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PREAMBOLO. LA PALLA AL BALZO.

Nel Preambolo, De Cristofaro vuole spiegare l’immagine che dà il titolo al suo libro, provando a inseguire le
evoluzioni, i rilanci, le carambole, le ricadute lungo i piani del nostro immaginario. La palla assume almeno
due significati:

1. Giustifica l’eterogeneità interna del libro. Prendere la palla al balzo è anche una sfida e una
possibilità di mettersi in gioco in diversi contesti. Il minimo comune multiplo di questi studi è
l’immaginario: insieme di miti, discorsi, immagini che si addensano in determinate epoche, aree del
pianeta, declinabile infinitamente nelle epoche;
2. La palla viene considerata anche nella sua materialità di oggetto: viene proposto un percorso
attraverso varie opere letterarie e cinematografiche che hanno giocato con questa immagine. I due
estremi sono rappresentati da due opere: Blow-up film del 1966 diretto da Michelangelo Antonioni
e Underworld, romanzo pubblicato nel 1997 dello scrittore statunitense Don DeLillo.

BLOW-UP: è definito da De Cristofaro come un’inchiesta sullo statuto della realtà. Il film, infatti, gioca su
realtà, rappresentazione, finzione, limite tra vero e falso. A partire da scatti fotografici, ci saranno
coincidenze che portano il protagonista a scoprire un delitto probabilmente realizzato dagli stessi
personaggi fotografati, ma la verità resta in sospeso. La fotografia, occhio artificiale, è in alcuni casi
maggiormente in grado di svelare la realtà rispetto all’occhio nudo.

Interessante è soprattutto la scena finale: si svolge in un campo da tennis, nello stesso parco in cui il
fotografo ha scattato le fotografie. Qui troviamo gli stessi mimi che si vedono a inizio film che inscenano
una partita senza pallina. Pian piano il fotografo, all’inizio stupito o infastidito, esterno al mondo, viene
coinvolto nella partita perché la pallina esce dal campo e cade sul prato. Poco prima della sua entrata in
gioco iniziamo anche a sentire il rumore della pallina. La pallina c’è e non c’è, e nel lanciarla nell’aria il
fotografo sposa la logica della finzione invece che quella della documentazione.

UNDERWORLD: si tratta di un romanzo famosissimo, eccentrico, tortuoso, massimalista. La vicenda si apre


il 3 ottobre 1951, giorno in cui un giovane di colore riesce a entrare di soppiatto nello stadio dove si sta
giocando la mitica partita di baseball tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers. Nel nono inning della
partita, il battitore Bobby Thomson effettua un memorabile fuoricampo, regalando la vittoria ai Gaints, che
conquistano il campionato. Nella realtà non si sa che fine ha fatto la pallina, ma nella finzione narrativa il
giovane riesce a impadronirsi del cimelio. La palla passa, poi, di mano in mano, e fa da fil rouge per la
costruzione di un gigantesco e anacronico affresco dell’America dall’inizio della guerra fino agli anni
Novanta. Così, la pallina dall'immane portato simbolico e anche un oggetto capace di donare piacere tattile,
quasi feticistico e soprattutto di recuperare tracce mnestiche, catalizzando corrispondenze fra passato e
presente. La pallina è un concentrato di storia, un elemento che rapprende proprio nella sua materia, della
sua cosalità, stratificazioni temporali di un vissuto di cui porta addirittura lividi. La palla, come afferma
fusillo, è un oggetto che si carica di significati simbolici, diventando il perno intorno a cui ruota tutto
l'affresco totalizzante ideato da DeLillo.

Interessante, infine, nel preambolo è l'immagine della bolla: viene introdotta da De Cristofaro tramite uno
studio di Peter Sloterdijk, Il quale ha elaborato un'originale teoria. La sua trilogia Sfere propone un sistema
dettato dall'aspirazione a una dettagliata critica della ragione sferica. la tesi di fondo è che i rapporti fra
persone persona non siano lineari ma circolari: se A parla con B, non esclude l'ambiente che lo circonda ma
lo comprende e non può chiamarsene fuori. questo perché tutti gli esseri umani hanno condiviso
l'esperienza fetale, in cui instaurano un rapporto biunivoco fra se stessi e la madre-ambiente che li
comprende e li protegge, come appunto in una bolla. ogni rapporto interpersonale e il tentativo di ricreare
questa stessa bolla di placenta. Questa immagine richiama a quella in cui ci illudiamo di respirare di pensare
e di sentire e di dialogare col mondo quando quotidianamente sui social ci consoliamo dei like visualizzati
sulle nostre bacheche, persuasi di scrivere storie per tutta l'umanità; invece non si da più spazio per la
communitas; tutto è desertificato, tutto e incomunicabilità, reciproca refrattarietà tra la palla che è il
mondo e la bolla che avvolge il personaggio.

PESCI SOPRACQUA. WALLACE, WARHOL E LA NAVE DELL’AMORE.

Nel 1997 esce sotto forma di libro, dopo la pubblicazione sulle colonne dell’Harper’s Magazine, lo scritto
saggistico-narrativo, anche considerato reportage di viaggio, di Wallace, intitolato A Supposedly Fun Thing
I’ll Never Do Again. Lo scritto si presenta come una farsa postmoderna, dove ogni viaggiatore si trasforma,
insensibilmente, in turista dai comportamenti identici a quelli che terrebbe in un villaggio-vacanze. Così,
coloro che credono di cavalcare la cresta dell’onda del benessere e della civiltà si rivelano invece soggetti a
una sciocchezza senza senso.

L’opera racconta un viaggio completamente statico, quello della crociera, in cui la nave rappresenta un
vero e proprio microcosmo: è uno spazio aperto che include persone diverse, ma allo stesso tempo, è uno
spazio chiuso, che ingloba la diversità al proprio interno per farne un tempo collettivo. Vi sono poche
possibilità di scelta, perché tutto è già pianificato e orientato al divertimento. Questo elemento è
importante nella riflessione di Wallace: nella società americana l’intrattenimento era visto come una specie
di imperativo e, in alcuni casi, passa per una competizione sociale. Nella nave Nadir si realizza un lento
allontanamento del soggetto dalla propria volontà individuale, nella forma del relax (basti pensare al fatto
che nessuno ammetta di star intraprendendo il viaggio per puro divertimento, ma per bisogno individuale).

Interessante è la capacità di Wallace di osservare l’umanità che incontra, a partire dal molo, dove l’attesa
permette a Wallace di ingrandire i dettagli dei suoi compagni di viaggio con uno straordinario gusto per il
grottesco.

Wallace, però, non ci presenta un mondo alla rovescia, un’antifrasi della realtà: egli piuttosto costruisce
uno specchio deformante, un’anamorfosi esasperata e massimalista.

È importante sottolineare la coerenza del disegno wallaciano che è comprensibile se si fa riferimento a un


discorso tenuto, dallo stesso scrittore, nel 2005 al Kenyon College in occasione della consegna dei diplomi
di laurea. Il discorso si intitolava This Is Water e rivoluzionava dall’interno il genere codificato del discorso
alla futura classe dirigente, proponendo un manifesto di cosa vuol dire oggi avere una formazione
umanistica.

Centrale nella relazione è una storiella in cui Wallace racconta di due pesci che incontrano, mentre stanno
nuotando, un pesce più ansiano. Questi chiede ai primi: <<Com’è l’acqua?>>; essi, dopo aver nuotato
ancora un po’, si guardano, finché uno dei due interrogativamente esclama:<<Cosa diavolo è l’acqua?>>.

Il relatore spiega subito il senso di quel dialogo:

le realtà più ovvie sono spesso le più difficili da vedere, perché ci siamo immersi sin dalla nostra nascita. Il
ruolo del sapere umanistico è quello di uscire da questi luoghi comuni e di far capire l’importanza del non
dare niente per scontato, del guardare le cose secondo una prospettiva nuova. È importante non tanto
uscire dagli schemi del conformismo, ma viverlo con consapevolezza.

Wallace vuole esaminare uno stereotipo degli studi umanistici: quello secondo il quale l’educazione
umanistica “insegna a pensare”. Vuole convincere che questo stereotipo non è offensivo, perché non
riguarda la capacità di pensare, ma la scelta di cosa pensare. Nulla è ovvio, tutto è frutto di una messa in
discussione.
Da questo discorso e dal saggio citato precedentemente si può comprendere il senso che Wallace
attribuisce all’umorismo: il reportage turistico appare animato da uno smagato sentimento del contrario e
da una strategia umoristica che guarda agli uomini con una sorta di realismo creaturale.

De Cristofaro individua tre funzioni dell’umorismo che corrispondono a tre tipologie di umorismo
wallaciano:

1. Funzione-Sterne: l’umorismo che gioca, a livello micro e macro, col dispositivo formale, porta a un
livello alto di frammentazione del racconto in unità narrative discrete;
2. Funzione-Rabelais: egli era un comito dell’accumulo, del grottesco, del basso corporeo.
3. Funzione-Pickwick (romanzo di Dickens): un umorismo realistico, che ha a che fare con delle
maschere e con dei tipi ricorrenti.

Un elemento importante è quello dell’inquietudine di fondo: non bisogna pensare che l’humor, la
leggerezza che si respira nelle pagine, sia spensierata. La spensieratezza non esiste, ma ci sono una serie di
strappi, una serie di momenti autoriflessivi dell’autore sulla propria consapevolezza dello stare al mondo.

Infatti, non possiamo dire che le funzioni del comico che si sono illustrate esauriscano davvero di ironia chi
governa supremamente il testo di Wallace. A prevalere è una lallating function dell’umorismo. Cio che
rende Irripetibile il reportage della crociera e proprio il suo porsi nel limine tra un comico televisivo e
un'ironia <<exformative>>, ossia che opera una letteralizzazione di verità che siam soliti considerare
metaforiche. Sotto il divertimento senza posa indotto dalle espressioni buffe, dai vorticosi elenchi, dalle
gambe, scorre in realtà una via maestra della significazione, un'anima, un'ideologia.

Romanzo massimalista (Infinite Gest): viene definito da Ercolino in un suo saggio seguendo 10 costanti

1. La lunghezza: manifesto poetico del gusto per l’eccesso (basti pensare all’eccessiva ricchezza degli
anni 90, in cui la società Americana sembra provare a spingersi fino al limite) il romanzo è lungo
più di 1000 pagine ed è caratterizzato, innovativamente, dalla presenza di numerose note narrative
a piè di pagina, che, al loro volta, possono generarne di altre. Ci troviamo di fronte a una non
linearità e a un’articolazione del testo in plot e sub-plot;
2. Il modo enciclopedico: gusto per l’accumulo di informazione;
3. Coralità dissonante: i romanzi prevedono la narrazione da più punti di vista che non si armonizzano
tra loro;
4. Esuberanza diegetica: non ci sono limiti alla voglia di raccontare;
5. Compiutezza: l’ambizione alla totalità. L’idea di voler dare una sorte di visione totale (il mondo
dall’origine alla fine) tipica dell’epica.
6. Onniscienza narratoriale: il narratore è capace di leggere nei pensieri dei personaggi;
7. Immaginazione paranoica: aspetto maniacale, malato, angosciato anche rispetto alle scelte
minime;
8. Intersemioticità: contaminazione tra linguaggiio letterario, televisivo etc;
9. Impegno etico: con una profonda fiducia nell’umanità;
10. Realismo ibrido.

SCRITTURA DEL FUOCO. CHATWIN MITOLOGO E MITOMANE.

In Patagonia di Bruce Chatwin viene considerato “il libro simbolo di tutti i viaggi”, è, infatti, diventato un
mito per la letteratura contemporanea, dando vita a un vero e proprio genere: quello della letteratura di
viaggio.
Chatwin rappresenta un anello di congiunzione tra la tradizione, legata al modello di Lord Byron (nobile
inglese distintosi per ricchissimi resoconti di viaggio) e tutto ciò che viene dopo Chatwin. Il suo esempio,
infatti, è stato fondamentale per numerose opere e autori a lui successivi.

