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Dante nacque a Firenze nel 1265, aveva condizioni economiche poco agiate ma poté assicurarsi una raffinata

educazione in giovane età. Nel XV canto dell'Inferno, presenta una grande devozione nei confronti di Brunetto Latini
come suo maestro. Può essere che da lui abbia appreso la retorica direttamente, cioè l'arte del ben parlare dello
scrivere elegante; come può essere che abbia tratto solo esempio dalle sue opere retoriche. Accanto agli interessi
filosofici scientifici, si manifestò la vocazione alla poesia come egli stesso scrive "l'arte di dire parole per rima",
leggendo i poeti provenzali, i Siciliani, Guittone, Guinizzelli, con l'influenza dell'amico Cavalcanti. La sua esperienza si
raccoglie intorno alla figura di una donna, Beatrice, che resterà poi al centro del suo percorso letterario successivo.
La morte di Beatrice nel 1290, Segna per Dante un periodo di smarrimento che ha come conseguenza l'uscita dal
mondo chiuso dello stilnovismo e lo stabilimento di un rapporto con la realtà della vita civile e politica. Per trovare
conforto si dà agli studi filosofici, e dice lui stesso che l'amore della filosofia "cacciava e distruggeva ogni altro
pensiero". Approfondisce la sua cultura poetica leggendo poeti Latini, in particolare Virgilio, che considera il suo
maestro e il suo autore. E scoprì i grandi poeti provenzali e si accosta anche la poesia comica realistica.

Nel 1293 Giano Della Bella, con i suoi ordinamenti di giustizia, aveva escluso la nobiltà Fiorentina dalle cariche
pubbliche. Nel 1295 il provvedimento fu poi attenuato e fu consentito ai nobili di ricoprire cariche pubbliche, purché
fossero iscritti ad una corporazione. Da dentro nell'arte dei medici e Speziali, poiché la filosofia e scienze naturali
erano strettamente legate. Ricoprì varie cariche finché nel 1300 fu eletto tra i Priori, la suprema magistratura
cittadina. Quello era un periodo difficile per il comune Fiorentino, lacerato tra i Guelfi bianchi e i Guelfi neri e papa
Bonifacio VIII. I Guelfi Bianchi supportavano le forze popolari, non condividevano l'indipendenza politica e volevano
un'autonomia dal pontefice. I Guelfi neri erano le famiglie ricche, legati al Papa per questioni economiche. Il papa
voleva imporre il dominio della chiesa sulla Toscana. Dante si adoperò con ogni mezzo per ristabilire la Concordia fra
i cittadini e per contrastare i maneggi del Papa, fu più vicino ai bianchi che difendevano la libertà di Firenze mentre i
neri appoggiamo sempre più scopertamente la politica di Bonifacio. Carlo di valois, un inviato Pontificio, mandato
con il pretesto di far da paciere tra le due fazioni, favorì i neri, che nel 1301 si impadronirono di Firenze e,
scatenarono le persecuzioni contro i bianchi. Dante in quel periodo non si trova a Firenze perché era stato invitato a
Roma con Ambasciatore. Probabilmente sulla strada del ritorno a Siena nel 1302 fu condannato all'esilio con
l'accusa di baratteria, cioè di corruzione. Non essendosi presentato per discolparsi, due mesi dopo un'altra sentenza
della condanna al rogo.

Nei primi tempi Dante non rinunciò alla speranza di tornare in patria e si unì agli altri esuli Bianchi. Ma dopo un
tentativo di rientrare con la forza, fallito miseramente, lasciò i suoi compagni di esilio definiti malvagi e stolti. Ebbe
inizio il suo peregrinare per varie regioni italiane. Soffriva dell'umiliante condizione di dover ricorrere alla generosità
altrui per vivere, a Firenze rivolgeva sempre il pensiero e la nostalgia, che affiora frequentemente nelle sue opere.
Accarezzava così il sogno di tornare ai luoghi dove aveva trascorso la sua infanzia, non solo per essere riscattato da
ogni accusa infamante ma anche per ricevere il giusto riconoscimento del suo valore di poeta e studioso. Girando
per l'Italia conobbe il suo volto politico, vide che la chiesa era corrotta e i suoi membri invece di guidare il loro
gregge si trasformano in lupi Rapaci: questo spettacolo induceva al ricercare la causa che aveva fatto degenerare il
mondo. credette di individuarlo nell'assenza di un imperatore che si ponesse come supremo regolatore della vita
civile, facendo rispettare le leggi ed obbligando la chiesa a tornare alla sua missione spirituale. Fu convinto di essere
investito da Dio nella missione di indicare l'umanità alle cause della sua degradazione e di condurla sulla via del
riscatto. Da questa vocazione nacque il disegno della commedia, alla quale lavorò per tutti gli anni di esilio. il suo
sogno di una restaurazione del potere Imperiale sembrò di tradursi in realtà nel 1310: il nuovo imperatore Enrico VII
di Lussemburgo, scese in Italia per essere Incoronato, con il consenso del Papa Clemente V. le sue illusioni di
ricostruzione del potere Imperiale svanirono davanti alla condotta ambigua del papa che tramava contro
l'imperatore, e davanti alla morte di Enrico VII. Erano tramontate le ultime speranze di un ritorno in patria, visse gli
ultimi anni a Ravenna, dove morì circondato ormai dalla sua fama di altissimo poeta il 14 settembre del 1321.

