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PAUL

VALÉRY

La caccia
magica
“… Ma la caccia dialettica è una caccia magica. Nella foresta
incantata del Linguaggio i poeti vanno espressamente con lo
scopo di perdersi, e inebriarsi di smarrimento…
“Nelle pagine che in modi e tempi diversi Valéry trasse dall’inin-
terrotta meditazione dei suoi Cahiers è dato al lettore d’incon-
trare figure sorprendenti e capziose: divinità sopite o sibilline,
mostri compositi quali sirene o centauri, antri e cacce magiche,
— metafore nate dall’esperienza del maraviglioso poetico e dalla
diffidenza per il preteso rigore del linguaggio estetico.
Una sottile polemica antifilosofica presiede, infatti, alla scelta di
queste formule eleganti ed apparentemente elusive, che tradu-
cono in teoria non solo l’esercizio del “fare poesia”, ma quello
— ben più importante agli occhi di Valéry — del continuo “osser-
varsi in quel fare”: la Ragione diventa, così, una divinità “che
crediamo vegli, ma che dorme piuttosto, in qualche grotta del
nostro spirito”, la Dialettica è un cacciatore che incalza invano
la sua preda “braccandola, spingendola fin nel boschetto delle
Nozioni Pure”, mentre la critica letteraria si affanna con vacua
pedanteria a “contare e misurare i passi della Dea”.
Questo popolo di figure — tratto da un comune, o da un perso-
nale patrimonio poetico — interviene nelle pagine di Valéry con
funzione sottilmente dissacrante: lo sfarzo variopinto di una
metafora, il marmoreo nitore di una similitudine sono strumen-
ti di una critica garbata ma corrosiva che mette in discussione
quelle stesse tradizioni di pensiero e di linguaggio su cui si fon-
da la nostra cultura.

dall’Introduzione di M.T. Giaveri.

In copertina: Antonio Canova. Danzatrici


Il fiore azzurro
2
PAUL
~

VALERY

La caccia
magica

A cura di Maria Teresa Giaveri

GUIDA
EDITORI
Traduzione di M. T. Giaveri e dell'équipe Valéry
dell'Università degli Studi di Milano

Copyright 1985 Guida editori Napoli


Grafica di Sergio Prozzillo
Introduzione

Mais c'est une chasse magique que la chasse dialectique.


Dans la foret enchantée du Langage, !es poètes vont tout
exprès pour se perdre, et s'y enivrer d'égarement, cher-
chant !es carrefours de signification, !es échos imprévus, !es
rencontres étranges (... ); - mais le veneur qui s'y excite à
courre la «vérité», à suivre une vaie unique et continue,
don t chaque élément soit le seui qu'il doive prendre pour ne
perdre ni la piste, ni le gain du chemin parcouru, s'expose à
ne capturer enfin que son ombre. Gigantesque, parfois;
mais ombre tout de meme.

(P. Valéry, Discours sur l'ésthétique)

Nella foresta incantata di queste pagine, che in modi e tempi


diversi V aléry trasse dall'ininterrotta meditazione dei suoi
Cahiers, è dato al lettore d'incontrare figure sorprendenti e
capziose: divinità sopite o sibilline, mostri compositi quali
sirene o centauri, antri e cacce magiche, - metafore nate
dall'esperienza del maraviglioso poetico e dalla diffidenza per
il preteso rigore del linguaggio estetico.
Una sottile polemica antifilosofica presiede, infatti, alla
scelta di queste formule eleganti ed apparentemente elusive,
che traducono in teoria non solo l'esercizio del «fare poesia»,
ma quello - ben più importante agli occhi di Valéry - del

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continuo «osservarsi in quel fare»: la Ragione diventa, così,
una divinità «che crediamo vegli, ma che dorme piuttosto, in
qualche grotta del nostro spirito», la Dialettica è un caccia-
tore che incalza invano la sua preda «braccandola, spingen-
dola fin nel boschetto delle Nozioni Pure», mentre la critica
letteraria si affanna con vacua pedanteria a «contare e
misurare i passi della Dea».
Questo popolo di figure - tratto da un comune, o da un
personale patrimonio poetico - interviene nelle pagine di
V aléry con funzione sottilmente dissacrante: lo sfarzo vario-
pinto di una metafora, il marmoreo nitore di una similitudine
sono strumenti di una critica garbata ma corrosiva che mette
in discussione quelle stesse tradizioni di pensiero e di linguag-
gio su cui si fonda la nostra cultura. Allo stesso modo, nei Ca-
hiers, viene minata punto a punto la storia della filosofia oc-
cidentale. Con analoghe metafore, per esempio, è evocato il
«bellissimo balletto metafisica» inaugurato dai Presocratici:
«Grifoni intellettuali, magnifiche chimere, o sistemi, filo-
sofie ermafrodite, i cui frammenti fanno pensare a vestigia di
tori alati, a teste di leone, metà fisici, metà poeti, mostri
possenti e infantili, straordinarie congiunzioni di profondità e
di assurdo (... ), - Talete, Anassimandro, Empedocle, Ze-
none!»1.
Il linguaggio imaginifico di V aléry si modella su quello dei
filosofi volta a volta ricordati, rivelandone lo splendore e
l'imprecisione.
«I filosofi sono golosi d'immagini: non vi è mestiere che ne
richieda di più, anche se a volte le dissimulano sotto parole
color di muraglia» 2 •

l Cahiers, 1910, IV, p. 450.


L'edizione a cui si fa riferimento è quella curata da J. H ytier per la << Bibliothèque
de la Pléiade>> (PAUL VALÉRY, Oeuvres, Voli. II, Paris, Gallimard 1957-60, qui abbre-
viata in OE I e II). L'edizione dei Cahiers valeriani a cui ci si riporta è quella in fac-
simile edita dal C.N.R.S.; quando la nota dei Cahiers è ripresa anche nell'antologia
curata da J. Robinson per la «Bibliothèque de la Pléiade>> (PAUL VALÉRY, Cahiers,
Voli. II, Paris, Gallimard 1973-74, qui abbreviata in C I e II) ne viene fatta men-
zione tra parentesi. Tutte le citazioni sono tradotte dal curatore del volume.
2 OE I, pp. 1394-1935.

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Ombre che si agitano sul fondo di caverne, fiumi sinistri
che non si possono riattraversare, corridori che si passano una
fiaccola o che si affannano invano dietro a una tartaruga,
aquile e serpenti: da Platone a Nietzsche è uno scorrere di
miniati exempla, di fabulae seducenti nate dal piacere della
speculazione astratta congiunto a quello dell'affabulazione.
Quel che si perde in esattezza, lo si guadagna in bellezza:
posta sotto il segno del Gioco - ove cioè l'arbitrario si fa
necessità - e del Sapere senza Potere - ove il mezzo si
trasforma in fine - , la filosofia appare a Valéry «una delle
belle arti».
Ma se i filosofi sono artisti, e più specificamente poeti,
affascinati da parole ambigue (Essere, mondo, spirito, mate-
ria ... ) davanti a cui vanamente si interrogano, sembra man-
car loro quella familiarità con le trappole del linguaggio che
accompagna invece il far poesia.
«Per mestiere - nota lo scrittore nei Cahiers - sono
obbligato a servirmi di un mucchio di parole vaghe e a far
finta di speculare su di loro, loro tramite.
Ma, in me, non valgono nulla. Io non penso veramente con
queste parole da filosofi - che sono di solito espedienti del
linguaggio comune a cui si dà una importanza specifica, e da
cui si cerca di trarre lumi - supponendo loro un senso,
considerandole come problemi secondo quest'ottica, mentre
secondo un'altra le si utilizza come semplici mezzi.
Così che cos'è il Tempo, la Bellezza ecc.? (... ) Non vi sono
che problemi lessicologici, esterni - che si riferiscono ad
altro rispetto alla mia esperienza - attuale - interna -
operante» 3 •
È dunque una caccia magica quella con cui, secolo dopo
secolo, la speculazione filosofica ha cercato di cogliere il suo
oggetto sfuggente e palpitante, la «gioia senza nome» dell'e-
sperienza artistica. Ma, vittima della fascinazione perversa
del linguaggio (incarnato vuoi negli ori della lingua greca,
vuoi nelle glorie del tedesco o nei giochi vivaci del francese),

3 Cahiers, 1934-1935, XVII, p. 732 (C l, pp. 680-681).

7
ha finito con lo smarrire quell'esperienza precisa e vitale che
l'aveva suscitata, per ricadere nel vizio originario di trattar
l'ombra - la parola- come cosa salda: e quel piacere si è
sconciato nei rigori di una precettistica, o dissolto nell'enne-
sima invenzione di una definizione.
Così Platone, secondo un ironico appunto dei Cahiers,
dopo aver goduto della bellezza e della danza, toccando corpi
(almeno, speriamolo per lui! annota Valéry) e ammirando
gesti sapientemente ritmati, «stanco, passava in cielo a porvi
'Verità', 'Modelli' assoluti»; sì che da quel mistero di un
diletto indefinibile, tanto simile all'amore, da quella mistura
di voluttà, di fecondità e di energia, in cui la contemplazione
si fa azione, l'arbitrario necessità, la sensazione pensiero, non
si ritrova che il disegno caparbio di un'astrazione, l'utopia di
un'etichetta tesa a cogliere un'essenza: l'Idea del Bello 4 •
È palese lo sconcerto che il pensiero valeriano poteva
suscitare - ed ha di fatto suscitato - in chi proponeva una
funzione magistrale della filosofia, e in particolar modo un
suo ruolo di coscienza critica nei confronti dell'operare degli
artisti (considerati ingenui creatori e teorizzatori velleitari):
l'esempio più famoso, in area italiana, è stato offerto dalla
polemica crociana che seppe trovare accenti d'anatema per
colpire, in Valéry, tutta una tradizione di poiesi lucida e
consapevole.
Ma è palese altresì l'interesse che questo pensiero avrebbe
suscitato in tempi più recenti, sollecitati dalla psicologia
cognitiva, dalla linguistica, dalle teorie della ricezione: come
il singolare tentativo di analisi dei processi mentali perseguito
nei Cahiers, questa meditazione sulla creazione e fruizione
artistica era destinata ~d apparire fra i testi più stimolanti e
consonanti alla cultura contemporanea.
Dai quaderni in cui hanno origine, i discorsi e le lezioni
dedicate da V aléry all'estetica, alla poetica e all'« estesica »
4 La citazione esplicita (Cahiers, 1929, XIII, p. 477) è seguita da una implicita

(OE l, p. 1300). La definizione dell'«oggetto d'arte>> quale <<gioia senza nome>> è


tratta invece dall'inedita Histoire brisée dedicata a Sauré le peintre (Paris, Bibliothè-
que Nationale, Fonds Valéry, II, f. 65).

8
(cioè alla ricezione dell'opera d'arte) traggono alcuni carat-
teri comuni.
L'abitudine all'auto-osservazione e all'analisi dei dati mini-
mali dell'esperienza ne detta l'itinerario; un radicato scettici-
smo ne suggerisce gli strumenti linguistici, sempre artigia-
nali, funzionali, provvisori.
Come il tema centrale dei Cahiers, - la modellizzazione
del mentale - è perseguito attraverso l'adozione di schemi e
di linguaggi mutuati alle scienze «dure», e fissato da un
nuovo tipo di scrittura documentaria, così il più specifico
oggetto di questi saggi, il gioco interattivo che determina
azioni e istituzioni artistiche, è analizzato a partire dalle
esperienze personali e formalizzato secondo i modelli offerti
dalle scienze biologiche, economiche o politiche.
Anche il linguaggio è composito e sperimentale: il bagliore
di un'immagine poetica, l'ironia di una citazione, la preci-
sione di un lessico settoriale si compongono intimamente
«come gli elementi chimici nei corpi viventi», come «sensa-
zione, azione, sogno, istinto, riflessioni, ritmo o dismisura» si
erano combinati per dare origine a quella «gioia senza nome»
a cui introducono queste pagine.

«Scrivo una 'Prefazione'. Una di più. E che non ho voglia di


scrivere. Mestiere curioso, dover fare quel che non si ha voglia,
tramite mezzi che si sono creati e perfezionati a partire dall'ap-
passionato interesse portato alle cose della mente. (... )
Ma, al momento di finirla con questo compito, esso riesce
ad eccitarmi, ed ora vedo che cosa potrei fare a partire da
questo stadio, se lo prendessi come punto di partenza di un
nuovo lavoro.
(... ) Ne trarrei qualcosa che sarebbe mio, mentre questi
fogli sono prodotti di circostanze, d'altri, d'automatismi per-
sonali e di condizioni eteroclite diverse» 5 •
La maggior parte degli scritti di V aléry - tutti i testi che

5 Cahiers, 1942, XXVI, p. 527 (C l, pp. 306-307).

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compongono questo volume, per esempio - sono nati in tal
modo.
Da un lato vi è una scrittura segreta, inclassificabile, che
per cinquant'anni riempie di note, aforismi, microracconti,
formule e schemi quasi trecento quaderni - attività fonda-
mentale, strumento di ricerca per la vita stessa; dall'altro vi è
un'opera poetica, germinata fra lunghe fasi di silenzio, pub-
blica ma dichiaratamente accessoria, pura «ginnastica ver-
bale e mentale»; infine, splendido parassita di entrambe,
questa écriture sur commande - prefazioni, conferenze,
lezioni al Collège de France - ogni volta affrontata come
tedioso compito e ogni volta risolta in sfida stimolante.
Benché nata tardi, dopo il successo della ]eune Parque e di
Charmes, frutto di un ruolo pubblico a cui Valéry si era
piegato con sottili riserve, questa scrittura critica ha dunque
le sue radici in una più antica abitudine all'analisi. Non è
semplice corollario o manifesto all'opera poetica - quale
appare spesso la critica d'autore e quale è stata giudicata
prima della pubblicazione dei Cahiers; è la traduzione, lo
sviluppo occasionai e di un'attività di riflessione, di trasforma-
zione e di autoedificazione di cui tutta l'opera valeriana è la
traccia scritta - traccia viva e immediata nei quaderni,
astratto esercizio combinatorio nei poemi.
In questa nuova ottica è manifesto quanto sia particolare,
in V aléry, il rapporto fra teoria e pratica di scrittura: nata nei
Cahiers, sviluppata in discorsi d'occasione, trasformata in
scritti d'occasione, la teoria segue e accompagna le sfide
formali proposte a se stesso dal poeta; ma queste sfide si fanno
stimolo a processi operativi, occasione preziosa di osserva-
zione dell'attività mentale, determinando a loro volta inspe-
rati itinerari d'analisi.
Un gioco di feed-back si istaura dunque non solo fra i
diversi tipi di scrittura - per esempio fra la pagina ove un
ritmo si fa parola e quella ove lo si indaga quale elemento
genetico - , ma fra le stesse fasi convenzionalmente definite
«di scrittura» e «di silenzio» della biografia valeriana. Alle
partizioni ventennali care alla tradizione critica si sostituisce

10
l'immagine di una ricerca lineare e rigorosa, perseguita
attivamente attraverso mutamenti biografici subiti con pas-
siva noncuranza. Il disegno della vita e dell'opera di Valéry
ritrova la compattezza di un progetto unitario: una quete
inflessibile il cui Graal è la conoscenza - cioè la costru-
zione - di se stessi.
Questo itinerario comincia - se si vuole fissare un inizio
esterno - proprio con un fascio di poesie, un giudizio critico,
un progetto lirico. Sono testi giovanili in cui la lezione
simbolista è messa a frutto con progressiva maestria, e il cui
coronamento dovrebbe essere un Carme di mistico estetismo,
più volte annunciato e mai intrapreso. Con la lucida intransi-
genza dei vent'anni, nel 1892 V aléry abbandona il suo sogno
d'arte, piegando a un più urgente fine l'acquisita familiarità
con la pagina: «Scrivere - per conoscere se stessi - ecco
tutto».
Cominciano gli anni che la tradizione ha battezzato «di
silenzio»; anni progressivamente deserti di poesia ma scanditi
dai Cahiers, di cui proprio un taccuino del 1892 annuncia il
prossimo accumularsi; anni abitati dai geni tutelari di un
Sapere che si fa Potere: Napoleone, artista della morte,
Leonardo, stratega creatore. Nella vita quotidiana - grigia,
incerta di futuri accettabili - , nella scrittura- cauta, mini-
male, calibrata - domina il motto leonardesco che V aléry ha
fatto proprio, «Hostinato rigore», e l'orgogliosa solitudine
che darà vita al solitario Monsieur Teste: «L'imbecillità non è
il mio forte ... ».
È un cammino d'astrazione che procede attraverso radicali
spoliazioni. Non solo nasce come reazione di difesa (a una
contingente sofferenza amorosa, a una vaga angoscia funebre,
a una precisa insoddisfazione di fronte a «paragoni che mi
distruggevano ... Mallarmé ... Rimbaud»), ma, da formula
specifica di esorcizzazione intellettuale, si fa strumento abi-
tuale del pensare e del sentire. Quel «negativismo» che,
secondo i Cahiers, aveva condotto Valéry a rifiutare il mondo
esterno per privilegiare, nell'infanzia, il gioco dell'immagina-
rio e, nell'adolescenza, la sua traduzione letteraria, lo porta

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ora ad azzerare lo stesso mondo dell'immaginario, per non
salvarne che una pulsione: quella cognitiva.
Di questa crisi di desimbolizzazione, di questa ipotesi di
riconoscimento e di ricostruzione a partire da un elemento
minimale - una funzione mentale - la scrittura è traccia e
strumento. Come annuncia una lettera del 1893 a Ci de: «La
mia scrittura mi rivela il cambiamento volontario che si è
fatto in me»; come conferma una pagina autobiografica di
molti anni dopo: «Ho voluto scrivere per me, e in me, per
servirmi di questa conoscenza ... ».
Nei testi prodotti in quegli anni- vari per soggetti trattati
ma accomunati dalla divisa «écriture-connaissance» - si
può seguire il sorgere e l'abbandono di un'utopia gnoseologica
suggerita dai fasti e dalla fascinazione del modello matema-
tico. Valéry parla di «matematica delle parole» e studia la
possibilità di trasformazione del linguaggio in uno strumento
preciso e depurato, secondo gli esempi proposti da alcune
scienze. I Cahiers (che cominciano nel1894) ne sono il campo
privilegiato di sperimentazione, l'incompiuta Agathe il più
ambizioso tentativo; ma ne restano tracce anche negli scritti
pubblicati, quelli che rivelano il nuovo Valéry: Teste, Léo-
nard de Vinci.
Sfaldatosi il sogno di una scrittura modellata sulla Mathe-
matica universalis, la critica del linguaggio lascia il posto a
soluzioni più contingenti e pragmatiche. Imprecisa, ambi-
gua, magica di trappole e di incantesimi, la parola appare
ormai la semplice «passerella» che il pensiero deve attraversa-
re il più rapidamente possibile; menzognero strumento logico,
è però adatta alle illusionistiche epifanie letterarie, si che la
poesia può a buon diritto proporle la sfida delle sue conven-
zioni sapienti, il riscatto delle sue architetture perfette.
Il cosiddetto «ritorno alla creazione poetica», nel 1912,
avviene così, con perfetta coerenza, secondo quel disegno a
spirale che contraddistingue anche formalmente il pensiero di
Valéry. Un'esperienza letteraria giovanile, superata da anni,
viene ripresa, rimeditata da un «Io» che se ne era allontanato
per percorrere ben altri spazi; essa si fa stimolo a un'attività

