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Dante

– Inferno
Canto II


Mentre il Canto I è il proemio all’intera Commedia, il Canto II è il proemio della prima
cantica dell’Inferno. È la sera del venerdì 8 aprile del 1300, il sole sta tramontando. Si
tratta di un momento simbolico. Il tramonto del Sole equivale all’eclisse di Dio-Luce nella vita
di Dante che si era smarrito nella selva oscura.
Sia la descrizione della sera, sia la contrapposizione fra la pace della Natura e l’angoscia
del protagonista, sono ispirati dall’Eneide di Virgilio.
Il proemio che occupa i primi nove versi della cantica, è una prolessi (anticipazione)
dell’argomento al tormento interiore e al cammino che il protagonista si appresta a sostenere.
La connotazione dolorosa del cammino alto e silvestro, conferma che si tratta soltanto del
proemio all’Inferno.
Il proemio tradizionale prevede, dopo la pròtasi (premessa), l’invocazione alle Muse.
Dante segue questa tradizione classica (sebbene legata alla letteratura pagana), rivolgendosi
alle Muse e al proprio ingegno, affermando che la rappresentazione poetica di quanto
osservato all’Inferno, costituirà una prova ardita per le sue capacità letterarie (la mente) e
che verificherà le sue virtù poetiche (la tua nobiltate).
La sfida tra la parola “poetica” e la visione ultraterrena sarà uno dei motivi principali di tutta
l’opera.
Chi narra la vicenda è Dante auctor (autore) e non il Dante agens (agente) ovvero colui che
attraversa i tre regni dell’aldilà.
Nell’Inferno Dante si rivolge genericamente alle Muse, nel Purgatorio si rivolgerà a
Calliope (Musa della poesia epica) e nel Paradiso ad Apollo, costituendo così un climax
ascendente.
Terminato il proemio, il Dante narratore si ritrova nuovamente nella salva oscura, è
spaventato non tanto dai pericoli del viaggio, quanto dalla sua illegittimità a percorrere il
regno dei morti, attraversare questi mondi ultraterreni comporta l’infrazione di uno dei più
sacri divieti: infrangere la separazione fra il mondo dei vivi e dei morti. Ha paura che
senza l’autorizzazione di Dio, commetta un sacrilegio imperdonabile, come commesso dallo
stesso Ulisse e per sempre dannato per questa violazione (Canto XXVI).
Dante ricorda a Virgilio che prima di allora solo a uomini eccezionali è stata concessa la grazia
di visitare l’aldilà in carne ed ossa, si riferisce a san Paolo che nella Seconda lettera ai
Corinzi racconta il rapimento estatico fino a contemplare il Paradiso, e a Enea che, come
racconta Virgilio nel sesto libro dell’Eneide, gli è permesso scendere negli Inferi per
incontrare il padre Anchise.
La Bibbia e l’Eneide sono collocate da Dante sullo stesso piano di autorevolezza e
autenticità, sebbene l’Eneide sia un libro pagano. Nel Medioevo s’interpretava l’Eneide (e la
letteratura pagana) in senso cristiano, attribuendole significati allegorici che la rendevano
compatibile ai valori della fede.
La grazia concessa da Dio a san Paolo e a Enea era in ragione della loro missione altissima e
provvidenziale.
San Paolo doveva diffondere la fede cristiana nel mondo;
Enea doveva rendere possibile la fondazione di Roma, futura sede del Papato e
dell’Impero, le due sole istituzioni che secondo Dante avrebbero garantito la pace e la
giustizia universali.
Dante impaurito dal confronto protesta di non essere né san Paolo, né Enea e non capisce la
ragione che giustifichi tale privilegio, qual privilegio sarà rivelato pienamente da Cacciaguida
nel canto XVII del Paradiso.
Teme che la venuta non sia folle (come il “folle volo” di Ulisse).
Virgilio che indossa per la prima volta le vesti del maestro, rassicura Dante che il suo viaggio
nell’Aldilà è stato decretato in Paradiso per la salvezza della sua anima ed è dunque legittimo.
Al prologo “terrestre”, segue uno “celeste”, come in tanta epica classica, è dunque Maria che
accortasi dello smarrimento di Dante, incarica santa Lucia di avvisare del pericolo Beatrice
che scende negli Inferi per sollecitare Virgilio ad accorrere in aiuto di Dante.
Virgilio lamenta nell’animo di Dante la debolezza della viltade (pusillanimità), Virgilio, nella
Commedia è allegoria della Ragione che, con il proprio parlar onesto (per questo scelto da
Beatrice), dissipa le paure irrazionali di Dante.
Al poeta è chiesto quindi di non cadere nella tracotanza (la hybris di Ulisse) né nella viltade,
trovando un giusto mezzo.
Virgilio è raggiunto nell’Inferno da Beatrice, egli non potrà godere a pieno la gioia piena del
Paradiso perché la sua ragione non fu mai illuminata dalla rivelazione della fede.
Per Dante la ragione è una virtù per uscire dall’oscurità dell’errore ma non sufficiente se non
rischiarata dalla fede, elemento fondamentale per condurre alla contemplazione della verità,
ovvero Dio.

Le tre donne benedette che proteggono Dante sono figure materne che si pongono come
mediatrici tra il Padre dei Cieli e il suo figlio smarrito (Dante).
Troviamo un ordine gerarchico dall’alto verso il basso giustificato da significati allegorici
attribuiti a ognuna di esse:
Maria è figura della grazia prevenente, che anticipa, previene la stessa richiesta del
peccatore;
Santa Lucia è figura della grazia illuminante, colei che rende Beatrice consapevole della
condizione di Dante;
Beatrice è la figura della grazia beatificante, la grazia divina che opera attivamente per
beatificare, salvare gli uomini.
Il moto discendente della grazia, da Dio, sulla Terra per salvare gli uomini, ricorda la discesa
di Cristo per la redenzione dell’Umanità.

Beatrice, quando è chiamata da Lucia, era seduta accanto a Rachele, moglie di Giacobbe
(Antico Testamento). L’abbandono momentaneo di Rachele potrebbe simboleggiare la
momentanea sospensione della contemplazione di Dio, fonte di beatitudine, per l’azione,
per soccorrere Dante.
Beatrice è descritta da Dante in stilnovistico (beata e bella; lucean gli occhi chi suoi più che
la stella; soave e piana; angelica voce), egli crea l’illusione di trovarci difronte a Beatrice
narrata nella Vita nuova: in questo testo Dante aveva raccontato la morte di Beatrice e la sua
successiva apparizione come un angelo del Cielo (morta nel 1290), anticipando di voler
narrare di lei in futuro.
Beatrice nella Divina Commedia non è la fanciulla della Vita nuova, ella è trasfigurata nell’
Allegoria della Teologia (o secondo altri la Fede). Si rivelerà a Dante, in questa veste, nel
canto XXX del Purgatorio.
Anche la poesia di Dante è profondamente cambiata, non è più stilnovista ma poesia
pienamente teologica: “sacro poema”

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