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Tre forme metriche fondamentali accompagnano la storia della poesia italiana a partire dal Duecento e poi nell’intero
arco della sua evoluzione: il sonetto, la canzone, la ballata. Tutte e tre sono forme strofiche, vale a dire forme
metriche che presentano i versi raggruppati in “contenitori” detti strofe o stanze e non sciolti. I vari tipi di strofe sono
determinati dal numero e dalla qualità dei versi di cui sono composte nonché dal modo in cui i versi vi risultano
intrecciati.
La canzone
É la forma più illustre della nostra lirica. Come ancora indica il nome, in origine essa era destinata al canto e alla
musica.
La canzone è strutturata in strofe (“coblas” in provenzale, mentre Dante nel “De vulgari eloquentia” le
chiama stanze), normalmente da cinque a sette.
I versi utilizzati sono di due soli tipi, endecasillabi e settenari.
Le strofe o stanze sono tutte uguali tra loro, cioè di uguale numero e disposizione interna di versi e con una
successione costante del medesimo schema di rime.
Ciò significa che, una volta che si è compresa la struttura della prima stanza, si sono comprese tutte le altre: le rime
varieranno, ma resterà costante lo schema di disposizione (alternanza di endecasillabi e settenari, sequenza delle rime
ecc.). Fa eccezione una strofa finale diversa dalle altre perché più breve, non sempre presente, detta congedo o
anche invio (tornada in provenzale).
Quando, dopo l’ultimo verso della fronte, viene intercalato un verso in rima con il primo della sirma si dice
che fronte e sirma sono concatenate: il verso in questione è detto anche chiave.
Da Petrarca in poi questo espediente diventerà una regola.
L’ultima stanza di una canzone è detta congedo: nei lirici provenzali il congedo corrispondeva sempre alla sirma di
stanza, ma i poeti italiani ammettono maggiore libertà (perciò, per esempio, il congedo cambia il precedente schema
delle rime).
A seconda delle rime, le stanze si distinguono fra loro.
La Ballata
La ballata (o canzone a ballo) è una forma di origine popolare, nata, come dice il nome, quale genere accompagnato
da musica e canto. Gli stilnovisti e Petrarca le attribuirono dignità d’arte, imponendole rigorose leggi ritmiche.
La struttura
La ballata è introdotta da una ripresa (o ritornello), intonata dal coro, che veniva replicata dopo ogni stanza.
Alla ripresa seguivano una o più stanze intonate dal solista.
La maggior parte delle ballate antiche consisteva nella ripresa e in una sola stanza.
Poi, però, prevalse una forma più elaborata, in cui ciascuna stanza veniva solitamente suddivisa in due parti:
1. due (al massimo tre) mutazioni di struttura identica, come avviene nei piedi di canzone;
2. a seguire una volta, che riproduce lo schema della ripresa; il verso finale della volta rima con l’ultimo
della ripresa; frequentemente il primo verso della volta rima con l’ultimo verso della seconda mutazione.
I poeti siciliani ignorarono la ballata. I primi a proporla furono Guittone d’Arezzo e Jacopone da Todi, nella poesia
religiosa (ballata sacra o lauda), e Guido Cavalcanti nella lirica d’amore profano. La ballata fu tra i componimenti
prediletti dai poeti del Quattrocento, come Lorenzo il Magnifico e Poliziano. In seguito fu piuttosto trascurata,
soppiantata dal madrigale come genere cantabile. A fine Ottocento, Giovanni Pascoli riprenderà spesso nella propria
raccolta “Myricae” la forma della ballata piccola o minima, con qualche variazione rispetto allo schema canonico.
Il sonetto
È la forma metrica più diffusa nella poesia italiana. Il termine «sonetto» deriva dal provenzale sonet (da “son”,
“‘suono”): esso designa una melodia e, quindi, un testo poetico adatto a essere cantato.
Fu Giacomo da Lentini a derivare il sonetto da una stanza isolata di canzone (in provenzale, cobla esparsa).
L’innovazione piacque e, dopo di lui, il termine «sonetto» prese a indicare quel particolare tipo di componimento
(nato in Italia e caratteristico della nostra lirica) così costruito:
1. una successione di quattordici versi tutti endecasillabi rimati;
Per la sua brevità, adatta a raccogliere in pochi versi un pensiero o uno stato d’animo, e per la struttura semplice e
insieme aperta a molte possibili variazioni, il sonetto ebbe lunga vita.
Grazie soprattutto agli stilnovisti e a Petrarca, fu il vero dominatore della lirica d’amore, travasandosi dalla
letteratura italiana alle principali letterature europee: scrissero sonetti, per esempio, i francesi Ronsard e Baudelaire,
gli inglesi Shakespeare e Wordsworth, il tedesco Goethe, lo spagnolo Góngora.
Tuttavia, nel corso dell’Ottocento il sonetto decadde: Foscolo fu l’ultimo a utilizzarlo come genere lirico prediletto,
mentre Manzoni e Leopardi preferirono altre forme liriche. Tornata in auge con Carducci e D’Annunzio, la forma del
sonetto venne rinnovata nel Novecento da poeti come Saba, Caproni e Zanzotto.