La vita nova

Firenze ai tempi era un ambiente culturale molto ricco in cui c’erano molte tendenze poetiche, e Dante si da presto
alla poesia. Tra i vari indirizzi culturali sceglie i più ardui e raffinati orientandosi verso la lirica d’amore cortese. Le
sue prime prove riprendono il modello guittoniano con un linguaggio difficile. Ma poi subentra l’amicizia con Guido
Cavalcanti e nasce quel gruppo di eletti, che viene designato con la formula di dolce stil novo. La svolta implica
l’adozione di uno stile diverso da quello guittoniano, per cui la sintassi e il ritmo si fanno più scorrevoli, i temi
subiscono l’influenza di Cavalcati, per cui si soffermano sul motivo dell’amore come tormento e sofferenza e
sull’analisi esclusiva dell’io sofferente. Dante ben presto se ne libera e si distacca dallo stilnovismo precedente, una
svolta comprensibile dalla descrizione che ne da Dante stesso nella vita nova. Dopo la morte di beatrice Dante
raccoglie le liriche più significative del tempo facendole precedere da un commento in prosa che spieghi l’occasione
da cui i singoli componimenti erano nati, e facendole seguire da un commento retorico: nasce così un prosimetro,
un componimento misto di prosa e versi. La prosa dantesca serve per individuare nelle poesie un senso profondo e
unitario, lo svolgimento di una decisiva vicenda interiore. L’opera viene intitolata vita nova per indicare il
rinnovamento spirituale da un amore sublime.

Dante narra di aver incontrato Beatrice all’età di nove anni e lì amore era diventato signore del suo animo. Dopo
nove anni incontra ancora Beatrice e al suo saluto raggiunge il massimo della beatitudine. Al saluto connette l’idea
di salute, cioè salvezza, ovvero la beatitudine celeste. Da qui il saluto della gentilissima è dove ripone la sua felicità.
Continua sull’onda cortese nel nascondere l’identità della donna amata, perciò finge di rivolgere il suo amore ad
altre donne “dello schermo”. Questo provoca lo sdegno di Beatrice che gli nega il saluto. Questo scatena nel poeta
una profonda sofferenza che ricorrerà all’utilizzo del modello cavalcantiano, imperniato sui tormenti dell’amore. Il
fine del suo amore non deve essere più nel saluto, ma nelle parole che lodano la sua donna. Qui si dà alla materia
più nobile della precedente, cioè la lode della gentilissima. Questa è la sezione centrale dell’opera di lode a Beatrice
(di nome Bice ma da lui chiamata così). Poi durante una malattia ha una visione che preannuncia la morte della
donna che si avvera poco tempo dopo. Per il poeta trascorrono giorni di grande dolore e trova lo sguardo negli occhi
di una donna gentile. È tentato di intraprendere un nuovo amore ma un’altra visione lo porta a ripensare a Beatrice
e ad averne un’altra sull’Empireo dove Beatrice si mostrava nella gloria del paradiso. Questo è l’argomento
dell’ultima poesia del libro, oltre la spera che più larga gira. Nell’ultimo capitolo narra di aver avuto un’altra visione
che lo induce a non parlare più della gentilissima finché non ne sarebbe stato degno. Si augura perciò di poter vivere
abbastanza per dire di lei ciò che nessun’altro aveva detto.

La vita nova è quindi una ricapitolazione dell’esperienza passata e nello stesso tempo una ricostruzione del suo
significato profondo: un’esperienza sentimentale e intellettuale insieme, di vita e di poesia, unite così tra loro da non
potersi distinguere. Si pensa che sia autobiografico o una trascrizione di idee e sentimenti. Ma in realtà è la raccolta
di esperienze reali, ma Dante mira soprattutto a cogliere i significati segreti che stanno al di là di esse e a metterli
insieme in una vicenda esemplare e universale. Per questo è impossibile leggere l’opera in chiave moderna
semplicemente come romanzo psicologico. Si ha l’impressione di un mondo diverso da quello reale, infatti sono
inseriti anche sogni e visioni.

È suddiviso in tre parti, la prima che parla degli effetti che l’amore produce sull’amante, nella seconda si ha la lode
della donna, nella terza la morte della donna amata. Si hanno quindi tre stadi diversi dell’amore: il primo in cui si
riconoscono le caratteristiche dell’amore cortese secondo cui chi ama riceve una ricompensa al suo amore da parte
della donna, designata nel saluto. La negazione di questa ricompensa fa scoprire che la felicità deriva da un
appagamento interno, dalle parole dette in lode della sua donna. Questo è il secondo stadio dell’amore in cui non
ama più la donna per avere qualcosa in cambio, ma l’amore diviene fine a sé stesso e l’appagamento deriva dal
contemplare e lodare la creatura altissima. Nel XXIV canto del purgatorio afferma che nella canzone Donne ch’avete
intelletto d’amore, che è prodotto di tale scoperta, dà inizio a delle nuove rime che, come ha indicato lo studioso
americano Charles Singleton, questo modo di intendere l’amore ha una stretta affinità con la visione dell’amore
mistico dei beati in cielo, che trova la sua beatitudine nella contemplazione di Dio. L’amore per Beatrice si è quindi
innalzato ad un livello ben superiore a quello cortese, non è più una passione terrena, muove tutto l’universo e
innalza le creature per ricongiungersi con Dio. Vengono superati anche i termini dello Stilnovismo precedente,
prima il processo ascendente si arrestava alla donna, al di sopra della quale non vi poteva essere nulla. Quindi si
scatenava un conflitto tra l’amore per la donna e l’amore per Dio, che in Dante viene superato, per cui il processo
ascendente torna a Dio tramite la donna. L’amore per la donna innalza l’anima sino al cielo, e questo è il terzo
stadio dell’amore della vita nova, identificabile nell’ultimo sonetto dell’opera, oltre la spera che più larga gira, in cui
Amore consente al poeta di contemplare beatrice nel empireo. La vita nova dunque narra un’esperienza mistica. E
nel proposito che chiude l’opera di dire un giorno di Beatrice quello che non fu mai detto di nessun’altra è da vedere
come l’inizio della nascita in Dante dei lineamenti della commedia, ma il passaggio dall’uno all’altro non è
immediato, in mezzo infatti si pongono esperienze filosofiche e politiche.
Le rime

