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ANALISI DEL TESTO


Fare un’analisi del testo significa creare un testo coeso e unitario che tratta gli
aspetti fondamentali di un determinato testo letterario, ovvero, i livelli in cui si
struttura ed il suo scopo è quello di comprendere il senso profondo dell’oggetto
analizzato. Tali livelli si possono esaminare singolarmente, ognuno nella propria
coerenza interna, in senso “orizzontale”, ad esempio tutte le caratteristiche del livello
metrico, oppure si possono esaminare nella loro reciproca relazione, in senso
“verticale”, ad esempio si può analizzare il rapporto fra il livello metrico e quello
semantico, stabilire se gli accenti principali o secondari di un verso si concentrano su
parole-chiave o semanticamente pregnanti, conferendo così significati aggiunti ai
termini su cui sono posti. I livelli del testo letterario sono:
1. il livello fonologico in cui si analizzano i fonemi, ovvero, per esempio, gli
accenti, le figure di suono e la quantità delle sillabe;
2. il livello metrico ritmico in cui si analizzano gli elementi metrico-ritmici,
ovvero, la suddivisione in versi e in strofe, il metro, il ritmo, le articolario
sintattico-ritmiche e gli aspetti fonici;
3. il livello morfologico, in cui si analizzano i morfemi, cioè, ad esempio, le
desinenze, i prefissi, i suffissi, le parole composte, gli articoli e i pronomi;
4. il livello lessicale, in cui si analizzano i monemi, ossia, le parole, le unità di
suono dotate di significato e dunque le aree semantiche o sfere di significato
che il loro utilizzo richiama;
5. il livello sintattico, in cui si analizza la strategia combinatoria dei monemi e
dunque in costante dinamismo dialogico con il livello lessicale, ma anche con
gli altri livelli, ad esempio quello fonologico, basta pensare all enjambement, a
causa del quale il senso sintattico del periodo non coincide con la fine del
verso, ma “sconfina” nel verso successivo, infrangendo i limiti prosodici;
6. il livello retorico;
7. il livello semantico.

Il livello fonologico
Nella poesia le potenzialità espressive dei fonemi e dei suoni delle parole singole e
delle loro concatenazioni, analizzate dal livello fonologico, sono sfruttate al massimo,
infatti, il significato tende a imitare negli effetti musicali e sonori, nel timbro e nel
ritmo gli elementi del contenuto o del significato. Rilevare i fenomeni acustici del
testo, come la presenza di vocali chiare e aperte (quali la a) oppure oscure e chiuse
(come la i o la u), di consonanti aspre e dure (come la r, la s, la t e la z) o dolci e lievi
(come la l, la m o la n) assume un senso ben preciso a patto che non resti pula
constatazione del fenomeno, ma si cerchi piuttosto di scoprire i nessi profondi tra
questo aspetto fonico-formale del testo e quello semantico del significato di cui si fa
portatore. A ribadire l’inscindibilità di forma e contenuto, essendo la forma stessa
parte del contenuto, furono i formalisti russi, ma anche i filosofi e i trattatisti antichi si
erano occupati del rapporto che esiste tra senso e suono. Platone nel Cratilo
disserta sulla vocale i, come agile e sottile, idonea a passare attraverso le cose ed
evocare l’idea di rapidità e movimento, e sulla consolante l che suggerisce l’idea
della dolcezza e della scorrevolezza. Aristotele, invece, nella Retorica, parla
dell’”armonia imitativa” e del suono, notando come, nel verso di Omero in cui Sisifo
spinge il suo masso, il suono riproduca il rumore del macigno che rotola.
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Questi concetti si ritrovano, poi, anche nel De vulgari eloquentia di Dante e in Prose
della volgar lingua di Pietro Bembo, i quali si soffermano sui colori e i timbri dei suoni
consonantici e vocalici e delle sfumature di senso e di atmosfera che essi possono
conferire al testo letterario.
Le potenzialità fonosimboliche della parola trovano la loro massima espressione e la
loro più intenzionale e marcata finalità semantica nel linguaggio poetico grazie
all’ausilio delle forme metriche, delle rime, delle assonanze, delle figure di suono e
delle allitterazioni, ma anche la prosa può tuttavia svelare, il ricorso non causale al
valore iconico e simbolico del significante di certi timbri vocalici, di particolari giochi
consonantici o di allusive concatenazioni foniche. Spesso, tra le righe della prosa, il
colore delle vocali e la sonorità consonantica sono sapientemente orchestrate
dall’autore per creare un particolare clima, un’atmosfera in cui si prepara l’epifania di
un personaggio e di un evento, oppure sono utilizzate per esaltare particolari
concetti pedagogici o morali negli aforismi o nelle sentenze.

