a renderne accessibile la presenza solo
nella forma vicaria dei simulacri visivi.
I media visivi come le vetrine, le fiabe, i film, i circhi, i romanzi hanno tutti la proprietà di far
vedere ma non di far toccare.
Insomma i media visivi mostrano ciò da cui si è materialmente separati ed insieme
mostrano che se ne è separati. Moltiplicano a livelli inauditi il desiderio, ma ne inibiscono e
differiscono costantemente la soddisfazione. “Vedere è avere a distanza” sembra essere
la filosofia che ispira la civiltà dell’immagine.
Come ha osservato Marshall McLuhan l’uomo deve estendere gli organi del corpo per
acquistare maggiore controllo sull’ambiente. Ciò determina insieme ad un aumento delle
sue prestazioni anche un’intensificazione delle sue tensioni e sollecitazioni sensoriali, che
il sistema nervoso riesce a sopportare soltanto al prezzo di intorpidirsi, cioè di concentrarsi
in se stesso esonerandosi da ogni stimolazione esterna.
Ebbene, i media audiovisivi, mentre potenziano lo sguardo, di fatto narcotizzano il
desiderio facendone il vettore di una pulsione narcisistica in cui l’altro viene ridotto ad una
proiezione di sé. Nella società dell’immagine l’estensione delle facoltà comunicative tende
ad accompagnarsi ad un intorpidimento delle comunicazioni reali.
L’industria culturale si incarica di produrne la visibilità e il desiderio collettivi. “La
produzione del desiderio è la grande novità che si annuncia sulla scena dell’industria di
massa agli inizi del secolo e che riuscirà a compiere il miracolo dell’inversione del
meccanismo naturale dell’offerta e della domanda: non sarà più la domanda a determinare
l’offerta ma l’offerta a creare domanda.”
La realizzazione di strumenti di comunicazione audiovisiva come la televisione e il cinema
sonoro consente per la prima volta di rappresentare artificialmente il reale nella sua
multimedialità, fatta di suoni ed immagini in movimento. Ma un decisivo passo in direzione
di nuove sensibilità e pratiche del desiderare si avrà soltanto con la diffusione dei media
interattivi.
Nelle civiltà dello spettacolo, dalle grandi esposizioni fino alla TV, il desiderio si è
manifestato prevalentemente nella forma della pulsione scopica, cioè della pulsione di
vedere. Per godere degli oggetti è sufficiente possederne l’immagine, così come per
essere è sufficiente apparire.
Le immagini, sganciando gli oggetti dalla loro funzione, alimentano a dismisura i desideri.
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La pulsione scopica è struggente e smodata almeno quanto è effimera e votata al
fallimento. In regime di pulsione scopica che desidera e guadagna l’oggetto e così spegne
il desiderio, o non lo consegue e allora si rassegna ad inseguire affannosamente sempre
l’immagine di nuovi oggetti e di nuovi desideri.
6.5 La pubblicità
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Il manifesto al contrario, ci parla d noi stessi, dei nostri piaceri, dei nostri gusti, dei nostri
interessi, della nostra alimentazione, della nostra salute, della nostra vita. Non ci dice:
“Prega, obbedisci, sacrificati, adora Dio, temi il maestro, rispetta il re…”. Ma ci sussurra:
“Divertiti, curati, mangia, via a teatro, ai concerti, a ballare, leggi dei romanzi”.
Elemento che fa della pubblicità la modalità discorsiva per antonomasia dell’età moderna
è il valore che con essa assume il principio della visibilità pubblica. In epoca moderna
l’immagine acquista un ruolo determinante nel commercio delle cose e nelle interazioni fra
gli uomini.
La pubblicità parla in modo diretto il linguaggio degli individui e conferisce piena visibilità
alle cose. In essa confluiscono la ricerca del piacere privato e la conquista dello splendore
del mondo.
Per attrarre la curiosità di un pubblico assuefatto ai disegni decorativi e per intercettare
l’attenzione del passante blasé o del frettoloso lettore di periodici illustrati l’immagine
pubblicitaria si propone come eccessiva, scandalosa, inconsueta. Per tutto l’Ottocento per
definire la pubblicità in Italia viene usato il francesismo réclame “richiamo”, che la collega
all’atmosfera ciarlatanesca degli imbonimenti da fiera e che testimonia la sottovalutazione.
Nel 1902 Costantino Arlia propone il termine pubblicità che impiega circa venti anni prima
di essere generalmente accettato. L’uso di un nuovo termine indica l’emergenza di un
nuovo fenomeno, ovvero l’autonomizzazione della pubblicità sia come professione
specifica all’interno della civiltà industriale di massa, sia come nuovo linguaggio estetico
popolare.
Quando le aziende produttrici di beni ampliano dimensioni e raggio di influenza ad un
livello di massa perdono il controllo della distribuzione e del consumo dei loro prodotti. La
pubblicità è la risposta delle aziende a questa crisi di controllo: grazie alla pubblicità esse
non solo aggirano le condizioni di consumo imposte dai dettaglianti, ma inaugurano
strategie di marketing basate sulla differenziazione dei prodotti (attraverso il packaging, il
marchio di fabbrica, le campagne promozionali, ecc.) anziché sulla concorrenza al ribasso
dei prezzi.
Presto la pubblicità diviene il fattore economico propulsivo dell’industria culturale. Per
estendere il mercato le aziende trovano conveniente finanziare periodici illustrati, radio e
televisione in cambio della possibilità di rendere visibili i loro prodotti a strati della
popolazione non ancora completamente alfabetizzati.
