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Nella poesia, a differenza degli altri testi, ciò che si dice è importante quanto
come lo si dice e per questo vi è una forte relazione tra significato e significante.
La cesura si utilizza quando si vuole mettere in evidenza una parola chiave come
un particolare aggettivo o sostantivo, che per il poeta è interpretata
fondamentale per capire il contenuto della sua poesia.
Enjambement
L’enjambement è uno dei tanti artifici della lingua del quale il poeta utilizza per
arricchire il suo testo. Letteralmente deriva dal termine francese enjamber che
vuol dire “oltrepassare, andare oltre” la misura del verso e infatti significa
“scavalcatura e inarcamento”.
Nella poesia il poeta adotta una seria di regole che gli permettono di scegliere
quando andare a capo e quando le unità metriche e le unità sintattiche, cioè la
frase e il verso devono coincidere.
Scavalcatura, perché la frase sconfina nel verso successivo e ciò significa che si
può trovare in versi diversi le parti sintattiche di una frase.
Rima
Il testo poetico è caratterizzato da un elemento fondamentale chiamato rima, che
in passato era quasi obbligatoria. La rima è l’identità di suono della parte finale
di due parole, dette compagne di rima a partire dalla vocale tonica, cioè quella
accentata.
Versi senza rima sono versi sciolti cioè come quelli moderni. La rima non viene
scelta a caso, ma anzi spesso vengono scelte compagne di rima parole che siano
sinonime o opposte.
Ottava rima. L’ottava rima è una forma metrica che fu usata soprattutto dal
poeta Boccaccio, composta da strofe di otto versi di cui sei endecasillabi a rima
incatenata e due endecasillabi a rima baciata.
Lo schema metrico ABABABCC sono state usate dai poemi epici del 1500.
Rima perfetta: si ha quando due parole hanno una perfetta identità di suono a
partire dalla vocale accentata e per cui corrisponde alla rima baciata.
Rima imperfetta: si ha un’identità parziale di suono a partire dalla vocale
tematica data dal fatto che la parola è condizionata dall’assonanza (consonanti
diverse e vocali uguali) e dalla consonanza (consonanti uguali tranne la vocale
tonica invece per altri è l’esatto contrario dell’assonanza).
Rima equivoca: si ha quando due parole sono identiche foneticamente ma di
diverso significato.
Rima ipermetra: si ha quando l’ultima sillaba di un verso supera la misura del
verso stesso e dal punto di vista metrico fa parte del verso successivo.
Rima ricca: si ha quando vi è un’identità di suono o di fonema precedente alla
vocale tonica.
Strofe
Le strofe sono un raggruppamento di più versi, caratterizzate dal numero di versi
utilizzato, dalla disposizione dello schema delle rime e dal tipo di rime.
Forme metriche o metro. Combinazione di strofe con certi tipi di versi o di rime
di origine medievale, rinascimentale o della modernità.
TIPI DI COMPONIMENTO POETICO
Sonetto. Il sonetto è la forma metrica più utilizzata e anche la più antica, nasce
nella Scuola Siciliana. Il sonetto è composto da due quartine seguite da due
terzine (14 versi).
Solitamente le quartine sono a rima incrociata o alternata: ABBA - ABAB. Invece
le terzine sono solitamente a rima alternata (CDC DCD) oppure invertita (CDE
EDC).
Canzone libera. La canzone libera è una forma metrica meno vincolata, più
moderna e libera, utilizzata soprattutto da Giacomo Leopardi. La canzone libera
è composta come la normale canzone da endecasillabi e settenari, spesso però
sciolti.
Ballata. La ballata è un componimento che anticamente era accompagnato sia
dalla musica, sia dalla danza e la sua caratteristica più comune è quella di avere
un ritornello che si ripete identico fino alla fine della strofa.
Questa forma metrica, che può avere varie lunghezze e di cui il maggior
esponente è Petrarca, è nata nel 1300 e ha trovato vario impiego nei numeri
successivi.
Madrigale. Il madrigale è una forma metrica che prende nome dalla musica che
lo accompagna, si formò nel ‘300.
Il madrigale è dato da un componimento di 2 o 5 terzine chiuso da uno o due
distici e i versi che lo compongono possono essere solamente endecasillabi.
Questa forma metrica fu usata fino all’800.