Il livello metrico-ritmico
Il linguaggio poetico è potenziato da sovrassensi o valori aggiuntivi conferiti al
significante dagli elementi fonosimbolici, ma anche da elementi metrico ritmici
analizzati dalla metrica.
La parola italiana metrica viene dal greco mètron, che significa «misura» ed infatti
questa disciplina si occupa di misure, e più precisamente delle misure dei versi e
delle strofe. Essa può essere di due tipologie:
1. la metrica quantitativa che si forma sulla durata delle sillabe ed è la metrica
tipica della poesia classica;
2. la metrica accentuativa che si forma sugli accenti, ovvero, sull’alternanza tra
sillabe toniche (su cui cade l’accento) e atone (prive di accento) ed è la
metrica tipica della poesia lingue romanze. La metrica italiana è accentuativa;
Verso
Il verso è ciascuno dei membri in cui si articola un testo metrico definito da un
particolare disegno ritmico e alla fine del quale, di solito, si va a capo. I versi si
distinguono tra loro per il numero di sillabe da cui è composto e quelli più diffusi sono
i quinari, i settenari, gli ottonari e gli endecasillabi. Per dare una definizione più
precisa di ciascun verso, occorre far riferimento all’ultima sillaba tonica; ad esempio
l’endecasillabo è un verso la cui ultima sillaba tonica è la decima.
Possiamo trovare però anche un particolare tipo di versi chiamati versi doppi che
sono versi uguali, in coppia nella stessa riga, interrotti da una pausa o cesura.
Questi versi doppi si ottengono se sono presenti più di 11 sillabe e sono costituiti
dalla somma di due versi brevi. Ne sono un esempio, il doppio senario o
dodecasillabo particolarmente utilizzato da Manzoni nell’Adelchi, il doppio ottonario e
il doppio settenario o martelliano poiché usato in particolar modo dal poeta Pier
Jacopo Martello.
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Figure metriche

Sinalefe
La sinalefe è la fusione o pronuncia monosillabica di due vocali di due parole di cui
la prima è atona appartenenti a due parole diverse venute a contatto nel verso.
Per esempio:
1. Mi ritrovai per una selva oscura (Dante, Inferno, canto I);
2. Solo et pensoso i più deserti campi (Petrarca, Canzoniere, componimento
35);

Dialefe
La dialefe è il fenomeno contrario alla sinalefe, ovvero, l’assenza di fusione tra vocali
che dovrebbe invece esserci e questo avviene quando entrambe sono toniche
oppure quando lo è solo una delle due.
Esempio;
Ch’io fui di monti là intra Orbino (Dante, Inferno, XXVII, 29)

Sineresi
La sineresi è la fusione di due vocali che apparterrebbero a sillabe distinte e che
consentono al poeta di ottenere il verso desiderato.
Esempio:
Or fea ronzar per l’aer un lento dardo (Poliziano, Stanze per la Giostra, IX, 3)

Dieresi
La dieresi è il fenomeno opposto alla sineresi, ovvero, è la divisione di una serie
vocalica, nella quale ciascuna vocale costituisce una sillaba autonoma.
Esempio:
Forse perché della fatal quiete (Ugo Foscolo, Alla Sera). In questo caso, “quiete”
sarebbe un trisillabo, ma Foscolo ha adottato una scansione di questo termine in 2
sillabe;
L’accento
Versi piani, tronchi o sdruccioli
I versi in base all’accento della parola conclusiva possono essere:
1. Piani, quando terminano con una parola piana, ovvero, con l’accento sulla
penultima sillaba, per esempio, nel 1 verso dell’Inferno di Dante, Nel mezzo
del cammin di nostra vita (endecasillabo);
2. Tronchi, quando terminano con una parola tronca, ovvero, con l’accento
sull’ultima sillaba, per esempio, nella frase tratta dal libro La Signorina Felicita
di Guido Gozzano, ovvero, A quest’ora che fai? Tosti il caffè (verso
endecasillabo, ma dato che è tronco risulta decasillabo);
3. Sdruccioli, quando terminano con una parola sdrucciola, ovvero, con
l’accento sull’ultima sillaba, per esempio Ch’io sento nel mio petto un foco
nascere (verso endecasillabo, ma dato che è sdrucciolo risulta
dodecasillabo);
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Endecasillabo a minore e a maiore


Gli endecasillabi a seconda del punto su cui cade l’accento può essere di due
tipologie:
1. l'endecasillabo a minore, quando l’accento ha un ritmo ascendente e
accelerato e cade sulla quarta sillaba del verso, per esempio, mi ritrovai per
una selva oscura;
2. l’endecasillabo a maiore, quando l’accento ha un ritmo discendente e
rallentato e cade sulla sesta sillaba del verso, per esempio, nel mezzo del
cammin di nostra vita;

Nell’incipit della Divina Commedia, Dante utilizza la perifrasi nel mezzo del cammin
di nostra vita, per suggerire il fatto che avesse 35 anni, perifrasi che è anche
l’indicatore del soggetto della Commedia, ovvero, il cammino nell’aldilà di cui Dante
attraverso le due tipologie di endecasillabo ci mostra il ritmo che cambia a seconda
del momento.
Nel primo verso, endecasillabo a maiore, il ritmo è veloce mentre nel secondo,
endecasillabo a minore, va calando fino a fermarsi poiché Dante ritrovandosi dentro
una selva oscura è costretto a fermarsi. Nel terzo verso invece (che la diritta via era
smarrita), endecasillabo a maiore, il ritmo è velocizzato per meglio rappresentare la
scorrevolezza della diretta via.