Prima di approcciarci a un’opera come quella chatwinniana, dobbiamo sottolineare alcuni importanti
concetti preliminari:

 Quando parliamo di letteratura di viaggio, pensiamo istintivamente alla preminenza della


dimensione dello spazio all’interno della narrazione. Tuttavia, spazio e tempo non possono essere
mai scisse del tutto. Nelle pagine di In Patagonia si scopre che Chatwin è molto più interessato al
tempo che allo spazio, non sono tanto i paesaggi che ci vengono descritti, quanto le persone,
musei, città, incontri che si producono lungo questo cammino.
Nel libro vi è una forte attenzione per la stratificazione: ciò che interessa non è quello che avviene
nelle ampie superfici, ma interessa capire come le diverse civiltà, le diverse tradizioni si sono
stratificate nel tempo.
 Fondamentale e esemplare è la forma del libro: in Cronaca di una morte annunciata, ci siamo
trovati di fronte a una forma breve, caratterizzata per la sua tenzione telica. Qui, invece, il genere
cambia completamente: la narrazione è completamente priva di telos, non c’è una trama che porta
da A a B attraverso degli ostacoli, non ci sono personaggi che strutturano il libro. L’opera non può
essere né iscritta nella forma del racconto breve, né in quella del romanzo. in alcuni momenti
sembra che la forma dell’opera sia saggistica: ci sono una serie di informazioni sulle località
attraversate. Proprio il fatto che si diano delle informazioni sulla storia, la toponomastica, gli aspetti
geografici, fa sì che il libro venga inserito nel settore di viaggio delle librerie. In Patagonia, in realtà,
non è assolutamente assimilabile a una guida, anche perché non orienta, ma disorienta. Come
sottolinea De Cristofaro, il libro è una narrazione neopicaresca, priva di andamento lineare e di
pressione telica: non vi è né un prima né un dopo, ma ci troviamo di fronte a un patchwork di
situazioni e storie diverse senza un centro effettivo.
 In Patagonia è un racconto di viaggio. Parlare di un racconto di viaggio fa tendenzialmente pensare
a una pulsione vitalistica, ottimistica, tuttavia Lévi-Strauss sottolinea un’inquietudine sottesa al
testo che nasce dalla consapevolezza di star viaggiando e di star raccontando un viaggio per
provare a fermare il tempo.
 Incrocio tra i generi e tra i saperi: Chatwin, nella sua opera, ci parla di un soggetto gettato nel
tempo, dove fondamentale non è solo la collocazione geografica, ma anche storica. Wingfried
Georg Sebald sottolinea come i libri dello scrittore inglese siano un insieme di studi antropologici e
mitologici, racconti d’avventura, antologie di spigolature, libri intorno al significato dei sogni,
romanzi regionali, esempi di esoticismo…

Analizzando l’opera, De Cristofaro si sofferma prima di tutto su quello che è conosciuto come <<paradosso
patagonico>>. Nel 1985 Bruce Chatwin e Paul Theroux furono invitati a tenere un dialogo a freddo sulla
terra lontana nella quale, dieci anni prima, avevano compiuto i loro viaggi. Da questo dialogo nacque un
libro, primo intitolato Patagonia Revisited e poi ripubblicato con il nuovo titolo Nowhere Is a Place. Gia da
questo titolo, ma anche dalle prime pagine del libretto, il lettore può familiarizzare con il complesso
patagonico: Theroux racconta che, quando finalmente arrivò in Patagonia, ebbe la sensazione di essere
arrivato in un non-luogo. La cosa sorprendente era che egli percepiva di trovarsi ancora nel mondo. Il
paesaggio aveva un aspetto desolato, eppure i suoi tratti erano leggibili e il viaggiatore viveva in esso. È per
questo che Theroux pensò: Un non-luogo è un luogo. In questo consiste il paradosso patagonico: in
Patagonia non vi è un campo intermedio, si deve scegliere fra il minuscolo e l’immenso, fra l’enormità del
deserto e la vista di un piccolissimo fiore.

Il modo in cui Theroux utilizza la nozione nowhere è poco perspicuo, ma per comprenderlo, De Cristofaro
cita gli studi di Marc Augé, il quale contrappone paradigmaticamente il non-luogo al luogo antropologico,
ossia a qualsiasi tipo di spazio che sia identitario, relazionale e storico. Il non-luogo è quindi quella struttura
o infrastruttura dove vi è un passaggio continuo e accelerato di persone e beni, dove milioni di soggetti si
incrociano senza però intrecciare relazioni. Il non-luogo, è quindi tutto il contrario della patagonica <<culla
dell’essere>>.

L’incipit di In Patagonia

Il libro non si apre con una scena tipica del genere di viaggio, ma con una situazione domestica e
estremamente intima: un racconto d’infanzia del Bruce bambino. La scena descrive la stanza da pranzo
della nonna dove si trovava un armadietto chiuso al cui interno vi era un pezzo di pelle di brontosauro
piccolo, ma spesso e coriaceo.

In pochissime pagine ci viene raccontata la storia di questo pezzo di pelle, riscoperto grazie all’apertura
dell’armadio -che, secondo Gaston Bachelard (La poetica dello spazio), rappresenta metonimicamente la
fuoriuscita dal sé per scoprire qualcosa di diverso e la possibilità di crearsi dei miti con i quali illuminare il
proprio percorso di crescita (il pezzo di pelle diventerà un mito per Chatwin)- , fino alla perdita dell’oggetto:
secondo i racconti della sua famiglia, era stato Charley Milward il Marinaio, cugino della nonna ad aver
trovato e macellato il bestione, ma, ben presto, il ragazzino si renderà conto che quel simbolico e mitico
oggetto non apparteneva affatto a un brontosauro, ma era semplice pelle di milodonte o bradipo gigante.

Il pezzo di pelle è il primo elemento che ricollega il bambino inglese alla Patagonia tanto lontana, ma
nelle pagine successive, il legame con quella terra diventerà ancora più stretto.

Il ragazzo racconta il terrore della guerra fredda, e proprio mentre Stalin, il <<Cannibale del Cremlino>>
terrorizzava tutti, nacque nello scrittore la passione per la geografia.

La Patagonia, quindi, assumerà un significato ancora maggiore: diventerà il luogo di salvezza in cui rifugiarsi
per scappare all’orrore della guerra scoppiata nell’emisfero nord.

In questa pagina esemplare animali mitici, ordigni bellici, belle arti invadono senza soluzione di continuità la
fantasia del fanciullo, così che l’inizio del mondo (evidente nella rievocazione dell’Arca di Noè) può
coincidere con la sua fine (la guerra, il terrore e la perdita del pezzo di pelle).

L’uomo e le cose

Prima di dedicarsi alla sua attività come scrittore, Chatwin lavorò come battitore d’aste ed è forse proprio
questa esperienza ad aver plasmato il suo rapporto con gli oggetti. In un discorso tenuto nel 1973 durante
un’asta d’arte di beneficenza della Croce Rossa, e poi tradotto in Anatomia dell’irrequietezza, lo scrittore
aveva provato ad interrogare la relazione che l’uomo intrattiene con le cose.

La civiltà è talmente protesa verso gli oggetti da rendersene prigioniera: gli oggetti assoggettano il soggetto.
Chatwin, che dovrà lottare fino alla fine contro questo angelo, si riferisce a un particolare fattispecie di
effetti personali: i <<symbols or emotional anchors>>, quegli oggetti che non hanno alcuna utilità, ma a cui
gli individui tendono a legarsi maggiormente (proprio come il pezzo di pelle).

Chatwin parla anche di collezionismo, chiamando in causa la moralità delle cose: il collezionista è colui che
prova sentimenti delicatissimi per le cose e ha una sensibilità glaciale nei confronti delle persone. Il
collezionista si crea un sistema morale in cui esclude gli esseri umani, spostando la sensibilità attribuita alle
persone sulle cose.

I <<feticci>>, intesi come oggetti transizionali, sono fondamentali nell’opera di Chatwin: quegli elementi
materiali tramite i quali il bambino plasma e puntella lo spazio circostante per orientarsi e per tracciare un
territorio ideale.
Il collezionismo si unisce al citazionismo: sono tanti gli autori citati in In Patagonia da Dante a Shakespeare,
da Coleridge a Darwin.

Quindi, se è fuor di dubbio che In Patagonia non sia un’<<opera mondo>>, tuttavia proprio la terra cui è
dedicato appare come un <<museo immaginario>> di forme, miti, modelli letterari.

Questo discorso deve essere necessariamente arricchito da un ulteriore elemento fondamentale nella
poetica del nostro scrittore: l’interesse per il meraviglioso.

Nel caso di Chatwin bisogna parlare di miraculous, descritto perfettamente da Paola Di Girolamo: non ci
troviamo di fronte alla ricerca dello spettacolare, ma al desiderio di mettere su carta il meraviglioso che
viene fornito dalla realtà stessa, con il fine di appurare credenze, storie già lette o udite.

Quando affrontiamo la lettura di In Patagonia, possiamo pensare di star attraversando un vero e proprio
museo, entrando così nell’immaginario museale.

In questo senso è interessante la descrizione di un museo fornita nell’opera: Chatwin descrive armadilli
come carri armati, squame come crisantemi giapponesi, un lacerto di pelle come un croccante di arachidi,
lo scrittore non può fare a meno di operare accostamenti incongrui. Egli veste i panni di un bricoleur,
facendosi soccorrere dall’antico espediente retorico della similitudine declinato secondo una fantasia che
ricorda la libera immaginazione di un bambino.

È così che, a partire da un brano presenta nella sola prima stesura di In Patagonia, che possiamo pensare
che il fine e lo scopo dell’opera sia quello di ritrovare il pezzo di brontosauro.

In questa pagina, infatti, Chatwin descrive un suo museo, in cui mancava solo il pezzo forte: la pelle di
brontosauro, sequestrato dalla mamma e dai parenti del ragazzo dopo la morte della nonna.

Questa tensione al ritrovamento è il basso continuo dell’intera interpretazione patagonica. La nostalgia è il


sentimento da cui scaturiscono il collezionismo e il citazionismo e la nostalgia è il sentimento che spinge
Chatwin nella sua ricerca, destinata, come leggiamo nel capitolo 93, alla delusione. Ciò che ne sortisce è
una sorta di frustrante metanostalgia (o <<nostalgia della nostalgia>>), incapace di regalare effusive
consolazioni o catarsi gloriose.

VENERE DEGLI STRACCI. EDUARDO, LA BORGHESIA, IL DONO.

Il capitolo dedicato a Eduardo De Filippo, drammaturgo, attore, regista, sceneggiatore e poeta italiano, si
apre con la descrizione del metodo su cui si appoggiava la battaglia per la nuova drammaturgia proposta da
Bertolt Brecht, soprattutto contro un sistema teatrale sussidiato dal denaro statale e dalle imprese
commerciali italiane. Brecht si appresta a denunciare la dolorosa spaccatura fra scena e platea intervenuta
nel teatro contemporaneo. Egli ritiene che la scena del suo tempo sia incapace di raccontare la realtà dei
rapporti tra gli uomini, di farsene lavacro purificatore o specchio conoscitivo. Per spiegare cosa avveniva nel
teatro del tempo, Brecht spiega che, in realtà, allo spettatore importa di scambiare un mondo
contraddittorio contro un mondo armonioso. La rivoluzione brechtiana si scaglia proprio contro questo
teatro dell’irriflessione e dello stupore, della regressione e della contraffazione. Il teatro sognato da Brecht
avrebbe invece assunto il mandato di una conoscenza critica del predominio borghese: sarebbe stato
capace di ridisegnare la società. È in questo scenario che, secondo De Cristofaro, si colloca la figura di
Eduardo.

L’opera a cui De Cristofaro fa riferimento per sostenere la sua tesi, risale al 1942 ed è intitolata Io, l’erede:
La scena iniziale vede una sorta di consiglio di famiglia presieduto dall'avvocato Amedeo Selciano riunitosi
per commemorare la morte di Prospero Ribera, vissuto per trentasette anni nella casa come ospite del
generoso padre dell'avvocato, il vecchio Selciano, da sempre benefattore dei diseredati.
Prospero Ribera aveva un figlio, Ludovico, il quale, come suo legittimo erede pretende ora, così come era
stato per il padre, di essere accolto dalla facoltosa famiglia Selciano. Di fronte al rifiuto dei Selciano
Ludovico prima li accusa di aver reso il padre, con la loro ostentata magnanimità, un parassita, e poi riesce a
convincerli, soprattutto perché darà loro la possibilità di continuare ad esercitare quell'opera di benefattori
che dà tante soddisfazioni al loro ipocrita amor proprio, facendoli sentire in pace con la loro coscienza e
dando sfogo a quel desiderio di possesso che un uomo ha sopra gli altri uomini.

Egli però sarà, come il padre, oggetto di scherno e derisioni, quasi fosse un buffone di corte, ma in cambio
vivrà alle spalle della famiglia e in più godrà dei favori di una delle donne dei Selciano, così come era già
accaduto per il defunto Prospero.

Bice viene convinta da Ludovico a pretendere di più dalla famiglia Selciano, perché la loro non è carità
cristiana ma generosità autocelebrativa. Ciò determina la cacciata di casa della giovane, che riceve
l'incoraggiamento di Ludovico a costruirsi la propria strada in autonomia, mentre Ludovico resterà in quella
casa a sopportarne le umiliazioni, perché quella è l'eredità del padre.

Prima di giungere a questo testo, Eduardo ne aveva sfiorato più volte le tematiche. Dobbiamo andare a
dieci anni prima, quando il commediografo, pur trovandosi alle prese con una pratica teatrale per lo più
farsesca, legata alla tradizione napoletana, comincia ad avvertire il bisogno di coltivare un originale e
impegnato lavoro di ricerca. Sono anni difficili sia per la sua salute (contrae il tifo), sia per i rapporti
all’interno della sua famiglia. Eppure, proprio in collaborazione con Peppino e Titina, Eduardo si dedica
all’opera intitolata ‘O padron songh’io : commedia feroce e lucidissima, il cui antefatto è la morte del
padrone e la conseguente perdita, per i suoi servitori, di quel piccolo paradiso di piccole rendite e collaudati
vantaggi di cui avevano goduto. Protagonista è il maggiordomo Tita, che è nominato a sorpresa erede
universale e diviene subito oggetto di invidie, sospetti e ostilità da parte di coloro che furono suoi pari: ben
presto decide tatticamente di abdicare, tornando alle proprie funzioni di domestico. Ma i nuovi padroni
sono in perpetuo disaccordo, così da restituire ogni decisione a Tita, che diverrà infine il padrone.