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nuova, memore delle antiche tecniche e agile di mutate
abitudini mentali. Nei Vers anciens che il caso e la garbata
insistenza degli amici gli hanno fatto ritrovare, Valéry vede
problemi non risolti, e pretesto di nuovi, più complessi
problemi formali: «mi accuso, mi accuso - scriverà poi-
d'aver considerato la letteratura come mezzo, non come
illusoria fine; (... ) vi ho visto uno strumento di scoperte
- come un'algebra che ora scopre le sue proprie proprietà e
possibilità; ora le relazioni delle cose a cui si rapportano per
definizioni e convenzioni o altro le sue lettere» 6 •
Il lavoro di jabrication testuale non è dunque che un
aspetto specifico di quel lavoro di jabrication di sé paziente-
mente perseguito in un quotidiano sforzo di lucidità analitica;
ne è uno specchio, un campo d'azione, uno stimolo: «Colui
che lavora si dice: Voglio essere più potente, più intelligente,
più felice -·di- Me» 7 •
La tentazione di una dicotomia pensiero/ scrittura poetica,
quale poteva essere presente negli anni immediatamente
successivi al '92, è superata dall'acquisizione di più autonomi
strumenti metodologfci. Se il raffinato esercizio combinatorio
sollecitato dalla poesia si propone come occasione di analisi a
un tempo linguistica, psicologica o, in 'Certa misura, fisiolo-
gica, questo stesso gusto dell'analisi e della scomposizione
logica aiuta la traduzione del pensiero in figure.
Campo di sperimentazione di questa nuova fiducia sarà la
sfida singolare della ]eune Parque. Composto come un eserci-
zio di puro virtuosismo intorno a un nucleo tematico di cui
sembra non esistere un possibile lessico poetico, medico,
psicologico o fisiologico (le leggi di trasformazione della
sensazione nel pensiero), costretto entro schemi di versifica-
zione puntigliosamente esasperati in un'epoca di propugnata
libertà formale, frutto estremo di una tradizione culturale che
sta scomparendo nella voragine della grande guerra, il poema
«impossibile» si forma e si dilata in cinquecento versi rifiniti e

e Cahiers, 1937, XX, p. 630 (C, I, p. 290).


7 OE II, p. 486.

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perfetti. Nel 1917 l'« esercizio» ha creato il poeta; mentre
intorno al testo oscuro e lucidissimo risuona una fama inat-
tesa, in Valéry ride quel «virtuosismo acuto» che darà vita, in
pochi anni, a magie verbali di odi e di sonetti: Charmes,
incantesimi di sensualità e d'intelligenza.

Al fiorire della grande stagione valeriana - fra le due


guerre - sono stati dedicati molti saggi. Più stimolante
appare oggi sottolineare certi aspetti del suo pensiero che solo
un recente sviluppo di alcuni itinerari critici ha portato a
riconoscere e ad apprezzare.
Fra gli scandali suscitati dalla meditazione teorica di
Valéry, per esempio, non vi è stato solo il fatto di aver
considerato «lavoro di calcolo e congegno quella che è espres-
sione poetica» 8 , o di aver sottilmente sferzato i vagheggia-
menti metafisici dell'estetica, l'incompetenza della critica, la
repulsiva trasformazione in esercizio scolastico di testi nati
per puro e raffinato godimento; la definizione dell'oggetto
d'arte come un «escremento prezioso», morto residuato di
un'attività complessa e paziente, non poteva certo apparire
consonante con la funzione di poeta ufficiale accettata (o
subita) dal suo autore.
Portando alle estreme conseguenze la strategia di potere
che formava la lezione di Poe, Valéry teorizza infatti come
opera d'arte il fare, non il manufatto; considera 'arte' la co-
struzione stessa dell'opera - come un gioco di scherma, una
partita di scacchi, una campagna napoleonica. Al limite, il
vero prodotto non sarà la morta traccia della scrittura, ma lo
scrittore stesso, quale l'avrà trasformato il lavoro mentale di
cui l'opera è semplice applicazione.
«A forza di costruire - afferma Eupalinos, l'architetto -
credo proprio di aver costruito me stesso»? 9 •
Come Robinson Crusoe è l'immagine dell'attività paziente

8 B. CROCE, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della


letteratura, II ediz., Bari 1937, p. 332.
9 OE II, p. 92.

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e composita dei Cahiers, il musico e l'architetto appaiono,
nell'opera valeriana, simboli dell'arte in assoluto e della
poesia in particolare. Per tutti, l'« opera non esiste che in
atto»; per tutti l'azione è sottile analisi di forze e di strumenti;
per tutti la costruzione è autocostruzione (Robinson finisce
addirittura con «l'aver costruito la sua isola»). Ma mentre il
gioco musicale, letterario o decorativo permettono i calcoli
sicuri ed essenziali, le combinatorie sottili, le studiate illu-
sioni, il « Robinson intellettuale» deve costruire strumenti
provvisori con eterogenei elementi - un po' di linguaggi
naturali, qualche prestito matematico, rari neologismi -
attento a non cader vittima del fascino variopinto di « pa-
role-pappagallo»: Universo, Essere, Bellezza ...
Nella sua dichiarata menzogna, il mondo dell'arte, proprio
perché si vuole fabbricazione coerente, lucida, consapevole di
convenzioni liberamente accettate come vincolanti, può in-
vece offrire una «festa dell'intelletto» ignota al puro esercizio
del pensiero speculativo.
Nella chiusa di Eupalinos, Socrate, dopo aver cercato per
tutta una vita di scoprire Dio «attraverso i soli pensieri», non
trovando che parole, nate da parole e che a parole ritornano,
proclama:
« ... è negli atti, e nella combinazione degli atti, che dob-
biamo trovare il sentimento immediato della presenza del
divino( ... ).
Ora, di tutti gli atti, il più completo è quello di costruire.
Un'opera richiede l'amore, la meditazione, l'obbedienza al
tuo pensiero più bello, l'invenzione di leggi a mezzo del tuo
spirito, e mille altre cose che meravigliosamente trae da te,
mentre neppure sospettavi di posseder!e» 10 •
Il passo socratico del Demiurgo che crea, dal caos informe,
l'ordine del mondo, la celebre pagina dell'uomo primitivo
che, carezzando distrattamente un vaso grossolano, sente
nascere in sé il desiderio di modellarne un altro «per poterio
carezzare)), sottolineano il ruolo determinante che ha il
piacere nell'estetica valeriana.

IO OE II, pp. 142-143.

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Al piacere del fruitore - quel «Mostro della Favola
Intellettuale» di cui già si è parlato, «sfinge o grifone, sirena o
centauro» irriducibile alla caccia dialettica - risponde
quello del creatore, accompagnato, a un livello più alto, dal
processo intellettuale che Valéry definisce, poescamente, self-
consciousness. Non è un caso che la metafora erotica sia
delegata ad esprimerli entrambi, e ~iventi addirittura tema
centrale di poesia: Charmes può a giusto titolo sottolineare,
nella voluta ambiguità dei suoi versi, il duplice e unitario
diletto del sentire e del capire. «I due terribili angeli del 1892,
Nouç e "Epwt;» messaggeri di distruzione e di creazione nel-
la indimenticata crisi dei vent'anni, diventano così, converti-
ginoso gioco di specchi, i protagonisti di una scrittura poetica
da loro interrotta e ricreata.
È singolare il contrasto fra questa estetica del piacere,
questo sprezzo della «macchina (... ) testuale» non appena
esaurita la sua funzione di stimolo, e la marmorea immagine
del Valéry poeta e maitre à penser consegnataci dalla fama
degli anni '30-40.
Se quella parte del suo pensiero che più nettamente rin-
viava al magistero baudelairiano - il rifiuto di ispirazione
intuizione sentimento messaggio, per riprendere il lessico di
una famosa polemica - ha trovato precisa consonanza nella
critica formalistica che, da paesi diversi, veniva proposta
negli anni fra le due guerre, se la proclamazione dell' autorefe-
renza della parola poetica ha generato le oziose polemiche
intorno all'etichetta di poésie pure, appaiono affatto ignorati,
invece, i privilegi del «testo in atto» sul testo scritto, la
demitizzazione del libro, dei suoi templi e sacerdoti di fronte
ai giochi vivi della phoné.
Dei due corpi che costituiscono l'estetica valeriana, la
Poetica e l'Estesica, la prima avrebbe visto solo con lo
Strutturalismo e, più tardi, con gli studiosi di genetica te-
stuale, proporsi alfine l'« atto di scrittura» come oggetto di
analisi specifica; la seconda avrebbe atteso i primi saggi di
Jauss per rinascere col nuovo nome di «teoria della rice-
zione».

16
Ancora più recenti le coincidenze fra gli esperimenti del-
l'ouLIPO e le speculazioni sulla letteratura potenziale.
<<Sarebbe forse interessante - aveva scritto Valéry - fare
una volta un'opera che mostrasse ad ogni punto nodale, la
diversità che può presentarsi allo spirito, e in cui esso sceglie
l'unico seguito che sarà dato nel testo. Significherebbe sosti-
tuire all'illusione deterministica (... ), quella del possibi-
le-ad-ogni-istante, che mi appare più veritiera)) 11 •
Nell'opera valeriana il gioco di virtualità è mimato dalla
ripresa indefinita, potenzialmente infinita, che egli fa dei suoi
testi: l'edizione, che fissa per il pubblico una fase della
costruzione testuale, uno stadio all'interno di una catena di
elaborazione, è trascesa da una ulteriore variazione. La
pratica di scrittura si fa pratica di riscrittura, e il testo si pone
come pre-testo, nuovamente attivo, nuovamente in atto.
Se il «poema infinito» che Valéry ha qualche volta ipotiz-
zato non ha trovato (ancora?) modo di manifestarsi, singolari
risposte al desiderio valeriano sono state date dai giochi
combinatori di Queneau, di Perec, o dagli attuali esperimenti
di letteratura interattiva tramite computer.
Pure, se da questa rilettura dei saggi teorici di Valéry
potesse essere scelto un itinerario di ricerca, non sottolineerei
quello, trionfale, della modellizzazione scientifica proposta,
allora, con garbata capacità sovversiva: vorrei fosse, ora, la
ridiscussione dei rapporti fra biografia e scrittura, fondamen-
tale e irrisolta questione di molti settori della critica.
Su di essa lo scrittore - spesso stupefatto alla lettura dei
saggi che gli venivano dedicati - ha scritto note di sottile
ammonimento:
« ... la vita.
L'ho sempre sentita come ... distinta da Me.
Una specie di moglie, assai raramente amante-amata -
che fa le spese e le pulizie,
assegnata a Me, legata da non so che Legge.

11 OE I, p. 1467.

17
In fondo, un'estranea di cui ignoro quasi tutto,
e lei di me» 12 •

«Ricordi - Crisi.
La situazione di Genova nel '92 - Lampi - camera
visitata dai lampi.
La situazione di Nizza nel '21» 13 •
Nella vita di Valéry due crisi a un tempo sentimentali e
intellettuali segnano la nascita di una nuova estetica.
L'episodio del1892 determina, come si è ricordato, tutto lo
svolgimento del pensiero valeriano, quale è documentato dai
Cahiers, dai poemi e dai saggi teorici. È la strada maestra che
tutti i testi - quindi anche i testi di questo volume -
spalancano davanti ai nostri occhi.
Più segreta, solo ipotizzabile attraverso una serie di costanti
operative, la svolta provocata nel '21 da un nuovo trauma
sentimentale - questa volta un amore ricambiato- e da
una crisi intellettuale: la trasformazione della visione del
mondo ad opera della meccanica quantistica.
La relazione con Catherine Pozzi (la scrittrice-scienziata di
Peau d'ame) rappresenta l'esperienza profonda, dirompente,
totale dell'incontro con l'Altro. Lo specchio intellettuale si è
fatto reale: un «doppio» si offre, si sottrae. Anche le note dei
Cahiers si duplicano in narrazioni frantumate, poi pubblicate
appunto come Histoires brisées:
«Che si può fare di un ALTRO? Che si può fare con un ALTRO?
(... ) Sono come gravissimi incidenti che si producono lungo il
cammino della vita (... ) Si ha un rapporto completamente
nuovo con se stessi» 14 •
Lo sconvolgimento di un equilibrio raggiunto, nel 1892, a
prezzo di un totale depauperamento e poi mantenuto con
lucido rigore si accompagna, in quello stesso periodo, alla

12 Cahiers, 1941, XXIV, p. 814 (C l, p. 198).


13 Cahiers, 1928, XIII, p. 20 (C I, p. 113).
14 OE II, pp. 433-434.

18
trasformazione di un'immagine della realtà esterna ormai
creduta stabile. Ora «l'immaginario, l'immaginabile non
sono più» annota nei Cahiers; più oltre, con ancora maggiore
chiarezza: «La fiducia in se stesso ed anche l'obiettivo:
Conoscenza compiuta [sono] enormemente colpiti dai mo-
derni avvenimenti scientifici)) 15 •
Al nitido disegno proposto all'opera letteraria da un'abitu-
dine a modelli mentali di compiuta razionalità, subentra
allora la consapevolezza del frammentario, del corpo vivo,
franto, espanso secondo un equilibrio mutevole. Al gioco
composito delle parole, si unisce il bianco, il non detto, non
dicibile.
Al tempo stesso l'incompiuto ci organizza in nuovi sistemi,
sempre dichiaratamente provvisori: progetti di pubblicazione
dei Cahiers, edizioni parziali, poemi che s'intitolano Fram-
menti di ... , prose che si vogliono Storie spezzate.
Di questa nuova estetica non v'è traccia nelle pagine
teorico-critiche di V aléry; eppure i modelli di scrittura che
progressivamente egli accetta di pubblicare fanno pensare a
quei testi dichiaratamente «aperti)), «frammentari)), «in-
compiuti)) che sono fra le più caratteristiche cifre letterarie
dell'ultimo dopoguerra: pensieri che non si irrigidiscono in
saggi, esercizi teatrali giocati sull'ambiguità, romanzi ove ad
ogni pagina l'albero delle possibilità mostra le sue allettanti
ramificazioni.
In questa scrittura che si confessa incompletabile, franta,
disordinata, la fascinazione del «testo in atto» appare in tutta
la sua potenza. Pagine iniziate e mai finite, dunque sempre
all'inizio; alternative lasciate aperte; spazi, annotazioni in-
terne che propongono un gioco di auto-osservazione per
iscritto: il possibile ad ogni istante è là, svelato, materiale
grezzo che ripropone all'infinito l'atto, la scelta, il travaglio.
È naturale che di questa scrittura strana (estranea) e
inquietante, V aléry non abbia dato teorizzazione nei suoi

15 Cahiers 1934, XVII, p. 415.

19
saggi. Essa non svela solo lo sconcerto di un soggetto costretto
a ripercorrere infinitamente le proprie tappe, ma - forse -
l'inadeguatezza dell'oggetto che ne racchiude la traccia. Resta
la sfida dei Cahiers, utopia di un'«opera d'arte fatta con i fatti
stessi del pensiero».
Maria Teresa Giaveri

22
Avvertenza

La scelta dei testi d'estetica e di poetica che compongono questo


volume si fonda su un doppio criterio: offrire un quadro esaustivo
dei diversi contributi teorici di V aléry ed evitare le ridondanze di
una riflessione usa a ritornare, in dilatate spirali, sulle occasioni da
cui è stata stimolata.
Si sono perciò privilegiati, accanto alle pagine esemplari di
autobiografia poetica, testi rappresentativi di diversi itinerari che si
volgono o si dipartono dall'«oggetto d'arte» in generale e da quello
letterario in particolare; sono state scelte note «semi-brute» quali
quelle offerte da un Taccuino, trascrizioni di conferenze pronun-
ciate a partire da semplici schemi preparatori, saggi di raggiunto
equilibrio formale approntati dall'autore stesso per la stampa.
La maggior parte dei testi qui tradotti è stata inserita da V aléry in
Variété e quindi ripresa nella già citata edizione della «Pléiade». Al
lettore di lingua italiana è peraltro ignota tale sezione dell'opera
valeriana, se non per la splendida - ma purtroppo esaurita -
antologia offertane da Stefano Agosti (PAUL VALÉRY, Varietà,
Milano, Rizzoli, 1971). Altri testi, apparsi solo su fogli specializzati,
sono ignorati anche dal pubblico francese.
Per questi ultimi documenti si è data un'informazione bibliogra-
fica completa; per gli altri, reperibili nelle già citate Oeuvres
complètes, si è ritenuta sufficiente l'indicazione della prima edi-
zione.