Componimento 35, Canzoniere, Petrarca


Solo et pensoso i più diversi campi = a minore
vo mesurando a passi tardi e lenti,= a minore
et gli occhi porto per fuggire intenti = a minore
ove vestigio human l’arena stampi. = a maiore

Analizzando la metrica di questi tre versi di Petrarca, tratti dal componimento 35 del
Canzoniere, notiamo che il poeta ha optato per un ritmo lento per indicare il fatto che
mentre passeggia le altre persone camminano molto più velocemente rispetto a lui e
talvolta lo superano perché il loro cammino non è come il suo che è interrotto da
pensieri le lo fanno soffrire, in particolare la passione d’amore per Laura che lo
accompagna in ogni luogo.

Dunque possiamo dire che la metrica ci mostra e ci spiega le scelte ritmiche e


metriche del poeta che corrispondono al significato dell’opera.

Figure di ritmo
Le cesure
Le cesure sono pause interne al verso, possono essere indicate dalla punteggiatura
o dal senso della frase, dividono il verso in due porzioni definite emistichi e servono
a mettere in evidenza oltre a determinate parole anche determinati accenti, i quali,
vengono rafforzati.
Esempio
Nel mezzo del cammin / di nostra vita
mi ritrovai / per una selva oscura
che la diritta via / era smarrita
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Nota bene
Sia gli accenti che le cesure sono utili a mettere in evidenza specifiche parole del
verso:
a) gli accenti mettono in evidenza le parole contenenti le sillabe in cui cadono;
b) la cesura fa risaltare la parola che la precede;

Enjambement o inarcatura
L’enjambement o inarcatura una figura metrica sintattica, un fenomeno che si
verifica quando la fine di un verso non coincide con la fine della frase, ovvero,
quando la frase si completa andando oltre il limite del verso, terminando quindi nel
verso successivo. Ricchissimo di enjambements è il carme foscoliano Dei Sepolcri:
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusion che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?

La rima
La rima è l’identità di suono della parte finale di due o più parole, a partire dall’ultimo
accento tonico. Essa è solitamente collocata alla fine dei versi, ma esiste anche una
particolare rima chiamata rima interna che troviamo all’interno di un verso, se
almeno una delle parole in rima non si trova alla fine del verso. Se essa, invece, si
trova in corrispondenza della cesura, prende il nome di rima al mezzo, tipica di
Petrarca e Pascoli, ma anche degli endecasillabi frottolati, gli endecasillabi tipici
del genere poetico della frottola 1o del genere gliommero2. Gli endecasillabi frottolati
hanno una cadenza evidente e ripetitiva e li troviamo nella poesia bucolica
dell’Arcadia di San Nazario.

Esempio rima al mezzo


Soccorri alla mia guerra,
bench'io sia terra, e tu del ciel regina.
(Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, CCCLXVI-Vergine Bella, 12-13)

Rima baciata
La rima baciata vede due versi consecutivi remare tra loro:
I’ mi trovai fanciulle, un bel mattino
di mezzo Maggio in un verde giardino (Poliziano, Rime, Canzoni a ballo, CII, 1-2)

Rima incrociata o chiusa


La rima incrociata o chiusa unisce il primo verso al quarto, il secondo al terzo e così
via formando lo schema metrico ABBA:
Fuggite, amanti, Amor, fuggite ’l foco;
l’incendio è aspro e la piaga è mortale,
c’oltr’a l’impeto primo più non vale
né forza né ragion né mutar loco.
(Michelangelo Buonarroti, Rime, XXVII, 1-4)

1 Frottola: componimento poetico, la cui caratteristica è l'affastellamento di pensieri e fatti bizzarri e


strani senza nesso e quasi talvolta senza senso, in un metro irregolare per il succedersi a caso di
versi di varia misura, e per la rima qua e là risonante senza ordine prestabilito;
2 Gliommero: componimento poetico dei secc. XV e XVI, di origine popolaresca e di genere affine alla
frottola; metricamente consta di una serie di endecasillabi con rima al mezzo.
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Rima alternata
La rima alternata unisce versi alternati per uno schema metrico ABAB:
l’ posi mente: quelle rose allora
mai vi potei dir quant’eron belle;
quale scoppiava dalla boccia ancora,
quale eron un po’ passe e qual novelle
(Poliziano, Rime, Canzoni a ballo CII, 15-18)

Rima incatenata
La rima incatenata unisce strofe di tre versi ed è la rima più frequente nella Divina
Commedia, tantoché molti studiosi pensano sia stata inventata dallo stesso Dante.
Secondo questo tipo di rima il primo verso rima con il terzo della prima terzina, il
secondo con il primo della seconda terzina, il secondo di questa rima con il primo
della terza terzina, e così via e dunque lo schema metrico è ABA BCB CDC:

Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno


toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.

Nota bene
Per convenzione i versi in rima si indicano con le lettere dell’alfabeto; la lettera è
maiuscola per i versi dell'ottonario all'endecasillabo, mentre per i versi brevi si una
una lettera minuscola.