Le rime è una raccolta di moderni curatori del complesso della produzione lirica dantesca, dalle prove giovanili fino a
quelle dell’età matura. Dopo la vita nova, Dante intraprende altre strade nella produzione poetica. Nel convivio
racconta come dopo la morte di Beatrice, fosse sorta in lui una passione ardente per la filosofia. Da questo nuovo
amore nascono canzoni indirizzate a una donna gentile, dietro la quale si cela però sempre la filosofia. Due di queste
canzoni, voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete e Amore che ne la mente mi ragiona, saranno commentate nel
convivio nel periodo dell’esilio. Già dalla terza canzone del convivio, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, affronta
direttamente la materia concettuale, passando a trattare problemi morali, ovvero la definizione della vera nobiltà.
Lascia le dolci rime d’amore usate un tempo e inizia l’uso della rima aspra e sottile, che espone concetti crudi. Poscia
c’amor del tutto m’ha lasciato, in cui il tema trattato tornerà nella commedia, ovvero quello della dura condanna alla
propria epoca che ha abbandonato le virtù cortesi del passato. Dante affronta problemi vivi nella società del suo
tempo assumendo la posizione del difensore dei valori del passato contro la corruzione del presente. Si manifesta la
sua rigorosa tempra morale che soppianta il poeta d’amore con l’austero cantore rectitudinis, ovvero cantore della
virtù. Nella svolta giocò un ruolo fondamentale la scoperta della politica che suggerì al poeta ideali di vita attiva e di
impegno civile ispirato al rigore morale.

Il periodo tra la morte di Beatrice e l’esilio è un periodo di intense sperimentazioni, in cui dante si allontana dalle
canzoni allegoriche e morali e si dedica alla poesia comica burlesca, viva nella cultura dell’epoca. Il documento che
testimonia questo interesse è a tenzone con l’amico Forense Donati. Tenzone nell’uso poetico del tempo significa
disputa contesa: quella con Donati è costituita da uno scambio di sonetti pieno di scherzose invettive, in cui Dante ha
un primo approccio con il linguaggio basso e plebeo, con rimandi alle realtà quotidiane e materiali, ma impiegate con
estrema abilità tecnica. Si tratta di un linguaggio che gli servirà in seguito per passare dal basso degrado dell’inferno.
Contemporaneamente conosce la poesia trobadorica del periodo di maggior splendore, di cui apprezza soprattutto
Arnaut Daniel, caposcuola del trobar clus, una maniera poetica elaborata e difficile. Da qui nasce il gruppo delle rime
petrose dedicate alla madonna Pietra, bella e insensibile. Non si sa se si tratti di una donna reale o di una
personificazione allegorica forse ancora della filosofia. In queste rime si riversa una passione sensuale, dalla forte
carica erotica, con modi estremamente preziosi, in antitesi allo stile dolce di un tempo, secondo il modello del
poetare chiuso. Nelle rime scritte dopo l’esilio spicca la canzone allegorica tre donne incontro al cor mi son venute,
dedicata alla giustizia, in cui è incisivamente affermata la dignità dell’esule innocente, per il quale è un dono l’esilio
come testimonianza della sua purezza d’animo in un mondo i cui valori sono stravolti. In questi anni la visione di
Dante si fa sempre più cupa: il mondo ai suoi occhi pare sprofondare in una totale degradazione. Perciò nel sonetto
se vedi li occhi miei pianger vaghi eleva a Dio una preghiera affinché ristabilisca la giustizia in Terra. È questo il nodo
di sentimenti e di concetti che in questi anni si esprime anche nella Commedia: un intenso desiderio di pace e
giustizia che disponga il mondo umano secondo il volere divino. Dal vedere una realtà rovesciata nascono gli sdegni e
le ire di Dante: nella canzone Doglia mi reca egli si scaglia contro l’avarizia e il culto del denaro che ormai dominano il
mondo e usa un tono polemico.