L’opera di socializzazione svolta dalla scuola di massa per formare i cittadini viene
espletata altrettanto efficacemente dalla pubblicità per formare i consumatori: essa ha
svolto fino ad un passato molto recente le funzioni di “conoscenza pratica del mondo degli
oggetti”.
Le reti digitali multimediali ed interattive basate sul principio della comunicazione da molti
a molti mettono in crisi le forme e gli apparati tradizionali della comunicazione da uno a
tutti (grande stampa, mezzi audiovisivi). Nella crisi epocale dei linguaggi di massa viene
coinvolta anche la pubblicità.
La pubblicità classica raggiunge nello spot televisivo la sia massima espansione e il suo
punto di catastrofe. Diventa affabulante discorso meta-pubblicitario che sempre più tende
a rendersi indipendente dal prodotto e ad utilizzare un tono di voce ironico ed umoristico.
6.6 La moda
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Nel regime di cooperazione coatta delle società militari d’ancien regime s ono le istituzioni
del cerimoniale che regolano rigidamente i comportamenti sociali. Nella società di corte
riunita a Versailles intorno a Luigi XIV lo sfarzo del vestire non dipende da scelte
discrezionali ma obbedisce a precise regole di etichetta dettate dalla gerarchia nobiliare.
Nelle società industriali caratterizzate da crescente mobilità sociale la moda sostituisce il
cerimoniale favorendo dinamiche di imitazione e di differenziazione: l’imitazione delle
classi superiori da parte di quelle inferiori non è dettata dalla riverenza ma dal desiderio di
promuoversi al loro livello, e d’altra parte le classi superiori reagiscono a queste spinte
emulative cercando di perpetuare il prestigio della loro distinzione attraverso continue
innovazioni nella moda. Quest’ultima si diffonde nella società delle classi superiori a quelle
inferiori secondo un modello unilineare e meccanicistico cosiddetto a goccia.
Attualmente viviamo in una società policentrica nel senso che non è possibile individuare
un solo determinato centro di irradiazione dal quale si diffondono stili di vita, moda e valori
di status. È stato osservato che il nostro tempo è caratterizzato da una seconda
rivoluzione individuale, che comporta l’estensione del principio dell’autonomia
dell’individuo dalla sfera dei diritti economici e politici a quella della vita quotidiana. La
moltiplicazione delle fonti comunicative ha reso economica la personalizzazione delle
scelte di consumo e degli stili di vita. In tale contesto la moda tende a perdere valore come
arma simbolica della competizione di status. E la cura che ciascuno riserva all’immagine
serve piuttosto ad esprimere la propria identità personale.
Con il termine moda si deve intendere propriamente “il fenomeno sociale del mutamento
ciclico dei costumi e delle abitudini, delle scelte e del gusto, collettivamente convalidato e
reso quasi obbligatorio”. La moda è un fenomeno che si è sviluppato storicamente nella
sfera dell’abbigliamento e ancora oggi per antonomasia ad essa si riferisce. La moda è
dunque l’espressione di una cultura che enfatizza le funzioni della superficie e del
rivestimento, e che pone particolare attenzione ai valori visivi. A tal punto che non sarebbe
concepibile se non contestualmente alla messa a punto di tecnologie, come la fotografia,
che estraggono le immagini dalle cose, la forma dalla materia.
La moda è precisamente una forma di virtualizzazione e di estetizzazione della vita, il
segno più tangibile che “nella realtà v’è un assurdo desiderio d’irrealtà”.
Da quando con il Romanticismo l’arte muore come cosa sacra secondo la diagnosi di
Hegel, è la vita stessa, infatti, che comincia a diventare il terreno di elezione della
dimensione estetica.
Possiamo affiancare alla coppia consumi/comunicazione quelle di mode/socializzazione.
Le mode agiscono nella testualità fluttuante dei comportamenti e delle relazioni sociali, dei
loro piccoli e grandi riti. Il meccanismo è virale e dunque tanto potente nella fase di
aggregazione, accrescimento diffusione trasversale di ogni linguaggio, quanto
autodistruttivo.
6.7 Il divismo
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normativi e modelli di comportamento della vita quotidiana. Come ogni mitologia anche la
cultura di massa ha i suoi eroi, i suoi riti e le sue divinità.
Gli dei del XX secolo dono i divi del cinema. Il ruolo dell’attore subisce dal teatro al cinema
una profonda trasformazione che ne mercifica le prestazioni e ne compromette la
personalità di artista: da professionista della recitazione per un pubblico concreto e
selezionato, l’attore diventa interprete posto di fronte ad un’apparecchiatura tecnologica
che ne cattura e manipola l’immagine per ammannirla (profilare) ad un pubblico con cui
non è in relazione diretta. La perdita dell’aura di attore in quanto individualità vivente viene
compensata dalla costruzione artificiale del culto del divo. Così, la figura dell’Altro come
strumento di costruzioni della propria identità non è più una persona ma un divo dotato di
attributi mitici ed euforizzanti. Ad ogni modo, la spersonalizzazione dell’attore non è tanto
l’effetto indotto dall’organizzazione del lavoro cinematografico, quanto il riflesso di una
condizione generale in cui l’individuo vive come un ingranaggio di una dimensione
sovraordinata, la società di massa.
Il divo cinematografico nasce esattamente come strumento linguistico capace di superare
l’inadeguatezza espressiva del corpo fisico dell’attore, ovvero di operare la trasformazione
“del vivente in inanimato, del corpo in puro segno”. Ma al cinema, oltre che dispositivo
espressivo nelle mani del regista, il corpo frantumato e montato dal divo diventa linguaggio
ed oggetto di investimento simbolico del pubblico, una sorta di super-marionetta di massa.
