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ENRICO FENZI
I. Nella prima parte della Vita nova Dante arriva per gradi a denunciare
la sua condizione di amante infelice, vittima del feroce gabbo della donna
e ormai vicino a morire. Questa progressione culmina nei tre sonetti nei
quali particolarmente forti sono i toni cupi e dolorosi di matrice caval-
cantiana: Con l’altre donne mia vista gabbate; Ciò che m’incontra nella
mente more; Spesse fïate vegnonmi a la mente.1 A questo punto segue il
colpo di scena di una svolta radicale, quasi una rinascita poetica.2 Di colpo
siamo trasportati in una dimensione affatto nuova, e Dante segna in ma-
niera netta il momento dello stacco:
Poi che dissi questi tre sonetti ne li quali parlai a questa donna però
che furono narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere
e non dire più però che mi parea di me aver assai manifestato, ave-
gna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare
matera nuova e più nobile che la passata […] (Vita nova 10, 1).
Il poeta non parlerà più di sé e dei suoi tormenti, ma di lei piuttosto, po-
nendo tutta la sua beatitudine in «quelle parole che lodano la donna mia»,
e cioè risolvendo e sublimando la propria tensione amorosa in un atto di
pura dedizione che trova in sé, nelle parole che la dicono, la propria ri-
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II. Ciò che colpisce, appena si esca dalla Vita nova, è l’esplicita dialet-
tica interna alle rime, giocata sulle figure del rapporto amoroso. Nelle
rime allegoriche che Dante stesso ci dice essere state composte circa tre
anni dopo la morte di Beatrice (8 giugno 1290), e quindi non molto dopo
la fine del libello12 (cioè le due canzoni che saranno poi commentate nel
Convivio, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, e Amor che nella mente
mi ragiona, alle quali vanno aggiunte la ballata Voi che savete ragionar
d’amore e i sonetti Parole mie che per lo mondo siete e O dolci rime che
parlando andate, che fanno loro da scorta) si prolungano e s’esaltano i
modi e il linguaggio delle ‘rime della lode’, attraverso il quale Dante ar-
ticola il passaggio dalla fase appena conclusa dell’amore per Beatrice alla
fase nuova dell’amore per la donna-Filosofia.13 In queste rime Dante pro-
lunga l’esperienza della Vita nova quanto basta per aprirsi a una stagione
diversa senza lacerazioni e soluzioni di continuità, ma anzi nel nome di
una ribadita fedeltà all’orizzonte ultimo del proprio operare, pur sempre
riassumibile nel nome di Amore. In tal senso, celebrare l’amore intellet-
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
In Al poco giorno la «giovane donna» (v. 38) porta in capo una «ghirlanda
d’erba» e indossa un abito «verde», tipici segnali, appunto, della giovi-
nezza di lei ch’è ancora «legno molle e verde» per poter essere infiam-
mata da amore, mentre in Amor tu vedi ben la donna ancora «non cura»
la forza d’amore, e il poeta trova la sua unica ragione di vita nell’aspettare
il tempo nel quale ciò finalmente avvenga: «né per altro disio viver gran
tempo» (v. 48).
Ora, il legame c’è, molto forte e ulteriormente documentabile, ma ri-
durlo nell’imbuto di una questione di identità e, peggio, pretendere di ri-
cavarne almeno l’eco di improbabili vicende biografiche, è sviante, anche
se comprensibile in un vecchio dantismo che per altro ha avuto grandis-
simi e forse ineguagliati meriti. Tanto sviante che, per tagliar corto nell’in-
trico delle supposizioni intorno alla storia amorosa di Dante, Contini ha
sentenziato che nel tornare del termine ‘pargoletta’ sarà «da scorgere una
semplice preferenza lessicale».19 Ma no, non è così. Per quanto il fastidio
di Contini sia giustificato, e le ricostruzioni in chiave biografica siano via
via tutte cadute, il loro puro e semplice rifiuto non migliora le cose. Quel
che conta, credo, sta da un’altra parte.
La ‘pargoletta’ è una creatura poetica in tutto e per tutto irraggiungibile
e refrattaria, un puro e muto oggetto dinanzi al quale il desiderio da cui è
inutilmente investita non può che rimbalzare, per dir così, e ricadere sul
poeta medesimo, notificandogli nella maniera più cruda possibile che il
sentimento che lo tortura è una faccenda che riguarda solo lui e nessun
altro, e la ‘pargoletta’ meno di tutti. Dante rovescia così la situazione vi-
tanovistica, tutta centrata sulla donna-Beatrice e sulla sua sublimità. Ora,
attraverso questa sua ‘pargoletta’, egli in qualche modo allontana – o
mette tra parentesi, se si preferisce – la creatura amata e per contro arriva
a isolare la natura puramente desiderante del fenomeno amoroso, che di-
venta del tutto percepibile proprio e solo nel caso dell’amore non-corri-
sposto: e non-corrisposto non per scelta consapevole e, in quanto tale,
eventualmente modificabile, ma ‘ontologicamente’, direi, nel senso che
la corresponsione non tocca se non accidentalmente la sua essenziale de-
finizione che sta tutta entro l’àmbito delle passioni che nascono e muo-
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iono nell’intimo del soggetto che le prova, «ut sunt ira, tristitia, timor, au-
dacia, amor et similia», come va ripetendo Dino del Garbo per tutto il suo
commento a Donna me prega.20 Il poeta, privo della possibilità di dare
veste lirica a una qualche vicenda o rapporto d’amore, triste o lieto non
importa, affronta perciò il problema della natura d’amore come il chimico
che fosse finalmente riuscito a isolare l’elemento che gli interessa ed a
metterlo sotto il microscopio. L’amore, insomma, non è l’oggetto
d’amore; non è il ‘servizio d’amore’ nella sua alterna vicenda di suppliche,
blandimenti, proteste di fedeltà; non è il topico repertorio delle speranze,
dei timori, dei tremori; non è il variare degli stati d’animo e delle più o
meno ambigue ripulse e ammiccamenti della donna … Cos’è, allora, la
forza che l’investe e lo travaglia sino a minacciarlo di morte? Qual è la na-
tura di questa forza che egli scopre non appartenere per nulla all’oggetto
che sembra generarla (la ‘pargoletta’ bellamente la ignora, infatti), ma
che paradossalmente, dolorosamente, quasi una speciale forma di maso-
chismo, è tutta e solo di chi la subisce ingegnandosi al suo male e for-
mando da sé la propria pena?21
Osserviamo brevemente due cose. La prima: senza entrare nel merito
di un eventuale capitolo della biografia amorosa di Dante, e trascurando
la questione se la ‘pargoletta’ delle ballate sia o no la stessa dell’ultimo
verso di Io son venuto e quella, infine, del Purgatorio, è almeno chiaro che
la grande invenzione delle ‘petrose’ riposa sulla coerente estremizzazione
dell’immagine primaria della ‘pargoletta’ quale oggetto muto, insensibile,
refrattario, non più reattivo d’una pietra o d’un qualsiasi altro minerale nei
confronti della forza d’amore. La seconda, ch’è quella che qui importa:
potrebbe sembrare che Dante sia in qualche modo retrocesso rispetto alla
spiritualizzata concezione dell’amore come atto di dedizione e lode messa
a fuoco nella Vita nova, dando corpo in queste più tarde liriche a una fe-
nomenologia del desiderio di stampo indubbiamente cavalcantiano. Ma la
verità è che egli prende tutt’altra via rispetto alla rarefatta eleganza men-
tale del suo de-erotizzato stilnovismo che, occorre ricordarlo, aveva finito
per metterlo in un vicolo cieco, come a gran voce dichiara Voi che ‘nten-
dendo il terzo ciel movete, la canzone tutta giocata sulla necessità di sbloc-
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
III. Non è possibile dire qualcosa di preciso circa l’ordine interno se-
condo il quale disporre le rime che per comodità diremo della ‘pargoletta’
(ivi comprese le ‘petrose’, che escono però dalla nostra prospettiva): si
può tutt’al più dire che quello stabilito a suo tempo da Barbi appare ragio-
nevole, anche se la consecuzione Amor che movi tua vertù da cielo / Io
sento sì d’amor la gran possanza, che pure in alcuni passaggi direi in-
dubbia, non è così stringente come pure è sembrato.24 Che le ballate e il
sonetto precedano la canzone parrebbe invece più certo: quanto meno,
anche se la cosa è indimostrabile, la precedono logicamente, così come un
fatto suole precedere la sua spiegazione e teorizzazione. Mettiamo pure
tra parentesi la prima ballata, I’ mi son pargoletta, per i motivi sopra ac-
cennati: è però vero che nei suoi versi finali Dante si rappresenta dispe-
rato, a rischio della vita per l’amore concepìto per la bella giovinetta, e che
proprio questo motivo è ripreso nella ballata Perché ti vedi giovinetta e
bella, ove però il discorso si sposta su di lei accusata di orgoglio e du-
rezza, e addirittura di voler uccidere il poeta quasi per una sorta di crudele
esperimento (vv. 6-7: «credo che ‘l facci per esser sicura / se· lla vertù
d’Amore a morte move»), mentre l’esclamazione/augurio finale: «Possa
tu spermentar lo suo [di Amore] valore!» tocca il motivo che ritroviamo
sviluppato nelle due stanze finali di Amor che movi. Ma questa canzone
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vista che «dentro al core / nasce un disio della cosa piacente», il quale
disio, quando per avventura si mantenga vivo per un periodo abbastanza
lungo, finisce per «svegliar lo spirito d’Amore», cioè fa sì che quella na-
turale disposizione ad amare che caratterizza l’essenza del cor gentile
passi finalmente dalla potenza all’atto.