21
La creazione artistica (La création artistique, conferenza pronun-
ciata il 28 gennaio 1928 alla «Société française de philosophie» e
seguita da dibattito), in Bulletin de la Société française de philosop-
hie, janvier 1928- ripresa in Vues, «Coll. Le choix», IX, Paris, La
Table Ronde 1948.
Taccuino di un poeta (Calepin d'un poète, testo seguito dalle
«Note» per una conferenza che era stata tenuta all'Université des
An n ales il2 dicembre 1927), Poesie, Essai sur la Poetique et le Poete,
«Coll. Bertrand Guégan», aout 1928; OE l.
Ispirazioni mediterranee (Inspirations méditerranéennes, confe-
renza tenuta all'Université des Annales il 24 novembre 1933), in
Conferencia, 15 février 1934; OE l.
Intorno al (( Cimietière marin )) (Au sujet du (( Cimetière marin))) in
La Nouvelle Revue Française, n. 234, I mars 1933, e come prefa-
zione a Gustave Cohen, Essai d'explication du (( Cimetière marin11,
Paris, Gallimard 1933; OE l.
Riflessioni sull'arte (Réflexions sur l'art, conferenza pronunciata il 2
marzo 1935 alla «Société française de philosophie» e seguita da
dibattito), in Bulletin de la Societé jrançaise de philosophie, mars-
avril1935.
Questioni di poesia (Questions de poésie) in La Nouvelle Revue
Française, n. 256, I janvier 1935; OE l.
Prima lezione del corso di poetica (Première leçon du cours de
poétique, tenuta al Collège de France il10 dicembre 1937), edizione
riservata ai professori del Collège de France, Paris Gallimard 1938,
e in Introduction à la Poétique, Paris, Gallimard 1938; OE l.
Frammenti di memorie di un poema (Fragments des mémoires d'un
poème) in Revue de Paris, 15 décembre 1937; OE l.
Discorso sull'Estetica (Discours sur l'Esthétique, pronunciato al
Deuxième Congrès International d'Esthétique et de Science de
l'Art, 8 agosto 1937), in Actes du Deuxième Congrès International
d'Esthétique et de Science de l'Art, Vol. l, Alcan 1937; OE l.
Poesia e Pensiero astratto (Poésie et Pensée abstraite, conferenza
pronunciata all'Università di Oxford), ivi pubblicata con il titolo
The Zaharojj lecture jor 1939, Clarendon Press 1939; OE l.

22
La caccia magica
La creazione artistica

Signori, - e anche - Signore,


Sono confuso e onorato di essere stato invitato a comparire qui,
di fronte ai membri della Société Française de Philosophie.
Questo onore mi intimidisce: mi sento terribilmente imba-
razzato a dover parlare - o cercar di parlare - davanti a voi.
Vorrei, prima di tutto, dire due parole di ringraziamento a
Xavier Léon, che mi ha appena rivolto apprezzamenti troppo
lusinghieri. Non vi è nulla di più difficile da ascoltare senza
emozionarsi, nulla tanto temibile quanto un'introduzione così
benevola. Xavier Léon vuole a tutti i costi fare di me un
filosofo ... Tenterò per qualche istante di rendermi simile a voi.
In verità - visto che bisogna giungere ad una sorta di
confessione pubblica, - vi sono state nella mia vita intellet-
tuale due parti, - che talvolta si sono riunite, - l'una tutta
votata allo studio appassionato e testardo di alcuni problemi,
che, come ho saputo più tardi, potevano essere problemi
filosofici; l'altra, dedicata a certa produzione letteraria (sotto
forma di poesia), dedita all'esercizio molto discontinuo di
un'arte.
Ora, è capitato che questi due modi di attività avessero in
me rapporti particolari, e che, mentre mi dedicavo a varie

25
ricerche che non avevano nulla di letterario, il demone o il
sentimento dell'arte vegliassero ugualmente al fondo della
mia mente; ma, in seguito, quando le circostanze mi hanno
tardivamente condotto, o ricondotto, a scrivere, quando ho
ripreso a comporre poesie, - accadde che le idee, i metodi, il
sistema di pensiero che erano divenuti essenziali per me non
potessero non comparire e intervenire nella mia attività di
scrittore. Credo che ciò si veda. - Forse anche troppo! ...
Questa combinazione di attività distinte non aveva nulla di
necessario. Un pensatore e un artista possono vivere ignorando-
si nello stesso individuo, così come pare che la scienza e la fede
rimangano dei modi di valutazione separati in certe menti.
Siccome credo di essere qui per cercare di proporre davanti
a voi qualche problema, e non certo per risolverne, vi porrò
questo che deriva quasi naturalmente da quanto vi ho appena
detto:
«Quale ruolo possono realmente svolgere nell'artista stesso,
e riguardo alla pratica della sua arte, le riflessioni di tipo
generale e teorico, - una concezione del "mondo", per
esempio, un idea dell'uomo o dell'intelletto?».
Il problema è piuttosto delicato da enunciare con preci-
sione. Non si tratta affatto di estetica, ma piuttosto di
psicologia, e non penso a quelle teorie dell'arte che si costitui-
scono talvolta in dottrine di scuola; queste teorie sono gene-
ralmente fatte a partire dall'arte e finalizzate all'arte. No,
voglio parlare di concezioni generali, ma personali, (vale a
dire profondamente sentite e non soltanto apprese), che
possano, d'altra parte, riflettersi in un'opera, formare in un
certo senso - benché non espresse da essa - la sostanza
stessa di una creazione artistica ... o, più precisamente, - se
posso permettermi un'espressione molto arrischiata, - che
creano per gli atti specializzati dell'artista una sorta di campo
metafisica in cui si svolgono, sono orientati, facilitati e spinti
in un senso, ostacolati o intralciati in un altro ...
Mi sembra possibile chiedersi se la creazione artistica sia
compatibile con una visione profonda e non comune dell'es-
senza delle cose secondo qualcuno.

26
Impiego volutamente il termine essenza, per distinguere
bene dalla visione originale e intensa degli oggetti e delle
persone (che è evidentemente necessaria all'artista) questa
visione più astratta e teorica di cui mi occupo.
A questo proposito vi citerò fra breve una certa frase da cui
sono stato fortemente commosso.
Dico commosso, perché è possibile esserlo per cause pura-
mente «intellettuali». Vi è in alcuni, come sapete senz'altro,
una sorta di sensibilità intellettuale. In diversi momenti della
mia esistenza, ho provato tanto violentemente gli effetti di
questa sensibilità da nutrire l'ambizione di farne passare
qualcosa nel campo della letteratura, benché l'arte letteraria,
come tutte le altre, si rivolga di preferenza alle emozioni di
tipo sensoriale, sociale o sentimentale. Mi sono chiesto se il
lavoro del solo intelletto isolato, i suoi eventi, le sue gioie e
dolori, i suoi splendori e miserie, le sue grandezze e servitù
non potessero venire rappresentati con i mezzi dell'arte.
Finora l'arte, quando ha preso come tema la vita intellet-
tuale, ha considerato e dipinto più l'intellettuale, l'uomo di
cultura, che l'intelletto stesso. Ma mi pareva che l'intelli-
genza, nell'esercizio delle sue ricerche illimitate, facesse pro-
vare emozioni del tutto analoghe, - benché di una tonalità
tutta particolare, - a quelle che sono associate alle impres-
sioni suscitate da spettacoli naturali, eventi della vita affet-
tiva, questioni d'amore o di fede. L'emozione intellettuale è
evidentemente più rara delle altre.
L'arte che la fissa e la riproduce non può avere che una
risonanza limitata ...
Ma arrivo a quella frase di cui volevo segnalarvi l'importan-
za. Non posso assicurarvi di non alterarne la lettera, poiché non
ho potuto ritrovarne il testo; ma eccone la sostanza: Richard
Wagner, scrivendo a non so chi, a proposito della composizione
di Tristano e Isotta, dice più o meno questo: Tristano, come
sapete, è stato concepito da Wagner in un periodo di grande
passione amorosa; fin qui nulla di straordinario, - è il caso di
molte opere, anche mediocri. Ma Wagner aggiunge: «Ho
composto Tristano sotto il dominio di una grande passione e
dopo molti mesi di meditazione teorica».

27
Considerate, signori, questa doppia condizione, - o meglio:
questa condizione e questa condizione, perché non le si possono
sommare. Esse si compongono in una sorta di antinomia.
Nulla mi ha fatto pensare più di questa piccola frase che
rispondeva a non so quale attesa e convinzione in me ... Cosa
vi è di più raro, mi dicevo, e di più desiderabile di questa
singolare associazione di due modi di attività vitale, comune-
mente considerati come indipendenti, e persino incompati-
bili; - da una parte, agitazione profonda del «sentimento»,
onnipotenza dei turbamenti affettivi, esaltazione sensuale di
un idolo psichico; - dall'altra, complessa meditazione teo-
rica, commista di metafisica e di tecnica, nella quale dove-
vano trovarsi intrecciati i problemi e le innovazioni prossime
dell'armonia, e le rappresentazioni dell'uomo e dell'universo
attinte da Schopenhauer e fortemente avvertite e rimeditate
dal prodigioso artista.
Ho trovato in queste parole non so quale stimolo superiore.
Vi vedevo una giustificazione quasi inebriante di ciò che
avevo così spesso pensato, riguardo all'intervento della medi-
tazione teorica, ossia di un'analisi serrata e penetrante quanto
si voglia, che utilizzi anche le risorse di un simbolismo
astratto, delle notazioni organizzate e, in definitiva, tutti i
mezzi della riflessione scientifica applicati ad una categoria di
fatti che a prima vista sembrano esistere solo nel campo della
vita affettiva e intuitiva.
Orbene, e l'esempio di Wagner lo mostra in modo partico-
larmente evidente, risulta che l'impiego di facoltà astratte,
- di una sorta di calcolo cosciente, - può, non solo accor-
darsi con l'esercizio di un'arte, - vale a dire con la produ-
zione o la creazione di valori poetici, - ma che è anche
indispensabile per portare a un grado supremo d'efficacia e di
potenza l'azione dell'artista e la portata dell'opera.
Come le scienze forniscono mezzi d'azione sulla natura che
superano di molto i poteri immediati dell'uomo, così nell'am-
bito delle arti, un'analisi teorica ben condotta può permettere
tali combinazioni di mezzi, una tale precisione d'intervento,
un tale spiegamento di risorse complesse, - può servire a

28
comunicare alle opere un potere d'emozione così intenso e
sostenuto, - che lo spettatore o l'ascoltatore soggiogato sia
tentato di attribuirne la creazione a qualche essere sovru-
mano. Pochi segni tracciati su un pentagramma scateneranno
le potenze organiche che generano in noi l'immenso universo
dei suoni, - e quest'universo illusorio ci darà a sua volta
l'illusione più profonda e più significativa dell'universo totale
o della complessità «infinita». Come scrivendo alcuni segni si
possono rappresentare numeri che sono al di là di ogni
intuizione, sia per la loro grandezza, sia per la loro struttura,
sui quali si può comunque speculare e operare con esattezza e
con profitto pur senza riuscire a concepirli, così fa il composi-
tore quando manovra, eccita, esalta, congiunge e disgiunge
per via astratta e superficiale le nostre facoltà intime, - e,
con esse, stimola tutto il sistema delle nostre idee.
Ciò che è vero per la musica, lo è anche per la letteratura?
Questione infinitamente delicata. Non bisogna mai scordare
che la letteratura, per quanto sia un'arte, è un'arte fondata
sul linguaggio, mezzo pratico, mezzo d'origine comune e
statistica. Ma l'arte è l'azione e l'affermazione di qualcuno, e
questa azione personale si esercita quindi in senso contrario
all'azione disordinata di tutti. .. Inoltre, e nello stesso ordine
d'idee, il linguaggio comporta un insieme di convenzioni che
si dividono in lessico e sintassi. Convenzioni, vale a dire:
legami che potrebbero essere differenti. Ma queste conven-
zioni sono generalmente imprecise; un gran numero di esse
sono indefinibili, o quasi. L'arte letteraria gioca con le
possibilità concessele da questa mancanza di rigore, ma lo fa a
suo rischio e pericolo, subendo o sfruttando malintesi, diffe-
renze di valore o di effetto delle parole a seconda delle
persone.
La letteratura non può giovarsi altro che del ritmo e delle
proprietà sensibili della parola per raggiungere l'essere orga-
nico di un lettore con una qualche fiducia nella conformità
dell'intenzione e dei risultati, ... ecc.
Non continuo questo genere d'analisi. Ho solamente voluto
darvi, signori, un'idea delle questioni che ho considerato,

29
- quando pensavo alla letteratura, - durante quella lunga
parte della mia vita che ho felicemente trascorso senza
scrivere. Dall892 all912, non ho lavorato che per me stesso,
s_enza alcuna idea di pubblicazione. La mia carriera letteraria
si è manifestata assai tardi e fu causata da circostanze
indipendenti dalla mia volontà.
Tuttavia, nonostante i lavori, le occupazioni o gli impegni
che riempiono ora le mie giornate, non perdo di vista quello
che fu il principale oggetto della mia curiosità e delle mie
ricerche più o meno avventurose. Esso fu anche il filo
conduttore della mia attenzione attraverso la varietà acciden-
tale della vita. Ritorno sempre sugli stessi problemi, su quelli
che credo fondamentali, o che la natura della mia mente
riconduce sempre come tali davanti a me.
Mi è capitato, lo confesso, di pensare che potrei fare di
quelle divagazioni ostinate uno di quei volumoni verdi, che
per il formato e l'aspetto vengono subito collocati in una
biblioteca di filosofia. Un sistema? Certamente noi Il solo
termine mi spaventa. Tutt'al più un insieme di idee,- o, più
esattamente: una collezione di enunciati di problemi - molti
dei quali, probabilmente, avrebbero diversi enunciati! Ma
questo volume, lo pongo sempre all'infinito dall'istante in cui
lo penso. Mi sarebbe molto difficile darvi un'idea di un'opera
così lontana! Non saprei da dove abbordare ciò che considero
senza bordi ... Ecco già una specie di definizione!
Fortunatamente abbiamo un oggetto più preciso. Abbiamo
convenuto che il tema o il pretesto di questa riunione fosse «la
Creazione artistica». Brunschvieg 1 voleva farmi parlare della
Creazione «tout courh. Ma, poiché non ho intuizione né
esperienza di questo fenomeno, ho pensato che fosse necessa-
rio, grazie a un attributo, restringere il progetto e ridurlo
all'esame di cose e di fatti dei quali potessimo avere una
conoscenza più concreta.
La creazione artistica è del resto un problema assai vasto e
arduo... Come affrontarlo? Permettetemi di abbandonarmi
davanti a voi ad una sorta di mania di cui soffro. Quando mi
si propone un problema di questo genere, in un primo

30
momento non vi vedo altro che ciò che chiamo una situazione
verbale. Mi trovo davanti a un sistema di parole al quale corri-
sponde un insieme o un campo di nozioni confuse e di relazioni
disordinate o incomplete. All'inizio è la confusione, - anche
quando non la si percepisce. Troppo spesso succede che la ri-
cerca si sviluppi a partire da questo stato, volando alle soluzioni
prima di aver ripulito questo campo mentale, e articolato i
problemi nel linguaggio dei mezzi reali del nostro pensiero.
Rispondiamo in tutta fretta e ciecamente ad un questionario
postoci a bruciapelo in una lingua non controllata.
Per questo si possono osservare tante confusioni e tanti
equivoci nell'ambito della filosofia estetica. Uno degli errori
più frequenti e più vistosi che si possano commettere specu-
lando sull'arte è quello di considerare le opere come entità ben
definite. Ne deriva che l'estetologo, ansioso di ricostruire la
genesi dell'opera, crede di poter risalire dall'opera all'autore,
con un'operazione diretta, e, in un certo senso (permettetemi
l'espressione), lineare. Così facendo egli si allontana, senza
avvedersene, dal vero e dal reale. Dal vero, perché un'opera
non può essere considerata che in o secondo un osservatore
ben determinato, e mai in sé. Dal reale, perché la realtà
dell'esecuzione di quell'opera è composta di innumerevoli
incidenti interni o accidenti esterni, i cui effetti si accumu-
lano, si combinano nella materia dell'opera, - e questa può
divenire alla lunga, soprattutto se fu molto elaborata e più
volte ripresa, un'opera senza autore definibile, - un'opera il
cui artefice, colui che avrebbe potuto farla di getto, senza
deviazioni, senza interventi, non è mai esistito.
Trattandosi di arte, vi sono, anzitutto, tre fattori da
distinguere: un creatore o autore; un oggetto sensibile, che è
l'opera; un paziente, lettore, spettatore, ascoltatore.
Non bisogna mai perdere di vista questa distinzione così
semplice, e confondere ciò che appartiene all'uno con ciò che
corrisponde all'altro. Bisogna diffidare dei giudizi che ope-
rano sintesi inconsapevoli o implicite di questi tre concetti.
Questi giudizi non hanno alcun senso.
Quando parliamo di un'opera, non scordiamoci che essa

31
non è di per sé che una cosa, la cui esistenza è latente quanto
quella di un disco quando il fonografo non è in funzione ...
Ma questa immagine mi suggerisce un esempio reale del
genere di errori di cui parlo.
Da alcuni anni è stata intrapresa una critica fonetica delle
poesie fondata sull'analisi di documenti registrati. L'uso di
queste incisioni della voce è del tutto legittimo quando si
tratta di fissare e di caratterizzare ciò che è. Non se ne possono
dedurre regole estetiche. L'apparecchio - la cui interposi-
zione dà una certa illusione di oggettività, non fa altro che
registrare a suo modo la voce di colui che ha declamato
davanti ad esso- e questa dizione vale quel che vale. Non vi
è nulla di più semplice, come sapete, che trasformare con la
lettura una poesia, rendere brutto ciò che è buono, e soppor-
tabile il brutto. L'incisione, in una parola, può mostrarèi a
piacimento, sviluppando e ingrandendo il tracciato che essa
registra, tutti i particolari di questa o di quella declamazione:
ma è incapace di scegliere fra di esse. È l'orecchio di qual-
cuno, o una qualche teoria preconcetta a scegliere.
Osserviamo grazie a questo esempio quanto sia difficile
cogliere la nozione di opera in sé.
Ritorniamo all'autore ... Lasciatemi ripetere il paradosso di
poco fa: che l'autore è fra tutti l'uomo più sfavorito per
conoscere ciò che gli altri chiamano la sua opera. Persino per
gli autori più coscienti e più critici, si può dire che non sanno
quel che fanno. Come vi ho appena mostrato, questa frase è
tanto più vera quanto più vasta è l'opera, quanto più tempo e
lavoro essa ha richiesto. Ognuno di noi è in genere lontanis-
simo dal punto al quale talvolta lo spinge il lavoro svolto.
Lavorare, in questo senso, non è forse obbligarsi ad allonta-
narsi da sé? Daltronde, quando l'autore torna sulla sua opera,
il suo giudizio è sempre mescolato al ricordo delle circostanze
della composizione. Non può mai vederla senza vedere al
tempo stesso tutto un contesto di incidenti, di esitazioni, di
parti soppresse o non svolte, di espedienti e di sorprese. (Può
accadere, per esempio, che un'idea che mi è venuta brusca-
mente e incidentalmente prenda subito posto nell'opera e

32
sembri al lettore venuta del tutto naturalmente e necessaria-
mente, come prodotta senza sforzo da ciò che la precede nel
testo).
È dunque difficile per l'autore sentire l'effetto dell'insieme
dell'opera in quanto costruzione finita e isolata. Egli ha
percorso tutte le tappe della creazione, superato un'infinità di
incroci, esitato davanti ad innumerevoli bivi; sa che certi
brani gli vennero senza sforzo, altri furono più difficili da
produrre; vede le sue rinunce e i suoi sviluppi inattesi.
Talvolta la soluzione che decide dell'esistenza esteriore dell'o-
pera si propone nel momento stesso in cui si stava per
abbandonarla, e l'opera concepita inizialmente si trova com-
pletamente modificata in pochi istanti. L'impossibile diventa
possibile, l'ostacolo diviene mezzo, ecc.
Poniamo qui un problema singolare che talvolta si presenta
ad un autore: da che cosa può rendersi conto che la sua opera
è terminata? È una decisione che egli deve prendere.
Ora, questa decisione che fissa un termine all'opera, non
può essere che esteriore, estranea a quella stessa opera. La
durata, le dimensioni assegnate - il termine dato per conse-
gnare il lavoro, - la noia, - la stanchezza - o anche la
sazietà, ecco ciò che intima all'autore l'ordine di cessare il suo
sforzo. Ma, in verità, il compimento di un'opera è solo
un abbandono, un'interruzione che si può sempre considerare
come fortuita in un'evoluzione che avrebbe sempre potuto
prolungarsi.
Si vede anche che l'opera, in quanto cosa finita e ben
delimitata, può sempre, dal punto di vista dell'autore, essere
considerata come una sorta di brandello accidentalmente
strappato al suo tutto interiore, una forma di passaggio;
mentre essa si presenta al lettore come una costruzione precisa
e che non dipende più dal tempo.
Consideriamo ora alcuni stadi del nostro autore che, per
sapere qualcosa di lui, supporremo essere estremamente con-
sapevole.
Questo scrittore consapevole osserva i suoi momenti e
constata di passare con una certa regolarità attraverso due fasi
ciascuna delle quali merita di essere esaminata a parte.