Un’altra opera interessante, per il nostro discorso, è intitolata L’abito nuovo, ispirata all’omonima novella
pirandelliana. Ancora una volta centrare è un’eredità, quella che Michele Crispucci, oscuro scrivano
abbandonato dalla moglie ricca, si rassegna ad accettare dopo la tragica morte di lei. Quei soldi, saranno
ancora una colta micidiali: rivedendo nella figlia la madre, il protagonista morirà stroncato dal dolore.

Queste tre opere permettono a Eduardo di ragionare su un tema particolarmente interessante: il carattere
insieme fastoso e perverso di ogni dono. Un dono è anche un veleno e il lascito di un’eredità non costituisce
una forma di beneficio, né un collante sociale.

Questi spettacoli parlano di un’inquietudine che va oltre il piano culturale e morfologico. Essa è anche
ideologica: perché i testi affrontano la difficile relazione tra servitù e dominio, tra ricchezza materiale e
purezza spirituale. Le opere citate, inoltre, rispondono perfettamente alla rivoluzione teatrale tanto
auspicata da Brecht. Infatti, soprattutto Io, l’erede, è una tragicommedia sulla beneficenza interessata, sulla
trasformazione dell’individuo in capitale umano, sulla cattiveria del dono e, pur imperniato sulla cellula
familiare, in fondo si occupa, per via allegorica, di uno Stato assistenziale e paternalista, incapace di
progettare e d’indurre e promuovere uno sviluppo e un’autodeterminazione dei singoli soggetti.
PERCORSO “LA COLPA”.

Cronaca di una morte annunciata- Gabriel García Márquez e Francesco Rosi.

IL RACCONTO

TRAMA: Cronaca di una morte annunciata è una ricostruzione figurale, composta nel 1981, di un reale fatto
di cronaca di cui era stato vittima, nel 1951, un amico dello scrittore colombiano nella cittadina di Sucre
(nell’opera chiamato Santiago Nasar). Un delitto d’onore eseguito dai fratelli d’una giovane donna del
villaggio (nell’opera chiamata Angela Vicario), andata in sposa a un forestiero (Bayardo San Romàn) che,
scopertala non più vergine la prima notte di nozze, l’aveva ripudiata. Interrogata con insistenza da parte
della famiglia disonorata, la ragazza aveva indicato il colpevole (<<il mio autore>>) nel bel Santiago e lo
aveva condannato così a un delitto al sole, sotto gli occhi di tutti i concittadini, nella piazza del paese
(Manaure nel racconto).

Cenni su Gabriel García Márquez: nato ad Aracataca, in Colombia nel 1927 e morto a Città del Messico nel
2014, ricevette il premio Nobel per la letteratura nel 1982, per la sua capacità di scrivere romanzi e racconti
nei quali il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto che riflette la vita e i
conflitti di un continente. Márquez opera negli anni ’60-’70, anni dello straordinario boom sudamericano: le
sue opere sono espressione di un continente che, dal punto di vista politico e geografico, on esisteva, non
era unito, ma in cui vi era un forte sentimento di comunità. Come afferma, infatti, Gerard Martin in Il
romanzo di un continente: l’America Latina, il punto di forza della letteratura latinoamericana sta proprio in
questo: non è l’espressione unitaria di una regione a sua volta più o meno unitaria, ma, al contrario, esiste
l’America latina proprio perché esiste questa letteratura unitaria che sovradetermina le ventuno letteratura
nazionali e dà senso, forma e unità al costrutto geografico, storico e culturale che viene chiamato America
Latina.

L’opera di Márquez va inserita nel cosiddetto REALISMO MAGICO: questa espressione è di derivazione
extraletteraria, fu coniata nel 1925 da un critico d’arte tedesco di nome Franz Roh, successivamente fu
ripresa da Carpentier (nel 1949) nell’introduzione a Il regno di questo mondo, in una forma e in un
significato del tutto nuovo real maravilloso

L’espressione indica la mescolanza tra tutto ciò che è reale e una serie di eventi che possono essere
considerati ingiustificabili e non spiegati, ma che entrano in maniera del tutto equilibrata all’interno del
racconto (a differenza dei fantasy, ci troviamo in un romanzo realistico, ambientato in una città e in un
tempo specifico, l’universo è quello realistico, anche con basi e riferimenti storici, ma ai personaggi
accadono eventi inspiegabili come presagi, profezie, anticipazioni, eventi miracolosi).

Il realismo magico spesso è stato considerato come uno stile, ma, se guardiamo con gli occhi degli scrittori
sudamericani (come anche con gli occhi di García Márquez che nega questa etichetta dal punto di vista
stilistico), la questione è diversa: non è magico il modo in cui si raccontano le vicende dell’America latina,
ma è quest’ultima la sede della realtà ontologicamente meravigliosa.

Come afferma Moretti in Opere mondo, bisogna parlare di realtà meravigliosa, non di realismo magico.

Il racconto è mosso da un lato dall’intento di ricostruire esattamente la dinamica dei fatti accaduti e di
portare alla luce l’ingranaggio di coincidenze funeste che hanno tessuto una trappola impenetrabile attorno
alla vittima; dall’altro, però, il racconto è ritmato dal sorgere, o meglio dal riemergere a posteriori, di una
serie di interrogativi assillanti, destinati a restare il più delle volte drammaticamente irrisolti.

Caratteristiche fondamentali da tenere in mente:

 Il tempo curvo del romanzo l’obiettivo del racconto è la scoperta della verità, ma le cose non
vengono raccontate dall’inizio alla fine o viceversa, bensì vi è un continuo ritorno di futuro-passato.
Segre e Moretti sottolineano che, mente in Europa il romanzo era finito in labirinti teorici e
linguistici che ne avevano mortificato la volontà di rappresentazione, García Márquez aveva
dimostrato che il romanzo aveva ancora potenzialità impensate, dando vita a un’opera
d’avanguardia.
In Cronaca è evidente la struttura di cellula narrativa elementare di CAS secondo Vargas Llosa,
segnale di grandezza epica dell’opera secondo Moretti. Questa struttura è caratterizzata da 3
elementi fondamentali che si ripetono come in un ciclo: 1. L’anticipazione dell’evento futuro
(prolessi); 2. Il ritorno al passato (retrospezione); 3. La ricostruzione lineare degli eventi fino ad
arrivare al futuro inizialmente annunciato.
 Il titolo c’è da chiedersi: “è possibile raccontare in modo avvincente una storia di cui tutti, già
leggendo il titolo o le prime righe del racconto, conoscono il finale?
 Ricerca della verità è l’obiettivo fondamentale dell’opera, ma la verità non sta nel comprendere
chi è l’assassino o quale sia stato il movente, quanto piuttosto capire il perché una morte tanto
annunciata, non sia stata evitata.
- Ricostruzione di un delitto annunciato, forse toppo annunciato per essere realmente evitato;
- Obiettivo di portare alla luce l’ingranaggio di coincidenze funeste che hanno tessuto una
trappola impenetrabile attorno alla vittima;
- Riemersione a posteriori di interrogativi assillanti, destinati a restare irrisolti;
- Parole chiave: coincidenza, contingenza, destino, fatalità, interpretazione, presagio,
responsabilità, verità.
 Il delitto d’onore è accettabile far passare il esto dei gemelli Vicario come un delitto d’onore (che
tra l’altro era accettato dalla legge)? La risposta è no, principalmente per due motivi:
1. Agiscono forze che sovrastano la singola volontà umana e sembrano avere a che fare con la
fatalità;
2. Appare allo scrittore e al regista problematico: è giusto compiere un’azione del genere davanti
alla folla in piazza che non fa nulla per impedire l’omicidio?
 I numerosi elementi e oggetti simbolici:
- L’arrivo del vescovo: come se fungesse, nella dinamica narrativa, da grande distrazione di
massa che porta al mancato impedimento dell’uccisione. La popolazione era impegnata per
questo grande impegno popolare. In una realtà come quella dell’America Latina, la chiesa
rappresenta una forma di potere ambigua.
- La porta fatale: perché la porta che dava sulla piazza e che era sempre aperta, era stata chiusa
proprio nel momento in cui Nasar aveva bisogno di fuggire?
- Il biglietto non visto.

Questo concatenarsi di eventi ambigui e che sembrano andare oltre alla coscienza umana, lascia tutti
perplessi: lo scrittore, il lettore, ma anche gli stessi personaggi.

 IL GIUDICE: non riesce a mantenersi sulla restituzione oggettiva degli avvenimenti, ma apre
continuamente dei dubbi, molte volte incorre in divagazioni liriche contrarie al rigore del suo
mestiere.
 I CONCITTADINI: vedi pagina 85

Uno sguardo strettamente letterario:

Dal punto di vista formale, l’opera è uno “sconcertante ibrido”, che sembra oscillare tra generi diversi,
schematizzabili in 4 punti:

1. Il Reportage: come racconta lo stesso Márquez in Vivere per raccontarla, la sua prima reazione di
fronte all’uccisione dell’amico, fu quella del reporter. Decise di andare a Sucre per scrivere della
morte del suo compagno, iniziò a prendere appunti ascoltando testimoni, finché, però, la madre
non lo ha fermato. Il divieto materno consisteva nell’evitare di scrivere (o almeno di pubblicare) il
reportage finche donna Julieta Cimento, padre di Cayetano fosse ancora in vita;
2. La tragedia: il racconto non solo sembra rispettare perfettamente le tre unità aristoteliche di
tempo, luogo e azione, ma è anche in grado di mettere in scena e conflitto ma esaminato tra l'uomo
e il proprio destino. Della tragedia, il racconto conserva certamente i ritmo e l'intensità e riproduce
virgola in modo magistrale, quella forza gravitazionale che nel teatro greco muoveva
inesorabilmente gli eventi. Come nel teatro greco, la vicenda di Sucre si muove su un doppio piano.
Da un lato la sfera individuale in cui l’eroe tragico si ritrova solo a fare i conti con il proprio destino
e con la propria incapacità di interpretare i tuoi presagi e segnali. dall'altro la dimensione collettiva
della tragedia: l'eroe muore in piazza, sotto gli occhi di un coro che non può prendere parte attiva
alla vicenda ma che allo stesso tempo non può esimersi dal commentare. Tuttavia vi è un elemento
che impedisce di portare oltre il gioco delle analogie: a distinguere definitivamente la struttura di
dalla forma tragica e la presenza mediatrice del narratore che filtra le vicende attraverso il suo
punto di vista postumo e onnisciente.
3. Romanzo poliziesco: García Márquez si era riso., con la maturità virgola che, rispetto al problema
della verità, il romanzo potenzialità del reportage e che non vi sarebbe stata forma più adatta di
quella narrativa a rendere sulla pagina quella dinamica complessa di gesti simultanei e atti mancati.
inserimento allora quella di dare vita a un falso reportage e falso romanzo al tempo stesso, alla
falsa storia di un vero delitto. Il riferimento naturale veramente al romanzo poliziesco. Quello che
colpisce di questo genere la perfezione interna per cui ogni oggetto messo in campo debba avere
una sua precisa funzione nel testo. Si tratta, tuttavia, di un romanzo poliziesco sui generis:
l’assassino, o meglio gli assassini, sono noti sin dalle prime pagine, così come il movente del delitto.
L'abilità del narratore consiste in uno spostamento di obiettivo: al centro dell'indagine non è più
l'identità degli assassini il movente del delitto ma il motivo per cui essi siano riusciti a uccidere la
vittima nonostante abbiano tentato con ogni mezzo che qualcuno glielo impedisse. A dare alla
narrazione il ritmo incalzante e senza dubbio il gioco è un catenato delle coincidenze.
4. Racconto lungo: l'autore fa esplicito riferimento nella scrittura di Cronaca ad altri due modelli:
Boule de suif di Guy de Maupasssant, racconto <<senza fessure>> in cui tutto perfettamente si
tiene e The monkey’s paw, racconto di W. W. Jacobs. In quest'ultimo racconto, breve e efficace, dal
ritmo serrato, interamente costruito sul dilemma coincidenze/destino, si assiste a un figlicidio
involontario punto vi torna anche il motivo della porta fatale è l'elemento chiave del presagio
inascoltato. Lungo poco meno di 100 pagine, Cronaca strizza evidentemente l'occhio anche
all'economia interna della forma breve. È d’altra parte proprio la forma breve, e la novella in
particolare, quella in cui il caso funge da elemento costitutivo. nella novella, infatti, lo straordinario
diventa regola e l'intreccio sembra subire l'arbitrarietà del caso senza forzature, finendo quasi per
neutralizzarlo ed assorbirlo nell'intreccio limpide e essenziale che governa le azioni. Cronaca di una
morte annunciata sembrerebbe aver dunque ereditato dalla forma breve della novella una
relazione privilegiata con l'idea di caso e necessità.
5. Romanzo breve: la complessità dei piani narrativi messi in campo, i continui salti temporali dal
presente della narrazione al passato della vicenda e dal presente della vicenda al futuro attraverso
predizioni presagi, infine la capacità di penetrare all'interiorità di diversi personaggi, sembrano
avvicinare l'opera al sistema complesso e stratificato della forma romanzo.