Come si vede, alcuni elementi – alcune tappe – della fisiologia d’amore
sono ripresi in Amor che movi, ma sono ora inseriti in un quadro diverso,
sostanzialmente nuovo. Se infatti nel sonetto, come in altri testi affini, è
la donna con la sua bellezza a svegliare l’amore che se ne dormiva in po-
tenza nel cuore dell’uomo gentile, ora è vero semmai il contrario. Ora,
l’amore è una forza che discende direttamente dal cielo, e nel cor gentile
è presente ed agisce sia spingendolo incessantemente a ogni ben fare, sia
guidandolo alla ricerca della bellezza, che si rivelerà come tale proprio
perché apparirà come la somma di ciò che nel cuore già vive come ten-
sione, come ricerca. Ma torniamo a leggere le prime due stanze della
canzone,28 ricchissime di implicazioni, accompagnandole da un tentativo
di parafrasi:
Amor che movi tua vertù dal cielo
come ‘l sol lo splendore,
che là s’apprende più lo suo valore
dove più nobiltà suo raggio trova,
e com’el fuga oscuritate e gelo,
così, alto signore,
tu cacci la viltà altrui del core
né ira contra te fa lunga prova;
da te convien che ciascun ben si mova
per lo qual si travaglia il mondo tutto,
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenza di ben fare:
come pintura in tenebrosa parte,
che non si può mostrare
né dar diletto di color né d’arte.
Fèremi ne lo cor sempre tua luce
come raggio in la stella,
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[Amore che ricavi la tua virtù dal cielo così come il sole ne riceve
la luce e tanto più imprime il suo valore nelle cose, cacciando oscu-
rità e gelo, quanto più il suo raggio trova che siano nobili: così tu,
nobile signore, cacci la viltà dal cuore dell’uomo, e l’ira contro te
non combatte a lungo. Ogni bene per il quale il mondo intero s’af-
fatica deriva necessariamente da te; senza te è distrutto tutto il bene
che avremmo in potenza di fare, così come un’immagine dipinta
non può essere vista al buio, e non può dunque procurare il piacere
dei suoi colori e della maestria con la quale è fatta.
La tua luce, così come fa il raggio del sole con le stelle, mi colpisce
al cuore sin dal primo momento in cui l’anima mia fu sottomessa
al tuo potere, e da ciò nasce un desiderio che con la dolcezza del
suo linguaggio mi porta a guardare ogni cosa bella, e con tanto più
piacere quanto più è bella. Proprio per questo mio guardare mi è
entrata nella mente una giovane, che mi ha catturato, e vi ha acceso
un fuoco quale quello appiccato da una lente in virtù della sua tra-
sparenza, perché nell’atto di venire a me essa concentrò nei suoi
occhi i tuoi raggi, Amore, alla luce dei quali splende di bellezza di-
nanzi a me].
Questi versi davvero fondano una nuova concezione d’amore che s’im-
pone su due piani diversi. Da una parte, attraverso l’evidente riscrittura
della guinizzelliana Al cor gentil e l’inveramento delle sue similitudini, ol-
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
dina e regge cielo, mare e terra, ma al quale si sottrae il mondo degli uo-
mini, onde l’esclamazione finale, vv. 28-30: «O felix hominum genus, /
si vestros animos amor, / quo caelum regitur, regat!».37
Ma soprattutto si deve dire – e la cosa è piuttosto impressionante – che
Dante muove proprio qui il primo passo lungo la via che porterà al dicorso
d’amore nella Commedia, sia nei canti centrali del Purgatorio che nel
primo del Paradiso:
Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’hanno intelletto e amore.
(Paradiso I, 103-120)
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Ma anche molti altri passi del trattato, ai quali puntualmente già ri-
manda il commento Barbi-Pernicone,39 intrattengono intimi legami con
Amor che movi mostrando di svilupparne le novità, e di appoggiarsi allo
stesso ventaglio di testi dei quali Dante si è verosimilmente servito per
mettere a fuoco la sua nuova dottrina d’amore. Quali siano è stato indi-
cato: Agostino, Boezio, lo Pseudo-Dionigi, il Liber de causis, Alberto
Magno,40 e in genere lo si è fatto ponendo giustamente l’accento sui forti
colori neoplatonici che questa idea d’amore come «palpito dell’universo
intero» porta con sé.41 In Amor che movi c’è tuttavia qualcosa di partico-
lare che esorbita dal motivo larghissimamente attestato della naturale ten-
denza di ogni cosa verso la propria conservazione e dunque verso il bene
che le è proprio, motivo del quale il passo del Convivio e i versi del Pa-
radiso sono splendide applicazioni, così com’è splendida la veste che gli
ha dato Agostino, per esempio in questo passo:
Si enim pecora essemus, carnalem vitam et quod secundum sen-
sum eius est amaremus idque esset sufficiens bonum nostrum et se-
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
cundum hoc, cum esset nobis bene, nihil aliud quaereremus. Item
si arbores essemus, nihil quidem sentiente motu amare possemus,
verumtamen id quasi appetere videremur, quo feracius essemus
uberiusque fructuosae. Si essemus lapides aut fluctus aut ventus
aut flamma vel quid huiusmodi, sine ullo quidem sensu atque vita,
non tamen nobis deesset quasi quidam nostrorum locorum atque
ordinis appetitus. Nam velut amores corporum momenta sunt pon-
derum, sive deorsum gravitate sive sursum levitate nitantur. Ita
enim corpus pondere, sicut animus amore fertur, quocumque fertur
(De civ. Dei, XI 28).42
Nella canzone, infatti, non si parla dell’amore quale pondus (per usare
il termine agostiniano) che costringe ogni cosa verso il suo specifico cen-
tro di gravità, per quanto questo tema sia implicito, né si parla di inclina-
zione o appetito naturale, come finiva per puntualizzare Tommaso:
Est autem hoc commune omni naturae ut habeat aliquam inclina-
tionem, quae est appetitus naturalis vel amor; quae tamen inclinatio
diversimode invenitur in diversis naturis, in unaquaque secundum
modum eius. Unde in natura intellectuali invenitur inclinatio natu-
ralis secundum voluntatem; in natura autem sensistiva, secundum
appetitum sensitivum; in natura vero carente cognitione, secundum
solum ordinem naturae in aliquid.43
Non si dica ch’è troppo. Fermiamoci sulla prima stanza: Amore im-
prime il suo valore nelle cose quanto più sono nobili, cioè, come sap-
piamo, naturalmente disposte ad accoglierne le virtù; scaccia la viltà e
sconfigge l’ira, sì che «da te convien che ciascun ben si mova / per lo
qual si travaglia il mondo tutto», e convien a tal punto che «sanza te è di-
strutto / quanto avemo in potenza di ben fare». Il potere nobilitante della
donna, cardine dello stilnovismo dantesco che finiva per sublimarsi nel-
l’immagine della donna-Filosofia delle rime allegoriche (Amor che nella
mente, 63-67: «Sua biltà piove fiammelle di foco / animate d’un spirito
gentile / ch’è creatore d’ogni penser bono; / e rompon come trono / gl’in-
nati vizi che fanno altrui vile») restava un potere personale affatto ecce-
zionale e in gran parte immotivato, e il discorso amoroso doveva ben
essere accantonato quando si trattava di parlare delle virtù civili, nelle
canzoni dottrinali Le dolci rime e Poscia ch’Amor. Ora, nella nostra can-
zone, tutto fa pensare a un deciso passo avanti, perché il bene per il quale
tutto il mondo si affatica, e che in potenza è in ogni uomo, concentra in
sé l’ethos delle dottrinali, mentre la nozione d’amore s’allarga e comincia
a investire quella dimensione naturale e cosmica che toccherà alle ‘pe-
trose’ d’interpretare in modo compiuto. Il punto più sorprendente è però
ancora un altro, ed ha a che fare con quel sostanziale – non estrinseco –
rapporto tra Amore e luce che apre e chiude la stanza. Senza Amore, in-
fatti, ogni potenziale ben fare è distrutto,
come pintura in tenebrosa parte,
che non si può mostrare
né dar diletto di color né d’arte.
