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SIMONE F.

SACCONI

I “SEGRETI” DI
STRADIVARI
con il catalogo dei cimeli stradivariani del Museo Civico

“Ala Ponzone,, di Cremona

LIBRERIA DEL CONVEGNO

CREMONA 1972
PREFAZIONE

Nel titolo del libro figura messa tra virgolette e al plurale la parola segreti che, di solito,
associata nel singolare al nome di Stradivari, si crede dia la misura della grandezza del liu-
taio di Cremona. Si è voluto, così, demitizzarla per il rifiuto di ridurre l’arte alla concezione
materiale di un segreto, che implica alla fine e comunque una rivelabilità del medesimo, in
questo caso di una ricetta, sul tipo di quelle di cucina o di farmacia, se è attorno alla vernice
soprattutto che si è sbizzarrita la fantasia popolare. Se mai, il differenziarsi di Stradivari da
quanti altri liutai siano mai esistiti alla sua epoca consisterà proprio nell’avere egli fatto con
i comuni mezzi a disposizione di qualsiasi altro liutaio contemporaneo qualcosa di unico e
irripetibile. Quanto l’artista produce diventa in un certo senso segreto, in parte anche a lui
stesso inconoscibile. Egli vede e opera e investe del suo sguardo e pensiero il reale,
altrimenti dai suoi simili. Ma questo, allora, è mistero.
L’argomento del libro è esclusivamente di tecnica e riguarda i dati di un mestiere alla
cui definizione hanno contribuito generazioni di artigiani attraverso diverse esperienze
artistiche; ma sul piano dello stile e della forma particolari il problema si presenta come
individuale, cioè della espressione artistica liutaria stradivariana, dove tecnica e forma sono
in funzione del fine che è la qualità del suono che lo strumento dovrà dare.
Il libro si limita a dirci come Stradivari costruiva i suoi strumenti musicali
restituendoci conoscenze dell’artigianato antico ritenute irrecuperabili e che, se ci
suggeriscono e spiegano molti perché delle eccezionali qualità sonore, non pretendono,
come ogni analisi di un’opera d’arte, chiudere l’argomento con la somma di un loro totale,
operazione questa sempre aperta nel tempo. Sulla complessa composizione della vernice e
sul modo di impiegarla Sacconi ha dettato il capitolo più prestigioso del libro, dove la
conoscenza di fenomeni e materie prime della natura, come ebbero a sperimentarli gli
artisti del Rinascimento italiano, rivivono secondo la pratica delle botteghe dei mestieri e la
coscienza scientifica delle loro funzioni, proprie dell’artigianato che è un misto di scienza e
di arte.
I disegni esemplificativi che illustrano le sezioni auree della composizione di una
forma per violini rispondono a conoscenze divulgatissime al tempo di Stradivari e ci
dimostrano come tutte le operazioni delle fasi costruttive obbediscano a un ordine
matematico, che regola la struttura e quindi la forma dello strumento musicale. Si direbbe
che qui la geometria sia come l’anima, il simbolo del suono vivente nello strumento come
quel profumo che Sacconi avverte ancora nei legni dei violini stradivariani e dato da una
delle componenti della vernice colorata.
Il titolo del libro, dunque, promette cose nuove e le garantisce l’autorità del nome
dell’autore, universalmente riconosciuto il maggiore liutaio contemporaneo. Non manca il
maligno che butta lì la battuta che, se vuole, Sacconi sa anche farlo un violino come
Stradivari. A riportargli il pungente complimento egli sorride per la parte di lusinga che
contiene e, se ricorda

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che è accaduto, sì, che un suo violino fosse scambiato per uno Stradivari da celebri
violinisti, scuote poi la testa e scrolla le spalle e prende un’espressione come beata al
pensiero della insuperabilità di quello che egli per antonomasia chiama il Maestro, come se
parlasse di persona reale che si può ancora incontrare in una via di Cremona. Il culto di
Sacconi per Stradivari ha un fondo sentimentale di origine ottocentesca, divenuto razionale
attraverso la sperimentazione della tecnica del maestro conosciuta soprattutto mediante
l’esercizio delle riparazioni dei suoi strumenti che giungono nel negozio della casa
Wurlitzer, per la quale lavora, da ogni parte del mondo. Questa umile fatica egli l’accetta
ancora a settantasette anni con l’attenta curiosità dell’artista che nello strumento antico
intuisce e vede operare, sente in ogni parte la presenza della mano del maestro e cerca il
significato in ogni segno che corrisponda a un ragionamento costruttivo. Di sfuggita
accenna nel libro di aver riparato trecentocinquanta strumenti di Stradivari.
Simile conoscenza dall’interno dell’opera d’arte ha spinto Sacconi al ricupero di una
tecnica andata perduta e che aveva dato risultati insuperati. Da essa egli è ripartito per
avvicinarsi il più possibile alle caratteristiche che furono proprie della scuola cremonese.
Sacconi si ripropone di ricreare, ai limiti del possibile, le medesime condizioni di lavoro
antiche, di servirsi dello stesso tipo di materiale del posto impiegato da Stradivari, di
rispettare, a volte, per le riparazioni di certi strumenti, persino il dosaggio parsimonioso di
alcune sostanze più costose al tempo del liutaio cremonese, per accompagnarle ad altre a
più buon mercato; e questo, oltre che per fedeltà al particolare tecnico da rispettare, per il
piacere di un’adesione interiore alla psicologia del maestro, da discepolo che ne ha
indovinato il preciso comportamento.
Durante i suoi viaggi in Europa non manca mai di fare una sosta a Cremona il cui nome
egli pronuncia come sinonimo di Stradivari. Qui si raccomanda agli amici perché gli
facciano avere certi legni o gli raccolgano lungo gli argini del Po un’erba, l’asprella o « coda
di cavallo », che egli impiega per levigare il legno (mai la carta vetrata, ohibò!); oppure si
assicura presso alcuni apicultori della campagna cremonese un prodotto di scarto degli
alveari, che costituisce una delle materie prime della vernice. Quella cremonese è migliore
dell’americana. Vista incisa in una lastra del rivestimento in marmo della parte inferiore
del Torrazzo, l’antica misura del braccio cremonese con le divisioni in once, misura che
conosceva riprodotta al vero nella grande pianta della città di Cremona di Antonio Campi —
ma di poco infedele per il lieve restringersi della carta col tempo ha voluto prendersi, con
l’aiuto di una scaletta, i corrispondenti centimetri del braccio scolpito. Nel disegno di un
liuto Stradivari dà le misure in once.

Ma vogliamo conoscerlo meglio Sacconi, biograficamente, a cominciare dalla sua «


éducation sentimentale »? Nato a Roma il 30 maggio 1895, a Otto anni cominciò a
interessarsi alla liuteria aprendo un violino del padre, Gaspare, professore d’orchestra, per
vedere come era fatto dentro. « La forma dei violini mi affascinava, cominciai a disegnarli
» dice Sacconi. Il padre lo portò da un liutaio di Roma, un veneto, Giuseppe Rossi, buon
intagliatore. Rimase nella sua bottega di via Tor di Nona, 70, otto anni. Il mattino, prima di
recarsi alle scuole elementari, andava ad aprire e pulire il negozio. Lungo la strada passava
davanti a vari intagliatori.
Uno specialmente — mi dice - mi attirava di più, Ernesto Sensi eccellente artista. Mi
fermavo fuori della vetrina per vederlo, incantato, maneggiare la sgorbia con facilità e
destrezza. Una mattina d’inverno lo scultore che oramai mi conosceva mi aprì la porta
invitandomi ad entrare; dentro c’era un odore di cirmolo, la bottega era piena di
candelabri, cornici, pezzi di

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mobili. Il Sensi lavorava di solito per il Vaticano ». Fu da lui consigliato a frequentare la
scuola di Belle Arti dove studiò per cinque anni. « Se vuoi fare il liutaio lo devi fare alla
perfezione » gli raccomandava il padre. All’Accademia imparò a disegnare, a modellare,
scolpire il legno seguendo il precetto: prima scultore e intagliatore, poi liutaio.
Frequentava, intanto, anche le biblioteche per leggervi autori antichi che avevano trattato
di vernici.

Il primo violino di Stradivari lo vide a tredici anni, quando con una lettera del maestro
Bernardino Molinari poté presentarsi al famoso violinista ungherese Franz Vecsey. Il
giovane Sacconi aveva con sé, con la carta da disegno, compassi spessimetri per poter
misurare gli spessori della tavola e del fondo del violino. Gli fu concesso di « lavorare », ma
tenendo il violino sul letto. Quando il Vecsey aprì l’astuccio doppio con lo Stradivari, il «
Berthier », e un altro violino, il ragazzo non ebbe incertezze nella scelta e senz’altro prese lo
Stradivari, mentre il suo gesto era accompagnato da un: « Très bien, faites attention »
ricorda ancora Sacconi.
L’esame del « Berthier » lo portò a constatare che lo spessore della tavola armonica era
di mm 2,3, ma ritenne quella sottigliezza il risultato di una manomissione, perché secondo
gli insegnamenti appresi lo spessore avrebbe dovuto essere al centro di mm 5, diminuendo
sui tre ai fianchi. Quell’esame fu, perciò, una delusione per lui. Il violino, come capì dopo,
non era affatto stato manomesso e gli spessori erano quelli originali. La prova gli fu offerta
da un’altra fortunata occasione, quando trovandosi a Roma il famoso quartetto Busch con
quattro meravigliosi strumenti di Stradivari, ottenne, sempre tramite il maestro Molinari, il
permesso di vederli. Ne prese i modelli e misuratine gli spessori fu sorpreso di constatare
che essi erano di mm 2,2 e 2,4 per le tavole dei violini, per la viola di mm 2,3 e per il
violoncello variavano da mm 3,5 e mm 3,3. Da allora fu convinto che Stradivari facesse le
tavole proprio in quel modo.
Sacconi costruì il primo suo violino a quattordici anni all’insaputa del suo maestro che
ne rimase sorpreso come lo vide, riconoscendo nel giovane già un concorrente di doti
eccezionali. Egli intanto cominciava ad avere una sua clientela a casa propria. Ma rimase
nella bottega del Rossi dove eseguì, oltre ai violini, viole da gamba, liuti, arciliuti, pochettes,
viole d’amore, con teste scolpite di donna o vecchio, mandolini, chitarre, dedicandosi anche
alle riparazioni di ogni tipo di strumenti, compresi quelli a fiato e persino facendo puntine
per grammofoni.
Nel 1915 fu chiamato sotto le armi. Dopo un anno di servizio in batteria fu inviato alla
28.a divisione di artiglieria come disegnatore di mappe. Riportò tre ferite e l’armistizio lo
sorprese a Villafranca in un ospedale dove era stato ricoverato per la febbre spagnola.
Congedato, dopo un ultimo soggiorno al deposito di Palermo, rientrò a Roma.
In quella città, presso il maestro Fiorini ebbe modo di vedere la raccolta dei cimeli stra-
divariani prima che fossero donati al Museo Civico di Cremona. Una scoperta per lui
elettrizzante. Avendo il Fiorini a quell’epoca la vista indebolita diede a Sacconi l’incarico di
terminare due suoi violini che aveva cominciato a modellare ed erano il risultato di
cinquant’anni di esperienza artistica. Per gratitudine gli regalò alcuni disegni autentici di
Stradivari riguardanti il modello di un violino.
Sposò nel 1925 Teresita Pacini, cognata di Bernardino Molinari. Figlia del baritono
Giuseppe Pacini, era nota come cantante, e Sacconi ricorda con orgoglio un suo concerto a
Londra quando cantò per la regina madre d’Inghilterra. Dopo la nascita del figlio rinunciò a
cantare. Frequentando l’ambiente musicale che si irradiava dal maestro Molinari Sacconi
venne in rapporto con i migliori violinisti e cellisti di questo secolo, che furono suoi clienti
per consigli negli acquisti di strumenti musicali antichi e per riparazioni a quelli di cui
erano in possesso. Nel nominarmeli, uno per uno, e desidera che tutti li ricordi, ne traccia
fugacemente il carattere e la personalità artistica. I nomi che mi fa in un lungo elenco
suonano come musical-
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mente nelle sue parole, quasi tappe della sua vita, insegne di giorni memorabili per
l’incontro avvenuto con uomini di eccezione; che sono: Casals, Kreisler, Enescu, Heifetz,
Elman, Cassadò, Huberman, Flesch, Buch, Francescati, Feuermann, Milstein, Piatigorski,
Zimbalist, Salmond, Fournier, Szigeti, Stern, Menuhin, Oistrach, Ricci, Szeryng,
Rostropovich, Primrose, Rose, Perlman, Accardo, Ughi, Zukerman, Du Prè. Rapporti pure
intrattenne con i maggiori compositori del tempo, da Strauss, a Debussy, a Zandonai, a
Respighi, a Casella, a Mascagni e Pizzetti.
Nel 1937 per le celebrazioni del duecentesimo anno della morte di Stradivari, che si
tennero a Cremona, portò dall’America quindici strumenti del grande liutaio e sedici dei
suoi predecessori e successori, esponendo un suo quartetto che meritò fuori concorso la
medaglia d’oro della città di Cremona. Allievi, colleghi e amici si dettero convegno a New
York nel 1965 attorno al maestro per celebrare il suo settantesimo anno di età. La città di
Stradivari ha voluto nell’ottobre del 1972 insignirlo della cittadinanza onoraria.
Sacconi abita ora a Point Lookout sulle rive dell’Atlantico, distante da New York un set-
tanta chilometri che percorre di buon’ora il mattino parte in automobile e parte in treno e
metropolitana per recarsi alla casa Wurlitzer in Lincoln Center, all’ombra del grattacielo
della Paramount al n. 16 della 61a Strada. Il suo laboratorio è situato in una stanza
luminosa lunga una ventina di metri e larga quattro con un banco di lavoro presso la
vetrata che percorre tutto il lato che dà sulla strada, con di fronte l’imponente edificio
dell’American Bible. Qui lavorano sotto la sua guida giovani liutai tra i quali un americano,
un inglese, un italiano, un tedesco, un polacco e un francese. Tra i suoi allievi è la figlia
della signora Wurlitzer e una ragazza tedesca; buona fama s’è già fatto, nel gruppo, Dario
D’Attili ora direttore della casa e così Charles Beare di Londra. Da quarant’anni Sacconi
insegna negli Stati Uniti la tecnica liutaria della scuola cremonese. Nel vicino Metropolitan
Museum sono esposti in una sala due violini di Stradivari, ma ben altro ho avuto modo di
vedere, con la guida di Sacconi, nella camera blindata della casa Wurlitzer. Innanzitutto l’«
Hellier » del 1676, che è il più prezioso violino intarsiato di Stradivari, e di cui Sacconi ha
fatto una copia nel 1966; poi due violoncelli, il « Duport » del 1711 e il « Piatti » del 1720,
sempre di Stradivari; dello stesso altri due violini, al momento della mia visita, erano in
prova presso clienti, e un terzo si trovava per riparazioni in laboratorio. La scuola
cremonese è ancora rappresentata da un Guarneri del Gesù del 1726, da un Carlo Bergonzi
del 1732 e da una viola di Andrea Amati. Vi si trovano inoltre un violoncello di Matteo
Goffriller del 1725, un Ceruti, un Pressenda, uno Storioni, un Montagnana e altri strumenti
di autori moderni. Una collezione di archi di famosi archettai inglesi, francesi e tedeschi è
esposta in alcune vetrine e vi primeggiano quelli di François Tourte.
Di grande interesse è l’archivio Wurlitzer da Sacconi curato e che ci dà la misura
dell’ampiezza delle informazioni di cui egli ha potuto disporre nel campo della liuteria in
quella sede. Si tratta dei volumi rilegati contenenti le riproduzioni fotografiche di ciascuno
strumento che sia stato oggetto di attenzione da parte della casa con la descrizione delle
riparazioni eseguite e quella dello stato di conservazione. Ben quindici volumi sono dedicati
ai violini di Stradivari, uno ai figli Francesco e Omobono; tre volumi sono per Andrea
Guarneri, tre per Giuseppe Guarneri, cinque per Guarneri del Gesù, due per Carlo Bergonzi
e i figli, uno per Andrea e Gerolamo Amati, due per Ruggeri, altrettanti per il Ceruti e il
Montagnana e ancora altri novanta per autori minori italiani e stranieri. Tutto questo
riguarda soltanto il secondo ventennio di attività di Sacconi a New York, dovendosi tener
conto di quello anteriore presso la casa Herrmann dal 1931 al 1950. Si spiega allora nel
libro l’eccezionale documentazione attinta direttamente dagli strumenti, quel senso in
Sacconi di presenza ancora del fatto artistico antico sentito come lezione valida tuttora.

XII
A Point Lookout, all’estremità di Long Island il maestro abita in un villino in muratura
a due piani, con veranda a pian terreno, un po’ di verde attorno, qualche albero da frutta,
un abete che nasconde gran parte della facciata, e cinto da una muraglietta. Se lo fece
costruire una trentina d’anni fa, quando c’era ancora terreno incolto con rare costruzioni e
davanti il mare aperto dell’Atlantico su due lati e sul fianco nord a un tiro di fucile lo stretto
di Jones Beach, al di là del quale, a poche miglia, è la più famosa spiaggia balneare degli
Stati Uniti. Panorami cancellati ora da uno stuolo di casette per la maggior parte in legno.
Sacconi è contento di vivere qui, di lavorarvi in tranquillità gran parte della settimana,
trascorrendone due giorni soltanto a New York. Al piano superiore ha il suo laboratorio,
che è un ambiente molto luminoso con vetrate presso le quali è un banco con forme di
violini, qualche tavola, svariatissimi attrezzi di lavoro e alcune boccette di vetro. Alle pareti
sono appesi strumenti in corso di lavorazione con e senza vernice. Ci si muove a fatica
essendo la parete più lunga interamente occupata da scaffalature a vari piani, colme di
bottigliette e vasetti contenenti sostanze chimiche e materie prime per produrle. Mi indica
in un vasetto i pistilli dello zafferano, in un altro le cocciniglie secche da cui ricava una
polverina per i rossi, mi mostra la radice di robbia, un tempo sul mercato per i pittori, e il
cui estratto, l’alizarina, gli serve per ottenere dei rossi dorati. Se la procura in Messico dove
fu importata, pensa, dagli spagnoli; in Europa si trova in vendita in un paesino della
Provenza, vicino ad Avignone, Grasse, mi dice, e si produce per i profumi e una volta per
tingere la stoffa dei calzoni delle uniformi dell’esercito francese.
Tavole di legno sono sparse un po’ dappertutto, ma è quando Sacconi le prende in
mano, me le pone sotto gli occhi e ne parla, ne dice gli anni del taglio, quaranta, sessanta,
ottanta anche, che mi rendo conto della loro bellezza per lo spicco netto degli anelli
stagionali, le onde delle marezzature e i toni dell’abete o dell’acero. Ne ha appoggiate alle
pareti, sotto e sopra il banco e un cospicuo deposito nella piccola soffitta. Un materiale che
è andato raccogliendo durante la sua vita fornendosene in Italia, in Jugoslavia, nei Balcani,
in Germania, presso antiche ditte o fornitori specializzati nel rintracciare i legni richiesti. —
Un buon violino richiede legno di almeno un quarant’anni — dichiara. Aggiunge la Signora
Teresita: — Vale più il legno che abbiamo che la casa, un patrimonio però che nessuna
società accetta di assicurarci, non capiscono come si possano assicurare delle tavole di
legno come queste.
Nel piccolo giardino ci sono piante di viti americane insieme a una di moscato,
importata quest’ultima dall’Italia, ma la cui uva dopo alcuni anni dal trapianto ha preso il
sapore di quella stessa americana. Non sono i pochi grappoli che può cogliere a interessare
Sacconi, bensì quel tanto di rami cui dare fuoco perché, come gli antichi, egli brucia i
sarmenti delle viti per impiegarne le ceneri che sciolte in acqua gli forniscono una certa
qualità di potassa, elemento adoperato per la preparazione chimica dei colori della vernice.
Ci sono quattro alberi di ciliegie, ma i passeri che qui nessuno uccide si mangiano i frutti e
a Sacconi non resta che utilizzare la gomma che i tronchi trasudano, utile per le sue vernici.
Persino nella evasione sportiva della pesca c’è qualcosa, a un certo momento, che riporta
l’artista al suo mestiere. Sacconi mi fa vedere nell’autorimessa un ricco corredo di attrezzi
per la pesca che pratica nello stretto di Jones Beach e nelle vicinanze dove prende delle
striped bass o grosse spigole che erano molto apprezzate da Toscanini quando era suo
ospite. All’epoca in cui Toscanini risiedeva a New York, andava a vi1-leggiare con la
famiglia a Point Lookout, dove abitavano i Sacconi e in Italia diverse volte le due famiglie
trascorsero insieme l’estate a Positano. Sacconi ricorda d’aver trovato il cliente che acquistò
il violoncello da Toscanini usato prima di divenire direttore d’orchestra. A proposito della
pesca, mi racconta che gli capita di prendere anche dei palombi della lunghezza persino di
un metro. Mi ricordo allora che in qualche parte del libro è nominato questo pesce, e mi
risponde

XIII
che del palombo gli serve la pelle che tende e inchioda contro un’asse per farla diventare
secca e impiegarla poi per levigare il legno lavorato prima con la rasiera.
L’ultimo episodio della mia visita a Sacconi mi riserbò una sorpresa quando la signora
Teresita mi mostrò una grande scatola che scoperchiata vidi colma di piccoli involti di
carta. Non potevo scambiarli per quelli d’una lotteria di beneficenza, e non potevo certo
immaginare, come mi fu spiegato quando mi venne aperto uno di quegli involti, che essi
tutti contenevano piccoli frammenti di vernice degli strumenti musicali che Sacconi aveva
riparato nel corso della sua vita. Instancabili sono sempre state per lui le ricerche sul
trattamento della vernice la cui qualità ed efficacia estetica e possibilità di buona
conservazione essendo le risultanti di un sistema di rapporti, dipendono dall’arte di
interpretarlo e non dall’uso meccanico di una ricetta. Niente di magico in quest’ultima, ma
dosature, tempi e modi di applicazione. Di conseguenza anche il liutaio non è la figura che
vediamo in un quadro del secolo XIX del Rinaldi, dove Stradivari è qualcosa di mezzo tra
Faust e un ciabattino in grembiule, con occhiali, dinanzi a un deschetto, in atto di reggere
con una mano un violino e nell’altra un alambicco in controluce, in una bottega che sta fra
l’antro e la cantina, con strumenti sparsi qua e là e che, a ben osservare, mi fa notare
Sacconi, sono di forma ottocentesca.
Se si fa bene attenzione nel testo alle documentazioni fornite da Sacconi, non si potrà
sospettare che l’autore — liutaio si sostituisca a Stradivari nella descrizione del sistema
costruttivo dei suoi strumenti musicali, prestandogli le proprie esperienze d’artista; anche
se è certamente da queste che ricerche e sperimentazioni sono nate, dando validità di prova
a quanto egli ora afferma. Non c’è osservazione di carattere tecnico fatta da Sacconi che
non rimandi a un fatto particolare riscontrabile nei cimeli stradivariani del Museo di
Cremona o negli strumenti del liutaio cremonese. La supposizione è rara, ma quando è
avanzata si presenta come ovvia.

Qualcosa va detto sulla origine e stesura di questo libro corredato dal Catalogo dei
cimeli stradivariani del Museo « Ala Ponzone » di Cremona. I cimeli vennero donati dal
liutaio Giuseppe Fiorini e furono da lui acquistati dalla marchesa Paola Della Valle del
Pomaro in Torino. In precedenza erano stati in possesso del conte Cozio di Salabue che li
aveva avuti parte dal figlio di Antonio Stradivari, Paolo, parte dal nipote Antonio.
L’illustrazione di ogni pezzo che viene data alla stampa per la prima volta in questo libro e
stesa da Sacconi, integra il testo che la precede rappresentando una testimonianza
fondamentale della tecnica costruttiva di Stradivari. L’occasione che mi spinse a rivolgermi
a Sacconi per la dettatura di una scheda per ogni pezzo, mi fu data dalla sua venuta a
Cremona quando fu acquistato, nel 1961, da parte della città, un violino di Stradivari, « Il
Cremonese 1715 », ora in una sala del Municipio. Sapevo fin dal 1952, durante una visita di
Sacconi al Museo, insieme a Rembert Wurlitzer, della loro intenzione di stendere un
catalogo dei cimeli stradivariani, ma della cosa non s’era poi fatto nulla.
Si dette la combinazione poi, che in quegli anni conducessi uno studio sulla tarsia
rinascimentale, e mi parve di dover chiedere a Sacconi la conferma di una osservazione che
mi sembrava si dovesse fare: essere rifluite le esperienze tecniche del trattamento del legno
acquisito dalla tarsia nel Rinascimento, con la decadenza di questa, nella liuteria. Quando
lo condussi davanti al monumentale Armadio intarsiato del Platina, del 1477, e al Coro
dello stesso eseguito per il Duomo nel 1489, la sua prontezza di vera e propria lettura dei
tipi, delle parti, delle caratteristiche delle varie essenze divenute forma, disegno e colore nel
linguaggio pittorico, fu per

XIV
me illuminante e di aiuto per il problema che mi ponevo dei rapporti fra tecnica e stile. Fu
allora che avendomi confessato che non c’erano per lui segreti sulla tecnica stradivariana,
gli feci osservare che un’esperienza come la sua non avrebbe dovuto limitarsi a qualche
appunto manoscritto sui cimeli del Museo e a semplici confidenze verbali, ma che sarebbe
potuta divenire patrimonio culturale comune se egli avesse scritto un libro sull’argomento.
Mi rispose che gli costava meno fatica fare un violino che scrivere, di sapere adoperare
meglio la sgorbia che la penna. Ma in una sua lettera da New York, per spiegare
l’identificazione della forma impiegata da Stradivari per il « Cremonese 1715 », egli aveva
steso un testo degno di un manuale di liuteria. Si trovava già abbozzato in quelle pagine, in
cui era in sintesi descritto il sistema costruttivo degli strumenti musicali stradivariani, lo
schema di un libro.
Quando venne, qualche anno più tardi, a Cremona con due violini cremonesi, un
Niccolò e un Andrea Amati, pure acquistati dalla città, e dimostrò che la preparazione per
la vernice dei due strumenti era ancora la stessa di quella usata per le tarsie dell’Armadio e
del Duomo, da lui saputa far rinvenire, e che quella sostanza provocava come un lieve
processo di ossificazione del legno, ritornai sull’argomento del libro. Tacque allora sulle
sostanze costitutive della preparazione della vernice, ma come accolse il progetto di
scrivere un libro, mi assicurò che, in quel caso ne avrebbe parlato. Segreto per modo di
dire, diceva, perché all’epoca di Stradivari le componenti della vernice e la materia per la
preparazione e il loro impiego eran cose note ai liutai.

Mi colpiva sempre, ascoltando Sacconi parlare del suo mestiere, il linguaggio preciso e
molto comunlcativo. Bastano un paio d’ore della sua compagnia per essere contagiati
sull’argomento. Da tale conversazione poteva nascere, almeno in parte, o prendere inizio il
libro che avrebbe dovuto dettare. Ci sarebbe stato il sussidio della corrispondenza. Si
trattava di trovare la persona adatta che si sobbarcasse alla fatica della stesura del testo.
Non doveva essere un vero e proprio tecnico del mestiere con opinioni precostituite, ma
persona che si lasciasse passivamente e insieme con entusiasmo ammaestrare, in parte un
amanuense intelligente, in parte un trascrittore capace di sintesi. Seppi allora che durante
alcune lezioni tenute da Sacconi alla Scuola di Liuteria locale il dottor Bruno Dordoni, che
aveva partecipato alle vicende per l’acquisto dei violini di Stradivari e degli Amati, si era
preso alcuni appunti che il maestro aveva apprezzato. Fu così che egli iniziò la stesura del
libro. Le redazioni che di volta in volta erano potute sembrare definitive, apparivano poi
incomplete per l’accavallarsi dei problemi che sorgevano, da parte di Sacconi, cui non
sembrava mai di essere riuscito a dar fondo a quanto aveva da dire sull’argomento, e riu-
scendo la parola scritta sempre più stimolante nella progressiva presa di coscienza che vi
prendeva delle proprie esperienze. Il testo diveniva attraverso la maieutica, per così dire, di
Dordoni, sempre più la parola del maestro. Sacconi impiegava vecchi suoi appunti e un
altro testo era costituito dalle numerose lettere che inviava da New York, risposte precise a
quesiti e argomenti particolari. Dordoni nei lunghi anni che dedicò a codesto lavoro finì con
l’assimilare la materia divenendo da non competente un « esperto » sotto la guida di
Sacconi e a riuscire un perfetto interprete del suo pensiero.
Sacconi ha qui avviato un discorso di tecnica pura che nessuno seppe fare prima di lui
su Stradivari. Non si dice nulla della vita, delle scarse notizie conservate nelle vecchie carte
d’archivio e che molti studiosi hanno illustrato: dal Sacchi, al Lombardini, a Hill, al Bonetti,
al Mandelli, al Cavalcabò, al Gualazzini, al Bacchetta, al Baruzzi e recentemente al libro del
giornalista Elia Santoro che esce in questi giorni sui « Traffici e falsificazioni di violini di
Stradivari » (Annali della Biblioteca Statale e Libreria Civica di Cremona, 1972) molto utile
per le nuove notizie che ci fornisce e soprattutto sui rapporti del liutaio cremonese con la
società del proprio tempo. Non era certo questo tipo di lavoro che si poteva chiedere a
Sacconi, e neppure il libro

XV
doveva essere una graduatoria d’onore sui pregi o meno degli strumenti di Stradivari,
essendone egli stato il medico di quasi tutti. È comprensibile che abbia voluto evitare
confronti tra l’uno e l’altro, anche quando sarebbero stati utili per l’informazione.
Che egli non sia entrato in campo storico erudito non significa che non conosca molto
bene la letteratura sull’argomento. Nel testo è sottintesa e il lettore può avvertirla tra le
righe. Egli comunque inizia un nuovo capitolo della storia della tecnica stradivariana, che
inoltre adotta ancora nella propria esperienza artistica.
Del controverso problema della data di nascita di Stradivari Sacconi tratta rapidamente
dal punto di vista delle sue conoscenza dirette degli strumenti, avendo avuto sotto mano
quasi tutte le etichette dei violini dell’ultimo periodo, a cominciare dal 1732 e recanti
l’indicazione dell’età a volte in stampatello, a volte in corsivo. Per Sacconi, salvo rarissimi
casi in cui la calligrafia è dei figli, esse sono autografe. Perciò la data di nascita per lui
sarebbe il 1644. Dall’atto parrocchiale di morte risulta l’anno del decesso di Antonio
Stradivari, il 1737.

ALFREDO PUERARI

Cremona, 18 ottobre 1972.

A. Stradivari: violino « Il Cremonese 1715» ex Joachim-Hill-Wurlitzer. Cremona, Palazzo Comunale

XVI
I

IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Nel Museo Civico di Cremona si conserva una raccolta di forme, disegni, schizzi,
modelli e studi originali di Stradivari, oggetto sinora più di curiosità, che di serio e ap-
profondito esame. Di questo prezioso materiale ebbi ad occuparmi quando ancora si tro-
vava in possesso del liutaio Fiorini. Individuai allora la funzione di ogni singolo pezzo, a
volte recante annotazioni appostevi da Stradivari o dai suoi figli; decifrai le misure indicate
con aperture di compasso; rilevai molti altri particolari utili alla conoscenza della tecnica
costruttiva del Maestro; e suddivisi l’insieme dei disegni, degli schizzi e dei modelli a
seconda che riguardavano gli strumenti e le forme dei medesimi.
Lo studio sistematico, coordinato con l’esame degli strumenti tuttora esistenti che con
questi modelli furono costruiti, consente di documentare una esperienza di grande ar-
tigianato, mitizzata perché non capita, e di riportarla alla semplice verità di una pratica
quotidiana di lavoro e di impiego di mezzi che non avevano nulla di misterioso in quanto
tali; ma i cui risultati dipendevano pur sempre dal come venivano assunti in relazione alle
diverse fasi costruttive.
Liutai e antiquariato liutario del secolo scorso non essendo in grado di spiegarsi la
qualità del suono degli strumenti stradivariani, favoleggiarono di segreti inconoscibili, aiu-
tati in questo dal silenzio degli studi in materia, elusivi sull’argomento, accoglienti soltanto
il dato di fatto, e in grado di favorire interpretazioni irrazionali di uno degli episodi
costruttivi, quello della vernice, assunto materialmente a simbolo sbrigativo di un proble-
ma che va posto sul piano dei rapporti tra arte e sciènza, su questi trovandosi a operare
l’artigianato. La personalità che emerge dal ricupero dei processi costruttivi stradivariani è
quella di un geniale, riflessivo, metodico artigiano, che nulla lascia al caso o
all’improvvisazione e che riassume centocinquant’anni di esperienze locali nella pratica
della liuteria. Ogni prodotto di Stradivari, violini, viole varie e violoncelli, liuti, chitarre,
arpe, mandole, mandolini e pochettes, nasce prima in ogni sua singola parte sulla carta e
nei modelli, definito fin nel più piccolo particolare, anche di solo valore estetico, come le
punte o il riccio; per cui le singole soluzioni, anche parziali, sono gradualmente raggiunte.
Lo dimostrano le ripetizioni con varianti di uno stesso modello, e l’annotazione autografa,
in alcuni casi, di « modello buono » che significa come tra le altre questa fosse la soluzione
definitiva.