33
Esiste quasi sempre un primo stato, una fase emotiva che
non tende ad alcuna forma finita, determinata e organizzata,
ma che può produrre elementi parziali di espressione, fram-
menti, che troveranno, un giorno, - o forse mai - il loro
tutto ... In questo stato, appaiono una parola, una formula,
un'immagine, un dispositivo, che, ritrovati più tardi, ver-
ranno a collocarsi in una composizione, a servire inopinata-
mente da germe, o da soluzione... Posso chiamare questi
frammenti: resti del futuro? ... Ma questo futuro, che può
essere assai remoto (talvolta quanto lo è l'età matura dell'in-
fanzia) non bisogna affatto vederlo come l'epoca in cui sarà
formata l'opera così come appare al pubblico, ma la fase di
quest'opera allo stato vivente, che, come vi dicevo poco fa,
non è mai conclusa, solidificata, separata dalle sue possibilità
e dalle sue opportunità di trasformazione, se non da un
intervento estraneo.

Questa prima fase appartiene insomma alla psicologia


generale. Gli eventi che vi si producono, benché essenziali alla
creazione di cui accumulano la sostanza generale, - sotto
forma di elementi emotivi, di associazioni particolarmente
felici o potenti - sono tuttavia lungi dall'esser sufficienti alla
produzione dell'opera organizzata. Questa implica un tipo
completamente diverso di attività mentale. L'autore, che lo
sospetti o meno, assume un atteggiamento del tutto nuovo.
Egli dapprima non vedeva che se stesso e in se stesso; ma non
appena pensa ad un'opera, entra in un calcolo di effetti
esterni. Quello che si pone è un problema di adattamento: egli
si preoccupa consciamente o inconsciamente dei soggetti sui
quali deve agire la sua opera, si fa un'idea di coloro ai quali si
rivolge e si rappresenta, d'altra parte, i mezzi di cui può
disporre per questa azione.
È inutile dirvi, signori, che questa mia relazione è quanto
mai grossolana e incompleta. Non traccio che uno schema il
cui solo scopo è mettere in evidenza la varietà dei fattori
indipendenti che si trovano combinati e confusi in ogni opera
d'arte.

34
Questo genere di combinazioni - come quelle che vi ho
appena segnalato - propone all'analisi estetica delle diffi-
coltà quasi insormontabili. L'estetologo vuole sapere dell'arti-
sta più di quanto non sappia l'artista stesso. Deve indagare
come si accordano momenti così diversi dello spirito creatore;
come si opera, per esempio, la coordinazione delle rappresen-
tazioni dei diversi tipi. Ho scelto un tema. Mi rappresento
vagamente o chiaramente un lettore. Sento di disporre di certi
mezzi. Sono stimolato da mille ricordi utilizzabili, mille
elementi della sostanza emotiva di cui vi parlavo ... L'opera
che farò non sarà che una transazione, un accomodamento,
una subordinazione più o meno ben riuscita di queste condi-
zioni indipendenti, di questi apporti e di queste energie di
diverso genere.
Per questo quasi tutte le opere letterarie esigono una
quantità di prolegomeni: esposizioni, descrizioni, prepara-
zioni, che hanno come funzione: le une, di definire le
componenti e le regole del gioco; le altre, di familiarizzare il
lettore sconosciuto con la sensibilità dell'autore. Sono i postu-
lati, le convenzioni, i dati a partire dai quali l'opera propria-
mente detta potrà essere intesa. Ciò mi porta a dire inciden-
talmente due parole su un tipo di letteratura che può fare a
meno di tante precauzioni. Voglio parlare della letteratura
privata, delle lettere fra intimi, delle opere scritte per una sola
persona. Qui tutti i preamboli sono inutili. Il lettore è ben
definito. Sapete come toccarlo, con cosa sorprenderlo, cosa è
sufficiente, cosa bisogna omettere, e potete comunicargli il
vostro pensiero - o qualche pensiero- quasi senza ... for-
malità, quasi allo stato nascente e immediato. Questo caso
particolare ci fa capire abbastanza bene tutto ciò che, in
un'opera destinata al pubblico sconosciuto, deve essere intro-
dotto artificialmente dall'autore, e che non proviene dalla sua
pura esperienza interiore, o per lo meno dalla stessa fonte
della sua produzione libera e intima.

Riassumendo, qualunque speculazione sulla creazione arti-


stica deve tenere in gran conto la varietà «eterogenea» delle

35
condizioni che si impongono all'artefice e si trovano necessa-
riamente implicate nell'opera. Il destino paradossale dell'arti-
sta gli ingiunge di combinare elementi definiti per agire su di
una persona indeterminata.
Forse sarebbe il caso di parlare ora di tutti i mezzi che
costituiscono la tecnica dell'arte, e che hanno come fine il
passaggio dallo spirituale al temporale. Ma è un argomento
sul quale è impossibile improvvisare.
Mi limito a segnalarvi un punto molto notevole di questa
filosofia della tecnica che lasceremo da parte. In tutte le
categorie della tecnica, i mezzi reagiscono sui fini: Quantum
potes, tantum aude! E molto spesso succede che la conoscenza
- la sensazione dei mezzi generi il fine. Vorrei quasi dire che
certi pensieri profondi devono la loro origine alla presenza o
all'imminenza, nella mente, di forme di linguaggio, di certe
figure verbali vuote e di un certo tono - che richiedevano un
certo contenuto.
Tralasciamo dunque tutti questi problemi difficili che non
sono in grado di affrontare. Penso che vi interessi maggior-
mente che io vi dia qualche impressione personale su quella che
viene chiamata intuizione poetica, soggetto del quale so bene
che ogni filosofo della nostra epoca si è occupato.
Ecco un ricordo; ecco ciò che scopro all'origine di un certo
poema che ho composto alcuni anni fa. Mi sono trovato un
giorno perseguitato da un ritmo, che di colpo percepii chiara-
mente, dopo un periodo nel quale avevo avuto solo una vaga
coscienza di questa attività laterale. Questo ritmo mi si impo-
neva con una sorta di esigenza. Mi sembrava che volesse pren-
dere corpo, arrivare alla perfezione dell'essere. Ma esso poteva
diventare più chiaro alla mia coscienza solamente mutuando o
assimilando in qualche modo degli elementi dicibili, sillabe,
parole, e quelle sillabe e quelle parole erano certamente, a quel
punto della formazione, determinate dal loro valore e dalle
loro attrattive musicali. Era uno stato di abbozzo, uno stato
infantile, nel quale la forma e la materia si distinguevano poco
l'una dall'altra, poiché in quel momento la forma ritmica costi-
tuiva l'unica condizione d'ammissione - o di emissione. Que-

36
sta fu la seconda approssimazione, la prima era costituita solo
dal ritmo spoglio, dalla percussione pura e semplice. In seguito
accadde che, grazie ad una sorta di risveglio della coscienza, o
di una brusca' estensione del suo ambito- estensione qualita-
tiva, beninteso, accrescimento del numero delle esigenze indi-
pendenti, - si produsse una sostituzione delle sillabe e delle
parole utilizzate provvisoriamente, e un certo verso iniziale si
trovò non solo già fatto - ma mi apparve come impossibile da
modificare, come l'effetto di una necessità. Ma quel verso
esigeva a sua volta un proseguimento musicale e logico. L'in-
granaggio era messo in moto. Sfortunatamente per i poeti, la
felice coincidenza non prosegue continuamente, e bisogna affi-
darsi al lavoro e agli artifici per imitare colui che si è stati per un
istante. Il motivo di questa intermittenza della fortuna sponta-
nea è molto semplice: è che, nel linguaggio, il suono e il senso
non sono legati che per convenzione.
In un altro caso, mi si è presentato un verso, visibilmente
generato dalla sua sonorità, dal suo timbro. Il senso che
suggeriva questo elemento inatteso di poesia, l'immagine che
esso evocava, la sua figura sintattica (un'apposizione), che
agiva come agisce un piccolo cristallo in una soluzione
soprassaturata, mi hanno indotto come per simmetria ad
attendere, e a costruire secondo quest'attesa, al di qua e al di
là di quel verso, un inizio che preparasse e giustificasse la sua
esistenza, e un seguito che gli desse pieno effetto. Così, da
questo solo verso, sono nati uno via l'altro tutti gli elementi di
una poesia - il soggetto, il tono, il genere prosodico, ... ecc.
Non potrei fare a meno di paragonare questa proliferazione
a quella che si osserva in natura dove si vede, a quanto pare,
un frammento di stelo o di foglia di certe piante riprodurre, se
in un contesto favorevole, un esemplare completo. Il fram-
mento, benché differenziato, diviene a poco a poco un
esemplare completo, genera delle foglie, un gambo, delle
radici, tutto ciò che è necessario per vivere.
(Ma questa seducente analogia non può essere proseguita a
causa dell'indipendenza radicale che ho appena segnalato fra
i costituenti del linguaggio, suono e senso).

37
Si presentano altri casi. Si può dire che ogni opera avrebbe
potuto essere prodotta per varie vie. Nulla ci mostra ad un
esame oggettivo se una certa poesia è nata da un dato
emistichio, da una rima, o da un progetto formulato in modo
astratto. Il caso più generale, quando si tratta di opere
notevolissime, è naturalmente quello in cui l'autore parte da
un soggetto per giungere infine alla versificazione. È il caso
delle epopee classiche, dei poemi drammatici, tragedie, com-
medie. Ma i poemi di questo genere sono quelli in cui si scorge
meno chiaramente il carattere specifico della poesia, che
consiste essenzialmente in una singolare, improbabile corri-
spondenza reciproca fra una forma sensibile e un valore di
significato. (E inoltre, devono esistere relazioni sovrabbon-
danti fra i significati successivi, più relazioni di quante ne
occorrano per la comprensione chiara e lineare. È questo che
induce il poeta ad impiegare figure, metafore, tropi... ecc.).
Le epopee e i poemi drammatici hanno il difetto, la
proprietà anti-poetica, che possono essere riassunti, raccon-
tati; e, in definitiva, avere un'esistenza, o una specie di
esistenza, indipendente dal loro valore... Mentre nella poesia
che è solamente poesia, - non oso dire: pura! - il verso non
può, senza perire interamente, essere messo in prosa. Pensate
che tutto il lavoro del poeta è stato rivolto a dare all'insieme
della sua composizione quell'organizzazione combinata di
contenuto e di forma che è accordata solo raramente e con
parsimonia dalla sorte.
Questa ricerca dell'improbabile, molto più ardua in poesia
che nelle altre arti, ha come spiacevolissima conseguenza la
difficoltà quasi insormontabile che si incontra in poesia nel
comporre. Non conosco nulla di più raro, - per quanto
riguarda le opere che contano più di... quattordici ver-
si! -della composizione nel senso che chiamerò ornamentale
di questo termine. Penso che sia un compito quasi superiore
alle forze umane! Non intendo parlare qui di composizione
logica o cronologica. Non si tratta affatto del sistema che
consiste nel seguire come filo conduttore una successione di
eventi datati, o nell'adottare una gerarchia di concetti. Nella

38
poesia lirica si trovano sì numerosi esempi di sviluppi che
suggeriscono una figura semplice, una curva sensibile. Ma
non sono mai altro che modelli molto elementari.
Parlando di composizione, penso a poesie nelle quali si
cerchi di raggiungere la sapiente complessità della musica
introducendo sistematicamente dei rapporti «armonici» fra le
parti, simmetrie, contrasti, corrispondenze ... ecc.
Confesso che mi è capitato talvolta di immaginare e anche
di intraprendere qualcosa di simile, ma i miei tentativi non mi
hanno mai portato a nulla, - nemmeno a qualcosa di
mediocre!
Ecco, signori, quanto posso dirvi.

(1928)

Note

l Léon Brunschvieg, della "Société Française de Philosophie".

39
Taccuino di un poeta

Poesia.

Non è possibile, col tempo, l'applicazione, la sottigliezza, il


desiderio, procedere con ordine per arrivare alla poesia?
Finire col sentire proprio ciò che si desiderava sentire,
grazie ad una guida abile e paziente di quello stesso desiderio?
Tu vuoi fare una certa poesia, che abbia un certo effetto, su
un certo tema; all'inizio sono immagini di ordini diversi.
Le une, personaggi, paesaggi, aspetti, atteggiamenti; le
altre, voci informi, note ...
Le parole per ora non sono altro che cartigli.
Altre parole o brandelli di frasi non hanno un loro ruolo,
ma vogliono essere utilizzati e fluttuano.
Vedo tutto e non vedo niente.
Altre immagini mi fanno vedere condizioni del tutto di-
verse. Sembrano presentare gli stati di un individuo che
subisce la poesia, le sue illuminazioni, le sue attese, le sue
ansie, i suoi presentimenti che devono essere creati, stimolati,
ingannati o soddisfatti.
Ho quindi diversi livelli di idee, le une di risultato, le altre
di esecuzione; e sopra di tutte ì'idea dell'incerto; ed infine

41
quella della mia attesa, pronta a cogliere gli elementi già
realizzati, scrivibili, che si concedono o si concederebbero,
anche se non limitati all'argomento.
Può succedere così che il germe sia solo una parola o un
brandello di frase, un verso che cerca e lavora per crearsi una
giustificazione e genera cosi un contesto, un argomento, un
uomo, ecc.
Che cosa si può trarre dall'argomento o dal germe, appli-
candovi la riflessione?
La riflessione è una restrizione del caso, un azzardo al quale
si applica una convenzione. E cos'è mai un gioco d'azzardo, se
non questa somma che crea un'attesa, attribuisce un'impor-
tanza diversa alle diverse facce di un dado?
Queste facce sono uguali secondo un certo punto di vista,
diverse secondo un altro ... Dove l'uno perde, l'altro vince.
Una certa idea, una certa espressione venuta in mente a
Racine, e da lui respinta come una perdita, Hugo l'avrebbe
presa come una vincita.

Così il poeta all'opera è un'attesa. È un uomo che sta


cambiando, - che diviene sensibile a certi termini del pro-
prio sviluppo: quelli che ricompensano questa attesa con
l'essere conformi alla convenzione. Riproduce ciò che deside-
rava. Restituisce delle specie di meccanismi che siano capaci
di rendergli l'energia che gli sono costata e anche di più
(perché qui i principi sono apparentemente violati) 1 • Il suo
orecchio gli parla.
Aspettiamo la parola inattesa - e che non può essere
prevista, ma attesa. Siamo i primi a sentirla.
Sentire? Ma è parlare. Comprendiamo la cosa sentita solo
se l'abbiamo detta noi stessi in un altro contesto.
Parlare è sentire.
Si tratta dunque di un'attenzione a doppia entrata. La
facoltà di poter riprodurre ciò che viene percepito è variabile,
per il numero di funzioni elementari in gioco.
E questo riguarda la memoria. Ciò mostra che la memoria
e la comprensione - e l'invenzione sono intimamente legate.

42
Se ci viene rivolto un discorso difficile, possiamo ripetere le
parole più che le frasi, teniamo a mente le proposizioni più
che il loro ordine, e la comprensione è quindi memoria in
azione. Essa presuppone un massimo che può essere solo un
massimo di memoria. - La comprensione è cosa chiu.sa.
Comprendere A è poter riprodurre A.
E inventare non è altro che comprendersi.
Si pensi ad un apparecchio reversibile come un telefono, o
una dinamo.
È come se la tensione d'ascolto arrivasse ad un punto in cui
si verificasse la riflessione delle onde sulla discontinuità,
sull'estremità spezzata di un filo conduttore.
Lo zero e la tensione non possono coesistere.
Il silenzio e l'attenzione sono incompatibili. Bisogna che il
circuito sia chiuso.
Creare quindi quella specie di silenzio a cui corrisponde il
bello. O il verso puro, o l'idea luminosa ... Allora il verso
sembra nato da se stesso, nato dalla necessità - che è
precisamente il mio stato - e si scopre memoria. O piuttosto,
è nel contempo elemento integrante di memoria, atto, perce-
zione; novità fissata e tuttavia funzione organizzata, ripeti-
bile; energia e rigeneratore d'energia. Al tempo stesso stupore
e funzionamento ... Eccezione, possibilità e atto.