Non so con quanta pertinenza, ma ogni volta che leggo questi versi non
posso non pensare alla Pentecoste di Manzoni, e allo Spirito Santo che
scende sugli apostoli:
Come la luce rapida
piove di cosa in cosa,
e i color vari suscita
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
dovunque si riposa
[…]
(40 sgg.),
per l’analogo senso così vitale e fisico della luce che chiama all’essere le
cose nell’atto stesso con il quale le rende visibili e fa che diventino luce
esse stesse:
Ove è da sapere che discendere la vertude d’una cosa in altra non
è altro che redurre quella in sua similitudine, sì come nelli agenti
naturali vedemo manifestamente: ché, discendendo la loro virtù
nelle pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto
possibili sono a venire ad essa. Onde vedemo lo sole che, discen-
dendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di
lume quanto esse per loro disposizione possono dalla sua vertude
lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine
reduce quanto esso è possibile a lui assimigliarsi (Convivio III,
XIV, 3).
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tornando a lui, è molto chiaro: per noi è impossibile accedere per via di-
retta alla contemplazione e all’imitazione delle gerarchie celesti, e dob-
biamo perciò lasciarci prendere per mano e guidare dalle apparenze della
materia, materiali manuductione: è solo il visibile, infatti, e cioè sono i
materialia lumina che ci permettono di immaginare immateriali splendori,
e che ci riconducono per sensibilia in intellectualia51 (e «pura luce; / luce
intellettual piena d’amore» sarà l’Empireo, in Paradiso XXX, 39-40). Ed
è proprio di qui che Dante muove, sposando intensità lirica e procedi-
mento logico. Ciò che trascende la realtà materiale non è dunque un dato
astratto, un acquisto puro della mente, ma è invece qualcosa che nasce e
si sviluppa attraverso la scoperta del sensibile e della sua ‘luce’. E il de-
siderio erotico esprime e riassume la pienezza insieme fisica e spirituale
di questa scoperta. Questa, s’intende, è la tesi di Dante, argomentata con
tanta forza poetica e intellettuale da non poter essere facilmente ridotta a
mera giustificazione di una personale vicenda amorosa: va detto, d’altra
parte, che la sua provvisoria tenuta richiede proprio la reticenza che in
questa canzone stende un velo sulla dimensione propriamente cristiana
che in qualche modo siamo autorizzati a intravvedere ma che, pour cause,
non è affatto esplicita.
IV. Siamo alla seconda stanza, nettamente divisa in due parti. Ripe-
tiamo la parafrasi della prima parte, a sua volta articolata in due momenti
strettamente concatenati: ‘La tua luce, così come fa il raggio del sole con
le stelle, mi colpisce al cuore sin dal primo momento in cui l’anima mia
fu sottomessa al tuo potere, / e da ciò nasce un desiderio che con la dol-
cezza del suo linguaggio mi porta a guardare ogni cosa bella, e con tanto
più piacere quanto più è bella’. In altri termini, dopo aver fermato l’ana-
logia tra la virtù d’Amore e quella del sole, Dante fa un passo avanti sulla
base di una nuova analogia: ‘come il sole illumina le stelle (Convivio II
XIII, 15: «del suo lume [del sole] tutte l’altre stelle s’informano»), così la
luce d’Amore illumina la mia anima’, specificando che ciò è avvenuto
sin dal primo momento in cui l’anima ha accolto in sé e accettato il potere
di Amore (alludendo con ciò al fatto, reso esplicito più avanti, che la ‘par-
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goletta’ a quel punto, per immaturità, ancora non è arrivata). Così, Dante
identifica la resa o l’apertura ad Amore con l’avvento di una ‘illumina-
zione’ interiore, un vero e proprio stato di grazia, che agisce su piani com-
plementari: come la prima stanza ha già spiegato, lo nobilita purificandolo
dai vizi e rendendolo per questa via capace di realizzare quel bene che il
mondo intero persegue, e nello stesso tempo, contestualmente, gli apre
gli occhi alla bellezza. Alla verità generale espressa attraverso il diletto per
l’immagine dipinta sortita dal buio e divenuta visibile, corrisponde per-
fettamente, in questa seconda stanza, il fenomeno di cui egli può portare
personale testimonianza: quella stessa luce che rende visibile la pittura fa
sì che ora egli veda, finalmente, la bellezza, e che la bellezza, in ogni sua
forma, gli procuri un diletto (si osservi il ritorno significativo della parola
ai vv. 15 e 23) ch’è tanto più grande quanto maggiore è la bellezza che lo
provoca.52
La ‘pargoletta’ sin qui ancora non c’è, ma Amore c’è già, ed agisce
come dono calato dal cielo: da una parte rende percepibile la bellezza del
mondo ricondotto ai diversi materialia lumina che lo costituiscono, e
dall’altra penetra e trasforma l’anima del soggetto che diventa finalmente
capace di andare in cerca e di appercepire quei lumina, di valutarne la
qualità e di goderne in proporzione. E lungo questa via si darà addirittura
che l’oggetto più bello e più amato sarà precisamente quello che non esau-
rirà una volta per tutte le sue qualità, ma si rivelerà capace di riprodurre
in se stesso quella dialettica quale fonte inesauribile di nuove bellezze e
nuovi piaceri. È ciò che dirà, infatti, la canzone Io sento sì d’Amor, 71-74:
Io non la vidi tante volte ancora
ch’io non trovasse in lei nova bellezza,
onde Amor cresce in me la sua grandezza
tanto quanto ‘l piacer novo s’aggiugne.53
Ora, non si vuole dire che a metà della seconda stanza la canzone sia
finita: è certo, però, che Dante a questo punto, nel giro di ventitrè versi,
ha perfettamente predisposto l’architettura speculativa che la sorregge
tutt’intera. Di qui in avanti ci saranno altri nodi concettuali, altre immagini
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
sima: nel primo caso, quindi, Amore rende sensibili alla bellezza, e nel se-
condo la conferisce. Di là dal fatto che la bellezza è definita in tal modo
come una sorta di luce che scende dal cielo a illuminare le creature (tutte
le creature, anche il legno e la pietra, come dice Scoto Eriugena, ricor-
diamo), Dante pone alla base dell’innamoramento una fortissima affinità
di ‘complessione’, assicurata dalla comune presenza in lui e in lei di un
elemento che trascende entrambi e che deriva dal cielo la sua speciale vir-
tus unitiva. Ho usato non a caso il termine complessione, perché è quello
normalmente indicato nella cultura del tempo come precondizione del-
l’amore, che scatterebbe appunto quando tra due creature si verificasse
una siffatta affinità. Cavalcanti ancora, Donna me prega, 57-58: «De simil
tragge complessione sguardo / che fa parere lo piacere certo», cioè, in pa-
rafrasi: ‘Quando tra l’uomo e la donna corra una fondamentale affinità
delle rispettive complessioni, si generano degli sguardi che fanno apparire
il piacere come cosa sicura’, e l’amore si fa irresistibile. Ma cos’è preci-
samente in Cavalcanti la complessione? Essa designa il particolare e per-
sonale equilibrio in cui stanno nel singolo organismo le quattro qualità
primarie: caldo e freddo, umido e secco, nella loro varia combinazione
con i quattro umori: sangue, flegma, bile gialla, bile nera; combinazione
dalla quale derivano i quattro tipi fondamentali: sanguigno, collerico, me-
lanconico, flegmatico. Si tratta insomma di un termine che ha una speciale
pregnanza medico-scientifica, e rinvia a una dottrina che ha origine in
Aristotele e ha preso corpo con Ippocrate e Galeno ed è stata approfondita
e complicata dalla medicina araba (Halyabbas e Avicenna), e infine dif-
fuso soprattutto dalle traduzioni di Gherardo da Cremona che l’hanno
reso affatto comune nel Duecento.57 Il punto critico è allora questo: Dante
sostituisce a una complessione di tipo medico-fisiologico una comples-
sione iscritta in un ordine di tipo metafisico, confermando alla luce della
sua nuova maturità filosofica che l’amore è un fenomeno che deriva il
suo senso e la sua forza unitiva dall’intima armonia che intrattiene con le
leggi profonde secondo le quali i cieli danno vita al creato, e dalla doppia
consonanza, piuttosto che complessione, che le creature intrattengono sia
verticalmente, con la comune fonte della luce che le illumina, sia oriz-
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
e quanto finiva per concludere poco avanti sotto forma di legge generale:
«universaliter omnes creaturae, quantamcumque unionem habent, habent
ex virtute pulchri». Il vincolo che unisce le creature deve la sua forza vera
alla bellezza, e una bellezza, va sùbito aggiunto, che secondo le premesse
non può essere distinta dal bene (quel bene «per lo qual si travaglia il
mondo tutto»), come ancora Tommaso spiega, ma con esso forma
un’unità inscindibile: «bonum et pulchrum sunt idem».58
Un breve passo indietro è utile, se si vuol misurare la novità delle af-
fermazioni di Dante. Riandiamo a un sonetto, Due donne in cima della
mente mia (48/LXXXVI), nel quale Virtù e Bellezza, impersonate da due
donne delle quali il poeta accetta contemporaneamente la signoria, fanno
questione «come un cuor pote stare / intra due donne con amor perfetto»,
e Amore scioglie il problema sentenziando nei versi finali che «amar si
41
può bellezza per diletto / e puossi amar virtù per operare».59 Com’è evi-
dente, l’elegante e salomonica soluzione offerta da Amore non risolve af-
fatto il problema di una possibile conciliazione tra la virtù (il ben fare) e
le seduzioni della bellezza, ma attraverso l’implicita ma chiara gerarchia
che divide l’operazione virtuosa dal diletto finisce per riproporre una netta
divisione di campo: quella divisione che all’altezza di Amor che movi è
ormai superata entro una visione organica e filosoficamente garantita, se-
condo la quale, appunto, «bonum et pulchrum sunt idem».