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SIMONE F. SACCONI

Figg. 1 e 2 A. Stradivari; corredo per la costruzione della viola contralto « Medicea » del I 690,
comprendente: la forma; il disegno per il piazzamento delle ff; i modelli per le aste delle ff; quelli
per il manico e il riccio; della tastiera; della cordiera e del ponticello, col suo fac-simile per
l’allineamento di tastiera, ponticello e cordiera. Cremona, Museo Civico.

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 3 A. Stradivari: viola contralto « Medicea » del 1690

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

I tempi di lavoro di Stradivari si possono riassumere in questa successione: ap-


prestamento di prove e modelli provvisori; scelta del disegno definitivo; ricavo da questo
del modello in legno o in carta, che servirà per la costruzione della parte dello strumento
cui si riferisce.
Le stesse intuizioni stradivariane, che oggi vediamo rispondere a precisi principi di
fisica acustica e di chimica, sono pratiche sperimentazioni di fenomeni tramandati da
un’antica conoscenza dei fatti della natura. La genialità di Stradivari consiste nell’averli
intesi ai suoi fini, di essersene valso per le particolari funzioni acustiche e pittoriche delle
vernici, per l’eccezionale processo di indurimento o inossamento, come preferisco definirlo,
del legno, che lo faceva cantare e consentiva a Stradivari l’uso di spessori sottili, senza che
col tempo esso perdesse di nerbo e lo strumento si infiacchisse.
Poter dare a tavola, fondo e fasce spessori piuttosto sottili è di capitale importanza per
la produzione di un suono vivo, che abbia vigore, calore e brillantezza; e così per ogni
strumento è fondamentale la ricerca dei giusti spessori da dare a tavola armonica e fondo in
base alla qualità e taglio dei legni adoperati, costanti nella prima, digradanti dal corri-
spondente superiore del centro acustico ai suoi margini, nel secondo; e ancora la determi-
nazione delle rispettive diverse curvature e loro andamento, per la prontezza e continuità di
rispondenza della cassa armonica; come lo studio delle misure, inclinazione e
distanziamento tra di loro delle ff di risonanza in rapporto alla superficie centrale della
tavola da esse delimitata, perché la vibrazione risulti intensa e si estenda all’intero piano
armonico; oppure la posizione, direzione e inclinazione della catena, per il perfetto
equilibrio di resa sonora delle quattro corde; infine l’esatto piazzamento del ponticello, per
la giusta trasmissione al piano armonico delle vibrazioni delle corde. Tutto questo per la
complessa meccanica delle fasi del suono nello strumento, a ciascuna delle quali concorre
una determinata parte. L’archetto sollecita le corde, facendole vibrare; il ponticello con la
pressione dei piedini trasmette le vibrazioni al piano armonico; questo a sua volta,
entrando in vibrazione con movimento di oscillazione orizzontale, le amplifica ed
arricchisce di armonici; il fondo infine, urtato da esse, sobbalza con movimento sussultorio,
rinviando il suono all’esterno. Dal perfetto sincronismo tra questi movimenti e dalla loro
immediatezza e continuità, che sono il risultato dell’equilibrio e unità dei rapporti tra
ciascuno di essi, deriva quel suono potente, puro e ineffabile, che costituisce la peculiare
caratteristica di questi insuperati strumenti.
Raggiunta la maturità, Stradivari ancora non si appaga dei risultati conseguiti, bensì
traccia nuove forme, varia misure e proporzioni, crea strumenti ad arco con sempre diverse
caratteristiche nel costante e preminente intendimento di una miglior resa sonora, pur non
abbandonando le ripetizioni. Con l’adozione di una nuova forma, che variasse anche di
poco misura e curvatura della cassa armonica, rielaborava ogni singola componente dello
strumento, perché l’armonia dei rapporti tra ciascuna di esse convergesse alla perfezione
del tutto, dando luogo in tal modo a vere e proprie nuove creazioni, tutte ugualmente
improntate da quelle caratteristiche che si identificano con lo stile del maestro. Que-

5
SIMONE F. SACCONI

ste consistono nell’intensità e nel timbro del suono; ora grave e pastoso, ora potente e
brillante, ora delicato e soffuso di una inafferrabile profondità, ma sempre di nobilissima
natura. In queste rielaborazioni non trascurava neppure i particolari di valore solamente
estetico. Anche le piccole asimmetrie, che in altri liutai divengono durezze e difetti, nei suoi
strumenti si traducono in impronte di personalità, che si manifestano in ogni minimo
particolare. Se varianti potevano essere determinate dalle richieste dei committenti per
particolari qualità da conferire allo strumento, esse erano assimilate dalla unità di con-
cezione e relazione di tutte le parti tra di loro.
Fu Stradivari lo sprovveduto artigiano con solo qualche empirica cognizione, che
raggiunse le proprie conquiste col metodo del prova e riprova, finché il caso premiò la sua
diligente fatica? O pervenne invece a intuizioni scientifiche, dedotte da una profonda co-
noscenza della natura? Certamente non fu un letterato, come denunciano le sgrammatica-
ture, i termini dialettali e gli abbondanti errori di ortografia dei suoi scritti; ma la geome-
trica concezione dei suoi strumenti, i costanti rapporti in proporzione aurea in essi sempre
osservati pur nel variare delle misure; il sistema usato nella ideazione e tracciatura del
riccio ci inducono a ritenere che egli non fosse all’oscuro della cultura matematica
rinascimentale ben nota agli artisti del suo tempo; altrettanto lo studio delle vernici
dimostra la conoscenza di una pratica artigianale secolare, sperimentata in forme nuove.
Quando ammiriamo lo svolgersi del viluppo del riccio, così proporzionato, forte ed agile
insieme nello slancio, aggraziato e morbido nella sua plasticità, sempre diverso nelle
misure e sempre uguale nei rapporti, rimasto unico e inconfondibile tra le migliaia scolpiti
dagli altri maestri liutai, ricordiamo ch’esso è stato disegnato con l’applicazione di due
regole geometriche quali la spirale di Archimede, per lo sviluppo iniziale della chiocciola, e
del Vignola per il suo completamento fino al dorso del riccio; e che solo applicando queste
regole l’intero riccio può essere esattamente riprodotto, non ad occhio o a mano libera. Ad
un attento esame l’attacco tra le due spirali è avvertibile specie nei violoncelli. Se ci
trovassimo di fronte ad un unico riccio ripetuto sempre uguale, sarebbe facile supporre una
casuale coincidenza, ma che il caso abbia operato centinaia di volte è assai difficile da
ammettersi. Può essere comunque illuminante il disegno di un riccio per violino tracciato a
punta d’argento sul retro di un modello in carta per liuto.
Per talune cognizioni Stradivari certamente si avvalse della vasta pratica ampiamente
sperimentata in Cremona nel campo della liuteria e risalente ad Andrea Amati, operante in
città dalla prima metà del ‘500. Infatti nella produzione di questo caposcuola già si
avvertono le geometriche proporzioni nella costruzione della forma e nella tracciatura del
riccio, come pure la determinazione della curvatura del piano armonico e del fondo in
funzione della resa acustica dello strumento. Ma se il notevole bagaglio di cognizioni, che
tanta precedente esperienza aveva concorso a formare, gli fu prezioso, egli non s’arrestò ad
esso e, pur iniziando la sua produzione sui modelli di Nicolò Amati nipote di Andrea, ri-
petendone anche la tecnica e i sistemi di lavorazione, (vedi i violini così detti amatizzati del
primo periodo), ben presto e con sempre maggiore accelerazione la sua genialità lo portò a
staccarsene con nuove intuizioni.

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Fig. 4 Nicolò Amati: violino « Hammerle » del 1658. Cremona, Palazzo Comunale

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SIMONE F. SACCONI

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Fig. 5 Descrizione di costruzioni geometriche ricavate dalla forma originale G per violino
di A. Stradivari.

Dalla larghezza massima della parte inferiore V-Z si ottiene l’altezza H-I dividendo per 5
e moltiplicando per 9 (cm 20,15 : 5 x 9 = cm 36,27 pari a once cremonesi 9). La stessa
altezza si può ottenere partendo dalla larghezza massima superiore T-U divisa per 4 e
moltiplicata per 9 (cm 16,12 4 x 9 = cm 36,27), essendo sempre nei violini le due larghezze
in rapporto di 5 a 4.
Costruito il triangolo I-H1-H2 sull’altezza I-H con base di uguale misura, si determina
sulla mezzeria il punto B, congiungendo le intersezioni degli archi sui lati del triangolo,
ottenute con centro alternativamente in I-H1-H2 e apertura H1-H. Analogamente si
costruisce il triangolo opposto H-I1-I2 per ottenere il punto C. A1 e A2 si ottengono
centrando in A (punto medio dell’altezza) con apertura A-C1.
I punti E e G si ottengono centrando in A1 con apertura V-L.
Il punto F si ottiene centrando in I con apertura A1-E.
Il punto D si ottiene centrando in E con apertura E-C1.
Il punto M si ottiene centrando in E con apertura E-N.
Il punto L si ottiene centrando in D con apertura D-01.
Centrando in C con apertura C-D si ottiene la larghezza minima al centro P-Q.
Portando infine C-L da E e 01-02 da D si ottiene la lunghezza della forma Y-W.
I punti F, E, D, G, fissano posizioni e misure dei blocchetti delle punte. Sui punti M e L
passano le larghezze massime superiore e inferiore.
I punti I, F, E, D, G, H, sull’asse della forma rappresentano rapporti in sezione aurea. In
fatti I-E è la sezione aurea della larghezza massima superiore; G-H è la sezione aurea
della larghezza massima inferiore; D-E è la sezione aurea di F-G, parte centrale della
forma; la distanza tra le parallele di posizione dei blocchetti delle punte inferiori D-G è
costituita dalla differenza tra la sezione aurea di V-Z e la sua metà; quella tra le parallele
superiori F-E è data dalla differenza tra F-G ed E-D più D-G. La struttura geometrica
della forma così determinata è essenziale ai fini della resa acustica della cassa armonica,
come il rispondere a rapporti di sezione aurea rappresenta un elemento di particolare
equilibrio estetico.

Per le misure Stradivari si valeva del braccio cremonese di cm 48,4, suddiviso in 12 once,
come si vede inciso su una lastra del rivestimento marmoreo della base del Torrazzo in
lato sud.

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SIMONE F. SACCONI

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IDEAZIONE DELL STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Fig. 7 A. Stradivari: disegno a punta Fig. 8 A. Stradivari: riccio del vio-


d’argento di un riccio per violino. lino « Il Cremonese 1715 ». Cremona,
Cremona, Museo Civico. Palazzo Comunale.

La stessa ricerca formale non fu mai in Stradivari fine a se stessa, ma venne col ma-
turare della sua arte via via sempre più subordinata alla preminente esigenza della resa
sonora degli strumenti, fino al sacrificio del pur preziosissimo ornato ad intarsio; e ciò da
parte di chi poteva ben dirsi maestro anche nell’arte dell’intaglio e dell’intarsio.
Concepito lo strumento nel disegno a grandezza naturale, definite le singole parti nei
modelli in carta o legno, stabilite misure e spessori, il maestro passava alla sua esecuzione. Lo
strumento così creato veniva successivamente, anche a distanza di anni, più o

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SIMONE F. SACCONI

meno ripetuto e per questo, a lavoro ultimato, tutto ciò che era servito per la sua costruzione
— forma, disegni, modelli, misure, quinte di curvatura — lo contrassegnava con una stessa
lettera dell’alfabeto e lo conservava ordinatamente in un plico. Tali lettere di contrassegno
sono sempre di pugno di Stradivari, mentre le annotazioni varie sui singoli pezzi, per noi oggi
di estremo interesse, sono a volte autografe, altre a calligrafia dei figli, ma ovviamente su
istruzioni del padre. t da supporsi inoltre, che queste lettere di contrassegno, che avevano lo
scopo di evitare confusioni tra i vari modelli delle diverse forme, non fossero scelte a caso, ma
avessero anche un preciso significato cronologico o riassuntivo delle caratteristiche principali
dell’intera forma. Così ad esempio le lettere PG potrebbero significare prima grande; le
lettere SL, seconda lunga; le lettere P, S, T e Q rispettivamente prima, seconda, terza e
quarta forma; la lettera B, forma buona; le lettere MB, modello buono. A ciò si è indotti dalle
diciture apposte con calligrafia dei figli su alcuni modelli per manici di mandolini sui quali si
legge misura del manicho del mandolino della forma nova F.N.; misura del manicho della
Mandola della seconda forma S.F.; misura del manicho della mandola della Terzia forma
T.F.; e sui tre modelli di ponticello per violoncelli e bassetti, le abbreviazioni MO.BO., che
significano modello buono, come risulta scritto altrove per esteso; o le lettere BO e B, che
probabilmente significano sempre buono. Se la supposizione è esatta, tali annotazioni
divengono di grande utilità al fine di disporre le forme per violino non datate in successione
cronologica, e di seguire dall’uno all’altro strumento l’evolversi della tecnica costruttiva del
maestro.

Fortunose e varie furono le vicende di questo materiale. Raccolto in gran parte dal
conte Cozio di Salabue dopo la morte dei figli di Stradivari, alla chiusura della bottega, esso
passò per le mani di diversi liutai, subendo vaste spogliazioni, specie i pezzi di maggiore
utilizzo pratico, quali le quinte di curvatura e le forme per violoncelli, tutte perdute, fino alla
riunione di quello superstite nel Museo di Cremona. Di alcuni corredi è rimasto solo qualche
pezzo isolato, per noi di estremo interesse per individuare, attraverso alle annotazioni o ai
contrassegni appostivi da Stradivari, le forme perdute, altri fortunatamente sono assai ricchi
di materiale, quali quelli per la costruzione delle viole medicee tenore e contralto.

Avvalendomi del materiale superstite e dell’esame dei numerosissimi strumenti ori-


ginali di vari periodi, di cui ho potuto disporre temporaneamente per riparazioni, mi è stato
possibile ricostruire parte dei modelli perduti, come ad esempio la forma B per violoncelli.
Per ricavare da uno strumento l’esatta forma con la quale fu costruito, si prenda un
foglio di celluloide pesante, ritagliato al centro per evitare la bombatura, lo si sovrapponga al
fondo dello strumento e con una punta tagliente si incida il contorno, seguendo il margine
esterno della filettatura. Questo contorno riprodurrà esattamente la forma impiegata per la
costruzione, in quanto il margine esterno dei filetti corrisponde sempre esattamente a quello
interno delle fasce. Con questo sistema si evita qualsiasi deformazione conseguente all’usura,
che i bordi inevitabilmente hanno subito

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Fig. 9 Andrea Amati: violino « Il Carlo IX di Francia » del 1566. Cremona, Palazzo
Comunale.

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Fig. 10 Andrea Amati: viola tenore ridotta a contralto

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Figg. 11 e 12 Andrea Amati: riccio e particolare della tavola armonica

Figg. 13 e 14 Andrea Amati: viola tenore e riccio di violoncello, facenti già parte del
gruppo di strumenti decorati costruiti per Carlo IX di Francia nel 1566. La viola è strata
ridotta a contralto ed il suo riccio non è originale.

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 15 A. Stradivari: involtini di Pig. 16 A. Stradivari: modelli per


carta per la custodia di piccoli manici di mandole delle forme
modelli, contraddistinti con le lettere seconda e terza. Cremona, Museo
delle forme. Cremona, Museo Civico. Civico.

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Fig. 17 A. Stradivari: viola tenore « Medicea » del 1690.

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SIMONE F. SACCONI

Figg. 18 e 19 A. Stradivari: corredo per la costruzione della viola tenore « Medicea » del
1690, comprendente: la forma; il disegno per il piazzamento delle ff; i modelli per le aste
delle ff; quelli per il manico e il riccio; della tastiera; della cordiera e il fac-simile di
ponticello per l’allineamento di tastiera, ponticello e cordiera. Cremona, Museo Civico.

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

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SIMONE F. SACCONI

FORME ORIGINALI PERVENUTECI E LORO MISURE

FORME PER VIOLINI NON DATATE

Sono tutte da attribuirsi al periodo anteriore al 1689.


Forme contrassegnate con le lettere MB e S. Presentano entrambe le caratteristiche di
Nicolò Amati e sono servite per la costruzione dei primi violini di Stradivari, detti amatizzati.
Le lettere significano modello buono e seconda e devono ritenersi rispettivamente la prima e
la seconda costruite dal maestro.
Forme contrassegnate con le lettere P. T. e Q., rispettivamente prima per violino di
grande formato; terza per violino normale e quarta per violino sette ottavi. Costituiscono una
serie omogenea e rappresentano il deciso distacco dalla tradizione degli Amati.

FORME PER VIOLINI DATATE

Aprono il periodo della maturità e saranno usate per la maggior parte in tutta la
lunghissima attività di Stradivari. La P 1705 sostituisce la P senza data, che da quest’anno
viene abbandonata. Per questo la marca ancora prima, nonostante che nel 1703 avesse già
costruito la seconda, sostitutiva della S amatizzata.

FORMA G grande SENZA DATA

La più grande costruita da Stradivari. Tutti i violini che si conoscono costruiti con essa
appartengono al periodo della maturità dopo il 1710.

VIOLE CONTRALTO

Si conoscono due sole forme, la prima del 1672 e quella del 1690.

VIOLE TENORE

Si conosce una sola forma del 1690.

BASSETTI E VIOLONCELLI

Nessuna forma allo stato originale ci è pervenuta. Dai contrassegni su modelli isolati
del Museo si ha notizia delle seguenti forme:
Prima forma contrassegnata P. Servì per la costruzione dei grandi bassetti del primo
periodo.

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IDEAZIONE DELLO STRUMENTO E SISTEMA COSTRUTTIVO

Violoncello di Venezia del 1696. Rappresenta una riedizione con solo lievi modifiche
della forma P e servì per la costruzione dei bassetti fino al 1700.
Forma T terza probabilmente del 1700.
Forma B buona per veri violoncelli di misure normali, probabilmente del 1709 e usata
fino al 1725-26.
Forma Q quarta per violoncelli piccoli. Si conosce un solo strumento costruito con essa
nel 1726
Forma F.N. forma nuova probabilmente del 1730.

PROSPETTO DELLE MISURE PER VIOLINI

Sono state ricavate dalle forme comprendendovi i blocchi di testa e di fondo. Si ri-
feriscono pertanto all’interno delle casse armoniche, escluse fasce e curvatura del piano e del
fondo.

Larghezza
Al centro delle Massima
Lunghezza massima
Contrassegno CC inferiore
cm superiore
cm cm
cm

MB 34,3 15,6 10,1 19,3


S 34,6 15,4 9,8 19,5

P 34,6 16,1 10,2 19,6


T 34 15,1 9,7 19
Q 33,1 14,5 9,5 18,3

PG 1689 34,8 16,1 10,3 20


SL 1691 35 15,3 10 19,4
B 1692 lunga 35,2 15,3 10,2 19,4
B 1692 corta 34,7 15,4 10,2 19,5
S 1703 34,5 15,7 10,2 19,6
P 1705 34,8 16,1 10,2 20
G 35,4 16,1 10,3 20,1

Sulla vita e l’opera di Stradivari ricordo l’apprezzabile libro di W. Henry, Arthur F. e


Alfred E. Hill: Antonio Stradivari, his life and work 1644-1 737, pubblicato da William E. Hill
and Sons nel 1902, che rappresenta pur sempre un serio impegno di superamento dei
tradizionali luoghi comuni e dal quale presero avvio le mie prime ricerche giovanili.

23
II

CONTORNO DELLO STRUMENTO

Base di partenza per la costruzione di uno strumento era la forma interna sulla quale si
modellavano fasce e controfasce, che Stradivari costruiva in legno, desumendola dal relativo
disegno concepito, definito e tracciato prima sulla carta.

Fig. 20 A. Stradivari: forma P per violino del 1705. Cremona, Museo Civico.

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SIMONE F. SACCONI

Per violini, viole e violoncelli, che costituivano la produzione più ampia ed importante
del maestro, armonia di contorno e proporzioni tra le superfici delle varie parti, superiore o
spalla superiore, inferiore o spalla inferiore, e petto, o zona centrale compresa tra le due CC,
non erano la risultante di solo gusto artistico, abilità o fantasia, bensì riflettevano sempre una
concezione geometrica, rispondente a precisi e costanti rapporti tra di esse, pur nel variare di
misure e dimensioni. Le rare volte in cui alterò queste proporzioni è pensabile lo abbia fatto a
titolo sperimentale, come nella forma allungata per violino del 3 Giugno 1692, che servì per la
costruzione di alcuni strumenti, tra cui il meglio conservato è l’Harrison; sostituita ben presto
con altra in tutto uguale, ma accorciata, del 6 Dicembre dello stesso anno e contraddistinta
con la stessa lettera. Forma del resto poco usata, come risulta dall’assenza di marcati segni di
usura.

Figg. 21 e 22 A. Stradivari: forme B per violino del 3 giugno e del 6 dicembre 1692.
Cremona, Museo Civico.

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CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 23 A. Stradivari: violino Harrison del 1692.

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SIMONE F. SACCONI

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CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 24 Costruzione geometrica del Contorno di una forma per violino, ricavata
dall’originale G di A. Stradivari.

Costruito il triangolo Y-W1-W2 (vedi costruzione fig. 5), si determinano i punti B e C. B


rappresenta il centro acustico dello strumento o baricentro, che divide la tavola armonica in
due superfici uguali e di uguale peso e sul quale vanno poste le tacche interne delle ff e i
piedini del ponticello; C il suo corrispondente superiore, che indica la posizione del massimo
spessore da darsi al fondo.
Determinati anche i punti M1 e M2 centrando in E con apertura CF; L1 e L2 centrando in D
con apertura C-G; R e S facendo P-R uguale F-Y, il contorno della forma così si definisce:
— parte superiore: centrando in M con apertura M-T si descrive l’arco 1-2, centrando in M1
con apertura M1-T si descrive l’arco 2-3, centrando in E con apertura E-Y si descrive l’arco
3-4;
— parte inferiore: centrando in L con apertura L-V si descrive l’arco 5-6, centrando in L1
con apertura L1-V si descrive l’arco 6-7, - centrando in E con apertura E-W si descrive l’arco
7-8;
— parte centrale. centrando in R con apertura R-P si descrive l’arco 9-10;
— le punte superiori si ottengono con apertura E-F, quelle inferiori con apertura D-G.

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SIMONE F. SACCONI

Lo stesso disegno della forma risulta dalle componenti di tanti archi di cerchio, tracciati
a compasso, salvo il leggero ingrossamento delle punte della tavola armonica e del fondo,
inteso a correggere un effetto puramente ottico, che ce le farebbe apparire più esili di quanto
in realtà non siano. Da questo modo di concepire geometricamente e tracciare a compasso il
disegno delle varie forme, deriva quella particolare proporzione degli strumenti di Stradivari.

Fig. 25 A. Stradivari: forma G per violino con la quale fu costruito, tra gli altri, « Il
Cremonese 1715 ». Cremona, Museo Civico.

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CONTORNO DELLO STRUMENTO

Tutte le forme per violini, viole contralto e tenore sono in legno di noce, eccetto quella
in salice della prima viola contralto costruita da Stradivari nel 1672 e quella in pioppo che
servì per la costruzione del violino un quarto « L’Aiglon », ed hanno uno spessore
rispettivamente da mm 13 a mm 15 e di mm 17.
Questi spessori venivano riportati, mediante tracciatura a graffietto di due parallele, sul
centro dei blocchetti all’atto della loro puntatura sulla forma. Ciò al fine di piazzarli sulla
forma esattamente centrati e perpendicolari ad essa. Tali linee di guida sono tuttora
parzialmente visibili all’interno degli strumenti originali non manomessi e in alcuni
violoncelli risultano tracciate anche sui lato interno delle fasce. Esse provano come la forma
stesse al centro dei blocchetti e conseguentemente delle fasce e non ad un loro estremo, come
erroneamente si crede. Ciò è dimostrato altresì dalle piccole scheggiature che a volte si
producevano all’atto dello sfilamento della forma, che si rinvengono sempre sul centro dei
blocchetti ed ancora dalle impronte lasciate dai morsetti di serraggio su entrambi gli estremi
dei blocchi. Tutto questo è assai importante: primo, per una più regolare montatura delle
fasce; secondo, per l’ottenimento della esatta perpendicolarità delle fasce stesse; terzo, per
una conseguente più precisa corrispondenza tra i due contorni verso la tavola armonica e
verso il fondo, che si regolarizzeranno definitivamente con l’applicazione delle controfasce.
Sfortunatamente non si possiede alcuna forma per violoncello allo stato originale, ma
esse dovevano essere in legno di salice con due lunghi tagli longitudinali di impugnatura e
alleggerimento, simili a quelli della forma per viola contralto del 1672. Lo spessore doveva
essere di 3 cm, come si desume dalle linee di piazzamento riscontrate sui blocchetti di
numerosi violoncelli e da una forma conservata nel Museo del Conservatorio di Musica di
Parigi, che ritengo sicuramente assegnabile a Stradivari, poiché ne presenta tutte le
caratteristiche. Essa è in legno di salice, di 3 cm di spessore e con i tagli longitudinali, ma
malauguratamente è stata ridotta dai figli Francesco ed Omobono per la costruzione di
violoncelli più piccoli, tra i quali lo Stuart.
Quasi certamente deve trattarsi della forma contrassegnata con la lettera B, che allo
stato originale servì per la costruzione di alcuni dei più celebri violoncelli di Stradivari, tra cui
il Gore Booth del 1710; il Duport del 1711; il Piatti del 1720; il Vaslin del 1725. Tra i pezzi del
corredo di questa forma, conservati nel Museo di Cremona, c’è il disegno a compasso del petto
del violoncello (n. 172 di Catalogo) con tracciato lo schema per le misure delle ff di risonanza e
loro giusto piazzamento e con l’annotazione autografa di Stradivari Musura per la forma B
per far li occhi del violoncello. Sul retro del foglio di carta è stato ripetuto lo stesso disegno
con modifica delle misure e del piazzamento delle ff (il diametro degli occhielli inferiori è
stato ridotto da mm 19 a mm 16,5 e sono state distanziate le ff di circa 15 mm) e con la scritta
a calligrafia dei figli di Stradivari Per far li occhi della forma B picola del violoncello.
La modifica operata dai figli nel piazzamento delle ff è illuminante circa l’accenno fatto
riguardo all’influenza dell’ampiezza della superficie centrale vibrante della tavola ar-

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SIMONE F. SACCONI

Monica compresa tra le ff sulla resa sonora dello strumento. Infatti accorciando essi la forma,
hanno ridotto la lunghezza dello strumento e conseguentemente diminuito il volume della
cassa.

Fig. 26 A. Stradivari: forma SL per violino del 1691 con i modellini per il taglio dei
blocchetti. Cremona, Museo Civico

32
CONTORNO DELLO STRUMENTO

Per ricreare l’equilibrio alterato sarebbe occorso avvicinare le ff tra di loro, anziché
distanziate come hanno erroneamente fatto; dimostrando con questo di non aver capito e
assimilato i principi fondamentali in base ai quali il padre concepiva e realizzava i propri
strumenti.

33
SIMONE F. SACCONI

Figg. 30, 31 e 32 A. Stradivari: forma per violino ¼ e modello per il manico terminante
con voluta a scudo in luogo del riccio, coi quali fu costruito « L’Aiglon »del 1734. Cremona,
Museo Civico.

34
CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 33 A. Stradivari: violino « L’Aiglon » del 1734.

35
SIMONE F. SACCONI

Fig. 34: A. Stradivari: forma per viola contralto del 1672. Cremona, Museo Civico.

36
CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 25 A. Stradivari: viola contralto del 1672 con fondo in pioppo.

37
CONTORNO DELLO STRUMENTO

Figg. 36 e 37 Ricostruzione della forma B per violoncelli e disegno di A. Stradivari per il


piazzamento delle ff. Cremona, Museo Civico.

39
SIMONE F. SACCONI

40
CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 38 A. Stradivari: violoncello


« Duport » del 1711.

41
SIMONE F. SACCONI

Fig. 39 A. Stradivari: violoncello


« Piatti » del 1720.

42
CONTORNO DELLO STRUMENTO

43
SIMONE F. SACCONI

44
CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 40 Francesco e Omobono Stra-


divari: violoncello « Stuart ».

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 41 Francesco e Omobono Stradivari: disegno per il piazzamento delle ff dei violoncelli
della forma B ridotta. Cremona, Museo Civico.

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CONTORNO DELLO STRUMENTO

Su ogni forma sono segnate, mediante due aperture di compasso, le altezze dei blocchetti,
che dettavano quelle definitive delle fasce; la maggiore indica l’altezza dei blocchi delle punte
e del fondo, quella minore l’altezza dei blocco di testa. Queste misure sono rispettivamente di
mm 32 e mm 30 nei violini; mm 39 e mm 37 nelle viole contralto; mm 42 e mm 39,5 nelle
viole tenore; mm 126 e mm 120 nei violoncelli. Le due coppie di linee parallele tracciate
trasversalmente alla forma in corrispondenza dei blocchetti delle punte davano invece, con la
distanza intercorrente tra ciascuna di esse, il raggio per la tracciatura a compasso delle curve
delle punte, per il completamento del disegno della forma, dal quale venivano ricavati i
modellini in legno, da servire per il taglio dei blocchetti.
Fatta eccezione per le due forme per violino contrassegnate con le lettere MB e S, tra le
prime costruite da Stradivari (quasi sicuramente prima e seconda) con le quali furono
costruiti i violini così detti amatizzati, e che presentano ancora tutte le caratteristiche degli
Amati (punte tutte e quattro uguali e uncini delle CC più rotondi) già con le successive si
stacca dalla tradizione; la coppia superiore di punte si differenzia da quella inferiore e le CC si
presentano meno enfatiche. Ma assai più importante agli effetti sonori sarà la curvatura della
tavola armonica al petto dello strumento che si tenderà ed espanderà fin quasi alla filettatura,
offrendo alla tavola una maggiore libertà di vibrazione. Infatti, mentre negli Amati questa
curva sale dolcemente dai margini delle CC verso il centro, producendo una sagomatura
leggermente a schiena d’asino, in Stradivari, pur mantenendosi alla bombatura la stessa
altezza massima, l’ascesa della curva, iniziando più a ridosso dei margini ed avendo
andamento più repentino, determina una più ampia zona centrale di distensione.
Predisposta la forma in legno, Stradivari iniziava col puntare sulla stessa, con piccole
gocce di colla sui soli lati verticali (per facilitare la successiva rimozione dalle fasce) sei
blocchetti di legno di salice di altezza definitiva pari alla maggiore delle due segnate sulla
forma; quello di testa andrà successivamente rastremato per rapportarlo, sui centro del lato
esterno, a quella minore. Piazzati uno di testa, uno di fondo e quattro in corrispondenza delle
punte, negli appositi vuoti della forma, in modo che ciascuno di essi risultasse esattamente
centrato rispetto al suo spessore e perfettamente perpendicolare alla sua superficie, dettavano
l’altezza delle fasce. Delle quattro facce di ciascun blocchetto delle punte le due interne
aderivano allo spessore della forma, quelle esterne andavano tagliate seguendo le curve delle
punte stesse, in ciò servendosi degli appositi modellini. I blocchi di testa e di fondo aderivano
invece alla forma su tre lati ed il quarto andava pure tagliato secondo le curve del disegno,
usandosi anche per questi tagli i modellini predisposti. La linea esterna della forma veniva a
risultare così completa ed ininterrotta come dai disegno e su di essa venivano modellate le
fasce.
Queste si componevano di quattro pezzi congiungentisi in corrispondenza dei blocchi ed
erano disposte con l’avvertenza che l’inclinazione della marezzatura del legno corresse tutta
nello stesso senso, girando attorno allo strumento. Le fasce per violino erano sempre in legno
di acero, per viole e violoncelli Stradivari usò anche pioppo e salice,

47
SIMONE F. SACCONI

Figg. 42 e 43 A. Stradivari: forme per violino MB e PG. Cremona, Museo Civico.

Fig. 44 Curvatura del piano armonico dei violini di Nicolò Amati e di A. Stradivari.