Il passaggio dalla prosa al verso; dalla parola al canto, dal


cammino alla danza. - Questo momento al tempo stesso atti
e sogno.
La danza non ha come scopo trasportarmi da qui a lì; né il
puro verso, né il puro canto.
Ma essi esistono per rendermi piu presente a me stesso, più
interamente abbandonato a me stesso, per far sì che mi osservi
mentre mi affanno inutilmente, e succedo a me stesso, e tutte
le cose e le sensazioni non hanno più altro valore. Un
movimento particolare le rende come libere; e infinitamente
mobili, infinitamente presenti, si accumulano per servire da
alimento ad un fuoco. Ecco il perché delle metafore, questi
movimenti stazionari!

43
Il canto è più reale della parola lineare; perché questa ha
valore solo grazie ad una sostituzione e ad una decifrazione,
mentre quello muove e fa mimare, fa volere, fa fremere come
se la sua variazione e la sua sostanza fossero la legge e la
materia del suo essere. Esso prende il mio posto; ma la parola
lineare sta in superficie, passa in rassegna le cose esteriori,
divide, etichetta.
Questa differenza la si vede splendidamente osservando gli
sforzi e le invenzioni di quelli che hanno cercato di far parlare
la musica, e far cantare o danzare il linguaggio.

Se vuoi fare dei versi e inizi da pensieri, inizi con la prosa.


In prosa, si può stendere un piano eseguirlo!

Poesia.

Quella parte delle idee che non si può mettere in prosa, la si


mette in versi. Se la si trova in prosa, essa richiede il verso e
sembra un verso che non ha ancora potuto farsi. Cosa sono
queste idee?
... Sono le idee che sono possibili solamente in un movi-
mento troppo vivace, o ritmico, o istintivo del pensiero.
La metafora, per esempio, rivela nel suo ingenuo principio,
un andar tentoni, un'esitazione tra varie espressioni di un
pensiero, un'impotenza esplosiva e che supera la potenza
necessaria e sufficiente. Quando si sarà ripreso e precisato il
pensiero fino al suo rigore, fino a un solo oggetto, allora la
metafora sarà cancellata, riapparirà la prosa.
Questi procedimenti, osservati e coltivati per se stessi, sono
divenuti oggetto di uno studio e di una attività: la poesia. E da
questa analisi risulta che la poesia ha come oggetto partico-
lare, come ambito veramente proprio, l'espressione di quanto
è inesprimibile con funzioni finite di parole. L'oggetto pro-
prio della poesia è ciò che non ha un solo nome, ciò che di per
sé provoca e richiede piu d'una espressione. Ciò che suscita,
per esprimerne l'unità, una pluralità di espressioni.

44
L'esercizio della poesia elaborata mi ha abituato a conside-
rare ogni discorso e ogni scritto come uno stadio di un lavoro
che può essere quasi sempre ripreso e modificato, e questo
stesso lavoro come dotato di un valore proprio, generalmente
molto superiore a quello che la gente attribuisce al solo
prodotto.
Il prodotto è, certamente, la cosa che si conserva, che ha o
che deve avere un senso in se stessa, e un'esistenza indipen-
dente; ma gli atti da cui deriva, a misura che reagiscono sul
loro autore, formano in lui un altro prodotto cioè un uomo
più abile, che padroneggia più sicuramente il proprio domi-
nio-memoria.
Un'opera non è mai veraJl?.ente finita, perché colui che l'ha
fatta non si è mai compiuto, e la forza e l'agilità che ne ha
tratto, gli conferiscono precisamente il dono di migliorarla, e
così via ... Egli ne ricava di che cancellarla e rifarla. È così,
per lo meno, che un artista libero deve guardare alle cose. Ed
egli finisce per considerare come opere soddisfacenti sola-
mente quelle che gli hanno insegnato qualcosa in più.
Questo modo di vedere non è quello di un normale appas-
sionato. Non lo soddisferebbe.
- Ma ho scritto tutto ciò seguendo, dall'inizio, una via
diversa da quella che in un primo momento pensavo di
intraprendere partendo da quello stesso inizio.
Volevo parlare dei filosofi, - e ai filosofi.
Volevo mostrare che sarebbe infinitamente utile per loro
praticare questa poesia elaborata che conduce impercettibil-
mente a studiare le combinazioni di parole non tanto per la
conformità dei significati di questi raggruppamenti ad un'i-
dea o a un pensiero che si ritiene di dover esprimere, quanto al
contrario per i loro effetti fra i quali si sceglie dopo che si sono
formati.
In generale, si cerca «di esprimere il proprio pensiero», di
passare cioè da una forma impura e commista di tutte le
risorse della mente, ad una forma pura, vale a dire solamente
verbale, e organizzata, che si riduce ad un sistema di atti o di
contrasti combinati.

45
Ma l'arte poetica conduce singolarmente a considerare le
forme pure in se stesse.

Chiunque potrebbe vedere la «poesia» di ciò che fa, sente,


ecc. Ma essa non sta in tali cose. E molti tra noi avvertono poeti-
camente ciò in cui si imbattono nella loro vita e nel loro lavoro.
Ma ciò non ne fa dei poeti. Quelli che lo credono fanno solo
confusione fra gli effetti prodotti e gli effetti da produrre, fra
la visione singolare o intensa ed i mezzi per provocarla o
riprodurla. - L'ingegnere non è potente come la sua mac-
china. Lo è in modo diverso, e totalmente diverso.
Di conseguenza, è facile comprendere che se l'impressione
poetica non è legata a certe cose, lo può essere tuttavia la
costruzione poetica. Anche se non in modo assoluto, ogni
epoca letteraria e ogni artefice si affidano a certe idee o forme
già pronte poeticamente e il cui solo impiego semplifica il
problema poetico, permettendo combinazioni più complesse e
di un ordine più elevato come una lingua ben conosciuta.
Ecc.

Stupidità e poesia.

Vi sono relazioni sottili fra questi due ordini. L'ordine della


stupidità e quello della poesia.
Il pensiero deve essere nascosto nei versi come la virtù nutri-
tiva in un frutto. È alimento, ma sembra solo delizia. Non vi si
prova che piacere, ma si riceve una sostanza. L'incanto, ecco
l'alimento che porta con sé. Il passaggio è soave.

L'oscurità prodotto di due fattori.

Se la mia mente è più ricca, più rapida, più libera, pm


rigorosa della vostra, non possiamo farci niente, né voi, né io.

46
Tra le attrattive della rima, non ultimo è il furore che essa
provoca in quella povera gente che crede di conoscere qual-
cosa di più importante di una convenzione. Sono ingenua-
mente convinti che un pensiero possa essere più profondo, più
organico ... di una qualsiasi convenzione.
La prosa è quel tipo di lavoro che consente di cominciare
dal pensiero delle cose, dalle loro immagini o idee, e· di finire
con le parole. Ogni volta che il discorso comincia il gioco, che
la mente attacca con le parole o le frasi, la prosa nasce ritmata
come per gli oratori. La prosa nasce senza ritmo quando
risulta da un deciframento, e ammette una serie indefinita di
interruzioni interiori. Ogni scritto ritmato e ponderato è
artificiale, vale a dire che la spontaneità apparente dovuta al
ritmo è stata costruita a cose fatte su di una materia incompa-
tibile con essa durante la sua formazione. Le parole e la
musica non sono dello stesso autore. Intendo dire dello stesso
istante.

«X ... è più poeta che artista».


Vuol forse dire che X ... ha più energia a propria disposi-
zione che operazioni o macchine per utilizzarla?

X ... vorrebbe far credere che una metafora è una comuni-


cazione del cielo.
Una metafora è quel che succede quando si guarda in un
certo modo così come uno starnuto è quel che accade quando
si guarda il sole.
In che modo? Lo sentite. Un giorno, lo si saprà forse dire
con grande precisione.
Fa' così e così, - ed ecco tutte le metafore del mondo ...

Una poesia vale per quel che contiene di poesia pura, ossia
di verità stra-ordinaria; di perfetto adattamento nell'ambito
perfettamente inutile, di probabilità apparente e che si im-
pone, nella produzione dell'improbabile.

Il poeta ha essenzialmente «l'intuizione» di un tipo di

47
combinazioni a parte. Una certa combinazione di oggetti (di
pensiero) che non ha valore per l'uomo comune, ha per lui
un'esistenza e si fa notare. Essa lo colpisce come un rapporto
fra rumori, percepiti separatamente da un orecchio qualsiasi,
colpisce l'orecchio musicale in quanto rapporto - come un
contrasto di colori, ecc.
A volte è la combinazione di cose che godrà della proprietà
enunciata, e bisognerà tradurla; altre volte quella di parole, e
bisognerà giustificarla.
l o Combinazione di cose. Il poeta véde figure di un ordine
particolare laddove l'altro vede solo ciò che interessa un uomo
preso a caso.
Un «argomento» per questo poeta è il dispositivo in cui può
essere sistemato, o ottenuto, il maggior numero di cose di
questo ordine.
2° Combinazione di suoni. Non bisogna dimenticare che il
poeta non parte come il musicista da un insieme dato già come
puro che è il suono. La sua gamma dev'essere costruita di
volta in volta.

Dove sarebbe mai la specialità dell'artista, se egli non


considerasse certi particolari come inviolabili? Così l'alter-
nanza delle rime maschili e femminili. Non vi è trasporto che
non debba rispettarla. Ciò è irritante, è una cineseria, ma
senza di ciò tutto crolla, e il poeta corrompe l'artista, e
l'arbitrario dell'istante prevale sull'arbitrario di ordine supe-
riore all'istante.

Gloria eterna all'inventore del sonetto. E tuttavia, mal-


grado i tanti bei sonetti che sono stati composti, il più bello
resta ancora da fare: sarà quello in cui le quattro parti
svolgeranno ciascuna una funzione ben diversa da quella delle
altre, eppure questa progressione di differenze nelle strofe
sarà ben giustificata dalla linea di tutto il discorso.

Bisogna fare sonetti. Non si sa tutto quel che si impara


facendo sonetti e poesie a forma fissa.

48
Il frutto di questi lavori non sta in essi. (Ma i poeti, in
genere, lasciano perdere il meglio dei loro sforzi).
Ho sempre fatto i miei versi osservandomi farli, e forse in
questo non sono mai stato soltanto poeta.
- Ho _imparato presto a distinguere fin troppo la realtà del
pensiero dalla realtà degli effetti.
Ma senza questa confusione, si è poi poeti?

La letteratura non è lo strumento né di un pensiero


completo, né di un pensiero organizzato.
Il grande interesse dell'arte classica sta forse nella serie di
trasformazioni che essa richiede per esprimere le cose rispet-
tando le condizioni imposte sine qua non.
Problemi della versificazione. Ciò obbliga a considerare
molto dall'alto quello che si vuole o che si deve dire.

Non bisogna puntare all'originalità, soprattutto nella no-


stra epoca; poiché in essa tutto ciò che è originale è oggetto di
una mira molto scrupolosa e di un'attenzione molto vigile,
ansiosa di sfruttare ogni minimo mezzo per distinguersi. Ne
risulta che ciò che era originale al mattino viene riprodotto la
sera stessa; e più era visibile e nuovo al mattino, più la
ripetizione dell'effetto che si era creato è visibile e insopporta-
bile la sera.
- Disprezzate il vecchio e il nuovo.

Sintesi e novità.

Una bucolica di Virgilio non sarebbe una novità da presentare


ai lettori (benché non ne sia poi così certo); ma la stessa
bucolica ottenuta attraverso procedimenti ben diversi da
quelli del primo secolo, questa potrebbe essere una novità.
Conosciamo il profumo della rosa dalle rose; ma ricostruirlo a
partire dalle molecole COH, ecco una cosa veramente nuova.

49
Confesso ancora una volta che il lavoro mi interessa infini-
tamente più del prodotto del lavoro.

Un poema epico è una poesia che può essere raccontata.


Se la si racconta, si ha un testo bilingue.

Letteratura.

Ciò che per chiunque è la «forma», è per me il «contenuto» 2 •

Poeta.

Quella tua specie di materialismo verbale.


Puoi considerare dall'alto romanzieri, filosofi, e tutti quelli
che sono assoggettati alla parola dalla credulità; - che
devono credere che il loro discorso sia reale per il suo
contenuto e significhi qualcosa di reale. Ma tu sai che la realtà
di un discorso, sono le parole, soltanto, e le forme.

Poesia pura. Appunti per una conferenza.

Si è fatto un gran baccano nel mondo (intendo nel mondo


delle cose più preziose e più inutili), si è fatto un gran baccano
- dicevo- attorno a queste due parole: la poesia pura. Ne
sono io stesso un po' responsabile. Mi è capitato, qualche anno
fa, in una prefazione che ho fatto per un libro di versi di un
amico, di pronunciare queste parole senza attribuirvi partico-
lare importanza e senza prevedere le conseguenze che diverse
menti interessate alla poesia ne avrebbero tratto. Sapevo bene
cosa volevo dire con quelle parole, ma non sapevo che esse
avrebbero generato tali echi e tali reazioni nel mondo degli

50
appassionati di letteratura. Volevo solo attirare l'attenzione
su di un fatto, e non certo esporre una teoria, tanto meno
definire una dottrina e considerare eretici tutti quelli che non
l'avrebbero condivisa. A mio vedere, tutte le opere scritte,
tutte le opere del linguaggio, contengono certi frammenti, o
elementi riconoscibili, dotati di proprietà che esamineremo
tra breve e che chiamerò provvisoriamente poetiche. Ogni
volta che la parola mostra un certo scarto dall'espressione più
diretta, ossia la più insensibile del pensiero, ogni volta che
questi scarti fanno presagire in un certo senso un mondo di
rapporti distinto dal mondo puramente pratico, avvertiamo
più o meno chiaramente la possibilità di ampliare questo
campo d'eccezione, e abbiamo la sensazione di cogliere un
frammento di una sostanza mobile e vivente che è forse
suscettibile di sviluppo e coltura; e che, sviluppata e utiliz-
zata, costituisce la poesia in quanto effetto dell'arte.
Se si possa produrre tutta un'opera per mezzo di questi
elementi così riconoscibili, così ben distinti da quelli del
linguaggio che ho chiamato insensibile, - se si possa, quindi,
per mezzo di un'opera in versi o meno, dare l'impressione di
un sistema completo di rapporti reciproci fra le nostre idee, le
nostre immagini, da un lato, e i nostri mezzi d'espressione,
dall'altro, - sistema che corrisponderebbe in particolare alla
creazione di uno stato emotivo dell'animo, questo è a grandi
linee il problema della poesia pura. Dico pura nel senso in cui
il fisico parla di acqua pura. Intendo dire che si pone il
problema di sapere se si può giungere a produrre un'opera che
sia pura da elementi non poetici. Ho sempre ritenuto, e
ritengo tuttora, che questo sia un risultato impossibile da
raggiungere, e che la poesia sia sempre uno sforzo per
avvicinarsi a questo stato puramente ideale.
Insomma, ciò che chiamiamo poesia è composto in pratica
di frammenti di poesia pura incastonati nella materia di un
discorso. Un verso molto bello è un elemento purissimo di
poesia. Il banale paragone di un bel verso con un diamante
mostra che il sentimento di questa qualità di purezza è
presente in tutti noi.

51
L'inconveniente di questo termine di poesia pura è quello di
far pensare ad una purezza morale che qui non entra in
questione, poiché per me al contrario l'idea di poesia pura è
un'idea essenzialmente analitica. La poesia pura è, insomma,
una finzione dedotta dall'osservazione, che deve servirei a
precisare la nostra idea sulle poesie in generale, e guidarci
nello studio così difficile e così importante delle relazioni
diverse e multiformi della lingua con gli effetti che produce
sugli uomini. Anziché poesia pura, sarebbe forse meglio dire
poesia assoluta, e bisognerebbe allora intenderla nel senso di
una ricerca degli effetti risultanti dalle relazioni fra le parole,
o meglio dalle relazioni fra le risonanze reciproche delle
parole, il che suggerisce, tutto sommato, un'esplorazione di
tutto quel settore che è governato dal linguaggio. Questa
esplorazione può essere fatta a tastoni. È così che viene
generalmente praticata. Ma non è impossibile che un giorno
venga condotta sistematicamente.
Ho cercato di farmi, e cerco di dare, un'idea precisa del
problema poetico, o, per lo meno, quella che credo essere una
idea più precisa di questo problema. È degno di nota che tali
questioni suscitino oggi una diffusissima curiosità. Mai un così
vasto pubblico si è interessato, sembrerebbe, non solo alla
poesia stessa, ma alla teoria poetica. Assistiamo a discussioni,
vediamo nascere esperienze che non sono ristrette - come un
tempo - a gruppi molto chiusi e poco numerosi di appassio-
nati e di sperimentatori; ma, cosa meravigliosa, nella nostra
epoca, vediamo persino nel grande pubblico una specie di
interesse. e talvolta di interesse appassionato, rivolgersi a
queste discussioni quasi teologiche. (Cosa vi è di più teologico
che discutere, per esempio, sull'ispirazione e sul lavoro, sul
valore dell'intuizione confrontato con quello degli artifici
dell'arte? Non sono forse questi problemi paragonabili al
celebre problema teologico della grazia e delle opere? Allo
stesso modo, vi sono in poesia problemi che mettendo in
opposizione regole determinate e fissate dalla tradizione con i
dati immediati dell'esperienza personale o della coscienza
sono assolutamente analoghi ai problemi che si trovano anche

52
nella sfera della teologia fra la coscienza personale, la cono-
scenza diretta delle cose divine e gli insegnamenti delle
diverse religioni, i testi delle Scritture e le forme dogma-
tiche ... ).