Vi è dunque una relazione tra la questione delle coincidenze e il modo in cui diversi generi letterari si fanno
carico di ricostruirle virgola di rappresentarle ordinarle. All'idea di coincidenza i diversi generi sono abituati
da sempre a dare nomi diversi parlando di volta in volta di caso, fatalità, destino, necessità e rivelando in
questo modo la specifica visione del mondo che ognuno di essi ha. Erich Kohler nell’ultimo capitolo del Il
romanzo e il caso, afferma che i vari ruoli assunti dal caso sono elementi costitutivi che consentono la
differenziazione dei generi punto se la perfezione della novella consiste nel fatto che in essa caso e
necessità coincidono e se la perfezione della tragedia si realizza nel suo essere completamente ed
esattamente dominata da una necessità ineluttabile, l'ampiezza epica del romanzo permette di integrare il
caso in quanto punto di convergenza di una serie di eventi, nella necessità interna di un processo. Se nella
novella il caso individuale rimane il caso di un individuo, nel romanzo esso e nel contempo virgola in quanto
caso particolare sintomatico dell'universale. Il romanzo si pone in questo senso come la forma in grado,
forse meglio di qualsiasi altra, di restituire sulla pagina le infinite possibilità convergenti che tessono virgola
in modo inatteso, le trame delle nostre vite.

IL FILM

I lavori di Francesco Rosi, regista nato a Napoli nel 1922 e morto a Roma nel 2015 sono caratterizzati,
soprattutto a partire dal film C’era una volta del 1967, libera reinterpretazione del Decameron boccacciano,
da un forte impegno e una forte attenzione verso la letteratura. Sono numerosi i suoi lavori di
adattamento:

- 1967: C’era una volta (ispirato al Decameron);


- 1970: Uomini contro (tratto da Un anno sull’altopiano di Lussu);
- 1976: Cadaveri eccellenti (tratto da Il contesto di Sciascia);
- 1979: Cristo si è fermato ad Eboli (tratto dal romanzo omonimo di Carlo Levi);
- 1987: Cronaca di una morte annunciata (tratto dall’opera omonima di García Márquez);
- 1990: La tregua (tratto dal romanzo omonimo di Primo Levi).

Nonostante questo, l’operazione del film Cronaca di una morte annunciata, è stata giudicata
negativamente, come qualcosa che non è riuscito e ha portato allo spezzarsi del legame tra cinema e
letteratura.

Lo stesso cineasta giudicò la propria opera imperfetta. Bisogna dunque interrogarsi sulle ragioni di un simile
rinnegamento: che è forse anche il motivo per cui un film così costoso, e interpretato da un cast importante
e popolare, non sia stato mai rilasciato sul mercato su sopporto digitale.

Bisogna chiedersi prima di tutto: cosa spinse Rosi a scegliere il racconto di Márquez come elemento
fondamentale del suo film?

Rosi non era stato motivato unicamente dalla bellezza del racconto, ma anche da eltri due importanti
elementi:

 L’intreccio tra responsabilità collettiva e individuale: questo elemento genera numerose domande
(di chi è la colpa? Si poteva evitare l’omicidio? Perché tutti restano immobili di fronte alla scena
dell’uccisione e corrono verso la vittima solo quando quest’ultima cade a terra ormai morta?) la
responsabilità individuale e collettiva che indica Rosi è proprio quella di tutti coloro che avrebbero
potuto fare qualcosa per salvare o almeno aiutare Nasar, ma che non hanno fatto nulla. In questo
senso è significativo sottolineare come, nell’ultima inquadratura di Cronaca dii una morte
annunciata la posizione del cadavere di Santiago Nasar sia identica a quella del corpo riverso del
bandito Salvatore Giuliano nel cortile De Maria (film di Rosi del 1962). In entrambe le scene si
sottolinea, anche tramite lo straordinario lavoro di inquadratura, la responsabilità (che forse
possiamo definire anche con la parola colpa) di coloro che sanno fin troppo, ma fanno poco per
evitare che un fatto accada.
 L’impegno: la questione dell’impegno viene spiegata dallo stesso Rosi impegno non è solo
l’esprimersi nei confronti di una realtà sociale o politica, ma è soprattutto impegnarsi verso una
realtà culturale che è quella che molte volte fa sì che gli uomini siano obbligati a dei comportamenti
conformistici, perché non hanno né il coraggio né la forza di assumersi il peso della responsabilità
individuale. Rosi afferma, infatti, di raccontare nel suo film del dramma di un paese dove gli
uomini hanno dei comportamenti determinati dall’origine culturale che li obbliga alla violenza da
una parte e alla mancanza di responsabilità individuale dall’altra (Siamo sicuri che la strettoia sia
data dal fato? O è dato dalla cultura del luogo caratterizzata da una totale mancanza di
alternative?).

REAZIONI DELLA CRITICA:

La pellicola di Rosi funzionò fino a un certo punto per la critica di allora.

 Ne Il Morandini si legge che nel film, del romanzo di Gabriel García Márquez, manca la dimensione
della fatalità;
 In Segnalazioni cinematografiche (1987), ancora, si legge che nel film manca l’occasione tragica. Il
film non coinvolge e non convince. Solo la musica sembra appropriata. Ci troviamo di fronte a un
melodramma (in senso negativo, come forma più popolare e meno potente a livello immaginifico e
ritmico) più che a una tragedia;
 Al contrario, Tullio Kezich, giudica positivamente il film: “si potrebbe studiarlo all’università per un
anno intero”.

In questo senso è interessante soffermarsi anche sulla teoria enunciata da Tornatore allo stesso Rosi citata
in Io lo chiamo cinematografo, il quale afferma <<tutti sanno che stai fallendo, ma nessuno lo dice>>, un
poco come accade nel racconto nei confronti di Santiago Nasar (tutti sapevano che stava andando in contro
alla sua morte, ma nessuno lo diceva).

Anche il parere di Gabriel García Márquez sembra essere poco positivo: Rosi ci racconta che, quando gli
mostrò la sceneggiatura egli disse “Il film mi piace, è buono. Ma se penso che è una storia sudamericana,
avrei voluto un cast più locale”

Ed è proprio da queste parole che possiamo iniziare ad analizzare i punti di debolezza e gli errori di Rosi:

1. La scelta del cast: nel film, oltre all’ambientazione, non vi è nulla di sudamericano. Per il cast
vengono scelti attori importanti come Ornella Muti nei panni di Angela Vicario, Anthony Delon nei
panni di Santiago Nasar e Rupert Everett nei panni di Bayardo San Romàn.
La scelta dei primi due attori ci permette di sottolineare un aspetto che non è così forte nel
racconto: quello della seduzione, nel film, infatti, ci sono molte allusioni a una possibile relazione
tra i due personaggi, relazione che è quasi completamente esclusa nel racconto in cui si pensa, pi
che altro, che Angela avesse pronunciato il nome di Santiago come copertura per il vero possibile
amante.
La scelta di Everett, invece, è particolarmente problematica e questo viene riconosciuto dallo stesso
regista: Rosi riconosce il suo errore nel non aver voluto sottrarre al personaggio la sua
componente letteraria. Nel non aver riconosciuto, sin da subito, che cinema e letteratura sono due
cose diverse. Infatti, Boyardo viene perfettamente descritto nel racconto di Márquez: dal racconto
di lui non si sa da dove veniva, né dove voleva andare, lo scrittore ci dice solo “Arrivò uno
straniero”. Rosi dichiara di aver spinto eccessivamente il ruolo di Rupert in quella direzione astratta,
scegliendo l’attore proprio perché inglese.
2. La colonna sonora:
3. Eccesso di fedeltà: Rosi, critico di sé stesso, afferma di non aver mai rispettato un romanzo, un
racconto, come nel caso di Cronaca di una morte annunciata. I motivi di questo eccesso di fedeltà,
vengono ricercati dal regista in due elementi: da una parte il rispetto per un libro che è un
capolavoro, dall’altra il rispetto per l’autore del libro stesso, che non solo era uno scrittore famoso
in tutto il mondo, ma era anche suo amico.
4. Calo di tensione: questo elemento parte dall’avvertimento di una certa lentezza descrittiva che
porta, a sua volta, alla mancanza di tensione narrativa. Rosi sottolinea che la tensione l’avrebbe
dovuta dare il montaggio, invece, non solo non vi è una contemporaneità tra i fatti, ma manca
anche la stretta finale.
La voce fuori campo, inoltre, è giudicata troppo letteraria questo elemento è evidente nelle
scene del film, soprattutto in quella successiva all’uscita di Santiago dalla sua casa: qui il medico,
personaggio che non è presente nel racconto, ma viene inventato all’interno del film e che incarna
il narratore, si avvicina alla camera rivolgendosi direttamente agli spettatori, quasi a porsi come
interprete ufficiale della vicenda. Non si tratta quindi solo di una voce fuori campo, ma di una
personificazione dell’istanza narrativa.

*a questo punto, soffermandosi sulla tensione, de Cristofaro si chiede se la mancanza di tensione palpabile,
di contemporaneità dei fatti, di stretta finale, siano limiti o risorse del film: secondo de Cristofaro per
rendere giustizia alla scrittura di Márquez, al suo realismo magico addomesticato entro uno stile da
reportage, ci voleva esattamente questa fiacchezza, questo sfalsamento, questo scavo analitico, questa
intersecazione dei piani temporali e psicologici.

L’interesse di de Cristofaro si concentra proprio sul riscontrare come il film abbia ampliato la dimensione
psicologica dei personaggi. E questo elemento si può analizzare anche partendo da un progetto del regista
avviato 20 anni prima del film che stiamo analizzando: una cronaca degli ultimi 199 giorni di Che Guevara.
Negli appunti presi dal regista per la realizzazione, mai avvenuta, di questo progetto, si possono trovare
molti elementi in comune con Cronaca di una morte annunciata, tanto che de Cristofaro definisce questo
viaggio sudamericano di Rosi come “l’altra radice remota di Cronaca”. Il soggetto di Gli ultimi 199 giorni di
Che Guevara, infatti è proprio un’inchiesta sui fatti che, a partire dal corpo senza vita dell’uomo, si chiede
“Quanto ha giocato il caso? Quanto le debolezze umane?”. Un viaggio nel terrore, nell’indifferenza,
nell’omertà di chi non ha la forza né gli strumenti culturali per intervenire.
MORTE A VENEZIA (Mann e Visconti a confronto)

Sussiste fra le due opere, al di là di parallelismi biografici, una consonanza letterario-stilistica e psicologico-
ideale: il decadentismo comune a entrambi. Mentre Mann nel 1940 dichiara, a posteriori, conclusa con la
novella una fase del suo lavoro (Der Tod in Venedig è per Mann «la rappresentazione moralmente e
formalmente più acuita e concentrata del problema del decadentismo e dell’artista, nel cui segno si era
posta la mia produzione a partire dai Buddenbrook e che aveva avuto con Der Tod in Venedig forma
definitiva»), in Visconti questo complesso tematico emerge in primo piano con sempre maggior forza al
termine della sua opera, in certo senso recuperando biograficamente la sua infanzia e fanciullezza.

Thomas Mann: notizie biografiche e modelli delle sue opere

Thomas Mann nasce da una nota famiglia patrizia di Lubecca, che anche dopo la morte del padre e il
trasferimento a Monaco è così agiata che Mann non ha bisogno di guadagnarsi il pane, ma può dedicarsi
senza preoccupazioni materiali alla sua attività di scrittore. Mann visita l’Italia la prima volta nell’ottobre
1896, quando si reca a trovare il fratello maggiore Heinrich a Roma. I due trascorrono insieme l’estate 1897
a Palestrina, a sud di Roma, dove Thomas inizia anche I Buddenbrook. Dal maggio 1898 è di nuovo a
Monaco. Le sue osservazioni sull’Italia sono ambivalenti, decisamente di tono negativo. Evidentemente il
suo spirito nordico-tedesco e alto borghese, unito a un senso dell’ordine prussiano e a un’etica del lavoro
protestante, è più infastidito che entusiasta dell’Italia sud-europea e della sua “bellezza”. Un atteggiamento
che dimostra anche Aschenbach in Der Tod in Venedig, prima di abbandonarsi appunto a questo
“disordine”.

Il giudizio più positivo, semmai, Mann lo esprime su Venezia. Durante il soggiorno a Palestrina ha inizio
anche l’intensa lettura di Schopenhauer e Nietzsche, di grande importanza per l’opera di Mann, come
anche la musica di Wagner, che inizia presto ad ascoltare. In Nietzsche è inizialmente soprattutto il
rapporto fra arte e vita che lo interessa. Questo e la contrapposizione fra Apollo e Dioniso, fra principio
apollineo e dionisiaco, caratterizzano ampie parti della trabordante argomentazione lungo i primi capitoli
della novella. Mentre in Nietzsche Apollo è associato anche ad apparenza, illusione e forma, in Mann si
aggiunge a ciò disciplina, ordine e costrizione esterna e interiore.