48
CONTORNO DELLO STRUMENTO

mentre i figli hanno adoperato pure faggio, con uno spessore nei violini e nelle viole, sia
contralto che tenore, di mm 1, e qualche volta anche scarso, e da mm 1,3 a mm 1,5 nei
violoncelli. In questi ultimi, data la sottigliezza in rapporto all’altezza, usava rafforzarle con
strisce trasversali di tela di cm 7 x 5 circa, incollate sull’interno delle fasce tra le due
controfasce, a distanze regolari di un centimetro e mezzo circa l’una dall’altra in ragione di 8
per l’arco superiore, 3 per ogni tratto delle CC e 10 per l’arco inferiore. Purtroppo molte di
queste strisce sono state rimosse perché ritenute rappezzi di spaccature, ma in tutti i
violoncelli di Stradivari in cui sono state rispettate, non s’è prodotta la ben che minima
lesione alle fasce, anche nelle posizioni, come l’inferiore, più soggette a danneggiamenti per
colpi od urti. L’uso di fasce sottili ha grandissima influenza sulla brillantezza e libertà del
suono, in quanto non interferiscono con gli specifici movimenti della tavola armonica e del
fondo. Si è constatato come strumenti con fasce di grosso spessore abbiano suono smorzato,
quasi in sordina, perché la tavola è meno libera di vibrare ed il fondo di pulsare.

49
SIMONE F. SACCONI

La modellatura doveva avvenire a caldo, mediante curvatura dei tratti di fascia su


apposito ferro, più o meno grande a seconda che si trattasse di violino, viola o violoncello.
Questo ritengo dovesse consistere in un cilindro ellittico, munito di manico per essere
immorsato e tenuto fermo. Scaldato a temperatura quasi bruciante, vi si costringeva sopra il
tratto di fascia, protetto contro eventuali spaccature, specie in caso di legno con profonda
marezzatura, da una lamina di piombo, posta sopra e piegata insieme. In questo lavoro
Stradivari poneva la massima cura e diligenza; infatti in nessuno dei suoi strumenti si notano
tracce di bruciature, assai frequenti invece in quelli di Guarneri del Gesù.

Per l’incollatura delle fasce ai blocchi, le forme avevano, in corrispondenza dei blocchi
stessi, dei fori nei quali andavano ad infilarsi pioli di legno ad altezza maggiore delle fasce,
mentre sull’esterno si ponevano delle controsagome con una faccia di sagomatura contraria
alla corrispondente curva del blocchetto, così da ottenersi una perfetta aderenza. Mediante
funicelle abbraccianti le sporgenze del piolo e della controsagoma, da entrambe le parti, si
legava e stringeva, immorsando in tal modo la fascia contro il blocchetto, fin-

50
CONTORNO DELLO STRUMENTO

ché la colla non fosse essiccata. Gli intacchi che si notano agli estremi delle controsagome
servivano ad impedire qualsiasi scorrimento delle funicelle. L’incollatura delle fasce co-
minciava sempre dai due pezzi formanti gli archi delle CC e il taglio ai quattro capi era
praticato seguendo l’ideale prolungamento dell’altra faccia del blocchetto, in modo che, alla
applicazione dei successivi tratti di fascia, inferiore e superiore, i giunti avvenissero per
sovrapposizione. Il taglio poi degli estremi di questi altri tratti, che veniva operato dopo
compiuto il completo incollaggio, doveva risultare parallelo alla troncatura delle punte del
fondo e della tavola armonica, perché solo in tal modo il giunto non risultava visibile.

Fig 50 A. Stradivari: controsagome e pioli per il serraggio delle fasce. Cremona, Museo
Civico

51
SIMONE F. SACCONI

Sulle controsagome originali, conservate nel Museo, si notano delle bruciature dovute
alla pratica di scaldare con fiamma, dopo l’immorsamento ed il serraggio. Queste operazioni
richiedevano un certo tempo, per cui la colla andava fatta di tanto in tanto rinvenire per
ottenere una incollatura ininterrotta e tenace. Infatti l’abbassamento di temperatura della
colla ne riduce la fluidità, con conseguente minore capacità di presa. È il fenomeno che i liutai
chiamano, con termine dialettale, di impolmonimento.
A questo punto andavano predisposte le controfasce, consistenti in listelli di legno di salice di
mm 2 x 8 circa, correnti all’interno dello strumento lungo entrambi i margini delle fasce. Esse
avevano la funzione di mantenere il contorno rigido, fermo e regolare, come pure di offrire
una maggiore superficie di aderenza per l’incollatura della tavola armonica e del fondo. Non
venivano però subito incollate alle fasce, perché in tal caso non sarebbe più stato possibile
sfilare la forma, ma inserite e tenute provvisoriamente a pressione. L’incollatura avverrà
successivamente dopo la scultura della tavola e del fondo e a forma tolta. Gli estremi dei tratti
superiori ed inferiori appoggiavano forzatamente ai blocchetti di testa, di fondo e delle punte,
e per questo i tagli ai loro estremi, anziché ad angolo retto, erano praticati leggermente a
cuneo. Su tutte le forme pervenuteci si osservano, in corrispondenza dei blocchetti,
caratteristiche graffiature, attribuibili alla forzatura delle controfasce mediante un attrezzo da
lavoro. I tratti invece in corrispondenza delle CC penetravano nei blocchi delle punte per circa
6 o 7 mm, in incastri fatti con coltello bene affilato e sottile. Presentandosi di testa il legno dei
blocchetti, l’incastro veniva operato con una successione di tagli fino alla profondità
d’incontro della forma, come è dimostrato dalle piccole incisioni, che in questi punti si notano
sulle forme stesse. Così provvisoriamente montate , ne veniva smussato ed arrotondato,
sempre con il coltello, lo spigolo interno aderente alla forma, sulla quale sono avvertibili i
segni anche di questa operazione. Altrettanto sulle controfasce sono tuttora visibili le striature
prodotte dalla pelle di palombo, di cui Stradivari si serviva per la loro levigatura.
L’incollatura delle fasce ai blocchi e delle controfasce alle fasce, quando quest’ultima
avverrà, poteva facilmente aver prodotto dei piccoli rigonfiamenti con disuguaglianze sul
diritto delle fasce, che Stradivari correggeva con colpi di lima fine, dati longitudinalmente per
non intaccare la leggera bombatura e trasversalmente in corrispondenza dei blocchi. Questa
leggera bombatura delle fasce era data dal ridotto spessore della forma interna, mm 13 circa
per i violini, rispetto alla loro altezza di mm 32 e 30. Quando venivano montate sulla forma,
essendo il piano d’appoggio limitato alla sola parte centrale, qui si produceva un lieve
rigonfiamento rispetto ai margini superiore ed inferiore, che conferiva morbidezza all’intera
fascia, togliendole ogni eventuale apparenza di rigidità.
Era così creato il contorno dello strumento, che detterà forma e spessori marginali della
cassa armonica, e si poteva provvedere alla scultura della tavola o piano armonico e del fondo.
Attorno al 1830 Giambattista Villaume introdusse l’uso di forme esterne di spessore
pari all’altezza delle fasce, con ciò capovolgendo il procedimento costruttivo dei liu-

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CONTORNO DELLO STRUMENTO

Fig. 51 A .Stradivari: interno del violino « Il Delfino » deI 1714.

Fig. 52 A. Stradivari: interno del Violino « Kreisler » del 1711.

tai classici. Infatti, mentre con la forma interna il contorno dello strumento si definisce a poco
a poco con una modellatura morbida, che riceve tutte le impronte della valentia e della
personalità del maestro trasmesse poi ai taglio della tavola e del fondo, in quanto per la
tracciatura del relativo contorno ci si servirà dell’ossatura dello strumento — con quella
esterna invece si stampa un contorno meccanico, la cui freddezza si ripete nel taglio del fondo
e della tavola, usandosi per la tracciatura la forma e non già il modellato delle fasce. Viene
così anche a scomparire la leggera bombatura delle fasce, dandosi luogo addirittura ad un
avvallamento. Da ciò la plasticità e personalità degli strumenti antichi di contro all’anonimato
e alla meccanica precisione, dall’apparenza di produzione in serie, di quelli costruiti con
forma esterna.

53
III

SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Stradivari poneva una particolare cura nella scelta dei legni per il piano armonico o
tavola e per il fondo, data la loro importanza fondamentale e preminente sulla resa sonora
dello strumento.
Per la costruzione del piano, che componeva di regola con due pezzi, si servì gene-
ralmente di abete rosso o maschio (picea excelsa) possibilmente di venatura regolare a lar-
ghezza media; solo eccezionalmente usò abete bianco (abies pectinata) assai meno pregiato
perché di minor nerbo. Piani di un sol pezzo, più comuni in Nicolò Amati, sono quanto mai
rari in Stradivari e si riscontrano quasi tutti in violini costruiti all’inizio della sua attività; il
che fa supporre che l’acquisita esperienza glielo abbia sconsigliato. Infatti con l’apertura a
libro dei due pezzi di abete, di cui si compone normalmente la tavola, si ottiene la perfetta
uguaglianza delle fibre del legno su entrambe le metà, con conseguente giusto equilibrio tra le
due parti del piano armonico. Nel congiungimento dei due pezzi le venature, costituite dagli
anni di accrescimento del legno, dovevano risultare perfettamente perpendicolari al piano e
parallele al giunto, perché solo in questo caso il legno offriva la giusta resistenza, necessaria
per una equilibrata, sincrona vibrazione. Strumenti con tavole a venatura inclinata, non
perpendicolare al piano armonico, producono suono eccessivamente morbido, con minor
vigore e scarsa capacità di espansione, che Stradivari giudicava un difetto e correggeva,
quando era costretto ad usare abete il cui taglio produceva questa inclinazione, con un piccolo
aumento di spessore della tavola.
Per rendersi conto di questo occorre tener presente che le vibrazioni avvengono in
senso trasversale allo strumento con movimento oscillatorio della tavola, più accentuato nella
parte centrale compresa tra le ff, e che queste oscillazioni sono proporzionali alla resistenza
che offre il legno. A legno fiacco, come quello a venatura inclinata, corrispondono oscillazioni
attutite.
Si è parlato di resistenza del legno, non di spessore, perché a sua volta potenza e
prontezza della vibrazione sono in rapporto con lo spessore e l’ampiezza della superficie vi-
brante. Infatti l’aumento dello spessore nel caso in esame, come in altri che si vedranno,
rappresenta, entro certi limiti, il correttivo di un difetto e, ben conoscendo Stradivari l’esi-
stenza di un preciso rapporto tra qualità del legno da usarsi per la tavola, sua resistenza,
spessore ed ampiezza della superficie vibrante, in tutta la sua migliore produzione scelse

55
SIOMONE F. SACCONI

Fig. 53 Albero di abete maschio delle Dolomiti (picea excelsa).

sempre abete maschio, di bella venatura media regolare, giustamente tagliato perché gli
assicurasse l’esatta perpendicolarità delle vene e gli consentisse l’uso di spessori sottili. Tutte
queste condizioni costituivano l’optimum.
Il fondo invece è in acero in tutti i violini, in quasi tutte le viole ed in circa tre quinti dei
violoncelli superstiti, mentre in qualche viola è in pioppo e nei restanti due quinti dei
violoncelli in pioppo o salice. La resa sonora di questi legni, in quanto tutti rigidi, si equi-
valeva, tanto che strumenti con fondo in pioppo, ed ancora più in salice, hanno sonorità ricca,
vitale ed energica. La scelta cadeva di preferenza sull’acero unicamente per la decorativa
impronta delle sue luminose venature e, tra le diverse varietà di questa essenza, sull’acero dei
Balcani (acer pseudo platanus) in quanto più rigido, leggero e pronto nel rimando del suono
di quello nostrano (acer campestris).
Questi legni erano di regola tagliati di quarto (taglio radiale) ed il fondo si componeva
normalmente di due pezzi ricavati dalla stessa sezione; solo eccezionalmente erano tagliati

56
SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

di scorza (taglio tangenziale) ed in questo caso il fondo era sempre di un sol pezzo. Il taglio di
quarto veniva preferito perché dava al legno maggiore resistenza, tanto che, nel caso di taglio
di scorza, se ne aumentava lo spessore.

57
SIMONE F. SACCONI

58
SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Fig. 57 A. Stradivari: violoncello


del 1726 con fondo in salice.

59
SIMONE F. SACCONI

Su un lato ben livellato della tavola di legno predisposta per il fondo, quando questa era
di un sol pezzo, Stradivari iniziava col tracciare la mezzeria; se era composta di due pezzi
questa risultava già dalla linea di congiungimento. Procedeva poi a sovrapporvi la forma con
già montate le fasce, centrandola perfettamente, e riportava sulla tavola per

Fig. 58 A. Stradivari: particolare del fondo in acero del violino « Soil » del 1714.

60
SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

la costruzione del fondo la linea esterna delle fasce, segnandola mediante graffiatura di un
punteruolo. Il blocco, costituito dalla forma con montate le fasce, e il fondo venivano tenuti
fermi con due piolini provvisori di ferro, applicati sui blocchetti di testa e di fondo, in
corrispondenza della mezzeria. La posizione dei piolini doveva essere tale da consentire
successivamente il più possibile la loro copertura coi filetti. In questi due punti il legno
andava scarnito, onde evitare di mancare la perpendicolarità dei fori a causa dell’inutile, ec-
cessivo spessore del legno. Quando gli strumenti originali non sono stati manomessi o
raschiati, è tuttora dato di riscontrare, allorché vengono aperti, l’incisione fatta con il pun-
teruolo, consentendoci di stabilire con sicurezza il sistema di riporto. Quindi con una punta a
tracciare, appositamente distanziata da questo contorno di 4 mm e 4,5 per i violoncelli, ne
segnava un secondo equidistante al primo. Seguendo questo secondo tracciato, segava il
contorno del fondo. La distanza tra i due tracciati non costituiva ancora la larghezza definitiva
del bordo od orlo dello strumento, che, a lavorazione ultimata, risulterà di 3 mm scarsi nei
violini, di 3 mm nelle viole e di 3,5 nei violoncelli.
Con un graffietto tagliente marcava poi lo spessore dei bordi, che, a scultura ultimata,
risulterà nei violini di 4 mm salente a 4,5 al centro delle CC ed a 5 alle estremità delle punte;
nelle viole e nei violoncelli questi spessori aumentavano rispettivamente di mezzo millimetro
e di un millimetro. Dava quindi una prima sgrossata alla bombatura del fondo.
Perché la scultura vera e propria risultasse regolare ed il più possibile simmetrica, si
serviva di quinte di curvatura, così denominate perché generalmente in numero di cinque.
Esse determinavano la bombatura da dare al fondo, che poteva raggiungere una altezza
massima al centro acustico dello strumento di 15 mm nei violini. Costituite da sagome in
legno, ciascuna riproducente la curva su cui andava posta, venivano usate orizzontalmente
all’asse dello strumento ed erano diverse per il fondo e per il piano, avendo essi differente
curvatura. Appoggiate alle estremità sui segno tracciato sui bordo per la determinazione dei
suoi spessori, venivano piazzate: la prima, sulla larghezza massima della parte superiore; la
seconda, in corrispondenza delle punte superiori; la terza, ai centro delle CC; la quarta, sulle
punte inferiori; la quinta, sulla massima larghezza della parte inferiore. Ad esse se ne
aggiungeva un’altra, riproducente la curva in senso verticale in corrispondenza della mezzeria
dello strumento e per questo a volte vengono anche chiamate seste.
La scultura del lato esterno del fondo cominciava con lo scavo a sgorbia grossa e ro-
tonda di solchi trasversali in corrispondenza delle quinte, ciascun solco riproducendo la curva
della propria quinta. Con successivo lavoro di sgorbia raccordava i vari solchi, per ottenere la
sagomatura esterna. Seguiva il lavoro di rifinitura, prima con sgorbia quasi piatta, poi con
piallettini convessi a denti ed infine con rasiera. A queste rasiere, ricavate da lame di sciabole
(se ne conservano alcune nel Museo Civico di Cremona), essendo di acciaio molto duro, non si
poteva voltare il filo e quindi andavano adoperate a mo’ di coltello. La rasatura risultante era
più liscia e non si alzava il pelo del legno, in quanto l’attrezzo non subiva impuntature ed
intaccava meno profondamente la superficie da rasare. Per la finale levigatura, che avverrà a
cassa chiusa, si serviva di pelle di palom

61
SIMONE F. SACCONI

bo o squalo di sabbia e di asprella (equisetum, erba abrasiva che cresce abbondante nei
terreni umidi lungo i fiumi ed i canali, detta comunemente coda di cavallo).
Tanto la pelle di palombo quanto l’asprella, prima dell’uso venivano immerse in acqua e
quindi asciugate in un panno di cotone. Questo procedimento rammorbidiva la parte di
supporto, mantenendo inalterata quella cornea o silicea. Al presente nelle ope

Fig. 59 Sistema di sgrossamento della tavola e del fondo.

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

razioni di levigatura di qualsiasi parte dello strumento, compreso il riccio, non va mai usata la
carta vetrata perché, essendo rigida, toglie alla scultura freschezza e personalità di taglio.
Inoltre essa, a differenza della pelle di palombo e dell’asprella che producono taglio
netto sulla superficie lavorata, raschia e solleva a pelo il legno.

Fig. 60 Quinte do curvatura del fondo di violino.

63
SIMONE F. SACCONI

La curvatura o bombatura, a scultura ultimata, doveva risultare regolare rispetto alla


linea di contorno e simmetrica tra le due metà di destra e di sinistra; regolarità e simmetria
che Stradivari otteneva con un costante controllo delle varie quote, la cui successione doveva
dare curve di livello in armonia fra loro, sicuramente servendosi di spessimetri graduabili a
punta tracciante, alcuni dei quali si conservano nel Museo. Questa curvatura ai margini dello
strumento non è ancora quella definitiva, mancando la sguscia sopra

Fig. 61 Quinte di curvatura del fondo di violoncello

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

i filetti, che verrà fatta dopo la filettatura e che, per raccordarsi armonicamente con l’intera
bombatura, la interesserà tutta attorno allo strumento per circa 3 cm verso l’interno, salvo
agli archi delle CC, ove la sguscia sarà più stretta ed il raccordo richiederà minore ampiezza,
salendo la curvatura più repentinamente

Fig. 62 Quinte di curvatura del fondo di viola contralto.

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 63 Curve di livello del fondo di violino. Sono state calcolate le deformazioni dovute
alla spinta dell’anima, alla pressione della spalla durante l’uso e al tiraggio del manico.

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Fig. 64 Curve di livello del fondo di viola contralto.

Fig. 65 Curve di livello del fondo di violoncello.

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SCULTURA DEL FONDO DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Veniva ora segnato sul lato interno del fondo, con una certa approssimazione, anche il
contorno interno delle controfasce e dei blocchetti, che indicava grosso modo il limite dello
scavo. Lo spazio compreso tra il tracciato dei contorno esterno delle fasce e quello interno
delle controfasce, costituendo la superficie di aderenza per l’incollatura, doveva essere
rigorosamente rispettato, per non alterare il perfetto livellamento.
Lo scavo della parte interna veniva praticato con una prima sbozzatura, che riduceva il
fondo ad uno spessore provvisorio di circa 6 mm nell’area attorno al corrispondente superiore
del centro acustico dello strumento, digradante a 4 mm alle estremità. Si rivedano sui disegno
n. 24 i tre centri: A, centro geometrico o metà della forma; B, centro acustico sul quale cadono
le tacche delle ff e il ponticello; C, suo corrispondente superiore per la determinazione della
posizione del massimo spessore da darsi al fondo. Questo centro può essere altresì fissato
pressapoco dividendo la lunghezza della cassa armonica dello strumento in nove parti uguali
e prendendo a centro il punto 5 partendo dal basso.
Per stabilire le zone del fondo, alle quali andava dato diverso spessore, fatto centro su
questo punto, delimitava, per un fondo di violino, una prima area circolare di cm 7 di
diametro; una seconda di cm 14 e, a circa 2 cm dagli estremi superiore ed inferiore di
quest’ultima, come pure a 2 cm circa dalle controfasce e dai blocchetti di testa e di fondo
delimitava le due aree, superiore ed inferiore, denominate in gergo liutario polmoni.
Provvedeva quindi a ridurre il fondo agli spessori definitivi di mm 4,5 al centro, discen-
dendo fino a mm 3,8 sul primo cerchio, a mm 3,5 sul secondo, a mm 2,4 nel polmone
superiore e a mm 2,6 in quello inferiore, il tutto armonicamente raccordato. Per le viole e i
violoncelli si vedano gli spessori indicati sui relativi disegni. In conseguenza della rac-
cordatura, che doveva riferirsi anche alla sagomatura esterna, come pure per la futura
sgusciatura sui filetti con relativo raccordo esterno tutt’attorno allo strumento, l’andamento
definitivo degli spessori risulterà ovaleggiante ed il punto di maggior spessore si sposterà
leggermente verso il basso, rimanendo comunque sempre al di sopra del centro geometrico
della forma. Negli strumenti degli Amati e di Andrea Guarneri, a differenza di quelli di
Stradivari e di Guarneri del Gesù, il maggior spessore si riscontra invece sempre esattamente
in corrispondenza del centro geometrico e i moderni lo spostano verso il basso fino a farlo
coincidere addirittura con la posizione dell’anima, ossia col centro acustico della cassa.
Ciò costituisce un errore gravissimo, perché il maggior spessore per assolvere alla sua
funzione di facilitare il movimento del fondo, non deve essere frenato dall’azione specifica
dell’anima. L’ignoranza di tutto questo ha fatto sì che alcuni liutai, ritenendo sbagliata la
posizione degli spessori del fondo negli strumenti di Stradivari e di Guarneri del Gesù,
abbiano proceduto in alcuni di essi all’assottigliamento di questa parte del fondo al fine di
spostare lo spessore maggiore sotto all’anima, come praticavano negli strumenti di loro
costruzione; con la conseguenza di alterare sensibilmente le caratteristiche del suono. Da
parte mia, quando mi è stato possibile, ho provveduto a reintegrare gli spes

69
SIMONE F. SACCONI

sori manomessi sulla scorta delle risultanze di quelli integri per riottenere il suono originario.

Fig. 66 Spessori della tavola e del fondo nei violini.

70
SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Le zone però ai margini estremi superiore ed inferiore, delimitate da due rette ideali
trasversali, passanti sui margini interni dei blocchetti di testa e di fondo, venivano sempre
escluse da Stradivari dallo scavo, per cui a queste due linee corrispondeva una angolosità,
come è dato vedere a strumenti aperti e conservatisi integri. Queste due piccole aree non
scavate assicuravano una perfetta incollatura sotto ai blocchi, specie ai loro lati, e quella
superiore costituiva altresì un rinforzo che rendeva meno facile l’inclinazione del manico per
effetto della deformazione della tavola armonica in quel punto, sotto la spinta della tensione
delle corde, soprattutto negli strumenti con bombatura piuttosto accentuata. Un tale
inconveniente si produce quando lo strumento è soggetto ad una certa carica di umidità. 1~
perciò grave errore eliminare questo rinforzo, come malauguratamente è stato fatto in molti
strumenti.
La maggior parte delle misure date e che si daranno vanno intese mediamente indica-
tive, o comunque riferite alla concorrenza di tutte le condizioni indicate come ottime, stante la
grande varietà dèlla produzione stradivariana, le caratteristiche di volta in volta conferite agli
strumenti e la qualità e taglio dei legni impiegati. Per esempio, se l’acero aveva profonda
marezzatura, aumentava gli spessori fino al massimo di un millimetro; questo perché la
profondità dell’ondulazione, provocando l’interruzione delle fibre, toglieva nerbo al legno;
come pure se il legno usato era di taglio tangenziale.

Fig. 67 Acero dei Balcani


(acer pseudo platanus) a
marezzatura normale e a
marezzatura profonda.

71
SIMONE F. SACCONI

Fig. 68 Spessori della tavola e del fondo nelle viole contralto.

Fig. 69 Spessori della tavola e del fondo nei violoncelli.

72
SIMONE F. SACCONI

Fig. 70 Calco in gesso della scultura del fondo di un violino di Stradivari del 1715.

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

La predisposizione della tavola armonica avveniva con lo stesso procedimento descritto


per il fondo, secondo la successione delle seguenti operazioni: riporto del contorno delle fasce
sulla tavola precedentemente portata a traguardo (anche la traccia di questo riporto è tuttora
visibile all’interno degli strumenti non raschiati); tracciatura della linea esterna del bordo
equidistante da quella delle fasce; segatura della tavola seguendo questa linea; segnatura sul
bordo dello spessore da dare ad esso; scultura del lato esterno della tavola, per la cui
curvatura, diversa da quella del fondo, predisponeva apposite quinte. Circa lo spessore,
doveva risultare assolutamente costante, data la diversa funzione della tavola rispetto al fondo
e veniva determinato tenendo conto: della qualità del legno, abete rosso o bianco; della
larghezza della sua venatura, stretta, media, larga; del suo taglio che, pur dovendo essere
sempre radiale, poteva consentire più o meno la esatta disposizione perpendicolare delle
vene; infine dell’altezza della curvatura. L’optimum lo otteneva con im-

Fig. 71 Quinte di curvatura della tavola di violoncello.

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SIMONE F. SACCONI

piego di abete rosso, di venatura di media larghezza, tagliato in modo da assicurare la per-
pendicolarità delle vene, perché in tal modo si aveva la giusta resistenza del legno tale da
consentire l’uso di spessori sottili. In tutti gli altri casi, non concorrendo o difettando qual-
cuna delle suddette condizioni, il necessario aumento dello spessore del piano armonico co-
stituiva il correttivo, fatta eccezione per l’abete a venatura molto stretta, che compensava

Fig. 72 Quinte di curvatura della tavola di viola contralto.

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

con un minore spessore della tavola. In ogni caso l’esatto spessore da adottarsi di volta in
volta veniva dettato, come si vedrà, dalla nota prodotta dal piano armonico alla sua
percussione.

Fig. 73 Quinte di curvatura della tavola di violino.

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SIMONE F. SACCONI

Come per il fondo anche alla tavola armonica sono state apportate a volte alterazioni
negative per ignoranza dei rigorosi canoni seguiti da Stradivari; e precisamente provvedendo
all’applicazione di uno strato di abete nell’area del centro acustico al fine di aumentarne lo
spessore. La tavola agisce come una membrana, e ben si sa che questa per rendere al meglio
deve avere spessore costante.

Fig. 74 A. Stradivari: particolare della tavola armonica del violino « Il Cremonese 1715».

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Lo scavo interno del piano iniziava con una prima sbozzatura che lo riduceva, per i
violini, ad un costante spessore provvisorio di circa 3 mm, dopo di che veniva preparata allo
spessore di circa mm 2,8 la zona dove andranno tagliate le ff, rispettandosi, come per il fondo,
l’area sottostante alla sguscia dei filetti. In tutte queste operazioni di scavo degli interni, tanto
per il fondo quanto per il piano, Stradivari si serviva di spessimetri vari a battimento, per
ottenere dei punti di riferimento e per i controlli. Alcuni di questi attrezzi in legno ed in ferro,
si conservano nel Museo. Sull’interno di taluni strumenti si notano tuttora dei piccoli fori
triangolari, prodotti dalle punte di spessimetri, che dovevano costituire punti di riferimento
per gli spessori. È da supporsi che la loro conservazione sia

Fig. 75 A. Stradivari: spessimetri di cui uno a battimento. Cremona, Museo Civico.

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SIMONE F. SACCONI

dovuta al fatto che in origine lo spessore stabilito era minore, ma, dando già il fondo od il
piano alla percussione la nota buona, Stradivari si sia arrestato nell’assottigliamento, anziché
procedere fino al fondo dei fori. Infatti questi residui di fori si riscontrano tutti su piani
armonici a venatura inclinata o su fondi di legno con minore resistenza, ai quali dovette dare
conseguentemente spessori maggiori di quelli prima previsti.
Già si è accennato alla specifica funzione del fondo e del piano, per cui andava loro data
una diversa curvatura. Nel piano armonico, dovendo esso vibrare con movimento oscillatorio
rispetto all’asse dello strumento, la curvatura al petto si presenta più pronunciata rispetto a
quella del fondo (ad esempio nei violini 17 mm di altezza massima contro 15) ed ha una
disposizione regolare che determina un’ampia zona centrale meno arcuata. Inoltre, in senso
verticale, questa regolarità prosegue oltre la zona compresa tra le CC, generando una tromba
dello strumento più tesa. Se si riporta a grafico la curvatura, si nota subito come le linee
risultanti non si allargano sensibilmente oltre le CC per seguire l’andamento del contorno,
come negli Amati, il che toglierebbe vigore al suono, ma pro-seguono in linea più diritta.
Tutto questo e determinante ai fini della robustezza ed incisività del suono.
Il fondo invece, fungendo da vera e propria molla respingente del suono, deve avere una
curvatura meno pronunciata, in quanto una sua maggiore profondità ne indebolirebbe la
capacità di rimando. Essa poi, se nel senso verticale mantiene un andamento analogo a quello
del piano, orizzontalmente ha sguscie ai lati più ampie e conseguentemente maggiore
concentrazione della curva nella zona centrale. Tale maggiore ampiezza delle sguscie laterali
ha grandissima importanza, perché da essa dipende la maggiore o minore capacità del fondo a
funzionare da molla. Infatti la parte centrale del fondo, nel suo abbassamento sotto l’urto
delle vibrazioni, tende le sguscie laterali, che, con questa tensione generano a loro volta una
controspinta, che fa risalire il centro del fondo oltre la iniziale posizione di partenza. Si
imprime in tal modo al movimento sussultorio dell’intero fondo il massimo di ampiezza,
prontezza e continuità, dalle quali dipende la purezza del suono. Essendo questo movimento
generato dall’urto delle vibrazioni del piano, dalla pressione dell’aria contenuta nella cassa
armonica e dall’azione di trasmissione dell’anima, questa non va mai piazzata in
corrispondenza del massimo spessore del fondo, perché in tal caso la spinta verrebbe
ammortizzata.

Fig. 76 Grafico del movimento sussultorio del fondo.

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SCULTURA DEL FONDO E DEL PIANO ARMONICO E LORO SPESSORI

Fig. 77 Curve di livello della tavola di violino. Sono stati calcolati gli avvallamenti al
centro e dalla parte del mi, come pure il rigonfiamento sotto alla tastiera e alla cordiera
dovuto al tiraggio delle corde.

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 78 Curve di livello della tavola di viola contralto.

Fig. 79 Curve di livello della tavola di violoncello.

82
SIMONE F. SACCONI

Fig. 80 Calco in gesso della scultura della tavola di un violino di Stradivari del 1715. È
stata eliminata la sola rifinitura attorno alle ff.

84
IV

PIAZZAMENTO E TAGLIO DELLE ff DI RISONANZA

Il giusto piazzamento delle ff è fondamentale per la qualità del suono e la resa dello
strumento, quanto le stesse quinte di curvatura. Per questo Stradivari provvedeva a studiarne
dimensioni ed esatta posizione per ogni singola forma, mediante una serie di prove ed
esperimenti, fino alla soluzione definitiva, che fissava in apposito disegno in carta,
riproducente il petto dello strumento con le ff giustamente piazzate. Tale piazzamento era
anche determinato dal bilanciamento del peso della tavola armonica rifinita, ma senza

Fig. 81 A. Stradivari: disegno per il piazzamento delle ff nei violini di forma G con
sovrapposto il modellino originale di un’asta. Cremona, Museo Civico.