Ode. L’ode è una forma metrica di cui il suo maggior esponente fu Giuseppe
Parini ed è data da versi misti o unici più brevi che possono essere quinari o
settenari oppure ottonari e quaternari.
L’ode può avere molti contenuti (religiosi o politici) e molti schemi metrici,
questi sono i motivi dei suoi molti nomi, infatti può essere detta inno, romanzo e
canzonetta.
FIGURE RETORICHE
Le figure retoriche sono forme espressive basate su una deviazione dal linguaggio
comune, il cui scopo è quello di rendere il messaggio più efficace ed espressivo,
perciò si possono considerare artifici efficienti.
Esse vengono usate anche nel linguaggio quotidiano, ma si può dire che trionfino
nella poesia, il loro terreno più fertile.
Tipi di figure retoriche. L’uso attuale nel campo poetico è per lo più d’ornamento
e viene utilizzata dal poeta per dimostrare la sua bravura e la caratteristica
plasmatica della lingua, la quale possiede molti adeguamenti e faccettature.
Le figure retoriche si dividono in tre grandi categorie: del suono (l'aspetto
fonico-ritmico delle parole), del senso e del significato (lo spostamento di
significato che i vocaboli possono assumere) e dell’ordine sintattico (disposizione
dell’ordine nella frase).
Rappresenta qualcosa con un concetto che non centra nulla, un esempio sarebbe
rappresentare l’avarizia con una lupa. Il poeta che ne fa un abbondante uso
è Dante.
Metonimia. Il termine Metonimia è un nome traslato dal greco che indica lo
scambio di nome.
Si può considerare come una metafora che si basa sulla sostituzione dei termini
ma con la differenza che nella metafora i termini che si sostituiscono sono simili
tra loro, invece nella metonimia i termini che si sostituiscono hanno una
rapporto di contiguità nella sfera logica.
Nella poesia significante e significato sono indivisibili: il primo indica le parole della
poesia, il loro suono e il loro ritmo (cioè come la poesia è scritta), mentre il
significato rappresenta il messaggio vero e proprio della poesia.
Nella poesia, a differenza degli altri testi, ciò che si dice è importante quanto come lo
si dice e per questo vi è una forte relazione tra significato e significante.
Le poesie moderne sono irregolari, non obbediscono più alle regole della metrica (la
disciplina che regola l’ordine delle poesie) e quindi sono spesso prive di rima, con
numero di sillabe che cambia da verso a verso e le strofe sono spesso discontinue.
Tipi di verso
A seconda del numero di sillabe (poetiche) contenute nel verso, questo prende diversi
nomi. Un verso con tre sillabe si chiamerà trisillabo, con quattro sillabe si chiamerà
quadrisillabo e così via. Si riporta di seguito l’elenco dei versi più noti.
Trisillabo: tre sillabe
Quadrisillabo: quattro sillabe
Quinario: cinque sillabe
Senario: sei sillabe
Settenario: sette sillabe
Ottonario: otto sillabe
Novenario: nove sillabe
Decasillabo: dieci sillabe
Endecasillabo: undici sillabe
Figure metriche. Le figure metriche sono delle figure che regolano l’incontro delle
vocali nel verso:
Sinalefe: l’ultima lettera di una parola e la prima della parola successiva
dittongo.
Esempi:
"Solo e pensoso i più deserti campi…"
(Petrarca, Canzoniere, XXXV, v.1) - si contano tredici sillabe; in realtà si tratta di un
endecasillabo, perché contiene due sinalefi, "Solo-e" e "pensoso-i" - So-lo e- pen-so-
so i- più- de-ser-ti- cam-pi.
Dialefe (dal greco dialéipho, "separo"), è una figura metrica che consiste nel tenere
distinte, nel computo delle sillabe, due vocali, di cui una alla fine di una parola e una
all’inizio della successiva (la dialefe è dunque il contrario della sinalefe). Si applica
spesso in presenza di monosillabi o di sillabe fortemente accentate.
Esempi:
"…tant’era pien di sonno a quel punto…"
(Dante, Inferno, Canto I)
va scandito così tan-t’erapiendisonnoaquelpunto, ottenendo il computo di 11 sillabe
metriche.
Esempi:
"…Dolce color d’orï/ental zaffiro…"
(Dante, Purgatorio, I, v.13)
"…orïental…" va letto come se fosse scandito in quattro sillabe ("o-ri-en-tal"), il
verso è dunque un endecasillabo: Dol-ce- co-lor- d’o-rï-en-tal- zaf-fi-ro.