Punti di riferimento letterari sono Tolstoj e Goethe, ai quali è ricollegabile anche l’impianto in fin dei conti
autobiografico del testo. Con riferimento a Goethe, Mann spiega a proposito di Der Tod in Venedig:
«Volevo produrre qualcosa come la tragedia dell’esser Maestro. Inizialmente avevo progettato niente di
meno che di raccontare la storia dell’ultimo amore di Goethe, una storia cattiva, bella, grottesca e
sconvolgente, che forse racconterò lo stesso prima o poi«6 . Il riferimento è all’amore del
settantaquattrenne Goethe per la diciassettenne Ulrike von Levetzow, che voleva addirittura sposare. Come
e quando Mann sia inizialmente venuto in contatto con la psicoanalisi freudiana non è stato esattamente
chiarito. È noto che più tardi si è interessato sempre più alla psicoanalisi e dal 1925 la studia più
approfonditamente, poi nel 1929 ne ha trattato estesamente nella conferenza Die Stellung Freuds in der
modernen Geistesgeschichte (in cui pone l’accento sull’opposizione libido-pulsione di morte) e nel 1936 a
Vienna ha tenuto il discorso ufficiale per l’ottantesimo genetliaco di Freud. Se Freud abbia prodotto
cambiamenti profondi nell’immaginario di Mann o se egli vi si sia solo adattato, è questione controversa.
Sul piano politico-ideologico Mann si schiera nei primi scritti su posizioni nettamente tedesco-nazionaliste e
il suo orientamento monarchico perdura distintamente fino a dopo la prima guerra mondiale. Solo nel
1922, nella sua analisi dell’opera di Oswald Spengler Untergang des Abendlandes (1918), e dopo l’assassinio
del ministro degli Esteri Walther Rathenau si delinea una conversione repubblicana. Tuttavia Mann
mantiene nettamente idee conservatrici in merito a cultura e società come anche un habitus alto
borghese. Ciò gli procura differenti giudizi negativi di colleghi, in una scala che va da «tronfio scrittore»
(Musil) a «scribacchino filogovernativo al soldo della borghesia» (Brecht).
Caratteristiche della novella:

La novella, articolata in cinque capitoli, viene scritta nel 1911 e pubblicata nel 1912. Motivo narrativo
centrale della novella sono l’omosessualità, o meglio l’omofilia e pedofilia. Esporre in un’opera letteraria
questa tematica, nel 1912, rappresenta una rischiosa infrazione alle regole. In tal senso la magniloquente
collocazione del tema all’interno di un’astratta discussione sull’arte e l’artista, con i suoi dotti rinvii
culturali, decisamente funge da camuffamento, per poterlo porre comunque al centro della novella.
Similmente la colpa morale è scontata con la morte di Aschenbach e lo sfacimento dei decadenti luoghi
della vicenda, Venezia e l’Hotel Des Bains. Serve ad occultare la centralità del tema anche lo stile linguistico
della novella, con i suoi periodi lunghi e intrecciati e il lessico ricercato. Tuttavia è da notare al proposito
che, in generale, questo è tipico di Mann, in linea con la sua organizzazione del lavoro quasi
burocraticometodica, per cui è possibile anche che Mann prosegua a lavorare a uno stesso tema per anni e
decenni. Ad alcuni critici e suoi contemporanei ciò è apparso come mancanza di genialità e spontaneità,
spingendo per esempio Döblin a definirlo come il signore che eleva «a principio artistico la piega della
stiratura», o facendogli guadagnare l’attributo di «artista freddo».

Il metatesto della novella ci pare risiedere però nell’elaborazione psicologica del binomio amore-morte. In
questo la novella riproduce una serie di motivi frequenti nel neoromanticismo e nel decadentismo, ma che
Mann, nonostante il camuffamento ora accennato, rende a livello psicologico con molta più chiarezza e
perspicacia, più psicoanaliticamente. Ad essere precisi, la novella parafrasa un nocciolo del modello
freudiano delle pulsioni, ovvero la polarità fra eros e thanatos. Freud (che non fa uso del termine di
thanatos, connotato mitologicamente) concepisce più tardi, nella sua ultima versione della teoria delle
pulsioni, quella di morte come una pulsione fondamentale, contrapposta alla libido (all’eros, alla pulsione di
vita), che tende al superamento di tutte le tensioni, cioè al nirvana, ossia alla morte. Essa si manifesta
dapprima, internamente, come autodistruzione e poi, secondariamente, come distruzione ovvero
aggressione verso l’esterno, in breve come masochismo e sadismo. È una riflessione circa i processi psichici
che si fa sempre più centrale nell’opera di Freud, anche rispetto alle sue idee più tarde su società e storia,
pur costituendosi come problema per la cura psicoanalitica e l’ottimistica ambizione terapeutica a questa
connessa. La profonda malinconia di Aschenbach è allora espressione di un’autodistruzione
costituzionale, conseguenza della pulsione di morte. Questa è a tal punto potente che neanche i tentativi
di salvarsi mettendosi in viaggio e poi di abbandonarsi al principio di piacere libidico-erotico possono
fermarla. La novella, in sostanza, appare come una lucida parafrasi di un’autodistruzione presente nel
profondo, nel segno della pulsione di morte (tardo) freudiana. Nel segno, cioè, di un destino di pulsione
individuale.

Luchino Visconti: notizie biografiche.

Luchino Visconti nasce nel 1906. La famiglia paterna appartiene all’alta nobiltà italiana, la madre ad una
famiglia di grandi industriali, gli Erba. Il giovane Luchino vive una vita lussuosa, fra gli agi materiali, in mezzo
alla nobiltà e l’alta borghesia italiane ed europee, senza definiti orientamenti e interessi professionali. Entra
in contatto con il cinema piuttosto casualmente, durante un soggiorno a Parigi nel 1936, grazie alla
conoscenza con artisti ed intellettuali che lo presentano a Jean Renoir, per il quale lavora poi come
assistente alla regia. In Italia entra in rapporti con la cerchia intorno a Vittorio Mussolini e alla sua rivista,
«Cinema», dove conosce molti giovani che discutono del rinnovamento del cinema italiano nel segno di un
nuovo realismo o verismo.

Se l’orientamento politico-ideologico di Visconti, in accordo con le sue origini, inizialmente è fra il


conservatore e il reazionario, questa posizione cambia con i nuovi amici e le loro idee politiche. Poiché
molti di loro non solo propendono verso orientamenti socialisti e comunisti, ma si impegnano sempre più
nel crescente movimento della Resistenza, Visconti percorre la stessa strada. Sostiene la Resistenza non
solo grazie i suoi contatti con le più alte sfere, fino alla casa reale, ma anche concretamente, offrendo
rifugio nelle sue case ai ricercati durante l’occupazione tedesca di Roma “città aperta” (dopo la destituzione
di Mussolini e il cambio di fronte dell’Italia). Infine finisce anch’egli in questo periodo (settembre 1943-
luglio 1944) per 12 giorni in una prigione speciale dei repubblichini. Nel periodo fra la liberazione di Roma
dall’occupazione tedesca nel giugno 1944 e l’immediata fine della guerra nel 1945, gli amici progettano film
che perlopiù però non possono essere realizzati a causa delle difficili condizioni. Visconti allora si dedica con
più impegno al teatro, affermandosi con lavori registici all’insegna di un “teatro totale”, nuovo (impegno
che, prima nel teatro di prosa, poi sempre più anche in campo operistico, prosegue per tutta la vita).
Annotiamo ancora, sul piano biografico, che Visconti non ha mai nascosto la sua omosessualità.

Dopo Ossessione del 1942 e La terra trema, girato nel 1947-1948, due film di straordinario realismo ma che
incontreranno non pochi ostacoli. Quel realismo storico amplificato dallo sfarzo scenografico e registico,
che gli viene attribuito quale segno caratteristico, appare la prima volta in Senso, del 1954, in cui
predominano elementi melodrammatici accanto a una vicenda a sfondo storico, ma soprattutto nel
Gattopardo, del 1963, con cui Visconti raggiunge fama mondiale.

Caratteristiche del film

Il film è presentato in prima mondiale a Londra il 1 marzo 1971. Visconti, che si è interessato per tutta la
vita intensamente alla letteratura europea, ama Thomas Mann. È fra i suoi autori preferiti e aveva più volte
pensato ad adattamenti (poi mai realizzati) di sue opere.

Morte a Venezia sembra presentare una svolta nella narrazione a metà del film. Dopo l’episodio del
bagaglio alla stazione indirizzato erratamente e l’improvvisa decisione di Aschenbach di restare a Venezia, i
tratti del suo viso d’un tratto si rilassano e comincia a sorridere, anche durante il tragitto in battello verso il
Lido. Ora si assoggetta al destino, si lascia alle spalle il principio apollineo e la disciplina e l’ascesi
connesse, per darsi al dionisiaco, ossia al suo amore per Tadzio. Che questo tentativo però non avrà buon
esito, lo spettatore l’avverte chiaramente fin dall’inizio del film. Accompagnati da una sinfonia di Mahler
eseguita mestamente, i titoli di testa appaiono a poco a poco in bianco su uno sfondo nero pece e la musica
continua ancora mentre il battello appare nel grigiore dell’alba e Aschenbach, avvolto nella sciarpa e in una
coperta, siede in un poltrona di vimini sul ponte, fino all’arrivo a Venezia.

I cambiamenti operati da Visconti rispetto alla novella di Mann sono molteplici. Alcuni sono
cinematograficamente necessari, altri soggettivi e alcuni hanno anche a che fare con le debolezze del film.
Anzitutto Aschenbach nel film è un compositore e direttore d’orchestra. Mann ha dichiarato più volte che
nel caratterizzare il personaggio aveva in mente il compositore Gustav Mahler, che aveva conosciuto e che,
sofferente fisicamente e psicologicamente, era morto durante il viaggio dei Mann a Brioni e Venezia nel
1911. Visconti, a sua volta, chiarisce che un musicista è più adatto per un film, facendo riferimento anche
alla considerazione di Mann per Mahler (e al nome scelto per il personaggio della novella). A parte la terza
e la quinta sinfonia di Mahler, nel film non è presente altra musica extradiegetica; tutte le ulteriori presenze
musicali sono collegate alla diegesi. Visconti elimina rispetto alla novella tutta la parte introduttiva a
Monaco e, in parte, il secondo capitolo con le notizie sulla vita di Aschenbach e sui suoi temi di lavoro, e
con questo anche i ragionamenti e i pensieri che Mann quale narratore in terza persona formula in nome
di Aschenbach sull’arte e l’artista. Tale struttura narrativa, come il suo contenuto, non può essere
trasposta direttamente sullo schermo, cosa che richiede altri mezzi sinestetici. Visconti risolve il problema
da un lato lasciando parlare Aschenbach stesso, dall’altro per mezzo di flashback in cui Aschenbach è
impegnato in discussioni con il suo amico Alfried intorno a “lavoro-bellezza-dominio dei sensi” vs. “genio-
polivalenza della musica-liberazione dei sensi”, ovvero intorno alla tematica Apollo-Dioniso. La seconda
serie di flashback riguarda la vita di Aschenbach, il ricordo della moglie e della piccola figlia, di insuccessi
professionali, della malattia. Quest’ultimi hanno più spazio nel film rispetto alla novella, però appaiono
integrati più armonicamente nella struttura narrativa rispetto ai primi, che risultano a tratti come corpi
estranei, soprattutto quando i loro astratti dialoghi sono inseriti bruscamente fra scene al presente Qualche
volta non è del tutto chiara la loro funzione rispetto allo sviluppo narrativo, ponendosi in contrasto
inconciliabile con la storia a Venezia, che lo spettatore percepisce sensorialmente. Dopo l’avvio descritto
più sopra gran parte della prima metà del film è dedicata alla descrizione della clientela dell’albergo, un
milieu nobile e alto borghese. In innumerevoli carrelli e panoramiche viene mostrato come vivono
agiatamente le persone abbienti di molti paesi europei prima della prima guerra mondiale. Questo sguardo
d’insieme su un milieu e una classe sociale, però, si presenta diverso dallo spettacolo ancor più grandioso,
ma comparabile, in casa del principe di Salina nel Gattopardo. La rappresentazione in Morte a Venezia è
stranamente contemplativa, non vi è esemplificato alcun processo storico, ad esempio in riferimento al
declino o alla prossima fine del dominio di questa classe nobile e della borghesia ad essa legata. Visconti,
semmai, se ne disinteressa, la ridicolizza. Essa appare socialmente e cinematograficamente inutile. Appare
evidente che l’interesse di Visconti non è più quello dei suoi «film storici» precedenti; ora è rivolto solo al
protagonista e alla sua malattia mortale. La rappresentazione storico-sociale di ampio respiro si è mutata
in un dramma intimistico dell’autodistruzione riferito all’esistenza individuale.

Per far risaltare su questo sfondo Aschenbach e la sua controparte, Tadzio, Visconti e il direttore della
fotografia Pasquale De Santis fanno ricorso allo zoom. Questo serve anche a rendere visibili ogni volta i più
piccoli cambiamenti nell’espressione del viso di Aschenbach; è solo grazie a questi che la storia intimista si
lascia decifrare. Qui sta uno dei problemi stilistici del film, almeno con riferimento alla prima parte, alle
scene nella hall dell’albergo e nel salone da pranzo. L’eccessivo ricorso allo zoom dà l’impressione a tratti di
essere un espediente drammaturgico-tecnico per comunicare il delicato rapporto fra Aschenbach e Tadzio;
questo è condotto solo attraverso gli sguardi. Al tempo stesso lo zoom risulta un mezzo appropriato in un
film così fortemente incentrato su un personaggio e sulla sua interiorità e che, nel contempo, vuole rendere
il voyeurismo del protagonista. Simili contraddizioni riguardano anche l’ambigua messa in scena stessa degli
sguardi; lo spettatore talvolta vede Aschenbach e Tadzio da un punto di vista neutro, poi di nuovo Tadzio
con gli occhi di Aschenbach, in soggettiva, poi ancora un panorama d’insieme dell’albergo a opera di una
indeterminata istanza narrante esterna.