Rime tecniche
Le rime tecniche sono le rime in cui risulta identica una porzione di parola o di verso
più ampia rispetto a quella che segue l’ultima vocale tonica e può essere di due tipi:
1. la rima equivoca, la quale unisce parole omofone, parole che hanno identico
suono, ma significato diverso. Per esempio il sonetto XVIII di Petrarca è
interamente costruito sulle rime equivoche;
2. la rima identica, la quale unisce parole con stesso suono e stesso
significato.
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Rima equivoca Rima identica


Quand’io son tutto vòlto in quella parte Esso ricominciò: «A questo regno
ove ’l bel viso di madonna luce, non salì mai chi non credette in Cristo,
et m’è rimasa nel pensier la luce né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.Ma
che m’arde et strugge dentro a parte a vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", che
parte, saranno in giudicio assai men prope a lui,
i’ che temo del cor che mi si parte, che tal che non conosce Cristo»
et veggio presso il fin de la mia luce, (Dante, Paradiso, XIX)
vommene in guisa d’orbo, senza luce,
che non sa ove si vada et pur si parte.
Così davanti ai colpi de la morte
fuggo: ma non sì ratto che ’l desio
meco non venga come venir sòle.
Tacito vo, ché le parole morte
farian pianger la gente; et i’ desio
che le lagrime mie si spargan sole.
(Sonetto XVIII, Petrarca)

Nota bene
Le rime oltre ad avere una funzione ritmica e una funzione strutturante, sono utili per
creare associazioni tra le parole di un componimento poetico: l’analisi del testo
individua tali collegamenti e ne mette in luce l’importanza anche a livello semantico,
ovvero, di significato. In sostanze le rime creano collegamenti tra parole chiave che
mettono in evidenza i temi principali.

Versi sciolti
Nella metrica italiana, per verso sciolto s'intende un verso non rimato, cioè sciolto
dalla rima, non legato ad altri dalla rima. Qualunque verso può trovarsi sciolto
all'interno di una strofa e in tal caso è detto anche verso irrelato. Il verso sciolto
comincia ad affermarsi a partire dal 500 in particolare negli endecasillabi. Uno dei
primi autori ad impiegare questo tipo di verso fu Giovan Giorgio Trissino (1478-1550)
che scrive la prima commedia in italiano, Sofonisba, che riprende quelle classiche
latine e greche. Interessante è il fatto che i versi sciolti iniziano ad imporsi dopo
50/60 anni dalla nascita dalla stampa e dunque vi è un collegamento tra la diffusione
dell’utilizzo dei versi sciolti e la diffusione del libro a stampa.

Come uscì Massinissa, la regina


fe’ nel palazzo suo tutti gli altari
ornar di nuovo d’edere e di mirti;
ed in quel mezzo le su belle membra
lavò d’acqua di fiume, e poi vestille
di bianche, adorne, e preziose veste:
tal che a vederla ognuno arìa ben detto
che il sol non vide mai cosa più bella.
(Giovanni Giorgio Trissino, Sofonisba, atto 2°, scena 4°)
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Strofa
la strofa (o strofe) è un gruppo di versi, di numero e di tipo fisso o variabile che
vengono organizzati secondo uno schema, in genere ritmico, seguito da una pausa
ed esse si definiscono in base ai versi che le compongono.
1. 2 versi = distico (rima baciata);
2. 3 versi = terzina (rima incatenata);
3. 4 versi= quartina (rima alternata; rima incrociata);
4. 6 versi= sestina (ABABCC);
5. 8 versi= ottava (ABABABCC

Forme metriche
Le forme metriche sono tipi di componimenti poetici caratterizzati da ben precise
tipologie di versi e rime. La forma metrica è strettamente legata al genere letterario a
cui appartiene l’opera composta, fenomeno che dovrebbe far riflettere
adeguatamente sulla nascita simultanea e inscindibile di contenuto e forma
dell’opera. L’opera viene concepita fin dalla sua ideazione, viste le sue tematiche, i
suoi toni, le sue specifiche caratteristiche letterarie in quella e non in un’altra forma
metrica.

La canzone
La canzone è un tipo di componimento che spesso come la ballata ed il madrigale
veniva messo in musica il quale si compone di strofe o stanze dello stesso numero
di versi, endecasillabi o settenari ed ogni strofa è divisa in due parti, la fronte che è
composta da due piedi e la sirma che è composta da due volte. Fronte e sirma
sono collegate tra loro dalla chiave, ovvero, un verso in rima con l’ultimo verso della
fronte. La canzone, infine, spesso termina con un congedo o commiato, ovvero,
una breve strofa con cui il poeta si rivolge al proprio componimento.

La canzone inoltre potrebbe essere di due tipi:


1. la canzone classica, antica o petrarchesca poiché è stata resa illustre da
Petrarca;
2. la canzone libera o leopardiana, poiché venne resa celebre da Leopardi, la
quale cominciò ad essere sperimentata a partire dal ‘600. Essa è chiamata
“libera” poiché le stanza sono di lunghezza irregolare e gli endecasillabi e i
settenari si alternano liberamente all’interno di esse a seconda dell’ispirazione
del poeta.
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Ballata o canzone ballo


La ballata è così chiamata in quando in origine era un componimento accompagnato
da musica e cantato durante la danza i cui movimenti seguivano la scansione del
componimento. Essa è composta da settenari ed endecasillabi ed è divisa in:
1. ripresa o ritornello, ovvero, una breve parte introduttiva ripetuta in seguito
dopo ogni stanza;
2. una o più stanze a loro volta suddivisibili in 2 piedi e 1 volta legata alla
ripresa dalla rima dell’ultimo verso.