Esempi:
"…morte bella parea nel suo bel viso…"
(Petrarca, Canzoniere,Trionfo della morte, v.172)
la sineresi interviene due volte (parea, suo).
tronco: quando l’accento cade nell’ultima e perciò si conta una sillaba in più.
Cesura. Un artificio molto importante del verso è la cesura che ha lo scopo di creare
una pausa e che deriva dal termine latino caedo che significa taglio.
La sua collocazione sta più o meno a metà verso, ma non è sempre regolare e spesso
coincide con una pausa sintattica come una virgola o una pausa logica, la quale indica
un cambiamento di discorso.
La cesura si utilizza quando si vuole mettere in evidenza una parola chiave come un
particolare aggettivo o sostantivo, che per il poeta è interpretata fondamentale per
capire il contenuto della sua poesia.
Enjambement
L’enjambement è uno dei tanti artifici della lingua del quale il poeta utilizza per
arricchire il suo testo. Letteralmente deriva dal termine francese enjamber che vuol
dire “oltrepassare, andare oltre” la misura del verso e infatti significa “scavalcatura e
inarcamento”.
Scavalcatura, perché la frase sconfina nel verso successivo e ciò significa che si può
trovare in versi diversi le parti sintattiche di una frase.
Separando le parti sintattiche meno importanti si può rallegrare utilizzando
l’enjambement per accelerare la poesia, se invece si vuole dare un’impressione di
malinconia si usa per rallentare.
"…e intanto fugge
questo reo tempo…"
(U. Foscolo, Alla sera, vv.10/11)
In questo caso l’enjambement riguarda soggetto (questo reo tempo) e verbo (fugge).
Tipi di strofe
Anche le strofe assumono nomi diversi a seconda del numero di versi contenuto. Si
riporta di seguito l’elenco delle strofe più note.
Distico: due versi
Terzina: tre versi
Quartina: quattro versi
Sestina: sei versi
Ottava: otto versi
Tipi di rime
Come detto in precedenza due versi fanno rima quando sono uguali a partire
dall’ultimo accento tonico. In base al modo con cui si succedono e si alternano
possiamo avere diversi tipi di rima. Le tipologie più comuni sono la rima
baciata (AABB), che si ha quando i versi rimano a due a due, la rima
alternata (ABAB), quando la rima si alternana, la rima incrociata (ABBA), quando
il primo verso fa rima con il quarto e il secondo rima con il terzo e la rima
incatenata (ABA BCB CDC), che si ha quando in un sistema di terzine, il primo
verso della prima strofa rima con il terzo e nella strofa successiva il primo verso
rima con il secondo della strofa precedente e così via. Di seguito alcuni esempi.
Baciata: AA BB CC
Alternata: ABAB
Incrociata: ABBA
Incatenata: ABA BCB
I componimenti metrici
Le figure retoriche
Quando leggiamo una poesia dobbiamo prestare molta attenzione non solo al suo
significato, ma anche al modo con cui questo significato viene espresso. Per ottenere
gli effetti desiderati i poeti plasmano la lingua a proprio piacimento utilizzando
parole particolari, modificando la sintassi, facendo attenzione ai suoni e al ritmo delle
parole. In questo modo contribuiscono ad arricchire la lingua di nuovi significati e di
particolari suggestioni. Le figure retoriche sono tecniche particolari utilizzate dai
poeti per plasmare il linguaggio. Spesso vengono divise in figure di suono,
dell’ordine, di significato e di pensiero. Vediamone le più comuni.
1) Figure di suono
L’allitterazione è una figura retorica di suono che nasce dalla ripetizione di suoni
simili all’inizio o all’interno di parole vicine.
2) Figure dell’ordine
L’inversione è una figura retorica che consiste nel modificare l’ordine normale delle
parole nelle frasi.
La similitudine è un paragone tra due elementi che risultano simili per una
determinata caratteristica. I due oggetti paragonati sono messi in relazione per mezzo
di termini ed espressioni comparative quali: come, simile a, quasi, sembra, ricorda,
ecc.
La metonimia è una figura retorica spesso confusa per la sineddoche che consiste
nella sostituzione di un termine con un altro con cui ha una relazione logica.
ab dezirada companha.
juzeva ni sarrazina.
de Beiriu e de Guiana,
§
Quando il rio della sorgente si fa chiaro, come
suole, e sboccia la rosa canina, e l’usignolo sul ramo
svolge, riprende e forbisce il dolce suo canto e lo
affina, è bene ch’io riprenda il mio.
