Sei sulla pagina 1di 5

Guido Cavalcanti

VITA
Guido Cavalcanti nasce a Firenze probabilmente intorno al 1259, discendente di una potente e nobile casata fiorentina.
Durante la sua vita coltiva con passione gli studi letterari e prende parte attiva alle lotte politiche che all’epoca agitano
il suo comune, parteggiando, come Dante di cui è amico, per il partito dei guelfi bianchi. Nel tentativo di pacificare le
parti avverse di Guelfi e Ghibellini sposa Bice degli Uberti, figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione
ghibellina, dalla quale avrà i figli Tancia e Andrea.
Esiliato da Firenze nel 1300 si trasferisce a Sarzana. In quello stesso anno, gravemente malato, gli viene revocata la
condanna al confino ed egli rientra a Firenze dove muore nell’agosto del 1300.
Testimonianze autorevoli, tra cui lo stesso Dante, lo descrivono come un uomo inquieto ed impetuoso, incline alla
speculazione e alla riflessione. In vita viene riconosciuta la sua qualità poetica tanto che già Dante, nella Vita Nuova,
lo annovera tra coloro “li quali erano famosi trovatori in quello tempo”.

POETICA
Guido Cavalcanti, studioso, filosofo e poeta, è anche l’animatore riconosciuto (e per certi aspetti il fondatore) del
gruppo di poeti il cui movimento sarà poi riconosciuto come Stilnovo e che si pone sull’onda di sviluppo della lirica
d’amore che va dalla poesia provenzale alla scuola siciliana. Il tema fondamentale della poesia è infatti una
concezione d’amore che rielabora quella di Guinizzelli (si pensi a testi quali Al cor gentil rempaira sempre amore o Io
voglio del ver la mia donna laudare) in direzione più intellettuale e drammatica, con significativi punti di contatto con
le inclinazioni filosofiche dell’autore.

I suoi componimenti sono una cinquantina, tra sonetti, canzoni e ballate.


Cavalcanti è un esponente di spicco del movimento del dolce stil novo, ma pur utilizzando il registro stilnovista egli fa
un ribaltamento rispetto alle posizioni di Guinizzelli. L’amore, tema centrale, non è l’amore che ingentilisce ed eleva
colui che ama ma è una passione irrazionale e sconvolgente che provoca dolore e lacrime e che porta alla morte. Si
tratta, ovviamente, di una morte simbolica: l’uomo vittima del’insensibilità della donna non riesce più a vivere e si
riduce ad un automa.

Nel Canzoniere di Cavalcanti si nota, rispetto a Guinizzelli ed allo stesso Dante, l'assenza della concezione religiosa;
Guido Cavalcanti è infatti ateo. La donna, non è più angelicata, non è strumento di elevazione ed il tramite verso Dio e
l’amore ma è una donna crudele e fiera che provoca sofferenza e sbigottimento.

Nella poesia di Cavalcanti prevale l’intonazione tragica. Il lessico è piuttosto ridotto, gli stessi vocaboli vengono
riproposti insistentemente variandone, con raffinata sapienza, le combinazioni e gli abbinamenti.

Nonostante le tematiche "cruenti" lo stile di Cavalcanti rientra nelle caratteristiche del dolce stil novo, con versi
melodici, linguaggio non troppo ricercato come nella poesia alta di Guittone, che era all’opposto dello stilnovismo.

Voi che per li occhi mi passaste ‘l core


Voi che per li occhi mi passaste ’l core 
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,


che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto


da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto,


che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.

Voi che per gli occhi mi passaste il core è un sonetto scritto da Guido Cavalcanti,nella seconda metà del XIII secolo, nella
fase di produzione giovanile del poeta tra il 1260 e il 1280. La poesia fu poi inserita nelle Rime del poeta toscano,
pubblicate però in unico volume solo nel 1813.
In questo sonetto Cavalcanti esprime gli effetti dolorosi e devastanti che l'amore produce in lui alla presenza della donna,
riprendendo un tema ampiamente presente nella tradizione precedente in Guido Guinizelli, di cui mutua soprattutto gli
elementi dell'Amore che colpisce il cuore con una freccia e degli occhi attraverso cui si fa strada il sentimento.

