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L’OTTAVA

Istituzioni di Letteratura italiana – Prova scritta


L’OTTAVA
L’ottava rima (o semplicemente ottava) costituisce, con la terza rima, la forma ‘discorsiva’
(cioè non lirica) più diffusa della tradizione italiana, tipica in particolare della poesia
narrativa.

Principali forme metriche


- della poesia lirica: sonetto, canzone, ballata, madrigale, sestina lirica, ode
- della poesia narrativa: terza rima, ottava rima, sirventese

L’origine dell’ottava rima è controversa. I primi testi datati nei quali fu adottata sono
il Filostrato di Giovanni Boccaccio (1336) e l’anonimo Cantare di Fiorio e Biancifiore
(trascritto dopo il 1343).
 Sono scritti in ottave i poemi epici o epico-
cavallereschi in volgare
■ L’Orlando innamorato (o Inamoramento de Orlando) di Matteo Maria Boiardo
■ L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto
■ La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.

 Sono scritti in ottave anche i poemi eroicomici


■ Il Morgante di Luigi Pulci
■ La Secchia rapita di Alessandro Tassoni
■ I Paralipomeni della Batracomiomachia di Giacomo Leopardi.
L’OTTAVA
è una strofa (o stanza) di otto versi

La strofa
è un gruppo di versi, di numero e di tipo fisso o variabile che vengono
organizzati secondo uno schema, in genere ritmico, seguito da una pausa
 Distico
 Terzina
 Quartina
 Sestina
 Rare: Strofa pentastica e strofa eptastica
L’OTTAVA
è una strofa di otto versi endecasillabi

Il verso
è l’unità metrica del testo poetico. Il verso è composto da un numero di sillabe che, nella poesia
italiana, varia da un minimo di una a un massimo di sedici.

L’endecasillabo è un verso composto di 11 sillabe

 Il monosillabo  Il settenario
 Il bisillabo (o binario)  L’ottonario
 Il trisillabo (o ternario)  Il novenario
 Il quaternario  Il decasillabo
 Il quinario  Il dodecasillabo (o doppio senario)
 Il senario  Il doppio settenario
 Il doppio ottonario
L’OTTAVA
è una strofa di otto versi endecasillabi

L’endecasillabo
è il verso più importante e vario della tradizione poetica italiana per le sue molteplici soluzioni
metriche.

Gli accenti ritmici (o ictus) possono essere disposti in modo vario; l’unica costante è l’accento
fisso sulla 10ª sillaba.
L’endecasillabo
■ Endecasillabo piano

Io| vo’| trar| for| la| ci|te|ra| più e|let|ta


Boiardo, Orlando innamorato (III, IX, 1, 3)

■ Endecasillabo sdrucciolo

La| fe|de è| fat|ta| co|me|fa il| sol|le|ti|co


Pulci, Morgante (XVIII, 117, 3)

■ Endecasillabo tronco

Ciò|che’n| grem|bo a| Be|na|co| star| non| può


Dante, Inferno (XX, 74)
L’OTTAVA
è una strofa di otto versi endecasillabi

L’endecasillabo
Quando in un verso si conteggiano le sillabe è necessario tener conto che il computo metrico non
corrisponde sempre a quello grammaticale, poiché è soggetto alle figure metriche.

Figure metriche
 Sinalefe
 Dialefe
 Sineresi
 Dieresi
Figure metriche
■ Sinalefe
è una figura metrica che consiste nella fusione di due vocali contigue, appartenenti a
parole diverse che vanno a formare un’unica sillaba metrica.

Seguir sua stella e pur temenza il tiene


Poliziano, Stanze per la giostra, (I, 56, 2)
Figure metriche
■ Sinalefe
è una figura metrica che consiste nella fusione di due vocali contigue, appartenenti a
parole diverse che vanno a formare un’unica sillaba metrica.

Se|guir |sua| stel|la e| pur |te|men|za il |tie|ne


Poliziano, Stanze per la giostra, (I, 56, 2)
Figure metriche
■ Dialefe
è una figura metrica che consiste nel tenere distinte, nel computo delle sillabe, due
vocali, di cui una alla fine di una parola e una all’inizio della successiva. La dialefe è
dunque il contrario della sinalefe.

Cominciò a crollarsi mormorando


Dante, Inferno (XXVI, 86)
Figure metriche
■ Dialefe
è una figura metrica che consiste nel tenere distinte, nel computo delle sillabe, due
vocali, di cui una alla fine di una parola e una all’inizio della successiva. La dialefe è
dunque il contrario della sinalefe.