Sonetto
Il sonetto è la classica composizione poetica di carattere lirico, burlesco o satirico,
costituita da quattordici versi, di solito endecasillabi, distribuiti in due quartine e due
terzine con rime disposte secondo determinati schemi metrici:
1. nella prima quartina la rima è incrociata con schema metrico: ABBA ABBA;
2. nella seconda quartina la rima è alternata con schema metrico: ABAB ABAB;
3. nella prima terzina la rima è replicata con schema metrico: CDE DCE;
4. nella seconda terzina la rima è invertita con schema metrico: CDC DCD;
5. nella terza terzina la rima è retrograda con schema metrico: CDE
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'imago, a me sì cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete


tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme


che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;


e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.
(Ugo Foscolo, Alla Sera)

Canzone sestina
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La canzone sestina è la forma metrica più complicata che ritroviamo in Petrarca, il


quale, la utilizza per alludere alla simbologia del numero 6, il numero di Laura. Essa
è costituita da endecasillabi suddivisi in 6 sestine più una terzina di congedo.
Prevede 6 parole rima che si ripetono in tutte le strofe secondo il sistema della
retrogradazione incrociata (si accostano le parole-rima alle estremità
invertendole): ABCDEF FAEBCD CFDABE ECBFAB DEACFB BDFECA. Un
esempio rilevante è la canzone 22 del Canzoniere di Petrarca le cui parole rima
sono: terra, sole, giorno, stelle, selva, alba.

Madrigale
Il madrigale come la canzone e la ballata è sempre un componimento di origine
musicale, è perlopiù di argomento amoroso ed è costituito da endecasillabi o da
endecasillabi e settenari divisi in terzine, solitamente due o tre più uno o due distici
conclusivi. Ne è un esempio il componimento LII del Rerum Vulgarium Fragmenta di
Petrarca.

Non al suo amante più Dïana piacque,


quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,
ch’a me la pastorella alpestra et cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda,
tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,
tutto tremar d’un amoroso gielo.
(Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, LII)

Ottava
Strofa composta da otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a
rima baciata (schema: ABABABCC). Essa è impiegata nella poesia discorsiva,
specialmente nell’epica narrativa.

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,


le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
(Ariosto, Orlando Furioso, I, 1)

Il ritmo
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Il ritmo, il quale è dato dall’alternarsi di sillabe atone e sillabe toniche, non è proprio
solamente della poesia, ma è possibile individuarlo anche nella prosa dove v
indagato a partire da altri fenomeni, quali:
1. la distribuzione dei gruppi sintattici;
2. la collocazione delle parole;
3. la punteggiatura;
4. il ricorrere di immagini;
5. il numero delle sillabe, le quali, come dimostrato da Gian Luigi Beccaria, nella
tradizione prosastica italiana, le sillabe variano da 6 a 11, dunque, la scelta
dell’autore varia tra il senario e l’endecasillabo;
6. la collocazione dell’accento, in particolare sulle ultime due parole di una frase,
la quale, prende il nome di cursus che può essere planus o velox. Il cursus
planus è formato da un polisillabo parossitono (o piano che dir si voglia)
seguito da un trisillabo pure parossitono, ed è esemplificabile con víncla
perfrégit, retributiónem merétur, o anche ópis est nóstrae (perché è legittima
la soluzione del trisillabo in un monosillabo e in un bisillabo). Cursus velox,
invece, è dato quando le ultime due parole sono accentate rispettivamente
sulla terzultima e sulla penultima sillaba (parola sdrucciola + parola piana).

Il livello sintattico
Sia la poesia che la prosa ricorrono al medesimo codice linguistico che richiede una
precisa coerenza interna, sia un’organizzazione della stesura del periodo che renda
il messaggio informativo per il destinatario. Tale elemento organizzativo è costituito
dalla sintassi, che nasconde nei meccanismi stessi sottesi alla sua creazione precise
volontà estetiche dell’autore. Essa si divida fra paratassi, cioè, la coordinazione fra
due proposizioni in un enunciato e l’ipotassi, ossia, il rapporto di subordinazione tra
le varie proposizioni di un enunciato. Se, nella latinità, il periodo ciceroniano
rappresenta il cosmo in equilibrio del cittadini che ancora si riconosce al centro e
nelle istituzioni dello Stato e dunque in esso trionfa il complesso e articolato
equilibrio dei membri dell’ipotassi, la paratassi di Seneca, che combatte la violenza
della storia, esprime il linguaggio drammatico e frantumato dell’interiorità, quale sarà,
quello dell’uomo moderno. In un testo, l’autore sceglie tra l’utilizzo dell’ipotassi o
della paratassi a seconda del contesto storico-culturale, del genere letterario
dell’opera, dei modelli precedenti, della genesi e della finalità stessa di un prodotto
letterario, del suo stato di elaborazione, della volontà di pubblicazione dell’autore e di
tanti altri elementi che ne possono talvolta giustificare le qualità estetiche. Inoltre,
paratassi e ipotassi possono convivere in virtù del contesto narrativo e nel romanzo
anche in relazione alle caratteristiche psicologiche e culturali delle voci dei
personaggi.