Dopo il primo incontro ravvicinato in ascensore Aschenbach diviene così agitato che decide all’improvviso
di partire (nella novella è piuttosto il tempo che lo induce alla partenza). La mattina, proprio prima della
partenza, incontra sulla soglia del salone da pranzo ancora una volta Tadzio e mormora: «Addio, Tadzio... È
stato troppo breve... che Dio ti benedica!». Tornando dalla stazione ferroviaria al Lido, Aschenbach sorride,
splende il sole, lo scirocco è scomparso. Grazie a questo intervento del destino (grottescamente nella
forma del servizio di spedizione bagagli) è caduta in Aschenbach una centrale soglia della sublimazione
esistenziale ed egli smette almeno in parte di opporsi ai suoi impulsi libidici, dopo di che può pronunciare
fra sé e sé la frase: «Tu non devi mai sorridere così... Non devi mai sorridere così a nessuno... Io ti amo»,
consacrandosi però, al tempo stesso, anche alla morte. Dopo essersi caricato eterosessualmente, in
conformità alla norma, per così dire, con il ricordo di un momento gioioso con la moglie e la piccola figlia su
un prato di montagna (è un flashback), può abbandonarsi all’intensa osservazione di Tadzio e perfino, per la
prima volta, comporre di nuovo.

Visconti rimarca che il film non tratta affatto il tema dell’omosessualità, semmai si tratta di omofilia. Il
film tuttavia accentua rispetto alla novella la dimensione omoerotica, quando Tadzio non solo accetta gli
sguardi di Aschenbach, ma a sua volta li provoca, in modo attivo, lo attrae, per così dire, tramite lo sguardo
e la gestualità corporea. L’apice è raggiunto nella scena in cui Tadzio conduce una sorta di danza della
seduzione fra i pali del passaggio coperto verso la spiaggia di fronte ad Aschenbach, il quale letteralmente
sente le ginocchia piegarsi, quasi non si regge più in piedi e avanza barcollante dietro le cabine da spiaggia.
Il gioco di Tadzio con Aschenbach nel film è tutt’altro che innocente, Tadzio lo invita al piacere e lo conduce
alla morte. Neanche Aschenbach è innocente, in questo gioco. Da un flashback in cui il pubblico fischia un
suo concerto, Aschenbach si risveglia come da un incubo, al grido di «No! No!», a cui risponde la voce di
Alfried (inserita con stacco netto, proveniente dal flashback): «Saggezza, verità, dignità umana, tutto finito!
Ora, se vuoi, puoi scendere nella fossa insieme alla tua musica.» Con ciò ha fine però anche la vita di
Aschenbach: la deviazione dalla disciplina e dall’ordine, l’esplosione delle pulsioni, sono pagate con la
morte. Quando Aschenbach nell’ultima sequenza si reca in spiaggia con fatica, una russa canta la Ninna
nanna di Mussorgski, un bellissimo riferimento alla pulsione di morte freudiana e al ritorno allo stato
infantile ossia, in senso definitivo, al nirvana. Aschenbach muore sulla spiaggia, nella sedia a sdraio, con il
viso segnato, come una maschera di morte, dal sudore, dal trucco e dalla tintura dei capelli che si scioglie,
mentre osserva Tadzio in lontananza nel mare. Gli manca la forza per salutare Tadzio con un cenno di
mano, per la prima e ultima volta, quando gli sembra che questi da lontano abbozzi un saluto. Durante la
scena di morte parte nuovamente l’adagetto della Quinta sinfonia di Mahler, come all’inizio del film (e di
nuovo quale leitmotiv extradiegetico), e funge da raccordo con i titoli di coda, anch’essi in bianco su sfondo
nero.

Manca nel film di Visconti, rispetto a Mann, la distanza ironica con cui il narratore, nella novella, articola la
psicologia di Aschenbach. Nel film Aschenbach è condannato a morte, per così dire, fin dall’inizio, la sua
rovina è ineluttabile, come quella della città intorno a lui, soffocata dal colera, e Aschenbach muore infine
con, sul viso, una maschera disfatta e granguignolesca. Anche l’ambiente dell’albergo, pur storicizzato, non
è che uno sfondo per l’immutabile destino individuale del protagonista. Manca, inoltre, nel film,
l’ambivalenza umana, l’ambiguità che permane a lungo circa il destino di pulsioni di Aschenbach.

PRIME CONCLUSIONI (studio di Irmbert Schenk)

Per questo il destino di Aschenbach nel film può essere interpretato più ampiamente: l’ineluttabilità della
morte non consegue solo, in fine, dalla sopraffazione libidica del suo Io, ma risulta già stabilita, come
condizione esistenziale di fondo della vita. Fin dall’inizio Aschenbach è isolato, separato dal suo ambiente e
dalla vita, malato patologico e di una malinconia incurabile. In gran parte delle esegesi la novella di Mann è
considerata come una rappresentazione non solo della individuale autodistruzione di un uomo, ma anche
del declino e della scomparsa di una classe sociale e di un sistema di potere ad essa connesso. Vi è già
espressa, nel 1912, la sua autodistruzione con la prima guerra mondiale. Al tempo stesso, tuttavia, così
perlomeno la interpreta gran parte della critica letteraria, la novella è anche un tentativo di salvare i frutti
ideali dell’arte e della cultura borghesi del XIX secolo, nel segno dell’umanismo e dell’illuminismo. Per
Visconti il lavoro sulla novella, quasi 60 anni più tardi, è un’ambigua operazione rievocativa circa la sua
origine da questa classe, con tutte le sue peculiarità di vita, seducenti, ma ora divenute insignificanti.
L’inarrestabile declino di questa classe (di cui Visconti stesso fa esperienza) potrebbe, come in precedenza,
assurgere a tema centrale dell’opera, ma Morte a Venezia non è più un film storico, incentrato ormai, quale
ontologica parabola esistenziale, solo su un singolo individuo, come una «sinfonia della decadenza»43, una
sinfonia di morte a cui è stata conferita bella forma44. Il tentativo di salvare la cultura borghese, a cui
Visconti dovrebbe tenere per ragioni biografiche, è ormai solo un pessimistico commiato.

Tutti e due, film e novella, si collocano a livello tematico nel segno della decadenza, seppure in modi del
tutto diversi sul piano storico. Se il testo di Mann può essere ancora ascritto alla letteratura del
Decadentismo, il film di Visconti, al termine della sua carriera, è semmai una reminiscenza profondamente
malinconica, pessimistica, della fin de siècle e del Decadentismo. Se la novella è anche un gioco letterario
con la fine, con l’autodistruzione, l’autoannientamento esistenziale, nelle concrete immagini del film, è
senza scampo.

GLI INCONTRI PERTURBANTI O DIONISIACI (Massimo Fusillo)

Massimo Fusillo legge Morte a Venezia in chiave dionisiaca liberandosi da un'ottica ristretta e focalizzandosi
su una consonanza generale con il mondo dionisiaco. La struttura portante delle Baccanti, cioè l'incontro-
scontro di Penteo, rappresentante dell’ordine tradizionale e del potere, con Dioniso, e quindi con la
dimensione violenta del sacro con la logica altra dell’emozione, ritorna più volte in La morte a Venezia.
Tipico artista apollineo, classico e classicheggiante, Aschenbach vive una serie di incontri perturbanti, che
hanno tonalità dionisiache e che sfociano sempre in visioni più o meno oniriche e allucinatorie, in cui il
protagonista perde il senso dello spazio e del tempo. È interessante notare che le figure incontrate dal
protagonista sono accomunate anche da descrizioni che seguono una serie di costanti: il volto perturbante,
il carattere di estraneità, l'atteggiamento di dominio, verso il quale Aschenbach si abbandona a una
passività masochistica.

Il primo incontro avviene ancora a Monaco, prima della partenza, ed è con una figura di straniero. lo
straniero è uno stereotipo è un tema letterario di lunghissima durata, ma è anche una categoria
fondamentale del mondo dionisiaco. la figura che compare misteriosamente all'improvviso nel portico del
cimitero e una mistione di tratti familiari e di estraneità perturbante: porta uno zaino, un abito di loden e
una mantella che rientrano nell’uso locale, bavarese, ma il suo cappello insolitamente ampio e a tesa dritta
gli conferisce <<l’impronta di uno straniero proveniente da terre lontane>>. Di capelli Rossi dipende
lattiginoso, straniero sinergia con un atteggiamento dispotico e dominatore che ha qualcosa di selvaggio.
Questa visione porta ad un turbamento che contiene tutto lo sviluppo della vicenda. Nelle Baccanti e in
generale nel mondo dionisiaco la vista, in quanto comunicazione non verbale, gioca un ruolo molto
importante. L’incontro genera subito una visione: è proprio l'elemento nomade nell'apparizione dello
straniero a provocare in Aschenbach una strana espansione della sua psiche, una sete giovanile di terre
esotiche, un sentimento di inquietudine errabonda non provato da lungo tempo, che si concretizza in una
complessa allucinazione. Aschenbach vede un paesaggio tropicale, un mondo selvaggio, primordiale e
lussureggiante e alla fine scorge gli occhi di una tigre, animale tradizionalmente associazione a Dioniso.
Dopo una lunga focalizzazione sui pensieri del protagonista e sul suo rapporto con l'esperienza del viaggio,
il capitolo si chiude sottolineando la sparizione inspiegabile dello straniero, a conferma che si trattava di
un'epifania perturbante, più che di un incontro reale. Sulla nave per Venezia gli incontri con figure
dionisiache sono due: all’imbarco <<un uomo dalla barba caprina, che aveva la fisionomia di un direttore di
circo fuori moda>>, una sorta di satiro, che sta in una specie di grotta e dà il biglietto con un inchino
teatrale. E poi soprattutto il falso giovane: Aschenbach vede prima un gruppo di giovani polani, e poi si
focalizza a lungo su uno di loro, scoprendo che il giovane è un falso giovane. La scoperta gli provoca
un'impressione orribile: Aschenbach sente che le cose si stanno allontanando dai canoni abituali, cade in
uno straniamento onirico e contempla la distesa deserta del mare per poi addormentarsi. All’arrivo a
Venezia il falso giovane ricompare a stravolgere il fascino malinconico sempre insito nel rivedere la città-
mito. Anche questo reicontro provoca un breve momento visionario. Il terzo incontro perturbante è quello
con il gondoliere. Anche questa volta Aschenbach osserva il personaggio da una posizione inferiore, quasi
di sottomissione: è una figura di aspetto brutale, che suscita di nuovo in Aschenbach un atto di negazione
dell’identità dominante. Nella descrizione della figura notiamo alcuni elementi somatici e cromatici (i ricci, il
biondo, il rossastro), e il particolare ossessivo dei denti. L’incontro provoca di nuovo nel protagonista una
regressione visionaria, che accentua in questo caso i tratti di pura passività: Aschenbach è in preda a <<un
incantesimo dell’inerzia>>, non si preoccupa più dell’imbroglio di cui è vittima e si immerge nel silenzio.
Importante anche l'incontro con il gruppo di cantori ambulanti che si esibisce nel giardino dell'albergo
virgola e in particolare con il chitarrista. Anche in questo caso si ripresenta il modulo della negazione
dell'etnia dominante, e quindi la connotazione di estraneità perturbante: il chitarrista non sembra di origine
veneziana, ma della razza dei comici napoletani; la sua virtù mimica facciale possiede qualcosa di ambiguo e
quasi scandaloso; Nella sua descrizione troviamo ancora gli stessi tratti costanti: il pallore, la smorfia, il
colore rossiccio, il senso di dominio brutale, tutti elementi selvaggio e dionisiaci

L’INCONTRO DECISIVO incontro decisivo di tutto il romanzo e quello con Tadzio, egli viene assimilato
esplicitamente a Eros e a Narciso. Non si può escludere anche un richiamo parallelo e implicito a Dioniso:
soprattutto per la bellezza androgina, che unisce in sé due opposti come la grazia e la fierezza. nella
descrizione del ragazzo il richiamo all'arte figurativa classica e cristiana è esplicito e, inoltre, non mancano
richiami al modello dionisiaco e alla descrizione euripidea del dio: se si pensa ai riccioli lunghi, alla pelle
bianca. Anche nel nome di Tadzio, Aschenbach ritrova, grazie all’unione dei suoni morbidi e della “u” finale
prolungata, <<qualcosa allo stesso tempo di dolce e di selvaggio>>: un ossimoro che richiama quello usato
per Dioniso nelle Baccanti (<<il più terribile per gli uomini e il più dolce>>). In tutto il racconto
dell'ossessione amorosa ricorrono poi altri motivi mitici e classici, soprattutto nel quarto capitolo virgola in
cui la narrazione diventa iterativa e copre un ampio lasso di tempo: l'immagine del ragazzo che esce dal
mare richiama <<l'origine della forma>> e <<la nascita degli dei>>; Lo stato di perdita dello spazio tempo in
cui Aschenbach trascorre la sua nuova vita evoca l'immagine dei campi elisii; la musicalità della lingua del
ragazzo e la splendida scultura del suo corpo spingono il protagonista a ripensare al Fedro di Platone,
compreso un riferimento alla nascita di Dioniso e alla folgorazione di sua madre Semele di fronte alla
potenza del divino; E infine, come punto culminante a chiusura del capitolo, il sorriso che gli rivolge Tadzio
viene accostato ad un altro mito di dualità che mette in crisi il principio di identità: Narciso. Anche il luogo
in cui avvengono la maggior parte degli incontri con il ragazzo, la spiaggia, una soglia fra mondo civilizzato e
natura infinita, richiama la regressione visionaria.