Sanza mia donna non vi voria gire, Non vorrei andarvi senza la mia donna,
quella c’ha blonda testa e claro viso, quella dalla chioma bionda ed il volto luminoso,
ché sanza lei non poteria gaudere, poiché senza di lei non potrei aver gioia,
estando da la mia donna diviso. 8 essendo diviso dalla mia donna.
IN SINTESI
Il poeta ha deciso di comportarsi bene, per poter andare in Paradiso, un luogo in cui – gli hanno
detto – si sta sempre allegri. Bene, ma preferirebbe non andarci se lì con lui non ci fosse anche la
donna che ama: il Paradiso non è tale se non può contemplare la sua bellezza in cielo, nella gloria di
Dio.
Continuerò a resistere
To your love
Al tuo amore
No it can't be true
Continuerò a resistere
To your love
Al tuo amore
Approfondimento sulla lirica amorosa italiana delle origini – cfr testo “Creep”
Radiohead
CREEP
SFIGATO
Prima eri qui e non riuscivo Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira
(G. Cavalcanti)
Nemmeno a guardarti negli occhi e no·lle pò apressare om che sia vile (G.
Guinizzelli, io voglio del ver)
Sei come un angelo, quella c’ha blonda testa e claro viso (J.
La tua pelle mi fa venire da piangere Da Lentini, Io m’aggio posto in core)
Volteggi come una piuma più che stella dïana splende e pare,
In un mondo bellissimo e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. (G.
Ed io vorrei essere speciale
Sei così dannatamente speciale Guinizzelli, Io voglio del ver)
Dante Alighieri, Oltre la spera che più larga gira (Vita nuova, XLI)
L’ultimo paragrafo della Vita nova non parla del passato, come tutti quelli che lo precedono, ma del
futuro. Beatrice è morta da tempo. La misteriosa «donna gentile» che aveva avuto compassione di
Dante, e che lo aveva tentato, quasi sedotto, è ormai dimenticata. Il pensiero del poeta torna
all’unica donna che abbia veramente amato; la vede, fisicamente, in paradiso; e – per onorarla
degnamente – si ripromette di dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna»: allusione a
un’opera di là da venire, nella quale Beatrice avrà un ruolo tanto centrale quanto quello che ha
avuto nella Vita nova. Si tratta, probabilmente, del primo annuncio della Commedia.
Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandasse loro di queste mie parole
rimate; [1] onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova (…)
E dissi allora uno sonetto, lo quale narra del mio stato (…)
[1] Due nobildonne mi mandarono a pregare di mandar loro alcuni miei testi poetici.
1 Oltre… gira: al di là del Primo Mobile, il cielo del Paradiso che ruota con moto più ampio e
abbraccia quelli sottostanti.
4 piangendo… in lui: nonostante pianga, Amore infonde nel cuore del poeta una straordinaria e mai
provata prima (nova) capacità di comprensione. pur su lo tira: lo spinge sempre più verso l’alto.
5 là… disira: nell’Empireo, la sede di Dio e dei beati.
8 lo peregrino spirto: lo spirito del poeta che viaggia.
9 Vedela tal: la vede tale, cioè di una bellezza così straordinaria. Il soggetto è ’l sospiro.
10 sì… sottile: parla in modo raffinato e complesso.
13 però… Beatrice: perché spesso menziona Beatrice.
14 lo ’ntendo ben: lo so bene
[Vita nuova, cap. XLII] 1. Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale
io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse
più degnamente trattare di lei1. 2. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae
veracemente2. 3. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per
alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna3. 4. E poi piaccia a colui
che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di
quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula
benedictus4.
Appresso… di lei: Dopo questo sonetto (il riferimento è a Oltre la spera che più larga
1
gira [G15], contenuto nel capitolo precedente e a cui questa prosa segue immediatamente) mi
apparve una mirabile visione, in cui io vidi cose che mi fecero decidere (proporre) di non parlare
più di questa <donna> benedetta fino a quando io potessi trattare di lei più degnamente. Il
contenuto della «mirabile visione» che segue alla composizione del sonetto rimane indeterminato,
anche in obbedienza alla “consegna del silenzio” che Dante si impone in attesa di maturare una
poetica più degna dell’altezza del suo nuovo soggetto.
questo (cioè a parlare «più degnamente» di Beatrice), come essa sa (sae, forma con epitesi).