Il livello retorico
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La retorica è l’atteggiamento dello scrivere o del parlare, o anche dell'agire,


improntato a una vana e artificiosa ricerca dell'effetto con manifestazioni di ostentata
adesione ai più banali luoghi comuni.
La retorica si sviluppò durante il V secolo avanti Cristo in Sicilia, a Siracusa, con la
fine della tirannia dei Dinomènidi e il ripristino della democrazia. Scaturì quindi da
necessità politiche e sociali, allo scopo di garantire la possibilità del confronto tra
cittadini per questioni sia civili che giudiziarie.
Còrace e Tisia, suo allievo, furono i primi a codificare un metodo e una tecnica della
retorica.
I primi e principali autori e opere che trattarono di retorica furono:
1. Aristotele (Retorica);
2. Rhetorica ad Herennium (anonimo trattato latino di retorica, rielaborazione di
una ignota fonte greca) -> testimonianza dell’assimilazione della retorica
greca da parte dei Romani;
3. Cicerone (De inventione, De oratore, Brutus, Orator, De optimo genere
oratorum, Partitiones oratoriae, Topici);
4. Quintiliano (Institutio oratoria)

Le figure retoriche
Le figure retoriche sono artifici del discorso che servono a creare un effetto sonoro o
di significato all'interno di una frase. Mortara Garavelli, una linguista, nel suo
Manuale di Retorica, pubblicato nel 1988, dice che le figure retoriche sono
espedienti espressivi attraverso cui si attua l’ornatus, ovvero, la virtù oratoria che
prevede l’abbellimento del proprio discorso, in modo da renderlo più piacevole ed
efficace. Sempre questa linguista ci dice che le figure retoriche riguardano le
connessioni tra parole e possono essere di due tipologie:
1. le figure retoriche di parola, le quali si concentrano di più sulla scelta delle
parole e sulla loro disposizione in un verso piuttosto che sul significato di
esso;
2. le figure retoriche di pensiero, le quali si concentrano di più sul significato
dell’espressione piuttosto che dalla scelta e dalla disposizione delle parole;

Paragone
Il paragone è un confronto istituito fra due termini allo scopo di valutarne la diversità
o rilevarne l'affinità ed esso comprende:
1. la comparazione che è l’accostamento tra due immagini fondato sopra
relazioni esattissime, sopra somiglianze vere e reali, immagini che possono
essere scambiate tra loro.
Esempio
Gli occhi di Ciro sono azzurri come quelli di Piero (Lavezzi 2004, p.87);
2. la similitudine che è l'accostamento di due immagini, due termini di
paragone che non possono essere scambiati tra loro poiché la similitudine a
differenza della comparazione è l’accostamento di due parole fondato sopra
relazioni apparenti, ma non troppo esatte. Nella similitudine il primo termine di
paragone viene spiegato con il secondo termine di paragone che è più
generale e scelto dall’autore poiché da lui considerato più vicino ed
interpretabile dal lettore.
Esempio
Bianco come la neve.
Metafora
13

Figura retorica consistente nella sostituzione di un termine con un altro connesso al


primo da un rapporto di parziale sovrapposizione semantica, per esempio, generosa
Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro (Ariosto, Orlando Furioso,
1,3,1-2).

Catacresi
Estensione retorica di una parola o locuzione oltre il suo significato proprio oppure
anche in un significato che il contesto della frase contraddice, figura retorica che
normalmente troviamo all’interno del linguaggio quotidiano.
Esempio
Quel ramo del lago di Como (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, II).

Metonimia
Sostituzione di una parola con un’altra con cui intrattiene un rapporto di
interdipendenza, ad esempio:
1. la causa per l’effetto;
2. il contenente per il contenuto;
3. la materia per l’oggetto;
4. una parte del corpo per un sentimento;
5. l’astratto per il concreto.
Mentre Rinaldo così parla, fende con tanta fretta il suttil legno l'onde
(Ariosto, Orlando furioso, Canto XLIII, 63, 1-2).

Sineddoche
Sostituzione di una parola con un’altra tra le quali sussiste un rapporto di quantità
del tipo «parte per il tutto» oppure «tutto per la parte».
e se da lunge i miei tetti saluto
(Foscolo, In morte del fratello Giovanni, 8)

Antitesi
Accostamento di parole o concetti di significato opposto.

Pace non trovo, et non ò da far guerra,


e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio.
(Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, CXXXIV)

Ossimoro
Accostamento di parole o concetti semanticamente incompatibili.
La mia cara nemica
(Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta CCCXV)

Sinestesia
Associazione di termini pertinenti a sfere sensoriali differenti.
mi ripigneva là dove il sol tace
(Dante, Inferno, I, 60)

Il climax (climax ascendente)


14

Serie di termini disposti in una scala di intensità o di ampiezza crescente.