Co|min|ciò| a| crol|lar|si| mor|mo|ran|do


Dante, Inferno (XXVI, 86)
Figure metriche
■ Sineresi
è una figura metrica che consente di unire in una sola sillaba un nesso vocalico interno
di parola che normalmente ne costituisce due, cioè due vocali che normalmente
costituiscono uno iato formano invece un dittongo.

E fuggiano e pareano un corteo nero


Carducci, Davanti San Guido (75)
Figure metriche
■ Sineresi
è una figura metrica che consente di unire in una sola sillaba un nesso vocalico interno
di parola che normalmente ne costituisce due, cioè due vocali che normalmente
costituiscono uno iato formano invece un dittongo.

E| fug|gia|no e| pa|rea|no un |cor|teo| ne|ro


Carducci, Davanti San Guido (75)
Figure metriche
■ Dieresi
è una figura metrica che consente di dividere in due sillabe un nesso vocalico interno di
parola che normalmente ne costituisce una sola, cioè due vocali che normalmente
costituiscono dittongo formano invece uno iato. La dieresi si indica graficamente con il
segno diacritico dei due puntini.

A te convien tenere altro vïaggio


Dante, Inferno (I,91)
Figure metriche
■ Dieresi
è una figura metrica che consente di dividere in due sillabe un nesso vocalico interno di
parola che normalmente ne costituisce una sola, cioè due vocali che normalmente
costituiscono dittongo formano invece uno iato. La dieresi si indica graficamente con il
segno diacritico dei due puntini.

A| te| con|vien| te|ne|re al|tro| vï|ag|gio


Dante, Inferno (I,91)
L’OTTAVA
L’ottava è una strofa di otto endecasillabi rimati secondo lo schema ABABABCC,
ovvero con i primi sei endecasillabi a rima alternata e gli ultimi due a rima
baciata

La rima
Canto l'arme pietose e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.
T. Tasso, Gerusalemme liberata, I, 1
L’OTTAVA
L’ottava è una strofa di otto endecasillabi rimati secondo lo schema ABABABCC,
ovvero con i primi sei endecasillabi a rima alternata e gli ultimi due a rima
baciata

La rima
Canto l'arme pietose e 'l capitano A
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. B
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano, A
molto soffrí nel glorioso acquisto; B
e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano A
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto. B
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi C
segni ridusse i suoi compagni erranti. C
T. Tasso, Gerusalemme liberata, I, 1
L’OTTAVA
L’ottava è una strofa di otto endecasillabi rimati secondo lo schema ABABABCC,
ovvero con i primi sei endecasillabi a rima alternata e gli ultimi due a rima
baciata

La rima
 Alternata ABAB
 Baciata AABBCC
 Incrociata ABBA CDDC
 Incatenata ABA BCB
 Ripetuta (o replicata) ABC ABC
 Invertita (o simmetrica) ABC CBA
La rima
è il fenomeno che si produce nel caso di omofonia di due parole a partire dalla vocale tonica inclusa.

Quando si parla di rima in senso assoluto si intende la rima perfetta, ovvero il fenomeno di omofonia
perfetta dalla vocale tonica in poi fra due parole distinte.
E in genere, in questo caso, ci si riferisce alle parole in rima che si trovano a fine verso.

Es.: per adequar col riso i dolor’ tanti.


Et s’io potesse far ch’agli occhi santi .

Casi particolari di rima:


 Identica
 Imperfetta
 Etimologica
 Inclusiva
 Ricca
 Interna
 Rima identica
si verifica quando una parola rima con se stessa

Es.: Cristo : Cristo


Dante, Par. XIX, 104-106-108

 Rima imperfetta
- assonanza: vocali uguali e consonanti diverse a partire dalla sillaba tonica
Es.: collo : motto
- consonanza: vocali diverse e consonanti uguali a partire dalla sillaba tonica
Es.: pesto : casta

 Rima etimologica (o derivativa)


si verifica quando le due parole intrattengono un rapporto di derivazione etimologica
Es.: scritti : descritti
Ariosto, Orl. XXIII, 102, vv. 1;5.
 Rima inclusiva
si verifica quando una delle due parole è contenuta nell’altra, senza che però esista un rapporto
etimologico

Es.: sarte : arte

 Rima ricca
si verifica quando l’identità fonica si estende a ritroso prima della tonica, di uno o più suoni

Es.: stagione : cagione

 Rima interna
si verifica quando la rima lega parole che si trovano a metà o all'interno del verso

Es.: E mi mette in manette ed in soppressa

 Rima composta
si verifica quando una parola rima con l'insieme di due o più parole