È stato osservato che un fenomeno come il divismo può attecchire soltanto in società
complesse e ad alto grado di specializzazione funzionale.
Il sociologo Edgar Morin ha distinto tre epoche del divismo cinematografico.
-La prima va dall’affermazione verso il 1920 delle major di Hollywood fino all’inizio degli
anni trenta. In questo periodo in cui il cinema viene vissuto principalmente come un doppio
mitologico ed onirico del reale, le star appaiono come delle vere e proprie divinità, dotate
di un fascino misterioso ed inaccessibile, come Rodolfo Valentino.
-La seconda coincide con l’avvento del sonoro. Il sonoro avvicina i divi del cinema alla
gente comune poiché conferisce loro un’aria di familiarità. L’immaginario si avvicina al
reale e il reale all’immaginario, al punto che le star divine tendono ad umanizzarsi. Per far
vivere il loro mito le vecchie star o muoiono, come Rodolfo Valentino, o sono costrette a
ritirarsi prematuramente dai set cinematografici. Mentre prima del sonoro i divi erano ideali
di sogno, dagli anni Trenta agli anni Sessanta essi diventano modelli ed esempi di
comportamento a portata di mano.
-La terza fase del divismo corrisponde al crepuscolo dello star system e non a caso viene
annunciata dalle tragiche morti di James Dean e di Marilyn Monroe. Due attori che hanno
dato espressione e legittimità sullo schermo a soggetti, come gli adolescenti e le donne,
che non ne avevano nella società borghese e benpensante degli anni Cinquanta e
Sessanta e che nel Sessantotto si sarebbe resi protagonisti dei movimenti di
contestazione. James Dean rappresenta l’autodistruzione del mito di Hollywood, la fine del
cinema come laboratorio dell’individualità, l’inquietudine di una generazione che non si
riconosce e non viene riconosciuta dai valori dominanti.
Da questo momento i divi non sono più né divinità né modelli, ma simboli di una
condizione esistenziale disagiata. Attraverso i nuovi divi l’industria culturale recepisce ed
amplifica un clima sociale ed economico non più all’insena dell’euforia, ma
dell’inquietudine.
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I divi cessano di essere considerati modelli di comportamento da imitare, e vengono
impiegati come protesi simboliche per la costruzione di una vita autentica ed autodiretta. In
questo tipo di società i valori del successo economico e dell’affermazione sociale passano
in secondo piano rispetto alla ricerca della realizzazione emotiva e della soddisfazione
psicologica. Va in crisi il modello di socializzazione dall’alto fondato sull’emulazione di
personalità eminenti che incarnano e irradiano valori condivisi, mentre emerge
diffusamente un fenomeno di protagonismo di massa che declina nella sfera del
quotidiano e del privato l’ideale dell’autonomia dell’individuo.
Nell’epoca della personalizzazione degli stili di vita si moltiplicano le celebrità ma
parallelamente si riduce l’investimento emotivo in esse. La crisi del divismo esprime la crisi
del ruolo dell’Altro nella costruzione dell’identità soggettiva. Senza l’altro la ricerca
esasperata del sé conduce alla scoperta che il sé è vuoto, un buco che non si può
riempire.
Capitolo VII
Le grandi cesure del progresso
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alla presenza e diventa invisibile. Non sorprende che in questo contesto prenda corpo il
mito dell’aviazione che sarebbe culminato successivamente nella conquista dello spazio.
La televisione rappresenta lo strumento simbolico con cui la società produce la possibilità
di una prospettiva aerea su se stessa. Uno strumento capace di restituire visibilità al
mondo, ancora una volta attraverso l’esonero della forma dal contenuto.
7.2 La bomba
Quando il 6 agosto del 1945 fu fatta esplodere la bomba all’uranio 235 sulla città di
Hiroshima fu chiaro a tutti che si era aperta una nuova epoca nella storia della specie
umana. Per la prima volta l’umanità si accorse di essere mortale in quanto umanità. Prima
di allora le guerre, per quanto violente e rovinose, erano state ritenute il doloroso prezzo
da pagare per ristabilire la pace o per promuovere progressi materiali nella condizione di
un paese. Le armi atomiche pongono l’umanità di fronte ad uno scenario inedito: un
conflitto nucleare totale non lascerebbe sopravvissuti in grado di capitalizzare la vittoria e
di godere del bottino di guerra.
Di fronte alla rappresentazione del negativo e alla possibilità della sua estinzione
simultanea l’umanità scopre improvvisamente di abitare un villaggio globale in cui conflitti
locali e circoscritti possono avere ripercussioni istantanee e catastrofiche della portata
planetaria.
La dinamica della contaminazione nucleare ricorda sintomaticamente i flussi del
broadcasting, irradiati da un luogo a tutti gli altri. La bomba e la TV possono essere
considerati come gli effetti complementari di un medesimo modello di socializzazione e di
civiltà fondato sull’omologazione e sulla massificazione. Il fuoco della bomba atomica
distrugge almeno quanto lo splendore della televisione illumina distruggendo. O meglio,
l’uno distrugge illuminando e l’altro illumina distruggendo, ossia decretando la morte
sociale dei luoghi e dei corpi esclusi dallo schermo, ad esempio i luoghi del Terzo Mondo
colonizzati quando non del tutto ignorati, e i corpi degli emarginati privati del diritto di
cittadinanza mediale.
Nel XX secolo lo sviluppo delle forze produttive va di pari passo con l’estensione delle
potenze distruttive.