PARAFRASI DISCORSIVA
Voi che mi trapassaste il cuore attraverso gli occhi e risvegliaste l’anima che dormiva, prestate attenzione alla mia vita
angosciosa che Amore distrugge tormentandola di sospiri.
Egli [Amore] viene avanti facendo a pezzi [la mia vita] con così grande forza che i miei fragili spiriti vitali fuggono via:
rimane in [mio] potere solo l’aspetto esteriore e quel poco di voce, che esprime dolore.
Questa forza di Amore che mi ha distrutto è giunta veloce dai vostri nobili occhi: una freccia mi lanciò nel fianco: il colpo
arrivò così dritto al primo tiro che l’anima si ridestò tremante vedendo il cuore ucciso sul lato sinistro. 

TEMA CENTRALE
Prima quartina:
Descrive il ritmo dell'innamoramento attraverso, l'immagine, il ricordo dell'amata. La quartina descrive cosa questo
"phantasma" (immagine della donna) evoca nel cuore dell'autore.
Seconda quartina:
Ciò che accade nel cuore dell'autore è simile ad una battaglia, i suoi "spiritelli" sono personificati come i difensori del cuore,
che l'amore riesce a mettere in fuga. Dalla battaglia chi esce trionfante è dunque proprio questo, mentre l’uomo ne rimane
completamente distrutto.
Le due terzine:
Descrive le stesse azioni delle quartine. Ma si descrive come l’Amore colpisca l’amante con una freccia, scuotendo la sua
anima. L’azione descritta si conclude con la “morte” del cuore, sconvolto dalla passione amorosa.
Morte come metafora
Il sonetto si conclude con la morte del cuore, la morte è metafora di cosa provoca in lui l'amore.

Alcuni degli elementi richiamati nel componimento sono tradizionali nella rappresentazione della passione amorosa (ad
esempio, la metafora dell’arco e delle frecce, la raffigurazione del sentimento che entra nel corpo attraverso gli occhi e lo
sguardo) e costituiscono dunque topoi della trattatistica amorosa; tuttavia essi, del tutto aderenti al canone stilnovistico, si
colorano di toni originali e personalissimi: nuovo è il rigore scientifico con cui la fenomenologia dell’innamoramento viene
descritta nella precisione di termini tecnici. Ciò è evidente nella scelta di sostantivi appartenenti al linguaggio filosofico
aristotelico-averroistico, come nel caso di “spiriti”, termine che indica i corpi vitali che secondo l’averroismo
trasporterebbero il sangue caldo del cuore in tutto il corpo; bloccati questi, non può che seguirne la riduzione dell’amante ad
essere inanimato.
L’intero sonetto appare così come un’azione teatrale in cui entrano in scena i moti interiori conseguenti all’innamoramento,
senza che però subentri mai un vero svolgimento, dal momento che le terzine non fanno che ripetere ciò che era già stato
espresso nella quartine, in una reiterazione angosciosa di una condizione immutabile: l’inevitabile conclusione è la tragica
morte (metaforica) del cuore, attraverso la quale il sonetto vuole insegnare che la passione amorosa costringe l’uomo a
rimanere avvinghiato ai suoi sensi e gli impedisce di elevarsi alla conoscenza intellettuale, che, secondo Aristotele,
costituisce lo scopo della vita umana. Tale motivo è ripreso e ampiamente sviluppato da Cavalcanti in Chi è questa che vèn,
ch’ogn’om la mira.

METRO
il sonetto con schema della rima regolare (ABBA, ABBA, CDE, CDE), senza la presenza di rime siciliane. La lingua è il
toscano della tradizione letteraria e lo stile ricerca le musicalità dolci proprie della scuola, senza l'uso di rime o parole
ricercate, né di suoni particolarmente duri o aspri.