Il convivio

Nel convivio Dante espone le teorie e dottrine ed è frutto degli studi filosofici e dell’allargamento d’orizzonti
prodotto con l’esperienza politica. Dante voleva dimostrare la propria sapienza, per difendere la propria fama dalle
accuse dei concittadini che l’avevano esiliato. Doveva comprendere quindici trattati, il primo introduttivo per
spiegare le ragioni dell’opera, gli altri erano dei commenti per altre canzoni, interpretate allegoricamente. Viene in
certo modo ripresa la struttura della Vita nova, cioè una serie di poesie inserite in un commento in prosa, ma non è
una narrazione di un’esperienza soggettiva, bensì l’esposizione di dottrine e concetti: l’amore di cui parla Dante è
solo quello per la sapienza. Subentra anche un impegno con la realtà morale e civile al posto del percorso mistico
individuale, e si apre ad un pubblico più largo e si propone con il compito di promozione culturale dei lettori. Il
progetto non fu portato a termine. Furono composti solo i primi quattro trattati, in cui venivano commentate tre
canzoni, “voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete”, “Amor che ne la mente mi ragiona”, “le dolci rime d’amor ch’i’
solia”. L’interruzione è dovuta probabilmente al delinearsi nella mente di Dante, del disegno della Commedia. In
seguito la fiducia nel pensiero umano viene sostituita dall’umiltà, che propone l’avvalersi della guida divina. Per
questo nella Commedia è presente la figura di Beatrice come donna gloriosa.

Nel trattato introduttivo, espone le ragioni e gli scopi dell’opera. Come annuncia il titolo, Dante vuole offrire un
banchetto di sapienza, ma non ai dotti, ma a coloro che, per motivi vari, non hanno potuto dedicarsi agli studi, pur
essendo dotati di spirito gentile, cioè elevato e virtuoso. Per questo non scrive in latino ma in volgare, e pronuncia
un’appassionata esaltazione della lingua volgare, proclamando che la sua dignità è pari a quella del Latino. Il pubblico
a cui si rivolge il libro è comunque di elevata condizione, non per il pubblico popolare. Si può notare che il pubblico a
cui Dante mira quindi non sia quello degli uomini di Chiesa, ma neppure quello borghese e cittadino. Dante vuole
parlare ad un pubblico nobile, di una nobiltà che può essere di nascita ma anche solo spirituale e morale. Che sia
capace di rivolgersi alla cultura in forma disinteressata, e non con il pensiero del guadagno. Questa nuova
aristocrazia dovrà essere messa in contrapposizione con la borghesia mercantile e bancaria cittadina, avida e
corrotta, e costituirà la nuova classe dirigente, che richiama l’umanità alla diritta via.

Nel secondo trattato Dante spiega il metodo che seguirà nel commento delle proprie canzoni, un metodo di lettura
allegorico. Distingue quattro sensi delle scritture: letterale, allegorico (verità nascosta sotto la veste poetica), morale
(insegnamento morale al lettore) anagogico (che allude alla realtà di Dio). Passando a commentare la prima canzone,
offre una descrizione dei cieli e delle gerarchie angeliche da cui essi sono governati, in cui si può vedere la struttura
alla base del Paradiso. Il III trattato è un inno alla sapienza, che per Dante è la somma perfezione dell’uomo. Vi tocca
il culmine dell’entusiasmo filosofico, quel culto dell’intelligenza e del sapere che anima tutta l’opera, e che sarà uno
dei filoni poetici principali della commedia.

Nel IV trattato affronta il problema della vera nobiltà. Confutando la tesi dell’imperatore Federico II, Dante sostiene
che la nobiltà non è solo privilegio di nascita, ma conquista personale attraverso l’esercizio della virtù. In questo libro
troviamo la prima enunciazione della teoria politica di Dante, incentrata sulla necessità di un impero universale,
spiegata nella Monarchia.

La prosa volgare del convivio è diversa da quella della vita nova, non ha uno slancio mistico, ma è una prosa costruita
per il ragionamento e l’argomentazione. Si riprende volontariamente il modello degli scrittori latini, con una
proposizione principale da cui dipendono delle subordinate, da qui il periodare complesso. Il convivio per questo
viene considerato la prima vera prosa volgare italiana.

De vulgari eloquentia

Il de vulgari eloquentia è stato scritto nello stesso periodo del Convivio e ne riprende ed ampia il discorso sulla
dignità del volgare. È un trattato di retorica che fissa le norme per l'uso della lingua volgare. con la sistemazione
teorica dantesca si conclude il processo di affermazione del volgare come lingua della cultura che si era svolto lungo
tutto il corso del Duecento. L'obiettivo della trattazione di Dante è la lingua letteraria, non la lingua dell’uso comune;
più precisamente un determinato livello di tale lingua quello più elevato e sublime. Scritte in latino e quindi destinata
esclusivamente ai Dotti, l'opera doveva comprendere almeno quattro libri, ma rimase interrotta a metà circa del
secondo. Il primo libro Imposta il problema del volgare illustre, cioè della formazione di un linguaggio adatto ad uno
stile sublime, che tratti argomenti elevati ed importanti. La retorica medievale dava importanza alla distinzione degli
stili a seconda della materia trattata, classificava uno stile sublime o tragico, uno mezzano o comico, ed uno umile o
elegiaco. Il volgare illustre, destinato a livello più alto di stile secondo Dante deve essere Cardinale, Nel senso che
esso è il cardine intorno a cui devono ruotare tutti i volgari delle città, Aulico, perché se gli italiani avessero La Reggia
esso sarebbe proprio del palazzo reale, curiale, perché risponde a quelle esigenze di eleganza e dignità che si
possono avere solo nelle corti. Gli italiani non hanno una corte perché non c'è un monarca, ma ne esistono le
membra, rappresentate dagli uomini di cultura sparsi per tutto il suolo italiano. Dante traccia una storia del
linguaggio e poi passa in rassegna tutti i dialetti dell'Italia alla ricerca di quel volgare illustre, ma non riesce a
rintracciare in alcune di esse. L'elaborazione del volgare illustre quindi toccherà a quelle membra della corte che
sono sparse in Italia cioè ai letterari adotti. Nel secondo libro sono definiti invece gli argomenti per i quali occorre lo
stile più alto ovvero quello tragico: e sono per Dante le armi, l'amore, la virtù. La forma poetica in cui si deve
concretare quello stile è la canzone, la forma illustre e consacrata da una tradizione più lunga. Mentre nella vita nova
afferma che solo gli argomenti Amorosi potevano essere trattati in volgare, nel de vulgari eloquentia ammette anche
gli argomenti epico Guerreschi e quelli morali. Per ora Dante Fissa la sua attenzione esclusivamente sullo stile
sublime, ma non per nulla il Trattato è interrotto: è l'indizio che già sta maturando in Dante il disegno della
commedia, un'opera in cui lo stile non è più tragico, ma comico, in cui possano trovare posto tutte le infinite
manifestazioni e dalla realtà, dalla bassezza dell'inferno alla gloriosa luminosità del paradiso