Ora, mi sembra puerile immaginare che Dante abbia messo a fuoco il
suo pensiero senza sapere che così facendo irrobustiva sino a trasformarla
la giovanile concezione d’amore espressa nella Vita nova che tanto scan-
dalo e incomprensione aveva suscitato, e senza sapere che contro quella
concezione s’era mosso Guido Cavalcanti con tutto il suo piglio e presti-
gio da filosofo capace di definire l’amore secondo «natural dimostra-
mento», cioè secondo i principi della filosofia naturale. C’è infatti un
passaggio di Amor che movi che attraverso plurimi sottintesi mostra chiara
consapevolezza delle implicazioni polemiche del discorso che Dante sta
sviluppando, precisamente quello in cui dichiara che il proprio immagi-
nare è in grado di riprodurre entro la mente le effettive, reali qualità della
giovinetta amata:
non che da sé medesmo sia sottile
a così alta cosa,
ma dalli tua vertù di quel ch’ell’osa
oltre ‘l poder che natura ci ha porto
(vv. 35-38).
Non so se sia stato osservato che questi versi, nella netta rivendicazione
di uno stacco personale e insomma di un singolare privilegio attuato in
nome e per virtù d’amore, hanno qualcosa che anticipa gli assai più famosi
di Purgatorio XXIV, 52 sgg.: «Io mi son un che, quando / Amor mi spira,
noto …», ecc. Ma il discorso ci porterebbe troppo oltre, sì che è meglio
restare al contesto, ch’è molto chiaro: ‘non che il mio pensiero sia di per
sé all’altezza di una simile operazione: ma esso ricava dalla tua virtù,
42
ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
Cadono qui assai comode alcune parole di Mira Mocan che mi piace ci-
tare con larghezza. A proposito di Cavalcanti, la studiosa torna opportu-
namente a insistere sul dato ormai acquisito della «essenziale separatezza
dell’amore rispetto all’àmbito intellettuale e alla conoscibilità, tanto radi-
calmente asserita nella seconda stanza di Donna me prega»; accenna in
proposito ad «alcuni termini e sintagmi coinvolti nella ricostruzione di un
ideale dialogo poetico che chiama in causa anche Dante», e commentando
il sonetto di Cavalcanti aggiunge:
Va sottolineata, in questa definitiva resa ‘poetica’ di fronte all’in-
conoscibile, anzitutto la determinazione – declinata qui unicamente
al negativo – nel senso dell’altezza, riferita alla mente che speri-
menta i propri limiti nell’impossibilità di comprendere l’oggetto
amoroso […] L’avverbio impiegato nell’ultimo verso, prop[r]ia-
mente, definisce poi forse in modo ancora più preciso e tecnico di
quanto sia stato finora indicato l’esatta determinazione della cono-
scenza negata e irraggiungibile per la mente ‘nostra’, di noi umani:
dunque il senso di quell’altezza di cui la mente è, in questo caso,
manchevole (Mocan 2007: 26 sgg.).
Per concludere, infine. Che questi tre momenti, ripeto: Vita nova –
Donna me prega – Amor che movi, abbiano corrisposto a una reale suc-
cessione temporale non possiamo dirlo né lo sapremo mai: poco importa,
tuttavia, dinanzi al fatto che sicuramente il loro gioco d’incastri e le loro
più e meno trasparenti allusioni polemiche definiscono uno schema ideale
che aiuta non poco l’intelligenza dei testi, e che in tutto ciò Amor che
movi rappresenta uno snodo decisivo per lo straordinario anticipo con il
quale fissa alcune coordinate di fondo che opportunamente modificate e
integrate in prospettiva cristiana riusciranno a giungere sino al sommo
del Paradiso.
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NOTE
1
Capp. XIV-XVII secondo la tradizionale numerazione confermata dall’ed.
critica del 1907 a cura di Michele Barbi (poi Bemporad, Firenze, 1932), e capp.
7-9 in quella di Guglielmo Gorni, Einaudi, Torino, 1996, che ha rinumerato i ca-
pitoli facendoli passare da quarantadue a trentuno. Dopo Gorni, ad evitare imba-
razzi, si è seguita la sua pratica di riportare in nota la numerazione Barbi, ma ora
non lo fa Stefano Carrai nell’ed. della Vita nova da lui curata, con revisione del
testo e delle sue forme grafico-linguistiche (Alighieri 2009b), dalla quale cito. Per
quanto riguarda le Rime, avverto che citerò le liriche di Dante secondo il testo e
con la numerazione che hanno in Alighieri 2005, che fa seguito all’edizione cri-
tica in cinque tomi approntata dallo stesso De Robertis per la Società Dantesca
Italiana – Edizione Nazionale, del 2002.
2
Così Luca Carlo Rossi in Alighieri 1999: 79.
3
Di ciò ha scritto molte volte Domenico De Robertis. Qui, basterà rinviare alle
pagine fondamentali in De Robertis 19702: in part. 86 sgg.
4
Al cor gentil, 41-50: «Splende ‘n la ‘ntelligenzïa de cielo / Deo crïator più
che ‘n nostr’occhi ‘l sole: / ella intende suo fattor oltra ‘l cielo, / e ‘l ciel vol-
giando, a Lui obedir tole; / e consegue, al primero, / del giusto Deo beato com-
pimento, / così dar dovria, al vero, / la bella donna, poi che ‘n gli occhi splende
/ del suo gentil, talento / che mai di lei obedir non si disprende» (corsivo mio).
5
Per l’interpretazione di questi versi rimando a quanto ne ho scritto in Fenzi
1999: 164-5, sospettando in quel «For d’ogne fraude» un forte attacco a Dante
proprio sul punto, come Cavalcanti dicesse: ‘Non date retta a chi v’inganna con
stravaganti teorie: vi assicuro, e io sì che sono degno di fede, che l’unica cosa che
ci si può aspettare dall’amore è il fatto che arrivi ad avere la sua ricompensa’. Non
mi fermo in questa sede sulla discussa questione se Donna me prega costituisca
o meno una diretta confutazione delle teorie della Vita nova (come tendo anch’io
a credere): basta e avanza che le posizioni di Dante e Cavalcanti siano indiscu-
tibilmente e persino clamorosamente antitetiche. Occorre però aggiungere che
recentemente Giorgio Inglese rifiuta questa interpretazione dei versi citati, e in-
tende: ‘la pena d’amore ricava il suo solo compenso dall’amore stesso, in un cir-
colo vizioso di doglia e morte’ (Cavalcanti 2011: 161).