Ma torno sull'argomento con la ferma intenzione di non


dire nulla che non sia pura constatazione o che non risulti da
un facile ragionamento. Riprendiamo dal termine di poesia e
osserviamo per prima cosa che questa bella parola genera due
ordini di nozioni distinte. Diciamo «la poesia» e «una
poesia». Di un paesaggio, di una situazione, e talvolta di una
persona diciamo che sono poetici; d'altro canto, parliamo
anche di «arte poetica» e diciamo: «Questa poesia è bella».
Ma, nel primo caso, si tratta con ogni evidenza di un certo
tipo di emozione; conosciamo tutti quel particolare stordi-
mento paragonabile allo stato in cui siamo quando, per
effetto di certe circostanze, ci sentiamo eccitati, incantati.
Questo stato è del tutto indipendente da qualsiasi opera
determinata e risulta in modo naturale e spontaneo da un
certo accordo fra la nostra disposizione interna, fisica e
psichica, e le circostanze (reali o ideali) che ci colpiscono. Ma,
d'altra parte, quando diciamo arte poetica o quando par-
liamo di una poesia, si tratta evidentemente dei mezzi per
provocare uno stato analogo a quello precedente, per pro-
durre artificialmente questo genere di emozione. E non è
tutto. Occorre, inoltre, che i mezzi che ci serviranno per
provocare questo stato siano sottoposti alle proprietà e al
meccanismo del linguaggio articolato. L'emozione di cui
parlavo può essere provocata dalle cose; può anche essere
provocata da mezzi del tutto diversi da quelli del linguaggio
come l'architettura, la musica, ecc., ma la poesia propria-
mente detta ha per essenza l'impiego dei mezzi del linguaggio.
Quanto all'emozione poetica indipendente, osserviamo che
essa si distingue dalle altre emozioni umane per una caratteri-
stica singolare, una proprietà ammirevole; e cioè che essa
tende a darci il sentimento di un'illusione o l'illusione di un
mondo (di un mondo in cui gli eventi, le immagini, gli esseri,

53
le cose, se da un lato assomigliano a quelli che popolano il
mondo abituale, sono, dall'altro, in una relazione inspiega-
bile, ma intima, con l'insieme della nostra sensibilità). Gli
oggetti e gli esseri conosciuti sono in un certo senso - mi si
perdoni l'espressione - , musicalizzati; sono divenuti riso-
nanti fra loro, e come accordati con la nostra sensibilità. Il
mondo poetico così definito presenta notevoli somiglianze con
lo stato onirico, per lo meno con lo stato prodotto in certi
sogni. Il sogno ci fa comprendere, quando ritorniamo su di
esso con la memoria, che la nostra coscienza può essere
risvegliata o colmata, e soddisfatta, da un insieme di produ-
zioni, notevolmente diverse nelle loro leggi, dalle produzioni
abituali della percezione. Ma in questo mondo emotivo che
possiamo conoscere talvolta grazie al sogno, la nostra volontà
non ha il potere di entrare o uscire a piacer nostro. Esso è
rinchiuso in noi, e noi in esso, il che significa che non abbiamo
alcun mezzo per agire su di esso e modificarlo, e che per
contro esso non può coesistere con il nostro più grande potere
d'azione sul mondo esterno. Appare e scompare in modo
capriccioso, ma l'uomo ha fatto per esso ciò che ha fatto o
tentato di fare per tutte le cose preziose e periture: ha cercato
e trovato i mezzi per ricostituire questo stato a proprio
piacimento, per ritrovarlo quando lo desidera ed infine per
sviluppare artificialmente questi prodotti naturali del suo
essere sensibile. Ha saputo in un certo senso estrarre dalla
natura e sottrarre al corso cieco del tempo queste formazioni e
queste costruzioni così incerte: si è servito in questa impresa di
vari mezzi che ho già citato. Ora, fra questi modi di produrre
un mondo poetico, di riprodurlo e arricchirlo, il più antico,
forse il più venerabile e tuttavia il più complesso, e il più
difficile da utilizzare, è il linguaggio.

A questo punto, vorrei far sentire o comprendere quanto sia


delicato, nell'era moderna, il compito del poeta, e quante
difficoltà (di cui, fortunatamente, non sempre ha coscienza) il
poeta incontri nel suo compito. Il linguaggio è un elemento
comune e pratico; è dunque uno strumento necessariamente

54
rozzo, poiché ciascuno lo maneggia, lo accomoda secondo i
propri bisogni e tende a deformarlo secondo la propria
persona. Il linguaggio, per quanto intimo sia in noi, per
quanto il fatto di pensare sotto forma di discorso sia vicino al
nostro animo, è pur sempre di origine statistica e di destina-
zione puramente pratica. Ora il problema del poeta dev'es-
sere quello di trarre da questo strumento pratico i mezzi per
realizzare un'opera essenzialmente non pratica. Come vi ho
già detto, si tratta, per lui, di creare un mondo e un ordine di
cose, un sistema di relazioni, senza alcun rapporto con
l'ordine pratico.
Per far capire tutta la difficoltà di questo compito, confron-
terò ora lo stato iniziale, i dati, i mezzi che si offrono al poeta,
con quelli che sono offerti ad un artista di un altro genere il
cui oggetto non è tuttavia molto diverso dal suo. Paragonerò
ciò che è dato al poeta e ciò che è dato al musicista. Beato il
musicista! L'evoluzione della sua arte gli ha assegnato, da
secoli, una situazione del tutto privilegiata. Come si è costi-
tuita la musica? Il senso dell'udito ci dà l'universo dei rumori.
Il nostro orecchio ammette un'infinità di sensazioni che riceve
in un ordine qualsiasi e di cui apprezza quattro qualità
distinte. Ora, antiche osservazioni e esperimenti molto remoti
hanno permesso di dedurre, dall'universo dei rumori, il
sistema o l'universo dei suoni, che sono rumori particolar-
mente semplici e riconoscibili e particolarmente adatti a
formare combinazioni, associazioni, - di cui l'orecchio o
piuttosto l'intelletto percepisce, appena essi vengono prodotti,
la struttura, la concatenazione, le differenze o le somiglianze.
Questi elementi sono puri, o composti da elementi puri, ossia
riconoscibili; sono ben definiti, e, circostanza molto impor-
tante, si è trovato il modo di produrli in maniera costante e
identica per mezzo di strumenti che sono, in fondo, veri e
propri strumenti di misura. Uno strumento musicale è uno
strumento che si può tarare e disporre in modo tale che
determinate azioni possano ottenerne in modo uniforme un
certo risultato. Ed ecco la notevole conseguenza di questa
organizzazione del campo dell'udito; poiché il mondo dei

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suoni è ben separato dal mondo dei rumori, e poiché il nostro
orecchio è d'altronde abituato a distinguerli nettamente,
succede che se un suono puro, ossia un suono relativamente
eccezionale, viene udito, viene iubito a crearsi un'atmosfera
particolare, si produce in noi un particolare stato di attesa, e
questa attesa tende, in un certo senso, a generare sensazioni
dello stesso tipo, della stessa purezza della sensazione pro-
dotta. Se in una sala viene emesso un suono puro, tutto
cambia in noi; aspettiamo la produzione della musica. Se
invece si effettua la controprova; se, in una sala da concerto,
durante l'esecuzione di un brano, si sente un rumore (una
sedia che cade, la voce o la tosse di uno spettatore) sentiamo
allora che qualcosa si rompe in noi, che si produce un'infra-
zione a non so quale sostanza o a quale legge d'associazione;
un universo va in pezzi, svanisce un incantesimo.
Così, davanti al musicista, prima che egli abbia dato inizio
al suo lavoro, tutto è pronto perché l'operazione del suo
spirito creatore trovi, sin dal principio, la materia e i mezzi
appropriati, senza possibilità di errore. Non dovrà far subire
alcuna modificazione a questa materia e ai suoi mezzi; dovrà
solo mettere assieme elementi ben definiti e già pronti.
Ma in che diverso stato il poeta trova le cose! Davanti a lui si
presenta il linguaggio comune, questo insieme di mezzi non
appropriati al suo scopo, non concepiti per lui. Non vi è stato
nessun fisico che abbia determinato per lui i rapporti fra
questi mezzi; non vi è stato nessun costruttore di gamme;
nessun diapason, nessun metronomo; nessuna certezza da
questo lato; non può contare che sullo strumento assai rozzo
del vocabolario e della grammatica. Inoltre, egli deve rivol-
gersi, non certo ad un senso speciale ed unico come l'udito,
che il musicista obbliga a subire ciò che gli impone e che è
d'altra parte l'organo per eccellenza dell'attesa e dell'atten-
zione, quanto piuttosto ad un'attesa più generale e diffusa, e
ad essa si rivolge per mezzo del linguaggio che è un miscuglio
assai bizzarro di stimoli incoerenti. Nulla di più complesso, di
più difficile da distinguere, che la strana combinazione di
proprietà che si trova nel linguaggio. Tutti noi sappiamo bene

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quanto siano rari gli accordi di suono e di senso, e d'altronde,
sappiamo bene che un discorso può sviluppare qualità del
tutto diverse: un discorso può essere logico e privo di ogni
armonia; può essere armonioso e insignificante; può essere
chiaro e sprovvisto di ogni bellezza; può essere prosa e poesia;
e, per riassumere tutti questi modi indipendenti, basta citare
tutte le scienze che sono state create per sfruttare la natura
composita del linguaggio e studiarlo sotto diversi aspetti. Il
linguaggio è giudicabile di volta in volta dal punto di vista
della fonetica, e inoltre da quello della metrica e della
ritmica; ha un aspetto logico ed uno semantico; comporta la
retorica e la sintassi. Si sa che tutte queste diverse discipline
possono studiare uno stesso testo in vari modi indipendenti
l'uno dall'altro ... Ecco dunque il poeta alle prese con questo
insieme così vario e troppo ricco di proprietà iniziali, troppo
ricco insomma per non essere confuso; è da qui che deve trarre
il proprio oggetto d'arte, la macchina per produrre l'emo-
zione poetica, ossia deve costringere lo strumento pratico, lo
strumento grossolano e creato da chissà chi, lo strumento di
ogni istante, utilizzato per i bisogni immediati e modificato
ad ogni momento dai viventi, a divenire per il tempo che la
sua attenzione assegna al componimento, la sostanza di uno
stato emotivo prescelto, ben distinto da tutti gli stati acciden-
tali e senza durata prevista che compongono la normale vita
sensitiva o psichica. Si può dire senza esagerare che il linguag-
gio comune è il frutto del disordine della vita in comune,
poiché esseri di ogni natura, sottoposti ad una quantità
innumerevole di condizioni e di bisogni, lo ricevono e se ne
servono, al meglio dei loro desideri e dei loro interessi, per
instaurare tra di loro dei rapporti; mentre il linguaggio del
poeta, per quanto utilizzi necessariamente elementi forniti da
questo disordine statistico, costituisce, invece, uno sforzo
dell'uomo isolato per creare un ordine artifici~e e ideale, per
mezzo di una materia di origine ordinaria.
Se questo problema paradossale potesse essere risolto com-
pletamente, se il poeta cioè potesse riuscire a costruire opere
in cui non comparisse più nulla che fosse prosa, poesie in cui la

57
continuità musicale non venisse mai interrotta, in cui le stesse
relazioni fra i significati fossero sempre simili a dei rapporti
armonici, in cui la trasmutazione dei pensieri gli uni negli
altri sembrasse più importante 'di ogni pensiero, in cui il gioco
delle figure contenesse la realtà dell'argomento, - allora sì
che potremmo parlare di poesia pura come di una cosa
esistente. Ma non è così: la parte pratica o pragmatica del
linguaggio, le abitudini e le forme logiche e, come ho già fatto
notare, il disordine, l'irrazionalità che si riscontrano nel
lessico (a causa delle provenienze infinitamente varie, delle
epoche diversissime in cui gli elementi della lingua si sono
introdotti), rendono impossibile l'esistenza di queste creazioni
di poesia assoluta; ma è facile rendersi conto che la nozione di
un tale stato ideale o immaginario è infinitamente preziosa
per apprezzare ogni poesia realmente esistente.
La concezione della poesia pura è quella di un tipo inacces-
sibile, di un limite ideale dei desideri, degli sforzi e delle
capacità del poeta ...

(1928)

Note

l Valéry fa riferimento al secondo principio della termodinamica.


2 "Forme" e "fond" secondo il lessico di Valéry.

58
Ispirazioni mediterranee

Oggi devo farvi delle confidenze, devo parlarvi di me stesso!


Non temete che m'avventuri a dirvi quei segreti che tutti già
sanno: quel che vi dirò riguarderà solo i rapporti della mia vita
o della mia sensibilità, nel suo periodo di formazione, con quel
mare Mediterraneo che non ha cessato, dall'infanzia, d'essermi
presente agli occhi, come alla mente. Saranno solo alcune im-
pressioni particolari, e alcune idee - forse generali.

Inizio dal mio inizio.


Sono nato in un porto di media importanza, sito in fondo a
un golfo, ai piedi di una collina, la cui massa rupestre si stacca
dalla linea generale della riva. Questa roccia formerebbe
un'isola, se due banchi di sabbia - d'una sabbia incessante-
mente trasportata e accresciuta dalle correnti marine che,
dalla foce del Rodano, sospingono verso occidente la roccia
polverizzata delle Alpi - non la collegassero o non l'incate-
nassero alla costa del Languedoc. La collina s'alza dunque fra
il mare e uno stagno vastissimo, nel quale comincia - o
finisce - il canale del Midi.
Il porto, da essa dominato, è formato da bacini e canali che
mettono in comunicazione lo stagno con il mare.
Tale è il mio luogo natio, sul quale farò questa ingenua

59
riflessione che sono nato in uno di quei luoghi in cui avrei
desiderato nascere. Mi rallegro d'esser nato in un luogo tale
che le mie impressioni siano state quelle che si ricevono di
fronte al mare e in mezzo all'operosità degli uomini. Per me
non esiste spettacolo da paragonarsi a quello che si vede da
una terrazza o da un balcone ben situato al di sopra di un
porto. Passerei i miei giorni a contemplare quello che Joseph
Vernet, pittore di belle marine, chiamava i diversi lavori d'un
porto di mare. L'occhio, in quel posto privilegiato possiede lo
spazio di cui si inebria e la semplicità generale del mare, e
insieme la vita e l'industria umane, che trafficano, costrui-
scono, manovrano lì accanto. L'occhio può riportarsi, ad ogni
momento, alla presenza di una natura eternamente primi-
tiva, intatta, che l'uomo non può alterare, costantemente e
visibilmente sottomessa alle forze universali, e ne riceve una
visione identica a quella che ne hanno ricevuto i primi esseri.
Ma quello sguardo, avvicinandosi alla terra, subito vi scopre,
prima, l'opera irregolare del tempo che modella indefinita-
mente la riva, poi l'opera reciproca degli uomini: le costru-
zioni da loro accumulate, le forme geometriche che impiega-
no, linea retta, piani o archi, s'oppongono al disordine e agli
accidenti delle forme naturali, come le guglie, le torri e i fari
che essi innalzano, oppongono alle figure di caduta e di crollo
della natura geologica la volontà contraria di edificazione, il
lavoro volontario, e si direbbe ribelle, della nostra razza.
Così l'occhio abbraccia nello stesso tempo l'umano e l'inu-
mano. Questo ha sentito e magnificamente espresso il grande
Claude Lorrain, il quale, nel più nobile stile, esalta l'ordine e
lo splendore ideale dei grandi porti del Mediterraneo: Ge-
nova, Marsiglia o Napoli trasfigurate, l'architettura scenogra-
fica, i profili della terra, la prospettiva delle acque, il tutto
composto come la scena di un teatro in cui potrebbe agire,
cantare, talvolta morire, un solo personaggio: LA LUCE!

Sulla collina di cui parlavo a mezza altezza, si trovava la


mia scuola. Lì appresi rosa, la rosa, senza troppa pena, e
l'abbandonai con dispiacere alla fine delle elementari 1 • L'esi-

60
guo numero di alunni ci permetteva grandi soddisfazioni
d'orgoglio. Nella mia classe eravamo in quattro, e per il
semplice gioco della probabilità, io ero il primo una volta su
quattro, senza il minimo sforzo. Gli allievi di filosofia, ancor
più fortunati, erano solo in due. Uno, necessariamente, aveva
il primo premio di merito e l'altro il secondo. Come avrebbe
potuto essere altrimenti? Ma l'equilibrio esigeva che il se-
condo premio di merito avesse il primo premio di composi-
zione, e l'altro (naturalmente) il secondo. E così via ... Ridi-
scendevano entrambi onusti di corone e di libri dorati, al
suono della musica militare, dal palco di distribuzione dei
premi ... Corneille sostiene che non vi è gloria senza pericolo:

A vaincre sans péril, on triomphe sans gloire!

Ma Corneille si inganna, ed è un errore ingenuo. La gloria


non dipende dallo sforzo, il quale è solitamente invisibile: essa
dipende solo dalla messinscena.