Sì che… d’alcuna: Sicché, se piacerà a (se piacere sarà di) colui che è la causa finale di ogni
3
vita (a cui tutte le cose vivono, secondo la parafrasi di Contini; si tratta di una perifrasi per indicare
Dio), che la mia vita duri per un numero sufficiente di anni (per alquanti anni), io spero di
dire (dicer) di lei quello che non fu mai detto di nessuna <donna>.
misericordia (sire de la cortesia; altra perifrasi per indicare Dio) che la mia anima possa andare
<in Paradiso> a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale nella
gloria del cielo (gloriosamente) guarda intensamente la faccia (mira nella faccia) di colui che è
benedetto per tutti i secoli (ancora Dio, designato con una formula liturgica). Si noti la ripetizione,
prima in volgare e poi in latino, dello stesso aggettivo («benedetta»… «benedictus»), che istituisce
un rapporto di omologia tra Beatrice e Dio. L’aggettivo «benedetta», sempre con riferimento a
Beatrice, compare già all’inizio del capitolo [1].
IL SONETTO
Oltre la spera è il resoconto di una visione. Un sospiro, uscito dal cuore del poeta (un cuore pieno
di nostalgia e di amore per Beatrice), attraversa i cieli e arriva fino all’Empireo, il cielo dei beati, e
lì vede Beatrice, onorata dagli angeli e luminosa. Tornato nel cuore, il sospiro racconta ciò che ha
visto, ma è un’esperienza che supera le umane facoltà di comprensione, sicché Dante riesce a capire
soltanto il “che cosa” della visione, non il “come”.
Il tema della poesia influenza la scelta delle parole: spera, intelligenza, luce, splendore, spirito sono
tutti termini che sembrano anticipare la “grande visione” che Dante racconterà nel Paradiso. Ma
mentre lo stile e la sintassi del Paradiso saranno spesso ardui, e il contenuto sarà filosoficamente
denso, qui forma e contenuto hanno la fluidità e la leggerezza di certe poesie stilnoviste: i periodi
non vanno mai oltre il primo grado di subordinazione, gli snodi sintattici sono espressi con
chiarezza: «luce sì, che...» (v. 7), «vedela tal, che...» (v. 9), «però che spesso ricorda» (v. 13), «sì
ch’io lo ’ntendo» (v. 14). Enigmatica è la sostanza del racconto, potremmo dire, non il modo in cui
il racconto è articolato.
ESERCIZI
1. COMPRENSIONE DEL TESTO
1.1 Dopo un’attenta lettura, fai il riassunto del componimento.
1.2 Nel sonetto Dante narra un’esperienza mistica, che coinvolge cioè l’anima, non il suo
corpo; che cosa di lui giunge in Paradiso? E che cosa vede una volta salito fin lassù?
2. ANALISI DEL TESTO
2.1 Analizza il sistema metrico e indica lo schema della rima.
2.2 Identifica le figure retoriche presenti.
2.3 Sono presenti enjambement e pause sintattiche forti? Se sì, qual è la loro funzione?
2.4 Individua le parole che afferiscono ai campi semantici del movimento, della vista e del
dire: in che modo si intersecano tra loro?
3.1 Nell’ultimo capitolo in prosa Beatrice non è più chiamata la “gentilissima”, bensì
“questa benedetta” (r. 6) e poi “quella benedetta Beatrice” (r.10); perché secondo te?
3.2 Nella prosa conclusiva Dante esprime sia un proposito di silenzio, sia il progetto di una
nuova opera: quali sono le sue intenzioni?
