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CHE COS'È LA POESIA?

La poesia è un particolare tipo di scrittura letteraria, caratterizzata da una serie


di artifici metrici, ritmici e retorici attraverso i quali si realizza al massimo grado
la funzione poetica del linguaggio.
Nella poesia significante e significato sono indivisibili: il primo indica le parole
della poesia, il loro suono e il loro ritmo (cioè come la poesia è scritta), mentre il
significato rappresenta il messaggio vero e proprio della poesia.

La poesia viene definita polisemica perché ogni parola, verso ecc.


ha almeno 2 significati: quello letterale e quello simbolico.
La poesia è scritta in versi (da latino “vertere”, voltare, andare a capo), una riga
di poesia scandita dal a capo e dotata di un preciso metro e ritmo.

La metrica è la disciplina che studia la composizione dei versi e la loro struttura


ritmica. E’ l’aspetto che avvicina di più la poesia alla musica (nell’antichità la
poesia che esprimeva i sentimenti del poeta era accompagnata dal suono della
lira). La metrica greca e latina era di tipo quantitativa (fondata sull’alternanza di
sillabe lunghe e brevi) mentre quella italiana è di tipo accentuativa (fondata
sull’alternanza di accenti tonici e ritmici).

Il termine poesia deriva dal verbo greco poièo che significa “fare, produrre” e


infatti è l’arte di produrre composizioni verbali.
La poesia esiste sin dalla notte dei tempi e anticamente aveva valore sacro e
perciò veniva utilizzato come strumento che metteva a contatto il cielo con la
terra.

Nella poesia, a differenza degli altri testi, ciò che si dice è importante quanto
come lo si dice e per questo vi è una forte relazione tra significato e significante.

LE CARATTERISTICHE DELLA POESIA


 
Metrica: insieme di convenzioni relative al ritmo e alla struttura dei versi.
Ritmo: la successione di suoni accentati e di suoni non accentati.
Verso: deriva da vertere che significa ritornare a capo ed è l’unità di misura
fondamentale del testo poetico.
Sillaba. La sillaba è l’unità di misura del verso e a seconda del numero di sillabe
il verso può essere parisillabo o imparisillabo.
Figure metriche. Le figure metriche sono delle figure che regolano l’incontro
delle vocali nel verso:
 Sinalefe: l’ultima lettera di una parola e la prima della parola successiva vengono
considerati un'unica sillaba se sono tutte due vocali;
 Dialefe: l’ultima lettera di una parola e la prima della parola successiva vengono
se sono tutte due vocali, dovrebbero essere considerati un'unica sillaba, ma se la
prima è accentata no.
 Dieresi: si evidenzia con la dieresi due sillabe che normalmente verrebbero
considerate dittongo per separarle.
 Sineresi: quando due vocali che normalmente sono in iato vengono considerati
dittongo.
Accento ritmico. L’accento che conferisce un particolare ritmo al verso.
Emistichio. Dal greco mezzo verso.
 I versi 
Versi sdruccioli, piani e tronchi. Si dice verso:
 sdrucciolo: quando l’accento tonico cade nella terzultima e al conteggio delle
sillabe si toglie una sillaba in meno.
 piano: quando l’accento cade nella penultima.
 tronco: quando l’accento cade nell’ultima e perciò si conta una sillaba in più.
Cesura. Un artificio molto importante del verso è la cesura che ha lo scopo di
creare una pausa e che deriva dal termine latino caedo che significa taglio.
La sua collocazione sta più o meno a metà verso, ma non è sempre regolare e
spesso coincide con una pausa sintattica come una virgola o una pausa logica, la
quale indica un cambiamento di discorso.

La cesura si utilizza quando si vuole mettere in evidenza una parola chiave come
un particolare aggettivo o sostantivo, che per il poeta è interpretata
fondamentale per capire il contenuto della sua poesia.

 Enjambement 
L’enjambement è uno dei tanti artifici della lingua del quale il poeta utilizza per
arricchire il suo testo. Letteralmente deriva dal termine francese enjamber che
vuol dire “oltrepassare, andare oltre” la misura del verso e infatti significa
“scavalcatura e inarcamento”.
Nella poesia il poeta adotta una seria di regole che gli permettono di scegliere
quando andare a capo e quando le unità metriche e le unità sintattiche, cioè la
frase e il verso devono coincidere.

Scavalcatura, perché la frase sconfina nel verso successivo e ciò significa che si
può trovare in versi diversi le parti sintattiche di una frase.

Molti poeti, come ad esempio Foscolo, adottano l’enjambement con varie


funzioni, per far sì che la poesia abbia senso o per rallentare il ritmo della poesia.

Separando le parti sintattiche meno importanti si può rallegrare utilizzando


l’enjambement per accelerare la poesia, se invece si vuole dare un’ impressione
di malinconia si usa per rallentare.

 Rima 
Il testo poetico è caratterizzato da un elemento fondamentale chiamato rima, che
in passato era quasi obbligatoria. La rima è l’identità di suono della parte finale
di due parole, dette compagne di rima a partire dalla vocale tonica, cioè quella
accentata.
Versi senza rima sono versi sciolti cioè come quelli moderni. La rima non viene
scelta a caso, ma anzi spesso vengono scelte compagne di rima parole che siano
sinonime o opposte.

Schemi delle rime.

 Baciata: AABBCCDD. Effetto vivace delle filastrocche.


 Alternata: ababcdcd. Un po’ più variante ma sembra abbastanza allegro.
 Incrociata: Abbacddc
 Incatenata: Ababcbcdc. Dante è colui che ha inventato questo artificio.
Rima al mezzo. La rima al mezzo cade nella parte finale dell’emistichio nelle sue
prossimità, in cui cade la cesura e fa rima con l’ultima o con un’altra in mezzo di
un verso successivo.
Rima interna. La rima interna invece cade in qualunque altra posizione che sia
interna al verso.
Terza rima. La terza rima è una struttura metrica creata da Dante Alighieri che la
usò nella Divina Commedia e portata alla fama in tale opera.
Una composizione in terza rima presenta una sequenza di tre endecasillabi a
rima incatenata: ABA BCB CDC.

Ottava rima. L’ottava rima è una forma metrica che fu usata soprattutto dal
poeta Boccaccio, composta da strofe di otto versi di cui sei endecasillabi a rima
incatenata e due endecasillabi a rima baciata.
Lo schema metrico ABABABCC sono state usate dai poemi epici del 1500.

La rima secondo il rapporto di significato:

 Rima perfetta: si ha quando due parole hanno una perfetta identità di suono a
partire dalla vocale accentata e per cui corrisponde alla rima baciata.
 Rima imperfetta: si ha un’identità parziale di suono a partire dalla vocale
tematica data dal fatto che la parola è condizionata dall’assonanza (consonanti
diverse e vocali uguali) e dalla consonanza (consonanti uguali tranne la vocale
tonica invece per altri è l’esatto contrario dell’assonanza).
 Rima equivoca: si ha quando due parole sono identiche foneticamente ma di
diverso significato.
 Rima ipermetra: si ha quando l’ultima sillaba di un verso supera la misura del
verso stesso e dal punto di vista metrico fa parte del verso successivo.
 Rima ricca: si ha quando vi è un’identità di suono o di fonema precedente alla
vocale tonica.
 
 Strofe 
Le strofe sono un raggruppamento di più versi, caratterizzate dal numero di versi
utilizzato, dalla disposizione dello schema delle rime e dal tipo di rime.
Forme metriche o metro. Combinazione di strofe con certi tipi di versi o di rime
di origine medievale, rinascimentale o della modernità.
TIPI DI COMPONIMENTO POETICO
 
Sonetto. Il sonetto è la forma metrica più utilizzata e anche la più antica, nasce
nella Scuola Siciliana. Il sonetto è composto da due quartine seguite da due
terzine (14 versi).
Solitamente le quartine sono a rima incrociata o alternata: ABBA - ABAB. Invece
le terzine sono solitamente a rima alternata (CDC DCD) oppure invertita (CDE
EDC).

Canzone. La canzone inizialmente era accompagnata dalla musica e


successivamente venne utilizzata soprattutto da Francesco Petrarca.
La canzone è una forma metrica di contenuto vario ed elevato composta da un
massimo di dieci strofe ad un minimo di cinque.

I versi che compongono le strofe di questa particolare forma metrica sono


endecasillabi e settenari, con rime tra loro con varie possibilità.

Canzone libera. La canzone libera è una forma metrica meno vincolata, più
moderna e libera, utilizzata soprattutto da Giacomo Leopardi. La canzone libera
è composta come la normale canzone da endecasillabi e settenari, spesso però
sciolti.
Ballata. La ballata è un componimento che anticamente era accompagnato sia
dalla musica, sia dalla danza e la sua caratteristica più comune è quella di avere
un ritornello che si ripete identico fino alla fine della strofa.
Questa forma metrica, che può avere varie lunghezze e di cui il maggior
esponente è Petrarca, è nata nel 1300 e ha trovato vario impiego nei numeri
successivi.

Madrigale. Il madrigale è una forma metrica che prende nome dalla musica che
lo accompagna, si formò nel ‘300.
Il madrigale è dato da un componimento di 2 o 5 terzine chiuso da uno o due
distici e i versi che lo compongono possono essere solamente endecasillabi.
Questa forma metrica fu usata fino all’800.
Ode. L’ode è una forma metrica di cui il suo maggior esponente fu Giuseppe
Parini ed è data da versi misti o unici più brevi che possono essere quinari o
settenari oppure ottonari e quaternari.
L’ode può avere molti contenuti (religiosi o politici) e molti schemi metrici,
questi sono i motivi dei suoi molti nomi, infatti può essere detta inno, romanzo e
canzonetta.

FIGURE RETORICHE
 
Le figure retoriche sono forme espressive basate su una deviazione dal linguaggio
comune, il cui scopo è quello di rendere il messaggio più efficace ed espressivo,
perciò si possono considerare artifici efficienti.
Esse vengono usate anche nel linguaggio quotidiano, ma si può dire che trionfino
nella poesia, il loro terreno più fertile.

La retorica nacque in Grecia e poi si diffuse a Roma e anticamente indicava l’arte


del convincere e del bel parlare ed era professata dall’oratore, colui che parlava
in pubblico.

Tipi di figure retoriche. L’uso attuale nel campo poetico è per lo più d’ornamento
e viene utilizzata dal poeta per dimostrare la sua bravura e la caratteristica
plasmatica della lingua, la quale possiede molti adeguamenti e faccettature.
Le figure retoriche si dividono in tre grandi categorie: del suono (l'aspetto
fonico-ritmico delle parole), del senso e del significato (lo spostamento di
significato che i vocaboli possono assumere) e dell’ordine sintattico (disposizione
dell’ordine nella frase).

Figure retoriche del suono 


Le figure retoriche del suono sono quelle relative alla ripetizione e al parallelismo
dei suoni. Insieme alla rima e spesso sostituendola esse danno al testo poetico
particolari effetti fonici e di significato.
Alcune figure fonetiche nascono dalla riproduzione o dall’imitazione del suono e
si possono creare figure di fonosimbolismo quando le parole scelte hanno un
certo significato.
Riproduzione dei suoni:

 Paronomasia: accostamento di due parole simili nel suono ma diverse nel


significato.
 Consonanza: somiglianza di suono fra due parole, creata dal fatto che le lettere
finali sono identiche, tranne la vocale tonica oppure nella parte finale consonanti
uguali e vocali diverse.
 Assonanza: somiglianza di suono che si crea quando nel finale di due parole sono
uguali le vocali e diverse le consonanti.
 Bisticcio: si ha quando le parole hanno suono uguale e significato diverso.
 Allitterazione: ripetizione di un suono iniziale o interno identico tra parole
vicine.
Imitazione dei suoni:

 Pura propria: imitazione del suono esplicitamente attraverso le parole.


 Impura impropria: imitazione del suono implicitamente utilizzando parole che
ricordano il suono.
 