La Tv e la bomba sono entrambi dispositivi sia tecnologici sia simbolici, che in modi diversi
eppure convergenti trasformano ed insieme illuminano il mondo.
La tecnica, che nel contesto della vita civile era strumento di progresso e di miglioramento
della qualità della vita, si manifesta in una luce sinistra ed inquietante quando viene
impiegata a fini bellici per produrre morte. Ciò che era rassicurante ed al servizio
dell’uomo si propone improvvisamente come qualcosa di abnorme e demoniaco che
sfugge ad ogni controllo umano.
Di fronte alla minaccia della catastrofe nucleare tutti gli uomini sono livellati, le differenze
sociali e individuali sono annientati, non c’è spazio per nessun sopravvissuto. Anche dal
punto di vista mediologico l’esplosione del nucleare rappresenta un grande evento: la
55
catastrofe diventa spettacolo edificante, ma anche mistificare ed addomesticare dal potere
delle immagini. L’evento unico della distruzione è osservabile e replicabile attraverso le
tecnologie della riproducibilità.
Alla stessa dinamica simbolica della bomba appartengono in un certo senso altri due
eventi mediali e tecnologici: la conquista della Luna e la produzione di macchine
cibernetiche.
L’avventurosa conquista dello spazio extraterrestre rappresenta un evento
morfologicamente simile ma assiologicamente contrario alla bomba. Simile perché ha i
crismi del grande evento planetario a misura della civiltà industriale di massa, contrario
perché finalizzato alla conquista di una territorialità immateriale, quella dell’immaginario
collettivo, abitata non dai bisogni ma dal desiderio.
Quando nel 1957 l’Unione Sovietica lancia nello spazio lo Sputnik, il primo satellite
artificiale, si apre un nuovo fronte nel conflitto ideologico tra paesi capitalisti e comunisti.
Dopo la rovinosa esperienza del Secondo Conflitto Mondiale, la Guerra Fredda appare
come la soluzione più efficace per continuare a confliggere senza provocare direttamente
vittime. La corsa alla conquista della luna contribuisce a spostare il conflitto dal piano
esclusivamente bellico a quello scientifico-tecnologico.
La conquista del cosmo ha importanti risvolti sullo sviluppo dei mezzi e della cultura della
comunicazione.
In primo luogo, perché i satelliti rendono possibile l’estensione del sistema delle
comunicazioni in tempo reale a tutto il globo. Ma c’è anche un'altra ragione per ritenere
che i satelliti producano i presupposti di un nuovo modo di abitare il mondo. Per la prima
volta nella storia dell’umanità la terra può essere vista dal di fuori.
Dalla fase della terra osservata dalle sue creature umane si passa a quella dell’uomo
osservato dalle sue creature tecniche.
Il razzo e la capsula spaziale pongono fine alla supremazia della ruota della macchina. Il
progetto ideologico che ispira la costruzione di macchine cibernetiche è ancora più
ambizioso dal momento che mira ad eliminare completamente ogni conflitto umano ed è
anche la realizzazione di un sistema comunicativo, razionale e trasparente. (Cibernetica:
scienza del controllo e della comunicazione).
Il mito della comunicazione globale viene ideologicamente concepito ed alimentato come
dispositivo in grado di esonerare l’umanità dalla guerra e di debellare una volta e per tutte
le barbarie della violenza.
A partire dal secondo dopoguerra la comunicazione acquista un ruolo di primo piano non
più solo nella tradizionale funzione di pubblicizzare la decisione assunte dal sistema
politico ma soprattutto come strumento indispensabile per la loro negoziazione e
produzione.
È stato osservato che la realizzazione cibernetica di macchine pensanti, di “cose che
sentono”, costituisce la più recente ricaduta tecnologica delle tendenze feticistiche che
sarebbero connaturate all’essenza della civiltà e dei consumi, della moda e dello
spettacolo. Il feticismo esprime un processo di confusione tra l’organico e l’inorganico, per
effetto del quale gli uomini tendono ad essere reificati come lavoratori e come
consumatori, e le cose invece ad essere umanizzate, cioè caricate di valori simbolici ed
affettivi: “la distinzione culturale che il feticismo abolisce è innanzitutto quella fra persona e
cosa. Feticista è ogni processo o istituzione che tratta le persone come cose o viceversa”
56
Capitolo VIII
Il sistema televisivo
59
Infine, il terzo mutamento indotto dalla diffusione dei media elettronici consiste
nell’”esposizione dell’area di retroscena”, cioè nell’allargamento della sfera di ciò che è
pubblicamente visibile ai comportamenti tradizionalmente ritenuti privati, ad esempio la
vita sentimentale degli uomini politici: ciò tende a rendere più informali e meno normate le
relazioni sociali, in assoluta controtendenza rispetto ai processi di differenziazione sociale
che hanno caratterizzato il processo di civilizzazione moderna per cui il pubblico è
diventato sempre più pubblico ed il privato sempre più privato.
Mentre lo schermo del computer rappresenta uno spazio puramente mentale in cui tutto è
ovunque ma in nessun luogo particolare, invece dall’altra parte dello schermo televisivo
esiste o è esistito comunque uno spazio reale, anche se è lo spazio costruito e artificiale di
un set.
60
trasformazione degli individui da spettatori ad attori chiamati a rendersi protagonisti della
loro felicità privata mediante la pubblicità e della loro
Felicità pubblica mediante il suffragio universale, le organizzazioni partitiche e la
socializzazione mediatica alla politica. Lo spettacolo non si offre più alla visione lontana e
distaccata dello spettatore cinematografico, ma scorre insieme con lo spettatore, cui la
televisione offre l’opportunità di partecipare direttamente agli eventi ma anche il rischio di
essere coinvolto nel loro naufragio.