FIGURE RETORICHE
Per quanto riguarda le figure retoriche, è facile notare come, a partire dal v. 4, quella della personificazione (di Amore)
percorra praticamente tutto il sonetto il quale illustra una metaforicabattaglia (ciò che si verifica nel cuore del poeta).
Al v. 1 è presente la figura dell’apostrofe (Voi che per li occhi mi passaste ‘l core).
Sono presenti alcune anastrofi (v. 3, l’angosciosa vita mia; v. 4, sospirando la distrugge amore; v. 6 6, deboletti spiriti;
9, presta si mosse).
Sono presenti numerose allitterazioni; della c (v. 1); di s, t, a, e (vv. 1-2), della a (v. 3), della t (v. 12).
"Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira"
Chi è questa donna che sta venendo, che tutti ammirano,
che fa tremare l’aria di splendore 
e porta con sé Amore, a tal punto che, vedendola, 
nessun uomo può parlare, ma ognuno sospira?
O Dio, come sembra quando muove lo sguardo,
lo dica l’Amore, perché io non sarei in grado di farne la descrizione:
mi sembra una donna di tanta umiltà e bontà,
che ogni altra al suo confronto la reputo malvagia.
Non si potrebbe descrivere la sua bellezza,
poiché di fronte a lei si inchina ogni nobile virtù
e la bellezza la indica come sua dea.
La nostra mente non fu mai così profonda
e in noi non abbiamo mai avuto le capacità
per arrivare ad averne un’adeguata conoscenza.

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira è un sonetto scritto da Guido Cavalcanti nella seconda metà del XIII secolo. Tra i
più celebri di Cavalcanti, in cui la lode della bellezza della donna amata si accompagna alla dichiarazione di impotenza da
parte del poeta nel descriverla appieno, data la natura angelica e trascendente della figura femminile e la sproporzione
rispetto alle limitate capacità umane dello scrittore. La bellezza della donna-angelo è tale che ogni uomo al solo guardarla
rimane ammutolito, mentre la sua virtù più importante è l'umiltà, che la rende paradossalmente superiore a tutte le altre
donne.

PARAFRASI DISCORSIVA
Chi è questa donna che avanza in modo tale che ogni uomo la guarda con ammirazione e che fa tremare l’aria con la sua
luminosità e conduce con sé l’amore (fa innamorare inevitabilmente tutti coloro che la contemplano), tanto che nessun
uomo è in grado di parlare, ma tutti sospirano?
O Dio, lo dica Amore che cosa sembra questa donna quando gira gli occhi, perché io non riuscirei a raccontarlo: mi sembra
una donna a tal punto incline all’umiltà, che ogni altra rispetto a lei la considero sdegnosa.
Non si potrebbe descrivere la sua bellezza, che è tale che di fronte a lei si inchina ogni nobile virtù e la bellezza la indica
come sua dea.
Le nostre capacità mentali non furono mai così elevate e in noi non fu mai posta tanta grazia divina da riuscire ad averne
adeguatamente conoscenza.

Nella prima quartina abbiamo l’apparizione della donna ed il tema della sua bellezza che è talmente grande che fa
splendere l’aria e genera stupore fra tutti coloro che sono presenti.
Nella seconda quartina il poeta vorrebbe descrivere la bellezza della donna amata, ma si sente incapace e per questo
chiede a Amore di farlo per lui. Si sofferma a richiamare la sua benevolenza e la sua bellezza a confronto delle le altre
donne che sono considerate malvagie; pertanto essa è superiore a tutte.
La descrizione della bellezza è accentuata nella prima terzina a tal punto che essa è assimilata alla dea della bellezza e
tutte le nobili virtù si chinano, riverenti, di fronte a lei.
Nella seconda terzina abbiamo il tema dell’impossibilità di arrivare a conoscere ed a cogliere pienamente la bellezza
sovrumana della donna, troppo profonda per essere capita e descritta a parole

STRUTTURA
Il sonetto segue lo schema ritmico regolare: ABBA, ABBA, CDE, EDC. Il poeta adopera alcune parole prese in prestito dal
latino come “seco” “âre”. Al quarto verso della prima quartina è presente un “enjambement”. Le due terzine iniziano
entrambe con una frase negativa e la lingua presenta alcuni latinismi ("âre", v. 2; "seco", v. 3) e provenzalismi ("piagenza",
v. 9; "canoscenza", v. 14), con uno stile alquanto semplice e conforme al trobar leu proprio dello Stilnovo.