 Figure retoriche del senso e del significato 
Le figure retoriche di senso e di significato sono dette anche translati e implicano
delle relazioni inerenti al significato dei termini adoperati.
Il senso e il significato di una poesia può essere molto diverso da persona a
persona per il fatto che il poeta usa un tipo di linguaggio detto connotativo, che
dipende dalla soggezione e invece non utilizza mai quello denotativo, il quale ha
un significato base originario.

Similitudine. La similitudine è un paragone esplicitato, reso chiaro per intero


senza che sia sottinteso alcuna parte, un procedimento retorico nel quale
vengono messi a confronto due termini di cui uno è noto e uno no.
E quello che non è noto viene reso noto dal confronto col primo per cui io saprò
perfettamente quali sono le caratteristiche del termine messo a confronto grazie
al termine noto.
Metafora. Metafora deriva dal termine greco metaferein: trasferire e trasportare.
C’è un termine concreto un termine figurato e un terreno di confronto e infatti la
metafora è una forma affina, ma più ricca di significati alla similitudine perché è
un paragone abbreviato poiché c’è un termine sotto inteso.
Analogia. L’analogia è un procedimento che consiste nell’accostare due termini
che sembrano opposti e che comunemente non si associano mai dal punto di
vista logico di significato.
Sinestesia. Sinestesia deriva da aisthánomai che significa “percepire insieme”.
Questa è una figura retorica che consiste nell’accostare due termini che fanno
parte di sfere sensoriali completamente differenti.
Baudelaire fecce un abbondante uso di questa figura.
Allegoria. Allegoria deriva da allei (avverbio in greco) agoreuin (parlare): in altro
modo.
L’allegoria è un procedimento retorico nel quale un contenuto concettuale viene
rappresentato con un immagine che esprime un idea del tutto autonoma e
diversa rispetto al contenuto che sta rappresentando.

Rappresenta qualcosa con un concetto che non centra nulla, un esempio sarebbe
rappresentare l’avarizia con una lupa. Il poeta che ne fa un abbondante uso
è Dante.
Metonimia. Il termine Metonimia è un nome traslato dal greco che indica lo
scambio di nome.
Si può considerare come una metafora che si basa sulla sostituzione dei termini
ma con la differenza che nella metafora i termini che si sostituiscono sono simili
tra loro, invece nella metonimia i termini che si sostituiscono hanno una
rapporto di contiguità nella sfera logica.

La metonimia può esprimere la materia per l’oggetto oppure ci possono essere


effetti apposto della causa o viceversa o l’autore apposta dell’opera.

Sineddoche. La sineddoche è una forma di metonimia che deriva dal termine


greco Sinechdechestai e consiste nel sostituire un termine con un altro che è con il
primo in una relazione di maggiore o minore estensione.
Si utilizza per indicare: la parte per il tutto (un senza tetto); il tutto per la parte
(ho visto una signora con il visone); una cosa più generica invece di una più
specifica; il genere per la specie; la specie per il genere (mi hai tolto il pane dalla
bocca).

Antitesi. L’antitesi, dal greco antitesis, indica l’accostamento di tutte frasi o due


parole che ambiano un senso contrastante.
Ossimoro. Il termine ossimoro deriva dal greco oxus (acuto,
intelligente), moros (sciocco, stolto).
L’ossimoro indica l’accostamento di due parole di senso opposto che sembrano
escludersi a vicenda e quasi sempre sono due aggettivi con lo scopo di aumentare
il significato.

Litote. Litote, dal greco litotes che significa semplicità, indica l’affermazione di un


concetto negando il suo contrario.
Climax. Il climax che in greco vuol dire “scala” consiste nell’accostare tre termini
che siano o di significato discendente o ascendente.
Iperbole. L’iperbole deriva dal verbo greco iperbole (iper = oltre; bole: gettare =
esagerare) è una figura retorica in cui si esagera per eccesso o per difetto.
Apostrofe. L’apostrofe dal greco apostrefein e consiste nel rivolgersi a una persona
o a un oggetto personificato a cui si rivolge con il vocativo e ha il fine di
coinvolgere emotivamente il lettore.
Personificazione. La personificazione deriva dal termine latino “persona” e
consiste nel considerare oggetti o ciò che non è un essere vivente qualcosa che
abbia un animo.
Perifrasi. La Perifrasi deriva dal verbo greco perifrazein (peri = intorno; frazenin =
parlare) che significa parlare intorno e perciò la perifrasi definisce qualcuno con
un giro di parole.
Reticenza. La reticenza, dal verbo latino “reticere” che significa tacere e indica
quelle frasi che rimangono in sospeso e quindi una sospensione che suscita
attesa, emozione, suspense e che lascia al lettore l’immaginazione.
La reticenza si riconosce per la presenza dei puntini.

 Figure retoriche dell’ordine sintattico 


La poesia opera lo spostamento dal linguaggio comune anche modificando
l’ordine che normalmente le parole hanno nella frase, poiché la disposizione
dell’ordine nella frase può modificare il contenuto della poesia.
La disposizione è molto importante e sotto quel determinato ordine si nasconde
uno studio per deviare dal linguaggio comune e anche per far si che si possa
capire al meglio la poesia, che così avrà più senso.

Figure dell’inversione: Anastrofe e Iperbato.


Anastrofe, deriva dal verbo greco anastrefein che significa rovesciare ed è infatti
l’Anastrofe è il rovesciamento dell’ordine sintattico di due elementi o di due
sintagmi successivi.
Quindi per esempio magari del solito ordine ci potrà essere: soggetto,
complemento oggetto e predicato.

Iperbato deriva da iperbaton, che significa trasposizione e consiste nel


l’inserimento di uno o più parole tra due elementi che dovrebbero essere
contigui cioè uno dopo l’altro con lo scopo di metterle in evidenza.
Anafora. L’anafora, deriva dal greco anaferein che significa riportare o dal
latino iterazio, nis che vuol dire ripetizione e infatti consiste nella ripetizione di
una o più parole all’inizio di enunciati successivi con il fine di rafforzare il ritmo
e il significato.
Parallelismo. Il parallelismo consiste nella ripetizione dello stesso ordine di
elementi che costituiscono frasi o versi o sintagmi successivi.
Chiasmo. Chiasmo, deriva da chiasmos che vuol dire disposizione incrociata e
infatti gli elementi dei due versi sono disposti in ordine inverso e sono legati da
aspetto, dal significato o grammaticalmente.
Polisindeto. Polisindeto, deriva da polisedenton significa legato insieme ed è
l’esatto contrario dell’asindeto, perciò consiste nell’unione di più elementi
collegati fra loro dalla stessa congiunzione.
Asindeto. Asindeto deriva dal greco asidenton, il quale significa “non legate” e
infatti prevede l’eliminazione delle congiunzioni fra un termine e l’altro.
L’asindeto, perciò, vi è quando tutti termini sono costati o senza punteggiatura o
con la virgola senza congiunzione.
Ipallage. L’ipallage riguarda soprattutto gli aggettivi e deriva dal
greco ipallasein che significa “scambiare” e consiste in uno scambio di
attribuzioni e avviene quando un aggettivo si lega grammaticalmente ad un
sostantivo ma dal punto di vista logico si riferisce ad un altro.
Antonomasia. Antonomasia deriva dal greco antonomazein e significa cambiare
nome e consiste nel chiamare una persona non con il nome proprio ma con il
nome comune oppure con un nome proverbiale.

La poesia - Versi, strofe, rime, figure retoriche


La poesia è un tipo di testo letterario con cui l’autore esprime il proprio mondo
interiore (emozioni, sentimenti e stati d’animo).

Nella poesia significante e significato sono indivisibili: il primo indica le parole della
poesia, il loro suono e il loro ritmo (cioè come la poesia è scritta), mentre il
significato rappresenta il messaggio vero e proprio della poesia.

La poesia viene definita polisemica perché ogni parola, verso ecc.


ha almeno 2 significati: quello letterale e quello simbolico.
La poesia è scritta in versi (da latino “vertere”, voltare, andare a capo), una riga di
poesia scandita dal a capo e dotata di un preciso metro e ritmo.

La metrica è la disciplina che studia la composizione dei versi e la loro struttura


ritmica. È l’aspetto che avvicina di più la poesia alla musica (nell’antichità la poesia
che esprimeva i sentimenti del poeta era accompagnata dal suono della lira). La
metrica greca e latina era di tipo quantitativa (fondata sull’alternanza di sillabe
lunghe e brevi) mentre quella italiana è di tipo accentuativa (fondata sull’alternanza
di accenti tonici e ritmici).

Il termine poesia deriva dal verbo greco poièo che significa “fare, produrre” e infatti


è l’arte di produrre composizioni verbali.
La poesia esiste sin dalla notte dei tempi e anticamente aveva valore sacro e perciò
veniva utilizzato come strumento che metteva a contatto il cielo con la terra.

Nella poesia, a differenza degli altri testi, ciò che si dice è importante quanto come lo
si dice e per questo vi è una forte relazione tra significato e significante.

LE CARATTERISTICHE DELLA POESIA


 
Metrica: insieme di convenzioni relative al ritmo e alla struttura dei versi.
Ritmo: la successione di suoni accentati e di suoni non accentati.
Verso: deriva da vertere che significa ritornare a capo ed è l’unità di misura
fondamentale del testo poetico.
Sillaba. La sillaba è l’unità di misura del verso e a seconda del numero di sillabe il
verso può essere parisillabo o imparisillabo.

La poesia è composta di righe chiamate versi, che contengono un determinato numero


di sillabe, composti in gruppi chiamati strofe. Quando due versi finiscono con le
stesse lettere a partire dall’ultimo accento tonico, si dice che fanno rima.
Le poesie tradizionali sono regolari: ogni verso ha lo stesso numero di sillabe, i versi
sono raggruppati in strofe e la rima è sempre presente.

Le poesie moderne sono irregolari, non obbediscono più alle regole della metrica (la
disciplina che regola l’ordine delle poesie) e quindi sono spesso prive di rima, con
numero di sillabe che cambia da verso a verso e le strofe sono spesso discontinue.

Quando le poesie rispondono a determinate caratteristiche (il numero di versi, il tipo


di strofa, etc.) vengono indicate con nomi specifici come sonetto, canzone, ballata,
etc.

Tipi di verso

A seconda del numero di sillabe (poetiche) contenute nel verso, questo prende diversi
nomi. Un verso con tre sillabe si chiamerà trisillabo, con quattro sillabe si chiamerà
quadrisillabo e così via. Si riporta di seguito l’elenco dei versi più noti.

Trisillabo: tre sillabe
Quadrisillabo: quattro sillabe
Quinario: cinque sillabe
Senario: sei sillabe
Settenario: sette sillabe
Ottonario: otto sillabe
Novenario: nove sillabe
Decasillabo: dieci sillabe
Endecasillabo: undici sillabe

Figure metriche. Le figure metriche sono delle figure che regolano l’incontro delle
vocali nel verso:
 Sinalefe: l’ultima lettera di una parola e la prima della parola successiva

vengono considerati un'unica sillaba se sono tutte due vocali;


 Dialefe: l’ultima lettera di una parola e la prima della parola successiva

vengono se sono tutte due vocali, dovrebbero essere considerati un'unica


sillaba, ma se la prima è accentata no.
 Dieresi: si evidenzia con la dieresi due sillabe che normalmente verrebbero

considerate dittongo per separarle.


 Sineresi: quando due vocali che normalmente sono in iato vengono considerati

dittongo.

Sinalefe (dal greco synaléipho "confondo insieme"), consiste nella fusione di due


vocali contigue, appartenenti a parole diverse che vanno a formare un’unica sillaba
metrica.

Esempi:
"Solo e pensoso i più deserti campi…"
(Petrarca, Canzoniere, XXXV, v.1) - si contano tredici sillabe; in realtà si tratta di un
endecasillabo, perché contiene due sinalefi, "Solo-e" e "pensoso-i" - So-lo e- pen-so-
so i- più- de-ser-ti- cam-pi.

"…di gente in gente, me vedrai seduto…"


(U. Foscolo, In morte del fratello Giovanni, v.2) - la e di gente si fonde con la i di in,
formando un'unica sillaba. Il verso risulta in tal modo di 11 sillabe e non di 12.

"Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono…"


(Petrarca, Canzoniere, I, v.1)

"Dolce e chiara è la notte e senza vento…"


(G. Leopardi, La sera del dì di festa, v.1)

"…e tu non torni ancora al tuo paese!…"


(G. Pascoli, Lavandare, v.8).

"…e il naufragar m’è dolce in questo mare."


(G. Leopardi, L’infinito, v.15);

"…nel muto orto solingo…"


(G. Carducci, Pianto antico, v.5).

Dialefe (dal greco dialéipho, "separo"), è una figura metrica che consiste nel tenere
distinte, nel computo delle sillabe, due vocali, di cui una alla fine di una parola e una
all’inizio della successiva (la dialefe è dunque il contrario della sinalefe). Si applica
spesso in presenza di monosillabi o di sillabe fortemente accentate.

Esempi:
"…tant’era pien di sonno a quel punto…"
(Dante, Inferno, Canto I)
va scandito così tan-t’erapiendisonnoaquelpunto, ottenendo il computo di 11 sillabe
metriche.

"…O Alberto tedesco ch'abbandoni…"


(Dante, Purgatorio, Canto VI)
va scandito così OAlbertotedescoch'abbandoni, la o iniziale non si unisce con
la a di Alberto e si ottiene dunque il computo di 11 sillabe metriche.

"…E tu che se' costì, anima viva…"


(Dante, Inferno, Canto III, v.88)
va scandito così Etuchese'costì,animaviva, la ì di costì non si unisce con
la a di anima e si ottiene dunque il computo di 11 sillabe metriche.

"…vedi colà un angel che si appresta…"


(Dante, Purgatorio, Canto XII)
va scandito così vedicolàunangelchesiapprestra.

Dieresi (dal greco diáiresis,, "separazione"), è un artificio della lingua poetica che


consente di dividere in due sillabe un nesso vocalico che normalmente ne costituisce
una sola, cioè due vocali che normalmente costituiscono dittongo formano invece uno
iato. La dieresi si indica graficamente ponendo il segno diacritico (due puntini posti
sopra la vocale più debole).

Esempi:
"…Dolce color d’orï/ental zaffiro…"
(Dante, Purgatorio, I, v.13)
"…orïental…" va letto come se fosse scandito in quattro sillabe ("o-ri-en-tal"), il
verso è dunque un endecasillabo: Dol-ce- co-lor- d’o-rï-en-tal- zaf-fi-ro.

"…A te convien tenere altro vï/aggio…"


(Dante, Inferno, Canto I)

"…lui folgorante in solï/o…"


(A. Manzoni, Cinque maggio, v.13.)

"…e arriso pur di visï/on leggiadre…"


(G. Carducci,  Funere mersit acerbo, v.10 .)

"…con ozï/ose e tremule risate…"


(G. Pascoli,I puffini dell’Adriatico, v. 6.)

Sineresi (dal greco synáiresis, "il prendere insieme"), fenomeno opposto alla dieresi,


è un artificio della lingua poetica che consiste nella contrazione di due sillabe in una
all'interno di una parola.

Esempi:
"…morte bella parea nel suo bel viso…"
(Petrarca, Canzoniere,Trionfo della morte, v.172)
la sineresi interviene due volte (parea, suo).

"…Lo ciel perdei, che per non aver fé…"


(Dante Alighieri, Purgatorio, VII, v.8)
"…e fuggiano, e pareano un corteo nero…"
(G. Carducci, Davanti San Guido, v.75)

"…ed erra l'armonia per questa valle…"


(G. Leopardi,  Il passero solitario, v.4)

"…su la tua pietra o fratello mio, gemendo…"


(U. Foscolo,  In morte del fratello Giovanni, v.3) - generalmente si ha sineresi con
parole come mio, tuo, tua, ecc.

Accento ritmico. L’accento che conferisce un particolare ritmo al verso.


 I versi 
Versi sdruccioli, piani e tronchi. Si dice verso:
 sdrucciolo: quando l’accento tonico cade nella terzultima e al conteggio delle

sillabe si toglie una sillaba in meno.


 piano: quando l’accento cade nella penultima.

 tronco: quando l’accento cade nell’ultima e perciò si conta una sillaba in più.

Cesura. Un artificio molto importante del verso è la cesura che ha lo scopo di creare
una pausa e che deriva dal termine latino caedo che significa taglio.
La sua collocazione sta più o meno a metà verso, ma non è sempre regolare e spesso
coincide con una pausa sintattica come una virgola o una pausa logica, la quale indica
un cambiamento di discorso.

La cesura si utilizza quando si vuole mettere in evidenza una parola chiave come un
particolare aggettivo o sostantivo, che per il poeta è interpretata fondamentale per
capire il contenuto della sua poesia.

 Enjambement 
L’enjambement è uno dei tanti artifici della lingua del quale il poeta utilizza per
arricchire il suo testo. Letteralmente deriva dal termine francese enjamber che vuol
dire “oltrepassare, andare oltre” la misura del verso e infatti significa “scavalcatura e
inarcamento”.
Scavalcatura, perché la frase sconfina nel verso successivo e ciò significa che si può
trovare in versi diversi le parti sintattiche di una frase.
Separando le parti sintattiche meno importanti si può rallegrare utilizzando
l’enjambement per accelerare la poesia, se invece si vuole dare un’impressione di
malinconia si usa per rallentare.

"…e intanto fugge
questo reo tempo…"
(U. Foscolo, Alla sera, vv.10/11)
In questo caso l’enjambement riguarda soggetto (questo reo tempo) e verbo (fugge).

"…Quelle mani, quel volto, il gesto d’una


vita che non è un’altra ma se stessa…"
(E. Montale, A mia madre, vv.11/12)
Enjambement relativo ad articolo (una) e sostantivo (vita).

"…Il tramontano scendeva con sordi


brontoli. Ognuno si godeva i cari
ricordi, cari ma perché ricordi…"
(G. Pascoli, Italy, vv.119/121)
Due enjambements entrambi relativi ad aggettivo (sordi e cari) e sostantivo
(brontoli e ricordi).

Tipi di strofe

Anche le strofe assumono nomi diversi a seconda del numero di versi contenuto. Si
riporta di seguito l’elenco delle strofe più note.

Distico: due versi
Terzina: tre versi
Quartina: quattro versi
Sestina: sei versi
Ottava: otto versi

Tipi di rime

Come detto in precedenza due versi fanno rima quando sono uguali a partire
dall’ultimo accento tonico. In base al modo con cui si succedono e si alternano
possiamo avere diversi tipi di rima. Le tipologie più comuni sono la rima
baciata (AABB), che si ha quando i versi rimano a due a due, la rima
alternata (ABAB), quando la rima si alternana, la rima incrociata (ABBA), quando
il primo verso fa rima con il quarto e il secondo rima con il terzo e la rima
incatenata (ABA BCB CDC), che si ha quando in un sistema di terzine, il primo
verso della prima strofa  rima con il terzo e nella strofa successiva il primo verso
rima con il secondo della strofa precedente e così via. Di seguito alcuni esempi.

Baciata: AA BB CC
Alternata: ABAB
Incrociata: ABBA
Incatenata: ABA BCB

Rima baciata (schema AABB) - Tognolini, Rima, rimani


Apro la bocca e dico la rima              A
Ride il silenzio che c'era prima          A
Tutte le cose mi siedono intorno        B
Per aspettare la fine del giorno          B
 
Rima alternata (schema ABAB) - Brecht, Il susino, ultimi 4 versi
Che è un susino, appena lo credi       A
perché susine non ne fa.                     B
Eppure è un susino e lo vedi              A
dalla foglia che ha.                             B
 
Rima incrociata (schema ABBA) - Montale, Spesso il male di vivere, primi 4 versi
Spesso il male di vivere ho incontrato:         A
era il rivo strozzato che gorgoglia,                 B
era l’incartocciarsi della foglia                       B
riarsa, era il cavallo stramazzato.                   A
 
Rima incatenata (schema ABA BCB CDC) - Dante, Inferno, canto XXVI
Lo maggior corno de la fiamma antica          A
cominciò a crollarsi mormorando,                 B
pur come quella cui vento affatica;               A
indi la cima qua e là menando,                      B
come fosse la lingua che parlasse,                 C
gittò voce di fuori e disse: «Quando             B
mi diparti' da Circe, che sottrasse                  C
me più d'un anno là presso a Gaeta,              D
prima che sì Enëa la nomasse                      C
 
Attenzione a non confondere la rima vera e propria con quelle che vengono
definite rime imperfette come la consonanza e l’assonanza. La consonanza si ha
quando, nelle parole che dovrebbero fare rima, a partire dalla vocale accentata,  si
hanno le stesse consonanti. L’assonanza invece consiste quando nella parte che
dovrebbe fare rima ci sono le stesse vocali ma non le consonanti.

Esempio di consonanza: tormènto – incànti


Esempio di assonanza: piànto - fiàto
 

I componimenti metrici

Come detto in precedenza quando le poesie rispondono a determinate caratteristiche


(il numero di versi, il tipo di strofa, etc.) vengono indicate con nomi specifici
come sonetto, canzone, ballata, etc.

Il sonetto è costituito da quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine e


due terzine; le prime possono avere rime alternate o incrociate, le seconde rime
incatenate, invertite o ripetute.

La canzone è costituita da cinque o più strofe, dette stanze, formate da un numero


uguale di versi (settenari o endecasillabi). Ogni stanza è divisa in due
parti: fronte (suddivisa a sua volta in due sezioni, dette piedi) e sirima (anch’essa
suddivisa in due sezioni, dette volte).

 La ballata è costituita da stanze in cui si intrecciano settenari ed endecasillabi e da


un ritornello 

Le figure retoriche

Quando leggiamo una poesia dobbiamo prestare molta attenzione non solo al suo
significato, ma anche al modo con cui questo significato viene espresso. Per ottenere
gli effetti desiderati i poeti plasmano la lingua a proprio piacimento utilizzando
parole particolari, modificando la sintassi, facendo attenzione ai suoni e al ritmo delle
parole. In questo modo contribuiscono ad arricchire la lingua di nuovi significati e di
particolari suggestioni. Le figure retoriche sono tecniche particolari utilizzate dai
poeti per plasmare il linguaggio. Spesso vengono divise in figure di suono,
dell’ordine, di significato e di pensiero. Vediamone le più comuni. 

1) Figure di suono
L’allitterazione è una figura retorica di suono che nasce dalla ripetizione di suoni
simili all’inizio o all’interno di parole vicine.

L’onomatopea consiste nella scelta di parole speciali che riproducono suoni e rumori


naturali. Anche l’assonanza e la consonanza sono figure retoriche di suono. 

2) Figure dell’ordine

L’anafora è la ripetizione di parole all’inizio dei versi. L’anafora serve a conferire un


ritmo incalzante.

L’inversione è una figura retorica che consiste nel modificare l’ordine normale delle
parole nelle frasi.

Anafora - Verhaeren, il vento chiaro


Il vento è chiaro nel sole,
il vento è fresco sotto le case.
Il vento piega con le sue braccia (…)
 
Inversione - Cardarelli, Sera di Liguria
Lenta e rosata sale su dal mare
La sera di Liguria […]
 

3) Figure di significato e di pensiero

La similitudine è un paragone tra due elementi che risultano simili per una
determinata caratteristica. I due oggetti paragonati sono messi in relazione per mezzo
di termini ed espressioni comparative quali: come, simile a, quasi, sembra, ricorda,
ecc.

La metafora viene spesso definita come un paragone abbreviato, una similitudine


senza le espressioni come, sembra, etc.

L’allegoria è l’attribuzione ad un concetto di un significato diverso da quello


letterale. Con l’allegoria si racconta, si descrive qualcosa ma si comunica un
concetto, un principio. Per esempio, in una poesia si può parlare dell’inverno ma si
può alludere alla vecchiaia.

La personificazione consiste nell’attribuire a cose o animali modi e pensieri umani.

L’ossimoro è l’accostamento di due parole di significato opposto. Il linguaggio


quotidiano fa largo uso di questa figura retorica: terribilmente felice, semplicemente
pazzesco, etc.
La sinestesia consiste nell’accostamento di parole in contrasto perché riferite a
diverse percezioni sensoriali. Per esempio: musica tenera, fresco sussurro.