6
Vedi per ciò Singleton 1968: 119 sgg.
46
ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
7
Non l’ha capìta per primo il cosiddetto ‘Amico di Dante’, che nella canzone
Ben aggia l’amoroso e dolce core risponde per le rime a Donne ch’avete intelletto
d’Amore mettendo in bocca proprio a tali donne l’esaltazione della superiore fe-
deltà amorosa di Dante che senz’altro gli dovrebbe meritare mercede dalla sua
donna, presso la quale esse dichiarano d’intercedere. La si legga in La corona di
casistica amorosa (Amico di Dante 2002: 213-224), e ora in Poesie dello Stilnovo
2006: 448-453. E in tale contesto non si può non citare a rincalzo il sonetto di Ca-
valcanti, Guata, Manetto, quella scrignutuzza, che secondo l’acuta ipotesi di
Gorni sarebbe una dissacrante parodia della Beatrice dantesca e degli storditi e
sognanti atteggiamenti amorosi dell’amico Dante: vedi Gorni 2001: in part. 49-
58, e ora, con diverso titolo, Gorni 2009: 63-79. Che di Dante e solo di Dante sia
questo processo di spiritualizzazione dell’amore ha sottolineato efficacemente
Roncaglia 1967: 27.
8
Sul quale vedi Rossi 1982: 28-128.
9
Vedi Nardi 1949: 1-92 (in part. 1-36); Nardi 1966: 238-267. Sull’argomento
è ancora fondamentale il vecchio lavoro di J. L. Lowes, 1913-14: 491-546. Vedi
poi almeno Ciavolella 1976; Ciavollella 2004: 93-102 (sulle teorie mediche di Ar-
naldo da Villanova); Agamben 1977: 73-155, in part. 130 sgg., e ora gli eccellenti
saggi di Tonelli 2000 e Tonelli 2004, donde si trarranno molte altre indispensabili
indicazioni bibliografiche.
10
Sui vari aspetti del rapporto Cavalcanti-Dante esiste una tale bibliografia e
di tale qualità da impedirmi di renderne conto in questa sede. Mi limito dunque
a rinviare ai saggi contenuti nel volume collettivo Guido Cavalcanti tra i suoi let-
tori 2003, e in particolare quelli di Barański: 149-175 (dalle sue note si ricaverà
una bibliografia che registra tutte le voci più importanti); di Durling: 177-185, e
di Martinez: 187-212. Per la permanenza dell’influsso cavalcantiano sin dentro
al Paradiso, vedi in particolare Bonanno 1999.
Ha giustamente osservato Carla Molinari 2009: 124, che le canzoni di Dante
11
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siano state concepite sin dall’origine come allegoriche. Per ciò e per quanto ri-
guarda l’articolazione: Vita nova/rime allegoriche, rinvio a quanto ne ho scritto
in Fenzi 1975: 9-69, e in Fenzi 2009: 29-69.
14
Corti 1983.
15
Sin dall’incipit abbiamo dunque a che fare con la ‘pargoletta’, ma il caso ha
aspetti particolari. Per Pernicone, come per altri del resto, non c’è nessun dubbio
sul fatto che questa ballata faccia corpo con le altre rime sopra elencate, ma io
(sulla scia dei dubbi insinuati da Foster e Boyde) resto perplesso perché, almeno
nella prima metà della ballata, mi sembra che Dante prolunghi, con qualche con-
traddizione interna, il tema delle rime allegoriche, nelle quali è rivisitato con
forza il tema stilnovistico della donna eccezionale, scesa dal cielo per una sorta
di concessione fatta da Dio agli uomini, ma dal cielo desiderata quale compi-
mento della sua beatitudine (qui nella ballata, vv. 4-5: «Io fui del cielo e tornerovi
ancora / per dar de la mia luce altrui diletto»). Ora, questo tema è non solo estra-
neo ma intimamente contraddittorio con l’insieme delle altre rime per la ‘pargo-
letta’, non fosse altro perché qui la giovane donna appare non solo ben
consapevole del suo potere, ma ha intero e perfetto intelletto d’amore, ch’è ap-
punto ciò che per definizione alle altre manca, come anche le poche citazioni che
seguono a testo mostrano chiaramente. In altri termini, parrebbe quasi che questa
ballata stia a mezzo, a fare da ponte tra l’esperienza delle allegoriche e quella
che è lecito ritenere successiva, delle nostre rime d’amore, che culmineranno
nelle ‘petrose’. Ma il tema è complesso, e tenterò di riconsiderarlo in un prossimo
saggio. Si vedano intanto le note di Foster e Boyde in Dante’s Lyric Poetry: 186-
9, e di Pernicone in Alighieri 1969: 476-7.
Per le novità introdotte dall’edizione De Robertis, frutto, ricordiamo, di al-
16
48
ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
però che questo saggio è stato corretto e arricchito di altri dati, in una versione
non ancora stampata).
19
Nel cappello a Io mi son pargoletta, nella sua edizione delle Rime, Ia ed.
1939, IIa riveduta, 1946, e poi molte volte ristampata: qui anche una sommaria
rassegna delle varie ipotesi biografiche.
20
Cito il commento di Dino del Garbo a Donna me prega da Fenzi 1999: vedi
qui §§ 9, 21, 44, 48, ecc.
21
Vedi la ‘montanina’ Amor, da cui convien, 19-21: «L’anima folle, ch’al suo
mal s’ingegna, / com’ella è bella e ria/ così dipinge e forma la sua pena».
22
Vedi per ciò la bibliografia indicata sopra, nota 13.
23
Debbo dire a questo punto che l’organizzazione del discorso basata su una
preliminare considerazione di singole ‘sezioni’ isolabili all’interno delle Rime di
Dante corrisponde singolarmente a quella già messa in opera da Selene Sarteschi
2004, alla quale rimando.
24
Per l’ordine in cui starebbero le due canzoni, vedi avanti, nota 53. Nutre
dubbi al proposito Barański 2009: 154-155, che non vede che esse abbiano molto
in comune: Amor che movi, ripartendo dalla grande similitudine solare della can-
zone di Guinizzelli Al cor gentile, è un grande e generoso discorso sulla natura
d’amore, mentre Io sento sì, con le parole di Giunta, «si limita a descrivere ciò
che gli sta succedendo, come un piano elenco di sintomi in una cartella clinica»
(Alighieri 2011: 413). In questi termini, pur accogliendo parte delle perplessità
dello studioso, non sono tuttavia d’accordo, anche perché, come si vede, io attri-
buisco un preciso valore strategico alla scelta della ‘pargoletta’ quale oggetto
d’amore, e almeno sul piano tematico lo ritengo un elemento fortemente unifi-
cante, per nulla riducibile a «luogo comune della poesia erotica», come ancora
Barański ritiene. Voglio anche aggiungere che il suo saggio in ogni caso davvero
bello e importante mi pare sia una confutazione in re delle parole di Giunta, da
lui pur citate con approvazione.
25
Pernicone 1970: 216, e in Alighieri 1969: 483-98. Come già è capitato di
puntualizzare altrove, il commento a firma Barbi-Pernicone è in realtà opera, sia
pure con l’aiuto di materiali lasciati da Barbi, del solo Pernicone.
26
Per la seconda canzone, rimando in particolare a Fenzi 1993.
49
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27
Sul quale si veda Avalle 1977: 34-44; Picone 1979: 61 sgg.; Paolazzi 1998:
220-39.
28
De Robertis 2003 ricostruisce benissimo la tradizione del modulo d’aper-
tura: vocativo + relativa + richiamo del tu ripetuto, dalla liturgia romana della
messa all’innografia latina, e riserva una particolare considerazione al famoso e
commentatissimo, per tutto il medioevo, metro 9 del l. III della Consolatio di
Boezio, O qui perpetua mundum ratione gubernas, già analizzato in relazione a
Dante da Dronke 1997.
29
Con tutto ciò, come verrà ribadito anche in conclusione, Dante non ‘deroga’
affatto rispetto alla sua giovanile ideologia amorosa, ma la trasforma dotandola
di nuove basi e sviluppandola: il punto è stato ben colto da Sarteschi 2004, per
esempio 320 nota 29, ove scrive che nella canzone Dante «sta dunque cercando
una nuova liaison con la VN e la concezione d’amore che la permea» (a proposito
della condanna dell’ira, per cui vedi qui poco avanti), oppure 322-3, ove scrive
che «In Amor che movi Dante sta rifondando la sua concezione d’amore con l’in-
tento di riavvicinarsi al pensiero della Vita Nova, ossia all’idea della potenza
dell’amore e della sua autonomia da ogni condizionamento che provenga in modo
deterministico dalla natura» (anche se io penso che da quel ‘pensiero’ egli non si
fosse mai allontanato davvero, e che la liaison con la Vita nova vada intesa come
la prosecuzione coerente della stessa battaglia ideale e culturale contro le posi-
zioni avverse che vediamo riassunte in Cavalcanti).