TEMA
Il tema del sonetto è la celebrazione della bellezza della donna amata, che per il suo aspetto è superiore a tutte le altre e di
fronte a lei tutti gli uomini restano senza parole, dimostrandosi inadeguati per descriverla e capirne l’origine divina. La sua
contemplazione non è serena, ma provoca un forte turbamento di tutti i sensi, perché rappresenta un’esperienza eccezionale.
Le qualità positive della donna su cui insiste il poeta sono: chiaritate, piagenza, beltate, vertute, benevolenza (umiltà) e
bontà. Fin dall’inizio, si nota che della donna si può parlare soltanto in negativo: l’afasia dell’amante è quasi totale, al poeta
restano solo sospiri e tremore . Dunque l’amore, se da un lato eleva l’amante e lo nobilita, dall’altro rappresenta, tuttavia,
per lui anche un’esperienza tragica, una sconfitta, perché l’uomo non è in grado di esprimerlo con i mezzi del suo intelletto.
Guinizzelli celebra la bellezza della donna nel sonetto “Io voglio del ver la mia donna laudare” che utilizza la tecnica
dell’analogia nei versi in cui la donna è paragonata agli elementi naturali più preziosi come i fiori, i prati, le stelle, le pietre
preziose e tutto ciò richiama il paesaggio primaverile. Già la prima interrogazione retorica, indica lo stupore commosso alla
vista dell’amata ed è lasciata senza risposta per dimostrare l’inconoscibilità della donna, che è un essere sovrumano e
irraggiungibile dall’uomo.

«In un boschetto trova' pasturella»


L'autore si allontana in questo testo dai moduli consueti della lirica amorosa elevata e dallo Stilnovo per cimentarsi nel
genere provenzale della "pastorella", ovvero l'incontro tra un cavaliere e una popolana che si conclude con un'avventura
erotica nella cornice di un bosco (il "locus amoenus" della tradizione). Si tratta di una ballata di stile comico che rappresenta
una sorta di divertimento letterario, in cui l'autore abbandona lo stile melanconico e dolente delle rime "tragiche" per
descrivere un amore spensierato, privo di particolari implicazioni sociali proprio perché estraneo agli schemi dell'amore
cortese.

In un boschetto trova’ pasturella Po’ che mi disse di sua condizione


più che la stella – bella, al mi’ parere. e per lo bosco augelli audìo cantare,
fra me stesso diss’ i’: «Or è stagione
Cavelli avea biondetti e ricciutelli, di questa pasturella gio’ pigliare».
e gli occhi pien’ d’amor, cera rosata; Merzé le chiesi sol che di basciare
con sua verghetta pasturav’ agnelli; ed abracciar, – se le fosse ’n volere.
[di]scalza, di rugiada era bagnata;
cantava come fosse ’namorata: Per man mi prese, d’amorosa voglia,
er’ adornata – di tutto piacere. e disse che donato m’avea ’l core;
menòmmi sott’ una freschetta foglia,
D’amor la saluta’ imantenente là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore;
e domandai s’avesse compagnia; e tanto vi sentìo gioia e dolzore,
ed ella mi rispose dolzemente che ’l die d’amore – mi parea vedere.
che sola sola per lo bosco gia,
e disse: «Sacci, quando l’augel pia,
allor disïa – ’l me’ cor drudo avere».

Schema Metrico
Ballata minore formata da quattro strofe di sei endecasillabi con ripresa di due versi; le strofe sono a rima ABAB con una
sirma a rima interna B(b)X; lo schema della ripresa è A(a)X.