La sineddoche è la sostituzione di una parola con un’altra di significato più ampio o


meno ampio di quella propria: per es. una parte per il tutto (prora per nave).

La metonimia è una figura retorica spesso confusa per la sineddoche che consiste
nella sostituzione di un termine con un altro con cui ha una relazione logica.

L’iperbole consiste nell’esprimere un concetto con termini esagerati.

La litote consiste nell’esprimere un concetto negando il suo contrario.

L’eufemismo consiste nel sostituire un’espressione considerata dura o sconveniente


con un’altra più gradevole, per non urtare la sensibilità dell’interlocutore.
 

QUAN LO RIUS DE LA FONTANA


Quan lo rius de la fontana

s’esclarzis, si cum far sol,

e par la flors aiglentina

e·l rossinholetz el ram

volf e refranh ez aplana

son dous chantar et afina,

dreitz es qu’ieu lo mieu refranha.

Amors de terra lonhdana,

per vos totz lo cors mi dol.

E no·n puosc trobar meizina

si non vau al sieu reclam

ab atraich d’amor doussana

dinz vergier o sotz cortina

ab dezirada companha.

Pois del tot m’en falh aizina,

no·m meravilh s’ieu n’aflam:

quar anc genser crestiana

non fo, ni Dieus non la vol,

juzeva ni sarrazina.

Ben es selh pagutz de mana,


qui ren de s’amor gazanha!

De dezir mos cors no fina

vas selha ren qu’ieu plus am,

e cre que volers m’enguana

si cobezeza la·m tol;

que plus es ponhens qu’espina

la dolors que ab joi sana:

don ja non vuolh qu’om m’en planha.

Senes breu de pargamina

tramet lo vers, que chantam

en plana lengua romana,

a·n Hugon Brun per Filhol:

bo·m sap quar gens peitavina,

de Beiriu e de Guiana,

s’esgau per lui e Bretanha.

§
Quando il rio della sorgente si fa chiaro, come
suole, e sboccia la rosa canina, e l’usignolo sul ramo
svolge, riprende e forbisce il dolce suo canto e lo
affina, è bene ch’io riprenda il mio.

Amore di terra lontana, per voi il cuore mi duole, e


non posso trovar medicina, se non nell’eco del vostro
nome, al male di esser privato di dolce amore nel
verziere o dietro cortina, in compagnia beneamata.

Poiché non ne ho mai l’occasione, non c’è da


stupirsi se lo bramo: non vi fu mai, né Dio lo vuole, più
bella cristiana, né giudea o saracena. È ben pagato con
manna chi guadagna un po’ del suo amore.

Il mio cuore non finisce di desiderare colei che


amo più d’ogni altra cosa, e credo che la volontà
m’inganni, poiché la concupiscenza me la sottrae: è più
pungente della spina il dolore che la gioia d’amore
risana; dunque non voglio che mi si compianga.

Senza foglio di pergamena invio questi versi


cantando, in schietta lingua romanza, a Messer Ugo
Bruno, per mezzo di Filhòl. Sono lieto che la gente del
Poitou, del Berry e di Guienna da lei sia rallegrata, e
anche la gente di Bretagna.

JAUFRÉ RUDEL DE BLAYE

JACOPO DA LENTINI, IO M’AGGIO POSTO IN CORE


Jacopo (Giacomo) da Lentini, detto il notaro da Dante, fu appunto notaio e funzionario della corte
palermitana di Federico II di Svevia, l’imperatore definito con l’appellativo di stupor mundi, stupore del
mondo, perché uomo di grande cultura.
E proprio Federico, non a caso, si fece promotore di una poesia di corte. Egli stesso scriveva
componimenti in rima, ed invitò a questa pratica anche i suoi stessi funzionari, amministratori,
cancellieri, tra i quali spicca Jacopo da Lentini, considerato caposcuola di questa prima forma di
letteratura italiana, che vide il suo apice tra il tra il 1230 e il 1250.
In questo ventennio, i rappresentanti della poesia siciliana, cantarono in versi l'Amore cortese,
riprendendo i temi tipici dalla poesia provenzale. C’è la figura della donna, con i suoi caratteri canonici:
- bionda di capelli e chiara di pelle
- lontana e inaccessibile
- raffinata nell’educazione e nel costume
- intelligente.
E c’è poi l’amante – il suo vassallo. Ha con la donna un rapporto di dedizione cavalleresca. Mantiene
gelosamente custodito nel suo cuore questo amore come un sentimento prezioso che affina il suo animo.
In questo componimento di Lentini, ovvero il classico sonetto fatto di 14 versi divisi in quartine e
terzine, di cui lo stesso Lentini è considerato l’inventore, il sentimento d’amore s’intreccia con il
sentimento religioso.
Un curiosità linguistica: la lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono scritti, è il Siciliano
Illustre, ovvero un siciliano nobilitato dalle lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale. Ma i
componimenti dei poeti siciliani sono arrivati fino a noi perché trascritti da copisti toscani che li
raccolsero e li studiarono a fondo, e che, più o meno volontariamente, cercarono di adattare il volgare
siciliano a quello toscano. Ne sono testimonianza molti termini latini che sono stati toscanizzati,
come ghiora anziché gloria, e il fatto che compaiano nei testi molte rime imperfette, e questo perché il
siciliano ha cinque vocali, mentre il toscano ne ha sette, e nel tentativo di adattamento di un volgare
all’altro, alcune rime variarono.

Io m’aggio posto in core a Dio servire, Io ho fatto promessa, di servire Dio,


com’io potesse gire in paradiso, affinché io possa andare in Paradiso.
al santo loco ch’aggio audito dire, A quel santo luogo di cui ho sentito parlare,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso. 4 dove dura sempre divertimento, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi voria gire, Non vorrei andarvi senza la mia donna,
quella c’ha blonda testa e claro viso, quella dalla chioma bionda ed il volto luminoso,
ché sanza lei non poteria gaudere, poiché senza di lei non potrei aver gioia,
estando da la mia donna diviso. 8 essendo diviso dalla mia donna.

Ma non lo dico a tale intendimento, Ma non lo dico allo scopo


perch’io peccato ci volesse fare; di voler peccare con lei,
se non veder lo suo bel portamento 11 bensì solo per vedere il suo bell’atteggiamento,

e lo bel viso e ’l morbido sguardare: e il suo bel viso e il dolce sguardo;


ché lo mi teria in gran consolamento, considererei ciò una grande consolazione,
veggendo la mia donna in ghiora stare. 14 vedere la mia donna nella gloria del paradiso.
Metro: sonetto di schema ABAB ABAB CDC DCD.
Rima siciliana tra gaudere e gli altri rimanti in -ire della fronte. Rima inclusiva tra viso e diviso.

IN SINTESI  
Il poeta ha deciso di comportarsi bene, per poter andare in Paradiso, un luogo in cui – gli hanno
detto – si sta sempre allegri. Bene, ma preferirebbe non andarci se lì con lui non ci fosse anche la
donna che ama: il Paradiso non è tale se non può contemplare la sua bellezza in cielo, nella gloria di
Dio.

IL PARADISO NON BASTA 


È – viene da osservare – una visione molto materialistica della vita eterna e del paradiso: un luogo
in cui regnano «sollazzo, gioco e riso» (v. 4), qualcosa di più prossimo al paese di Cuccagna che a
ciò che dice la teologia cristiana... Ma sarebbe sbagliato pensare che in un testo come questo sia
presente un’intenzione blasfema (cioè offensiva per la fede). Semplicemente, Giacomo cerca
un’immagine per lodare in maniera conveniente la bellezza della donna che ama, e la trova in
questa iperbole: il paradiso non basta, se mi tocca stare diviso dal volto luminoso e dai capelli
biondi di lei; capelli biondi che, merita osservare, sono un tratto assai esotico nella Sicilia
medievale, così come in quella odierna: Giacomo ha in mente, e nel cuore, una bellezza di origine
normanna (normanni, del resto, erano stati i conquistatori della Sicilia nel secolo XI).

UNA STRUTTURA BIPARTITA 


Dal punto di vista strutturale, va notata la forte cesura tra la prima quartina e il resto del testo. I
primi quattro versi fanno pensare, infatti, non a un sonetto d’amore ma a una sorta di testo di
pentimento: il poeta ha deciso di mettersi al servizio di Dio. Ma il v. 5 corregge, o meglio ribalta
questa affermazione, e dichiara il vero tema della poesia, che è un elogio della bellezza della donna.
Un elogio che sfrutta alcuni luoghi comuni come i capelli, il viso, lo sguardo dolce (morbido), il
modo di atteggiarsi (portamento), ma che riesce comunque originale proprio a causa del luogo nel
quale il poeta cala la sua visione: il cielo.

Esercizi di analisi testuale


 
1. Cosa si propone il poeta al v. 1?
2. Da chi non vorrebbe essere separato?
3. Che cosa si preoccupa di specificare circa le sue intenzioni?
4. Di quale tipo di amore si parla in questo sonetto? Sensuale o spirituale? Quali parole lo
rivelano?
5. Quale idea del paradiso si ricava dalla lettura del sonetto? È un’idea che potrebbe suonare
blasfema a un lettore cristiano?
Approfondimento sul topos “Passa per via adorna e sì gentile” – cfr testo “When you walk”, PoW WoW

Pow Wow-When you walk

Tonight I see you walking down the avenue

Stasera ti vedo camminare per il viale

And I recall the love we knew

E ricordo l'amore che conoscevamo

Every little things you do

Ogni piccola cosa che fai

I wonder if you miss me too

Chissà se manco anche a te

Still wanna be your lover

Voglio ancora essere il tuo amante

So I could feel a little better

Così potrei sentirmi un po' meglio

Don't wanna love another

Non voglio amare un’ altra

It's getting stronger

Sta diventando più forte

You walking down the avenue

Stai camminando per il viale

I can't take my eyes off of you

Non riesco a staccarti gli occhi di dosso

How I really wanna love you little girl

Quanto voglio davvero amarti ragazzina

I'm lost without you in this world

Sono perso senza di te in questo mondo

When you walk I keep on holding on

Quando cammini io continuo a resistere

I will keep on keeping on, yes I will little girl

Continuerò ad andare avanti, sì lo farò ragazzina

I will keep on holding on

Continuerò a resistere
To your love

Al tuo amore

Yes I need you darling

Sì, ho bisogno di te tesoro

With all my heart and soul

Con tutto il cuore e l'anima

And I still miss your kisses

E mi mancano ancora i tuoi baci

When that evening shadow falls on Paris

Quando quell'ombra della sera cade su Parigi

I can't believe this is the end

Non posso credere che questa sia la fine

No it can't be true

No, non può essere vero

Please listen to my prayer

Per favore ascolta la mia preghiera

That's all I gotta say!

È tutto quello che devo dire!

How I really wanna love you little girl

Quanto voglio davvero amarti ragazzina

I'm lost without you in this world

Sono perso senza di te in questo mondo

When you walk, I keep on holding on

Quando cammini io continuo a resistere

I will keep on keeping on, yes I will little girl

Continuerò ad andare avanti sì lo farò ragazzina

I will keep on holding on

Continuerò a resistere

To your love

Al tuo amore

When you walk can't take my eyes of you baby


Quando tu cammini non riesco a distogliere gli occhi da te piccola

When you talk I don't believe my ears

Quando parli non credo alle mie orecchie

When you walk, I'm down on my knees

Quando cammini sono in ginocchio

When you walk you walk

Quando cammini, cammini

When you walk you walk

Approfondimento sulla lirica amorosa italiana delle origini – cfr testo “Creep”
Radiohead
CREEP

When you were here before


Couldn’t look you in the eye
You’re just like an angel
Your skin makes me cry
You float like a feather
In a beautiful world
I wish I was special
You’re so fuckin’ special
But I’m a creep
I’m a weirdo
What the hell am I doing here?
I don’t belong here
I don’t care if it hurts
I want to have control
I want a perfect body
I want a perfect soul
I want you to notice
When I’m not around
You’re so fuckin’ special
I wish I was special
But I’m a creep
I’m a weirdo
What the hell am I doing here?
I don’t belong here
She’s running out again
She’s running out
She run, run, run run
Run
Whatever makes you happy
Whatever you want
You’re so fucking special
I wish I was special
But I’m a creep
I’m a weirdo
What the hell am I doing here?
I don’t belong here
I don’t belong here.