IL VOLGARE PERFETTO
DANTE, DE VULGARI ELOQUENTIA, LIBRO I, CAPITOLI XVII-XVII
Dante illustra i motivi per cui il volgare perfetto di cui parla si può definire
1. ILLUSTRE;
2. CARDINALE;
3. REGALE;
4. CURIALE.
Divina Commedia Dante, Canto III (Inferno) – La porta dell’Inferno e gli ignavi
Queste parole di colore oscuro E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna
vid’ïo scritte al sommo d’una porta; che girando correva tanto ratta,
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». 12 che d’ogne posa mi parea indegna; 54
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
che tu vedrai le genti dolorose vidi e conobbi l’ombra di colui
c’hanno perduto il ben de l’intelletto». 18 che fece per viltade il gran rifiuto. 60
E poi che la sua mano a la mia puose Incontanente intesi e certo fui
con lieto volto, ond’io mi confortai, che questa era la setta d’i cattivi,
mi mise dentro a le segrete cose. 21 a Dio spiacenti e a’ nemici sui. 63
Quivi sospiri, pianti e alti guai Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
risonavan per l’aere sanza stelle, erano ignudi e stimolati molto
per ch’io al cominciar ne lagrimai. 24 da mosconi e da vespe ch’eran ivi. 66
E io ch’avea d’error la testa cinta, ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? le fa di trapassar parer sì pronte,
e che gent’è che par nel duol sì vinta?». 33 com’i’ discerno per lo fioco lume». 75
Ed elli a me: «Questo misero modo Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
tegnon l’anime triste di coloro quando noi fermerem li nostri passi
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo. 36 su la trista riviera d’Acheronte». 78
Allor con li occhi vergognosi e bassi, Allora, con gli occhi bassi e pieni di vergogna,
temendo no 15 ’l mio dir li fosse grave, temendo che le mie parole fossero state
infino al fiume del parlar mi trassi. 81 sbagliate, rimasi in silenzio fino al fiume.
Ed ecco verso noi venir per nave Ed ecco giungere verso di noi su una nave
un vecchio 16, bianco per antico pelo, un vecchio, bianco per la vecchiaia,
gridando: «Guai a voi, anime prave! 84 che gridava: «Guai a voi, anime malvagie!
Non isperate mai veder lo cielo: Non sperate di veder mai più il cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva vengo per condurvi all’altra sponda
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 87 nel buio eterno, tra fiamme e ghiacci.
E tu che se’ costì, anima viva, E tu, anima viva, che pure sei qua
pàrtiti da cotesti che son morti». allontanati da questi, che sono già morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 90 Ma, poiché vide che non me ne andavo,
disse: «Per altra via, per altri porti disse: «Per un’altra strada, per altri porti giungerai
verrai a piaggia, non qui, per passare: alla spiaggia [del Purgatorio]; non da qui: è
più lieve legno convien che ti porti 17». 93 meglio che ti porti una nave più rapida».
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: E Virgilio a lui: «Caron, non preoccuparti:
vuolsi così colà dove si puote si vuole così là dove si può realizzare ciò che
ciò che si vuole, e più non dimandare 18». 96 si vuole; non chiedere altro».
Poi si ritrasser tutte quante insieme, Poi, piangendo a gran voce, si ammassarono
forte piangendo, a la riva malvagia tutte quante insieme verso il fiume malvagio
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. 108 che aspetta chi non ha timore di Dio.
Caron dimonio, con occhi di bragia Il demonio Caronte, con gli occhi come brace
loro accennando, tutte le raccoglie; che accennava a loro, le aduna tutte;
batte col remo qualunque s'adagia. 111 e colpisce con un remo chiunque si siede a terra.
Così sen vanno su per l’onda bruna, Così se ne vanno per il fiume cupo,
e avanti che sien di là discese, e prima che siano scese sull’altra riva,
anche di qua nuova schiera s’auna. 120 già di qua si raduna una nuova schiera.
«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese, «Figliolo», disse Virgilio, «coloro che muoiono
«quelli che muoion ne l'ira di Dio in condizione di peccato mortale, tutti
tutti convegnon qui d'ogne paese; 123 convergono quida ogni paese del mondo;
Quinci non passa mai anima buona; Da qui non transita mai un’anima buona e pura
e però, se Caron di te si lagna, e quindi, se Caronte si lamenta della tua
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona». 129 presenza, ora capisci cosa egli vuol dire».
Finito questo, la buia campagna Detto questo, la campagna immersa nel buio
tremò sì forte, che de lo spavento tremò così forte, che il ricordo dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. 132 mi ghiaccia di sudore ancor oggi.
e caddi come l’uom cui sonno piglia. e svenni come l’uomo che crolla nel sonno.
Note
15
temendo no: costruzione alla latina; Dante,all’inzio della sua avventura, è ancora spaesato e teme più volte d’aver
fatto la cosa sbagliata.