85
SIMONE F. SACCONI

catena. Infatti le tacche delle ff cadono sempre sulla trasversale ideale che divide le superfici
superiore ed inferiore in due aree uguali e di uguale peso.
Il disegno, che faceva sempre parte del corredo di ciascuna forma, come è dimostrato
dal materiale originale del Museo, veniva a sua volta riportato sul lato interno del piano
armonico e serviva da guida per il taglio nella giusta posizione. Per l’esatto riporto, iniziava
col tracciare una linea retta orizzontale congiungente i due estremi inferiori delle fasce delle
CC; linea che costituiva la base fissa di partenza per tutto lo schema. Ne tracciava quindi una
seconda sottostante e ad essa parallela alla distanza fissata nel disegno (nei violini si aggirava
attorno ai 7 mm), che stabiliva la posizione degli occhielli inferiori, il cui centro cadeva su di
essa. Queste linee erano segnate mediante la produzione di un’impronta a pressione simile a
quella che può lasciare un’unghia. Le posizioni degli occhielli superiori venivano poi fissate
con una serie di aperture di compasso, ricavate dal disegno. Negli strumenti non raschiati
sono spesso visibili tracce delle impronte parallele, e sempre il piccolo foro lasciato dalla
punta del compasso sulla linea delle fasce al centro delle CC, in corrispondenza degli occhielli
superiori. Sembrerebbe logico pensare che il riporto dovesse avvenire sull’esterno del piano
armonico, ma Stradivari lo eseguì sempre all’interno, perché le varie operazioni di
impostazione e di tracciatura lasciavano segni, alle volte anche marcati.
PIAZZAMENTO E TAGLIO DELLE ff DI RISONANZA

87
SIMONE F. SACCONI

Il taglio degli occhielli, che erano sempre perfettamente circolari, doveva essere fatto
con attrezzi Costituiti da un cilindro ad ali taglienti dotato di perno guida centrale, che
assicurava la regolarità e perpendicolarità del taglio. Forati i centri degli occhielli segnati sulla
tavola, infilava nei fori la guida centrale dell’attrezzo, il quale, con la pressione e il movimento
rotatorio impressi dalla mano, praticava il taglio. Al fine di evitare scheggiature del legno
dalla parte opposta, l’operazione veniva fatta in due tempi, prima dal lato interno, poi da
quello esterno del piano armonico, essendo l’esatto incontra dei due tagli assicurato dal perno
guida.
Il sistema di taglio degli occhielli si deduce dall’esame del taglio stesso sugli strumenti
originali, che, in base alla sua perfezione, alle striature osservabili sullo spessore, alla
regolarità della circonferenza, risulta prodotto da un attrezzo rotondo con due distinte
operazioni uguali e contrarie e non da lavoro manuale di coltello.
Questo sistema non fu introdotto da Stradivari, in quanto risulta già in uso fin dall’origine
della liuteria classica, come dimostrano i più antichi strumenti. In Gasparo da Salò, che
tagliava rozzamente le sue ff, l’unico piccolo tratto del contorno degli occhielli non intaccato
successivamente con il coltello per la raccordatura con le aste, presenta un taglio nitido e
regolare, non producibile a mano libera. Anche in Guarneri del Gesù, meno accurato di
Stradivari, si ripete la stessa cosa, per cui non può esservi dubbio che l’occhiello veniva
tagliato prima e separatamente dalle aste e mai a coltello. In Stradivari questo taglio è più
ampiamente rispettato, per la cura che egli metteva nel lavoro di raccordo, che limitava
all’indispensabile.

88
PIAZZAMENTO E TAGLIO DELLE ff DI RISONANZA

Tagliati gli occhielli, collegava i superiori agli inferiori mediante appositi modellini in
carta, riproducenti le aste delle ff, fissati sul lato interno della tavola con puntine. Otteneva in
tal modo le ff complete, di cui disegnava le aste a penna, seguendo i contorni dei modelli.
Spesso nel taglio questo tracciato non veniva completamente rispettato,ma, per una ricerca di
maggiore armonia, leggermente corretto, per cui tracce di esso possono ancora riscontrarsi
negli strumenti sul retro del piano armonico. A volte la punta tra la curva dell’occhiello e la
retta della paletta risultava troppo acuta per il suo occhio; allora la smorzava, allargando con
un destro colpo di coltello la linea del cerchio per un piccolo tratto, toccando quasi solamente
la parte superiore dello spessore, cosicché, in questa raccordatura, il taglio della curva
dell’occhiello non è più perpendicolare, come è dato riscontrare in alcuni strumenti
soprattutto violoncelli. Ciò fu praticato anche da altri liutai e G. B. Guadagnini arrivò
addirittura all’esagerazione, asportando una notevole parte della punta e riducendo l’occhiello
ad un ovale.
Altro particolare caratteristico di Stradivari è che, mentre i contorni delle aste erano
disegnati a penna, la retta delle palette la marcava con una incisione a coltello. Qualche volta
nel taglio delle aste il rispetto del tracciato non si armonizzava compiutamente con le curve
estreme delle ff; in questo caso allungava la paletta, per cui l’incisione restava abbandonata e
perciò tuttora visibile. Poteva infine ‘succedere che, presentandosi il legno di testa in questo
punto, saltasse via addirittura la porzione interna di legno tra il taglio e l’incisione,
producendo un piccolo gradino, come è dato vedere in qualche strumento.
Dal giusto piazzamento delle ff, dalla loro inclinazione e distanziamento deriva la
maggiore o minore ampiezza dell’area centrale dello strumento direttamente sollecitata dalle
vibrazioni. Questa influisce in modo determinante sulla possibilità che dette vibrazioni non
restino ad essa circoscritte, ma si estendano all’intero piano armonico. Per questo Stradivari
studiava e determinava il piazzamento delle ff per ogni singola forma, tenendo conto di tutti i
rapporti intercorrenti tra: curvature da darsi alla tavola e al fondo, qualità e spessore dei legni
adoperati, misure dello strumento e conseguente volume della cassa armonica, posizione ove
andrà collocato il ponticello. L’inclinazione delle ff risultava giusta quando le aste seguivano
l’andamento delle curve di livello verticali della bombatura, perché in tal caso non turbavano
il movimento oscillatorio orizzontale della tavola. Il peggior difetto di uno strumento deriva
proprio da un distanziamento delle ff maggiore di quello che lo strumento richiede, o da una
eccessiva accentuazione dell’inclinazione delle aste, perché l’uno e l’altra aumentano la
superficie centrale da far vibrare con la massima libertà. Avvenendo la vibrazione in senso
orizzontale con movimento oscillatorio della tavola sotto la pressione dei piedini del
ponticello, fissa restando la spinta di questa pressione, quanto più si allarga la superficie da
far vibrare, tanto più si riduce la facilità di vibrazione, che inoltre resterà circoscritta alla
parte centrale, anziché estendersi all’intero piano armonico. Il suono che ne risulterà sarà
indebolito e superficiale, perché povero di armonici, quasi che l’arco non solleciti le corde, ma
sia da queste respinto

89
SIMONE F. SACCONI

Tutto questo perché, non riuscendo la vibrazione della parte centrale della tavola ad inte-
ressare l’intero piano, non si produrrà neppure quell’ampio, immediato e continuo movi-
mento sussultorio del fondo per il rimando del suono. tutta la cassa armonica che, rimanendo
quasi inerte, non assolve alla sua funzione di dare vigore, brillantezza e capacità di espansione
al suono. Esistono strumenti, anche di buoni autori, che, presentando questo difetto,
risultano addirittura insuonabili.

Fig. 85 Grafico dell’interno della tavola armonica del violoncello « Servais » del 1701. Sono
visibili sull’originale: le tracce del disegno a penna delle ff, lo scalino alla paletta inferiore,
gli archi di cerchio per la posizione ed inclinazione delle tacche, il loro del compasso sul
margine della C, le linee parallele all’altezza dell’occhiello inferiore per il riporto dello
schema di piazzamento delle ff.

90
PIAZZAMENTO E TAGLIO DELLE ff DI RISONANZA

Lo stesso grave difetto si produce nel caso di ff giustamente distanziate ed orientate, ma


con ponticello spostato in basso, perché anche in tal caso, allargandosi le ff dall’alto al basso,
si ha un aumento della superficie centrale da far vibrare in conseguenza dell’allontanamento
dalle ff dei piedini del ponticello.
L’avvicinamento delle ff oltre al normale, errore contrario, col restringere la superficie
vibrante centrale, a causa dell’eccessivo avvicinamento alle ff dei piedini del ponticello,
produrrà ugualmente un difetto, anche se non così grave come i precedenti. La vibrazione,
risultando costretta tra le /7 ravvicinate, resterà limitata alla zona centrale, anziché estendersi
all’intero piano. Il suono dello strumento risulterà nell’insieme magro, senza corpo, non
equilibrato, stridulo nel registro acuto e povero in quello grave.
Lo spostamento del ponticello verso l’alto, con giusto distanziamento delle ff, non ha
invece una sostanziale influenza sui suono, in quanto, dato l’andamento dell’inclinazione delle
ff, non ne deriva una incidente variazione della distanza tra esse e i piedini del ponticello.
Questo è assai importante, perché consente di spostare il ponticello verso l’alto in quegli
strumenti antichi di grande misura (vedi bassetti e viole tenore), che presentano una maggior
lunghezza del diapason. Tale operazione, anche se di effetto estetico non troppo bello, è
senz’altro da preferirsi alla deprecabile pratica di accorciare la parte superiore della cassa
armonica, che oltre ad alterare lo strumento è ancor più antiestetica.
Occorreva ora completare lo scavo del lato interno del piano armonico per ridurlo allo
spessore costante definitivo, senza toccare quello di contorno delle ff, salvo, come si vedrà, sul
solo margine delle aste dalla parte verso le CC. Tale definitivo spessore veniva dettato dalla
nota che il piano doveva produrre ad una leggera percussione delle nocche. Essa si aggirava
attorno al re sotto il rigo, che, con l’aggiunta della catena, saliva al fa o fa diesis (più
comunemente al fa), venendo ad essere uguale a quella prodotta con lo stesso sistema dal
fondo. Questa prova certamente Stradivari la doveva ripetere varie volte durante il lavoro di
scavo. Se infatti risultava più alta, continuava nell’assottigliamento costante fino ad ottenere
quella giusta. Generalmente nelle condizioni ottime (buon legno di media venatura, vene
perpendicolari al piano, giuste dimensioni e curvatura della cassa, perfetto piazzamento delle
ff) questa nota si produceva con uno spessore aggirantesi sui 2,3 mm. In un violino di misura
intera, ma di poco inferiore al normale, con tavola a venature molto strette e curvatura
alquanto pronunciata, lo spessore costante della tavola è di appena mm 1,8 e questa, a
strumento aperto, dà alla percussione il richiesto fa. Altrettanto è stato accertato per tavole di
violini di Stradivari a venatura larga ed inclinata, alle quali, per ottenere la detta nota, ha
dovuto dare uno spessore costante che arriva quasi a 3 mm. In entrambi i casi, rigorosamente
accertati e citati come estremi, la resa sonora degli strumenti è eccellente. Prove eseguite con
tavole di altri autori presentanti i difetti sopra illustrati hanno dato i seguenti risultati:

— con distanziamento delle ff oltre il normale la nota non si definisce con precisione,
rimanendo incerta, come incerto è il suono dello strumento;

— con avvicinamento delle ff la nota è più alta, ma meno nitida e piena.

91
SIMONE F. SACCONI

L’accertamento delle note è stato fatto con tavole e fondi a legno trattato e verniciato,
mentre Stradivari doveva procedere alle sue verifiche a legno in bianco e non trattato. Stante
l’influenza sulla sonorità dello strumento che avrà soprattutto il trattamento, il suono alla
percussione che allora si produceva doveva essere certamente più basso di almeno mezzo
tono.
Nella riduzione della tavola a spessore definitivo, s’è detto che non andava toccato il
contorno delle ff. Dovendosi però tutt’attorno allo strumento risalire con lo scavo per
raccordarsi allo spessore del bordo e rispettare quello sottostante alla futura sgusciatura dei
filetti, gli spessori dei due margini delle aste delle ff verso le CC risultavano un po’ più grossi
di quelli verso la mezzeria e ciò sarebbe stato visibile dall’esterno. Allora Stradivari, a scavo
ultimato, li assottigliava leggermente all’interno con un dolce raccordo a curva, pareggiandoli.
Restavano da incidere le quattro tacche sulle aste delle ff, che, oltre ad avere una
funzione estetica, servivano principalmente a determinare l’esatta posizione del ponticello.
Puntato il compasso ai punti estremi delle palette, tracciava graffiando su ciascuna asta delle
ff due archi equidistanti; la retta congiungente i due punti di intersecazione degli archi dava
posizione e inclinazione delle tacche. I segni della punta del compasso alle estremità delle
palette e quelli di intersecazione degli archi sono visibili sull’interno dei piani armonici.
Seguendo la retta di congiunzione praticava col coltello una incisione della profondità di circa
un millimetro e mezzo; con altri due tagli laterali equidistanti e convergenti al punto di fondo
del primo taglio, otteneva una V dell’apertura di pure un millimetro e mezzo circa;
arrotondati leggermente i vertici di detta V, la tacca risultava perfetta. Con questo semplice
sistema otteneva delle tacche che per posizione, inclinazione ed esecuzione conferivano una
tale grazia ed armonia alle ff, da renderle irripetibili ad occhio.

92
V

CATENA

Consiste in una asticella di abete dalla venatura di un millimetro circa di larghezza per
violini e viole e di mm 1,5 per violoncelli, applicata longitudinalmente sui lato interno del
piano armonico. Ha la funzione di irrigidirne la parte sottostante alle corde gravi, per il
raggiungimento dell’equilibrio sonoro.
In tutti gli strumenti di Stradivari le catene sono state da tempo e ripetutamente
sostituite, salvo nella viola tenore medicea del 1690, che probabilmente è l’unico strumento a
conservare quella primitiva. Quando l’interno dello strumento non è stato raschiato, sotto il
piano di incollatura della catena originale il legno della tavola appare sempre un po’ più
chiaro. Dall’esame di questa striscia, si possono ricavare almeno quattro dei requisiti
essenziali che essa doveva avere per assolvere perfettamente alla sua funzione e precisamente:
posizione, direzione, larghezza e lunghezza.

La posizione era dettata dai piedini del ponticello; quella del ponticello a sua volta era
fissata dalle tacche delle ff. Infatti essa passava sempre sotto il piedino sinistro ad un
millimetro all’interno del suo lato verso la f, nei violini e viole, e a mm 1,5 nei violoncelli.
Questo costituiva un dato fisso di partenza che determinava in quel punto la distanza della
catena dalla mezzeria.
Su questo punto, che faceva da perno, andava ruotata la catena per la ricerca della
esatta direzione, che non era parallela all’asse dello strumento, ma seguiva proporzional-
mente l’andamento di una retta congiungente i due punti di massima larghezza delle parti
superiore ed inferiore dello strumento. Per ripetere oggi la precisa ed essenziale direzione
della catena, un sistema pratico può essere il seguente: fissata al centro la sua esatta posizione
(lato esterno a un millimetro, o un millimetro e mezzo nei violoncelli, dal margine verso la f
del piedino del ponticello), si dividano sulla metà interna destra della tavola le larghezze
massime superiore ed inferiore comprese tra la mezzeria e la linea delle fasce in sette parti
uguali. Sui primi due punti dal centro, uno in alto e l’altro in basso, si orienteranno i capi del
lato interno della catena. Se i tre punti determinati (quello centrale ad un millimetro dal
margine esterno del piedino del ponticello e i due estremi ad un settimo rispettivamente dalla
mezzeria) non cadessero il primo sui lato esterno della catena e gli altri due su quello interno,
fermo restando il punto centrale corrispondente al piedino, si sposteranno
proporzionalmente i due estremi.

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SIMONE F. SACCONI

La larghezza risultava di circa 5 mm costanti nei violini, aumentando proporzional-


mente nelle viole e violoncelli.
La lunghezza derivava da quella dello strumento, arrivando la catena fino a 5 cm circa
dai bordi superiore ed inferiore.
Restano da determinare gli altri due requisiti e precisamente altezza ed inclinazione.
Prendendo come riferimento la catena della viola tenore medicea, possiamo ritenere che in
genere Stradivari non le facesse troppo alte, ma si attenesse a misure intermedie tra quelle di
due catene originali per violino di Andrea Guarneri e Nicolò Amati, conservate nel Museo di
Cremona. Esse sono alte rispettivamente da mm 7 al centro a mm 3,5 agli estremi e da mm 5 a
mm 0,3. Pertanto le catene di Stradivari dovevano aggirarsi da mm 6-7 a mm 1-1,5 circa.
L’inclinazione infine risultava dall’applicazione della catena ad angolo retto rispetto al piano
d’appoggio, che, per effetto della sua curvatura, veniva a darle una inclinazione verso
l’interno, consentendole di seguire l’andamento delle oscillazioni laterali del piano armonico,
che si producevano sotto la pressione dei piedini del ponticello.
Una volta incollata la smussava ad ogiva nella parte centrale, volgendo gradualmente al
tondo verso gli estremi.
Fermo restando il rispetto dei requisiti essenziali di posizione, direzione, lunghezza ed
inclinazione, misure ottime da darsi oggi alle catene, anche per strumenti antichi con monta-
tura moderna, al fine di ottenere il giusto equilibrio di resa sonora delle quattro corde, sono:
larghezza costante di mm 5,5 per violini, mm 6 per viole, mm 11 per violoncelli; altezze
rispettivamente da mm 10 nella parte centrale a mm 1,5 agli estremi, da mm 12 a millimetri 2
e da mm 23 a mm 5.

Fig. 88 Catene originali rispettivamente di Nicolò Amati e di Andrea Guarneri. Cremona,


Museo Civico.

96
CATENA

Fig. 89 A. Stradivari: interno della tavola armonica del violino « Il Delfino » del 1714 con
catena rimessa.

97
SIMONE F. SACCONI

VI
CHIUSURA DELLA CASSA ARMONICA

Ultimati fondo e piano armonico, avveniva lo sfilamento della forma dal contorno dello
strumento, mediante piccoli colpi di martello per staccarla dai blocchetti. Sui lati verticali
delle forme originali del Museo è dato vedere piccole schegge dei blocchetti rimastevi
attaccate. Seguiva l’incollatura delle controfasce alle fasce, tolte per l’estrazione della forma e
ricollocate al loro esatto posto con l’ausilio di segni di riferimento precedentemente apposti.
La perfetta aderenza durante l’essiccamento della colla di pelle era ottenuta con forcine di
ferro temperato, che, non avendo lasciato tracce sui diritto delle fasce, è da supporsi venissero
isolate da esso con l’interposizione di strisce di lamierino od altro materiale.
Seguiva il livellamento di entrambi i margini del contorno delle fasce e controfasce
all’altezza dei blocchetti, le cui teste, salvo per quello del manico, non andavano toccate,
costituendo piani fissi di riferimento per il livellamento. Quindi avveniva il graduale ab-
bassamento, raccordato e uguale dalle due parti, dell’altezza dell’arco superiore del contorno,
che, partendo da zero dopo le punte superiori, doveva convergere al centro del blocchetto di
testa; abbassamento praticato con colpi di lima. Si ricordi che sulla forma sono state
riscontrate due misure per l’altezza delle fasce; la maggiore per i tratti dell’arco inferiore e
delle CC, la minore da raggiungersi con raccordo al centro dell’arco superiore sul lato esterno
della fascia. Infine, lo smussamento ed arrotondamento degli spigoli interni dei blocchetti di
testa e di fondo ed il taglio di quelli delle punte, che venivano così ridotti pressappoco a
triangoli. Quest’ultimo taglio, lievemente convesso, iniziava dal lato opposto alle CC in
prosecuzione della linea della controfascia, per terminare distanziato di un millimetro
dall’altro tratto di controfascia, al fine di lasciare, con questo piccolo salto, un po’ di legno a
rinforzo dell’incastro. Il contorno era così pronto a ricevere fondo e piano armonico.
L’incollatura cominciava col fondo e veniva eseguita con colla nuova perché fosse ben
forte, in ambiente a temperatura superiore ai 18 gradi, privo di correnti d’aria, per impedire
che la colla perdesse parte del suo potere adesivo. Prima però di passarla tutta attorno sul
piano di incollatura, dato dallo spessore delle fasce e controfasce, doveva essere fatta
avvertenza di imbere ben bene le teste dei blocchetti, perché in caso contrario, presentandosi
il legno con taglio di testa, sarebbe stata tutta assorbita e non ne sarebbe rimasta in superficie
a sufficienza per assicurare una presa tenace e duratura.

99
SIMONE F. SACCONI

Per l’esatta sovrapposizione della tavola e del fondo al contorno delle fasce Stradivari si
giovava dei piolini di ferro posti temporaneamente sulla mezzeria dei blocchetti di testa e di
fondo; per i riferimenti, dei contorni precedentemente tracciati; per il serraggio, di appositi
morsetti.
Incollato il fondo, usava passare su tutto l’interno, piano, fondo e fasce comprese, due
mani leggere di un composto collante, che andava diluito a giusta densità in modo da non
produrre uno strato troppo consistente; la seconda mano dopo l’essiccamento della prima.
Questo composto è lo stesso che Stradivari userà anche sull’esterno per isolare la sostanza di
preparazione del legno dalla vernice colorata. In strumenti non lavati all’interno a seguito di
riparazioni, lo si può ancora accertare inumidendo e poco dopo saggiando con l’unghia,
particolarmente sulle fasce, dove usava passarne di più perché molto sottili. Ciò contribuiva al
processo di indurimento ed inossamento del legno, che a sua volta facilitava i movimenti
ondulatorio e sussultorio del piano armonico e del fondo e consentiva l’uso di spessori sottili,
dai quali in buona parte dipendeva il loro prodursi con giusto equilibrio e sincronia.
Asciutto il tutto, levigava con tamiso (tessuto di crine che si usava per fare i setacci fini)
e provvedeva ad incollare all’interno della cassa la sua etichetta a stampa, completata con
parte della data a penna. Questa veniva sempre applicata su1 fondo in corrispondenza della f
di sinistra, seguendone l’inclinazione, con la punta inferiore sinistra toccante la controfascia
ed a volte sovrapponentesi ad essa. Subito dopo la data imprimeva il marchio del suo sigillo,
intinto in inchiostro da stampa fatto con olio vecchio di lino e nero fumo e che appare sempre
di un nero più intenso di quello della stampa dell’etichetta.

100
CHIUSURA DELLA CASSA ARMONICA

Osservando i caratteri a stampa e la composizione si individuano tre distinte tirature:


una prima per le etichette usate da Stradivari dall’inizio della sua attività al 1698; una seconda
per quelle dal 1699 al 1730; un’altra per l’ultimo periodo. Dal 1732 in poi sul lembo inferiore
di tutte le etichette appare l’indicazione dell’età del maestro a volte in stampatello, altre in
corsivo, d’ANNI..., oppure de Anni..., o ancora fatto de Anni... Quando Stradivari s’accorgeva
di non avere a disposizione spazio sufficiente, oppure la scritta gli sembrava troppo
sacrificata, la ripeteva, a volte interamente altre con le sole cifre indicanti l’età, su un
talloncino aggiunto sotto all’etichetta. Purtroppo questa aggiunta dell’età in molti casi è stata
eliminata o con cancellatura o refilando l’etichetta. Nell’un caso sono visibili le abrasioni,
nell’altro sono rimasti spesso tratti delle lettere.
Dubbi sono stati affacciati sulla attendibilità di queste aggiunte in quanto qualcuna
risulta a calligrafia dei figli. Avendo io avuto la possibilità di esaminarle quasi tutte in
occasione dell’apertura degli strumenti per riparazioni, non ho dubbi nell’affermare che, salvo
quelle rare eccezioni, le aggiunte riguardanti l’età di Stradivari sono autografe. Tra le altre
citerò le etichette dei violini: Wiener del 1732 con la scritta de Anni 89; Principe Khevenhüller
del 1733, fatto d’Anni 90; Muntz del 1736, D’ANNI 92; Lord Norton, del 1737, con etichetta
refilata e tracce della scritta.
Di questo periodo si conoscono strumenti totalmente costruiti dai figli con etichetta
originale del padre, ma senza alcuna annotazione d’età.

101
SIMONE F. SACCONI

Prima di incollare la tavola e di chiudere la cassa, doveva applicare il manico che veniva
incollato sull’esterno della fascia e contro la nocetta o bottone e tenuto da tre chiodi di ferro
forgiati a mano (cinque nei violoncelli), piantati dall’interno attraverso il blocco di testa ed il
tallone. Facevano eccezione le viole da gamba, sulle quali il manico andava innestato con
incastro a coda di rondine di forma trapezoidale, praticato nel blocco.

102
CHIUSURA DELLA CASSA ARMONICA

Con lo stesso procedimento del fondo incollava la tavola armonica, dopo averne ridotto
il bordo, sul solo tratto superiore in corrispondenza del manico, alla larghezza definitiva di 3
mm e parimenti dopo aver passato anche sul suo interno le due mani di composto collante e
levigato con tamiso. Ad operazioni ultimate l’eventuale colla eccedente, fuoriuscita sui bordi o
sulle fasce, veniva fatta saltare con lo scalpello lungo gli archi superiore ed inferiore e con la
sgorbia alle CC. Mai Stradivari usava acqua calda, perché le tracce della colla ridisciolta si
sarebbero distribuite un po’ dappertutto sulle fasce e sui bordi, compromettendo, con la
chiusura dei pori del legno, i successivi procedimenti di verniciatura.
Seguiva l’approntamento dell’anima, consistente in un’asticella cilindrica di abete, del
diametro di mm 6 nei violini, da 6 a 7 mm nelle viole e di mm 11 nei violoncelli, posta tra il
piano e il fondo. Essa ha la funzione di trasmettere le vibrazioni dalla tavola al fondo,
assicurando il sincronismo dei due movimenti. Inoltre, al pari della catena, contribuisce
all’equilibrio sonoro dello strumento, dando consistenza e colore al registro acuto. La esatta
posizione è da 1 a 2 mm dietro al ponticello e da 2 a 3 all’interno del margine del piedino sotto
le corde acute, a seconda dello spessore della tavola. Se questa è sottile l’anima va ravvicinata;
se spessa, allontanata. Un eccessivo allontanamento dal ponticello però provocherebbe una
deformazione della tavola, che ne disturberebbe il movimento; un piazzamento troppo
ravvicinato ne smorzerebbe le vibrazioni.
Negli strumenti nuovi è consigliabile aumentare lo spessore della tavola di circa 8/10 di
millimetro per una piccola area circolare di circa cm 2,2 di diametro e non oltre, in
corrispondenza della posizione dell’anima, onde evitare il logorio prodotto dagli spostamenti
della stessa per il suo aggiustamento. Negli strumenti antichi è pure consigliabile
l’applicazione di un piccolo rinforzo.
Andando l’anima messa a leggera pressione, rialzava di un po’ la paletta superiore della
f; Stradivari allora la ripareggiava con assottigliamento raccordato della sua estremità. In tutti
i suoi strumenti la paletta superiore della f di destra presenta sempre il margine ritoccato.
Assai raramente il ritocco si riscontra invece alla paletta di sinistra. Tutti i liutai classici
eseguivano questa correzione, che in Andrea Guarneri raggiunge addirittura l’esagerazione.
Sostituiti infine i due piolini provvisori in ferro dei blocchetti di testa e di fondo con
altri definitivi in acero, che, intinti nella colla, andavano piantati e rasati, la cassa armonica
era pronta per la filettatura.
A questo punto, tenuto conto della lieve influenza ai fini sonori che ancora avrà la
sgusciatura sopra ai filetti ed il relativo raccordo, da cui risulterà il definitivo spessore del
fondo e del piano, le caratteristiche acustiche dello strumento, quali: prontezza di ri-
spondenza, timbro, purezza e capacità di penetrazione del suono, sono già tutte determinate.
Le altre parti, manico, riccio, tastiera, cordiera, ponticello, montatura, avendo solo funzione
strumentale, nulla vi potranno più aggiungere; dovranno solamente non turbare od alterare
l’equilibrio creato e raggiunto tra tutte le singole componenti della

103
SIMONE F. SACCONI

cassa. La stessa vernice, sulla quale sono state fatte tante congetture fino ad attribuirle, per un
suo presunto e misterioso potere, l’esclusivo merito di produrre l’eccellenza di quel suono,
quasi che di per se stessa possa essere dotata della capacità di trasformare uno strumento
normale in uno eccezionale, pur strettamente interessando la qualità del suono e contri-
buendo anch’essa a conferirgli vigore e brillantezza, sostanzialmente assolverà a due
specifiche e diverse funzioni: l’una sussidiaria dell’acustica della cassa, l’altra decorativa;
ciascuna adempiuta da una diversa composizione. Perché in realtà si tratta di due distinte
vernici, date allo strumento separatamente. La prima incolore (per la quale è più corretto
parlare di preparazione del legno) serviva a completare all’esterno l’accennato processo di
indurimento del legno, iniziato all’interno dello strumento con il composto collante. Questo
indurimento, facilitando ed esaltando i movimenti del piano e del fondo, contribuiva a
determinare le condizioni ottime perché si producessero con quell’ampiezza e regolarità dalle
quali derivava la qualità del suono. Si può quindi affermare che questa prima pseudo vernice
concorreva, unitamente a tutti i rapporti via via accertati nell’esame delle singole componenti
della cassa, alla resa sonora dello strumento. In altri termini la costruzione della cassa
armonica in quel modo, con quegli spessori e con quei rapporti, presuppone l’applicazione
successiva di questa prima « vernice » di preparazione.
La seconda vernice colorata, coi riflessi e trasparenze, donava allo strumento la sua
veste decorativa, senza nulla più aggiungere alle sue possibilità sonore, anche se non può dirsi
ad esse indifferente. Infatti la sua composizione doveva essere tale da non turbare od alterare
i delicati equilibri acustici già acquisiti dalla cassa. A riprova di tutto ciò sta il fatto che se le
vernici di Stradivari le applicassimo ad uno strumento mediocre, questo tale resterebbe; e
l’esperimento è stato fatto, dato che sono state ricostruite le composizioni ed i procedimenti
per farle ed applicarle. Ma se ad uno strumento di Stradivari sostituiamo anche solo la vernice
colorata con altra avente qualità diverse, incidiamo notevolmente sulla sua resa sonora e sul
timbro del suo suono, non per la sottrazione di una componente di esso, bensì per il
turbamento che viene operato nei rapporti descritti.
Tutte le casse armoniche dei violini di Stradivari, nonostante le diverse misure, spessori,
curvature e piazzamento delle ff, tolte anima e montatura e percosse leggermente con le
nocche sul centro del fondo, danno un si sotto il rigo leggermente calante, con lievi variazioni
a seconda delle misure e dell’altezza della curvatura. La stessa nota si produce, sempre ad
anima e montatura levate, soffiando in una delle f. È il cosiddetto suono del volume d’aria
della cassa.

Per valutare giustamente i risultati raggiunti da tutta la produzione di Stradivari, occorre


ancora tenere presente che al suo tempo il diapason era più basso e conseguentemente più
bassa l’accordatura degli strumenti. Inoltre le corde avevano uno spessore meno costante e
regolare e venivano meno tese. Per questo sbalordisce la capacità che hanno tutti i suoi
strumenti di sopportare la innegabile forzatura derivante dalle montature moderne, senza
alterazione alcuna dei vari delicati equilibri esaminati; al contrario, questi

104
CHIUSURA DELLA CASSA ARMONICA

ne risultano esaltati in tutte le caratteristiche, quasi che detti strumenti siano stati creati con
possibilità illimitate.
Il massimo pregio di queste casse armoniche consiste nella prontezza di rispondenza
alle sollecitazioni delle corde e nell’immediatezza di emissione del suono. La prontezza fa

Fig. 97 A. Stradivari: interno della tavola del violino « La Pulcelle » del 1709 mostrante il
logorio prodotto dall’anima.

105
SIMONE F. SACCONI

sì che sulle corde non debba esercitarsi una pressione anormale, che andrebbe a detrimento
della purezza del suono con stridori e fruscii; l’immediatezza gli conferisce forza di espansione
e capacità di penetrazione. Concordemente i concertisti rilevano la facilità della cavata, senza
dover forzare sulle corde, e gli ascoltatori l’ampiezza della fonte sonora. Il suono infatti,
anziché avere un’origine ben delimitata e ristretta, sembra provenire da ogni parte e non si
esaurisce a breve distanza come con gli strumenti comuni, bensì giunge con intensità e
purezza a notevoli profondità. Per la sua eccezionale ricchezza di armonici si piega con
assoluta duttilità all’espressione musicale. Tutto questo deriva non da presunti segreti, ma dal
concorso sistematico di ogni elemento strutturale, tradotto in calcolata armonia di rapporti. A
riprova citerò un episodio tra i più significativi, al quale io stesso ebbi parte. Un grande
violoncellista, proprietario di un magnifico violoncello di Stradivari e di una sua buona copia
fatta a metà dell’800, si preparava in una sala d’albergo per un concerto, che avrebbe dovuto
tenere al Carnegie Hall, suonando con l’originale e con la copia. Assistevano spesso a queste
prove valenti musicisti suoi amici, tra i quali anche famosi strumentisti. Un paio di giorni
prima del concerto mi venne a trovare per dirmi che aveva deciso, anche per parere dei
suddetti artisti suoi amici, che avrebbe eseguito il concerto con la copia anziché con lo
Stradivari, parendo a tutti che la copia avesse suono più potente. Rimasi letteralmente
sbalordito e lo convinsi al seguente esperimento: saremmo andati tutti al Carnegie Hall,
avendone io il permesso per amicizia col direttore, ed egli avrebbe eseguito un breve brano
musicale interessante tutto il registro del violoncello con entrambi gli strumenti, senza
rendere noto a nessuno in quale ordine li avrebbe suonati. Tutti si distribuirono per
l’auditorium, chi nei palchi, chi in platea ed uno all’estremo limite del loggione. Io mi misi al
centro della platea con a fianco uno dei più famosi concertisti del gruppo.
Risultato dell’esperimento: tutti concordemente dichiararono che l’esecuzione coi primo
strumento li aveva lasciati indifferenti, risultando il suono povero e discontinuo; mentre
quella coi secondo li aveva fatti letteralmente sobbalzare per la prontezza, potenza, continuità
e capacità di espansione del suono. Quello che stava in loggione e che della prima esecuzione
non aveva udito che note saltuarie, all’attacco della seconda istintivamente si era girato,
avendo la sensazione di avere Io strumento alle spalle. Questo era lo Stradivari.