SFIGATO

Prima eri qui e non riuscivo Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira
(G. Cavalcanti)

Nemmeno a guardarti negli occhi e no·lle pò apressare om che sia vile (G.
Guinizzelli, io voglio del ver)

Sei come un angelo, quella c’ha blonda testa e claro viso (J.
La tua pelle mi fa venire da piangere Da Lentini, Io m’aggio posto in core)

Volteggi come una piuma più che stella dïana splende e pare,
In un mondo bellissimo e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. (G.
Ed io vorrei essere speciale
Sei così dannatamente speciale Guinizzelli, Io voglio del ver)

Ma sono uno sfigato, ti convien morire


Sono un mostro per questa fiera donna, che niente
Che diavolo ci faccio qui? par che pietate di te voglia udire (G.
Questo posto non fa per me Cavalcanti, Tu m’hai sì piena di dolor la
mente)

Non m’importa se fa male,


Voglio avere il controllo I’ vo come colui ch’è fuor di vita (G.
Voglio un corpo perfetto, Cavalcanti, Tu m’hai sì piena di dolor la
Voglio un’anima perfetta mente)

Voglio che tu te ne accorga veder lo suo bel portamento e lo bel viso


Se non ci sono e ’l morbido sguardare (J. Da Lentini, Io
m’aggio posto in core)

Sei così dannatamente speciale


E anch’io vorrei essere speciale
null’om pò mal pensar fin che la vede
(G. Guinizzelli, io voglio del ver)

Ma sono uno sfigato,


Sono un mostro
guardate a l’angosciosa vita mia,
Che diavolo ci faccio qui?
che sospirando la distrugge Amore (G.
Questo posto non fa per me
Cavalcanti, Voi che per li occhi mi
passaste ‘l core)

Lei sta scappando ancora


Sta scappando via
Passa per via adorna, e sì gentile (G.
Lei corre, corre, corre, corre
Guinizzelli, io voglio del ver)
Corre

Qualunque cosa ti renda felice


Qualunque cosa tu voglia
Sei così dannatamente speciale lo mi teria in gran consolamento,
E anch’io vorrei essere speciale veggendo la mia donna in ghiora stare (J.
Da Lentini, Io m’aggio posto in core)

Ma sono uno sfigato,


sono un mostro Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto,
Che diavolo ci faccio qui? che l’anima tremando si riscosse
Questo posto non fa per me veggendo morto ’l cor nel lato manco
Questo posto non fa per me. (G. Cavalcanti, Voi che per li occhi mi
passaste ‘l core)

Dante Alighieri, Oltre la spera che più larga gira (Vita nuova, XLI)
L’ultimo paragrafo della Vita nova non parla del passato, come tutti quelli che lo precedono, ma del
futuro. Beatrice è morta da tempo. La misteriosa «donna gentile» che aveva avuto compassione di
Dante, e che lo aveva tentato, quasi sedotto, è ormai dimenticata. Il pensiero del poeta torna
all’unica donna che abbia veramente amato; la vede, fisicamente, in paradiso; e – per onorarla
degnamente – si ripromette di dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna»: allusione a
un’opera di là da venire, nella quale Beatrice avrà un ruolo tanto centrale quanto quello che ha
avuto nella Vita nova. Si tratta, probabilmente, del primo annuncio della Commedia.
Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandasse loro di queste mie parole
rimate; [1] onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova (…)

E dissi allora uno sonetto, lo quale narra del mio stato (…)

[1] Due nobildonne mi mandarono a pregare di mandar loro alcuni miei testi poetici.

Oltre la spera che più larga gira


passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
4 piangendo mette in lui, pur su lo tira.

Quand’elli è giunto là dove disira,


vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
8 lo peregrino spirito la mira.

Vedela tal, che quando ’l mi ridice,


io no lo intendo, sì parla sottile
11 al cor dolente, che lo fa parlare.

So io che parla di quella gentile,


però che spesso ricorda Beatrice,
14 sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care.

1 Oltre… gira: al di là del Primo Mobile, il cielo del Paradiso che ruota con moto più ampio e
abbraccia quelli sottostanti.
4 piangendo… in lui: nonostante pianga, Amore infonde nel cuore del poeta una straordinaria e mai
provata prima (nova) capacità di comprensione. pur su lo tira: lo spinge sempre più verso l’alto.
5 là… disira: nell’Empireo, la sede di Dio e dei beati.
8 lo peregrino spirto: lo spirito del poeta che viaggia.
9 Vedela tal: la vede tale, cioè di una bellezza così straordinaria. Il soggetto è ’l sospiro.
10 sì… sottile: parla in modo raffinato e complesso.
13 però… Beatrice: perché spesso menziona Beatrice.
14 lo ’ntendo ben: lo so bene
[Vita nuova, cap. XLII] 1. Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale
io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse
più degnamente trattare di lei1. 2. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae
veracemente2. 3. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per
alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna3. 4. E poi piaccia a colui
che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di
quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula
benedictus4.
Appresso… di lei: Dopo questo sonetto (il riferimento è a Oltre la spera che più larga

gira  [G15], contenuto nel capitolo precedente e a cui questa prosa segue immediatamente) mi
apparve una mirabile visione, in cui io vidi cose che mi fecero decidere (proporre) di non parlare
più di questa <donna> benedetta fino a quando io potessi trattare di lei più degnamente. Il
contenuto della «mirabile visione» che segue alla composizione del sonetto rimane indeterminato,
anche in obbedienza alla “consegna del silenzio” che Dante si impone in attesa di maturare una
poetica più degna dell’altezza del suo nuovo soggetto.

E di venire… veracemente: E io mi impegno (studio) veramente quanto posso per giungere a


questo (cioè a parlare «più degnamente» di Beatrice), come essa sa (sae, forma con epitesi).

Sì che… d’alcuna: Sicché, se piacerà a (se piacere sarà di) colui che è la causa finale di ogni

vita (a cui tutte le cose vivono, secondo la parafrasi di Contini; si tratta di una perifrasi per indicare
Dio), che la mia vita duri per un numero sufficiente di anni  (per alquanti anni), io spero di
dire (dicer) di lei quello che non fu mai detto di nessuna <donna>.

E poi… benedictus: E, compiuta quest’opera (poi), voglia (piaccia a) colui che è signore della


misericordia  (sire de la cortesia; altra perifrasi per indicare Dio) che la mia anima possa andare
<in Paradiso> a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale nella
gloria del cielo  (gloriosamente) guarda intensamente la faccia  (mira nella faccia) di colui che è
benedetto per tutti i secoli  (ancora Dio, designato con una formula liturgica). Si noti la ripetizione,
prima in volgare e poi in latino, dello stesso aggettivo («benedetta»… «benedictus»), che istituisce
un rapporto di omologia tra Beatrice e Dio. L’aggettivo «benedetta», sempre con riferimento a
Beatrice, compare già all’inizio del capitolo [1].

LA RICHIESTA DELLE DONNE 


Nella Vita nova, le donne gentili sono le interlocutrici che Dante immagina sempre di fronte a sé, a
cominciare dalla canzone che inaugura lo “stile della lode”, Donne ch’avete intelletto d’amore,
appunto. Qui la situazione è leggermente diversa: non è Dante a scrivere di propria iniziativa alle
donne, sono loro a chiedergli delle poesie. Naturalmente, non siamo sicuri che le cose siano andate
davvero così, e può darsi benissimo che Dante abbia immaginato questo come altri dettagli
della Vita nova: ma quella che ci interessa è, da lettori, la storia così come Dante la racconta nel
libro, non una irraggiungibile “verità dei fatti”. Alla richiesta delle donne, Dante risponde con uno
strano sonetto, l’ultimo della Vita nova; e a questo sonetto fa seguire poche righe in prosa ancora
più enigmatiche. Il libro termina qui.

IL SONETTO  
Oltre la spera è il resoconto di una visione. Un sospiro, uscito dal cuore del poeta (un cuore pieno
di nostalgia e di amore per Beatrice), attraversa i cieli e arriva fino all’Empireo, il cielo dei beati, e
lì vede Beatrice, onorata dagli angeli e luminosa. Tornato nel cuore, il sospiro racconta ciò che ha
visto, ma è un’esperienza che supera le umane facoltà di comprensione, sicché Dante riesce a capire
soltanto il “che cosa” della visione, non il “come”.
Il tema della poesia influenza la scelta delle parole: spera, intelligenza, luce, splendore, spirito sono
tutti termini che sembrano anticipare la “grande visione” che Dante racconterà nel Paradiso. Ma
mentre lo stile e la sintassi del Paradiso saranno spesso ardui, e il contenuto sarà filosoficamente
denso, qui forma e contenuto hanno la fluidità e la leggerezza di certe poesie stilnoviste: i periodi
non vanno mai oltre il primo grado di subordinazione, gli snodi sintattici sono espressi con
chiarezza: «luce sì, che...» (v. 7), «vedela tal, che...» (v. 9), «però che spesso ricorda» (v. 13), «sì
ch’io lo ’ntendo» (v. 14). Enigmatica è la sostanza del racconto, potremmo dire, non il modo in cui
il racconto è articolato.

L'ULTIMO PARAGRAFO DEL LIBRO 


Nelle righe che seguono il sonetto, Dante non commenta il testo ma accenna a qualcosa di
estremamente importante: dice di aver avuto una mirabile visione, e che tale visione gli ha fatto
decidere di non parlare mai più di Beatrice fino a quando non sarà in grado di dire cose davvero
degne di lei. Tace, dunque, ma in questo silenzio si prepara a parlare, cioè a scrivere, ed è molto
probabile che sia la visione sia il proposito di lavorare a una nuova opera dedicata a Beatrice
vadano letti come allusioni alla Commedia: là dove, di fatto, Dante dirà della ragazza che ha amato
in gioventù «quello che mai non fue detto d’alcuna».

ESERCIZI
1. COMPRENSIONE DEL TESTO
1.1 Dopo un’attenta lettura, fai il riassunto del componimento.
1.2 Nel sonetto Dante narra un’esperienza mistica, che coinvolge cioè l’anima, non il suo
corpo; che cosa di lui giunge in Paradiso? E che cosa vede una volta salito fin lassù?
2. ANALISI DEL TESTO
2.1 Analizza il sistema metrico e indica lo schema della rima.
2.2 Identifica le figure retoriche presenti.
2.3 Sono presenti enjambement e pause sintattiche forti? Se sì, qual è la loro funzione?
2.4 Individua le parole che afferiscono ai campi semantici del movimento, della vista e del
dire: in che modo si intersecano tra loro?

3. INTERPRETAZIONE COMPLESSIVA E APPROFONDIMENTI

3.1 Nell’ultimo capitolo in prosa Beatrice non è più chiamata la “gentilissima”, bensì
“questa benedetta” (r. 6) e poi “quella benedetta Beatrice” (r.10); perché secondo te?
3.2 Nella prosa conclusiva Dante esprime sia un proposito di silenzio, sia il progetto di una
nuova opera: quali sono le sue intenzioni?