16
un vecchio: è Caronte, figura mitologica, figlio di Erebo (le Tenebre) e Notte; era il traghettatore o “psicopompo”
delle anime verso l’Ade, previa sepoltura e il pagamento di un obolo. Nella Commedia, che riprende l’Eneide, Caronte è
anche la prima di una serie di figure della mitologia pagana inserite nell’inferno cristiano, quali Minosse, Cerbero,
Pluto, Flegiàs , le Furie, il Minotauro, le arpie.
17
Constatando che Dante è vivo, Caronte, con un’allusione implicita al “vasello” del secondo canto del Purgatorio, dice
a Dante che egli dovrà seguire un diverso itinerario nel suo viaggio nell’Oltretomba.
18
Si tratta di una formula canonica, che Virgilio usa come “lasciapassare” anche con Minosse e Pluto.
19
Il ritratto di Caronte, modellato in parte su quello virgiliano (Eneide, VI, vv. 298-304) insiste su particolari di forte
espressività: la barba folta e bianca, gli occhi infiammati, le parole sprezzanti nei confronti dei dannati.
20
Similitudine di matrice virgiliana (Eneide, VI, vv. 309-312); tutti questi rimandi intertestuali, costituiscono senza
dubbio un tributo di Dante al maestro Virgilio, che gli fa da amorosa guida in una realtà tragica.
21
La terra lagrimosa diede vento: era credenza diffusa che i terremoti fossero causati da forti venti sotterranei; qui il
prodigio del terremoto serve al poeta per concludere il canto, con lo stratagemma dello svenimento per la paura.
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza
pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine
appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che
sí Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «... la piéta
Del vecchio padre, né ’1 debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto?
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi
me» non è «je me mis», è molto piú forte e piú audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al
di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato
per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e
non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk, dove
lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori
della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giú di morale,
non parla mai di mangiare. «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella
compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento piú se viene prima o dopo. E
anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a
raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
.. Acciò che l’uom piú oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è
la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia
una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la
mente, ho bisogno che tu capisca:
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio.
Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono
Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di piú: forse, nonostante la
traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo
riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che
osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Sí, sí, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di
lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie
montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi
guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di
ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è
silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «... la terra lagrimosa diede vento...» no, è un’altra cosa.
È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda che questo
«come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non
vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato
anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto,
nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui … Siamo
ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri
Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rueben? - Kraut und Rueben -.
Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et nevets. – Kaposzta és
répak.
AGOSTINO Ah folle! Così per sedici anni1 hai alimentato con false lusinghe le fiamme del tuo
animo? […] Infelice, ti compiaci del tuo male! Eppure quando il giorno estremo avrà chiuso quegli
occhi, che ti piacciono fino alla rovina, quando avrai visto mutato dalla morte il suo aspetto e
sbiancate le sue membra, ti vergognerai di aver avvinto il tuo animo immortale a un corpicciolo
caduco, e ricorderai con rossore quelle sue doti che ora vanti così ostinatamente.
FRANCESCO Distolga Iddio il presagio! Io non vedrò questo. […]
AGOSTINO O cieco, non capisci ancora quale follia è il rendere l’animo così schiavo dei beni
mortali, che lo accendono di fiamme di desiderio, e non sanno appagarlo, e non riescono a durare
sino alla fine, e con frequenti agitazioni lo straziano mentre promettono di accarezzarlo?
FRANCESCO Se hai qualche argomentazione più convincente, esponila: non mi atterrirai mai con
codesti discorsi; poiché io non ho rivolto il mio animo a cosa mortale, come tu credi, né tu sai che io
non ho tanto amato il corpo di lei quanto la sua anima […]
AGOSTINO Non può mettersi in dubbio che spesso si amino turpemente anche le cose più belle.
FRANCESCO A questo ho già risposto prima. Infatti, se in me si potesse vedere l’aspetto
dell’amore che in me regna, non parrebbe diverso dal volto di lei, che ho lodato, benché molto,
tuttavia meno del debito. Costei, alla cui presenza parliamo, mi è testimone che nel mio amore nulla
di turpe, nulla di osceno fu mai, nulla infine di colpevole, tranne la sua grandezza. […]
AGOSTINO Credi forse che io ignori che «chi ama si crea da se stesso i propri sogni»?2 Sono versi
notissimi in tutte le scuole. D’altronde, mi rincresce udire tali sciocchezze dalla bocca di persona
cui converrebbe maggior profondità di saggezza e di linguaggio.