La monarchia

La costruzione della commedia è affiancata da un intenso lavoro di riflessione politica che mette le fondamenta per il
concetto del poema. Tale riflessione prende forma nel trattato De monarchia.

La monarchia non è un’opera astrattamente teorica, ma affonda le radici nella realtà contemporanea. All’inizio del
trecento si era verificato un rapido logoramento delle due massime istituzioni del Medioevo, l’impero e la chiesa: il
primo aveva preso il controllo sull’Italia, la seconda aveva cercato di colmare il vuoto politico, ma aveva perso il suo
carattere spirituale. In questo momento Dante individua le cause della degradazione dell’umanità, che è privata della
guida temporale e spirituale. Già nel convivio aveva tracciato il disegno di una restaurazione dell’autorità imperiale
che riportasse la pace, la giustizia, il rispetto delle leggi. Questa aspirazione divenne realtà con la discesa in Italia del
nuovo imperatore Enrico VII di Lussemburgo.

Sotto lo stimolo di questo evento nasce il De monarchia, scritto in latino, rivolto quindi a un pubblico di dotti, è
l’opera dottrinale più organica di Dante, l’unica completa. È suddivisa in tre libri. Nel primo si dimostra la necessità di
una monarchia universale, cioè di un imperatore al di sopra di tutti i regnanti, che sia supremo arbitro nelle contese.
Il secondo dimostra come l’autorità imperiale sia stata concessa da Dio nel suo disegno provvidenziale al popolo
romano, che ebbe come compito di unificare e pacificare il mondo per renderlo adatto ad accogliere il messaggio di
Cristo. Il terzo libro affronta il tema più importante dei rapporti tra impero e chiesa. In quegli anni una corrente di
pensiero sosteneva che il potere supremo era quello imperiale e che quello del papa derivava da esso. Un’altra
corrente pensava l’esatto opposto. Dante afferma che i due poteri sono autonomi perché derivano entrambi da Dio,
per cui il loro rapporto non è come tra sole e luna in cui uno brilla e l’altro riflette, ma tra due soli. La loro sfera
d’azione è divisa, l’impero ha come fine la felicità dell’uomo, la chiesa il raggiungimento della beatitudine eterna. La
loro azione è però complementare in quanto senza l’uno non potrebbe esserci il compimento dell’altro. La
costruzione concettuale di Dante era grandiosa ma in un periodo in cui si era verificata la lacerazione dei due poteri
universali. Questo ha portato la costruzione a essere ridotta a un’utopia regressiva, ovvero tendente a portare il
passato. Questo sogno di un’impossibile restaurazione delle istituzioni e dei valori del passato doveva scaturire la
straordinaria costruzione poetica della commedia.

Le epistole

Di Dante ci sono giunte tredici lettere scritte in latino. Si tratta di lettere ufficiali composte in uno stile estremamente
elaborato, ricco di artifici retorici e di riferimenti dotti ai classici Latini ed alla Bibbia. Le più interessanti sono quelle in
cui Esprime il suo pensiero e la passione politica. L'epistola undicesima contiene un solenne rimprovero cardinali
italiani, responsabili di aver trasferito, sotto la spinta dell'avidità, la sede Papale ad Avignone. Torna spesso il senso
della negatività dei tempi e la fermata coscienza di una missione profetica da esercitare. All’atmosfera della
commedia si collega l'epistola all'amico Fiorentino, in cui Dante rifiuta la possibilità di ritornare a Firenze al prezzo di
una sottomissione umiliante, cioè la missione della propria colpevolezza. un'altra collegata al poema è l'epistola a
Cangrande della Scala, in cui è contenuta la dedica del paradiso al signore di Verona, che era stato generoso con il
poeta. Contiene fondamentali indicazioni per la lettura del poema: Il soggetto, che è la condizione delle anime dopo
la morte; la pluralità dei sensi, letterale, allegorico, morale, anagogico; il titolo, che deriva dal fatto che L'inizio è
aspro e luttuoso e la fine è lieta; la finalità dell'Opera, che non è solo speculativa, ma pratica, per togliere dallo Stato
di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità.