30
Donna me prega, 16-18 e 50-52: Amore «prende suo stato, sì formato, come
/ diaffan da lume, d’una scuritate / la qual da Marte vène e fa demora […] La nova
qualità move sospiri /e vòl ch’om miri ‘n non formato loco, / destandos’ira, la
qual manda foco». Va ricordato che per Tommaso l’appetito sensibile, o sensua-
lità, comprende in sé due movimenti: il concupiscibile, che tende a ciò che giova
o piace, e l’irascibile, che combatte tutto ciò che impedisce al concupiscibile di
godere del proprio oggetto (Summa, I q. 81 art. 2; De veritate, q. 25 art. 1, 732
ab), sì che l’ira la si può dire inevitabile nel caso di un amore negato. Le parole
di Dino del Garbo sopra citate (in Fenzi 1999: 116, § 69) derivano letteralmente,
con minime variazioni, dal Canone di Avicenna nella traduzione di Gherardo di
Cremona, Giunta, Venezia, 1595, III Fen 1, Tract. 4, cap. 23, 494. La melancho-
nia è la bile nera: «Melancolie est une humors que les plusors apelent collere
noire» (Brunetto Latini, Tresor, I 101, 6). Tornando all’equazione: amore / ira,
vale anche la pena osservare che la natura irrazionale delle due passioni fa sì che
entrambe possano essere sconfitte dalla volontà guidata dalla ragione: «Nam ali-
50
ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
quis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurrendum in iram, tamen per vo-
luntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere, et simili modo
etiam de amore» (Dino del Garbo, in Fenzi 1999: 98 § 31).
31
Sul punto, vedi anche Mocan 2007: in part. pp. 61 sgg.
32
Per ciò rimando ancora una volta a Fenzi 1999, sia per l’introduzione, «Con-
flitto di idee e implicazioni polemiche tra Dante e Cavalcanti», 9-70, che per le
note a Donna me prega e al commento di Dino del Garbo, 143-174, e a Fenzi
2003. Vedi inoltre, sempre ricordando le pagine fondamentali di Bruno Nardi
1949, i due saggi di Natascia Tonelli 2000 e 2004, citati sopra, nota 9.
33
Osservazioni notevoli in questo senso, che riguardano anche altri punti qui
toccati, sono in Pinto 2005: in part. 198 sgg.
34
Vedi Dronke 1984 (ma non vi si parla della nostra canzone).
35
Moltissimo si ricava al proposito dal volume di De Libera 1990, passim (ma
si veda in part. il cap. IV, «La métaphysique du flux», 117-77).
36
Nardi 1944: 346-7, cita a illustrazione ulteriore di queste parole, un lungo
passo di Avicenna, Metaph., IX 4, nel quale si spiega cosa sia questo desiderio
dal quale ha origine il moto dell’universo.
37
Da tempo è stata indicata una corrispondenza tra questi versi e i testi dello
Pseudo Dionigi e Dante: vedi De Vogel 1963, con il quale a più riprese discute
Dronke 1984: 449 sgg., il quale per parte sua conferma, enfatizzandolo, il ruolo
di Boezio (456: «The mainstream of medieval Western thought about cosmic
love follows Boethius»).
38
Le ultime righe presentano notevoli problemi testuali, e hanno dato origine
a interpretazioni divergenti, da quella rigorosamente tomistica di Busnelli-Van-
delli a quella di Nardi, orientata su Alberto Magno: vedi la lunga nota riassuntiva
e i relativi rimandi di Cesare Vasoli, nell’edizione ricciardiana del trattato (Ali-
ghieri 1988: 319-22). Circa il testo, azzardo un’osservazione che non vedo fatta
da altri: là dove si legge «cose disgiunte dal loro amico» non sarà per caso da cor-
reggere loro dei mss. con loco (luogo)? Le parole sulle piante sembrano derivare
direttamente da Boezio, Cons., III pr. 11, 18 sgg. (ma tutta questa prosa e la se-
guente, intese a mostrare come ogni creatura animata e inanimata tenda alla pro-
pria conservazione, e cioè «ad bonum naturali intentione festinent», è
strettamente pertinente al tema).
51
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39
Vedi qui per esempio (tra altre citazioni) Convivio III, XIV, 5; III, VIII, 16-17;
III, II, 6-8, a proposito della prima stanza di Amor che movi.
40
All’autorità di Alberto Magno ricorre in particolare Stabile 2007a, in un sag-
gio che resta la voce più importante della bibliografia sulla canzone. Per il Liber
de causis e il De divinis nominibus (segnatamente il cap. IV) dello Pseudo-Dio-
nigi vedi le ampie citazioni che sono nel citato commento di Vasoli al Convivio,
per esempio III, VII, 2-7 (che a sua volta sarebbe qui tutto da citare), relative ai
diversi gradi di penetrazione della «prima bontade», quella di Dio, negli angeli,
nell’uomo, negli animali, nelle piante, nei minerali e nella terra. Per il Liber de
causis, che per tanta parte ha mediato presso Dante le dottrine neoplatoniche, si
vedano ancora le fondamentali pagine di Nardi 1967: 14 sgg. e 81-109. Per Dio-
nigi, le cui opere nel testo greco con traduzione italiana a fronte sono pubblicate
a cura di Piero Scazzoso ed Enzo Bellini, con introduzione di Giovanni Reale e
un saggio integrativo di Carlo Maria Mazzucchi, Bompiani, Milano, 2009, un sin-
tetico e ottimo panorama della sua fortuna nell’occidente medievale è in Jeauneau
2007b, mentre assai ricco di riferimenti è il volume di Salvatore Lilla 2005. Ma
amplissima è la bibliografia relativa, per cui conviene restare al tema Dionigi-
Dante: pur se dedicato al Paradiso, si veda ora Sbacchi 2006: qui, nell’Introdu-
zione, IX-XXIII, un quadro delle questioni legate alla conoscenza da parte di
Dante del Corpus Dionysianum, mentre al nostro proposito offre vari suggeri-
menti l’ultimo capitolo, «Gli specchi nel ‘Paradiso’», 93-113. Ma sull’argomento
basti l’ulteriore rinvio ad alcuni studi recenti dai quali si ricaveranno, a ritroso,
tutte le indicazioni più importanti, anche a proposito del Liber de causis. Vedi
dunque, oltre al volume della Mocan sopra citato, Finazzi 2009, dove si osserva
di passaggio che Amor che movi è forse il testo «in cui è più sviluppata, attraverso
numerosi rimandi, l’analogia tra l’azione del Sole e dei cieli (si noti il vocabolo-
chiave vertù) e quella d’Amore» (185 nota 37), e soprattutto i contributi ricchis-
simi del maggior studioso del tema, Ariani 1993; Ariani 2003; Ariani 2009; Ariani
2010, volume, questo, che finisce di mostrare in re, passo passo, la straordinaria
importanza per Dante delle opere di Dionigi. Ma altro ancora si ricava dall’altret-
tanto recente volume di Susanna Barsella 2010: in ispecie il secondo capitolo, 27-
69, dedicato all’influenza in Dante della tradizione dionisiana.
41
Come ha scritto Nardi 1949: 57, citando il libretto della Traviata di France-
sco Maria Piave (I sc.3). Ma si veda ora anche il bel saggio di Isabelle Battesti,
al quale rimando, la quale tra l’altro scrive: «Dans Amor che movi, la question des
pouvoirs de l’amour et l’énigme de la non-réciprocité sont affrontées dans un
52
ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
cadre scientifique précis qui est celui de l’émanatisme […] Cette vision du
monde, nourrie d’un aristotélisme fortement platonisé, puisait sa légitimité dans
le Liber de causis faussement attribué à Aristote, et qui donnait une représentation
d’un monde parfaitement ordonné où les réalités d’en-haut ‘ruissellent’ sur celles
d’en-bas par l’intermédiaire de la lumière des étoiles qui contiennent les vertus,
c’est-à-dire les puissances, des moteurs d’en-haut. En d’autres termes, on est ici
dans un modèle de réalité ‘hypercasual’, où tout se tient du haut en bas, depuis
la Cause première jusqu’à ses effets ultimes dans la matière comme dans l’âme
humaine» (Battesti 2008: 127-128). Aggiungendo naturalmente che l’enigma
della non-reciprocità d’amore costituisce lo scandaloso punto di rottura di un tale
modello ‘ipercasuale’, onde lo straordinario paradosso e la speciale tensione che
divide in due la canzone, tra l’inno all’universale potere di Amore che travolge
il poeta, nella prima parte, e nella seconda la supplica al dio perché stronchi la
resistenza della ‘pargoletta’ che proprio nell’essergli refrattaria ne rivela sino in
fondo il potere …
42
Vedi anche il precedente capitolo 27, ed Epist., 157, 2, 9: «Animus quippe
velut pondere, amore fertur quocumque fertur».