106
VII
FILETATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEI BORDI

Chiusa la cassa armonica, la larghezza interna del bordo tanto del piano quanto del
fondo, delimitata dalla linea delle fasce, andava ridotta da quella provvisoria di 4 mm del
primo taglio alla definitiva, che risultava costante tutt’attorno allo strumento salvo alle punte,
che Stradivari allargava leggermente. Essa era di mm 3 scarsi nei violini, 3 nelle viole e da 3 a
3,5 nei violoncelli.
La modellatura del contorno dello strumento era avvenuta su una forma dello spessore
di 1/3 circa rispetto all’altezza delle fasce, per cui queste avevano assunto una leggerissima
bombatura al centro che, conferendo alle fasce una particolare morbidezza, doveva essere
rigorosamente rispettata in tutte le successive operazioni. Ancora, durante la montatura delle
fasce e controfasce poteva essersi prodotta qualche lieve deformazione delle curve
geometriche del contorno. Queste eventuali piccole irregolarità Stradivari le riproduceva nella
riduzione dei bordi dello strumento a larghezza definitiva; per questo effettuava tale
operazione solo dopo la chiusura della cassa. Infatti soltanto allora disponeva di un contorno
delle fasce fisse e definitivo, seguendo il quale poteva ottenere un margine dei bordi
perfettamente parallelo a quello delle fasce e conseguentemente una larghezza di questi bordi
esattamente costante. Annullava così alla vista le predette eventuali deformazioni od
irregolarità, che sarebbero al contrario risultate avvertibili qualora contorno delle fasce e
margine dei bordi non fossero stati equidistanti. Accorgimenti questi ed accuratezza di lavoro
che trasformavano anche le piccole asimmetrie in impronte di personalità, quando per altri
liutai sarebbero apparse difetti.
L’allargamento delle punte iniziava da 5 o 6 mm dalla loro troncatura, che veniva praticata
alla distanza di 2 mm dalla punta delle fasce e risultava di una larghezza di mm 7-7,5 nei
violini. Il taglio di queste troncature veniva fatto leggermente inclinato verso l’esterno della C,
per cui l’angolo da questa parte è sempre meno acuto di quello verso l’interno. Per viole e
violoncelli vale lo stesso procedimento con misure dettate dalla larghezza interna del bordo.
Il filetto, delimitante sull’esterno del fondo e del piano la larghezza del bordo, che rispetto a
quella interna aumentava dello spessore delle fasce, oltre ad ornare lo strumento, ha la
specifica funzione, specie sul piano armonico, di legare le vene del legno, costituite dagli anni
di accrescimento, per impedire possibili aperture o spaccature delle due

107
FILETTATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEI BORDI

tavole, facili a verificarsi soprattutto ai margini superiore ed inferiore dello strumento, dove il
legno si presenta di testa. Esso non interessa l’acustica dello strumento, essendo incassato ad
intarsio sul piano e sul fondo in corrispondenza delle controfasce.
Per l’esecuzione della filettatura andavano anzitutto preparati i filetti, mediante pre-
disposizione di nastri di legno di pioppo per il bianco e di pero tinto per il nero, della
lunghezza minima di 40 cm, onde poterli usare anche per i violoncelli, e di una certa altezza,
che consentisse di ricavarne più strisce. A quelli di pioppo Stradivari dava uno spessore
all’incirca di 6/10 di millimetro ed a quelli di pero di 3/10. Questi nastri con questi spessori
venivano ottenuti per mezzo di una trafila. Il filetto risultava così composto da due parti nere
esterne e da una bianca al centro, con uno spessore totale di mm 1,2, uguale anche per viole e
violoncelli. A volte riduceva lo spessore dei neri a 2/10 e mezzo, aumentando quello del
bianco, come si osserva in alcuni strumenti costruiti nel 1714 e ‘15, nei quali però lo spessore
totale della filettatura resta sempre di mm 1,2. I tre nastri venivano incollati tra di loro e
contemporaneamente piegati e fissati, fino ad essiccamento, su apposite sagome di legno
riproducenti le curve superiore ed inferiore dello strumento e quelle delle CC, onde evitare
che all’atto della incassatura si avessero a spezzare. Quindi venivano tagliati a strisce di due
millimetri e mezzo circa di altezza. Che questi filetti venissero uniti insieme prima
dell’incassatura lo si deduce chiaramente dall’esame su molti strumenti dei giunti in vari
punti della filettatura, nei quali la congiunzione avviene sempre per tutti e tre i filetti insieme.
Come pure da alcuni strumenti dell’ultimo periodo, nei quali il taglio del solco è meno preciso
e regolare (un po’ malfermo), ma il filetto inserito è preciso e non ne segue le disuguaglianze.
Prima di procedere alla tracciatura ed ai tagli per lo scavo del solco in cui andranno
incassati i filetti, Stradivari preparava il legno del bordo sui solo spessore ancora a squadro,
con colla non troppo spessa e ben distribuita, che, dopo l’essiccamento, levigava con pelle di
palombo perché la superficie risultasse assolutamente liscia. Questa operazione aveva lo
scopo di indurire la parte tenera della grana dell’abete del piano armonico, ove la pressione
della guida dell’attrezzo da taglio, avrebbe potuto produrre ondulazioni deformanti, che si
sarebbero ripetute nel solco dei filetti. Anche se non vi era necessità, perché l’acero è più
compatto dell’abete, l’operazione, per maggiore regolarità e sicurezza, veniva probabilmente
ripetuta anche sullo spessore del bordo del fondo.
Per la tracciatura del solco sulla tavola armonica e sul fondo e per il susseguente taglio,
Stradivari si serviva di due appositi attrezzi da lui fabbricati e tuttora conservati nei Museo.
Questi avevano ciascuno una lama munita di arresto di profondità, una guida distanziata
differentemente dalla rispettiva punta della lama e la parte piatta della lama rivolta verso
l’esterno del solco. L’uno serviva per la tracciatura e il taglio del margine esterno del filetto,
l’altro, con distanziamento della lama dalla guida maggiore di mm 1,2 (spessore del filetto) e
con lama rovesciata rispetto al primo attrezzo, per il taglio di quello interno. Iniziava la
tracciatura sempre dall’esterno, praticando prima una leggera incisione tutt’attorno allo
strumento fino alla fine delle punte, alla distanza di mm 4 circa dal mar-

109
SIMONE F. SACCONI

Figg. 99 e 100 A. Stradivari: attrezzi per il taglio del solco dei filetti. Cremona, Museo Civico

gine del bordo. Prima di passare di nuovo l’attrezzo per il taglio vero e proprio, troncava le
fibre dure (crescita autunnale) del legno nei punti assiali, specie se la tavola era di venatura
larga, con colpi di coltello bene affilato, seguendo la tracciatura.
Questo per evitare che la lama dell’attrezzo al secondo passaggio per il taglio avesse a
subire deviazioni all’incontro delle vene scure, data la loro durezza, e per ottenere un solco
assolutamente regolare e nitido. Col taglio vero e proprio, della profondità di mil-

110
FILETTATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEI BORDI

limetri 2,5, non arrivava più all’estremo delle punte come con l’incisione di tracciatura ma si
arrestava a circa un centimetro da esse, terminando l’ultimo tratto a mano libera e
abbandonando la tracciatura, che resta tuttora visibile in molti strumenti. Questo perché la
direzione di incontro del filetto della curva superiore o inferiore con quello della C, o punta
del filetto, anziché essere orientata sul centro della troncatura, piegava verso la C. Ciò
conferiva maggior slancio alle punte dello strumento e, pur riscontrandosi anche nei
predecessori (vedi già Andrea Amati), Stradivari praticava questa deviazione con tanta
spontaneità da costituire una tipica caratteristica della sua produzione. Essa si presenta
sempre con lo stesso andamento come se avesse diviso la troncatura in quattro parti uguali ed
orientato il vertice della punta del filetto in modo che il suo ideale prolungamento andasse a
passare sul primo punto della quadripartizione verso la C.

Figg. 101 e 102 Deviazione del taglio del solco dei filetti rispetto alla linea di tracciatura.

I suoi figli non erano all’altezza di finire le punte dello strumento e quelle dei filetti con
questa grazia, come è dato vedere negli strumenti di loro esclusiva produzione dopo la morte
del padre, i quali hanno sempre punte non allargate e filetti non deviati, bensì le une e gli altri
paralleli al contorno delle fasce. Ciò è avvenuto anche prima, da quando cominciarono a
lavorare in bottega, ma in quelle rare volte in cui furono lasciati liberi di costruire interamente
uno strumento, questo presenta le caratteristiche sopraddette. Il loro lavoro consisteva
principalmente nell’aiutare il padre, per il quale però non fecero mai la scultura del riccio, il
taglio delle punte, le punte dei filetti e il taglio delle ff. Tipico e illuminante su tutto questo e
sul contributo che essi potevano dare è un violino del 1716. Questo presenta un riccio che non
ha lo slancio, la prontezza di modellato e la purezza di linea di Antonio; ha punte e filetti
paralleli alla linea delle fasce e denuncia nel taglio delle ff chiaramente la mano dei figli,
mentre in tutto il resto non si notano apprezzabili differenze col lavoro del padre, che
sicuramente non vi ha messo mano

111
SIMONE F. SACCONI

Fig. 103 Francesco Stradivari: violino del 1716

112
FILETTATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEI BORDI

Fig. 104 Francesco Stradivari: violino del 1707

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SIMONE F. SACCONI

Altrettanto dicasi per altro violino del 1707. L’etichetta apposta su quello del 1716 è inoltre
assai significativa in quanto, pur essendo originale ed autografa di Stradivari, presentava su
un margine inferiore di inusuale larghezza una dicitura che doveva avere un preciso signifi-
cato. Malauguratamente qualcuno l’ha cancellata, probabilmente perché suscettibile di de-
prezzare lo strumento. Sotto i raggi infrarossi è dato tuttavia leggere un mio o mia che dalla
lunghezza della cancellatura e dalla posizione in cui questa parola si trova, fa supporre che la
originaria scritta suonasse fatto sotto la mia disciplina, espressione riscontrabile su altre
etichette. Le caratteristiche del lavoro dei figli sono ancora rilevabili dall’esame di parti rifatte
a strumenti danneggiati, dal momento che non si usava allora riparare tavole armoniche o
ricci, parti facilmente soggette a rotture, ma si rifaceva l’intero pezzo e Stradivari affidava di
regola ai propri figli tali sostituzioni.
L’esatta calibratura della larghezza del solco era ottenuta col maggior distanziamento
della lama dalla sua guida nel secondo attrezzo, col quale veniva praticato il taglio del margine
interno del filetto alla stessa profondità di quello esterno. Il canale così tagliato, veniva
svuotato fino alla profondità dei tagli con un piccolo scalpello a bedano. Per una perfetta
esecuzione della filettatura, il filetto doveva entrare nel canale esattamente e senza forzature,
ma soltanto con una leggera pressione, tenuto conto che la colla avrebbe anch’essa riempito.
Per l’incassatura tagliava i tratti di filetto, già in precedenza piegati, a giusta lunghezza,
procedendo ad inserirli a secco per prova e dimostrando particolare maestria nell’incontro
delle punte. A volte però, e più frequentemente in strumenti dell’ultimo periodo, la punta
dello scavo non risulta totalmente riempita dai filetti, bensì completata a stucco, fatto con
colla e limatura di ebano. Anche questo particolare può essere assunto a prova ulteriore che i
tre filetti venivano incollati tra loro prima della incassatura. Gli altri giunti avvenivano
pressapoco sulla mezzeria, con taglio quasi perpendicolare per assicurarne la Continuità
d’incontro. Venivano infine incollati iniziando sicuramente dalle CC.
A questo punto controllava gli spessori dei bordi e delle punte, perché corrispondessero
alle misure definitive già date, effettuando le eventuali correzioni con colpi di lima.
Per la sgusciatura iniziava coi tracciare tutt’attorno allo strumento, mediante una leg-
gera impronta prodotta da un graffietto non tagliente, una linea guida, a volte tuttora visibile,
a 2 mm circa dal margine esterno dello strumento e parallela ad esso, che indicava il limite
della sguscia. Essa doveva certamente avere una larghezza di un centimetro circa, che si
restringeva a cm 0,6 nei tratti delle CC, dove le curvature del piano e del fondo salgono più
repentinamente, ed una profondità di un millimetro scarso e di mm. 0,6 dove era più stretta.
Veniva praticata con sgorbie curve di queste rispettive larghezze. La cresta risultante sul
margine interno della sguscia era successivamente smussata e raccordata gradualmente a
zero colle curvature del piano armonico e del fondo, che assumevano a quel punto gli spessori
definitivi. Sul piano armonico questo raccordo interessava anche l’occhiello inferiore delle ff e
parte della sua paletta. Il lavoro era eseguito con pialletta e rasiera. Negli strumenti degli
ultimi anni, per la mano già un po’ malferma, questo rac-

114
FILETTATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEL BORDO

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SIMONE F. SACCONI

cordo non è più così armonico e regolare, fino a ridursi nel Canto del cigno del 1737 a
semplice smusso, cosicché lo spessore del piano e del fondo tutto attorno ai margini interni
della cassa è rimasto troppo alto. Particolarmente da questo strumento si desume con
certezza la successione delle varie operazioni descritte.
Subito dopo sulla tavola armonica, per dare maggiore rilievo alle ff sul lato verso le CC,
praticava, iniziando dalla paletta inferiore, un leggerissimo sguscio lungo il margine esterno
dell’asta, che arrivava ad affievolirsi quasi alla paletta superiore, senza però mai toccare detto
margine della f per non abbassarlo, e nuovamente raccordando verso la sguscia dei filetti.
Dava così un’eccezionale freschezza e morbidezza alla intera f, inconfondibile e mai raggiunta
da nessun altro liutaio.

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FILETTATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEL BORDO

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SIMONE F. SACCONI

118
FILETTATURA – SGUSCIATURA – RIFINITURA DEL BORDO

Restava l’arrotondamento dei due angoli o spigoli del bordo, tanto per il piano quanto
per il fondo, che Stradivari iniziava sempre col praticare una sfaccettatura a 45 gradi sugli
angoli interni, costante e precisa lungo tutto il bordo, della profondità media di mm 1,3,
operata con piccolo pialletto piatto, coltello e lima a seconda delle posizioni. Analogamente
procedeva per gli angoli esterni, dando però a quest’altra sfaccettatura una profondità media
di mm 1,7, un po’ più sentita sulle punte perché di maggiore spessore. Col sistema della
sfaccettatura o smusso assicurava la uniformità del successivo arrotondamento. In caso
contrario il tondo sarebbe risultato irregolare, come è dato vedere nel lavoro molto meno
accurato di Guarneri del Gesù, specialmente nell’ultimo periodo.
I quattro angoli ottenuti venivano quindi arrotondati in una curva armonica, che sul lato
interno si arrestava ad un millimetro scarso dalla fascia, presumibilmente per evitare di
danneggiarla, e sull’esterno si ampliava un po’ di più a causa della maggiore profondità dello
smusso. La finitura delle punte veniva effettuata con coltello, pialletta piatta, lima e rasiera;
attrezzi che andavano usati sempre con movimento circolare fino all’uscita dall’estremità
della punta, per mantenere la freschezza del taglio e dell’allargamento, cosicché l’ideale
prolungamento della punta stessa proseguisse in un rotondo armonioso. Per questo
Stradivari, nel trasformare l’angolo retto degli spigoli della punta in tondo, poneva la
massima attenzione a non alterare o intaccare la linea di allargamento della punta stessa.

119
VIII

INTAGLIO DEL RICCIO

Tra i modelli e i disegni che corredano ogni forma se ne trovano sempre tre relativi al
riccio, che danno: il primo la linea di contorno delle facce, compresi manico e tallone, e la
larghezza massima delle orecchiette della chiocciola, che Stradivari disegnava applicando le
regole geometriche delle spirali di Archimede e del Vignola; il secondo lo sviluppo del dorso,
rappresentato da uno schema geometrico costituito da tanti diversi cerchi in successione, i cui
diametri indicano le varie larghezze del riccio nei corrispondenti punti, e la profondità dello
smusso da praticarsi sui margini; il terzo la faccia della ganascia, o cassetta, con l’indicazione
dell’esatta posizione dei fori dei bischeri.
Premesso che negli strumenti manico e riccio costituiscono un tutt’uno, ricavato da un
solo pezzo di legno, la preparazione della scultura procedeva nel seguente ordine: scelto un
blocco di legno di acero di taglio radiale rispetto al contorno, assai raramente di taglio
tangenziale, se ne spianavano le facce, portandole a squadro con la larghezza, fissata alla
esatta misura indicata sul disegno per quella delle orecchiette. Se lo strumento sul quale
sarebbe stato montato aveva fondo e fasce di pioppo o di salice, Stradivari intagliava il riccio
in legno di pero o di faggio. Usando acero non si curava di scegliere per il riccio pezzi aventi la
stessa marezzatura delle fasce e del fondo; al contrario badava sempre a scegliere legno il più
possibile compatto, altrimenti l’acero avrebbe offerto nella sua struttura più tratti flessibili,
atti ad assorbire maggiormente l’umidità della mano e quella dell’aria, con conseguente
maggiore malleabilità e facilità a torcersi o piegarsi sotto il continuo tiraggio delle corde.
Inoltre una marezzatura molto marcata avrebbe disturbato la plasticità della scultura della
chiocciola. Esistono strumenti di Stradivari con manico-riccio addirittura senza marezzatura
alcuna; tipico il Tiziano del 1715.
Sovrapposto il primo modello a una faccia del blocco di legno, riportava il contorno
esterno del riccio e del manico mediante incisione con la punta di un coltello, e quello interno
della chiocciola, segnandolo con una serie di puntini. A differenza di Pietro Guarneri di
Mantova, di G. B. Guadagnini e di altri, nel lavoro di scultura baderà in genere ad eliminare
questi puntini di tracciatura, senza che per altro qualcuno gli sfugga e resti visibile su alcuni
strumenti. Con l’ausilio di segni di riferimento ripeteva l’operazione di tracciatura sull’altra
faccia del blocco di legno, procedendo quindi a ritagliare con un seghetto da volto, seguendo
l’incisione. Il contorno cosi ottenuto veniva rifinito con pial-

121
SIMONE F. SACCONI

letta a denti, raspa e lima fino a lambire la traccia incisa col coltello. Seguiva il riporto delle
varie larghezze del dorso del riccio lungo tutto il suo sviluppo. Il riporto avveniva con aperture
di compasso, che, desunte dal secondo disegno, ripetevano i vari diametri dei cerchi dello
schema geometrico alle rispettive distanze, e i centri dei quali dovevano

122
INTAGLIO DEL RICCIO

cadere sulla linea di mezzeria. Collegati infine armonicamente i segni delle varie aperture
riportate, con due linee continue, la larghezza dell’intero dorso risultava compiutamente
tracciata. La parte terminale inferiore o coda del riccio, corrispondendo ad una esatta
semicirconferenza, veniva sempre tracciata a compasso. Sulla mezzeria dell’intero sviluppo

123
SIMONE F. SACCONI

Fig. 115 A. Stradivari: fronte e dorso del riccio della viola contralto « Medicea » del 1690
con visibili sulla mezzeria piccoli tori prodotti dalla punta del compasso usato nel riporto
delle larghezze.

di molti ricci sono rimasti tuttavia visibili i fori prodotti dalla punta del compasso usato in
queste operazioni e successivamente riempiti di vernice.
La fase successiva iniziava con la sbozzatura delle ganasce fino all’attaccatura della
chiocciola. Per agevolare l’asportazione del legno e ridurre al minimo il pericolo di scheg-
giature, Stradivari praticava con colpi di seghetto tagli trasversali alla distanza di circa 3 cm
l’uno dall’altro. La profondità di questi tagli era dettata dalle linee delimitanti le larghezze del
dorso del riccio. In alcuni strumenti dove la mano è scappata e qualche taglio

124
INTAGLIO DEL RICCIO

Fig. 116 A. Stradivari: fronte e dorso del riccio della viola contralto « Paganini » del 1731
con visibili sulla mezzeria piccoli fori prodotti dalla pulita del compasso usato nel riporto
delle larghezze.

è risultato più profondo, ne sono rimaste tracce. Particolarmente sul violoncello Markevitch
del 1712, sui cui riccio i tagli risultarono così profondi da costringere Stradivari a ridurre
sensibilmente la larghezza dello scavo della scatola dei piroli, senza per altro riuscire ad
eliminare totalmente l’inconveniente, per cui qualche segno è ugualmente rimasto.
Probabilmente questi tagli furono opera dei figli, ai quali è pensabile venisse affidato il lavoro
di sgrossatura. Simili disavvertenze sono più comuni negli altri liutai cremonesi, soprattutto
nei Guarneri. La rifinitura di questa parte era fatta con sgorbia piatta, pialletta a denti e
rasiera, risultando le due facce perfettamente piatte.

125
SIMONE F. SACCONI

Scolpiva poi la chiocciola, tenendo le facce dei rilievi del suo sviluppo perpendicolari
all’asse del riccio e alle facce del bottone, controllando le altezze di questi rilievi in modo che il
viluppo risultasse simmetrico. Quindi praticava su tutti gli spigoli del contorno uno smusso a
43 gradi, della profondità stabilita sul disegno, che nei ricci per violino si aggirava su mm 1,75
e in quelli per viole e violoncelli rispettivamente attorno a mm 2 e mm 2,3; nel primo periodo
questo smusso è minore o appena accennato come nei ricci degli Amati. A questo punto le
facce della chiocciola sono piatte come quelle delle ganasce, ma per dare maggior profondità e
risalto ai rilievi, e nello stesso tempo morbidezza all’intero viluppo, praticava, ad iniziare un
po’ prima dell’attacco della chiocciola alla ganascia, una lieve sgusciatura, che, partendo da
zero, si sviluppava con inclinazione progressiva lungo tutto lo sviluppo della faccia fino al
bottone. Questa sgusciatura veniva ottenuta approfondendo la metà interna della faccia con
un incavo che andava a morire contro il contorno del rilievo, sempre con taglio convergente
ad esso. La cresta prodottasi sulla mezzeria delle facce veniva successivamente raccordata allo
smusso con una serie di sgorbie leggermente curve, usate nel senso dello sviluppo per non
intaccare il contorno del rilievo. In molti ricci di Stradivari si intravvedono le direzioni dei
tagli delle sgorbie, osservando le pipite prodottesi a causa dell’ondulazione del legno e visibili
perché la vernice vi è penetrata sotto.
Servendosi della apposita mascherina appoggiata sulle facce delle ganasce (terzo mo-
dello), segnava su entrambi i lati i fori delle caviglie o bischeri, che andavano eseguiti da
entrambe le parti prima dello scavo della cassetta per evitare scheggiature interne. I due fori
estremi risultavano ravvicinati alla parte frontale, mentre i due intermedi erano centrati
rispetto alle facce delle ganasce. Scavava quindi la cassetta dei piroli fino ad una profondità di
2 mm al di sotto dei fori dei bischeri, dando alle ganasce uno spessore aumentante
progressivamente verso il fondo; per i violini da mm 3 a mm 7,3, per le viole da mm 6 a mm
8,3 e per i violoncelli da mm 8 a mm 10,3. Mentre gli angoli esterni della cassetta, facendo
parte del contorno del riccio ne avevano lo stesso smusso, quelli interni venivano mantenuti
acuti. Particolare interessante, sul lato interno della cassetta contro il capotasto Stradivari
scriveva a inchiostro in stampatello la lettera contrassegnante la forma con la quale lo
strumento era stato costruito, come è dato vedere sul manico originale proveniente dal violino
il Soil del 1714, che porta una G autografa. Manico conservato nel Museo di Cremona. Questa
G corrisponde a quella apposta sulla forma che servì tra l’altro per la costruzione del
Cremonese 1715 e che probabilmente significa grande. Infatti questo violino è di grandi
dimensioni. In altri strumenti, prima della sostituzione del manico corto originale, erano
leggibili le lettere PG, corrispondenti a quelle apposte da Stradivari su altra forma. È da
supporsi debbano significare prima grande. Detta forma porta la data 4 giugno 1689 e gli
strumenti costruiti con essa hanno misure quasi come Il Cremonese. Ancora, sulla forma G,
già citata, il conte Cozio di Salabue ha scritto questa forma è un poco più longa della forma
PG dell’Antonio Stradivari. Infine, tutte le forme originali di Stradivari, conservate nel Museo
di Cre-

126
DETTAGLIO DEL RICCIO

mona, recano lettere di contrassegno. Queste lettere, che dovevano trovarsi su tutti gli
strumenti, oggi non esistono più a seguito della sostituzione dei manici, i cui innesti al riccio
originale interessano la parte su cui esse stavano scritte.

Fig.117 Sezioni del riccio ricavate da quello di un violoncello, valevoli per ogni riccio di
Stradivari

127
SIMONE F. SACCONI

Fig. 118 A. Stradivari: manico originale proveniente dal violino « Soil » del 1714 con
lettera G auto grata, indicante la forma con la quale fu costruito. Cremona, Museo Civico.

Rimaneva la sgusciatura del dorso e della fronte. La parte centrale del fondo delle due
sguscie Stradivari la faceva risultare sempre piuttosto piana, mai a tutto tondo. Per ottenere
ciò, eseguiva su ciascuna metà della larghezza del riccio due scanalature con sgorbia stretta
semicircolare, una aderente alla mezzeria, l’altra allo smusso, asportando poi con sgorbia
semipiatta il legno tra le due scanalature. Rifiniva infine con raspa, lima, coltello a lama
stretta e raschietti sagomati, levigando con pelle di palombo e asprella. Lavorando di coltello
per la rifinitura delle sguscie sotto alla gola del riccio, gli avveniva spesso, e molto più
accentuatamente nell’ultimo periodo, di intaccare lo smusso sul margine sinistro,
restringendolo, a causa della maggiore difficoltà nel taglio dal centro verso l’esterno, che non
dall’esterno verso il centro. Per riparare, riallargava lo smusso, con la conseguenza però di
alterare da questa parte leggermente la regolarità della linea della chiocciola, che appare
sempre un po’ schiacciata.
Altra piccola irregolarità si può riscontrare nell’ampiezza delle due sguscie del dorso,
una delle quali, e precisamente sempre quella di destra, si presenta un po’ più stretta, e
qualche volta anche sensibilmente, come ad esempio nel riccio del violino Cadiz del 1722 e in
quello del violoncello Piatti del 1720. Probabilmente ciò gli accadeva per effetto dell’incidenza
della luce, che poteva ingannargli l’occhio durante il lavoro di sgusciatura, trascinandolo
inavvertitamente ad allargare maggiormente la sguscia in ombra, che visivamente appare
sempre più stretta di quella in luce. Il fondo quasi piatto di queste sgusciature, facendone
risaltare la curvatura ai lati, conferiva spontanea vivacità al riccio, che non si avverte invece
nel lavoro dei figli, che facevano sguscie più rotonde e così inanimate.
A partire dal 1688 tutti i ricci di Stradivari presentano lo smusso annerito con in-
chiostro. Verniciato lo strumento, asportava raschiando la sola vernice colorata sulla su-

128
INTAGLIO DEL RICCIO

perficie dello smusso, che contorna il riccio; vi passava quindi inchiostro nero, che, appena
essiccato, ricopriva con una nuova stesura di vernice colorata. Questa, essendo alquanto
trasparente, lasciava intravvedere l’orlatura scura, smorzando però la crudezza dell’inchio-
stro. Otteneva in tal modo una morbida contornatura, che esaltava la plasticità del riccio.

Fig. 119 Calchi in gesso del riccio della viola « Medicea » del 1690.

Fig. 120 Calchi in gesso del riccio di un violoncello del 1720.

129
SIMONE F. SACCONI

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INTAGLIO DEL RICCIO

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 121 A. Stradivari: riccio del violoncello « Gore Booth » del 1710.

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INTAGLIO DEL RICCIO

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 122 A. Stradivari: dorso del riccio del violoncello « Piatti » del 1720 con sguscia di
destra più piatta.

134
IX

MANICO – TASTIERA – CORDIERA – PONTICELLO

Una volta il diapason (numero di vibrazioni per minuto secondo della nota la: seconda
corda del violino) era sensibilmente più basso rispetto all’attuale. Ben presto però si cominciò
ad alzarlo, tendendo sempre più le corde, finché nel secolo scorso si ritenne necessario
fissarlo in via uniforme e definitiva a 440 vibrazioni al secondo. Nonostante questo, la
tendenza ad un suo progressivo innalzamento perdura tutt’oggi.
La nuova frequenza si sarebbe potuta ottenere con una maggiore tensione delle corde,
ma il timbro del suono ne sarebbe risultato un po’ stridulo, per cui si preferì ricorrere al loro
allungamento. A ciò si provvide coll’allungare di un centimetro circa i manici degli strumenti,
il che a sua volta comportò l’innalzamento del ponticello e l’aumento dell’inclinazione verso
l’alto della tastiera. Con tutto questo l’angolo delle corde al ponticello risulta più acuto, con
conseguente maggiore pressione del ponticello stesso sulla tavola armonica e più alta
frequenza del diapason. Tale soluzione, oltre a mantenere inalterato il timbro del suono,
presenta il vantaggio di aumentare il distanziamento tra le posizioni dello strumento,
rendendo più agevole l’uso. Si è pertanto imposta la necessità di sostituire in tutti gli
strumenti antichi il manico, la tastiera e il ponticello.
Il manico, come è sempre stato fatto e come si fa tutt’oggi, Stradivari lo costruiva
tutt’uno col riccio, come da modello predisposto per ogni singola forma e che comprendeva:
piede del manico, asta del manico, ganasce per i piroli e chiocciola. Il suo taglio, per quanto
riguardava linea, lunghezza e spessore, seguiva il modello, mentre le larghezze dal piede al
capotasto venivano dettate dalla tastiera, per cui la rifinitura doveva aver luogo in
concomitanza con l’approntamento di questa. Andando applicato al blocchetto superiore dello
strumento non ad incastro, ma con colla e chiodatura dall’interno della cassa, la sua pianta o
base doveva risultare leggermente concava in modo da aderire perfettamente alla convessità
della fascia superiore. Doveva inoltre avere una incavatura a scalino per potersi perfettamente
adattare al bordo della tavola armonica, che in quel punto e per la larghezza del manico, era
stato lasciato quadrato (non arrotondato come il resto).
Questo sistema di applicazione del manico con chiodi di ferro, costringeva Stradivari a
tenere la curva di arresto del pollice piuttosto larga e poco scavata, perché in caso contrario
avrebbe dovuto usare chiodi corti e di poca presa. Sul manico originale

135
SIMONE F. SACCONI

Fig. 123 Corrispondenza tra la linguetta del riccio e la nocetta del fondo.

del Museo di Cremona, essendo stata successivamente approfondita questa curva, sono
affiorati superiormente i tre fori degli originari chiodi. Essi inoltre venivano piantati inclinati
per vincere maggiormente la forza di trazione delle corde. I lati del piede non erano diritti, ma
leggermente convergenti ai centro, riallargandosi poi all’esterno per potersi adattare alla
nocetta, che veniva così a dettare altezza e larghezza della parte terminale del piede. Le
misure poi della nocetta o bottone erano a loro volta dettate da quelle della coda del riccio,
dovendo entrambi risultare dello stesso diametro. L unica

136
MANICO – TASTIERA – CORDIERA – PONTICELLO

differenza era data dall’esatta semicirconferenza della coda e dalla semicirconferenza ec-
cedente della nocetta. Infatti, quando questa non è stata raschiata o modificata, mostra
sempre il foro di centro del compasso, anziché sulla linea del bordo del fondo, a 4 mm circa al
di sopra di esso. Sul suo margine infine veniva praticato uno smusso della stessa larghezza di
quello del riccio.
Essendo allora l’angolo delle corde meno acuto, perché meno tese e più ravvicinate al
piano armonico, il manico andava applicato col piano di incollatura della tastiera a livello del
bordo della tavola e solo con una leggera inclinazione all’indietro; questa poi veniva
aumentata mediante il taglio a cuneo della tastiera. Per l’esatta centratura e direzione del
manico Stradivari si serviva di uno spago fissato al centro del capotasto con un piolino
rimuovibile. Su tutti i manici originali, che ho dovuto sostituire, ho sempre riscontrato,
all’interno della cassetta dei piroli sul centro del lato del capotasto, un forellino i cui bordi
slabbrati indicano chiaramente il ripetuto infilamento in esso di una punta.
Per la tastiera, che Stradivari chiamava tappa, variava le misure per uguale strumento
coi variare della forma, come risulta dai numerosi modelli in legno e in carta, contraddistinti
dalla lettera della relativa forma. Circa le misure, data la grande varietà, si rimanda al
catalogo. Al fine di renderle più leggere usava costruirle in salice, che rivestiva poi ai lati in
acero, lastronava superiormente in ebano e filettava in avorio. Sovente, per strumenti di
particolare importanza, le ornava con intarsi decorativi a motivi geometrici, di cui restano nel
Museo numerosi disegni graffiti su modelli in carta e in legno; oppure con stemmi ed imprese
araldiche in madreperla nei casi di commissione da parte di personalità. Su ogni modello
sono sempre segnati gli spessori al capotasto, all’inizio del bordo della tavola, che indicava
con una retta trasversale, e al fondo. Lo spessore centrale, sempre segnato con un’apertura di
compasso, era il più importante, perché dal suo rapporto con quello del capotasto risultava
l’inclinazione verso l’alto della tastiera. Tale inclinazione veniva controllata mediante un fac-
simile di ponticello, predisposto per ogni forma e riproducente sul margine superiore l’esatta
curva della tastiera. Posto nella posizione del ponticello vero, l’ideale prolungamento dei lati
della tastiera doveva incontrare, traguardando, gli estremi dell’arco dei fac-simile. Sui margini
laterali superiori della tastiera praticava un leggero smusso, che raccordava soltanto con le
superfici dei fianchi, arrotondando perciò i soli angoli inferiori. Sul retro della tastiera, in
corrispondenza del sottostante blocchetto della cassa, si ha sempre uno spigolo trasversale o
intacco a scalino, per l’inserimento di due cunei di legno che servivano a far aderire la tavola
armonica al blocchetto durante le operazioni di incollatura. Andando applicato il manico con
tastiera prima della chiusura della cassa armonica, in quel punto non era possibile stringere
con morsetti.