LO VOLGARE SERVIRA’ VERAMENTE A MOLTI


CONVIVIO (DANTE ALIGHIERI), TRATTATO I, CAPITOLI IX-X
SCHEMA SINTETICO
Il Convivio è un trattato in volgare scritto da Dante tra il 1304 e il 1307. Nel progetto originale
doveva essere un prosimetro (un insieme di poesia e prosa) composto da 14 trattati di commento a
14 poesie, più un trattato introduttivo. Il titolo significa “banchetto” ed allude al fatto che Dante
intende offrire a tutti coloro che non conoscono il latino un ricco “banchetto” di conoscenza,
spaziando in tutte le discipline. Per questo l’opera ha carattere dottrinale (intende trasmettere una
dottrina, cioè un insegnamento) ed enciclopedico (intende raccogliere tutte le conoscenze raggiunte
dall’uomo fino a quel momento per offrirle a coloro che hanno desiderio di sapere). L’opera non
verrà mai completata e si fermerà al IV trattato.
Nei capitoli IX-X del Trattato I del Convivio Dante illustra i motivi per cui ha scelto di scrivere
quest’opera in volgare nonostante sia composta anche da parti in prosa: essendo un trattato, secondo
le teorie dell’epoca doveva essere scritto in latino.
1. Scrive il Convivio in volgare perché gli intellettuali stranieri (che non conoscono il volgare
italiano) avrebbero capito solo le parti in latino e non le poesie, concepite in volgare. Quindi
per queste persone non sarebbe stato comunque utile l’uso del latino (righi 1-3).
2. Scrive il Convivio in volgare perché la maggior parte degli intellettuali italiani, pur
conoscendo il latino, in realtà non ha la “nobiltà d’animo” che occorre per acquistare nuove
conoscenze: molti studiano per interesse, per ottenere guadagni grazie alla loro conoscenza
del latino. Così facendo si comportano come quel suonatore di cetra che non può definirsi
veramente un musicista perché tiene il suo strumento in casa solo per noleggiarlo ad altri ed
ottenerne un guadagno. Il vero musicista usa il suo strumento per suonare; cioè il vero
saggio usa la conoscenza per diventare una persona migliore, non per arricchirsi (righi 3-
10).
3. Scrive il Convivio in volgare perché possano leggerlo e comprenderlo tutti quelli che
desiderano veramente conoscere, uomini e donne, nobili e non; essi sono “non litterati”, cioè
non conoscono il latino, ma sono veramente degni di accedere alla cultura, a differenza di
quelli che hanno trasformato il sapere in guadagno, come fa una signora che si abbassa a
fare la meretrice (prostituta), vendendo il suo corpo per denaro (righi10-16).
4. Scrive il Convivio in volgare perché se lo scrivesse in latino qualcuno potrebbe tradurlo per
diffonderlo tra i “non litterati”; ma poiché le traduzioni non sono sempre all’altezza
dell’opera originale, per evitare una brutta traduzione che non riesca a rendere il vero
significato del trattato, Dante preferisce usare direttamente il volgare (righi 17-21).
5. Scrive il Convivio in volgare perché è convinto che il volgare italiano (la “lingua del sì”) sia
superiore agli altri, anche alla lingua d’oc che si parla nel sud della Francia. Il volgare
italiano è ormai una lingua completa ed elegante e la sua bellezza potrà risaltare nella prosa
più ancora che nella poesia, perché nella lirica le qualità della lingua sono nascoste dalle
caratteristiche della poesia (il ritmo, la rima, il numero delle sillabe). Solo nella prosa, libero
da ogni altro ornamento, il volgare italiano potrà risplendere in tutta la sua bellezza, come
una bella donna appare ancora più affascinante quando si presenta senza trucco o particolari
ornamenti (righi 21-35).

IL VOLGARE PERFETTO
DANTE, DE VULGARI ELOQUENTIA, LIBRO I, CAPITOLI XVII-XVII
Dante illustra i motivi per cui il volgare perfetto di cui parla si può definire
1. ILLUSTRE;
2. CARDINALE;
3. REGALE;
4. CURIALE.

1. Il volgare perfetto è ILLUSTRE perché


 eccellente nell’insegnamento, infatti ha “ripulito” il linguaggio degli Italiani da parole
rozze, forme imperfette, costruzioni contorte;
 eccellente nel potere, infatti ha la forza di smuovere il cuore degli uomini e indurli a
cambiare idea;
 da onore e gloria a chi lo usa, infatti la dolcezza di questa gloria ha aiutato Dante a
superare la sofferenza per ‘esilio.
2. Il volgare perfetto è CARDINALE perché
 come la porta segue il movimento del cardine, così il gruppo (gregge-metafora) dei
volgari italiani segue l’orientamento del volgare perfetto, che continuamente espelle dal
territorio italiano (italica selva- metafora) le voci dialettali (cespugli pungenti- metafora)
e introduce (innesta e trapianta- metafore) nuovi termini (piante e piantine- metafore)
grazie ai suoi poeti (giardinieri- metafora).
3. Il volgare perfetto è REGALE perché
 se gli Italiani avessero un re e una reggia, il volgare illustre sarebbe degno di essere
usato nella reggia, perché, come la reggia è comune a tutti i sudditi, così il volgare
illustre è comune a tutti gli Italiani.
4. Il volgare perfetto è CURIALE perché
 se gli Italiani avessero una curia, cioè una sede del governo, il volgare illustre sarebbe
degno di essere parlato nella curia;
 anche se l’Italia non ha un’unica curia (cioè un solo governo centrale), tuttavia le sue
parti (membra- metafora) esistono: sono proprio gli uomini di cultura uniti dall’uso del
volgare illustre o perfetto.

Divina Commedia Dante, Canto III (Inferno) – La porta dell’Inferno e gli ignavi

«Per me si va ne la città dolente, fecemi la divina podestate,


per me si va ne l’etterno dolore, la somma sapïenza e ‘l primo amore.     6
per me si va tra la perduta gente.             3
Dinanzi a me non fuor cose create
Giustizia mosse il mio alto fattore; se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.       9 non ragioniam di lor, ma guarda e passa».  51

Queste parole di colore oscuro E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna
vid’ïo scritte al sommo d’una porta; che girando correva tanto ratta,
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». 12 che d’ogne posa mi parea indegna;            54

Ed elli a me, come persona accorta: e dietro le venìa sì lunga tratta


«Qui si convien lasciare ogne sospetto; di gente, ch’i’ non averei creduto
ogne viltà convien che qui sia morta.            15 che morte tanta n’avesse disfatta.               57

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
che tu vedrai le genti dolorose vidi e conobbi l’ombra di colui
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».         18 che fece per viltade il gran rifiuto.              60

E poi che la sua mano a la mia puose Incontanente intesi e certo fui
con lieto volto, ond’io mi confortai, che questa era la setta d’i cattivi,
mi mise dentro a le segrete cose. 21 a Dio spiacenti e a’ nemici sui.                   63

Quivi sospiri, pianti e alti guai Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
risonavan per l’aere sanza stelle, erano ignudi e stimolati molto
per ch’io al cominciar ne lagrimai.               24 da mosconi e da vespe ch’eran ivi.            66

Diverse lingue, orribili favelle, Elle rigavan lor di sangue il volto,


parole di dolore, accenti d’ira, che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
voci alte e fioche, e suon di man con elle     27 da fastidiosi vermi era ricolto.                    69

facevano un tumulto, il qual s’aggira E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,


sempre in quell’aura sanza tempo tinta, vidi genti a la riva d’un gran fiume;
come la rena quando turbo spira.                  30 per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi   72

E io ch’avea d’error la testa cinta, ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? le fa di trapassar parer sì pronte,
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».       33 com’i’ discerno per lo fioco lume».           75

Ed elli a me: «Questo misero modo Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
tegnon l’anime triste di coloro quando noi fermerem li nostri passi
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.         36 su la trista riviera d’Acheronte».               78

Mischiate sono a quel cattivo coro


de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.       39

Caccianli i ciel per non esser men belli,


né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».         42

E io: «Maestro, che è tanto greve


a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.              45

Questi non hanno speranza di morte


e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte.           48

Fama di loro il mondo esser non lassa;


misericordia e giustizia li sdegna:
Divina Commedia
Dante, Canto III (Inferno) – Parafrasi
La porta dell’inferno
vv. 1-21:
“Attraverso me si va nella città del dolore, attraverso me si va nell’eterno dolore, attraverso me si va
tra le anime dannate. Giustizia ha spinto il mio sommo creatore; mi ha fatto la potenza divina, la
somma sapienza e la fonte dell’amore. Prima di me non furono create cose se non eterne, ed io in
eterno duro. Lasciate ogni speranza o voi che entrate”.
Queste parole di colore scuro vidi scritte sulla sommità di una porta; perciò, dissi: “Maestro, il loro
significato mi disorienta”. Ed egli a me, come persona sensibile, rispose:
“Qui bisogna lasciare ogni indugio; ogni viltà qui deve cessare. Noi siamo giunti al luogo dove ti ho
detto che vedrai le anime sofferenti di coloro che hanno perso il bene dell’intelletto (cioè di Dio,
somma verità)”. E dopo che ebbe posato la sua mano sulla mia con volto sereno, per cui io mi
rianimai, mi fece entrare in quel mondo segregato.
Gli ignavi
vv. 22 – 69
Qui sospiri, pianti e acuti lamenti risuonavano nell’atmosfera senza stelle, tanto che al primo
contatto iniziai a piangere. Diverse lingue, orribili parlate, parole di dolore, esclamazioni d’ira, voci
alte (acute) e fioche (deboli e strozzate), e con esse un battere di mani creavano un frastuono, che di
continuo si diffonde in quell’atmosfera eternamente buia, come la sabbia quando soffia un vento
vorticoso. Ed io che avevo la testa stretta dal dubbio, dissi: “Maestro, che cos’è quel che odo? E che
gente è questa che sembra tanto preda del dolore?”.
Ed egli a me: “Questa misera condizione è propria delle infelici anime di coloro che vissero senza
infamia e senza lode.
Sono mescolate a quel gruppo malvagio di angeli che non furono ribelli ma neppure fedeli a Dio,
ma che fecero parte per sé. I cieli li cacciano per non essere meno belli, ma neppure il profondo
inferno li accoglie, perché i dannati potrebbero ricavarne qualche vanto.
Ed io: “Maestro, che cosa li opprime al punto da farli lamentare tanto forte?”.
Rispose: ”Ti dirò brevemente. Essi non hanno speranza di morte, e la loro cieca vita è tanto
umiliante, che sono invidiosi di ogni altra sorte. Il mondo non li ricorda; la misericordia e la
giustizia divine li disprezzano: non parliamo di loro, ma guarda e passa oltre”.
E io, che guardai con attenzione, vidi una bandiera che girava in tondo tanto velocemente da
sembrare incapace di una qualche sosta; e dietro di lei veniva una schiera tanto lunga di gente, che
io non avrei mai creduto che la morte ne avesse annientata tanta. Dopo che ne ebbi riconosciuto
qualcuno, vidi e riconobbi l’ombra di colui che fece per viltà il gran rifiuto. Subito compresi e fui
sicuro che questa era la schiera dei vili, sgraditi a Dio ma anche ai suoi nemici (Lucifero e i
diavoli). Questi sciagurati, che mai furono vivi, erano nudi e continuamente tormentati
da mosconi e da vespe che li attorniavano. Essi rigavano il loro volto di sangue che, mischiato alle
lacrime, veniva assorbito ai loro piedi da vermi ripugnanti.

Canto III dell’Inferno, versi 79-136

Allor con li occhi vergognosi e bassi, Allora, con gli occhi bassi e pieni di vergogna,
temendo no 15 ’l mio dir li fosse grave, temendo che le mie parole fossero state
infino al fiume del parlar mi trassi. 81 sbagliate, rimasi in silenzio fino al fiume.

Ed ecco verso noi venir per nave Ed ecco giungere verso di noi su una nave
un vecchio 16, bianco per antico pelo, un vecchio, bianco per la vecchiaia,
gridando: «Guai a voi, anime prave! 84 che gridava: «Guai a voi, anime malvagie!

Non isperate mai veder lo cielo: Non sperate di veder mai più il cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva vengo per condurvi all’altra sponda
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 87 nel buio eterno, tra fiamme e ghiacci.

E tu che se’ costì, anima viva, E tu, anima viva, che pure sei qua
pàrtiti da cotesti che son morti». allontanati da questi, che sono già morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 90 Ma, poiché vide che non me ne andavo,

disse: «Per altra via, per altri porti disse: «Per un’altra strada, per altri porti giungerai
verrai a piaggia, non qui, per passare: alla spiaggia [del Purgatorio]; non da qui: è
più lieve legno convien che ti porti 17». 93 meglio che ti porti una nave più rapida».