FRANCESCO Almeno questo non vorrei tacere, fosse esso da ascrivere a gratitudine o a stoltezza:
io, per quanto piccolo tu mi veda, sono quello che sono grazie a lei; né sarei mai giunto a questo
grado – se qualcosa vale – di rinomanza o di gloria, se costei non avesse coltivato, con nobilissimi
sentimenti, quel minuscolo seme di virtù, che natura aveva posto in questo cuore. Fu lei a
distogliere il mio animo giovanile da ogni turpitudine, a ritrarlo, come dicono, con l’uncino, a farlo
mirare ad alte mete. [...] Quindi non c’è affatto da meravigliarsi se questa fama tanto insigne arrecò
anche a me il desiderio d’una fama più fulgida, e alleviò le mie durissime fatiche sostenute per
conseguire ciò che desideravo. Che altro infatti desideravo da giovane, se non di piacere proprio a
lei sola, che proprio sola a me era piaciuta? E per raggiungere questo scopo, disprezzate le mille
attrattive delle voluttà, tu ben sai a quanti affanni e fatiche mi sottomettessi anzi tempo. E mi
comandi di dimenticare o di amare più tepidamente colei che mi ha allontanato dal volgo, che ha
spronato il mio torpido ingegno, e svegliato il mio animo assopito?
1 per sedici anni: l’incontro con Laura risale al 16 aprile 1327. Il dialogo con Agostino si svolge nel
sedicesimo anno dopo tale data, e dunque nel 1342 circa.
2 chi ama…sogni: Virgilio, BucolicheVIII, 108.
AGOSTINO Infelice, quanto era meglio tacere che parlare! Sebbene anche quando tacevi ti vedessi
in tali condizioni nel tuo spirito, tuttavia codeste affermazioni tanto ostinate suscitano in me nausea
e sdegno.
3 la morte: la dannazione.
FRANCESCO Chiamo a testimonio costei che è qui presente,4 e assieme faccio testimone la mia
coscienza, che io – come ho detto prima – non ho amato di lei più il corpo che l’anima. Potrai
capirlo da ciò: che quanto più essa si è avanzata in età (che è un colpo irreparabile per la bellezza
fisica), io sono rimasto tanto più saldo nella mia opinione. Poiché, sebbene il fiore della sua
giovinezza appassisse visibilmente con il volger del tempo, cresceva con gli anni la bellezza
dell’animo suo, che come mi offrì l’occasione di amarla, così mi diede la perseveranza nel mio
proposito. Altrimenti, se fossi stato attratto solo dal suo corpo, già da un pezzo sarebbe stato tempo
di cambiare proposito.
AGOSTINO Mi vuoi prendere in giro? Se la stessa anima abitasse in un corpo brutto e contorto, ti
sarebbe piaciuta ugualmente?
FRANCESCO Non oserei dir questo: l’anima non si può vedere, né l’aspetto del corpo l’avrebbe
promessa tale; ma se apparisse allo sguardo, amerei senz’altro la bellezza d’un’anima che pure
avesse una brutta dimora.
AGOSTINO Cerchi mezzucci verbali; se puoi amare solo ciò che si presenta alla vista, hai dunque
amato il corpo. […]
FRANCESCO Vedo a che cosa mi obblighi: a confessare con Ovidio: «Ho amato l’anima assieme
al corpo».5
AGOSTINO Bisognerà che tu confessi questo che segue: né l’uno né l’altra tu hai amato abbastanza
moderatamente, né l’uno né l’altra hai amato come conveniva.
FRANCESCO Dovrai mettermi alla tortura, prima che lo confessi.
AGOSTINO E un’altra cosa ancora: per codesto amore sei caduto in grandi infelicità.
FRANCESCO Questo non confesserò neanche se mi torturerai sul cavalletto.
AGOSTINO Anzi spontaneamente confesserai ben presto entrambi i fatti, se non trascurerai le mie
ragioni e le mie domande.
Esercizi
1. Per Agostino Laura è:
...........................................
2. Per Francesco:
...........................................
3. Quale alta funzione Petrarca attribuisce a Laura nella sua vita?
4. Perché Agostino accusa Francesco di mentire?
5. Il poeta dichiara che l’amore per Laura «giovò» a fargli «amare Dio». A quale tradizione
culturale si appoggia?
6. Con quali argomenti Agostino lo contraddice?
7. I due interlocutori mettono in scena un conflitto interno all’animo del poeta. Quale? Ti pare
conciliabile?