Quivi sospiri, pianti e alti guai


risonavan per l’aere sanza stelle
(Dante, Inferno, III, 22-23)

Benedetto sia 'l giorno, e 'l mese, e l'anno


(Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, LXI,1)

L’anticlimax (climax discendente)


Serie di termini disposti in una scala di intensità o di ampiezza decrescente.
Don.. Don.. E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
(Giovanni Pascoli, La mia sera, vv. 33-35)

Iperbole
Esagerazione nella rappresentazione della realtà.
«O frati», dissi, «che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente […]»
(Dante, Inferno, XXVI, 112-113)

Litote
Affermazione di un concetto attraverso la negazione del suo contrario.
… onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso
(Foscolo, A Zacinto, 6-8)

Personificazione
Attribuzione di azioni umane ad esseri inanimati, entità astratte o animali,
solitamente indicati da un termine con iniziale maiuscola.

Trovommi Amor del tutto disarmato


(Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, III, v. 9 - Era il giorno ch’al
sol si scoloraro)

Perifrasi
Sostituzione di una parola con una frase più ampia.
[…] colui che tutto move
[Dio]
(Dante, Paradiso, I, 1)

Parallelismo
Disposizione simmetrica di forme grammaticali (ad es.:aggettivo-sostantivo).
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo (Leopardi, L’infinito, 4-7)
Chiasmo
15

Disposizione incrociata dei membri di due o più sintagmi (unità sintattiche) o


proposizioni.
Siena mi fè, disfecemi Maremma
(Dante, Purgatorio, V, 134)

Iperbato
Alterazione dell’ordine consueto delle parole di una frase attraverso l’interposizione,
fra due termini legati grammaticalmente e/o sintatticamente tra loro, di una parola o
di un inciso.
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi…
(Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, LXXXX - Erano i capei d’oro
a l’aura sparsi, 3-4)

Anastrofe
Inversione di due elementi del periodo.

e se da lunge i miei tetti saluto


(Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni, v. 8)

Sempre caro mi fu quest’ermo colle


(Giacomo Leopardi, L’infinito, v. 1)

Anafora
Ripetizione della stessa parola o espressione all’inizio di versi o enunciati successivi.

Epifora
Ripetizione della stessa parola o espressione in conclusione di versi o enunciati
successivi.

Anadiplosi
Ripetizione dello stesso termine in frasi o versi successivi, e in particolare alla fine di
un enunciato (o di un verso) e all’inizio dell’enunciato (o del verso) successivo.

«Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,


Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia»
(Dante, Purg. XXIV, 19-22)

Epanadiplosi
Ripetizione dello stesso termine all’inizio e alla fine di una frase, in modo da
incorniciarla.

Vede perfettamente onne salute


chi la mia donna tra le donne vede
(Dante, Vita Nova, XXVI)

Polisindeto
16

Impiego della congiunzione copulativa «e» per connettere i membri di una


elencazione (o le proposizioni che formano un periodo).

Asindeto
Assenza della congiunzione coordinante in una serie di termini o proposizioni
coordinate.

Dittologia sinonimica
Accostamento di due sinonimi, solitamente uniti dalla congiunzione
copulativa «e».

Movesi ’l vecchierel canuto e bianco (Petrarca, RVF XVI, 1)

vo mesurando a passi tardi et lenti (Petrarca, RVF XXXV, 2)

Endiadi
Sostituzione di un’espressione costituita da due membri con due termini uniti dalla
congiunzione copulativa «e».
e giustizia e speranza [= speranza di giustizia]
(Dante, Purg., XIX, 77)

Enallage
Sostituzione di una parte del discorso con un’altra
(nell’es. riportato, di due avverbi, ‘soavemente’ e ‘pianamente’, con due aggettivi).
e cominciommi a dir soave e piana
(Dante, Inf., II, 56; si parla di Beatrice)

Ipallage
L’ipallage consiste nell’attribuire a un termine ciò che è proprio di un altro termine
della stessa frase; solitamente, è la concordanza di un aggettivo con un sostantivo
diverso rispetto a quello cui sarebbe legato per significato.

ma io deluse a voi le palme tendo


(Foscolo, In morte del fratello Giovanni, 7)

Accumulazione
Elenco di termini o espressioni più o meno eterogenei. È uno dei procedimenti
dell’amplificazione (dilatazione del discorso). Può realizzarsi attraverso
l’enumerazione.

Enumerazione o elencazione
Serie di termini o sintagmi associati per asindeto o polisindeto.

Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno,


e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto,
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’hanno
(Francesco Petrarca, RVF LXI - Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e
l’anno, vv. 1-4)
Figura etimologica
17

Ripetizione della stessa radice etimologica in parole vicine.