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: E Virgilio a lui: «Caron, non preoccuparti:
vuolsi così colà dove si puote si vuole così là dove si può realizzare ciò che
ciò che si vuole, e più non dimandare 18». 96 si vuole; non chiedere altro».

Quinci fuor quete le lanose gote Così si calmarono le guance barbute


al nocchier de la livida palude, al nocchiero della plumbea palude, che attorno
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote 19. 99 agli occhi aveva lingue di fiamme.

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, Ma quelle anime, che erano nude e stremate,


cangiar colore e dibattero i denti, impallidirono e cominciarono a battere i denti
ratto che ’nteser le parole crude. 102 non appena compresero le parole crudeli.

Bestemmiavano Dio e lor parenti, Bestemmiavano il nome di Dio e dei parenti,


l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme il genere umano e il luogo e il tempo e la stirpe
di lor semenza e di lor nascimenti. 105 della loro genesi e della loro nascita.

Poi si ritrasser tutte quante insieme, Poi, piangendo a gran voce, si ammassarono
forte piangendo, a la riva malvagia tutte quante insieme verso il fiume malvagio
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. 108 che aspetta chi non ha timore di Dio.

Caron dimonio, con occhi di bragia Il demonio Caronte, con gli occhi come brace
loro accennando, tutte le raccoglie; che accennava a loro, le aduna tutte;
batte col remo qualunque s'adagia. 111 e colpisce con un remo chiunque si siede a terra.

Come d’autunno si levan le foglie Come in autunno le foglie cadono scendendo


l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo l’una vicino all’altra, fin quando il ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie 20, 114 vede per terra tutte le sue vesti,

similemente il mal seme d’Adamo così la razza dannata di Adamo


gittansi di quel lito ad una ad una, si getta dalla spiaggia sulla barca una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. 117 come il falcone al richiamo del cenno [di Caronte].

Così sen vanno su per l’onda bruna, Così se ne vanno per il fiume cupo,
e avanti che sien di là discese, e prima che siano scese sull’altra riva,
anche di qua nuova schiera s’auna. 120 già di qua si raduna una nuova schiera.

«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese, «Figliolo», disse Virgilio, «coloro che muoiono
«quelli che muoion ne l'ira di Dio in condizione di peccato mortale, tutti
tutti convegnon qui d'ogne paese; 123 convergono quida ogni paese del mondo;

e pronti sono a trapassar lo rio, e sono desiderosi di attraversare l’Acheronte


ché la divina giustizia li sprona, poiché li spinge la giustizia divina
sì che la tema si volve in disio. 126 così che la paura si trasforma in desiderio.

Quinci non passa mai anima buona; Da qui non transita mai un’anima buona e pura
e però, se Caron di te si lagna, e quindi, se Caronte si lamenta della tua
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona». 129 presenza, ora capisci cosa egli vuol dire».

Finito questo, la buia campagna Detto questo, la campagna immersa nel buio
tremò sì forte, che de lo spavento tremò così forte, che il ricordo dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. 132 mi ghiaccia di sudore ancor oggi.

La terra lagrimosa diede vento 21, Quella valle di lagrime fu colpita da terremoto,


che balenò una luce vermiglia che fece lampeggiare una luce rosso vivo,
la qual mi vinse ciascun sentimento; 135 che vinse tutte le mie facoltà sensibili;

e caddi come l’uom cui sonno piglia. e svenni come l’uomo che crolla nel sonno.

Note
15
 temendo no: costruzione alla latina; Dante,all’inzio della sua avventura, è ancora spaesato e teme più volte d’aver
fatto la cosa sbagliata.
16
 un vecchio: è Caronte, figura mitologica, figlio di Erebo (le Tenebre) e Notte; era il traghettatore o “psicopompo”
delle anime verso l’Ade, previa sepoltura e il pagamento di un obolo. Nella Commedia, che riprende l’Eneide, Caronte è
anche la prima di una serie di figure della mitologia pagana inserite nell’inferno cristiano, quali Minosse, Cerbero,
Pluto, Flegiàs , le Furie, il Minotauro, le arpie.
17
 Constatando che Dante è vivo, Caronte, con un’allusione implicita al “vasello” del secondo canto del Purgatorio, dice
a Dante che egli dovrà seguire un diverso itinerario nel suo viaggio nell’Oltretomba.
18
 Si tratta di una formula canonica, che Virgilio usa come “lasciapassare” anche con Minosse e Pluto.
19
 Il ritratto di Caronte, modellato in parte su quello virgiliano (Eneide, VI, vv. 298-304) insiste su particolari di forte
espressività: la barba folta e bianca, gli occhi infiammati, le parole sprezzanti nei confronti dei dannati.
20
 Similitudine di matrice virgiliana (Eneide, VI, vv. 309-312); tutti questi rimandi intertestuali, costituiscono senza
dubbio un tributo di Dante al maestro Virgilio, che gli fa da amorosa guida in una realtà tragica.
21
 La terra lagrimosa diede vento: era credenza diffusa che i terremoti fossero causati da forti venti sotterranei; qui il
prodigio del terremoto serve al poeta per concludere il canto, con lo stratagemma dello svenimento per la paura.

Canto III dell’Inferno: sintesi narrativa


Arrivo all'Inferno Versi 1-21. Dante e Virgilio arrivano davanti la porta dell’Inferno che, sulla sommità reca
un’iscrizione minacciosa in caratteri scuri: viene messo in guardia chi la varca, spiegando che sul luogo in
cui sta per entrare regna l’eterna sofferenza e che non vi è speranza di uscirvi. Dante, tentennante, viene
condotto da Virgilio attraverso la porta.  
Le pene dei dannati dell'Inferno Versi 22-69. Varcata la soglia, Dante è travolto da un terribile mescolarsi di
pianti, voci, lamenti, urla; Virgilio gli spiega che ad emettere quei suoni sono gli ignavi, le anime di coloro
che in vita hanno peccato di viltà, non schierandosi mai né dalla parte del bene né da quella del male. La loro
punizione è quella di correre continuamente dietro a un’insegna senza significato ed essere punzecchiati
senza sosta da vespe e mosconi: il sangue che esce dai loro volti viene raccolto da orripilanti vermi. Tra
queste anime, Dante scorge quella di «colui che fece per viltade il gran rifiuto».  
Viene introdotta la figura di Caronte Versi 70-120. Dante scorge poi altre anime, ammassate sulla riva di un
fiume: si tratta delle anime dannate che, disposte lungo l’Acheronte, aspettano di essere portate verso l’altra
sponda, laddove comincia l’Inferno. A traghettarle c’è Caronte, il nocchiero che appare a Dante in tutta la
sua vecchiaia e che intima il poeta di andar via, rivolgendogli parole ingiuriose. È Virgilio a zittire il
demone, ricordandogli che il viaggio di Dante è voluto da Dio; tanto basta a calmare Caronte.
Le anime, accalcate lungo la sponda, si gettano dalla riva alla barca e, quando il nocchiero ancora non è
arrivato alla meta opposta, sulla riva si è formata una nuova schiera.  
Virgilio spiega a Dante la reazione di Caronte Versi 121-136. Virgilio spiega a Dante che non deve
prendersela per le parole di Caronte, anzi: nessuna anima in Grazia di Dio può essere traghettata all’altra
riva, e quindi la rabbia del nocchiero significa che l’anima del poeta è salva. Improvvisamente, il suolo
infernale è scosso da uno spaventoso terremoto accompagnato da un lampo rossastro: Dante perde i sensi e
sviene a terra.  
La testimonianza di Primo Levi: Se questo è un uomo (1958)
I sommersi e i salvati
Il titolo del libro ci ricorda che al centro dell’interesse dell’autore è l’analisi dell’uomo, la
comprensione di ciò che l’uomo può fare e subire. La forma dubitativa esprime l’esitazione di Levi
di fronte all’abisso di male presente nell’animo umano che nel lager egli ha conosciuto e provato
giorno per giorno.
Nell’inferno del lager alcuni uomini riescono a rimanere fedeli a se stessi, alla propria dignità
umana. E infine, aiutati da una casualità cieca, sono emersi da quell’inferno. Altri sono destinati fin
dall’inizio a soccombere.
Nel capitolo 9, I sommersi e i salvati, Levi individua queste due fondamentali categorie di uomini,
che si distinguono assai nettamente. La quasi totalità dei prigionieri appartiene ai «sommersi»,
mentre assai pochi sono i «salvati», pur se molteplici e diversissime sono le modalità attraverso le
quali ci si salva.
Il canto XXVI dell’Inferno di Dante
Le pagine di Se questo è un uomo ci presentano una condizione umana particolarmente aspra e
drammatica, squallida e priva di speranza. Eppure dal racconto emerge una grande ricchezza di
sentimenti, di gesti, di azioni capaci di riaffermare la dignità dell’uomo.
L’episodio in cui più intensamente e consapevolmente vediamo i personaggi elevarsi al di sopra
dell’atmosfera del lager è narrato nel capitolo 11, Il canto di Ulisse: Primo e Pikolo hanno il
compito di ritirare la zuppa per il loro Kommando e scegliendo opportunamente la strada fanno in
modo di avere un’ora a disposizione per parlare tra loro da esseri umani. Così ricordano le loro
case, i loro studi, le loro letture, le loro madri... Pikolo vorrebbe imparare l’italiano e Primo gli
propone un canto della Commedia di Dante Alighieri, il canto di Ulisse. I versi di Dante hanno il
potere di evocare il mondo fuori dal lager, spazi aperti, orizzonti sterminati, mari e montagne
familiari. Ulisse è l’uomo che esprime una delle sue aspirazioni più alte, il desiderio di conoscenza:
«Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e
conoscenza».
Queste parole rivolte da Ulisse ai suoi compagni per esaltare il loro desiderio di conoscenza
mettono in particolare rilievo, per contrapposizione, la situazione dei prigionieri. E tuttavia Primo e
Pikolo si riconoscono in questo desiderio di libertà e di conoscenza. La poesia parla delle loro
profonde aspirazioni, inesprimibili nella situazione del lager, della contrapposizione tra la barbarie
nazista e la ragione umana, della sconfitta di quest’ultima rappresentata dal naufragio della nave
sopra la quale il mare si richiude inesorabile.

PRIMO LEVI, Se questo è un uomo, Capitolo: "IL CANTO DI ULISSE"


...Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di
scegliere, quest’ora già non è piú un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da
tanto. ... Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si
cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il
contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio,
lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando...

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza
pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine
appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che
sí Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «... la piéta
Del vecchio padre, né ’1 debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto?

... Ma misi me per l’alto mare aperto.

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi
me» non è «je me mis», è molto piú forte e piú audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al
di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato
per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e
non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk, dove
lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori
della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giú di morale,
non parla mai di mangiare. «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella
compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento piú se viene prima o dopo. E
anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a
raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
.. Acciò che l’uom piú oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è
la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia
una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la
mente, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza:


Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio.
Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono
Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di piú: forse, nonostante la
traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo
riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che
osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

Li miei compagni fec’io sí acuti...


e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna,
questa volta irreparabile. «... Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?...
Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno
quattro terzine.
- Ça ne fait rien, vas-y tout de même.

...Quando mi apparve una montagna, bruna


Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna

Sí, sí, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di
lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie
montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi
guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di
ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è
silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «... la terra lagrimosa diede vento...» no, è un’altra cosa.
È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,

Alla quarta levar la poppa in suso


E la prora ire in giú, come altrui piacque...

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda che questo
«come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non
vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato
anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto,
nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui … Siamo
ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri
Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rueben? - Kraut und Rueben -.
Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et nevets. – Kaposzta és
répak.

Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.


Francesco Petrarca: L’amore per Laura sotto accusa -Secretum, III
Il brano qui presentato è tratto dalla parte iniziale del libro III. Francesco ha confessato ad
Agostino il proprio amore per Laura, sostenendo che tale sentimento lo ha istigato al bene e
indirizzato all’amore verso Dio, creatore di tale bellezza; Agostino replica che in realtà in
Francesco l’amore per la creatura ha preso il posto di quello per il Creatore, con una inversione
colpevole.