Dando ai volti dei vari incontri perturbanti di Aschenbach gli stessi tratti dionisiaci ossessivamente ripetuti,
che evocano un'alterità selvaggia e dominatrice, e si associano al sogno, alla visione, alla musica,
all'espressione non verbale, Mann ha dato al suo romanzo è un carattere onirico e circolare. E allo stesso
tempo ha fatto spiccare per contrasto e volto di Tadzio: in parte esempio incarnato di quella bellezza
armonica ed apollinea tanto agognata da Aschenbach, in parte capolavoro di androgina. il volto del ragazzo
è il luogo dunque ossimorico, intorno al quale si sviluppa una storia d'amore tutta giocata sullo sguardo e
mai sulla parola.

Gli incontri perturbanti ci permettono di sottolineare due temi fondamentali:

1. LA PATETICA IMPOTENZA DI ASCHENBACH: ci si aspetta che, come uomo di cultura, il protagonista


abbia padronanza di se stesso e controllo delle proprie azioni. Ma non è così. Non solo persone che
dovrebbero essere al suo servizio lo trattano come conviene ai loro interessi, in molti punti egli
stesso non sa cosa vuole davvero. Aschenbach sembra costantemente di fronte al rischio di
<<apparire stolto agli occhi degli uomini>>, tanto più quando comincia ad infatuarsi del giovinetto
che attrae la sua attenzione.
Questo tema riemerge quando un gruppo di ragazzi, fra cui Tadzio, irrompe nell’ascensore in cui già
si trova Aschenbach. Quest’ultimo appare alquanto agitato, forse per l’improvvisa vicinanza di quei
giovani corpi, o forse per le loro risa, trattenute a stento, mentre sembrano farsi burla di lui.
Oppure è la presenza di Tadzio a farlo sentire così impacciato? Uscendo dall’ascensore il giovanetto
si ferma un attimo e si gira. Questa volta sembra che i loro sguardi si incontrino, anche se di nuovo
ciò non è confermato esplicitamente da un controcampo. Ma l’ipotesi è confortata dallo stato di
agitazione di Aschenbach che, tornando nella sua camera, prende l’improvvisa decisione di lasciare
Venezia. Sembrerebbe la cosa giusta da fare nella sua situazione, ma il suo comportamento irato
rivela che sta agendo contro i suoi più intimi desideri. Alla fine, Aschenbach è decisamente
contento di avere una scusa per non lasciare Venezia e fa ritorno al Lido in uno stato quasi di
beatitudine.
2. GLI SGUARDI

Sia novella che film sono strutturati su una complessa dinamica di sguardi. Sguardi che (vedi pag 65)
richiamano a un’esasperata curiosità, ad un isterismo prodotto dal bisogno esasperato di conoscersi e di
comunicare. Sguardi che fanno nascere il desiderio, frutto di una conoscenza imperfetta. La novella di Mann
può essere considerata una storia sul guardare e sul contemplare che diventa inevitabilmente, nella
riduzione cinematografica di Visconti, un discorso più sullo sguardo che sulla contemplazione. L’attenzione
dell’Aschenbach letterario oscilla fra le sue meditazioni su bellezza e moralità, da un lato, e ciò che davvero
ispira queste riflessioni dall’altro, ossia Tadzio. L’Aschenbach cinematografico, il compositore, visto nel suo
ambiente fisico e sociale, appare molto più terreno, assai più pericolosamente vicino all’oggetto de suo
desiderio. Lungo tutto il film Visconti fa ricorso a piani-sequenza che suggeriscono costantemente (ma
soltanto suggeriscono) un rapporto fra i personaggi che guardano e chi viene guardato. A volte siamo
testimoni solo di uno sguardo fuggevole e spesso non siamo neppure sicuri se una data inquadratura
costituisce una soggettiva o, apparentemente, un’immagine oggettiva. Altri sguardi appaiono più
significativi, come è manifesto nel loro apparente potere di generare la musica, ad esempio quando
l’Adagietto di Mahler prende avvio nel momento in cui, passando l’uno accanto all’altro, gli occhi di Tadzio
e di Aschenbach si incontrano, mentre quest’ultimo sta per lasciare l’albergo. Sul piano diegetico gli sguardi
danno avvio a riflessioni e ricordi e conducono a flashback. Ovviamente l’imbarazzato gioco di sguardi fra
Aschenbach e Tadzio è uno degli elementi cruciali del film. È vero, in un certo senso, che molti sguardi che
si scambiano appaiono più espliciti di quel che suggerisce la novella, cosa difficilmente evitabile nella
versione cinematografica di un’opera letteraria. Tuttavia, come dimostrerà un attento esame del film, il
significato di questi sguardi non è poi così ovvio come alcuni critici hanno sostenuto. In tutto il film, ad
esaminarlo attentamente, chi guarda chi e se gli sguardi effettivamente s’incrocino, è spesso lasciato
ambiguamente in sospeso.

Esempi: Quando la famiglia polacca suscita per la prima volta l’attenzione di Aschenbach, sembra
inizialmente che questi sia attratto più dalla bellissima madre che dal figlio adolescente. Un momento prima
gli occhi di Aschenbach appaiono fissi sul ragazzo e un notevole movimento di zoom indietro conduce dal
primo piano di Tadzio a un totale del salone. Al termine dello zoom, però, Aschenbach appare di spalle e
non ci è offerto alcun indizio su quale sia il suo stato d’animo prima del primo piano piuttosto breve che
segue. Qui egli appare come un uomo anziano un po’ sovrappensiero che guarda con una certa tenerezza
alcuni bambini dall’impeccabile educazione. La situazione cambia leggermente quando Tadzio, recandosi
nel salone da pranzo, rallenta il passo e si volta a guardare Aschenbach. Essi si fissano brevemente l’un
l’altro e, quando il giovanetto si allontana, l’uomo appare un po’ perplesso. La scena seguente, nel salone
da pranzo, contiene diverse inquadrature di Tadzio ma, stranamente, esse non sono esplicitamente
identificate come soggettive di Aschenbach, stranamente, perché qual è il punto di vista espresso se non
rendono il fuoco dell’attenzione di Aschenbach? Nella scena della colazione Tadzio si volta a guardare...
presumibilmente Aschenbach. Di nuovo, però, ed ancor più in contrasto con le aspettative, ciò non trova
conferma in un controcampo.

Importante per comprendere come la dinamica degli sguardi venga trattata diversamente nella novella e
nel film, è la scena di Zarathustra. Nel film vi è uno scambio di sguardi, ma risulta assai breve e il
compositore, evidentemente, è preso più dal suo lavoro che dal giovinetto. Nel film, infatti, l’episodio è
reso con ancor più discrezione che nella novella (vedi pag 65 rosso). Nel film Aschenbach sembra colto
dall’ispirazione e siede per appuntare le proprie idee. Che Tadzio gli passi accanto sembra una fortuita
coincidenza, più che un fatto di routine quotidiana, in contrasto con la novella. Nel film non c’è alcun
segnale che Tadzio voglia forse tornare indietro, o che Aschenbach lo desideri. Semplicemente Tadzio si
ferma un attimo e si scambiano uno sguardo. Ciò che vediamo, mentre la musica prosegue senza soluzione
di continuità, sullo sfondo di immagini notturne, è una scena quasi onirica in cui Tadzio cammina poco
avanti ad Aschenbach e si dondola divertito intorno ai pali che sostengono un telone fra le cabine. L’uso del
teleobiettivo riduce misteriosamente l’apparente distanza fra i due. La sequenza trasmette il senso di una
soggettiva esperienza estetico-erotica.

Per quanto riguarda Aschenbach, ed è ancor più importante, risulta evidente che nel suo sguardo non vi sia
tanto libidine, quanto piuttosto la triste consapevolezza della distanza che è necessario mantenere fra il suo
desiderio e l’oggetto cui è rivolto, e della sua incapacità e forse, persino, fondamentale riluttanza a
superare il suo distacco ed alienazione. E qual è la natura di questo desiderio? Aschenbach non è certo
destinato all’estasi martoriata di un amore proibito, impossibile e non corrisposto. Come la sua controparte
letteraria, egli sfrutta piuttosto l’immagine del bel giovinetto quale stimolo spirituale.

Siamo liberi di speculare su cosa passi per la mente di Aschenbach, ma non ne siamo testimoni come,
invece, lo siamo per il protagonista di Mann. Né vi è alcun segno di vergogna. E perché mai dovrebbe
esserci? Può darsi che Aschenbach si sia infatuato della bellezza del giovanetto, ma non commette alcun
atto di cui vergognarsi. È chiaramente disturbato dalle emozioni che la vista di Tadzio provoca in lui, ma non
sembra accadere nell’uomo niente che corrisponda anche solo a una trasgressione interiore. L’attrazione di
Aschenbach per Tadzio è il desiderio romantico per qualcosa di sufficientemente idealizzato ed ambiguo da
non poter mai essere consumato, neppure nella fantasia, è il desiderio romantico che lo rende debole.

Tadzio catalizza in Aschenbach processi spirituali e sensoriali che lo sospingono verso un abisso sulla cui
sponda opposta sembra trovarsi tutto quel che è degno di essere perseguito. Cosa può fermarlo dal cadere
nell’abisso? Verso la fine della novella Aschenbach è preda di un furioso incubo dionisiaco, in cui viene
sopraffatto da un «dio straniero», «il nemico dello spirito fermo e dignitoso». Il sognatore soccombe «e la
sua anima conosce il gusto della lussuria e la follia della perdizione». Si sveglia «senza forze, coi nervi
spezzati, schiavo del demone». Compie poi un disperato tentativo di riguadagnare la giovinezza col ricorso
alla cosmesi, per poi vivere un’altra fantasia socratica. Ora il fine filosofo assume il ruolo di un poeta
impegnato a perseguire «unicamente la bellezza, vale a dire la semplicità, la grandezza e la nuova severità,
la seconda spontaneità e la forma». Quindi, avendo mostrato l’incapacità dell’artista borghese di
confrontarsi sul serio con la vita, inscindibile mistura di inebriante immediatezza e vertiginosa transitorietà,
Mann, nelle vesti di Socrate, focalizza l’attenzione su quel che nella novella chiama Unbefangenheit
(tradotto nel passo di cui sopra con «spontaneità»). Dominick La Capra analizza questo concetto:
«Unbefangenheit è un termine doppiamente negativo. Un indica una mancanza o assenza. Befangenheit
significa “oppressione”, “imbarazzo” e anche “pregiudizio”. Penso che la parola Unbefangenheit non faccia
riferimento a una originaria innocenza perduta, ma a un’assenza di oppressione o di imbarazzo che viene
conquistata e può sempre essere messa in forse o perduta. È una spontaneità, paradossalmente,
conseguita tramite la cultura e l’arte. Egli ricerca unicamente la bellezza, anche se riconosce che la
celebrazione della bellezza come forma e la Unbefangenheit possono ben condurre «all’ebbrezza e al
desiderio, possono trascinare un animo nobile a orrendi sacrilegi del sentimento che la sua stessa bella
verità dichiara infami; conducono all’abisso, esse pure all’abisso.

Centrale in questi approcci è l’idea di un soggetto condannato ad essere incompleto, poiché al centro della
sua identità vi è la mancanza di qualcosa d’irraggiungibile, un oggetto che «esiste solo in quanto è
mancante». In questa prospettiva, l’essenza dello sguardo è vedere più di quanto semplicemente colpisca
l’occhio; ma è, essenzialmente, rendere speciale, vedere l’altro come qualcosa che trascende gli angusti
confini della realtà quotidiana, quale riflesso non solo di una bellezza ideale, ma di un più elevato modo
d’essere, in generale.

Altri temi interessanti:

 LO SGUARDO DI ASCHENBACH E IL RUOLO DI VENEZIA

Possiamo affermare con certezza che Thomas Mann era troppo avvertito per non rendersi conto che
scrivere un testo ambientato a Venezia significava inevitabilmente accingersi alla stesura di un metatesto,
di un testo che non poteva non riflettere sulle stratificazioni e sulle calcificazioni discorsive, letterarie e
artistiche di cui la città recava traccia: Venezia era una città sospesa nello spazio e nel tempo, una città
magica e misteriosa capace di attirare ogni anno migliaia di turisti, ma anche una città di riferimento per il
lettore colto. Possiamo documentare tutto questo con alcuni dati:

- Dati lessicali: nella novella la parola “Venezia” ricorre 31 volte, a cui vanno aggiunte altrettante
occorrenze della parola “città”. Quattro delle occorrenze non sono riferite a Venezia. Quindi, nella
novella troviamo 58 menzioni di Venezia, tutte concentrate sui capitoli 3-5 della novella. Tenendo
conto di queste menzioni, possiamo notare come Mann si muove rigorosamente all’interno di
clichè consolidati nella letteratura, nella divulgazione e nelle guide. I campi associativi dominanti
sono fondamentalmente tre:
1) Il carattere irreale e fantasmatico della città, paragonata a un universo fiabesco. Elemento
decisivo per questa descrizione è l’attraversamento dei canali in gondola, paragonata a una
bara;
2) La presenza massiccia del turismo: attività economica di fondamentale importanza per la città,
ciò che induce, autorità e operatori del settore a tacere o minimizzare l’epidemia di colera;
3) La sporcizia: come dato consustanziale di Venezia, prima ancora che l’epidemia diventi
manifesta le strade della città e la laguna puzzano di sporcizia. Sporcizia che poi degenera in
malattia.