Analogamente procedeva per la costruzione della cordiera o tappetta, che aveva solo funzione
accessoria di reggere l’attaccatura delle corde. Per ottenere una maggiore resistenza, le faceva
in legno di acero, lastronandole superiormente in ebano, a volte con filettatura in avorio ed
altre con decorazione ad intarsio. Anche per la loro costruzione si ser-

137
SIMONE F. SACCONI

138
MANICO – TASTIERA – CORDIERA – PONTICELLO

Figg. 124, 125, 126, 127 e 128 A. Stradivari: tastiera lastronata in ebano e filettata in
avorio; retro della stessa in salice bordato in acero. Modello in acero della tastiera della
forma G; altro modello in carta con graffito disegno per intarsio. Modello per la cordiera
intarsiata della viola tenore « Medicea »; traforo in carta per l’intarsio dell’amorino della
stessa. Cremona, Museo Civico.

139
SIMONE F. SACCONI

viva di modelli e disegni predisposti per ciascuna forma unitamente a tutti gli altri delle
singole parti di uno strumento. Dalle pochissime superstiti, quale quella della grande viola
tenore medicea del 1690, ornata con un amorino ad intarsio, e dai numerosi modelli con o
senza disegni per intarsio, conservati nel Museo di Cremona, risulta quanta cura e quale
impegno Stradivari mettesse nella esecuzione anche di questi semplici accessori e come
sapesse farli magistralmente concorrere, con eleganza di linee o preziosità di ornato, alla
armonia estetica del tutto.
Di particolare importanza era comunque l’accertare l’esatta corrispondenza delle
mezzerie del manico con tastiera, del ponticello e della cordiera fino al bottone sottostante.
Probabilmente Stradivari controllava l’allineamento nel più antico e più semplice dei modi,
ossia mediante uno spago retto da una punta infilata nel foro del manico al centro del
capotasto. Solo questa corrispondenza poteva assicurare il perfetto tiraggio centrale delle
quattro corde dal quale deriva la loro giusta ed equilibrata tensione.

140
MANICO – TASTIERA – CORDIERA – PONTICELLO

Nel ponticello vanno osservate due essenziali caratteristiche per la giusta trasmissione
delle vibrazioni delle corde alla tavola armonica.
Primo, i piedini Stradivari li teneva sempre piuttosto alti, in modo che la pressione di
questi sulla tavola armonica risultasse uniformemente distribuita; oggi si commette l’errore di
ridurli quasi a zero, per cui la pressione si restringe alla sola parte centrale.
Secondo, il traforo del ponticello era sempre studiato in modo da non indebolirne mai
la giusta rigidità, necessaria per una pronta trasmissione delle vibrazioni delle corde. Ciò che
non avviene, o avviene con ritardo, nei casi di movimenti laterali del ponticello, dovuti ad
indebolimento per traforo sbagliato.

141
X

MONTATURA MODERNA PER STRUMENTI ANTICHI

Nella montatura moderna, da applicarsi anche agli strumenti antichi, vanno date alle
tastiere le seguenti misure: per violino mm 270 di lunghezza, per mm 23 di larghezza al
capotasto e mm 42 al margine inferiore, uno spessore costante ai lati di mm 4,5 e una
curvatura della superficie data da un arco di 42 mm di raggio; per Le viole si ha solo un
allungamento conforme alle dimensioni dello strumento; per i violoncelli normali con
diapason di 42 centimetri, cm 37,9, per cm 3,3 per cm 6,4. La lunghezza può variare in
rapporto a quella del diapason dello strumento, dovendo comunque la distanza tra il
ponticello e l’inizio della tastiera risultare pari ad 1/6 della lunghezza delle corde dal
ponticello al capotasto. Il margine inferiore della tastiera viene così a corrispondere nelle viole
con il re diesis e nei violoncelli col mi.
Esse si costruiscono interamente in ebano con uno scavo sottostante, parallelo alla
curvatura, limitato alla sola parte terminale della tastiera a partire da 6 mm dall’incastro del
manico. Sotto ai lati della parte scavata va lasciato un bordo piatto di circa un millimetro di
larghezza. Sul piano superiore, nel senso della lunghezza, va praticata una leggera convessità
al centro di mm. 0,75, da risultare anche sui lati. Sui margini laterali superiori della tastiera
va praticato uno smusso e, degli angoli risultanti, vanno arrotondati solo gli inferiori per
raccordarli coi fianchi della tastiera, mantenendosi vivi quelli superiori. Questo smusso nei
violini ha la larghezza di un millimetro, nelle viole è leggermente più ampio, nei violoncelli
raggiunge il millimetro e mezzo.
Di grande importanza è che la tastiera risulti più leggera possibile, perché tastiere
pesanti fanno da sordina agli strumenti. Si ricordi che Stradivari per questo motivo le faceva
in salice, legno leggerissimo, riducendo l’uso di legni pesanti, come l’ebano, a semplice
lastronatura.
Essendo la tastiera moderna di spessore costante e non a cuneo come le antiche,
l’inclinazione verticale (verso l’alto) è data esclusivamente dall’inclinazione del manico, come
pure quella orizzontale, che si ottiene con l’asportazione dal piano di incollatura del manico di
una striscia di legno da zero sul lato del sol a mm 0,75 su quello del mi. L’inclinazione
orizzontale però va data solamente alle tastiere per violino, perché le corde acute, esercitando
una pressione maggiore sulla tavola di quelle gravi, devono avere al ponticello un angolo
meno acuto. Di contro quelle gravi, premendo meno, abbisognano

143
SIMONE F. SACCONI

di un angolo più acuto, che ne aiuti la spinta. Di riflesso questa inclinazione orizzontale rende
anche più agevole l’uso dello strumento, col presentare il piano della tastiera inclinato verso la
mano che regge l’archetto. Non si dà invece alle tastiere per viole e violoncelli in quanto,
aumentando il distanziamento delle corde dalla tastiera con progressione aritmetica, la
diversificazione degli angoli delle corde al ponticello è già prodotta da questa progressione. Se
si desse loro anche l’inclinazione orizzontale come nel violino, oltre agli squilibri che si
verificherebbero nella resa sonora delle quattro corde, si renderebbe più difficoltoso l’uso
dello strumento, perché l’archetto, passando sulla corda di la, andrebbe facilmente ad urtare
contro il bordo della C.
Il manico va tagliato sulle misure della tastiera; l’altezza del piede si determina tenendo
conto dell’altezza della fascia superiore, più lo spessore del bordo della tavola armonica, più la
sporgenza del manico al disopra della tavola stessa, che deve risultare di mm 6 nei violini,
mm 8 nelle viole e millimetri 20 nei violoncelli. Queste misure possono variare di un
millimetro in più o in meno a seconda della maggiore o minore altezza della curvatura della
tavola. La larghezza della base del piede del manico, superiormente è data da quella della
tastiera, inferiormente nel punto di incontro con la nocetta, deve risultare di mm 21 nei
violini, mm 23 nelle viole e mm 30 nei violoncelli. La curva di arresto del pollice va fatta
piuttosto sentita, per evitare incertezza di posizione, quando si suona lo strumento. Infine la
linea dell’asta del manico tra questa curva e la gola del riccio non va tenuta perfettamente
retta, perché in tal caso l’effetto ottico la farebbe apparire gonfia al centro, ma leggermente
concava di quel tanto necessario perché all’occhio appaia diritta.
A questo punto si incolla la tastiera al manico come pure il capotasto, facendo
avvertenza di mettere questo bene a squadro con la parte frontale del riccio.
L’incastro del manico si effettua prima segnando le misure del piede sulla fascia supe-
riore e sullo spessore del bordo della tavola; poi praticando una incassatura nel blocco di
testa, seguendo questi segni, nella quale il piede vada a penetrare provvisoriamente fino a
circa 3/4 dalla nocetta. Dalla perfetta esecuzione dell’incastro e dalla sua esatta profondità,
derivano la precisa lunghezza del manico, la sua centratura e le giuste inclinazioni. Una buona
esecuzione del lavoro si ottiene sporcando con gesso la base del piede del manico in modo
che, facendolo scorrere nell’incastro, restino i segni sul suo fondo e sui lati degli eventuali
punti non piani. Questi vanno eliminati con scalpello e coltello, facendo risultare in questa
operazione, con le opportune inclinazioni del taglio del fondo dell’incassatura, quelle da darsi
al manico-tastiera. L’operazione si ripete fino a che non risultino più correzioni da fare.
L’inclinazione verticale del manico si controlla ponendo una riga longitudinalmente sul
centro della tastiera e verificando la distanza intercorrente tra di essa e il piano armonico nel
punto di piazzamento del ponticello. Nei violini dovrà oscillare da 26 a 27 mm, nelle viole da
30 a 32, nei violoncelli da 77 a 79, a seconda della bombatura della tavola armonica.
L’inclinazione orizzontale nei violini si controlla invece mediante un fac-simile di ponticello,
riproducente sulla parte superiore la curva

144
MONTATURA MODERNA PER STRUMENTI ANTICHI

esatta della tastiera e col lato dalla parte della corda di sol di un millimetro più alto rispetto a
quello dalla parte della corda di mi. Con questo fac-simile si controlla altresì in tutti gli
strumenti la centratura, dovendo i suoi lati corrispondere, traguardando, ai bordi della
tastiera. Dopo questi controlli, sempre operando col sistema del gesso anche sui lati dell’in-
cassatura, si completa il taglio, per spingere il piede del manico, che deve penetrare nel
definitivo incastro non troppo facilmente, ma con una leggera resistenza, fin contro la
nocetta. Si danno quindi forma e spessori all’asta del manico, che dovranno risultare nei
violini di mm 18,5 in alto e mm 20 in basso, nelle viole di mm 19,5 e mm 21, nei violoncelli di
mm 29 e 32. Ricontrollate infine le inclinazioni, la centratura e la lunghezza del manico, si
provvede alla definitiva incollatura. Nel lavoro di rifinitura la nocetta va fatta risultare
leggermente ovale e perfettamente corrispondente alla parte terminale del piede del manico.

145
XI

ORNATO

L’eccezionale maestria di Stradivari si rivela compiutamente nell’intarsio di alcuni


strumenti, dove la decorazione si dispiega con sobria eleganza su tutte le fasce, le facce ed il
dorso del riccio. Raggiunta la maturità, il maestro, volto esclusivamente al perfezionamento
della qualità del suono dei suoi strumenti, pur non trascurandone mai la bellezza formale,
abbandonerà qualsiasi elemento non strettamente essenziale. Infatti la maggior parte degli
strumenti intarsiati fu realizzata prima del 1700. Tra di essi ricordiamo: Le lever du soleil del
1677, L’Hellier del 1679, il Cipriani Potter del 1683, Lo Spagnolo del 1687, il Greffuhle del
1709 e il celebre quintetto spagnolo.

147
SIMONE F. SACCONI

Fig. 133 A. Stradivari: violino intarsiato « Lo Spagnolo » del 1687.

148
ORNATO

Fig. 134 A. Stradivari: disegni a penna per l’intarsio di fasce e ricci di violini. Cremona,
Museo Civico.

149
SIMONE F. SACCONI

Per l’esecuzione degli intarsi Stradivari creava a penna il disegno dell’ornato a gran-
dezza naturale. Ripetuto a ricalco su un foglio di carta, ne forava con un ago i contorni e, dopo
averlo sovrapposto alla parte dello strumento da decorare, lo strofinava con un tamponcino
contenente polvere di carbone, che, passando attraverso i fori, lasciava una traccia
ininterrotta di puntini neri, riproducenti i contorni del disegno. È lo stesso procedimento
cosiddetto a spolvero usato dai pittori per l’affresco. L’intarsio sulle fasce avveniva prima che
queste fossero piegate e montate sulla forma, perché in caso contrario la pressione necessaria
per l’incisione dei contorni del disegno ne avrebbe sfondato il sottile spessore.

Fig. 135 A. Stradivari: disegno forato per il riporto a spolvero sulla fascia di un violino
della traccia dell’ornato da eseguirsi ad intarsio. Cremona, Museo Civico

Tagliati a misura i vari tratti di fascia, Stradivari cominciava col fissarli a supporti di
legno ben livellati ed a riportare, col procedimento dello spolvero, su ognuno di essi il relativo
disegno. Quindi, seguendone il contorno, praticava il taglio con sgorbie di varia misura e
grandezza e con coltello. L’uso di questi attrezzi risulta incontrovertibilmente dall’esame dei
contorni dell’intarsio, il cui taglio riproduce sempre la precisione delle sgorbie. È pertanto
errata l’opinione comune ch’egli procedesse col sistema del cesello quando ormai aveva
chiuso lo strumento.
Tolto il legno di mezzo, otteneva uno scavo pulito di mezzo millimetro di profondità,
riproducente nitidamente il disegno. A causa del sottile spessore della fascia e della
profondità della marezzatura, a volte avveniva che, nella asportazione del legno per lo scavo,
si producessero in qualche punto delle pipite passanti fin sull’altro lato. In tal caso riparava la
piccola rottura con pezzettini di tela incollati sui retro.
Probabilmente per verificare l’armonia dell’insieme dell’arabesco e la sua proporzionata
distribuzione sull’intera superficie da ornare, si suppone usasse praticare una prova
dell’intero scavo su un pezzo di legno da strapazzo, prima della sua esecuzione sulle varie
parti dello strumento. Con questa prova, usata come stampone o clichet, tirava a torchio delle
bozze su carta con inchiostro da stampa, alcune delle quali si conservano tuttora nel Museo.
Queste infatti riproducono a grandezza naturale il disegno in bianco su fondo nero (ossia in
negativo), che a sua volta lascia intravvedere nitidamente le venature del legno usato ed ai
margini l’impronta del contorno, prodotta dalla pressione di un torchietto.

150
ORNATO

A strumento ultimato, Stradivari riempirà gli scavi con stucco di polvere di ebano
impastata con colla forte, che, una volta essiccato, levigherà accuratamente, ottenendo un
arabesco nero sul fondo chiaro del legno. La preziosità di questo ornato era data dall’armonia
del disegno, dalla sua equilibrata distribuzione su tutta la parte ornata e dalla precisione del
taglio dei margini dello scavo, dalla quale derivava la nitidezza dell’opera finita. Questo
arabesco ad intarsio, come già detto, si distribuiva sulle fasce, correndo tutt’attorno allo
strumento; ricopriva le due facce del riccio e il piede del manico e si avvolgeva lungo il dorso
dalla coda al viluppo della chiocciola.

151
SIMONE F. SACCONI

Fig. 137 A. Stradivari: violino intarsiato « Hellier » del 1679.

152
ORNATO

Sulla tavola e sul fondo, per non compromettere i loro movimenti di vibrazione e di
rimando, l’ornato si limitava ai margini dove non poteva interferire sui suddetti movimenti.
Qui raddoppiava la filettatura e tolto il legno fra l’una e l’altra, incollava nello scavo risultante
una successione ininterrotta di losanghe alternate a tondini in avorio, riempiendo poi gli
interstizi collo stesso stucco nero. Per la levigatura, trovandosi questo ornato sul fondo della
sguscia ed essendo le parti in avorio alquanto dure, probabilmente doveva servirsi di piccole
lime curve, come quelle che usano gli scultori, stando alle minutissime graffiature osservabili
sull’avorio.
Su alcuni strumenti l’ornato delle fasce e del riccio, anziché ad intarsio, risulta eseguito
a pennello con vernice nera sottostante alla normale verniciatura dell’intero strumento. Tra
questi si citano: una viola del 1696, un violoncello del 1700 ed il violino Rode del 1722, che è
l’ultimo strumento ornato che si conosca. Per questa decorazione il disegno predisposto in
carta, anziché forato sulle linee dei contorni, veniva traforato con l’asportazione delle parti
interne, che nell’intarsio avrebbero corrisposto allo scavo del legno. Usandolo come stampo,
lo sovrapponeva alla parte da decorare, riproducendo l’impronta della decorazione, che
eseguiva poi a pennello con inchiostro indelebile, dopo l’impermeabilizzazione del legno, per
evitare che l’inchiostro si spandesse. Ciò si deduce dal traforo in carta, conservato nel Museo
di Cremona, che servì per l’ornato di un tratto di fascia di un violoncello.

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SIMONE F. SACCONI

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ORNATO

Fig. 141 A. Stradivari: scultura del manico della cetra del 1700.

Fig. 140 A. Stradivari: striscia traforata per la decorazione a pennello della fascia di un
violoncello. Cremona, Museo Civico.

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SIMONE F. SACCONI

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ORNATO

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SIMONE F. SACCONI

Oltre che intarsiatore Stradivari fu anche abile intagliatore, come dimostrano i ricci dei
suoi strumenti e le eleganti volute a scudo con le quali terminava i manici delle viole da
gamba alla francese. Ma più ancora lo si avverte nelle sculture di putti, satiri, mascheroni,
teste e busti femminili, poste sulle arpe da tavolo dei Conservatori di Musica di Parigi e di
Napoli, o a coronamento del manico della cetra o citara del 1700. Qualche dubbio è stato
affacciato sull’autenticità di queste sculture, ritenute applicate alla cetra in epoca successiva.
Ciò lo escluderei, perché non risulta traccia di innesto ed ancor più perché la vernice ad esse
sovrapposta risulta la stessa dello strumento senza soluzione di continuità. Per le arpe poi si
conserva nel Museo di Cremona lo schizzo completo, con l’abbozzo delle sculture, per
l’esecuzione dei modelli delle varie parti, che servirono alla loro costruzione. L’autenticità
infine di questi tre strumenti è fuori dubbio e per la citata anche dell’etichetta.

158
XII

VERNICIATURA

La vernice che ricopre gli strumenti di Stradivari per la sua particolare bellezza,
derivante da una trasparenza e cangiabilità di colore mai più ottenute in epoche successive, ha
sempre colpito ed acceso la fantasia di liutai ed appassionati di liuteria. Quando poi si pensò
di porla in relazione col suono, di cui non si riusciva a ripetere strutturalmente la qualità,
apparvero le più svariate, strane e perfino assurde ipotesi, dalle ricette spacciate per
autentiche, alle ciarlatanerie da alchimia, fino alla creazione del mito del « segreto
inconoscibile » che consacra il fallimento di tanti sforzi.
Ma se di segreto si voleva parlare, nel senso di ingredienti che non si riusciva ad
individuare e di composizione che non si poteva, o meglio non si sapeva, rifare, sarebbe stato
quanto meno più proprio parlare di « segreto delle vernici antiche cremonesi » in quanto esse
risultano in uso a Cremona già dall’origine della liuteria, prima metà del ‘500, e sono comuni
a tutti i maestri del periodo classico fino alla seconda metà del ‘700. Infatti dopo Guarneri del
Gesù la loro qualità si impoverisce, divengono via via più torbide e fanno la loro apparizione
composizioni totalmente diverse. Lo stesso Giovan Battista Guadagnini, che doveva
conoscerle molto bene, perché il padre Lorenzo le aveva sempre usate, se ne serve ormai
saltuariamente, abbandonandole infine per quelle di nuova introduzione. Queste ebbero ben
presto il sopravvento e il nuovo sistema di verniciatura — e quanto nuovo fosse, oltre che per
sostanze usate, proprio come sistema risulterà chiaramente in seguito — fece cadere nell’oblio
quello antico di cui si perse ogni nozione.
Ora vien fatto di chiedersi come mai, a parte i ciarlatani, non abbia avuto successo la
serietà di molti ricercatori. L’errore sta nel punto di partenza. Tutti coloro che si occuparono
del problema, ebbero il torto di partire da una base sbagliata, ossia di pensare che le vernici
classiche costituissero, se così si può dire, le antenate di quelle dell’Ottocento e moderne, e a
queste andassero in qualche modo collegate. Risultata vana qualsiasi ricostruzione a ritroso di
una presunta evoluzione delle vernici antiche fino a quelle moderne, perché a nulla si
approdava che assomigliasse loro anche lontanamente, l’attenzione si spostò su quegli
scrittori del passato che avevano parlato di vernici, riportando anche ricette varie. Si
ridiseppellirono in tal modo dall’oblio le indicazioni contenute negli scritti e ricettari di autori
del Cinque, Sei e Settecento, come Alessio il Piemontese (1550); il Fioravanti (1564); i
tedeschi Zahn e Kunckel (prima del 1685); Padre

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SIMONE F. SACCONI

Domenico Auda (1663, epoca in cui appare nelle ricette la gomma lacca); l’inglese Cristoforo
Love Morley (1692); Vincenzo Coronelli (1693); Adalberto Tilkowski (1700); Padre Filippo
Bonanni (1700-1723) ed altri. Nessuno di loro però accenna a vernici per strumenti musicali e
tra le infinite ricette che riportano, non c’è n’è [??] una sola che dia un prodotto anche solo
avvicinabile alle vernici dei liutai cremonesi.
Tutto questo, in luogo di portare aiuto, complicò maggiormente il problema, con-
fondendo ancor più le già fin troppo confuse idee. Quegli autori parlano sì di vernici e danno
ricette per la loro composizione, ma non ci si è accorti che, non essendo essi liutai, anzi
ignorando totalmente l’artigianato liutario, trattavano di vernici per usi vari, che con la
liuteria nulla avevano a che vedere.
In tempi più recenti, mettendo il progresso scientifico a disposizione mezzi sicuri di
indagine mediante le analisi chimiche degli elementi che compongono una sostanza, si
ritenne, erroneamente, fosse possibile ricostruire le vernici mediante l’accertamento delle
loro componenti qualitative e quantitative. Se non che l’analisi chimica indica qualità e
quantità degli elementi presenti nella sostanza ed, entro certi limiti e con altre tecniche, come
essi sono associati, ma nulla rivela sulla fonte delle varie materie prime impiegate, e tanto
meno sul procedimento di preparazione.
Inoltre si operava l’analisi su un corpo di sostanze senza sapere che quell’insieme, che si
definiva la vernice, era, nello strumento e per lo strumento, il risultato finale di un complesso
procedimento, costituito da una stratificazione di diverse composizioni, impiegate in tempi e
modi diversi. Quanto meno occorreva preliminarmente identificare e separare i vari strati.
Io stesso fin dalla giovinezza fui contagiato dal fascino di queste vernici e il desiderio di
penetrarne il mistero mi divenne quasi un’ossessione. Da principio fui attratto dalla loro
superba bellezza, ma quando cominciai ad avere la possibilità di esaminare a fondo strumenti
originali di Stradivari, in occasione di riparazioni, mi si palesò sempre più chiaramente
l’esistenza di una stretta relazione tra esse e la qualità del suono. Strumenti della scuola
cremonese con vernici originali e strumenti moderni, anche di ottimi autori, presentavano, a
confronto, una differenza di resa sonora molto forte. Ciò poteva dipendere dai diversi rapporti
ed equilibri delle casse armoniche, ma questa differenza di resa sonora si ripeteva altresì tra
strumenti di Stradivari intatti e strumenti suoi raschiati a fondo o anche solamente lavati fino
ad asportarne totalmente la vernice colorata e successivamente riverniciati con vernici
posteriori o moderne. Inoltre l’influenza delle vernici cremonesi sulla qualità del suono
risultava ancor più evidente in tutti gli strumenti antichi di altri autori, costruiti con casse
armoniche dai rapporti non troppo ortodossi, e che tali vernici avevano adoperato. Infatti in
questi ultimi strumenti esse riuscivano a compensare in parte i difetti strutturali, tanto che
una loro riverniciatura moderna produceva sempre una riduzione di rispondenza sonora
superiore a quella che si verifica colla riverniciatura degli Stradivari. Tipici gli strumenti
prodotti da Guarneri del Gesù, che, pur essendo meno scientificamente equilibrati nei vari
rapporti, ripetono

160
VERNICIATURA

robustezza e vigore di suono di quelli di Stradivari, anche se il timbro non ne ha la nobiltà, ma


subiscono addirittura un crollo di rispondenza quando se ne sostituisce la vernice.
Questa influenza della vernice, o meglio delle vernici, sulla qualità del suono già era
stata ripetutamente affermata, arrivando taluni fino a far dipendere esclusivamente da essa
tutte le doti acustiche dello strumento. Se così fosse, essendo non esclusiva di Stradivari, ma
comune a tutti i maestri liutai cremonesi, da Andrea Amati a Guarneri del Gesù, avrebbe
dovuto livellarne in un’unica qualità tutta la produzione, distruggendo le singole individualità
e personalità. Credo che nessuno si senta di affermare, che un Andrea Amati ha la stessa
qualità di suono di un Nicolò Amati o di un Andrea Guarneri, o di un Guarneri del Gesù, o di
uno Stradivari, per citare solo i più grandi.
Tralasciando l’assurdità di questa conclusione estrema, che vorrebbe far dipendere la
qualità del suono esclusivamente dalle proprietà delle vernici impiegate, il riconoscimento di
una certa influenza della vernice sul suono, già alla sua prima enunciazione, suscitò fieri
contrasti e urtò contro una apparente, fondatissima obiezione. Strumenti di Stradivari
poverissimi di vernice hanno la stessa resa sonora di altri ancora intatti, come il Medici, il
Messia, il Cremonese ed altri. Da qui la corrente contrapposta di coloro che ritennero o
affermarono non avere le vernici influenza alcuna sul suono.
Le opinioni, per così dire, delle due correnti non si sono però mai tradotte in studi
particolari di vero carattere scientifico, ma tutto si è mantenuto allo stato nebuloso di una
tradizione per lo più di polemica orale tra liutai, collezionisti, amatori ed antiquari, per cui le
opposte deduzioni, che avevano costretto il problema in un vicolo cieco, andavano
riconsiderate con metodo critico e non con quello semplicistico e sbrigativo dell’affermazione
o della negazione. Certamente l’indagine era stata superficiale e più in profondità doveva
celarsi un qualche cosa sfuggito all’osservazione e di natura tale da risolvere quelle che
apparivano insormontabili contraddizioni.
Proseguendo negli accertamenti mi venne dato di notare come tra il legno e la vernice o
strato colorato che lo ricopre, negli strumenti cremonesi si riscontra sempre un’altra sostanza
di un bel colore cannella. A mettermi sull’avviso furono i liutai tedeschi ed anche taluni
italiani.
Questi usavano interporre tra legno e vernice uno strato leggero di colla. Gli inglesi a
loro volta passavano sul legno bianco, prima della vernice colorata, una mano della stessa
vernice senza la presenza del colore, ma solo leggermente sporcata di giallo, nel tentativo di
ottenere i riflessi dorati dei cremonesi. Le due osservazioni inducevano a pensare che il legno,
prima della verniciatura vera e propria, andasse preparato per una sua migliore
conservazione ed anche per evitare che il colore contenuto nella vernice, penetrando nel
legno, ne compromettesse la trasparenza. Inoltre che fosse questa preparazione, e non la
vernice colorata, ad avere influenza sul suono.
Gli espedienti tedesco, inglese, e di taluni italiani, se potevano mettere sull’avviso di un
trattamento del legno, non davano però la chiave per individuare le sostanze usate

161
SIMONE F. SACCONI

dai cremonesi per la preparazione, dal momento che non ne ripetevano i risultati. Infatti il
potere isolante della colla, anche mischiata con latte di fico sciolto in olio di trementina, era
assai relativo, perché soggetta a rinvenimento e a commistione all’atto dell’applicazione della
vernice colorata; mentre quella sporca di giallo degli inglesi, risultava ancor meno efficace,
lasciando penetrare il colore giallo nel legno.
Il latte di fico era in uso da tempo da parte dei pittori e dovette essere usato da Gasparo
da Salò e dal suo allievo Maggini nella preparazione del legno; essi inoltre sono gli unici ad
avere adoperato scorza di fico per fare il bianco dei filetti: particolare, questo, assai utile ed
importante per l’accertamento dell’autenticità dei loro strumenti, in quanto nelle copie si
trovano sempre impiegati altri legni, a seconda delle varie scuole. Cremonesi e veneziani
usarono sempre pioppo per il bianco dei filetti ad eccezione dei Ruggeri che adoperarono
faggio; napoletani, romani, toscani e bolognesi, sempre faggio.
La sostanza impiegata dai Cremonesi per la preparazione, doveva essere al tempo
stesso: impermeabile, insolubile, lucida tanto da riflettere, dura fino a resistere anche
all’asportazione della vernice colorata, che non facesse spessore e, più importante ancora, con
proprietà tali da non impedire o ridurre la libertà di movimento della tavola e del fondo; anzi
da facilitarli ed esaltarli, dal momento che doveva proprio essere questa preparazione a
produrre l’accertata influenza sul suono. Individuata la sostanza, con queste caratteristiche, si
sarebbe spiegata l’eccezionale trasparenza, brillantezza e cangiabilità della vernice, in una
parola il suo pregio artistico, e sarebbe altresì venuta a cadere la contraddizione tra le due
risultanze sul suono. Infatti anche negli strumenti, diciamo così « pelati », questa
preparazione, per la sua durezza, rimane intatta come in quelli ricchi di colore (occorrerebbe
per asportarla una raschiatura in profondità, che distruggerebbe lo strumento); da qui
l’uguaglianza di resa sonora tra strumenti con vernice e strumenti senza. Ciò prova altresì
l’assoluta inerzia della vernice colorata che, anche quando asportata, lascia inalterato il suono
e chiarisce la sua funzione, che resta esclusivamente decorativa.
Osservando ora gli strumenti di Stradivari e degli altri liutai cremonesi, si notano,
specie sulle tavole armoniche dove il contatto e lo sfregamento delle mani è più frequente e
prolungato, zone in cui la vernice è scomparsa, sfumando per scioglimento sotto il calore
umido della mano. La preparazione però è rimasta integra e guardata sotto ingrandimento
lascia intravvedere le fibre sottostanti come fossero d’oro: dimostrazione evidente che il legno
è assolutamente « pulito », ciò che non potrebbe essere, se non lo rivestisse un isolante
insolubile e di grande resistenza. In caso contrario le fibre del legno risulterebbero sporche ed
impregnate di sudore e del grasso delle mani, come si nota negli strumenti con preparazione a
base di colla. Perfino alla posizione della mentoniera, che in passato non si usava, il
continuato strofinio abrasivo della barba non ha potuto asportare interamente la
preparazione.
Tutto questo mi ha portato a stabilire senza ombra di dubbio, che quella che comu-
nemente viene chiamata vernice cremonese, consta di sostanze composite assolutamente
differenti tra loro, con specifiche caratteristiche, applicate allo strumento in tempi diversi