Questa scuola aveva incanti incomparabili. I cortili domi-


navano la città e il mare. Vi erano tre terrazze d'altezza
crescente: i piccoli, i medi, i grandi potevano godere progres-
sivamente di sempre più vasti orizzonti, cosa che non sempre
avviene nella vita! Gli spettacoli non mancavano, dunque, alle
nostre ricreazioni, giacché ogni giorno succede qualcosa sulle
frontiere della vita terrestre e del mare.
Un giorno, dall'alto di questi cortili così felicemente situati,
vedemmo innalzarsi nel cielo una prodigiosa colonna di fumo,
molto più denso ed esteso di quello dei piroscafi e delle navi da
carico che frequentavano il porto. Come suonò la campana di
mezzogiorno, gli esterni, in massa urlante, corsero verso il
molo, da dove la folla, da alcune ore, guardava bruciare una
nave piuttosto grande, già ritirata dai bacini e abbandonata
al suo destino contro un molo discosto. Le fiamme, d'improv-
viso, si innalzarono fino alle gabbie, e gli alberi, consunti
alla base dal fuoco che furiosamente divampava nelle stive,

61
subito crollarono con tutta l'attrezzatura, come falciati, invo-
lati, aboliti, mentre scaturiva un'immensa girandola di scin-
tille e un fragore sordo e sinistro giungeva sul vento fino a noi.
Come potete bene immaginare, più di un alunno fu assente nel
pomeriggio. Verso sera, il bel tre-alberi era ridotto a uno scafo
scuro e apparentemente intatto, ma pieno, come un crogiolo,
d'una massa incandescente, il cui ardente splendore aumen-
tava col procedere della notte. Finirono col rimorchiare al
largo quel relitto infernale ed affondarlo.
A volte, sorvegliavamo dalla scuola l'arrivo delle squadre
che ogni anno venivano ad ancorarsi a un miglio dalla costa.
Erano strane navi le corazzate di quel tempo, i Richelieu, i
Colbert, i Trident, con il loro sprone a vomere d'aratro, la loro
crinolina di lamiere a poppa e, sotto la bandiera, il balcone
dell'ammiraglio che ci piaceva tanto. Erano brutti e impo-
nenti, con ancora una considerevole alberatura, e i loro ba-
stingaggi, secondo le vecchie usanze, erano bordati di tutti i
bagagli dell'equipaggio. La squadra mandava a terra imbar-
cazioni meravigliosamente tenute, parate e armate. Le lance
di parata volavano sull'acqua; sei o otto paia di remi, rigorosa-
mente sincronici, davano loro ali rilucenti che gettavano al so-
le, ogni cinque secondi, un bagliore e uno sciame di gocce lumi-
nose. Si trascinavano dietro, nella schiuma, i colori della loro
bandiera e i lembi del panno turchino dall'orlo scarlatto, su
cui erano seduti ufficiali neri e dorati.
Questi splendori destavano numerose vocazioni marinare-
sche; ma, tra la coppa e le labbra, fra la condizione di alunno e
lo stato glorioso dell'aspirante di marina si innalzavano osta-
coli molto seri: le figure incorruttibili della geometria, le insi-
die e gli enigmi sistematici dell'algebra, i tristi logaritmi, i seni
e i loro fraterni coseni scoraggiarono più d'uno 2, facendo ca-
lare tra il mare e lui, tra la marina sognata e la marina vissuta,
(come un'insormontabile cortina di ferro) il piano disperante e
inesorabile di una lavagna. Bisognava, allora, contentarsi di
tristi sguardi verso il largo, gioire solo degli occhi e dell'imma-
ginazione, e deviare quest'infelice passione marinara verso le
lettere o verso la pittura, poiché in un primo momento sembra

62
che basti il desiderio ad aprire quelle carriere che seducono per
la loro apparente facilità. Sono soltanto i predestinati che ne
sospettano per tempo ed esigono da se stessi tutte le difficoltà
ancora indefinite. Non c'è programma, né concorsi.
Questi sognatori, poeti o pittori in nuce, si appagavano
delle impressioni che prodiga il mare così ricco di avveni-
menti, il mare, generatore di forme e di progetti straordinari,
grembo d'Afrodite e creatore di tante avventure. Si poteva
dire, ai tempi della mia giovinezza, che la Storia ancora
viveva sulle sue acque. Le nostre barche di pescatori, la
maggior parte delle quali, ancor oggi, reca a prua gli emblemi
che portavano le barche fenicie, non sono dissimili da quelle
usate dai navigatori dell'Antichità e del Medio Evo. Talvolta,
al crepuscolo, guardavo rientrare quelle forti barche da
pesca, grevi di cadaveri di tonni,· e una strana impressione
m'angosciava. Il cielo assolutamente puro, ma penetrato d'un
fuoco roseo sulla linea dell'orizzonte, mentre l'azzurro inver-
diva verso lo zenit; il mare, già scuro, con frangenti e sprazzi
di straordinaria bianchezza; e verso oriente, un po' sopra
l'orizzonte, un miraggio di torri e di mura, che era il fantasma
di Aiguesmortes. Della flottiglia, non si scorgevano da princi-
pio che i triangoli acutissimi delle vele latine. Quando si
avvicinavano, si distinguevano i cumuli degli enormi tonni di
cui erano cariche. Questi possenti animali, molti dei quali
grandi quanto un uomo, luccicanti e insanguinati, mi face-
vano pensare a uomini d'arme di cui si riportassero a riva i
cadaveri. Era un quadro d'una grandezza quasi epica, che
intitolavo volentieri: «Ritorno dalla crociata».
Ma questo nobile spettacolo ne produceva un altro, d'una
spaventosa bellezza, - e permettete che ve lo descriva.
Un mattino, all'indomani d'una pesca molto abbondante,
in cui erano stati presi centinaia di grossi tonni, andai al mare
per fare il bagno. M'inoltrai dapprima, per godere la luce
meravigliosa, su una piccola gettata. D'improvviso, abbas-
sando lo sguardo, scorsi a pochi passi da me, sotto l'acqua
meravigliosamente liscia e trasparente, un orribile e splen-
dido caos che mi fece rabbrividire. Giacevano là certe cose

63
d'un rosso nauseante, masse d'un rosa delicato o d'un porpora
profondo e sinistro. Riconobbi con orrore lo spaventevole
ammasso delle viscere e delle interiora di tutto l'armento di
Nettuno che i pescatori avevano ributtato in mare. Non
potevo né fuggire né sopportare quel che vedevo, poiché il
disgusto cagionatomi da quel carnaio contendeva in me con la
sensazione di bellezza reale e singolare di quel disordine di
colori organici, di quegli ignobili trofei di ghiandole, ancora
fumiganti di sangue, e delle borse paliide e tremolanti tratte-
nute da non so quali fili sotto la velatura dell'acqua tersa,
mentre il moto infinitamente lento dell'onda dondolava nella
limpida densità un tremolio d'oro impercettibile su tutto quel
massacro 3 •
L'occhio si compiaceva di quel che l'anima aborriva.
Combattuto tra ripugnanza e interesse, tra la fuga e l'analisi,
mi sforzavo di pensare a quel che un artista dell'Estremo
Oriente, un uomo del talento e della curiosità d'un Hokusai,
per esempio, avrebbe potuto trarre da quello spettacolo.
Quale incisione, quali figure di corallo avrebbe potuto
concepirei Poi il mio pensiero si riportò a quanto vi è di brutale
e di cruento nella poesia degli antichi. I Greci non esitavano
ad evocare le scene più atroci... Gli eroi facevano cose da
macellai. La mitologia, la poesia epica, la tragedia sono piene
di sangue. Ma l'arte è paragonabile a quella limpida e
cristallina densità attraverso la quale io scorgevo quelle cose
atroci: essa abitua i nostri sguardi a sostenere ogni vista.

Non la smetterei più con le mie giovanili impressioni


marine! ... Non posso indugiarmi a riferirvi tutto quello che mi
divertiva, mi affascinava sulle banchine del porto; a descri-
vervi, per esempio, qualcuna di quelle navi come non ne
esistono più, modelli secolari che sono stati sterminati dal
vapore e dal petrolio, gli strani sciabecchi, per esempio, dalle
forme d'una eleganza orientale, che avevano la prua esile e
bizzarramente disegnata, e lunghissime antenne, slanciate
come un tratto di penna, e che dovevano essere identiche alle
imbarcazioni dei Saraceni o dei Barbareschi, all'epoca in cui

64
quei temibili visitatori venivano a saccheggiare e a rapire
dame e donzelle sulle nostre coste. I miei sciabecchi si
limitavano al trasporto di eccellenti prodotti. Avevano scafi
dipinti di giallo e verde intenso (trionfo del tono puro), e sui
loro ponti limoni del Portogallo o arance di Valenza si
ammucchiavano in piramidi coloratissime. Intorno, sulla
superficie dell'acqua calma e verde, galleggiavano molti di
quei frutti gialli o rossi, caduti o gettati via.
Né cercherò di esaltare qui la complessa ebbrezza di quegli
odori incoerenti che fanno dell'atmosfera del porto un' enci-
clopedia o una sinfonia olfattiva: il carbone, il catrame, gli
alcool, la zuppa di pesce, la paglia e la copra, che fermen-
tano, si disputano il potere e il dominio delle nostre associa-
zioni d'idee ...
[ ... ] In queste confidenze, io procedo, dal concreto verso
l'astratto, dalle impressioni ai pensieri, - e debbo ora evo-
carvi delle sensazioni più semplici, più profonde e più com-
plete, [ ... ] quelle sensazioni di tutto l'essere che stanno ai
colori e agli odori come le forme e la composizione di un
discorso ai suoi ornamenti, alle sue immagini e ai suoi epiteti.
Quali sono queste sensazioni generali?
Davanti a voi, io mi riconosco colpevole di aver conosciuto
una vera e propria follia di luce, combinata con la follia
dell'acqua.
Il mio piacere, il mio solo piacere, era lo svago più puro: il
nuoto. Su di esso ho fatto una specie di poema, che chiamo
involontario, poiché non è giunto a formarsi e a definirsi in
versi. La mia intenzione, quando l'ho fatto, non era di
cantare la situazione di nuoto, ma di descriverla, - cosa ben
diversa, - ed esso ha sfiorato la forma poetica solo perché il
tema di per se stesso, il nuoto da solo, si regge e si muov~ in
piena poesia.

65
Nuoto.

«Mi sembra di ritrovarmi e di riconoscermi quando ritorno a


quest'acqua universale. Nulla mi dicono le mietiture, le
vendemmie.
Nulla per me nelle Georgiche.
Ma gettarsi nella massa e nel movimento, agire fino all'e-
stremità, e dalla nuca agli alluci; girarsi in questa pura e
profonda sostanza; bere e sputar via la divina amarezza, è per
il mio essere un gioco simile all'amore, l'atto in cui il mio
corpo tutto si fa tutto segni e tutto forze, come una mano
s'apre e si chiude, parla e agisce. Qui, tutto il corpo si dà, si
riprende, si conosce, si prodiga e vuole esaurire i suoi possibili.
Egli la sconvolge, la vuole afferrare, stringere, diventa pazzo
di vita e della sua libera mobilità, l'ama, la possiede, concepi-
sce con lei mille strane idee. Per mezzo suo, io sono l'uomo che
voglio essere. Il mio corpo diviene lo strumento diretto dello
spirito, e insieme l'autore di tutte le sue idee.
Tutto mi si chiarisce. Comprendo fino all'estremo limite ciò
che potrebbe essere l'amore. Superamento del reale! Le ca-
rezze sono conoscenza. Gli atti dell'amante sarebbero i mo-
delli delle opere.
E allora nuotai giù con la testa in quest'onda che rotola
verso di te, con te si rompe e ti trascinai
Per qualche istante, ho creduto che non avrei mai potuto
riemergere dal mare. Mi rigettava, mi riprendeva nel suo
grembo irresistibile. Il risucchio dell'onda gigantesca che
m'aveva vomitato sulla sabbia faceva rotolare insieme me e la
sabbia. Per quanto immergessi le braccia in quella sabbia,
essa scendeva con tutto il mio corpo.
Mentre lottavo ancora un poco, sopraggiunse un'ondata
molto più forte, che mi scagliò come un relitto al limite della
zona critica.
Cammino finalmente sulla spiaggia immensa, rabbrivi-
dendo e bevendo il vento. È un colpo di libeccio che prende le
onde di traverso, le increspa, le sbatte, le copre di scaglie, le
grava d'una rete di onde minori, che sono trasportate dall'o-
rizzonte fino al rompiflutti schiumante.

66
Uomo felice a piedi nudi, cammino inebriato dei miei passi
sullo specchio rilevigato senza posa dall'incresparsi lievissimo
dell'onda».

A questo punto alzerò un poco il tono di queste confidenze.


Il porto, i bastimenti, i pesci e i profumi, il nuoto non erano
che una specie di preludio. Proverò ora a mostrarvi un'azione
più profonda del mare natale sul mio spirito. La precisione è
molto difficile in questi argomenti. Non mi piace la parola
influenza, che non designa se non un'ignoranza o un'ipotesi, e
che ha un ruolo così importante e comodo nella critica. Ma vi
dirò la mia impressione.
Certo, nulla mi ha più formato, impregnato, istruito - o
costruito - di quelle ore rubate allo studio, distratte in
apparenza, ma votate nel profondo al culto inconscio di tre o
quattro divinità incontestabili: il Mare, il Cielo, il Sole.
Ritrovavo, senza saperlo, non so quali stupori e quali esalta-
zioni primitive. Non vedo quale libro potrebbe valere, quale
autore potrebbe creare in noi quegli stati di stupore fecondo,
di contemplazione e di comunione che ho conosciuto nei miei
primi anni. Meglio di qualunque lettura, meglio dei poeti,
meglio dei filosofi, certi sguardi, lanciati senza pensiero
definito né definibile, certe soste sui puri elementi della luce,
sugli oggetti più vasti, più semplici, più fortemente semplici e
sensibili della nostra sfera d'esistenza, l'abitudine che ci
creano di riportare inconsapevolmente ogni avvenimento,
ogni essere, ogni espressione, ogni particolare, - alle più
grandi e alle più stabili cose visibili, - ci educano, ci
abituano, ci inducono a sentire senza sforzo e senza riflessione
la vera proporzione della nostra natura, a trovare in noi,
senza difficoltà, il passaggio al nostro grado più elevato, che è
anche il più «umano». Noi possediamo, in certo qual modo,
una misura di tutte le cose e di noi stessi. La massima di
Protagora, che l'uomo è la mimra di tutte le cose, è una
massima caratteristica, essenzialmente mediterranea.
Che significa? Che cos'è misurare?
Non è forse sostituire all'oggetto che noi misuriamo il

67
simbolo d'un atto umano, la cui semplice ripetizione esaurisce
quell'oggetto? Dire che l'uomo è misura delle cose, è dunque
opporre alla diversità del mondo l'insieme o il gruppo dei
poteri umani; significa anche opporre alla diversità dei nostri
istanti, alla mobilità delle nostre impressioni, e persino alla
nostra specificità d'individui, di persona singola e come
specializzata, ristretta in una vita locale e frammentaria, un
10 che la riassume, la domina, la contiene, come la legge
contiene il caso particolare, come il senso della nostra forza
contiene tutti gli atti che ci sono possibili.
Noi ci sentiamo quest'io universale, che non è la nostra
persona contingente, determinata dalla coincidenza d'una
quantità infinita di condizioni e di casualità, poiché (fra di
noi) quante cose in noi sembrano essere state tirate a sorte! ...
Ma sentiamo, vi dico, quando meritiamo di sentirlo, quest'IO
universale che non ha nome, né storia, e per il quale la nostra
vita osservabile, la vita da noi ricevuta e condotta o subita non
è che una delle innumerevoli vite che quest'identico io
avrebbe potuto abbracciare 4 •••

Chiedo scusa. Mi sono lasciato trascinare... Ma non cre-


diate che sia, questa, «filosofia» ... Non ho l'onore di essere
filosofo ...
Se mi sono lasciato trascinare, è perché uno sguardo sul
mare, è uno sguardo sul possibile... Ma uno sguardo sul
possibile, se ancora non è filosofia, è indubitabilmente un
germe di filosofia, filosofia allo stato nascente.
Chiedetevi un momento come poté nascere un pensiero
filosofico. Quanto a me, se ·mi pongo tale quesito, tento
appena di rispondere che il mio spirito mi trasporta in riva a
un mare meravigliosamente illuminato. Là sono riuniti gli
ingredienti sensibili, gli elementi (o gli alimenti) dello stato
d'animo in seno al quale sta per germinare il pensiero più
generale, il problema più comprensivo: luce e spazio, libertà e
ritmo, trasparenze e profondità... Non vi accorgete che il
nostro spirito sente allora, scopre allora, in quell'aspetto e in
quell'accordo delle condizioni naturali, proprio tutte le qua-

68
lità, tutti gli attributi della conoscenza: chiarezza, profon-
dità, vastità, misura! ... Quel che egli vede gli mostra quel che
è proprio della sua natura possedere o desiderare. Gli accade
che il suo sguardo sul mare generi un desiderio più vasto
d'ogni altro desiderio che possa essere soddisfatto da una
particolare cosa ottenuta.
Egli è come sedotto, come iniziato al pensiero universale.
Non crediate che qui vi voglia impegnare in sottigliezze. È
noto che tutte le nostre astrazioni hanno all'origine siffatte
esperienze personali e singolari; tutte le parole del pensiero
più astratto sono parole derivate dall'uso più semplice, più
volgare, e che noi abbiamo sviato per fare della filosofia.
Sapete che la parola latina da cui abbiamo tratto la parola
mondo, significa semplicemente «ornamento»? Ma voi sapete
certamente che le parole ipotesi, sostanza, anima o spirito, o
idea, le parole pensare o comprendere, sono i nomi di atti
elementari come posare, mettere, spirare o vedere: nomi che,
a poco a poco, si sono caricati di senso e di risonanze
straordinarie, o che, all'opposto, si sono spogliati progressiva-
mente fino a perdere tutto ciò che avrebbe impedito di
combinarli con una libertà praticamente illimitata. La no-
zione di pesare non è più presente nella nozione di pensare, e
la respirazione non è più suggerita dai termini di spirito o di
anima. Queste creazioni d'astrazioni che la storia del linguag-
gio ci fa conoscere si ritrovano nelle nostre esperienze perso-
nali, ed è attraverso lo stesso processo che cielo, mare, sole
- ciò che definivo or ora i puri elementi della luce, - hanno
suggerito o imposto agli spiriti contemplativi quelle nozioni
d'infinito, di profondità, di conoscenza, d'universo, che sono
sempre soggetti di speculazione metafisica o fisica, e di cui
vedo l'origine semplicissima nella presenza d'una luce, d'una
distesa, d'una mobilità estreme, nell'impressione costante di
maestà e di onnipotenza, e talvolta di capriccio superiore, di
collera sublime, di disordine degli elementi che si concluderà
sempre in trionfo e in resurrezione della luce e della pace.
Ho parlato del sole. Ma avete mai guardato il sole? Non ve
lo consiglio. Io mi ci sono arrischiato qualche volta, nei miei

69
tempi eroici, e ho creduto di perdere la vista. Ma, vi ripeto,
avete mai pensato all'importanza immediata del sole? Non
parlo del sole dell'astrofisica, del sole degli astronomi, del sole
essenziale agente della vita sul pianeta, ma semplicemente del
sole sensazione, fenomeno sovrano, e della sua azione sulla
formazione delle nostre idee. Non pensiamo mai agli effetti di
questo corpo insigne ... Immaginate l'impressione che la pre-
senza di quest'astro ha potuto produrre sulle anime primitive.
Tutto quel che vediamo è composto da lui, e intendo per
composizione un ordine di cose visibili e la lenta trasforma-
zione di quell'ordine che costituisce l'intero spettacolo d'una
giornata: il sole, signore delle ombre, a un tempo parte e
momento, parte abbagliante e momento sempre dominante
della sfera celeste, dovette imporre alle prime riflessioni
dell'umanità il modello d'una potenza trascendente, d'un
signore unico. D'altronde, questo oggetto incomparabile,
questo oggetto che si cela nel suo fulgore insostenibile, ebbe
parimenti, nelle idee fondamentali della scienza, una fun-
zione evidente e capitale. La considerazione delle ombre che
esso proietta dovette servire quale prima o~ervazione a tutta
una geometria, quella che si chiama proiettiva. Sotto un cielo
eternamente coperto, senza dubbio non ci avrebbero pensato,
né tanto meno avrebbero potuto stabilire la misura del tempo,
altra conquista primitiva che s'è dapprima praticata mediante
lo spostamento dell'ombra d'un ago di meridiana; e non v'è
strumento fisico più antico e più venerabile d'una piramide o
d'un obelisco, gnomoni giganteschi, monumento il cui carat-
tere era insieme religioso, scientifico e sociale.
Il sole introduce dunque l'idea d'una onnipotenza eccelsa,
l'idea d'ordine e d'unità generale della natura.
Vedete come la purezza del cielo, l'orizzonte chiaro e terso,
una bella disposizione delle coste possano essere non solo con-
dizioni generali d'attrazione per la vita e di sviluppo per la
civiltà, ma anche elementi stimolanti di quella sensibilità in-
tellettiva particolare che si distingue appena dal pensiero.