Coerentemente a questo mutamento di paradigma che investe oltre che le abitudini fruitive
anche i modi di essere nella società, cambiano dal cinema alla TV anche le pratiche
discorsive.
Infatti, il cinema organizza la rappresentazione secondo un principio narrativo sequenziale
e unitario mentre la TV apparentemente si limita ad esibire la molteplicità del reale.
L’avvento dell’elettronica non sostituisce al discorso la realtà, ma un insieme incoerente di
discorsi, il cui fascino caotico tende ad assomigliare a quello della realtà stessa, favorendo
l’illusione di un rapporto diretto e globale, spazialmente potente, con il mondo intero e con
tutto quanto lo abita.
Gli effetti di shock percettivi provocati dal linguaggio filmico riflettono la condizione di
sovrastimolazione sensoriale dei passanti sradicati dal loro ambiente vitale e inquietati dal
traffico della metropoli.
La prima conseguenza della trasmissione in diretta è che la televisione istituisce un
legame sincronico e immediato fra gli apparati produttori e distributori di conoscenza e i
telespettatori. Così facendo, fornisce un quoziente di rassicurazione ontologica per ovviare
alla crisi di visibilità e di fiducia che investe le istituzioni e gli attori sociali in situazioni di
disaggregazione spazio temporale.
In altri termini, il flusso televisivo per il suo carattere do presenza costante e confidenziale,
viene percepito come un dispositivo comunicativo che dal nucleo domestico consente di
conferire senso e di rendere prevedibile una realtà sociale altrimenti opaca ed instabile. È
il modo in cui il globale si esibisce nella dimensione locale, e in cui il locale si affaccia a
quella globale.
Il secondo effetto che le trasmissioni televisive provocano sulle abitudini di vita dei
telespettatori consiste nella loro responsabilizzazione relativamente ai tempi e ai modi del
consumo di comunicazione. Rispetto ad una forma di comunicazione altrettanto istantanea
come il teatro, che esige massima attenzione ed immobilità da parte del pubblico, la
televisione di presta ad un ostacolo distratto, occasionale e “tattico”.
A teatro la vita del pubblico si annulla per lasciare la ribalta allo spettacolo drammaturgico,
in TV, invece, lo spettacolo trasmesse si diluisce e si integra nella temporalità e nei ritmi
della vita quotidiana, realizzando in un certo senso il progetto di eliminare ogni barriera tra
attore e pubblico, tra azione e osservazione.
L’invenzione del telecomando consente al telespettatore di allestire palinsesti
personalizzati in modi indipendenti dalle strategie di offerta dagli apparati emittenti. Il
telecomando ha fatto il suo ingresso nelle famiglie americane oltre quarant’anni fa, nel
giugno del 1956. Da allora è diventato un oggetto dalla forte densità simbolica nella cultura
contemporanea, sia in quanto punto di coagulo dei conflitti e dei rapporti di forza all’interno
delle famiglie come una sorta di “discendente della mazza medievale”, sia come metafora
della cosiddetta generazione dello zapping, abituata fin dalla più tenera età a contaminare
61
i linguaggi e i discorsi più disparati, e a smussarne le differenze coerentemente ad un
atteggiamento mentale tipicamente postmoderno.
Nel 1956 viene realizzato anche il primo videoregistratore, un dispositivo elettronico, allora
non ancora rivolto ad uso domestico, che consente di registrare i programmi su nastro
magnetico ottimizzando i costi e prestazioni della produzione e della programmazione
televisiva. A partire da quel momento può nascere la televisione differita che, consentendo
il montaggio e la post produzione, amplia e perfeziona le possibilità espressive del mezzo.
Perché il videoregistratore esca dagli studi televisivi e diventi un apparecchio domestico
bisogna attendere quasi venti anni. L’uso del videoregistratore favorisce e incentiva le
pratiche soggettive i “consumo produttivo” da parte dei telespettatori, giacché fornisce loro
l’opportunità di allestire memorie audiovisive sempre a disposizione e palinsesti
personalizzati.
Il videoregistratore prepara l’ingresso in una nuova dimensione comunicativa. In essa la
fruizione non è più consumata nel tempo dell’attualità ma nel tempo della virtualità, che
consente a ciascuno di consumare i programmi audiovisivi come se si trattasse di libri,
ovvero saltandone parti o rivedendo sequenze.
Come dimostrò drammaticamente la crisi finanziaria del 1929, il capitalismo non sarebbe
stato in grado di assicurare un tasso di sviluppo costante e progressivo in assenza di una
regolazione sociale e politica capace di integrare il lavoro salariato nel complesso
produttivo e di organizzare una domanda regolare e crescente dei beni di consumo.
Negli anni del capitalismo il sistema politico ha funzionato da cinghia di trasmissione di
valori e comportamenti creati dalla fabbrica per essere assorbiti dalla società.
Attraverso opportune politiche di redistribuzione del reddito di investimenti in servizi sociali
come trasporti scuola e sanità, gli apparati dello stato si assumevano il compito di
sostenere la domanda aggregata e di organizzarla su dimensioni di massa.
Con la diffusione generalizzata della comunicazione televisiva negli anni Settanta il
collaudato sistema di regolazione economico-sociale fordista-keynesiano comincia ad
entrare in crisi per effetto di una domanda di consumo che tende a diventare fluttuante ed
instabile, contestualmente ad una società che si va facendo sempre più complessa e
differenziata. L’instabilità della domanda spiazza il gigantismo strutturale delle grandi
industrie, mentre premia l’attitudine all’invenzione delle piccole e medie imprese,
decretando il successo dei modelli di specializzazione flessibile.