Uno degli obiettivi di Mann è proprio lo scoronamento, la parodia dello scrittore laureato, nobilitato e
neoclassico e questo viene sottolineato proprio dal fatto che lo sguardo dello scrittore è del tutto privo di
originalità, alla stregua di un turista qualunque. Aschenbach non è neanche più capace di rendersi conto di
quanto la propria percezione di Venezia si muova nel solco di consolidati cliché e pregiudizi etnici di classe.

Per comprendere questo sguardo banale, possiamo prende una scena come esempio: quella del precipitoso
abbandono di Venezia da parte di Aschenbach in cui viene illustrato lo scrittura in vaporetto, a prua, che
passa distrattamente in rassegna la città che gli scorre davanti con lo sguardo melanconico, sconsolato e già
pentito. Lo sguardo del protagonista sa cogliere solo il noto: Giardini, San Marco, palazzi, Canal Grande e
Rialto.

Pertanto possiamo dire che, il merito principale di Thomas Mann nella Morte a Venezia consiste proprio
nella capacità di mantenere un equilibrio fra l’attitudine tragica e l’isotopia parodica che attraversa un po’
tutto il testo.

Quando sessant’anni dopo Visconti si mette a lavoro si ritrova di fronte ad una scelta di fondo: provare a
mantenere questa ambiguità di fondo (tragedia dell'artista/parodia dell'artista) o, diciamo così, mono-
semantizzare la modalità del plot, ossia far virare la vicenda di Aschenbach verso una o l'altra modalità. Si
può fin da adesso affermare che Visconti prende la passione dello scrittore maledettamente sul serio, se c'è
un intento parodistico è del tutto involontario. Un effetto del genere viene reso nel film nell'abuso degli
zoom, nella mimica facciale e più in generale nella gestualità che in certi momenti sembra davvero
esageratamente queer, nell'uso, anzi abuso, dell’Adagietto. tuttavia, se Visconti avesse voluto che il film
venisse detto anche in chiave parodistica forse avrebbe trovato il modo di farcelo sapere, invece il regista
tratta la vicenda in maniera tragica.

Anche Visconti si trova di fronte al medesimo problema di Mann: che fare di Venezia? Perché se all’ altezza
del 1912 scrivere di Venezia, scrivere su Venezia poteva essere fatto solo nella consapevolezza di muoversi
all'interno di un'enorme macrotesto, figuriamoci come stanno le cose all'altezza del 1971, quando la
protesta letterario dell'inizio del ventesimo secolo è venuto ad aggiungersene un altro, quello
cinematografico (ricorda che a partire dal 1932 si svolgeva a Venezia la mostra internazionale d'arte
cinematografica). Visconti sembra assolutamente consapevole della consunzione iconica delle immagini di
Venezia, è entrata a tutti gli effetti nella top five delle location più usate e abusate sia del cinema alto che
dal cinema di genere, ma egli vuole a tutti i costi evitare la modalità di raffigurazione della città lagunare,
cartolinesca e turistica.

Quanto si vede Venezia nel film di Visconti? Su un totale di 124 minuti sono circa 26 i minuti in cui si vede
Venezia. Quasi metà di questi minuti sono concentrati sulla sequenza iniziale, l’arrivo in laguna di
Aschenbach. Per rivedere qualche scorcio della città bisognerà aspettare più di quaranta minuti, la
sequenza, in cui il protagonista torna verso la stazione, in fuga da Venezia, cui farà seguito l’itinerario
uguale e contrario. Le quattro ulteriori sequenze veneziane sono quelle del pedinamento.
 Il primo dato che contraddistingue tutte e 7 le sequenze veneziane del film di Visconti è che il
regista non ricorre praticamente mai alla soggettiva. Venezia è quasi sempre ripresa alle spalle di
Aschenbach, talvolta fuori fuoco.
La sequenza iniziale fornisce di ciò esempi in abbondanza: Aschenbach viene inquadrato in campo
medio (Le figure inquadrate sono abbastanza vicine da divenire riconoscibili, ma lo spazio ancora
predominante) al minuto 3:58, dopo circa 15 secondi la macchina da presa zoomma su di lui, ma
Aschenbach legge, dormicchia, legge, poi, dopo altri venti secondi, scuote la testa, e poi la solleva
leggermente. La successiva inquadratura (la n.3) – la laguna all’alba con i pescatori e sullo sfondo lo
skyline di Venezia – è impossibile leggerla come una soggettiva perché manca completamente un
raccordo sull’asse visivo di Aschenbach con la testa sollevata. Si potrebbe dire: la scena è vista sì
dalla nave ma NON da Aschenbach. Insomma: Aschenbach potrebbe essere da qualsiasi parte; è
l’occhio «oggettivo» della macchina da presa che ci comunica l’arrivo a Venezia.
Il primo monumento di Venezia lo troviamo all’inquadratura n.11, la chiesa della Salute, non è dato
sapere da quale prospettiva essa ci venga mostrata. Quella di Aschenbach certamente no. Ma le
sequenze più significative di questo primo gruppo sono la n. 14, la 15, e la 16: il piano americano di
Aschenbach, di nuovo con la chiesa della Salute, fuori fuoco alle sue spalle (n. 14), il controcampo
sul protagonista di spalle con il panorama di Venezia di nuovo sfuocato, però stavolta, com’è ovvio,
davanti a lui (n.15). E infine (n. 16) una panoramica verso l’alto, combinata con un carrello verso
sinistra, della durata di dieci secondi, dove, finalmente, si palesano in tutta la loro magnificenza i
muri e i tetti della città. Una soggettiva, finalmente? A giudicare da dove parte l’inquadratura e
dalla sua altezza direi proprio di no. E anche l’inquadratura n.17, le gondole all’alba con sullo
sfondo San Giorgio, non è una soggettiva. Dopo l’intermezzo con il vecchietto «cadente e
vistosamente truccato»14 che si prende gioco di Aschenbach, quando ritroviamo il protagonista
caricato a bordo dal gondoliere abusivo (inquadrature n. 25- 36), di nuovo Venezia la si intravede
lontana sullo sfondo proprio a causa del taglio delle inquadrature, dell’attitudine dapprima
sognante e poi irritata dello scrittore e dell’uso espressivo del fuoco. Riassumendo: Aschenbach
non vede Venezia, quel che vediamo è il frutto di sguardi incuriositi e diciamo così turistici altrui (la
scena coi Bersaglieri, n. 9), oppure inquadrature particolarmente estetizzanti e auratiche, come
quella dei tetti e quella delle gondole, a focalizzazione zero che si concedono regista e direttore
della fotografia nel tentativo di strappare qualche scorcio particolarmente originale, vuoi per la
posizione della macchina da presa, vuoi per la luce baluginante e crepuscolare. Inoltre, nelle
sequenze iniziali, si trattava comunque di stabilire quanto prima una coerenza fra il titolo e la
location del film attraverso una serie di establishing shots. Ciò fatto, Visconti si può permettere di
non far tornare Aschenbach a Venezia per i successivi quaranta minuti.
Ciò che accade quando rivediamo nelle due brevi sequenze del viaggio Des Bains-stazione e ritorno
definisce con estrema chiarezza la trasformazione cui Visconti ha sottoposto il rapporto di
Aschenbach con Venezia rispetto alla novella. Se lo Aschenbach manniano, salvo qualche vezzo
citazionistico bildungsbürgerlich, non vede molto altro rispetto a quanto vedrebbe un qualunque
turista, l’Aschenbach viscontiano non vede proprio niente. La prima sequenza consta di un’unica
inquadratura (la n. 177) di circa un minuto e mezzo, ripresa dal basso verso l’alto, con Aschenbach
che appoggia le mani sul bastone, la macchina da presa, dopo alcuni secondi zooma sul volto dello
scrittore e poco tempo compie il medesimo movimento all’indietro: Venezia è sullo sfondo, fuori
fuoco, lo sguardo di Aschenbach è ora fisso, ora perso, là dove, sul finire dell’inquadratura, piega la
testa verso sinistra in direzione (presumibile) dei palazzi che costeggiano il canale, Visconti nega
allo spettatore il controcampo, Aschenbach è troppo occupato con sé stesso e con Tadzio per
potersi accorgere di che cosa gli scorre davanti. Se durante il viaggio di andata la cecità di
Aschenbach ha una sua giustificazione, a significare lo scoramento e l’introflessione, nella scena del
ritorno, di durata pressoché identica (stavolta però le inquadrature sono tre, le n. 196-198), quel
che non vediamo appare come una deliberata scelta di sottrazione da parte di Visconti, che, almeno
in parte, contraddice lo sguardo di Aschenbach che nelle sequenze 196-197 si mangia letteralmente
Venezia con gli occhi.
Tutte le soggettive di Aschenbach, i campi e i contro-campi Visconti le riserva solo ed
esclusivamente a Tadzio, come – fra le moltissime – ci rivela la terza sequenza veneziana, quella
all’interno della basilica di San Marco (inquadrature n. 255-259). Le uniche sequenze in cui Visconti
ci mostra alcuni scorci da manuale– ponti, canali, calli, campielli – Venezia sono la quinta e la
settima, le due sequenze di pedinamento. La quinta consta di ben 25 inquadrature (n. 260-284), la
settima ne comprende 19 (n. 364-382). Le 25 inquadrature coprono un totale di 3 minuti e 25
secondi. Ciò significa una media di circa 8 secondi a inquadratura che, per il ritmo piuttosto
compassato che ha il film di Visconti, scandisce un tempo insolitamente accelerato, il quale
rappresenta una sorta di parziale adeguamento autoriale alle convenzioni sintattiche tipiche delle
scene di inseguimento previste nel cinema di genere.
La scena risponde altresì ad un topos consolidato nella rappresentazione di Venezia, a cui
nemmeno Visconti poteva sottrarsi, stante le imposizioni che gli giungevano dal testo di Mann:
Venezia città-labirinto

 MANN-MAHLER-VISCONTI:

Bisogna sottolineare che uno dei cambiamenti più vistosi apportati dal regista al testo manniano è la
trasformazione del protagonista da scrittore a compositore. Non è un caso che Visconti operi una fusione
diretta tra i temi della novella e quelli del Doctor Faustus: Una sorta di circolo chiuso dove la figura di
riferimento è Gustav Mahler. Perché questa trasformazione del protagonista da scrittore a compositore? È
lo stesso registra che ci fornisce la risposta a questo enigma: Al cinema è più rappresentabile un musicista
che un letterato, poiché, mentre di musicista puoi sempre far sentire la musica, per un letterato sei
costretto a ricorrere ad espedienti fastidiosi e poco espressivi come la voce off. Ha avuto un suo peso
determinante l'importanza della figura storica di Mahler nell'ispirazione della novella di Mann. È lo stesso
Mann, in una lettera, ad affermare di aver dato ad Aschenbach le fattezze di Mahler e che, proprio mentre
si dedicava della stesura di Morte a Venezia, gli arrivarono i bollettini medici sulla malattia dell’artista e
successivamente la notizia della sua morte che lo impressionò profondamente.

Mann aveva conosciuto personalmente Mahler e la sua personalità lo aveva profondamente impressionato.
In Morte a Venezia numerosi appaiono i riferimenti più o meno espliciti al compositore. Non v’è dubbio che
Visconti sia stato ammaliato dalle suggestioni mahleriane già presenti in Mann; suggestioni che in Morte a
Venezia troveranno una coerenza formale e un compimento nei tre piani espressivi: fonte letteraria,
immagine filmica e colonna sonora. E Visconti – se è per questo – non disdegna di eccedere nei riferimenti.
Si veda, a titolo esemplificativo, il piano-sequenza ove il regista fa eseguire ad Alfried l’Adagietto
mahleriano in presenza di Aschenbach; oppure la scena ove Alfried, dopo aver accennato al pianoforte una
frase della Quarta di Mahler, afferma: «La senti no?... La riconosci, vero? […] È la tua musica». Fin qui le
citazioni sonore, non mancano poi, anche, i flashback d’ispirazione biografica (il malessere del protagonista,
il lutto con la perdita della moglie e della figlia).

Ma di sicuro, la presenza mahleriana più incisiva è riscontrabile a livello sonoro, infatti, come afferma
Franco Mannino (Ehi primo direttore d'orchestra delle musiche di Morte a Venezia), nel film la musica di
Mahler è il terzo personaggio chiave. E, la prova che queste musiche non sono state inserite come musiche
di commento è che lui le ha dirette senza aver mai visto il film.

Sono almeno tre i brani mahleriani che compaiono nella colonna sonora del film:
- il quarto movimento della Quarta sinfonia in sol maggiore (accennato da Alfried al pianoforte);
- il quarto movimento della Terza sinfonia in re minore (la scena in cui Aschenbach compone sulla
spiaggia);
- l’Adagietto dal quarto movimento della Quinta sinfonia in do diesis minore: vero è proprio leitmotiv
sonoro.

L’Adagietto è particolarmente importante, il motivo della scelta di questo brano viene rivelato dallo stesso
regista: il brano combaciava alla perfezione, qui incidendo con immagini, movimenti, tagli, ritmi interni.
questo brano sarà il commento sonoro che Visconti utilizzerà per rappresentare in maniera profonda e
chiara l'amore del protagonista. L’Adagio, infatti, rappresenta per Mahler la quiete dell’essere, il momento
della liberazione e della conciliazione, o per meglio dire dell’assoluzione a cui aspira lo stesso Aschenbach.

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