43
Summa, I quaest. 60 art. 1, resp. Al proposito, Dronke 1984 sin dall’inizio
distingue tra una concezione ‘boeziana’ attiva e discendente e una concezione
‘aristotelica’ che vede nel moto delle cose un movimento di ritorno al loro im-
mobile principio (440: «This is the one train of thought, the Boethian one – this
love is an active moving power, an outgoing, penetrating force. In the words of
Boethius’ song, it binds the order of things, rules earth and sea, and dominates
heaven. The other train of thought is Aristotelian […] In this way too the sun and
stars are moved by their desire, or love, for the unmoved mover, who, in Aristotle’s
famous frase, “moves by being loved”. The moving power of love, in Aristotelian
terms, is not an activating, outgoing thing, diffusing itself in the cosmos like ra-
diance; it is the aspiration of all things towards an immutable»), e aggiunge poi,
p. 461, che «The first major original contribution was Scotus Eriugena’s. Scotus
attempted to resolve the problem that Boethius and Dionysius had left open, to
show a precise relation between love as the efficient cause of the universe […]
and love as the final cause of the universe, the motionless goal towards which all
its movements strives. He saw that cosmic love could be defined in both ways,
and that God could be envisaged as both efficient and final cause of all things».
Ma in termini poetici già Boezio, Conf., IV metr. 6, parlava del movimento di ri-
torno di tutte le cose alla loro origine, l’έπιστροφή, in virtù di un amore che le
53
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conserva entro i confini del bene e le tiene legate alla causa che ha dato loro l’es-
sere (vv. 44-8: «Hic est cunctis communis amor / repetuntque boni fine teneri, /
quia non aliter durare queant, / nisi converso rursus amore / refluant causae, quae
dedit esse»). E vedi anche, per l’idea che tutte le cose aspirano a tornare alla loro
origine, ibid., III metr. 2, 34-35: «Repetunt proprios quaeque recursus / redituque
suo singula gaudent / nec manet ulli traditus ordo, / nisi quod fini iunxerit ortum
/ stabilemque sui fecerit orbem», parzialmente ripreso da Guinizzelli, Madonna,
il fino amore, 40-42. Per gli argomenti qui appena sfiorati e i loro importanti ad-
dentellati, vedi ancora Dronke 2008.
44
Per un’analisi della canzone, rinvio a Fenzi 2010.
45
Una fitta rassegna di miracolosi segnali, spesso di tipo luminoso, della na-
scita di Cristo è nella Legenda aurea, VI De nativitate domini, 68 ss., ed. Mag-
gioni, 68 sgg. Il punto andrebbe approfondito (richiamando magari sullo sfondo,
per il motivo della nascita miracolosa, la quarta egloga di Virgilio), con l’aiuto
per es. di Stabile 2007b, che ha minuziosamente analizzato la fulguratio della
quale è vittima Dante in Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, la ‘monta-
nina’. Per l’impotenza dell’occhio umano, soverchiato dalla luce del sole e/o di-
vina, vedi Amor che ne la mente 60; Convivio II, XIII, 5, e III, VIII, 14; Purgatorio
XVII, 52-53 e XXXII, 11; Paradiso XXIII, 33 e XXV, 118-123.
De div. nom., 4, 4, in Patr. lat., 122, 1130 b, nella traduzione di Giovanni
46
54
ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
VIII, La dottrina dell’Empireo nella sua genesi storica e nel pensiero dantesco,
167-214 (vedi qui, per esempio, 203-204, le citazioni da Agostino e Bonaven-
tura), si torni agli studi segnalati sopra, nota 31, e tra essi a quelli di Ariani in par-
ticolare, dai quali si ricaveranno tutte le integrazioni indispensabili: in particolare,
per il topos d’origine platonica che fa del sole l’immagine del Sole intelligibile
vedi Ariani 2010: 105-106 e nota 25, con preziose citazioni da altri testi (Platone,
Plotino, Macrobio, Dionigi Aeropagita, Tommaso, Boezio …), e con la bibliogra-
fia relativa a questa ‘teologia solare’.
50
Joannes Scortus Erigena, Expositiones super Ierarchiam caelestem S. Dio-
nysii, in Patr. Lat., 122, rispettivamente 128 C; 129 A, e 129 B-C. Si legga anche
l’essenziale apertura di tali Expositiones, ibid., 125 c sgg.: «Sancti Dionysii Areo-
pagitae primus liber, qui inscribitur de caelesti ierarchia, XV capitulorum serie
contexitur, quorum primi titulus est: Quoniam omnis divina illuminatio secundum
bonitatem varie in ea, quae praevisa sunt, proveniens, hoc est, quoniam divinae
bonitatis omnis illuminatio, quae multipliciter in ea quae praevisa sunt facienda
procedit, manet simpla in seipsa, et dum diffunditur universaliter in ea quae sunt,
ut sint, quia nulla alia est rerum omnium sensibilium et intelligibilium subsisten-
tia praeter divinae bonitatis illuminationem et diffusionem, non desinit esse in se
ipsa simplex et inexhausta. Est enim fons non deficiens, et in omnia quae sunt in-
finita numerositate profluens. Et non solum in omnia manat et provenit ut subsi-
stant, verum etiam universa, quae ex ipsa et in ipsa et per ipsam subsistunt, in
unam ineffabilem harmoniam coaptat, ita ut in universitate multiplex sit per in-
finitam multiplicationem, et in ipsa omnia unum sint per incomprehensibilem
adunationem». E per questo vincolo di luce che tutto unisce e rende partecipe
dell’Uno, Riccardo di san Vittore, Expositio in Hierarchia Coelestem S. Dionysii,
in Patr. Lat., 175, 929 AB: «Et una lux est, et bonum unum est; et plurima sunt
lucentia et partecipantia bonum unum et lucem unam: et in eo quod participant
unum sunt in uno collecta et reducta ad unum et uni conformata».
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De cael. Hier., cap. I, 3, in Patr. Lat., 122, 1039 A sgg.: «[…] quoniam neque
possibile est nostro animo ad immaterialem illam ascendere caelestium Ierar-
chiarum et imitationem et contemplationem, nisi ea, quae secundum ipsum est,
materiali manuductione utatur, visibiles quidem formas invisibilis pulchritudinis
imaginatione arbitrans, et sensibiles suavitates figuras invisibilis distributionis
et immaterialis luculentiae imaginem materialia lumina, et secundum intellectum
contemplativae plenitudinis pervias sacras disciplinas […] quatenus nos reduceret
per sensibilia in intellectualia». Ricordo che Erwin Panofski ricorre a questi passi
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LA BIBLIOTECA DE T ENZONE G RUPO T ENZONE
in uno dei suoi saggi più accattivanti, Suger abate di Saint-Denis (Panofski 1962:
in part. 127 sgg.), e che sul punto il discorso è ripreso da Jeauneau 2007a. Vedi
pure Ugo di san Vittore, Expositio, cit., 926 D: «Impossibile enim est invisibilia
nisi per visibilia demonstrari: et propterea omnis theologia necesse habet visibi-
libus demonstrationibus uti in invisibilium declaratione».
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Per questa ‘illuminazione’ e cioè questo dono di una luce che sola permette
di vedere la luce della bellezza, vedi ancora Ugo di san Vittore, Expositio, cit.,
932 C-933 A: «dona ejus lumina sunt, et lumina faciunt lucentia et illuminant
lucentia et illuminata ipsa, et fiunt lux lucentia et illuminantia lumina. Lux sunt
et una lux ubique, et unum lucentia in luce una, et multiplicatur in multis una et
multa in unum uniuntur. Ex hoc ergo theologia incipit, quia lumina lucentia et il-
luminantia speculamina sunt divina: et videtur in eis lux lucens et illuminans,
quae incomprehensibilis et inaccessibilis in se manet. Et propter hoc, ut videri
possit, exit in ipsa et infundit se illis, ut apprehendant eam, et capiant et videant
in seipsis lucentia ex ipsa. Non enim possunt videre vel apprehendere illam quae
non lucent ex illa, quia sine luce neque ipsa videri lux potest. Et sunt quidem ista
speciosa simulacra lucis ad invisibilem profusionem ut per visibilia invisibilia vi-
deantur […] Propterea servit imago, et monstrat creatura opificem, quoniam ad
hoc facta est ut videatur in illa». Assai pertinente a quanto detto sopra è dunque
la sintetica dichiarazione che apre Paradiso III, 1-3, ove è il sole e il suo calore
che induce a un percorso di scoperta della verità e della sua bellezza: «Quel sol
che pria d’amor mi scaldò ‘l petto, / di bella verità m’avea scoverto, / provando
e riprovando, il dolce aspetto».