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Nelle imprese flessibili viene reclutata una manodopera altamente specializzata al fine di
ridurre le spese di formazione per eventuali riconversioni produttive. Nelle strategie di
mercato la flessibilità produttiva non insegue indiscriminatamente la massa dei
consumatori, ma mira a ritagliarsi nicchie di mercato e a rifornirle tempestivamente con
prodotti appropriati e personalizzati. Nelle imprese flessibili diventa centrale la
comunicazione con il consumatore e il trattamento simbolico della merce e non il rapporto
prestazione-prezzo. La storia dell’Italia repubblicana è stata per molti versi la storia di una
democrazia economica e politica bloccata.
Nell’epoca del monopolio la televisione pubblica rispecchiava perfettamente la condizione
di un paese a democrazia bloccata. Lo sbarramento dei tetti pubblicitari impediva alla
quasi totalità delle piccole e medie imprese di accedere al grande pubblico televisivo. Gli
stessi contenuti e formati dei programmi erano progettati piuttosto con intenti
illuministicamente pedagogici che per intercettare il corpo dei vissuti e dei desideri del
pubblico.
In questo contesto l’avvento delle Tv private ha svolto la funzione, assolutamente vitale in
democrazia, di ridefinire i soggetti abilitati alla produzione della conoscenza sociale: la
raccolta, il trattamento e la distribuzione delle informazioni non sono più sottoposte
soltanto al controllo di organismi politici, come il governo e la commissione di vigilanza
parlamentare sulla RAI, ma sono affidati al libero gioco del mercato dei consumi.
Informazioni, valori, emozioni e miti di oggi passano ormai piuttosto attraverso lo schermo
televisivo che attraverso le tradizionali istituzioni di socializzazione come scuola, chiesa,
sindacati, partiti e famiglia. Al principio degli anni Novanta le imprese televisive, a fronte di
un costante incremento dei costi di produzione e di distribuzione, si trovano a dover fare i
conti con i primi segni di un fenomeno di crisi che investe le risorse economiche
tradizionali, ossia il canone e la pubblicità.
Il canone che finanzia il servizio pubblico viene ritenuto inadeguato in una situazione
caratterizzata dalla moltiplicazione e dalla diversificazione dell’offerta comunicativa.
Quando alla pubblicità, gli inserzionisti tendono o comunque tenderanno sempre più a
dirottare gli investimenti verso mezzi d’informazione personalizzati ed interattivi, in grado
di ottimizzare la segmentazione del pubblico e la misurazione dell’efficacia dei messaggi.
Dal punto di vista economico la merce comunicazione sarà sempre più assimilata agli altri
beni di consumo, pagati direttamente dal consumatore finale. In questo senso va letta la
diffusione della televisione a pagamento e della pay-per-view, modelli distributivi destinati
a produrre “una ridotta dipendenza dall’economia dei media dall’andamento degli altri
settori economici e una più diretta valorizzazione dei prodotti di comunicazione da parte
dei consumatori”.
A questo mutamento di modelli distributivi fa da sfondo la trasformazione tecnologica del
modo di diffondere il segnale televisivo dalla trasmissione attraverso l’etere a quella via
cavo. Come è noto, l’etere è una risorsa scarsa, mentre attraverso il cavo è possibile
moltiplicare l’offerta delle trasmissioni. Per questa ragione, la Tv via etere è costretta alla
programmazione di palinsesti generalisti, pensati per soddisfare le esigenze comuni del
pubblico nel suo complesso.
La Tv via cavo, invece, è in condizioni di fornire un pacchetto assortito di canali rivolti ad
esigenze fruitive molto più circoscritte e particolari. È questo il motivo per cui, mentre la Tv
via etere insegue la quantità degli ascolti da vendere agli inserzionisti pubblicitari, quella
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via cavo si concentra sulla qualità dei programmi pagati direttamente da chi li fruisce. La
situazione attuale nel nostro paese caratterizzata dall’integrazione di questi due modelli di
offerta televisiva.
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2) La neotelevisione esprime una dinamica di transizione e di ibridazione tra nuovi e
vecchi linguaggi espressivi per impulso delle nuove strategie dei consumi. È la fase
delle emittenti commerciali diffuse a livello nazionale, avviata a partire dalla
costituzione di Canale 5 il 30 settembre 1980, ma maturata nell’ultimo decennio.
3) La post-televisione rappresenta la fase del delicato passaggio tra la catastrofe dei
mezzi, dei formati e dei soggetti televisivi e l’esplosione dei linguaggi interattivi e
virtuali legati al computer e alla telematica.
Negli anni sessanta la televisione diventa il mezzo più importante nel sistema dell’industria
culturale italiana. Direttamente controllata dal potere esecutivo, essa viene usata
politicamente come strumento di pedagogia civile, con funzioni di socializzazione, di
controllo e di ricerca del consenso.
La televisione di quel periodo rispecchia una società in via di democratizzazione e svolge
un ruolo determinante nella costruzione di un modello sociale più moderno, pluralista ed
aperto alla domanda di partecipazione alla vita civile che proviene dal paese.
Le nuove generazioni cresciute secondo i valori espressi nella musica rock cominciano a
trovare inadeguata ai loro bisogni culturali una televisione che esprime prevalentemente
cultura e valori di ispirazione cattolica e che è gestita in modo dirigistico dalla classe
politica governativa.