Livello lessicale, sintattico, stilistico


La poesia ha un tono gioioso e spensierato, che viene sottolineato da un andamento sintattico quasi elementare: lo stile
paratattico domina; le rime sono soprattutto facili, cioè formate da parole che terminano con la stessa desinenza
grammaticale («bagnata» : «innamorata», «gia» : «pia», «cantare» : «pigliare» : «basciare»); i diminutivi sono frequenti,
come costante è la presenza della congiunzione «e». Non assistiamo alla consueta teatralizzazione dei moti dell’animo: la
vicenda descritta è puramente oggettiva e il testo (fatto, questo, rarissimo in Cavalcanti) ha carattere narrativo. Sono infatti
evidenziabili due nuclei: a) vv.1-8: il poeta narra del suo incontro con una pastorella che, mentre conduce al pascolo i suoi
agnelli, canta come una innamorata; b) vv. 9-26: viene raccontato il colloquio confidenziale con la pastorella, l’approccio e
quindi il felice esito della vicenda amorosa.

Livello tematico
Questa ballata, che come si è detto rappresenta un esempio dell’aspetto gioioso e meno tragico della poesia di Cavalcanti,
non deve essere certo letta in chiave autobiografica e moderna; il testo sottolinea invece la volontà di Cavalcanti di
sperimentare vari e diversi registri. Il genere ci riporta alla pastorella, un componimento molto diffuso presso i poeti
provenzali, che mette solitamente in scena, su uno sfondo naturale, incontri e schermaglie amorose fra un nobile ed una
popolana che inevitabilmente, ma consapevolmente e volontariamente, cade nelle grinfie del signore. La concezione
dell’amore è fortemente sensuale e materiale.
La scena descritta è quella di un rituale di corteggiamento assai facile e lontano dalla complessità della poesia stilnovista e
cortese, con il cavaliere che domanda alla pastorella se è accompagnata e lei che gli risponde che va "sola sola" per il bosco,
con ammissione implicita di un consenso all'avventura erotica; la giovane aggiunge che quando gli uccelli cantano nel
bosco il suo cuore desidera avere un amante ("drudo", termine che nella lirica provenzale alludeva all'amore sensuale),
invitando di fatto il cavaliere a unirsi a lei visto che il canto degli uccelli nella foresta è continuo. Lui le chiederà di baciarla
e abbracciarla (altri termini attinenti alla fin'amor dei trovatori occitanici) e lei lo condurrà per mano nel luogo della loro
unione, al fresco della radura. L'allusione finale al "die d'amore" (dio Amore) che al poeta sembra di vedere è un velato
accenno al piacere sessuale provato insieme alla ragazza, oltre che un riferimento alla poesia colta.
Il componimento appare lontano dalla sofisticata e sublime visione stilnovistica dell’amore inteso come raffinata esperienza
interiore: ma, in modo del tutto originale rispetto alla tradizione, il tema dell’amore sensuale viene trattato con un tono
delicato, quasi stilnovistico. Il poeta si avvale di stereotipi ormai convenzionali nelle lingue d’oc e d’oil, come il topos del
locus amoenus, per sublimare l’incontro sessuale. Cavalcanti riesce a scrivere in un’esperienza da sogno; afferma così, in
modo indiretto ma chiaro, che il raggiungimento del nudo piacere fisico non poteva essere realizzato con una donna gentile.

...differenza fra la pastorella e la donna angelo...


La pastorella, è comunque discinta, vestita di sola rugiada, ma spensierata perché canta d’amore; e sarà tale fino a Poliziano.
La donna angelo invece non parla, gela solo con il suo sguardo, immobilizza il suo amante. Il saluto della pastorella non
beatifica, non eleva l’uomo; al contrario, è semplicemente un’esplicita richiesta d’amore. La pastorella che la tradizione
poetica ci consegna non è poi donna da mezze misure: è decisa nel suo ruolo, o si concede esplicitamente oppure trasforma
il suo canto in un urlo per chiamare soccorso. In Cavalcanti tutto questo però non avviene realmente: la ballata è infatti
pervasa dal senso di malinconia tipico dei componimenti del Guido fiorentino e rintracciabile nelle parole-chiave
«boschetto», «pastorella» (i consueti diminutivi affettuosi); il lessico inoltre ci indica che in quest’opera il poeta sta
narrando un sogno, qualcosa da cui in realtà è completamente distaccato.

Potrebbero piacerti anche