162
VERNICIATURA

e formanti strati sovrapposti tra i quali non si produce alcuna commistione, anche parziale,
per assorbimento. Da questo primo punto fermo si precisa la totale diversità di questo
procedimento di verniciatura rispetto alla applicazione delle vernici posteriori e moderne e
conseguentemente, per l’indagine diretta ad accertarne le rispettive composizioni, vanno bat-
tute altre vie, senza riferimento alcuno alle sostanze che compongono le vernici attualmente
in uso.
Prendiamo ora in esame la prima vernice, per la quale più propriamente deve parlarsi
di preparazione del legno all’esterno dell’intero strumento, al fine di precisarne gli effetti.
Dall’accertamento di questi ultimi si risalirà alle funzioni e alle caratteristiche delle sostanze
che li producono.
Per effetto della preparazione il legno si induriva e diventava omogeneo sia per la sua
capacità di assorbimento, come per il grado di diluizione con cui questa sostanza andava
usata. Infatti essa penetrava maggiormente nelle parti più molli e porose o dove il legno si
presentava di testa, e in misura minore in quelle più dure. Un tale processo di indurimento,
direi di inossamento, come di cristallizzazione, conferiva al legno una maggiore capacità di
vibrare, mediante una pronta ed energica esaltazione dei movimenti della tavola e del fondo.
Questi movimenti determinanti ai fini della resa sonora dello strumento e del timbro del
suono, perché direttamente interessanti i transitori di attacco e di estinzione, erano a loro
volta in diretto rapporto con gli spessori delle varie parti della cassa armonica. Ora è proprio
sulla determinazione di questi spessori che influisce l’inossamento, consentendo la loro
riduzione a quelle misure ottime, che con legno non inossato sarebbe impossibile adottare.
Questo è di capitale importanza, perché con spessori grossi, come impone il legno non
trattato, il suono rispetto agli strumenti classici risulta duro, legnoso e senza qualità. Con il
trattamento, anche a spessori troppo sottili, il suono, pure assumendo un timbro più scuro,
conserva inalterato il suo vigore; quando con legno al naturale, risulterebbe fiacco, senza vita,
addirittura lugubre. Però con legno inossato l’uso di spessori grossi darebbe un suono ancora
più duro che con legno al naturale.
Un violino di Stradivari del 1720 al quale sono stati in epoca successiva assottigliati
notevolmente piano armonico e fondo, forse perché il suo suono fu ritenuto troppo esube-
rante ed acuto, ha acquistato un timbro più scuro, senza nulla perdere del primitivo vigore,
quando un altro strumento così alterato sarebbe stato praticamente distrutto. Come avrebbe
del resto potuto Stradivari far suonare in quel modo i suoi violoncelli, le cui tavole armoniche,
incredibile a dirsi, raggiungono appena mm 3-3,5 di spessore, con in aggiunta curvature
piuttosto basse? Altri strumenti con quegli spessori avrebbero suono morente. È grave errore
l’uso odierno (dal momento che non si pratica più la preparazione del legno al modo antico)
di passare sull’esterno dello strumento, prima della verniciatura, una mano di olio di lino,
perché, anche dopo l’essiccamento e l’ossidazione, questo conserva sempre una certa
viscosità. Per di più l’olio penetrando nel legno lo infiacchisce anziché irrigidirlo, tanto è vero
che si è costretti in tal caso a ricorrere a grossi spessori. Ancora la preparazione conferisce al
legno una inalterabilità che assicura agli strumenti durata ecce-

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SIMONE F. SACCONI

zionale, impedendo il naturale sfasciamento delle fibre a causa delle continue vibrazioni. Le
fibre infatti, quanto più il legno è di spessore sottile, tanto più rapidamente perdono re-
sistenza e coesione. Gli strumenti stradivariani invece, ad oltre duecentocinquant’anni dalla
loro costruzione, nonostante le ingiurie del tempo, il logorio di un uso ininterrotto, i danni
causati dagli interventi su di essi di cattivi liutai, nulla hanno perso del primitivo vigore.
Perfino strumenti alterati e manomessi in tutti i modi conservano sprazzi dell’antica vitalità.
Un violoncello e due violini rimasti sotto l’acqua del mare per alcuni giorni a seguito di
naufragio, ripescati sfasciati e fradici, ricomposti, dispiegano tuttora una voce stupenda. Con
gli spessori che Stradivari dava al legno della tavola, del fondo e delle fasce, se questo non
avesse subito un trattamento di indurimento, da gran tempo i suoi strumenti anche con la più
scrupolosa cura nella conservazione, sarebbero finiti per morte naturale.
Infine l’impermeabilizzazione del legno, ottenuta con la preparazione, manteneva alla
vernice colorata la sua trasparenza, che sarebbe risultata compromessa qualora la vernice
stessa fosse penetrata in esso per assorbimento. Il legno a sua volta, per un processo di
ossidazione, assumeva una calda tonalità cannella dorata, che, fungendo da sottofondo
riflettente, conferiva alla vernice riflessi cangianti, invano imitati, specie dai liutai antichi in-
glesi, con tinte giallastre.
Probabilmente questa preparazione col tempo, e sotto l’azione continua delle vibra-
zioni, subisce un processo di ricristallizzazione all’interno dello stesso legno, senza per altro
perdere le sue proprietà e la sua influenza sul suono, ma aumentando il potere di diffrazione
della luce.
La sostanza di preparazione opera quindi: sul suono, perché uguaglia le diverse re-
sistenze del legno allo stato naturale tanto del piano quanto del fondo, col maggior as-
sorbimento delle parti tenere e flessibili e col minore di quelle dure e rigide; sulla durata
perché, una volta assorbita dal legno, gli dà notevole durezza e non si altera col tempo; sulla
vernice, perché non si amalgama con essa, bensì la isola totalmente dal legno.
Da queste conclusioni mi si vennero di conseguenza e quasi spontaneamente precisan-
do le funzioni e i requisiti della sostanza. Prima ancora di analisi scientifiche o presunte
rivelazioni di scrittori antichi, era Stradivari a parlare con la sua produzione.
Le funzioni della preparazione consistevano dunque nel fare inossare il legno, perché
vibrasse più prontamente, presentasse maggiore resistenza ed avesse più durata, e nell’iso-
larlo dalla vernice, onde rimanesse limpido. All’assolvimento di queste funzioni si doveva
ancora aggiungere: un forte potere di penetrazione, in modo da amalgamarsi col legno e di-
venire un tutt’uno con esso; una elevata tensione superficiale che non arrivasse ad otturare i
pori del legno; doveva essere rigida, per cantare col legno; purissima, per non sporcarlo a sua
volta; doveva avere cioè la proprietà di rivestire le fibre del legno, lasciandone inalterata la
caratteristica struttura porosa.
La via per arrivare ad individuarne ed accertarne la composizione era ormai aperta.
L’analisi chimica ha accertato in questa sostanza di preparazione data sugli strumenti una
notevole quantità di silice e tutte le componenti della potassa, indicando, senza

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VERNICIATURA

ombra di dubbio, trattarsi di una sostanza vetrosa e precisamente di silicato di potassio e di


calcio. Gli antichi lo ottenevano fondendo in un crogiuolo silice, carbone e potassa, che a sua
volta facevano con ceneri di sarmenti di viti e ancor meglio con quelle della feccia della
torchiatura. A disgregazione avvenuta, la sostanza porosa, che risultava assai friabile, andava
ridotta in polvere, sciolta in acqua, ribollita fino a giusta densità, quindi decantata per la sua
purificazione. Così preparata risultava incolore e all’atto della sua stesura sul legno, gli faceva
assumere un colore giallo verdastro, che, a processo di ossidazione ultimato, diventava di un
bel colore cannella dorato.
Per poter essere usata andava ridiluita a consistenza quasi acquosa e sempre a prepara-
zione relativamente fresca. Infatti quando si è molto concentrata o infittita, perché preparata
da tempo, difficile diventa il suo scioglimento in acqua, restando grumi. Prima dell’impiego è
sempre bene provarne una goccia su un pezzo di vetro ben sgrassato; la goccia non deve
divenire di un biancastro torbido, ma presentare la stessa trasparenza del pezzo di vetro su
cui è stata messa.
Anticamente si riteneva di poterla impiegare in chirurgia per l’indurimento delle ossa;
ancora recentemente nelle campagne si usava per la conservazione delle uova. La densità del
silicato andava regolata in modo da penetrare bene nel legno e da rivestire i pori all’interno
senza otturarli. Dopo la sua applicazione, la superficie dello strumento risultava leggermente
ruvida, per cui doveva essere rilevigata con pelle di pesce molto fine, asprella e tamiso. A luce
molto radente e sotto ingrandimento sono visibili sulla preparazione minutissime e brillanti
striature o puntini. Questa operazione era piuttosto delicata e andava fatta con infinita cura.
Al fine di evitare abrasioni, può essere sostituita da una lavatura con acqua e straccio, ripetuta
un paio di volte; la potassa si scioglie, ma non il vetro, che è di già avviluppato alle fibre del
legno.
Alla preparazione veniva sovrapposta la verniciatura vera e propria, che vi aderiva
senza in alcun modo penetrarvi. Mentre tra legno e preparazione si ha incorporazione e
fusione, tra preparazione e vernice si riscontra soltanto aderenza, ed il fissaggio avviene per
ancoramento della vernice ai pori del legno, senza alcun contatto con esso. Ciò si vede
chiaramente ad un attento esame sotto ingrandimento; anche a occhio nudo appare adagiata
negli avvallamenti tra fibra e fibra.
A mettermi sull’avviso furono due osservazioni: che nelle zone dove la vernice era più
consunta e quasi scomparsa, rimanevano tuttavia puntini marcati e nitidi in corrispondenza
dei pori e fissati in essi, e che le parti presentanti legno di testa conservavano sempre vernice
intatta.
Per l’individuazione delle sostanze impiegate per comporla, dimenticate tutte le vernici
posteriori e quanto avevano scritto gli antichi, ancora una volta interrogai gli strumenti.
La prima impressione è di un lucido morbido, grasso, ceroso, come fosse unto, che non
si traduce in semplice riflesso di superficie, ma penetra in profondità; impressione che si tra-
sforma in certezza non appena si constata la cangiabilità dei riflessi a seconda dell’ango-

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 144 A. Stradivari: violino « Cessol » del 1716.

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VERNICIATURA

lo di incidenza dei raggi della luce. Verso il tramonto o al mattino, anche con cielo coperto, il
colore si accentua, acquista più intensità, profondità e luminosità, diviene vibrante come se la
vernice si accendesse; a luce diffusa o indiretta tende a spegnersi. Si ha quindi una diffrazione
della luce. Inoltre osservando al microscopio una scaglia di vernice non si riscontrano tracce
di colore giallo addizionato, eppure tutta la vernice vista sullo strumento ha magnifici riflessi
dorati; questi le devono essere dati anche dal legno, che colla preparazione ha assunto per
ossidazione quella tonalità. Se osserviamo il comportamento di tutte le vernici usuali a base di
resine colorate, quali la gomma gutta, il sangue di drago ecc. e aniline solubili in alcool ed olii
essenziali, riscontriamo come nessuna di esse è in grado di produrre questi effetti, perché
formano un amalgama impenetrabile, che impedisce la diffrazione. Infatti il lucido che esse
danno può anche essere superiore ma freddo e limitato alla superficie, mai morbido e caldo; il
colore sempre uguale e piatto; il legno sottostante senza iridescenze; la luce riflessa e non
diffratta.
Da queste prime constatazioni scaturiscono i seguenti punti fermi: primo, siamo in
presenza di sostanze che nulla hanno a che vedere con quelle contenute nelle vernici
posteriori e moderne; secondo, il risultato finale di tutto il procedimento di verniciatura è
dato dal combinato concorso della preparazione e della vernice, che, sotto l’aspetto estetico, si
integrano a vicenda; terzo, questo procedimento è totalmente differente da tutti quelli che
posteriormente al periodo classico sono stati praticati in liuteria; quarto, solo dall’esame dei
requisiti e del comportamento di questa vernice si può risalire alle sostanze che la
compongono.
Partendo da questi dati di fatto verrò esponendo le varie osservazioni ed esperienze da
me fatte, fino alle conclusioni che ho creduto di doverne trarre.
Esponendo uno strumento al calore estivo, la vernice subisce tuttora un rammorbi-
dimento a causa della sua bassa resistenza al calore, che fa lasciare su uno straccio umido,
passatovi sopra, tracce color ambra, mai tracce di colore della vernice, anche quando è molto
rossa. Sulle parti di uno strumento soggette ad un continuo contatto delle mani, il lo-
goramento assume l’aspetto di consunzione sfumata. Quando per urti su superfici ruvide si
verifica al centro del fondo la caduta di particelle di vernice, queste sono per lo più mi-
nutissime e mai continue, ma distribuite in un mosaico irregolare, come fosse prodotto da
sbriciolamento. Perdurando il processo di logoramento, l’area interessata si allarga sempre
più, seguendo però l’andamento della marezzatura del legno. In altri termini sul fondo non si
verifica mai lo stacco di scaglie compatte, come nelle vernici dure, ma lo sgretolamento in
particelle piccolissime. Questo fenomeno è dovuto, per quanto riguarda lo sbriciolamento,
alla friabilità della vernice, mentre l’andamento del logorio riflette il maggiore o minore
assorbimento della preparazione da parte del legno, perché la vernice, non amalgamandosi
con la preparazione, cede più o meno facilmente a seconda che sia più o meno ancorata.
Infatti salta via maggiormente sulle parti chiare del legno in quanto, essendo meno porose,
offrono alla vernice minori ancoraggi. Sulle parti scure avviene il contrario, perché,
presentandosi il legno di testa, risultano più porose. Inoltre i margini delle screpola-

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SIMONE F. SACCONI

ture o delle rotture della vernice non sono mai nitidi e precisi, ma appaiono sempre am-
morbiditi e quasi sfumati. Altrettanto avviene per i margini di particelle cadute. Osservando
al microscopio una piccola scaglia di vernice appena staccata, i suoi margini, ancorché di
spessore sottilissimo, appaiono nitidi ed acuti come quelli di un vetro spezzato, ma ripetendo
l’osservazione con lo stesso frammento dopo qualche giorno, specie d’estate, questi si sono
ammorbiditi ed arrotondati. Per tutto questo il logoramento della vernice, specie al centro del
fondo degli strumenti, non è mai duro e brutto come di cosa rovinata, come si vede negli
strumenti con vernici a spirito e lacca, al contrario è di un così bell’effetto che qualcuno ha
persino pensato che sia stato Stradivari stesso a volerlo e provocarlo. I profani restano più
ammirati di fronte ad un fondo di strumento di Stradivari così pittoricamente consunto, che
non davanti ad un oggetto con vernice integra. Quando da uno strumento, per evento
eccezionale, salta via un pezzetto di vernice di una certa ampiezza, il fondo sottostante appare
all’inizio opaco, poi gradatamente acquista il caratteristico lucido morbido e grasso, specie se
leggermente strofinato. Ciò non può essere dovuto ad altro se non a tracce della composizione
della vernice, rimaste sulla preparazione, che rinvengono e si espandono. Non può derivare
dalla preparazione, perché, come visto, è dura, insolubile ed inalterabile.
Allo stato naturale questa vernice è piuttosto opaca, ma se ravvivata con una goccia
d’olio di essenze o di vaselina e leggermente strofinata con uno straccio morbido, subito si
accende e brilla di una particolare luminosità, perché l’olio, filtrando tra le porosità, ne
aumenta il distacco dal fondo di preparazione, che le fa da specchio riflettente. Se passata con
uno straccio leggermente imbevuto di alcool, si scioglie, lasciando su di esso una specie di
sporco brunastro, mentre la sua superficie da liscia diviene porosa. Essa inoltre riceve e
trattiene lo sporco con grande facilità, ciò che non avviene con tutte le altre vernici. Infine lo
strato steso sugli strumenti risulta sempre finissimo, quasi senza spessore e su un numero
considerevole di essi ho osservato frammenti di peli di pennello, ricoperti dalle varie mani di
vernice. Per inciso ricorderò di aver visto quasi tutti gli strumenti di Stradivari oggi conosciuti
e di averne riparati circa 350.
Una ulteriore conferma delle proprietà e qualità di questa vernice, può desumersi da
una lettera di Stradivari datata 12 Agosto 1708, nella quale si dice: compatirà l’tardanza del
violino che è sfatto la causa per la vernice per le gran Crepate che il sole non le facia aprire,
dove si afferma chiaramente che il ritardo nella consegna di un violino si doveva alla vernice,
che, prima dell’essiccamento, andava esposta ad un forte sole perché si rammorbidisse e
distendesse uniformemente in modo da annullare le striature del pennello. Se però fosse
rimasta esposta troppo a lungo al sole si sarebbe eccessivamente rammollita tanto da aprirsi e
concentrarsi poi in grumi o isole, come è avvenuto su un violino del 1718. Qui si è prima
aperta, poi ristretta, quindi concentrata in lunghe isole distanti tra loro fino a 3 mm. Anche in
qualche altro raro caso il fenomeno si è verificato, in forma però non così vistosa ed
appariscente, quando la vernice è stata data a mani troppo dense. Infine al microscopio,
quando non vi sono mischiate sostanze coloranti,

168
VERNICIATURA

appare di un colore ambra; quando contiene colore questo è sempre concentrato in minute
particelle brillanti, disseminate irregolarmente in una massa legante di color ambrato. Sotto i
raggi della lampada di Wood nel primo caso appare di un aranciato lattiginoso, come se sopra
vi fosse uno strato di polvere biancastra; nel secondo assume una tonalità salmone grigiastra;
dove invece è saltata via, il fondo di preparazione è sempre di un bruno verdastro.
Le caratteristiche proprie di questa vernice si possono così riassumere:
sostanza che non soffoca lo strumento, che si sovrappone alla preparazione senza intaccarla;
fragilissima all’urto, perché tenera, friabile e aderente alla preparazione per ancoramento e
non per penetrazione o incorporazione;
sottile e porosa, tanto da far filtrare l’olio e trattenere lo sporco;
malleabile al punto da risultare sensibilissima alle varie temperature atmosferiche, specie
d’estate, e suscettibile di rammollirsi alquanto col semplice calore della mano.
Essa inoltre presenta:
lucidità morbida e grassa, che non possiede per se stessa, ma acquista per sfregamento; colore
ambrato, quando non vi sono aggiunte sostanze coloranti;
buona trasparenza, tanto da lasciar passare la luce e riflettere il fondo sottostante.
Ora, codesta seconda, o vera e propria vernice, risulta composta di semplici e note
sostanze naturali e cioè: propoli, balsamo resinoso che le api ricavano principalmente dalle
gemme dei pioppi; il Tommaseo così la definisce: « materia resinosa, odorosa, duttile, di color
fosco, con la quale dalle api s’intonaca internamente l’alveare, o altro luogo che loro serve di
stanza, prima di impiegare la cera nella formazione dei favi »; resina di trementina di larice,
detta di Venezia; olio di spigo; olio di trementina; alcool etilico.
Che la propoli fosse non solo conosciuta, ma usata da tempo nella composizione di
vernici per usi svariati lo attesta Francesco Agricola nell’opera Trattenimenti sulle vernici ed
altre materie utili e dilettevoli sparse nelle opere di molti accreditati autori, particolarmente
nel trattato assai stimato del P. Filippo Bonanni: raccolti ed ordinati da Francesco Agricola.
Ravenna 1788. Libro ch’io rintracciai in una biblioteca romana, quando a 15 anni già mi
appassionavo di ricerche sui liutai antichi. In una nota a pag. 55 è detto: « quella materia
glutinosa, tenace, molle da prima, ma che poi s’indura, la quale è stata nominata propoli, che
raccolgono le api e si trova nelle arnie, può servire ottimamente per alcune vernici.., che la
propoli disciolta nello spirito di vino e nell’olio di trementina, potrebbe sostituire alla vernice,
che impiegasi per dare il colore d’oro... Se per esempio s ‘incorporasse col mastice o con la
sandracca, essa sarebbe buona ».
La propoli veniva usata allo stato naturale, mentre la resina di trementina di larice
andava preparata. Quest’ultima essendo all’estrazione dalla pianta vischiosa e contenendo
terpeni ed olii, che vanno eliminati per poterla solidificare, si faceva cuocere a fuoco lento

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SIMONE F. SACCONI

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VERNICIATURA

Fig. 145 A. Stradivari: bassetto


« Aylesford » del 1696.

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SIMONE F. SACCONI

per ore e ore (almeno sei) in acqua, da cambiarsi ogni tanto, fino a ridurla, all’atto del
rapprendimento, a consistenza callosa. In occasione dei cambi dell’acqua era bene mani-
polarla energicamente, per facilitarne il processo di rapprendimento, coll’avvertenza di usare
sempre, qui e altrove, acqua piovana o distillata per evitare ossidi.
Altro sistema per prepararla, consisteva nel cuocerla senz’acqua in recipiente di rame,
mai di ferro, sempre per non assorbire ossidi, fino a che fosse polverizzabile dopo il
raffreddamento. Per l’eliminazione di qualsiasi eventuale residuo di vischiosità era in uso di
ricuocere a fuoco lento per pochi minuti la resina già bollita in acqua e decantata o quella
cotta direttamente senz’acqua nel recipiente di rame, con l’aggiunta dell’8% circa di calce
spenta in polvere. Nell’analisi chimica e spettrografica si è sempre rinvenuta una notevole
quantità di calce.
La propoli conferiva alla vernice una colorazione ambra dorata; la resina di Venezia ne
aumentava e migliorava la forza legante; gli olii essenziali e l’alcool ne costituivano il solvente,
come pure ne aiutavano la trasparenza.
Per fare la vernice, propoli e resina, in ragione di 4/5 e 1/5 rispettivamente, venivano
sciolti ed amalgamati a bassa temperatura con alcool etilico, quindi si filtrava con tessuto di
tela fine. Rimesso a fuoco il filtrato, andava concentrato fino alla densità di pasta molle. A
questo punto veniva nuovamente sciolta con gli olii suddetti.
Quando la propoli era di qualità troppo magra, ossia conteneva poca o niente cera (ciò
avveniva assai raramente perché si usava quella raccolta in pezzi e non quella raschiata
dall’arnia) vi si addizionava cera vergine precedentemente cotta con ossido di piombo
(cerussa) in ragione del 4% circa rispetto alla quantità delle resine. L’ossido di piombo serviva
a facilitarne l’essiccamento e l’indurimento. L’olio di spigo veniva usato nella fase iniziale
della diluizione, onde sciogliere le sostanze componenti la vernice non solubili in alcool e olio
di trementina; continuandosi poi la diluizione con olio di trementina, fino ad ottenere la
fluidità necessaria per una facile stesura a pennello. Non si poteva usare tutto olio di spigo
perché, sciogliendo questo anche le resine, sarebbe risultata difficile, per non dire impossibile,
l’applicazione allo strumento di più mani di vernice, ridisciogliendosi colle successive anche le
precedenti. Altrettanto non si doveva eccedere nella quantità di olio di trementina, perché la
vernice si sarebbe disunita. Se ciò si verificasse si può ripristinare l’amalgama aggiungendo
ancora un poco di olio di spigo. Tanto la propoli quanto la cera eventualmente addizionata,
essendo usate allo stato naturale, ossia non raffinate, contenevano anche nettare e polline,
che contribuivano alla colorazione ambrata. Ancora oggi rammorbidendo la vernice degli
strumenti con alcool puro, si può sentire il caratteristico aroma della propoli. L’analisi
chimica ha accertato la presenza di tutte le componenti di queste sostanze. Quella di ossido di
ferro, che provocava un imbrunimento per ossidazione della vernice, proveniva dal recipiente
usato per la cottura e la manipolazione, come pure poteva essere presente nella propoli, se
staccata da parti in ferro delle arnie.

172
VERNICIATURA

Nell’ultimo periodo Stradivari aggiunse alla vernice anche gomma lacca nella stessa
quantità della trementina cotta. Infatti su questi strumenti la vernice risulta un po’ più dura,
pur restando porosa per la presenza della propoli, e tende a staccarsi in scaglie anziché
sbriciolarsi.
Quando la vernice si presenta colorata a diverse intensità, evidentemente vi era stata
aggiunta, dopo la preparazione, una sostanza colorante, la cui identificazione mi impegnò in
altre osservazioni ed esami ed alla cui individuazione pervenni per esclusione.
Già s’è detto come il colore non risulti mai fuso con la vernice, ma sempre sotto forma
di minutissime particelle distribuite irregolarmente in essa. Da ciò si deduce trattarsi di una
sostanza insolubile, che conserva la propria individualità, rimanendo in sospensione e che per
questo colora la vernice per riflesso, producendo un fenomeno ottico di dicroismo, cioè di
trasparenza di due colori differenti (ambra dorato della vernice e rosso rubino del pigmento
colorante). Solo una sostanza non solubile, poteva conservare a quella materia legante dalle
proprietà viste, che costituisce la vera e propria vernice, la sua trasparenza; una sostanza
solubile l’avrebbe sporcata e intorbidita. Inoltre queste particelle di colore, tenuto conto della
loro frequenza, che era sempre piuttosto bassa rispetto alla superficie ricoperta, per poter
creare un riflesso sufficiente a colorare l’intera massa, dovevano possedere una intensità di
colore e una brillantezza eccezionali. Ancora doveva essere codesto pigmento pressoché
indelebile, dal momento che, pur considerando la proprietà della sostanza legante di ridurre
al minimo l’impallidimento del colore sotto l’azione della luce, a distanza di tanto tempo
risulta quasi inalterato.
Quando su uno strumento, per la facilità con la quale, durante la lavorazione dell’acero
riccio, si potevano produrre piccole falle che la levigatura non riusciva totalmente ad
eliminare, la vernice si concentrava in questi punti con maggior spessore, assumendo ancor
oggi un vivo color rubino, anche se l’intero strumento è arancione. Nessuna resina colorante
potrebbe dare una tale intensità.
Partendo da queste constatazioni e conoscendo i principali prodotti coloranti che
potevano essere in uso a quell’epoca, procedetti per esclusione, fissando l’attenzione sul-
l’unico suscettibile di comportarsi in quel modo e di dare quei risultati. Un tale colorante però
non si trova allo stato naturale già pronto per l’uso, ma si ottiene praticando ad un prodotto
vegetale un certo trattamento; ossia va sviluppato ed ottenuto mediante una preparazione
chimica. L’analisi, accertando la presenza di certi metalli, mi ha confermato l’ipotesi ed il
trattamento per lo sviluppo ed il fissaggio.
Si è per lo più parlato del cosiddetto sangue di drago, pigmento vegetale, che proviene
dalla Malesia e dalle isole della Sonda, ma è da escludersi. Non ha pari intensità e brillantezza
di colore, per ottenere le quali se ne dovrebbe mettere nella vernice una tale quantità da
distruggerne la trasparenza, nonché la struttura, che, per effetto della natura resinosa del
pigmento, diverrebbe vetrosa; anche con questo non si raggiungerebbe mai l’intensità
ottenuta con piccolissime quantità della sostanza realmente usata.

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SIMONE F. SACCONI

Il sangue di drago inoltre non è indelebile, ma il suo rosso sbiadisce col tempo. É solubile in
alcool, tanto che lascia tracce di colore se strofinato con un panno imbevuto d’alcool; cosa che
non avviene col pigmento usato da Stradivari. Essendo questo poi già pronto allo stato
naturale, senza necessità di trattamento, se Stradivari avesse usato sangue di drago nella sua
vernice non si dovrebbero trovare all’esame spettrografico quantità così rilevanti dei metalli
di fissaggio.
In qualche strumento dei figli appare il cinabro, che si trova già in natura senza doversi
ricorrere a fissaggio. Esso però è facilmente riconoscibile, perché toglie trasparenza e vivacità
alla vernice. Anche in alcuni strumenti di Guarneri del Gesù è stato usato un altro colorante, e
precisamente il rosso di Venezia, ma la vernice appare in superficie come leggermente velata.
Nel fissaggio del pigmento usato da Stradivari si poteva ottenere un rosso rubino o un
arancione caldo a seconda del metallo usato. Da qui la gamma notevole di questi due colori.
Nel primo periodo ha usato anche vernice senza colorante e gli strumenti si presentano di un
colore ambra dorato, tipico degli Amati, dovuto all’ambrato della composizione della vernice e
al cannella dorato dell’ossidazione del legno, prodotta a sua volta dalla preparazione. In altri
strumenti attorno al 1715 sfuma al rosa, perché probabilmente Stradivari nella composizione
della vernice mise meno propoli e più trementina cotta, dal colore solo leggermente
paglierino, per cui il rosso è risultato meno corretto dal bruno giallo dorato della propoli. Da
qui la tonalità rosa garofano che sfuma verso il carminio.
Questo colorante è pertanto il cosiddetto rosso di robbia o lacca di robbia (rubia
tinctorum), già noto ed adoperato fin dall’antichità classica. Esso era ottenuto estraendo dalla
radice di robbia l’alizarina, che messa in ambiente alcalino (generalmente potassa fortificata
con acqua di calce), si colora di un vivissimo rosso rubino. Per la sua preparazione, s’iniziava
col far macerare in aceto per 24 ore la radice di robbia tritata e pestata, per liberarla dalle
materie gommose e dal glucosio; decantata e lavata con acqua fredda, per eliminare ogni
residuo anche di aceto, veniva essiccata e trattata in alcool a bagnomaria, per l’estrazione
dell’alizarina, che costituisce la materia colorante. Il prodotto andava filtrato con straccio e
fatto molto concentrare, a 1/5 circa, per evaporazione sempre a bagnomaria; quindi vi si
aggiungeva la miscela alcalina per provocare la colorazione. Il fissaggio avveniva
successivamente con l’immissione di un metallo, continuando la cottura fino a solidificazione,
per potersi poi ridurre in polvere. Tutte queste operazioni di preparazione del colore
andavano eseguite in recipienti di vetro o di terracotta smaltata, mai di metallo, specie ferro,
per evitare l’introduzione di altri metalli che avrebbero dato colorazioni diverse.
Altro procedimento di sviluppo, pure molto buono, consisteva nel far macerare in acqua
la radice ridotta in polvere, liberandola con lavaggio dalle gomme e zucchero e
nell’aggiungervi poi una soluzione di solfato di alluminio (allume di rocca), subito seguito
dalla miscela alcalina. Se il metallo di fissaggio era alluminio (allora usato sotto forma

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VERNICIATURA

di allume di rocca o di bauxite), il colore restava fissato in un rosso rubino brillantissimo; se


stagno, si trasformava e fissava in un bell’arancione caldo, che col tempo aumentava di
intensità.
Ancora, si poteva preparare il colore contemporaneamente alla vernice. In tal caso
quando si scioglieva propoli e resina di trementina nell’alcool vi si aggiungeva anche la radice
di robbia ridotta in polvere; amalgamato il tutto a bassa temperatura, si filtrava e concentrava
a fuoco. A questo punto si aggiungeva l’allume di rocca e la potassa, facendo ricuocere un
poco. Per eliminare il più possibile i residui di allume e di potassa, veniva aggiunta acqua in
ragione di tre volte circa il volume della vernice; lasciato sedimentare, l’acqua andava versata
via. Il lavaggio poteva essere ripetuto un paio di volte. Con questo procedimento la vernice
risultava di un bell’arancione caldo, come se il fissaggio del colore fosse avvenuto con stagno,
anziché alluminio. Volendo un colore più intenso e rosso, bastava aggiungervi un po’ di lacca
di robbia, ottenuta con fissaggio autonomo.
Sovente, anche ad occhio nudo, si notano piccolissimi grumi di vernice di eccezionale
intensità colorante. Ciò perché a volte usava preparare il rosso di robbia anche in quest’altro
modo: nella trementina cotta, o in sua vece in pece greca (colofonia), immetteva alizarina,
potassa e solfato di alluminio o cloruro di stagno (rosso o arancione). In tal caso otteneva una
resina contenente minutissime particelle di lacca di robbia, anziché bacca pura. Questa resina
a sua volta Stradivari la usava per colorare la vernice, incorporandola con spatola come
facevano i pittori per preparare i colori a olio. Poteva accadere che particelle di resina
colorata, così preparata, sfuggissero all’amalgama, dando luogo a quei piccoli grumi di colore
intensissimo sopra accennati. Infatti questi grumi o particelle non hanno mai contorni netti
come quelli della lacca pura, bensì risultano sempre sfumati.
Alcuni strumenti poi presentano una tonalità più giallastra o aranciato-dorata. È da
presumersi che, per rammorbidire il rosso e renderlo meno crudo, Stradivari aggiungesse a
volte, unitamente alla radice di robbia ridotta in polvere, anche polvere di radice di curcuma,
che aiutava, insieme alla propoli, detta tonalità. Nella micrografia molto ingrandita di una
scheggia di vernice fatta con robbia e curcuma, insieme ai puntini scarlatti della robbia, si
osservano anche piccolissimi grumi di colore giallastro disseminati quasi geometricamente.
La curcuma conferisce alla vernice notevole vivacità e sotto i raggi della lampada di Wood
esalta quel colore di fluorescenza salmone chiaro farinoso o polveroso, caratteristico delle
vernici cremonesi.
L’analisi chimica ha accertato, quando era usato alluminio, una notevole quantità di
questo metallo e tracce di altri metalli contenuti come impurità nell’allume di rocca o nella
bauxite; se invece era stato immesso lo stagno, notevoli quantità di questo. Sono inoltre
sempre presenti tutte le componenti della miscela alcalina. Oggi la lacca di robbia si trova
comunemente in commercio già pronta, ma, essendo ottenuta sinteticamente, il colore risulta
crudo, per cui è consigliabile prepararsela al modo antico.