La legge di riforma del 14 aprile 1975 modifica allora il quadro istituzionale del sistema
radiotelevisivo italiano sancendo sostanzialmente tre principi:
1) La comunicazione via etere è sottratta al controllo del potere esecutivo e viene
istituita la commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI.
2) È istituita una terza rete pubblica a carattere regionale per assicurare il
decentramento e la valorizzazione delle risorse culturali locali.
3) Viene consentita la ripetizione di televisioni straniere sul territorio nazionale al fine
di garantire la libera circolazione delle idee.
Complessivamente la Tv generalista tradizionale ha funzionato in Italia come potente
strumento di civilizzazione che ha tutto sommato contribuito a creare una cultura
nazionale. La fase culminante della Tv generalista o cosiddetta neotelevisione, che si
afferma a partire dagli anni Ottanta, è invece espressione di una mutata condiziona
sociale ed economica. Se l’obiettivo della prima Tv generalista era essenzialmente
pedagogico, quello della neotelevisione è legato alla competizione di mercato.
Competizione tra le aziende e competizione tra le emittenti televisive pubbliche e private.
La crisi della Tv generalista può essere letta come effetto della crisi di controllo
sull’audience da parte dei suoi linguaggi e dunque da parte degli inserzionisti pubblicitari.
Le aziende non sono più interessate ad orientare i loro messaggi pubblicitari verso un
pubblico omogeneo ed indifferenziato, ma ricercano segmenti di pubblico particolari,
raggiungibili attraverso canali che forniscono un’offerta specializzata e diversificata di
programmi.
Dal punto di vista espressivo la neotelevisione si caratterizza per la ricerca del
coinvolgimento empatico del pubblico attraverso effetti di prossimità quotidiana e di
convivialità fiduciaria.
Ne consegue una programmazione che dissolve la tradizionale suddivisione dei generi e
produce una loro continua contaminazione, mentre da un punto di vista temporale la
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neotelevisione risulta elastica, a causa dei diversi ritmi delle trasmissioni e dell’effetto
zapping.
La Tv interattiva supera il modello del broadcasting, cioè l’idea di una comunicazione
unidirezionale da uno a molti, e si avvicina al modello telematico della rete che prevede la
comunicazione da molti e molti, mentre la possibilità di ricevere trasmissioni via satellitare
mediante antenne paraboliche domestiche rende obsolete le legislazioni nazionali sulla
distribuzione e il controllo dell’etere e mette in discussione il concetto stesso di sovranità e
di territorialità nazionale.
Il punto di svolta ed esodo dal paradigma televisivo a quello del computer e dei new
media, cioè dai mass ai personal media, può essere esemplificato come il passaggio dalle
limitazioni dello spettro radio dell’etere alla illimitata larghezza di banda dei fili di vetro in
fibra ottica.
Capitolo IX
I new media
I new media stanno trasformando la nostra vita quotidiana con un ritmo ed una pervasività
tali che fatichiamo ad elaborare un soddisfacente ed adeguato quadro interpretativo dei
loro significati ed implicazioni.
I new media, prima ancora che cambiare gli oggetti, cambiano i soggetti del sapere,
delegittimando le culture e le istituzioni tradizionali ad emettere giudizi ed interpretazioni.
Comunicare interattivamente vuol dire partecipare ad un’azione in divenire e virtualmente
infinita, dagli esiti non prevedibili a priori e costantemente rinegoziabili.
Il formato che le nuove tecnologie della comunicazione tendono ad utilizzare per
organizzare e trasmettere la conoscenza è il linguaggio ipertestuale (testo interattivo).
L’utente dell’ipertesto non è tenuto a seguire percorsi di lettura lineari e sequenziali, anzi
viene invitato a navigare, cioè ad attraversare creativamente i nodi ipertestuali.
L’interattività e la virtualità costituiscono le emergenze dei nuovi media elettronici, ma
anche l’espressione di bisogni comunicativi. Si tratta di due tendenze antichissime, due
vocazioni dell’uomo: dare voce a se stesso dialogando con l’altro e dare forma al reale.
L’una come liberazione dai veicoli della comunicazione industriale classica, l’altra come
esasperazione estrema della sua dimensione meta territoriale, immateriale. L’una dipende
dall’altra.
Interattività e virtualità sono qualità espressive legate ad esperienze di consumo
individuale, personalizzato e creativo. Consumo individuale che, a lungo gestito da sistemi
massificati, tende ora a liberarsi in autonome capacità produttive, in esperienze di
autoproduzione.
Secondo un giudizio diffuso stiamo vivendo al presente una terza rivoluzione industriale
dopo quelle caratterizzate dalle invenzioni della macchina a vapore e dell’elettricità. Una
rivoluzione che scaturisce dalla convergenza delle telecomunicazioni e dell’informazione
attraverso il comune della tecnologia digitale. Una rivoluzione che attraverso il massimo
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sviluppo dell’artificio tecnologico ritrova l’immediatezza, la spontaneità e la duttilità della
comunicazione faccia a faccia.
Per effetto delle tecnologie della virtualità si porta a compimento un processo di
liquidazione del mondo. L’uomo primitivo vivevano in uno stato di perenne metamorfosi, la
fluidità del senso non si era ancora cristallizzata nella determinatezza dei significati, il
tempo era vissuto nella sospensione di un’infinita reversibilità.
La radiotelevisione aveva in un certo senso cominciato a recuperare la dimensione della
liquidità del mondo. Le tecnologie della telecomunicazione hanno svincolato l’agire sociale
dalla materialità dei luoghi facendo acquisire all’uomo un’inedita qualità spaziale, quella
dell’onnipresenza.