Esta selva selvaggia e aspra e forte (Dante, Inf., I, v. 5)

Amor, ch’a nullo amato amar perdona (Dante, Inf., V, v. 103)

Il farmacista nella farmacia


m’elogiava un farmaco sagace
(Guido Gozzano, La signorina Felicita, ovvero La felicità, VII, 1-2)

Preterizione
Trattare di un argomento poco dopo aver affermato di non volerlo trattare.
Cesare taccio, che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
(Petrarca, RVF CXXVIII – Italia mia benché ’l parlar sia indarno, vv.
49-51)

Reticenza o apoiopesi
Sospensione intenzionale (e solitamente dichiarata) nella trattazione di un discorso.
(‘reticenza’ dal lat. reticentia; ‘aposiopesi’ dal gr. ἀποσιώπησις, dal verbo
ἀποσιοπάω «taccio»)

quel giorno più non vi leggemmo avante (Dante, Inf. V, 138)

Poscia, più che il dolor, poté il digiuno (Dante, Inf. XXXIII, 75)

Allitterazione
Ripetizione degli stessi suoni in termini vicini tra loro.

Allor soffiò il tronco forte, e poi


si convertì quel vento in cotal voce
(Dante, Inf., XIII, 91-92: parla Pier delle Vigne, in forma di arbusto)

di me medesmo meco mi vergogno


(Petrarca, RVF I – Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, v. 11)

Assonanza
Identità delle sole vocali della parte finale di due parole, a partire dall’ultima vocale
tonica. Es.: sole / more

Consonanza
Identità delle sole consonanti della parte finale di due parole, a partire dall’ultima
vocale tonica. Es.: mele / vola

Paronomasia
Accostamento di due parole con suono simile.

ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. (Dante Alighieri, Inferno, I, v. 36)
Poliptoto
18

Ripetizione di una parola in diversa funzione sintattica o (se verbo)


coniugata in diversi modi, tempi o persone.
"Cred'io ch'ei credette ch'io credesse..."
(Dante Alighieri, Inf., XIII, 25)
di me medesmo meco mi vergogno
(Francesco Petrarca, RVF I – Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, v. 11)

Apostrofe
Atto di rivolgere il discorso in maniera diretta e repentina a una persona diversa dal
naturale destinatario.

Ahi dura terra, perché non t’apristi?


(Dante, Inf., XXXIII, 66)

Invettiva
Discorso di aspra critica rivolto a qualcuno o a qualcosa.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,


nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Dante, Purg., VI, 76-78)

Eufemismo
Sostituzione di un’espressione che risulterebbe troppo forte con un’altra in cui il
significato risulta attenuato.

e compie’ mia giornata innanzi sera (= morii in giovane età, prematuramente).


(Petrarca, RVF CCCII – Levommi il mio pensier in parte ov’era, 8)

Ironia
Dissimulazione del proprio pensiero.

Vieni a veder la gente quanto s’ama!


(Dante, Purg., VI, 115)

Antifrasi
Forma di ironia per cui si afferma il contrario di ciò che si pensa.

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande


che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
(Dante, Inf., XXVI, 1-3

Il livello semantico
19

Il livello semantico analizza i termini ricorrenti, le parole-chiave e le immagini che


vanno a determinare il significato del messaggio poetico. L’esame di questi elementi
consente di stabilire i nuclei tematici della poetica di un autore e di attuare lo
spostamento dal livello puramente denotativo di un termine o di più termini che
gravitano intorno ad una stessa area semantica a quello figurativo e simbolico che fa
parte della mitologia personale dell’autore e che talvolta può attingere alla
dimensione profonda dell’inconscio. Talvolta alla stesse immagini possono essere
affidate, nella poesia come nella prosa, valenze simboliche diverse, che esprimono
in modo soggettivo la “mitologia” personale dell’autore, la propria irripetibile
proiezione simbolica affidata a quel termine o a quell’area semantica. Per esempio,
l’immagine della finestra, tramite tra lo spazio chiuso e lo spazio vuoto, può divenire
espressione di esclusione e chiusura e, dunque, di solitudine e di ripiegamento, o di
apertura e di dialogo verso il mondo, ma anche espressione di libertà e all’intensità
dell’esistenza. Occorre precisare come gli attuali strumenti informatici come i
softwares con programmi di ricerca su archivi di testi letterari, ci consentano di
condurre con molta facilità, velocità e completezza, indagini sulle famiglie di parole,
sulle occorrenze lessicali, sui termini che gravitano attorno a una stessa area
semantica, o si riconducono ad una stessa radice etimologica, fornendo al lettore e
al critico molti dati relativi proprio a questo livello dell’analisi testuale. Ma quanto più
si ampliano le possibilità automatiche della ricerca quanto più accorto e attento deve
essere l’intervento interpretativo rivolto a cogliere e a precisare di volta in volta, caso
per caso, sia la specificità del contesto sia la dimensione storica e filologica in cui si
collocano le parole. Nonostante ciò, al critico letterario spetta sempre il compito di
saper utilizzare con l’accortezza e competenza della sua preparazione scientifica le
potenzialità degli strumenti sempre più raffinati di cui può disporre. Di non minore
importanza sono la centralità e la responsabilità del lettore competente come Pier
Paolo Pasolini, che nella Nota introduttiva agli Scritti corsari disse che il lettore:
1. deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta;
2. deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale
unitarietà;
3. deve eliminare le eventuali incoerenze;
4. deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti.

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