La commedia

La commedia nasce da una visione cupa della realtà presente e dalla ansiosa speranza di un riscatto futuro. Dante
vede davanti a sé un mondo caotico e violento e corrotto, in cui l’ordine di Dio per la pace è sconvolto. L’imperatore
dimentica la sua funzione di supremo arbitro della vita civile e trascura di esercitare la sua autorità sull’Italia, che
diventa indomita e selvaggia. La chiesa pensa solo alla potenza politica cercando di sostituirsi all’imperatore, ma così
accresce solo il caos e contribuisce alla sua corruzione nella ricerca dei beni terreni. Si scatena negli uomini la volontà
di sopraffarsi a vicenda, da qui nascono i conflitti tra i partiti e le infinite lotte civili. Si scatena anche un’avidità di
denaro da parte della gente nova, una nuova classe sociale che spesso ha addosso il puzzo della campagna da cui
viene, chiamata aristocrazie mercantile. Di conseguenza l’antica nobiltà feudale è calpestata e oppressa. Guarda
questa crisi contemporanea dal punto di vista del passato, per cui per lui la crisi non segna semplicemente il
passaggio da un mondo vecchio a un mondo nuovo, ma è la fine del mondo. Nella sua prospettiva apocalittica la
punizione divina non può tardare, le forze del male saranno battute da un inviato di Dio che riporterà l’ordine sulla
Terra. Dante pensa di essere stato investito da Dio della missione di indicare all’umanità la via della rigenerazione e
della salvezza, per questo deve compiere il viaggio nei tre regni dell’oltretomba, esplorando il male dell’inferno,
trovando la purificazione nel purgatorio, e salendo in cielo fino alla visione di Dio. Tutto questo dovrà poi ripeterlo
agli uomini con il suo poema, in modo che essi possano vedere la diritta via che hanno smarrito. È il terzo ad aver
compiuto da vivo il viaggio nell’oltretomba, dopo Enea e San Paolo. La sua missione è messa a fianco delle loro
perché deve indicare la via della rigenerazione dell’impero e della chiesa da cui dipende la salvezza dell’umanità. La
commedia quindi nasce da questo complesso di ragioni politiche e religiose e assume un carattere di messaggio
profetico, per cui Dante assume veramente l’atteggiamento del profeta biblico, che proferisce oscuri messaggi sul
futuro dell’umanità, invoca castighi divini e presenta una prospettiva del riscatto. Il viaggio dunque è la storia della
redenzione personale di Dante, come individuo particolare, che rappresenta anche tutta l’umanità, che deve prima
raggiungere la felicità in terra e poi la salvezza eterna.

Dalle testimonianze di cui disponiamo possiamo dire che nel 1319 l’inferno e il purgatorio erano pubblicati e il
paradiso comparve postumo, poiché vi si dedicò negli ultimi anni di vita. Dante mise a frutto tutti gli strumenti che gli
forniva la cultura del suo tempo. Adottò lo schema della visione dei regni oltremondani, delle pene dell’inferno e
delle gioie del paradiso, di cui la tradizione medievale era ricca. L’opera si collegava anche al genere del poema
allegorico, consacrato soprattutto dall’esempio del roman de la rose. Una tradizione del genere era particolarmente
diffusa nell’ambiente fiorentino, come testimoniano il poema anonimo l’intelligenza e il fiore. Non è estraneo poi
l’apporto della letteratura didattico-enciclopedica, viva a Firenze, che deriva dal fatto che Dante considerava maestro
Brunetto Latini, autore di Tresor e tesoretto. Inoltre lo schema del viaggio rimanda al romanzo cavalleresco del ciclo
bretone. La letteratura mistica presentata come ascesa a dio era un viaggio, un esempio è il viaggio nella mente di
Dio di San Bonaventura, sotterraneamente presente nel disegno della Vita nova. Poi c’è l’influenza dei libri profetici
della Bibbia e l’apocalisse di Giovanni, da cui trae ispirazione per dare il tono apocalittico profetico al suo messaggio.
D’altro lato agisce potentemente soprattutto per i primi canti dell’Inferno, in cui prende spunto dal modello classico
della discesa di enea negli inferi nel IV libro dell’Eneide, da cui sono presi nomi, immagini di luoghi e figure.
Nonostante queste influenze, la commedia appare come un’opera di assoluta originalità, perché mentre tutti i generi
in uso a quel tempo si possono trovare molti esempi, il poema dantesco è l’unico nel panorama della sua epoca, non
esiste opera simile. Non solo per i temi e la struttura, ma anche per lo stile e la straordinaria abilità narrativa.

La base filosofica del poema è costituita dalla Scolastica e soprattutto da san Tommaso d’Aquino, che aveva
compiuto un’opera di fusione tra la filosofia aristotelica e il cristianesimo. Si possono trovare rimandi precisi nel
Paradiso a luoghi delle opere di San Tommaso. Il poema dantesco si può considerare un equivalente in versi e in
volgare delle grandi Summae del Medioevo, con un sistema armonico concettuale in cui si trovava collocazione a
ogni minima creazione del creato. Dante a differenza dei teologi che volevano spiegare concettualmente il mondo,
vuole trasformarlo in obbedienza alla missione profetica. Nel poema però non confluisce solo il filone nazionalistico
del pensiero medievale, che mirava a fondare la fede su basi razionali, basato sul principio capire per credere. Vi
confluisce anche il filone mistico, che si rifaceva a Sant’Agostino, e concepiva l’ascesa a Dio non come un percorso
intellettuale, ma come slancio d’amore. Dante utilizza sia Tommaso che Agostino e subisce anche un’influenza dai
grandi mistici medievali. Non a caso nel cielo del Sole si trovano accanto i due rappresentanti dei filoni razionalistico
e mistico. E l’ultima guida di Dante sarà San Bernardo.