AGOSTINO Ah folle! Così per sedici anni1 hai alimentato con false lusinghe le fiamme del tuo
animo? […] Infelice, ti compiaci del tuo male! Eppure quando il giorno estremo avrà chiuso quegli
occhi, che ti piacciono fino alla rovina, quando avrai visto mutato dalla morte il suo aspetto e
sbiancate le sue membra, ti vergognerai di aver avvinto il tuo animo immortale a un corpicciolo
caduco, e ricorderai con rossore quelle sue doti che ora vanti così ostinatamente.
FRANCESCO Distolga Iddio il presagio! Io non vedrò questo. […]
AGOSTINO O cieco, non capisci ancora quale follia è il rendere l’animo così schiavo dei beni
mortali, che lo accendono di fiamme di desiderio, e non sanno appagarlo, e non riescono a durare
sino alla fine, e con frequenti agitazioni lo straziano mentre promettono di accarezzarlo?
FRANCESCO Se hai qualche argomentazione più convincente, esponila: non mi atterrirai mai con
codesti discorsi; poiché io non ho rivolto il mio animo a cosa mortale, come tu credi, né tu sai che io
non ho tanto amato il corpo di lei quanto la sua anima […]
AGOSTINO Non può mettersi in dubbio che spesso si amino turpemente anche le cose più belle.
FRANCESCO A questo ho già risposto prima. Infatti, se in me si potesse vedere l’aspetto
dell’amore che in me regna, non parrebbe diverso dal volto di lei, che ho lodato, benché molto,
tuttavia meno del debito. Costei, alla cui presenza parliamo, mi è testimone che nel mio amore nulla
di turpe, nulla di osceno fu mai, nulla infine di colpevole, tranne la sua grandezza. […]
AGOSTINO Credi forse che io ignori che «chi ama si crea da se stesso i propri sogni»?2 Sono versi
notissimi in tutte le scuole. D’altronde, mi rincresce udire tali sciocchezze dalla bocca di persona
cui converrebbe maggior profondità di saggezza e di linguaggio.
FRANCESCO Almeno questo non vorrei tacere, fosse esso da ascrivere a gratitudine o a stoltezza:
io, per quanto piccolo tu mi veda, sono quello che sono grazie a lei; né sarei mai giunto a questo
grado – se qualcosa vale – di rinomanza o di gloria, se costei non avesse coltivato, con nobilissimi
sentimenti, quel minuscolo seme di virtù, che natura aveva posto in questo cuore. Fu lei a
distogliere il mio animo giovanile da ogni turpitudine, a ritrarlo, come dicono, con l’uncino, a farlo
mirare ad alte mete. [...] Quindi non c’è affatto da meravigliarsi se questa fama tanto insigne arrecò
anche a me il desiderio d’una fama più fulgida, e alleviò le mie durissime fatiche sostenute per
conseguire ciò che desideravo. Che altro infatti desideravo da giovane, se non di piacere proprio a
lei sola, che proprio sola a me era piaciuta? E per raggiungere questo scopo, disprezzate le mille
attrattive delle voluttà, tu ben sai a quanti affanni e fatiche mi sottomettessi anzi tempo. E mi
comandi di dimenticare o di amare più tepidamente colei che mi ha allontanato dal volgo, che ha
spronato il mio torpido ingegno, e svegliato il mio animo assopito?
1 per sedici anni: l’incontro con Laura risale al 16 aprile 1327. Il dialogo con Agostino si svolge nel
sedicesimo anno dopo tale data, e dunque nel 1342 circa.
2 chi ama…sogni: Virgilio, BucolicheVIII, 108.
AGOSTINO Infelice, quanto era meglio tacere che parlare! Sebbene anche quando tacevi ti vedessi
in tali condizioni nel tuo spirito, tuttavia codeste affermazioni tanto ostinate suscitano in me nausea
e sdegno.

FRANCESCO Perché, ti prego?

AGOSTINO Perché pensare il falso è proprio dell’ignorante; ma asserire sfacciatamente il falso, è


al tempo stesso dell’ignorante e del superbo.
FRANCESCO Quale prova ti fa certo che io ho pensato o detto il falso?
AGOSTINO Senz’altro tutto quel che ricordi! Anzitutto quando dici che devi a lei di essere quello
che sei. Se con ciò intendi che essa ti ha permesso di essere così, senza dubbio tu menti. Ma se
intendi che non ti ha permesso di essere qualcosa di più, allora dici il vero. Oh, che grand’uomo
saresti potuto riuscire, se essa non t’avesse distolto con le lusinghe della sua bellezza! Quello che
sei, te l’ha dunque concesso la bontà della natura; quello che potevi essere, è stata lei a togliertelo;
anzi, sei stato tu: essa è innocente. La sua bellezza ti è parsa così affascinante, così dolce, che con
l’ardore d’un accesissimo desiderio e una continua pioggia di lacrime ha guastato ogni messe che
sarebbe sorta dal seme di virtù che la natura ti aveva concesso. Quanto al fatto, poi, che essa ti
avrebbe distolto da ogni turpitudine, te ne glorii a torto: ti ha distolto forse da molte, ma ti ha spinto
in affanni più gravi. Non si può infatti dire liberatore, ma piuttosto uccisore chi ha insegnato ad
evitare una via insozzata da varie brutture, se ha poi condotto ad un precipizio, e chi, mentre
risanava le piaghe più piccole, colpiva intanto mortalmente alla gola. E costei, che tu vai dicendo
tua guida, se ti ha distolto da molte sconcezze, ti ha spinto in uno splendido baratro. Quanto
all’averti insegnato a mirare in alto, all’averti allontanato dal volgo, che altro è stato se non l’averti
reso suo ammiratore, e – preso dalla dolcezza di lei sola – dispregiatore di ogni altra cosa, e
fastidiosamente pigro? […] Quanto al ricordare che essa ti ha indotto a innumeri fatiche, questa è
l’unica verità che vai dicendo. Che grande compenso tu trovi in ciò, puoi pensarlo. Poiché infatti
sono multiformi le fatiche che non si possono evitare, quanta follia è il cercarne altre di propria
iniziativa! Ma circa il tuo vantarti d’esser divenuto per lei avido di fama più insigne, compatisco il
tuo errore. Poiché ti dimostrerò che, fra i pesi del tuo animo, nessuno è per te più funesto. […]
Costei che tu esalti, cui asserisci di esser debitore di tutto, costei è la tua rovina.

FRANCESCO Dio buono, in che modo me ne potrai convincere?


AGOSTINO Ha distolto il tuo animo dall’amore dei beni celesti, ed ha volto il tuo desiderio dal
Creatore alla creatura. E questa sola è stata sempre la via più facile verso la morte.3
FRANCESCO Ti prego, non sentenziare con troppa fretta: il suo amore giovò senz’altro a farmi
amare Dio.
AGOSTINO Ma ha invertito l’ordine.
FRANCESCO Come?
AGOSTINO Perché bisogna amare tutto il creato per amore del Creatore; e tu, invece, preso dalle
attrattive d’una creatura, non hai amato il Creatore come si doveva, ma lo hai ammirato come
artefice di lei, quasi non avesse creato nulla di più bello, mentre la bellezza del corpo è l’ultima
delle bellezze.

3 la morte: la dannazione.
FRANCESCO Chiamo a testimonio costei che è qui presente,4 e assieme faccio testimone la mia
coscienza, che io – come ho detto prima – non ho amato di lei più il corpo che l’anima. Potrai
capirlo da ciò: che quanto più essa si è avanzata in età (che è un colpo irreparabile per la bellezza
fisica), io sono rimasto tanto più saldo nella mia opinione. Poiché, sebbene il fiore della sua
giovinezza appassisse visibilmente con il volger del tempo, cresceva con gli anni la bellezza
dell’animo suo, che come mi offrì l’occasione di amarla, così mi diede la perseveranza nel mio
proposito. Altrimenti, se fossi stato attratto solo dal suo corpo, già da un pezzo sarebbe stato tempo
di cambiare proposito.
AGOSTINO Mi vuoi prendere in giro? Se la stessa anima abitasse in un corpo brutto e contorto, ti
sarebbe piaciuta ugualmente?
FRANCESCO Non oserei dir questo: l’anima non si può vedere, né l’aspetto del corpo l’avrebbe
promessa tale; ma se apparisse allo sguardo, amerei senz’altro la bellezza d’un’anima che pure
avesse una brutta dimora.
AGOSTINO Cerchi mezzucci verbali; se puoi amare solo ciò che si presenta alla vista, hai dunque
amato il corpo. […]
FRANCESCO Vedo a che cosa mi obblighi: a confessare con Ovidio: «Ho amato l’anima assieme
al corpo».5
AGOSTINO Bisognerà che tu confessi questo che segue: né l’uno né l’altra tu hai amato abbastanza
moderatamente, né l’uno né l’altra hai amato come conveniva.
FRANCESCO Dovrai mettermi alla tortura, prima che lo confessi.
AGOSTINO E un’altra cosa ancora: per codesto amore sei caduto in grandi infelicità.
FRANCESCO Questo non confesserò neanche se mi torturerai sul cavalletto.
AGOSTINO Anzi spontaneamente confesserai ben presto entrambi i fatti, se non trascurerai le mie
ragioni e le mie domande.

4 costei…presente: la Verità, muta testimone del dialogo.


5 Ho amato…corpo: Ovidio, Amori I, 9, 13

Guida alla lettura


Un dialogo senza dialettica
Tra Agostino e Francesco si svolge un dialogo che mette una di fronte all’altra due posizioni assai
diverse e lontane. A ogni argomento affrontato, la distanza a poco a poco si assottiglia, senza mai
scomparire però del tutto. Non si tratta di un reciproco avvicinamento. In realtà uno dei due,
Agostino, resta sempre fermo nella propria posizione iniziale, e anzi la rende spesso via via più
esplicita e brutale. È dunque il solo Francesco a retrocedere, senza però mai eliminare un margine di
attrito tra la propria prospettiva umana e la superiore visione del “confessore”. In questo modo le
due diverse visioni non procedono a definire una conclusione in modo dialettico, attraverso una
mediazione che accolga gli aspetti più accettabili o solidi di entrambe. Piuttosto è messo in risalto
un contrasto irriducibile. Dato che, come si è spesso giustamente affermato, le due voci dialoganti
esprimono due parti della personalità petrarchesca, la loro inconciliabilità e la mancanza di una
fusione dialettica dei loro due punti di vista testimoniano una volta di più la profonda scissione
psicologica del poeta, attestata in molti luoghi della sua opera e soprattutto nel Canzoniere.
La rottura con la tradizione lirica cortese
In fondo, la tesi qui sostenuta da Francesco, secondo la quale attraverso l’amore per un essere
nobile e angelico egli si sarebbe avvicinato a Dio, è la tesi che attraversa l’intera tradizione lirica
cortese, raggiungendo la sua elaborazione più matura nello stilnovismo e soprattutto nella Vita
nuova di Dante. Il rifiuto di tale tesi in nome della superiorità dei valori spirituali del soggetto in se
stesso, cioè in nome della sua autosufficienza e autonomia rispetto agli eventi esterni, segna una
svolta nei confronti della cultura che sta alla base della lirica precedente. Con Petrarca si afferma
una concezione nuova: la nuova figura dell’intellettuale cristiano deve ritirarsi in una sfera esente
dai rapporti con la realtà materiale, non potendo più contare sul proprio controllo nei confronti di
essa. Il conflitto tra le varie parti della personalità petrarchesca esprime anche un conflitto tra due
momenti diversi della civiltà, uno ormai alle spalle e uno ancora nel futuro.

Esercizi
1. Per Agostino Laura è:
...........................................
2. Per Francesco:
...........................................
3. Quale alta funzione Petrarca attribuisce a Laura nella sua vita?
4. Perché Agostino accusa Francesco di mentire?
5. Il poeta dichiara che l’amore per Laura «giovò» a fargli «amare Dio». A quale tradizione
culturale si appoggia?
6. Con quali argomenti Agostino lo contraddice?
7. I due interlocutori mettono in scena un conflitto interno all’animo del poeta. Quale? Ti pare
conciliabile?

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