Il filosofo Gunther Anders ha osservato che: “mentre un tempo si era inattivi là dove non si
era, ed “essere” aveva sempre significato “essere in un posto determinato, ora si può
appunto essere contemporaneamente in più posti, virtualmente dappertutto”.
La virtualizzazione, intesa come progressivo processo di ominazione tendente a liquidare
il mondo e deterritorializzare i corpi, non comincerebbe tuttavia con il computer. Sarebbe
un’esperienza molto più antica che ha origine con la scrittura, ovvero con le prime forme di
grammatizzazione del mondo.
< Inizialmente la parola è indissociabile dal soffio, da una presenza viva qui e ora. La
scrittura (la grammatizzazione della parola) separa il messaggio dal referente corporeo e
dalla situazione contingente. La stampa, standardizzando la grafia, staccando il testo letto
dalla traccia diretta di una prestazione muscolare, è il proseguimento di questo processo.
Il tratto virtualizzante della stampa è il carattere mobile. L’informatizzazione dei linguaggi
accelera il movimento avviato dalla scrittura riducendo ogni messaggio a combinazioni di
due simboli elementari, zero e uno. Qualunque sia la natura del messaggio, essi
compongono delle sequenze decodificabili da qualsiasi computer. L’informatica è la
tecnica maggiormente virtualizzante perché è quella che maggiormente grammatizza.>
Da un certo punto di vista i processi di virtualizzazione coincidono con i fenomeni di
desocializzazione che secondo Alain Touraine investono i sistemi sociali contemporanei.
In altri termini, il soggetto contemporaneo non è più identificato per quello che fa nella
società ma per quello che è in termini culturali e psicologico. L’opera di liquidazione del
mondo e di virtualizzazione dei processi cognitivi e comunicativi sostenuta dai new media
accentua fortemente questo fenomeno di separazione e di differenziazione tra individuo
sociale e soggetto personale. I new media, infatti, privilegiano e promuovono forme di
trasmissione e di fruizione della conoscenza che non sono in prima istanza legate alle
esigenze della socializzazione, ma che, al contrario, appaiono particolarmente congeniali
alla coltivazione soggettiva del piacere, del gioco, dell’esplorazione e della ricerca di
identità e di espressività personale.
Secondo lo studioso americano David Bolter ogni epoca è identificata da una specifica
“tecnologia caratterizzante”, ovvero una tecnologia ad immagine della quale gli uomini
concepiscono e interpretano sé stessi. Nell’età dell’industrialismo l’orologio si prestava a
definire la società umana attraverso la metafora dell’ingranaggio macchinico. Nella società
dell’informazione è il computer che diventa la nuova tecnologia di definizione: guardando
ad esso l’uomo sarebbe indotto a pensarsi come immateriale elaboratore di informazioni.
David Lyon mette in rilievo che le tecnologie dell’informazione sono condizionate dalle
strutture e dagli interessi forti della società almeno nella stessa misura in cui a loro volta li
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condizionano. Ad esempio, la riconversione alla tecnologia digitale che dalla metà degli
anni Ottanta sta interessando in tutto il mondo sviluppato le infrastrutture e le reti delle
telecomunicazioni, sembra destinata a riprodurre nuove forme di esclusione e di disparità
che non sono il risultato dell’innovazione tecnologica, ma essenzialmente di
condizionamenti economici e politici. (Divario digitale)
Dal nostro punto di vista, però, osserviamo che le nuove tecnologie della comunicazione
corrispondono e danno corpo a proiezioni simboliche e bisogni espressivi fortemente
radicati nell’immaginario dei gruppi umani. Innovazioni come internet (evoluzione della rete
militare Arpanet) o la realtà virtuale (impiegata all’inizio per addestrare i piloti militari in
simulazioni di volo) sono nate certamente per impulso di potenti e spesso occulti interessi
delle corporazioni militari. Ma sarebbe estremamente riduttivo limitare la portata delle
nuove tecnologie della comunicazione al significato di sofisticati strumenti messia punto
solo per perpetuare logiche di potere verticale di gruppi organizzati. Ciò su cui mette conto
interrogarsi è il processo che ha dirottato tali tecnologie verso applicazioni civili e le ha
trasformate in tecnologie domestiche.
Tutto lo sviluppo tecnologico, dalla conquista della stazione eretta all’invenzione del
computer, può essere descritto in sintesi come distacco dall’ambiente naturale e
costruzione di un ambiente artificiale. Ogni attività umana è sempre stata condizionata
dalla disponibilità delle materie prime ricavabili dall’ambiente naturale. La produzione di
oggetti è quindi sempre stata costruzione attraverso elementi già dati e mai creazione dal
nulla. Analogamente gli strumenti comunicativi sono stati per lungo tempo concepiti come
dispositivi analogici. Le potenzialità espressive dell’uomo si sono sempre basate, ma
anche sono sempre state limitate, dalle materie prime disponibili in natura.
Le tecnologie analogiche che hanno reso possibile la riproduzione del reale non bastano
più, ora che i flussi e i bisogni comunicativi si sono moltiplicati a dismisura. L’intero
universo del comunicabile viene scomposto e ricomposto attraverso una sequenza di
operazioni. Il prodotto finale è un sistema di rappresentazione che non ha nessun
collegamento e nessuna corrispondenza necessaria con la natura fisica del fenomeno
rappresentato.
L’immagine digitale intrattiene con il proprio referente estensionale un rapporto che non è
di tipo indicale ma essenzialmente iconico.
9.2 L’interattività
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