La visione del mondo di Dante è sorretta da tutto il lavoro teologico e filosofico del Medioevo ed è caratterizzata da
una sua incrollabile fede nel possesso della verità. Dante ritiene che nella conoscenza risieda la perfezione della
natura umana, e proprio con questo concetto apre il Convivio. Ma la conoscenza per lui non è esplorazione
dell’ignoto, ma è adeguazione ad un patrimonio di nozioni già dato una volta per tutte. Per questo Dante condanna il
viaggio di Ulisse che è animato da un eccessivo orgoglio per le forze dell’ingegno umano, che hanno spinto l’eroe al
di là dei limiti segnati da Dio. A questo contrappone il suo viaggio, compiuto con la consacrazione di un’investitura
divina e con la guida della rivelazione. Per questa certezza del possesso della verità, l’universo di Dante appare retto
da un ordine regolato perfettamente dalla volontà divina, in cui ogni elemento ha un suo scopo. Grazie a questo
Dante può osare di mettere nel suo poema tutti gli aspetti della realtà, dai più ignobili e plebei ai più elevati e
spirituali. Dante non teme di accostare nella stessa opera elementi così in contrapposizione perché nell’ordine divino
tutto ha un suo posto e un suo senso, e il poema che riproduce questo ordine può registrare tutto senza esclusioni.
La visione di Dante è caratterizzata da una concezione dogmatica della conoscenza, ma per altri aspetti anticipa già le
tendenze che saranno proprie della cultura dell’epoca successiva. Riprendendo l’esempio della critica al viaggio di
Ulisse, il so ardore di conoscenza gli appare nobile, in quanto in Ulisse si riflesse la dignità dell’umanità antica che,
pur non avendo il supporto della Rivelazione divina, ha saputo raggiungere un livello altissimo di conoscenza. Questa
ammirazione per il mondo antico si riflette anche nella scelta di Virgilio come guida, poiché un poeta classico
rappresenta al massimo la ragione umana nella sua più alta espressione. Per questo si parla di pre-umanesimo di
Dante. È vero però che Dante preannuncia un clima culturale che verrà, ma fa sempre parte dell’epoca Medievale, di
cui l’Umanesimo è la prima manifestazione. La prova migliore è che non vi è ancora quel senso di una frattura
rispetto al mondo antico, che invece negli umanisti farà nascere il bisogno di ricostruire quel mondo nella fisionomia
autentica. Per quanto Dante veneri Virgilio, questo appare del tutto assimilato alla mentalità medievale, cioè si
presenta con la fisionomia di grande sapiente che glia aveva conferito il Medioevo. Dante legge l’Eneide secondo
schemi del tutto medievali e in chiave allegorica. Inoltre la visione dogmatica di Dante è lontana da quella degli
umanisti che esaltano la libera ricerca personale della verità.

Nel convivio Dante distingue un’allegoria dei poeti e un’allegoria dei teologi. Nel primo caso il piano letterale è una
pura finzione sotto cui si nasconde una verità; nel secondo caso il piano letterale è vero, è un evento reale e storico
che rimanda a significati ulteriori. Così infatti si leggeva abitualmente nel Medioevo la Bibbia, che racconta fatti
realmente accaduti ma nel disegno di Dio questi assumono altri significati. Una lunga tradizione Medievale
distingueva tre livello di senso ulteriori a quello letterale: l’allegorico vero e proprio che comprende le verità generali
sulla dottrina; quello morale da cui si ricavano insegnamenti per la condotta; quello anagogico, che allude al piano
trascendente di Dio. Dante specifica che nell’interpretazione delle sue canzoni intende seguire l’allegoria dei poeti
nel convivio: infatti la donna da lui cantata è pura finzione letteraria, sotto cui si nasconde la Filosofia. Ma nella
Commedia la situazione è differente, come si evince nell’epistola a cangrande, dove fornisce le chiavi di
interpretazione del poema e riprende la distinzione dal senso letterale da quello allegorico, ma dà un esempio tratto
dalla Bibbia: il salmo della fuga degli Ebrei dall’Egitto, che in sé è il significato letterale, ma come senso allegorico ha
la redenzione dell’umanità per opera di Cristo. Il fatto che l’esempio sia tratto dalla bibbia indica che Dante ritiene
che l’allegoria della Commedia è quella dei teologi. Il suo poema va quindi letto come si leggono le sacre scritture: ciò
che narra non è finzione ma verità storica realmente accaduta. Non vi agisce una pura astrazione, la madonna
Filosofia, ma un uomo reale, Dante, a cui fanno da guida un Virgilio storico, una Beatrice storica e un Bernardo
storco. Virgilio, Beatrice, Catone hanno sì un significato allegorico, rispettivamente di ragione, teologia e libertà, ma
questo significato non intacca la loro fisionomia individuale di persona realmente esistita.