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SIMONE F. SACCONI

Il colore, allo stato di polvere, veniva amalgamato con la vernice a consistenza pastosa
sopra una lastra di porfido mediante una spatola di legno o di osso, e il prodotto, per poter
essere usato agevolmente per la verniciatura, veniva diluito all’inizio con un po’ di olio di
spigo e quindi di trementina. Qualche volta deve essere stato usato

Fig. 146 Microfotografia di una scheggia di vernice di Stradivari.

A. Stradivari: Violino Berthier ex von Vecsey del 1715. Ing. Paolo Peterlongo, Milano.

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VERNICIATURA

colore non totalmente fissato, per cui è rimasta una parte di alizarina, che può ancor oggi
reagire se messa a contatto con un sale metallico in ambiente alcalino. Ciò mi è capitato
durante la riparazione di uno strumento. Avendo dovuto provvisoriamente incollare sulla
tavola armonica il lembo di un foglio di carta copiativa per il rilievo di una controparte,
all’atto della sua rimozione, dovetti constatare che, dove s’era verificato il contatto, la vernice
aveva assunto una intensa colorazione rossa, probabilmente dovuta alla presenza di sali di
alluminio nella carta o nella colla.
Questo sistema di colorazione non fu introdotto in liuteria da Stradivari, bensì risulta in
uso già da tempo; soltanto prima di lui si metteva nella vernice meno colorante. Guarneri del
Gesù verso l’ultimo periodo ne aumentò ulteriormente la dose. Come violento e capriccioso
era il suo lavoro, così componendo le sue vernici eccedeva nella dosatura del colore, mentre
Stradivari ci appare sempre costante nel metodo. Non va dimenticato inoltre che, trovandoci
in presenza di fissanti metallici, come pure di recipienti di manipolazione e cottura o spatole a
volte di metallo, questi colori erano suscettibili di reazioni chimiche secondarie, che li
potevano modificare profondamente. Ad esempio l’ossido di ferro eventualmente presente
nella propoli o prodottosi nei recipienti di cottura in ferro provocava un imbrunimento più o
meno pronunciato a seconda della sua quantità. Da qui, oltre che dal dosaggio del colorante e
dal metallo usato per il suo fissaggio, la grande varietà di tonalità, che in ogni caso non risulta
mai cruda, ma sempre di una eccezionale calda morbidezza.
Se però il colore fosse venuto a diretto contatto con la preparazione data al legno si
sarebbe verificata una sua alterazione. A ciò si ovviava dando allo strumento sopra alla
preparazione del legno e prima di procedere alla vera e propria verniciatura, un composto
isolante. L’analisi chimica ha rivelato anche la presenza di albumina e zucchero che non
entrano nella composizione della vernice colorata sopra descritta. Evidentemente questi
ingredienti non possono che far parte della sostanza isolante. Anche questo risulta accertato
ove si osservino sugli strumenti i margini delle zone di vernice logorata. Al centro della
logoratura, dove questa è più marcata, appare sempre la preparazione di fondo del legno
coperta da una sottilissima e molto aderente pellicola lucida ed ai margini di questa
logoratura una specie di alone costituito dalla sedimentazione delle resine (propoli - cera) e
dell’olio di trementina, che, durante il processo di essiccamento, sotto l’azione del calore
tendono a precipitare, lasciando in superficie la lacca di robbia. Due Stradivari del periodo
migliore hanno un colore bruno scuro dovuto probabilmente ad ossidazione, o perché è stato
omesso l’isolamento, oppure è stato dato in misura insufficiente. Anche in strumenti dal
colore normale, nei punti dove il legno di acero è di testa, resi ruvidi dalla rasiera e per questo
non totalmente isolati, l’intero tratto non liscio si presenta molto scuro come se vi avessero
passato dell’inchiostro. Ciò accadeva più frequentemente a Vincenzo Ruggeri, che ha
strumenti sui quali l’ossidazione s’è prodotta con tale intensità da passare anche la
preparazione e coinvolgere il sottostante legno.

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 147 A. Stradivari: viola contralto « Mac Donald » del 1701.

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VERNICIATURA

Sulla scorta dell’esame visivo, delle risultanze delle analisi chimiche e della pratica degli
antichi lavoranti del legno, ritengo che questa sostanza di isolamento si componesse di:
albume o chiara d’uovo, gomma arabica o di ciliegio sciolta in acqua, un po’ di miele per
assicurarne l’elasticità e zucchero candito. Lo zucchero per le sue proprietà riducenti si può
ritenere che si presti bene a proteggere lo strato di vernice dalla preparazione sottostante,
perché neutralizza le eventuali sostanze ossidanti presenti in quest’ultima.
A basso calore si scioglievano in acqua gr. 25 di gomma arabica o di ciliegio, mezzo
cucchiaio di miele e un quarto di cucchiaio di zucchero candito o cristallino. Filtrato e raf-
freddato, vi si aggiungeva ciò che deposita la chiara frullata di un uovo.
La consistenza di questo composto doveva essere piuttosto bassa, per evitare il formarsi di
una pellicola troppo spessa, che avrebbe potuto influire sul suono, smorzandone la
brillantezza. All’atto della sua applicazione anch’esso doveva essere di fresca preparazione,
altrimenti avrebbe perso il necessario potere adesivo.
Una volta essiccato il composto collante di isolamento assume una notevole durezza e
trasparenza, direi quasi che diventa cristallino, per la presenza dello zucchero e dell’albumina,
per cui qualche volta è stato usato come preparazione anche esterna del legno in luogo del
silicato di potassio, che è stato omesso. Gli antichi lo chiamavano vernice bianca.
Era pure in uso per la conservazione di manoscritti cartacei, trattarli con una soluzione
di seta liquida, ricavata dai vasi setosi dei bozzoli. Nella già citata raccolta di Francesco
Agricola degli scritti di precedenti autori sui trattamenti delle vernici, si legge: « si aprano
parecchi bachi da seta, si traggano prontamente dal loro corpo i vasi setosi, e si gettino subito
nell’acqua calda, affinché non si secchino, e si schiaccino questi vasi per spremerne il liquore e
fare che si dilati nell’acqua stessa; la detta sostanza setosa vi rimarrà liquida. Dopo una
sufficiente evaporazione dell’acqua, ed aver ammassato con tal mezzo una piccola quantità di
esso liquore, si dia sopra una carta stampata; resta questa inverniciata con una coperta
giallastra, ma trasparente per si fatto modo, che non nasconde i caratteri al pari del vetro più
fino, e che l’acqua non può alterare. Sarebbe questo un segreto per difendere le carte di
importanza contro l’umidità, la muffa, e le tignole, che corrodono, giacché non si conoscono
insetti, che divorino la seta ». Non è escluso che di questa esperienza si avvalessero anche i
liutai, per la composizione della sostanza isolante, da interporre tra la preparazione del legno
e la vernice colorata. Si ricordi con che semplicità di mezzi lavorassero e come sapessero
sapientemente far uso di tutto ciò che la natura offriva loro.
Stradivari inoltre, per assicurare ulteriormente l’isolamento del colore dalla prepa-
razione, usava dare allo strumento una prima mano di vernice senza pigmento colorante,
aggiungendo quest’ultimo a quella per le passate successive. Infatti le particelle di lacca di
robbia si osservano sempre in superficie, vuoi per la sedimentazione della cera e della resina
durante il processo di distensione della vernice sotto il calore del sole, ma anche

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SIMONE F. SACCONI

per il distacco del colore dal fondo dovuto alla prima mano di vernice non colorata. Non si
dimentichi che la passata successiva andava data dopo l’asciugamento della precedente, che
non doveva mai reimpastarsi.
Preparazione del legno e vernice bianca di isolamento potevano essere date anche a
pennello, ma più generalmente è da supporsi che lo fossero con tampone di pezza o con
spugna, perché in questo modo si ottiene un miglior risultato, stante la bassa viscosità delle
due sostanze. La vernice colorata invece veniva certamente stesa a pennello, data l’omogenei-
tà e plasticità della stesura e considerando la lentezza di essiccamento tra una mano e l’altra.
La presenza di peli di pennello ricoperti da vernice colorata potrebbe indurre a ritenere il
contrario (con pennello le prime due e con tampone la terza), ma questo lo si deve pre-
sumibilmente alle successive passate e più ancora alla levigatura e lucidatura finali che, in
certa qual misura, riamalgamavano la vernice, avviluppando i peli. Il pennello usato, per la
sua forma, era detto a coda di merluzzo, ed era fatto con peli di bue, assai morbido alle punte
perché non tagliate, e sufficientemente rigido per assicurare una omogenea spalmatura e
produrre quelle belle sfumature sul piano armonico nel tratto sotto i bordi della tastiera.
L’interno della cassetta dei piroli non risulta mai verniciato, perché non lo si riteneva
necessario e probabilmente per non rovinare le punte del pennello, come pure non è mai
verniciato il piano armonico sotto la tastiera. Eventuali successive mani, mai più di una o due,
venivano date allo stesso modo e solo quando la precedente fosse bene essiccata, per evitare
che si rimuovesse. Per questo Stradivari non ha mai usato altri olii essenziali o alcool nella
diluizione o emulsione, perché a differenza dell’olio di trementina, avrebbe ridisciolto la
vernice applicata con la passata precedente.
Osservando l’intera produzione stradivariana, desta meraviglia l’infinita varietà in cui ci
appaiono le sue vernici, pur avendo esse sempre le stesse proprietà e caratteristiche. Si può
dire che nessun strumento si presenta uguale all’altro: tonalità di colore, consistenza della
pasta, suo spessore che a volte si riduce addirittura ad un velo.
Da tutto quanto è stato accertato e descritto riguardo la preparazione del legno, il
composto collante di isolamento, la vernice vera e propria, la sua colorazione, risulta come
l’intero procedimento di verniciatura non fosse costituito da una segreta ricetta fissa ed
immutabile, da seguirsi pedissequamente nelle componenti e nelle dosi, rigidamente
osservata nella preparazione e nell’applicazione, bensì consistesse in un sistema e in una
esperienza secolari, di volta in volta tradotti in pratica con duttilità e cognizione. In parallelo,
è la stessa unità di concezione e molteplicità di soluzioni, che abbiamo riscontrato nella
tecnica costruttiva degli strumenti di Stradivari.
Per coloro che fossero interessati alla composizione della vernice colorata, sulla base della mia
esperienza e dei risultati conseguiti, suggerisco i seguenti metodi pratici di preparazione:
propoli in pezzi ben scelti ed asciutti, gr 30; trementina di larice cotta alla calce o sandracca
in polvere, gr 20; radice di robbia in polvere, gr 15; radice di curcuma in polvere, gr 8-10;
alcool etilico fino a 95°, cc. 100.

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VERNICIATURA

Fig. 148 A. Stradivari: viola contralto « Paganini » del 1731.

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SIMONE F. SACCONI

Mettere il tutto in un bicchiere da chimica e cuocere a fuoco lentissimo (che frema


soltanto) finché le resine siano sciolte (dieci minuti circa). Aggiungere a questo punto cc. 30
di soluzione di allume di rocca al 15% e continuare a cuocere per altri dieci minuti,
rimestando con stecca di legno. Ancora bollente, filtrare con pezza di cotone o di lino. La
residua poltiglia va rimessa a fuoco con altri 25 cc. di alcool per essere a sua volta rifiltrata.
Fatto evaporare a fuoco lento tutto l’alcool si riduce la vernice a consistenza di pasta molle.
Può avvenire che nel raffreddamento emergano in superficie residui acquosi; questi vanno
versati via. Per poter esser facilmente stesa a pennello va ridisciolta con un po’ d’olio di spigo
e diluita con olio di trementina. Meglio se questa operazione vien fatta mettendo la vernice su
una lastra di porfido o di vetro, aggiungendo gli olii poco per volta ed amalgamando con
spatola di osso o di legno. Alla diluizione si provveda sempre appena prima dell’applicazione
sullo strumento, altrimenti la vernice si disunisce.
Dopo ogni mano di vernice, mai più di due o tre a seconda del risultato che si vuole
ottenere, lo strumento va esposto a un forte sole finché la vernice, per la sua capacità di
espansione, rammorbidendosi si sia distesa uniformemente e siano scomparse le striature del
pennello. Quindi va lasciato asciugare all’ombra in luogo ventilato. Questo per ogni passata di
vernice. Tali operazioni possono richiedere per ciascuna più di una settimana e anche a
procedimento ultimato lo strumento va maneggiato con molta cautela in quanto solo dopo
anni la vernice perviene a maturazione completa.
La prima mano è bene sia data con vernice senza colore, da ottenersi con lo stesso
procedimento, ma omettendo la radice di robbia e la curcuma. Per le successive mani
colorate, qualora non si voglia seguire la presente composizione, ma si preferisca preparare
vernice e colore separatamente, se si usa lacca di robbia pura si mantiene la dose di gr. 20 di
trementina o sandracca, se invece si usa lacca di robbia in colofonia la dose va ridotta a 10 gr.
In luogo della trementina di larice si può impiegare la resina di sandracca, in uso già
anticamente. Si estraeva dalla thuja articulata, piccola conifera originaria dell’Africa Set-
tentrionale, che cresce pure sulle rive del Tirreno.
All’olio di trementina si può unire anche un po’ di olio di lino crudo, che però ritarda
l’essiccamento e rende la vernice più spessa, mentre quelle antiche sono sempre molto sottili,
anche le più colorate. Per renderlo comunque più essiccativo è sufficiente, prima dell’impiego,
esporlo all’aria o al sole in una bacinella, mescolando spesso con una stecca di legno; diventa
in tal modo più denso e mantiene la sua limpidezza.
Nella scelta della propoli si faccia avvertenza di evitare la presenza di miele, che
renderebbe la vernice un unguento, impedendo totalmente l’essiccamento.
Dagli ingredienti per comporre la vernice è stata omessa la sostanza alcalina, perché già
presente in quantità sufficiente per un moderato sviluppo del colore nella propoli allo stato
naturale, e nella resina di trementina per la sua cottura alla calce.

182
VERNICIATURA

La vernice così preparata risulta di un bell’arancione caldo; se la si preferisce più rossa


si aggiunga durante la diluizione un po’ di lacca di robbia in polvere emulsionata con una
goccia d’acqua; se la si vuole imbrunire basta adoperare, amalgamando, una spatola di ferro.
Altra preparazione: propoli in pezzi ben scelti ed asciutti, gr. 30 con aggiunta di gr 2 di
cera vergine; trementina di larice cotta alla calce o sandracca in polvere, gr 10; olio di
spigo, cc. 10; alcool etilico fino a 95° cc. 80. Questa vernice senza la presenza del pigmento
colorante serve per la prima passata sullo strumento. Sciolto il tutto a fuoco lento, filtrare
prima che si raffreddi, strizzando alla fine moderatamente. Dopo il raffreddamento la vernice
deve risultare di consistenza gelatinosa e già pronta per essere stesa a pennello. Per le
successive mani colorate, addizionarvi lacca di robbia ottenuta autonomamente coi
procedimenti già descritti. All’atto della stesura appariranno sullo strumento marcate
striature, che scompariranno però con l’esposizione al sole o al calore.
A verniciatura ultimata e ben essiccata, questa appariva opaca ed in superficie legger-
mente ruvida. Si doveva pertanto procedere ad una sua levigatura e lucidatura. La levigatura
si faceva strofinando leggermente e lentamente, per non scaldare la vernice e farla rinvenire,
con un tampone intriso di olio d’oliva e intinto in polvere della parte soffice dell’osso di
seppia. Si usava olio di oliva perché non è un solvente e non essicca. Dell’olio d’oliva e della
polvere d’osso di seppia troviamo ripetuta menzione nelle descrizioni dei procedimenti in uso
in antico per la levigatura di superfici verniciate. La conferma che detta pratica fosse in uso
anche presso i liutai cremonesi, si ha analizzando il deposito rimasto in piccole falle
prodottesi durante la lavorazione del legno. Particolarmente evidente in una piuttosto
profonda da me rinvenuta sulla fascia di un violino di Guarneri del Gesù del 1744, non
maneggiato da liutai poco scrupolosi ed assolutamente intatto, che ha trattenuto una buona
quantità di questo impasto. Con questa levigatura venivano altresì parzialmente spianati (non
potendosi insistere troppo a causa dell’estrema fragilità della vernice) i piccoli grumi
eventualmente formatisi nella spalmatura. Lo strumento andava quindi asciugato e pulito con
uno straccio morbido, che togliesse ogni traccia dell’impasto grasso della levigatura,
specialmente la polvere di osso di seppia. Per ravvivare la vernice si ripassava con tampone
morbido pulito imbevuto con olio di oliva o di noce. In seguito, sempre con lo stesso tampone
umettato questa volta con alcool etilico, si strofinava bene ogni parte della superficie
verniciata dello strumento con leggerezza e sveltezza di movimenti. Era questa l’operazione
più critica e particolare attenzione andava fatta per evitare che l’alcool intaccasse troppo
violentemente la vernice; per questo, umettato il tampone, occorreva lasciar volatilizzare per
un istante l’alcool; accelerare i movimenti all’inizio per poi rallentarli gradatamente in
conformità della perdita di forza dell’alcool.
La verniciatura era terminata e l’intero complesso procedimento risulta pertanto
costituito da quattro diverse e separate operazioni:

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 149 A. Stradivari: violino « Il Cremonese 1715 » ex Joachim, Hill, Wurlitzer. Cremona,
Palazzo Comunale.

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VERNICIATURA

- prima, imbevitura del legno, mediante tampone o spugna, con silicato di potassio e di
calcio (preparazione per l’indurimento e l’impermeabilizzazione del legno);
- seconda, stesura sulla preparazione, sempre a tampone, di uno strato di composto
collante (isolamento per evitare soverchie ossidazioni della successiva vernice);
- terza, applicazione a pennello della vernice senza e con addizione di colorante
(verniciatura vera e propria);
- quarta, levigatura, pulitura e lucidatura della vernice.

Indipendentemente dalla relazione tra resa sonora degli strumenti e qualità delle ver-
nici impiegate, che aveva generato le contrapposte correnti degli affermatori e dei negatori,
senza che per altro nessuno sia giunto a serie conclusioni, vari ricercatori si sono dedicati
all’indagine analitica delle possibili componenti di queste vernici. Vanno ricordati, tra gli altri,
A. Tolbeque, che esamina il lavoro di M. Mailand; George Fry; W. M. Fulton col suo opuscolo
Propolis violin varnish del 1968. Egli era in contatto con Louis M. Condax della Eastman
Kodak di Rochester, nei cui laboratori venivano eseguite le analisi. Altro contributo è stato
dato da Joseph Michelman col suo libro Violin varnish. Tanto a Michelman quanto a Condax
io fornivo per le analisi schegge di vernici dei più bei colori e frammenti di legno verniciato,
provenienti, a seguito di riparazioni, da strumenti di Stradivari, dei Guarneri, di Montagnana
e di altri.
Senza nulla detrarre alla serietà del loro lavoro, va però precisato che l’accertamento
qualitativo e quantitativo degli elementi presenti e risultanti dalle analisi, non indica di per se
stesso le materie prime impiegate per la composizione delle vernici. Ed anche quando dai
singoli elementi si risale all’individuazione di alcune di queste materie, si è compiuto solo un
passo, non l’intero percorso. Ad esempio da alcuni si usa da tempo la propoli, ma non nel
giusto modo. Per giungere a riprodurre le vernici cremonesi con le loro specifiche proprietà,
occorre ricostituire l’intero sistema dei processi di verniciatura nella successione delle sue fasi
a ciascuna delle quali corrisponde l’impiego di un diverso prodotto con sua specifica
composizione, tecnica di preparazione e modo d’applicazione.
A questo ritengo d’essere giunto, avendo già da tempo rifatte ed usate queste vernici,
mentre dai risultati delle analisi ricevono conferma scientifica le mie conclusioni.
Ora si affaccia la domanda sul quando e sul perché sia stato applicato agli strumenti
musicali questo procedimento di verniciatura, che, nella sua parte sostanziale, altro non è se
non il vecchio sistema di lucidatura del legno. Esso risulta in uso a Cremona fin dal tempo di
Andrea Amati, ma probabilmente venne applicato alla liuteria in Venezia agli albori del ‘500
ad opera di Leonardo da Martinengo, ritenuto maestro di Andrea. Esso verrà poi praticato in
quella città, come a Cremona, da tutti i maestri liutai del periodo classico. Solo nella sostanza
colorante impiegata si avranno varianti, usando i veneti qualche volta il colore dei cremonesi,
ma prevalentemente il cosiddetto rosso veneziano o lacca di Venezia a base di legno di
pernambuco e cocciniglia. Una va-

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SIMONE F. SACCONI

riante di qualità più ordinaria veniva fatta con solo legno di pernambuco, noto anche col
nome di verzino. Questo rosso veneziano più ordinario era detto falso carminio ed era
soggetto col tempo a scolorire, lasciando le vernici di un colore bruno giallastro d’apparenza
leggermente sporca. A Cremona fu usato da Guarneri del Gesù sui suoi primi strumenti e dai
figli di Carlo Bergonzi. Appare anche su strumenti di G. B. Guadagnini, fatti nell’anno di
residenza a Cremona (1758) e subito dopo nel decennio di permanenza a Parma. A quell’epoca
si estraeva il colore rosso anche da altri vegetali (petali di fiori, frutti, bacche, ecc.), che però
risultava sempre molto fugace.
Essendo gli strumenti musicali ad arco costruiti in legno, è da supporsi si sia all’origine
semplicemente pensato di verniciarli come gli intarsiatori verniciavano le loro tarsie. Il
procedimento risulta pertanto assai antico e non d’invenzione dei liutai. Recenti esami delle
tarsie di un armadio conservato nel Museo Civico di Cremona e di quelle del Coro della
Cattedrale di questa città, entrambi opera di G. M. Platina tra il 1477 ed il 1490, mi hanno
rivelato la stessa composizione della preparazione del legno e della vernice; solo che questa
non contiene colorante, per non alterare la cromia dei legni impiegati. La preparazione aveva
la funzione di isolare il legno dalla vernice vera e propria, perché non l’assorbisse e
conservasse la massima freschezza e limpidezza. Inoltre la doratura che acquistava per
ossidazione, esaltava la policromia dei legni della composizione. Infine questo sistema di
verniciatura conferiva all’intera tarsia un lucido morbido e profondo. Rividi le stesse
trasparenze, le seriche cangiabilità e i dorati riflessi che erano propri degli strumenti degli
Amati, quando questi usavano vernice senza addizione di colore.
Dopo Guarneri del Gesù la qualità di questa vernice si impoverisce fino a scomparire nella
seconda metà del ‘700. Con la sua scomparsa cessa anche la preparazione del legno, cosicché
è tutto il sistema che viene abbandonato per le nuove tecniche totalmente differenti, che
entrano in uso.
In Stradivari raggiunse il vertice della bellezza, non per varianti sostanziali nelle
composizioni, ma perché sapeva preparare ed applicare queste vernici con superiore
maestria. Solo nell’ultimo periodo esse appaiono un po’ torbide ed applicate con incertezza,
probabilmente a causa della tarda età, giacché questo lavoro lo ha sempre curato
personalmente.
Circa le ripercussioni di queste vernici sulla resa sonora degli strumenti e sulla qualità
del suono, già s’è detto della grande importanza di quella di preparazione del legno. Della
vernice vera e propria, con o senza colorante, basterà notare che, proprio in quello che in
seguito sarà ritenuto un suo difetto e costituirà la ragione prima del suo abbandono, consiste
il suo più grande pregio. Essendo fragile, friabile, porosa, non soffoca lo strumento e consente
a tutti i delicati equilibri della cassa armonica il massimo di espressione. Le nuove tecniche,
abbandonando la preparazione del legno, distruggeranno la possibilità di ricreare quelle
casse, con quei rapporti e con quegli spessori; introducendo vernici dure e compatte,
soffocheranno il respiro dello strumento. Conosco un bellissimo violino di Stradivari del
periodo migliore, che a seguito di totale riverniciatura con com-

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VERNICIATURA

posizione moderna, è divenuto irriconoscibile, sia nel suono, come nelle caratteristiche
estetiche.
Forse neppure gli stessi liutai classici che le usarono erano pienamente consci
dell’influenza che queste vernici, e più ancora l’inossamento del legno, avevano sul suono
degli strumenti. All’origine avevano acquisito il procedimento dagli intarsiatori unicamente
perché i loro strumenti erano di legno; i risultati si erano dimostrati ottimi ed il sistema era
divenuto tradizionale e di uso comune. Constatando con quanta esattezza Stradivari sapesse
valutare i rapporti intercorrenti tra le varie componenti della cassa armonica, è pensabile che
egli partisse per i suoi calcoli dall’accettazione della preparazione del legno come un dato di
fatto necessario più che applicarla per ottenere quella determinata qualità di suono. Il legno
andava isolato dagli agenti atmosferici; indurito perché lo strumento avesse maggior durata;
impermeabilizzato perché la verniciatura risultasse limpida e trasparente. Erano le stesse
valutazioni degli intarsiatori e degli artigiani del legno, che quel procedimento avevano
creato. Con questo però il legno veniva ad acquistare certe proprietà di cui Stradivari sapeva
tenere ben conto nella determinazione degli equilibri delle sue casse armoniche. In questo si
differenzia dagli altri liutai e non per una sua particolare ed esclusiva vernice.
Ma anche quel vigore, che gli effetti della preparazione del legno, sapientemente
combinati con i rapporti dello strumento, conferivano alle sue creazioni, non era pienamente
apprezzato, se dobbiamo credere all’opinione riferita dal conte Cozio di Salabue di un maggior
favore incontrato dagli strumenti degli Amati, perché di suono meno esuberante. Ancor meno
venivano comunemente apprezzati quelli di Guarneri del Gesù, che, sempre in base alle
notizie del Salabue, sarebbero addirittura stati considerati strumenti di terz’ordine, per la
voce troppo robusta ed aggressiva. Se tutto ciò rispondesse a verità, dovremmo concludere
che Stradivari, sommando alla dolcezza degli Amati la prepotenza dei Guarneri, precorreva di
un secolo il gusto musicale.
Se ora consideriamo la probabile minore sensibilità musicale dei liutai che lo seguirono;
l’ignoranza da parte loro della reale portata dell’influenza di queste vernici sul suono; le
origini del procedimento; la fragilità delle stesse vista come grave difetto, possiamo renderci
conto del perché della loro scomparsa. Per il gusto medio, in rapporto al carattere della
musica del ‘700, gli strumenti ad arco classici avevano troppa esuberanza. L’abbandono della
preparazione del legno, e casse armoniche meno scientificamente studiate, attutivano il suono
degli strumenti, smorzandone il vigore. Questo risultato, anche se non consapevolmente
ottenuto, con molta probabilità deve essere stato considerato da molti un progresso, come
pure il superamento di una tecnica di lucidatura da mobilieri, mediante l’introduzione di vere
vernici resistenti. L’ignoranza e il disprezzo, che certamente stanno all’origine di questa
svolta, possono essere colti nell’affermazione di Cozio di Salabue, che certamente riflette un
giudizio generale più che suo, di fronte a due vio-

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SIMONE F. SACCONI

lini uno di Stradivari e l’altro di Guarneri del Gesù, e nella quale, pur ammirando gli
strumenti, ne lamenta come grave difetto la fragilità della vernice. Uguale giudizio negativo
darà più tardi anche il Villaume.
Come spiegare poi il fatto che il Salabue, così diligente e quasi fanatico nel raccogliere
tutto di Stradivari: strumenti, forme, disegni, modelli e schizzi, attrezzi da lavoro, materiale
vario di bottega, perfino un frammento dell’insegna della medesima, non abbia riportato nel
suo carteggio il vero sistema di verniciatura usato da Stradivari? Se ne è effettivamente
interessato a fondo e non è riuscito a rintracciarlo? Oppure, ritenendolo di scarsa importanza,
si è limitato a raccogliere senza troppo entusiasmo false ricette, spacciate per autentiche?
Quando a distanza di tempo si avvertirà pienamente l’importanza delle vernici cre-
monesi ai fini della qualità del suono, sarà troppo tardi, perché nessuno non ne conserverà
più neppure il ricordo, e dopo tante vane ipotesi, nascerà il mito « dell’inconoscibile segreto di
Stradivari ».
Tutto quanto sono venuto esponendo sulle qualità, proprietà e composizioni delle
vernici cremonesi e sull’intero sistema costruttivo stradivariano, trova conclusiva conferma
nella pratica sperimentazione che ho effettuato dopo le osservazioni, le analisi, gli
accertamenti e le conclusioni teoriche. A titolo d’esempio citerò, tra i molti strumenti da me
costruiti con la tecnica stradivariana, il violino che ho fatto con la forma G. Perché potesse
rappresentare una prova convincente dell’esattezza di quanto sono giunto ad appurare in
sessant’anni di appassionate ricerche sull’intero procedimento costruttivo di Stradivari,
sempre col suo metodo, vi ho riprodotto l’intarsio che orna l’Hellier del 1679, applicato il
manico corto con curva sfuggente all’arresto del pollice, eseguito tastiera e cordiera con
esempi d’ornato tratti dagli strumenti medicei, ed infine verniciato col procedimento
descritto.
Il diaframma che era sorto tra pratica antica e tecnica, diciamo, moderna, ritengo sia
caduto, per cui tanta preziosa esperienza secolare, che sembrava essere andata irri-
mediabilmente perduta, torna ad acquisirsi per quanti con intelligenza e passione intendono
progredire, senza soluzione di continuità, nell’arte costruttiva dei più nobili tra gli strumenti
musicali.
Questo e non altro mi ha indotto a rendere pubblico il frutto del mio lavoro.
Considerando poi quanto si è venuto illustrando circa l’intero procedimento costruttivo
degli strumenti musicali ad arco, emerge come l’arte liutaria non consistesse in qualche cosa
di misterioso ed avulso dal contesto delle creazioni dello spirito umano, bensì fosse partecipe
del patrimonio culturale ed artistico che secoli di conquiste avevano costituito, e come sapesse
avvalersi delle cognizioni ed esperienze che nei vari campi si erano venute acquisendo. Per
quanto poteva attenersi alla liuteria, confluirono in essa le cognizioni matematiche del
Rinascimento e le esperienze tecniche della vetreria, della tarsia lignea e della miniatura. Il
riallacciare questi rapporti, significa finalmente

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VERNICIATURA

superare l’angusta visione di un artigianato misterioso e mitizzato, e risalire ad una attività


creativa, partecipe del più vasto mondo dell’arte.
Data infine l’elementarità degli ingredienti adoperati, che si reperivano tutti in loco con
la massima facilità, viene a cadere un’altra delle tante leggende fonte attorno al mito
Stradivari: quella di clandestini viaggi a Venezia, per procurarsi da quei mercanti chissà quali
misteriosi ingredienti, che essi avrebbero portato per le sue vernici dai bazar delle lontane
Indie. All’arsenale di Venezia si procurava apertamente l’acero dei Balcani, perché quello
nostrano era meno rigido e meno bello.
Stradivari non fu il depositano o lo scopritore di nessun particolare segreto. L’insistere
in una visione tanto superficiale e ristretta della sua personalità e della sua opera, significa
oltre tutto distruggerne il valore e ridurlo ad un empirico, magari fortunato, praticante. Egli
fu Stradivari, perché nelle sue creazioni concorsero e si riassunsero felicemente: genialità,
conoscenze matematiche e della natura unite a profondo spirito di riflessione e di ricerca,
sensibilità di artista, eccezionale abilità tecnica, esperienza e tradizione.

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SIMONE F. SACCONI

Fig. 150 Simone F. Sacconi: violino intarsiato.

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VERNICIATURA

COLORI DI FLUORESCENZA

Sotto i raggi della lampada di Wood le varie sostanze usate nella composizione della
preparazione del legno, del composto collante di isolamento e della vernice colorata, nonché
quelle impiegate nelle operazioni di levigatura e lucidatura della vernice e nelle puliture
varie anche attuali, appaiono dei seguenti colori:

acido acetico brunastro


albumina bluastro intenso leggero
alizarina fissata arancione
allume di rocca - cloruro di alluminio- bauxite mattone
bachi da seta (umore) celeste chiaro
cera al litargirio (ossido di piombo) cannella chiaro
cera d’api bianco latte giallastro
cera di Cremona oro vecchio
curcuma giallo farinoso intenso
gomma arabica bianco blu tenue
gomma di cerasa bianco blu tenue
latte di fico in trementina mattone chiaro
miele canario lattiginoso
olio di lino bianco lattiginoso
olio di noce bianco lattiginoso
olio d’oliva arancio pallido
olio di trementina giallo chiaro verdastro
ossido di calcio rosso mattone scuro
ossido di ferro scuro
pomice mattone chiaro
propoli castagno tizianesco
sandracca giallo canario chiaro
silicato grigio scuro
trementina cotta grigio lattiginoso
zucchero candito bianco turchino

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A. Stradivari: Violino De Fontana ex Oistrakh del 1702. Ing. Paolo Peterlongo, Milano.

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