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Questa forte corrispondenza tra Amor che movi, 20-23 e Io sento sì d’Amor,
71-74, mi sembra possa deporre a favore della posteriorità della seconda canzone,
che riprende un concetto già espresso nei suoi termini generali e lo focalizza ap-
plicandolo alla dialettica interna all’amore per un’unica donna (vedi sopra, nota
23).
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Stabile 2007a: 45-46: «operando il regresso occhio-cristallo-acqua, Dante
giunge ad enunciare la serie primordiale di quell’evento (splendore solare-acqua-
fuoco), con ciò connotando, oltre il caso d’amore, un accadimento di portata co-
smica che egli legge – come in uno specchio ustorio o in un globo divinatorio –
negli occhi della donna». Ancora di Stabile s’aggiungano due importanti con-
suntivi: «Teoria della visione come teoria della conoscenza» (1997), e «Sole.
Temi di simbologia in Dante» (1976), entrambi nel volume più volte citato Dante
e la filosofia della natura (Stabile 2007: rispettivamente 9-29 e 329-41).
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
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Vedi ancora al proposito Amor, da che convien, la ‘montanina’, 16-25.
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La si legga ora nell’ed. a cura di Corrado Calenda in I poeti della scuola si-
ciliana, Mondadori (I Meridiani), Milano, 2008: 97-108. Per il topos, rimando an-
cora alle pagine di Stabile 2007a: in particolare 33-44, ricordando in ogni caso
ch’è stato merito di Maggini 1940: 43-44, recensendo la prima edizione del com-
mento di Contini alle Rime (1939), l’aver inteso giustamente i vv. 26-27: «ed
halli un foco acceso /com’acqua per chiarezza fiamma accende», spiegando che
si tratta del fenomeno per il quale l’acqua può suscitare la fiamma concentrando
i raggi solari che l’attraversano, e cioè comportandosi come una lente: a con-
ferma, ha allegato un sonetto di Dino Compagni a un Mastro Giandino, La ‘ntel-
ligenza vostra, amico, è tanta, nel quale, vv. 7-8, si dice come «in mezzo stando
vassei vetrïali, / di sole e d’acqua si trae fiamma alquanta».
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Scrive per esempio Brunetto Latini, Tresor I, 99, Comment nature euvre es
elemens et es autres choses (così l’ed. Beltrami et alii, Einaudi, Torino, 2007:
126; ma l’ed. Carmody, University of California Press, Berkeley and Los Ange-
les, 1948: 82: Comment nature de totes choses fu establie par IIII complexions);
I 100, Coment toutes chosesfurent faites et dou mellement des complexions; I
101, Des III complexions de l’ome et des autres choses, e Tesoretto, 775-810:
«Ancora sono quattro omori / di diversi colori, / che per la lor cagione / fanno la
compressione / d’ogne cosa formare», ecc., ma vedi anche Dante, Convivio, III
VIII, 17, con le note ad loc. di Vasoli (Alighieri 1988: 396-7). Naturalmente, la
teoria implica che un medesimo amore non può essere a tutti comune, perché
ognuno ha una complessione diversa dalle altre, come spiega Guittone: «Esto
amor non è tutti comunale, / perché non sono d’una complessione» (n. 88, ed.
Egidi 1940: 183). Per ciò, vedi Nardi 1967: 114 e 124 sgg.; la voce complessione
di Pasquini 1970; Jacquart – Troupeau 1981: 368-371; Bertini Malgarini 1989:
35-54.
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Tommaso, In De divinis nominibus, cit.: «agentis perfecti est ut agat per
amorem eius quod habet et propter hoc subdit quod pulchrum, quod est Deus, est
causa effectiva et motiva et continens, amore propriae pulchritudinis. Quia enim
propriam pulchritudinem habet, vult eam multiplicare, sicut possibile est, scilicet
per communicationem suae similitudinis. Secundo ait quod pulchrum, quod est
Deus, est finis omnium sicut finalis causa omnium rerum. Omnia enim facta sunt
ut divinam pulchritudinem qualitercumque imitentur. Tertio, est causa
exemplaris, quia omnia distinguuntur secundum pulchrum divinum et huius
signum est quod nullus curat effigiare vel repraesentare, nisi ad pulchrum.
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Deinde, cum dicit: propter quod et cetera, infert quoddam corollarium ex dictis;
et dicit quod, quia tot modis pulchrum est causa omnium, inde est quod bonum
et pulchrum sunt idem, quia omnia desiderant pulchrum et bonum, sicut causam
omnibus modis; et quia nihil est quod non participet pulchro et bono, cum
unumquodque sit pulchrum et bonum secundum propriam formam». Pur senza
appoggiarsi a particolari citazioni di testi, Mario Pazzaglia 1997: 31, ha creduto
di poter sintetizzare così l’atteggiamento di Dante: «nel nostro testo, l’accosta-
mento alla pienezza sostanziale dell’essere è considerato ratione pulchri piuttosto
che ratione bonitatis, come nel trattato [Convivio, con particolare riferimento a
III, II, 6-8], il che comporta un’idea dell’amore come gioia di totale partecipa-
zione all’essere e una sorta di ontologia o, comunque sia, di motivazione fonda-
mentale positiva del sentimento». Debbo aggiungere che tra i tanti testi che si
dovrebbero ricordare spicca, proprio per la parte che ci interessa, anche il De
pulchro et bono di Alberto Magno, ch’è un commento al De divinis nominibus
conservato in un manoscritto napoletano autografo di Tommaso studente a Co-
lonia, e perciò in un primo tempo a lui attribuito dall’editore/scopritore, l’abate
Uccelli: vedine la bella analisi di De Bruyne 1946: III, 161-173, dalla quale molte
appropriate citazioni si potrebbero trarre, specie a proposito della bellezza con-
cepita come la scoperta del valore nella forma, e dunque come ‘verità del bene’
ed emozionante rivelazione della sua perfezione. Su questi temi è importante
anche Eco1998.
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La speciale arguzia del sonetto deriva dal fatto che la risposta non avrebbe
potuto essere questa se si fosse trattato di donne reali, dal momento che era pre-
cetto consolidato che «Nemo duplici potest amore ligari», e che «Novus amor ve-
terem compellit abire», e neppure era ammesso che si potesse nutrire un amore
puro per una donna e un amore «mixtum sive communem» per un’altra: vedi il
De amore del Cappellano (Cappellano 1892: 310-11, a proposito della terza e
della diciassettesima delle regulae amoris), e p. 182 sgg. Per un’analisi più ap-
profondita del sonetto e per la sua probabile collocazione rinvio a Fenzi 1993:
195-199.
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Domenico De Robertis: «Dall’originale intuizione della donna come av-
vento d’amore […] si giunge qui alla proclamazione d’inconoscibilità e ineffa-
bilità, in termini senz’altro di teologia negativa» (nel ‘cappello’ al sonetto, in
Cavalcanti 1986: 16).
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Scrivo vanità e non novità, come si dà dall’ed. Petrocchi in avanti (anche in
quella a cura di Federico Sanguineti) perché, a parità sostanziale delle testimo-
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ENRICO FENZI Una teoria anti-cavalcantiana sulla natura d’amore
nianze manoscritte, credo che vanità risponda esattamente alla connotazione ne-
gativa che l’episodio della ‘donna gentile’ ha nella Vita nova, mentre novità, di
là dall’accezione neutra, in Dante ha spesso pregnante valore positivo (a comin-
ciare dalla Vita nova, s’intende). Per più diffuse considerazioni in merito, rimando
a Fenzi 1994: 198-9.
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Penso alla «carne sepolta», che immagino abbia autorizzato Petrarca ad ana-
loga crudezza nelle ’rime in morte’, ove Laura fatta terra non «giunge osso a
nervo» (Rvf 319, 8).
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