Il carattere reale e storico del poema rimanda alla concezione figurale del Medioevo, che concepiva la storia come
una catena di eventi non terreni ma in continua relazione con un piano divino. In questo disegno divino ogni fatto
poteva essere visto come un anticipazioni di altri fatti futuri. Così veniva letta la bibbia: ad esempio Mosè che salva
gli Ebrei dall’Egitto, considerata la “figura”, era considerato come profezia di cristo che salva l’umanità dal peccato,
considerato “adempimento”. Allo stesso modo il sacrificio di Isacco con quello di Cristo. In questa concezioni,
entrambe sono persone o eventi reali, non allegorie. Non significano un concetto astratto, ma preannunciano
un’altra persona reale che è Cristo. Nella “figura” significante e significato sono storici e reali, nell’allegoria il
significante può essere storico, ma il significato è sempre astratto. Ma una non esclude l’altra perciò sia allegoria che
figurale sono presenti nel mondo medievale. I personaggi della commedia nella loro esistenza terrena erano la figura
dell’adempimento che sono nella loro vita nell’aldilà. L’esistenza dell’individuo nella vita terrena ha qualcosa di
provvisorio e imperfetto, che si completa solo quando viene collocato eternamente nel sistema delle pene e delle
beatitudini. Ciò dimostra il potente realismo della rappresentazione dantesca, la condizione eterna in cui i
personaggi si trovano essendo l’adempimento della loro figura terrena non cancella la loro personalità, ma la
potenzia al massimo livello le loro qualità individuali. Perciò ciascuno recita il suo dramma con straordinaria densità
e potenza. Nell’aldilà quindi si trasferisce la concreta storicità terrena del personaggio con tutte le sue passioni e le
sue tensioni.
Anche il titolo di commedia fu posto da dante stesso al suo poema in base alle concezioni retoriche medievali,
espresse nel de vulgari eloquentia, che distinguevano tre stili, tragico, comico ed elegiaco. Nell’epistola a cangrande
Dante spiega perché la sua opera appartenga a livello comico: innanzitutto perché ha un inizio doloroso nell’inferno
e un lieto fine nel paradiso, a differenza delle tragedie che hanno struttura opposta. In secondo luogo per lo stile che
è dimesso e umile. Sarebbe errato pensare che Dante definisca umile il suo stile perché il poema è scritto in volgare,
perché nel de vulgari eloquentia abbiamo visto che in Dante pensa che in volgare si possa scrivere in stile tragico. La
considerazione del poema come umile può sembrare sorprendente, in quanto l’argomento (la realtà eterna delle
anime dopo la morte) è dei più sublimi, e anche perché va in contraddizione con i vari punti in cui Dante ha la piena
coscienza dell’altezza della sua opera. La realtà è che Dante propone un nuovo tipo di sublime ispirato alla visione
cristiana della vita che non teme di accogliere in sé aspetti dismessi dal reale, fino a quelli più bassi e ignobili. Alla
base di questa idea c’è la fede in un ordine divino del mondo in cui la realtà ha tutta un senso. Per definire questo
tipo di sublime Dante elabora una formula nuova: “il poema sacro a cui ha posto mano e cielo e terra”, il poema
abbraccia la realtà imperfetta degli uomini e l’eterna verità di Dio, chiudendo il tutto in una salda sintesi.

Nel poema c’è una molteplicità dei piani stilistici e linguistici, per cui la lingua e o stile si innalzano progressivamente
nelle tre cantiche. Si può notare dall’uso di vocaboli diversi per definire lo stesso concetto: nell’inferno Caronte è
“vecchio, nel Purgatorio Catone è “veglio”, nel Paradiso san Bernardo è “sene”. Si passa quindi dal termine più
usuale e corrente a un termine letterario al puro latinismo. In nessuna delle tre cantiche il livello stilistico è unico.
Nell’inferno spicca l’intensa espressività dello stile aspro, fatto di termini rari, crudelmente dialettali, vocaboli plebei
e volgari, di rime rare e difficili, dai suoi striduli e sgradevoli. Questo stile aspro compare in genere davanti alla
materia più ignobile, a segnare il distacco polemico del poeta. Ma non mancano passi di linguaggio letterario
particolarmente elevato. In questo crogiolo linguistico non mancano parole del linguaggio domestico, termini della
marineria, della medicina, fino ad arrivare all’invenzione di linguaggi cifrati o barbarici. Nel purgatorio il linguaggio si
fa più elevato e nobile, coerentemente con il carattere della cantica, con una varietà di livelli stilistici notevole. In
alcuni punti riappare il linguaggio plebeo, all’estremo opposto con l’inserzione di versi in lingua d’oc, o il tripudio
mistico dell’apparizione di Beatrice, in cui si mescolano il latino di Virgilio, quello biblico e quello evangelico. Nel
paradiso, per far capire il senso della ardua esperienza, Dante ricorre ad un linguaggio di eccezionale sublimità. Vi si
trovano latinismi, provenzalismi e francesismi, neologismi arditissimi. Il poeta non esita a rimettere termini concreti e
plebei nei passi di invettiva politica e morale, i cui tornano le rime aspre dell’Inferno. Con questa pluralità di piani
linguistici Dante inaugura un filone della nostra letteratura che fa uso delle ardite mescolanze stilistiche e dei forti
contrasti che mettono maggiore l’espressività nel linguaggio. Questo filone nei secoli successivi assumerà una
funzione di polemica, mentre il modello regolare della tradizione poetica italiana sarà fissato dallo stile di Petrarca,
unilinguistico, regolato dall’equilibrio l’armonia e il decoro, che rifiuta i riferimenti alla realtà comune e ogni stridore
di livelli stilistici.

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