Es.: oncia : non ci ha


ANALISI DEL TESTO

1) Parafrasi
2) Analisi metrica
3) Analisi linguistica, stilistica e retorica
4) Commento contenutistico
1) Parafrasi

a) Lettura

b) Divisione del testo in unità sintattiche

c) Individuazione dell’ordine corretto degli elementi all’interno della proposizione


e dell’ordine delle proposizioni all’interno del periodo

d) Sostituzione delle parole desuete, scioglimento delle ‘figure fonetiche’ e delle


figure retoriche

e) Resa in prosa
Figure fonetiche (o metaplasmi)
■ Apocope
Caduta della vocale finale di una parola ed eventualmente anche della consonante che la
precede
Es.: amore > amor
■ Epitesi
Aggiunta di una vocale o di una sillaba alla fine di una parola
Es.: fu > fue
■ Aferesi
Caduta di una vocale o di una sillaba all'inizio di parola
Es.: inverno > verno
■ Protesi (o prostesi)
Aggiunta di una vocale o di una sillaba all’inizio di parola
Es.: sposa > isposa
Figure fonetiche (o metaplasmi)
■ Sincope
Caduta di un suono all'interno di una parola
Es.: opera > opra
■ Epentesi
Aggiunta di un suono all'interno di una parola
Es.: cetra > cetera
■ Metatesi
Inversione dell’ordine di due fonemi all’interno di una parola
Es.: aria > aira
2) Analisi metrica

a) Identificazione della tipologia di testo poetico e della forma


metrica

b) Riconoscimento del tipo di strofa

c) Riconoscimento del tipo di verso

d) Identificazione dello schema rimico


3) Analisi linguistica, stilistica e retorica

a) Lingua: riconoscimento dell’area di appartenenza del testo e individuazione


degli elementi linguistici eterogenei

b) Stile: riconoscimento dei vari elementi sintattici, lessicali e narratologici

c) Figure retoriche: figure di suono, di posizione, logiche e di significato


Figure retoriche di suono

 Assonanza

 Consonanza

 Allitterazione

 Onomatopea

 Paranomasia
Figure retoriche di posizione (o sintattiche)

 Anastrofe  Poliptoto  Ellissi

 Iperbato  Figura etimologica  Zeugma

 Hysteron proteron  Enumerazione  Endiadi

 Anafora  Chiasmo  Dittologia

 Epifora  Parallelismo  Anacoluto

 Iterazione  Climax  Ipallage


Figure retoriche logiche

 Litote  Antifrasi (o ironia)

 Eufemismo  Antitesi

 Reticenza  Iperbole
Figure retoriche di significato (o semantiche)

 Metafora  Antonomasia

 Similitudine  Sinestesia

 Sineddoche  Ossimoro

 Metonimia  Apostrofe

 Perifrasi  Personificazione (o
prosopopea)
4) Commento

a) Esplicitazione del messaggio dell’autore

b) Riconoscimento delle tecniche con cui l’autore comunica un determinato


significato: individuazione dei campi semantici, fonosimbolismo, ecc.

c) Contestualizzazione storico-letteraria
C. Pietrucci, Guida all’analisi del testo poetico, EUM, Macerata, 2015,
pp. 119 e ss.

Luigi Pulci (1432-84)


■ Il Morgante, 1478

Angelo Poliziano (1454-1494)


■ Le Stanze cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro
de’ Medici, 1484

Ludovico Ariosto (1474-1533)


■ L’Orlando furioso, 1532
 Luigi Pulci, Morgante (XVIII, 113-117)

Morgante guata le sue membra tutte


più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
113 – Dimmi il tuo nome, – dicea – vïandante. –
Colui rispose: – Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. –

Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto:


ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato
che da due giorni in qua non ho beuto;
114 e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino.
Luigi Pulci, Morgante

Rispose allor Margutte: – A dirtel tosto,


io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
115 e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;

e credo nella torta e nel tortello:


l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
116 e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biàsima,
credo che sia il sogno o la fantàsima;
Luigi Pulci, Morgante

ed Apollin debbe essere il farnètico,


e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il sollético:
117 per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch’io fussi erètico;
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch’io non son terren da porvi vigna.
 Luigi Pulci, Morgante (XVIII, 113-117)

Morgante guata le sue membra tutte


più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
113 – Dimmi il tuo nome, – dicea – vïandante. –
Colui rispose: – Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. –

Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto:


ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato
che da due giorni in qua non ho beuto;
114 e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino.
Mor|gan|te| gua|ta| le| sue| mem|bra| tut|te A
più| e| più| vol|te| dal| ca|po al|le| pian|te, B
che| gli| pa|rea|no| stra|ne or|ri|de e| brut|te: A
113 Dim|mi il| tuo| no|me| – di|cea| – vï|an|dan|te. – B
Co|lui| ris|po|se: – Il |mio| no|me è| Mar|gut|te; A
ed| eb|bi| vo|glia an|co io| d’es|ser| gi|gan|te, B
poi |mi |pen|ti’ | quan|do al| mez|zo| fu’| giun|to: C
ve|di| che| set|te| brac|cia| so|no ap|pun|to. – C

Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto:


ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
114
io ti farò a camin quel che è dovuto
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino.
 Angelo Poliziano, Stanze per la giostra (I, 56-60)

Che de' far Iulio? Ahimè, ch'e' pur desidera


seguir sua stella e pur temenza il tiene:
sta come un forsennato, e 'l cor gli assidera,
56 e gli s'aghiaccia el sangue entro le vene;
sta come un marmo fisso, e pur considera
lei che sen va né pensa di sue pene,
fra sé lodando il dolce andar celeste
e 'l ventilar dell'angelica veste.

E' par che 'l cor del petto se li schianti,


e che del corpo l'alma via si fugga,
e ch'a guisa di brina, al sol davanti,
57 in pianto tutto si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri amanti,
e pargli ch'ogni vena Amor li sugga;
or teme di seguirla, or pure agogna,
qui 'l tira Amor, quinci il ritrae vergogna.
Angelo Poliziano, Stanze per la giostra

"U' sono or, Iulio, le sentenzie gravi,


le parole magnifiche e' precetti
con che i miseri amanti molestavi?
58 Perché pur di cacciar non ti diletti?
Or ecco ch'una donna ha in man le chiavi
d'ogni tua voglia, e tutti in sé ristretti
tien, miserello, i tuoi dolci pensieri;
vedi chi tu se' or, chi pur dianzi eri.

Dianzi eri d'una fera cacciatore,


più bella fera or t'ha ne' lacci involto;
dianzi eri tuo, or se' fatto d'Amore,
59 sei or legato, e dianzi eri disciolto.
Dov'è tuo libertà, dov'è 'l tuo core?
Amore e una donna te l'ha tolto.
Ahi, come poco a sé creder uom degge!
ch'a virtute e fortuna Amor pon legge".
Angelo Poliziano, Stanze per la giostra

La notte che le cose ci nasconde


tornava ombrata di stellato ammanto,
e l'usignuol sotto l'amate fronde
60 cantando ripetea l'antico pianto,
ma sola a' sua lamenti Ecco risponde,
ch'ogni altro augel quetato avea già 'l canto;
dalla chimmeria valle uscian le torme
de' Sogni negri con diverse forme.
 Ludovico Ariosto, Orlando furioso (XXIII, 102-136)

Volgendosi ivi intorno, vide scritti


molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
102 fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.

Angelica e Medor con cento nodi


legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
103 coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Poi dice: – Conosco io pur queste note:


di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
104 forse ch’a me questo cognome mette. –
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

Ma sempre più raccende e più rinuova,


quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
105 in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Aveano in su l’entrata il luogo adorno


coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
106 stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

Il mesto conte a piè quivi discese;


e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
107 Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

– Liete piante, verdi erbe, limpide acque,


spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
108 di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:

e di pregare ogni signore amante,


e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
109 che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Era scritto in arabico, che ‘l conte


intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
110 prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto


quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
111 e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Fu allora per uscir del sentimento


sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
112 che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ‘l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

L’impetuosa doglia entro rimase,


che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
113 che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come


possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
114 de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pèra;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.

In così poca, in così debol speme


sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
115 dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Languido smonta, e lascia Brigliadoro


a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
116 gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.

Quanto più cerca ritrovar quiete,


tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
117 ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Poco gli giova usar fraude a se stesso;


che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
118 da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:

come esso a prieghi d’Angelica bella


portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
119 curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

e sanza aver rispetto ch’ella fusse


figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
120 a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ‘l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.

Questa conclusion fu la secure


che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
121 si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Poi ch’allargare il freno al dolor puote


(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
122 sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.

In tanto aspro travaglio gli soccorre


che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
123 col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Quel letto, quella casa, quel pastore


immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
124 che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.

Di pianger mai, mai di gridar non resta;


né la notte né ‘l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
125 sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

– Queste non son più lacrime, che fuore


stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
126 finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ‘l dolore e la vita all’ore estreme.

Questi ch’indizio fan del mio tormento,


sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
127 che ‘l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ‘n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Non son, non sono io quel che paio in viso:


quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
128 sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza. –

Pel bosco errò tutta la notte il conte;


e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
129 dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo


a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
130 in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle


non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
131 che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,


e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
132 che ‘l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.

Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,


lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
133 avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

In tanta rabbia, in tanto furor venne,


che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
134 che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:

e svelse dopo il primo altri parecchi,


come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
135 di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso

I pastor che sentito hanno il fracasso,


lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
136 vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.

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