Vengo, ora, all'idea dominante, che riassumerà tutto

70
quanto vi ho detto; idea che rappresenta per me la conclusione
di ciò che chiamerò «la mia esperienza mediterranea». Mi
basterà precisare una nozione che è, in definitiva, general-
mente diffusa, quella della parte o funzione che il Mediterra-
neo ha avuto grazie ai suoi particolari caratteri fisici nella
costruzione dello spirito europeo, o dell'Europa storica, nella
misura in cui l'Europa e il suo spirito hanno modificato l'in-
tero mondo umano.
La natura mediterranea, le risorse che essa offriva, le rela-
zioni che ha determinato o imposto, sono all'origine della pro-
digiosa trasformazione psicologica e tecnica che, in pochi se-
coli, ha così profondamente differenziato gli Europei dal resto
dell'umanità, e i tempi moderni dalle epoche anteriori. Sono
stati dei Mediterranei che hanno fatto i primi passi sicuri sulla
via della precisione dei metodi, nella ricerca della necessità dei
fenomeni attraverso l'uso consapevole delle facoltà della
mente, e che hanno spinto il genere umano in questa specie di
straordinaria avventura che stiamo vivendo, i cui sviluppi
sono imprevedibili, e il cui aspetto più notevole - forse, il più
inquietante - consiste in un allontanamento sempre più ac-
centuato dalle condizioni iniziali o naturali della vita.
La parte immensa svolta dal Mediterraneo in questa trasfor-
mazione che si è estesa all'umanità si spiega (nella misura in cui
qualcosa è spiegabile) con alcune semplicissime osservazioni.
Il nostro mare presenta un bacino molto circoscritto,
qualunque punto del cui contorno può essere raggiunto
partendo da un altro punto in alcuni giorni, al massimo, di
navigazione lungo le coste e, d'altra parte, per via di terra.
Tre continenti, cioè tre mondi molto diversi, s'affacciano su
questo vasto lago salato. Molte isole nella parte orientale.
Marea inavvertibile o, se si avverte, quasi trascurabile. Un
cielo che di rado rimane a lungo coperto, circostanza favore-
vole per la navigazione.
Infine, questo mare chiuso, in certo modo adeguato ai mezzi
primitivi dell'uomo, è interamente situato nella zona dei climi
temperati: esso occupa il sito più favorevole del globo.
Sulle sue rive, molti popoli estremamente diversi, molti

71
temperamenti, sensibilità e capacità mentali diversissime si
sono trovati in contatto. Grazie alla già accennata facilità di
movimento, questi popoli ebbero· tra loro rapporti di ogni
genere: guerra, commercio, scambi più o meno volontari di
cose, di conoscenze, di metodi; mescolanze di sangue, di
vocaboli, di leggende o di tradizioni. Il numero degli elementi
etnici in presenza o in contrasto, nel corso delle età, quello dei
costumi, dei linguaggi, delle credenze, delle legislazioni, delle
costituzioni politiche, hanno in ogni tempo destato una
vitalità incomparabile nel mondo mediterraneo. La concor-
renza (che è una delle caratteristiche dell'era moderna) ha
avuto fin dai primi tempi nel Mediterraneo, una singolare
intensità: concorrenza di traffici, d'influenze, di religioni. In
nessuna regione del globo si è concentrata una tale varietà di
condizioni e di elementi, una tale ricchezza creata e più volte
rinnovata.
Orbene, tutti i fattori essenziali della civiltà europea sono i
prodotti di siffatte circostanze; circostanze locali, cioè, hanno
avuto effetti (riconoscibili) d'interesse e di valore universale.
In particolare, l'edificazione della personalità umana, la
nascita di un ideale dello sviluppo più completo e perfetto
dell'uomo, sono state avviate o realizzate sulle nostre rive.
:L'uomo, misura delle cose; l'uomo, elemento politico, mem-
bro della città; l'uomo, entità giuridica definita dal diritto;
l'uomo uguale all'uomo davanti a Dio e considerato sub specie
aeternitatis, son queste creazioni quasi interamente mediter-
ranee, delle quali non occorre ricordare gli immensi effetti.

Che si tratti delle leggi naturali o di quelle civili, il tipo


stesso della legge è stato precisato dalle menti mediterranee.
In nessun altro luogo è stato più pienamente e utilmente
sviluppato il potere della parola, consapevolmente discipli-
nata e diretta: la parola consacrata alla logica, impiegata per
la scoperta di verità astratte, per costruire l'universo della
geometria o quello delle relazioni che permettono la giustizia;
oppure signora del foro, mezzo politico essenziale, strumento
regolare della presa e della conservazione del potere.

72
Nulla è più mirabile del vedere, in pochi secoli, nascere da
pochi popoli sulle rive di questo mare le invenzioni intellet-
tuali più preziose e, fra queste, le più pure: qui la scienza si è
liberata dall'empirismo e dalla pratica, l'arte s'è spogliata
delle sue origini simboliche, la letteratura s'è nettamente
differenziata e costituita in generi ben distinti, e la filosofia,
infine, ha saggiato quasi tutte le possibilità di considerare
l'universo e di considerare se stessa.
Giammai, e in nessuna parte del mondo, s'è potuto osser-
vare in un'area così ristretta e in così breve intervallo di
tempo, un tale fermento di spiriti, una tale produzione di
ricchezze.

(1933)

Note

l Testualmente «de ma quatrième>>, della quarta. Secondo il sistema francese,


Valéry appare iscritto per la 11 • e 10" classe (una sorta d'asilo) presso i Domenicani
di Sète; nell878, a sette anni, comincia a frequentare il sopramenzionato «collège>>,
in cui resta fino all884 (dalla g• alla 4"). Nell'ottobre di quell'anno deve !asciarlo per
passare in 3• nel meno piacevole «lycée>> di Montpellier.
2 Fra cui, appunto, Valéry.
3 Questa descrizione, in toni ancor più «fin de siècle>>, chiusa non dal richiamo a
Hokusai, ma a un <<Moreau japonais qui n'existe pas>> si trova in una lettera giovanile
di Valéry all'amico Pierre Louys.
4 Valéry qui accenna, in forma molto semplice, ai due concetti di Moi, (Moi pur,
Moi limite) e di implexe (potenzialità), fondamentali nella sua speculazione.

73
Intorno al « Cimetière mari n»

Non so se sia ancora di moda elaborare a lungo i testi poetici,


mantenerli fra l'essere e il non essere, sospesi per anni davanti
al desiderio; coltivare il dubbio, lo scrupolo e i pentimenti,
- al punto che un'opera sempre ripresa e rielaborata assuma
a poco a poco l'importanza segreta di un'impresa di riforma di
se stesso.
Questa maniera di produrre poco non era rara, quaran-
t'anni or sono, presso i poeti e presso alcuni prosatori. Per loro
il tempo non contava; cosa quasi divina. Né l'Idolo del Bello,
né la superstizione dell'Eternità letteraria erano ancora an-
date in rovina; e la fede nella Posterità non era del tutto
abolita. Esisteva una sorta di Etica della forma che conduceva
a un lavoro infinito. Quelli che vi si consacravano sapevano
bene che maggiore è il lavoro, minore è il numero delle
persone che lo sappiano apprezzare; essi penavano per molto
poco, - e quasi santamente ...
Per questa via ci si allontana dalle condizioni «naturali>> o
ingenue della Letteratura, e si giunge insensibilmente a
confondere la composizione di un'opera della mente, che è
cosa finita, con la vita della mente stessa, - che è potenza di
trasformazione sempre in atto. Si arriva al lavoro per il

75
lavoro. Agli occhi di questi appassionati di inquietudine e di
perfezione, un'opera non è mai compiuta, -parola che per
loro non ha alcun senso, - ma abbandonata; e questo abban-
dono, che la dà alle fiamme o al pubblico (sia esso l'effetto del
tedio o dell'obbligo di consegna), è per loro una specie di inci-
dente paragonabile all'interruzione di una riflessione, che la
stanchezza, un fastidio, o qualche sensazione vengano ad an-
nullare.

Avevo contratto questo morbo, questo gusto perverso della


ripresa indefinita, e questo compiacimento per lo stadio rever-
sibile delle opere, nell'età critica in cui si forma e si determina
l'uomo nei suoi caratteri intellettuali. Li ho ritrovati in tutta la
loro virulenza, quando, verso la cinquantina, le circostanze
han fatto sì che mi rimettessi a comporre. Ho dunque vissuto
molto con le mie poesie. Durante quasi dieci anni, sono state
per me un'occupazione di durata indeterminata,- un eserci-
zio più che un'azione, una ricerca più che una liberazione,
una tattica di fronte a me stesso più che una preparazione che
aveva come obiettivo il pubblico. Mi sembra che mi abbiano
insegnato più di una cosa.
Non consiglio tuttavia di adottare un tale sistema: non ho
qualità alcuna per dare a chicchessia il minimo consiglio, e
dubito, d'altra parte, che esso convenga ai giovani di un'epoca
incalzante, confusa, e senza prospettiva. Siamo in un banco di
nebbia ...
Se ho parlato di questa lunga intimità tra un'opera e un
«io», è stato solo per dare un'idea della stranissima sensazione
che provai, una mattina, ascoltando Gustave Cohen che svol-
geva ex cathedra un'esegesi del Cimetière marin.

Quel che ho pubblicato non ha mai mancato di commenti


critici, e non posso lamentarmi del pur minimo silenzio sui
miei scritti. Sono abituato ad essere delucidato, sezionato, im-
poverito, arricchito, portato alle stelle o nella polvere, - fino
a non saper più io stesso, quale io sia, o di chi si parli; - ma
leggere quel che si stampa su di voi non è nulla in confronto a

76
questa strana sensazione di sentirsi commentare all'Univer-
sità, davanti alla lavagna, come uno scrittore defunto.
Ai miei tempi, i vivi non esistevano per la cattedra; ma non
mi sembra del tutto negativo che le cose siano cambiate.
L'insegnamento delle Lettere ne trae quel che l'insegna-
mento della Storia potrebbe trarre dall'analisi del presente,
- cioè la sensazione o la percezione delle forze che produ-
cono gli atti e le forme. Il passato non è che il luogo delle
forme senza forze; spetta a noi dargli vita e necessità, e
attribuirgli le nostre passioni e i nostri valori.

Mi sentivo la mia Ombra ... Mi sentivo un'ombra imprigio-


nata; e, tuttavia, a tratti m'identificavo con qualcuno di quegli
studenti che seguivano, prendevano note e che, di tanto in tan-
to, guardavano sorridendo quell'ombra di cui il loro maestro,
strofa a strofa, leggeva e commentava il poema ...
Confesso che, in quanto studente, sentivo poco rispetto per
il poeta, - isolato, messo in mostra, e imbarazzato nel suo
banco. La mia presenza era stranamente divisa fra diverse
maniere di essere là.
In mezzo a questa diversità di sensazioni e di riflessioni di
cui si componeva per me quell'ora alla Sorbona, la sensazione
dominante era proprio quella del contrasto tra il ravvivato
ricordo del mio lavoro, e la figura finita, l'opera determinata e
fissata a cui si applicavano l'esegesi e l'analisi di Gustave
Cohen. Era proprio avvertire come il nostro essere si opponga al
nostro sembrare. Da una parte, il mio poema studiato come un
fatto compiuto, rivelante all'esame dell'esperto la sua struttu-
ra, le sue intenzioni, i suoi mezzi d'azione, la sua situazione nel
sistema della storia letteraria; i suoi legami, e la probabile con-
dizione di spirito del suo autore ... Dall'altra parte, il ricordo
dei miei tentativi, delle mie vaghe ricerche, delle decifrazioni
interiori di quelle imperiose illuminazioni verbali che impon-
gono d'un tratto una determinata combinazione di parole,
- come se un certo gruppo possedesse non so qual forza in-
trinseca ... stavo per dire: non so qual volontà d'esistenza,
completamente opposta alla «libertà» o al caos dello spirito, e

77
che può talvolta costringere lo spirito a deviare dal suo propo-
sito, e il testo poetico a diventare affatto diverso da quello che
stava per essere, e che si pensa dovesse essere.
(Di qui si vede che la nozione di Autore non è semplice: lo è
solo in relazione a terzi).

Ascoltando il professor Cohen che leggeva le strofe del mio


testo e dava a ciascuna il suo significato finito e il suo valore a
seconda della posizione nell'insieme, ero diviso fra la gioia di
vedere che le intenzioni e le espressioni di un poema ritenuto
ermetico erano qui perfettamente comprese e esposte, - e la
sensazione bizzarra, quasi dolorosa, a cui ho fatto allusione.
Tenterò di spiegarla in poche parole per completare il com-
mento a un certo poema considerato come un fatto, con un
quadro delle circostanze che hanno accompagnato la nascita
di questo stesso poema, o di quel che esso fu, quando era allo
stato di desiderio e di domanda a me stesso.
Non intervengo, d'altronde, se non per introdurre, con
l'ausilio (o la divagazione) di un caso specifico, alcune consi-
derazioni sui rapporti di un poeta con una sua poesia.
Bisogna dire, anzitutto, che il Cimetière marin, così com'è,
è per me il risultato della sezione di un lavoro interiore a causa
di un avvenimento fortuito. Un pomeriggio dell'anno 1920, il
nostro tanto rimpianto amico, Jacques Rivière, venuto a
farmi visita, m'aveva trovato a uno «stadio» di questo Cimi-
tière marin, mentre meditavo di riprendere, tagliare, sosti-
tuire, intervenire qui e là ...
Non si dette pace finché non riuscì a leggerlo; e avendolo
letto, finché non riuscì a strapparmelo. Nulla è più decisivo
del volere di un direttore di rivista.
Fu così che accidentalmente fu fissata la figura di quest'o-
pera. Non fu per mia decisione. Del resto, di solito non posso
ritornare su qualunque cosa io abbia scritto senza pensare che
ne farei tutt'altra cosa, se un intervento estraneo o una
qualsiasi circostanza non avesse rotto l'incanto del non finire.
Non amo che il lavoro del lavoro: gli inizi mi infastidiscono, e
sospetto perfettibile qualunque cosa venga di getto. Lo spon-

78
taneo, anche se eccellente, anche se incantevole, non mi
sembra mai abbastanza mio. Non dico di aver ragione: dico
che io sono fatto così.. . Come la nozione di Autore, la nozione
dell'Io non è semplice: un grado in più di coscienza oppone un
nuovo Medesimo a un nuovo Altro.
La Letteratura non mi interessa dunque profondamente se
non nella misura in cui esercita la mente a certe trasforma-
zioni, - quelle in cui hanno un ruolo fondamentale le
proprietà stimolanti del linguaggio. Posso, certo, essere as-
sorto in un libro, leggerlo e rileggerlo con diletto; ma esso non
mi prende fino in fondo se non quando vi trovo i segni di un
pensiero di potenza equivalente a quella del linguaggio stesso.
La forza di piegare la parola comune a fini imprevisti senza
rompere le «forme consacrate», la cattura e la riduzione 1
delle cose difficili a dirsi; e soprattutto il procedere simultaneo
della sintassi, dell'armonia e delle idee (che è il problema
della più pura poesia), sono ai miei occhi gli oggetti supremi
della nostra arte.

Questo modo di sentire può stupire o urtare. Esso fa della


«creazione» un mezzo. Porta a degli eccessi. Più ancora,
- tende a corrompere il piacere ingenuo di credere, che
genera il piacere ingenuo di produrre e fonda ogni lettura.
Se l'autore si conosce un po' troppo, se il lettore si fa attivo,
che diventa il piacere, che diventa la Letteratura?

Questa divagazione sulle difficoltà che possono nascere fra la


«coscienza di sé» e l'esercizio dello scrivere spiegherà certo al-
cune risoluzioni che mi sono state a volte rimproverate. Sono
stato biasimato, ad esempio, per aver dato più testi di una stes-
sa poesia, e per di più contraddittori. Questo rimprovero mi
riesce poco comprensibile, come ci si può aspettare da quanto
ho appena esposto. Al contrario, se seguissi il mio modo di sen-
tire, sarei tentato di suggerire ai poeti di produrre, come fanno
i musicisti, una gamma di varianti o di soluzioni dello stesso
soggetto. Nulla mi sembrerebbe più conforme all'idea che mi
piace farmi di un poeta e della poesia.

79
Il poeta, a mio giudizio, si conosce dai suoi idoli e dalle sue
libertà, che non sono quelle dei più. La poesia si distingue
dalla prosa perché non ha, di questa, né tutti i vincoli né tutte
le libertà. L'essenza della prosa è di perire, - cioè d'essere
«capita», - cioè d'essere dissolta, distrutta senza ritorno,
interamente sostituita dall'immagine o dall'impulso che essa
significa secondo la convenzione del linguaggio. Poiché la
prosa sottintende sempre l'universo dell'esperienza e degli
atti, - universo nel quale, - o grazie al quale, - le nostre
percezioni e le nostre azioni o emozioni debbono alla fine
corrispondersi o rispondersi in una sola maniera, - unifor-
memente. L'universo pratico si riduce a un insieme di fini.
Ottenuto quel fine, la parola muore. Questo universo esclude
l'ambiguità, l'elimina; impone che si proceda per le vie più
brevi, e spegne al più presto nello spirito le armoniche di ogni
avvenimento che vi si produce.

Ma la poesia esige o suggerisce un ben altro «Universo»:


universo di relazioni reciproche, analogo all'universo dei
suoni, in cui nasce e si muove il pensiero musicale. In questo
universo poetico, la risonanza conta più della causalità, e la
«forma», lungi dal dissolversi nel suo effetto, ne è come
ripostulata. L'Idea rivendica la sua voce.
(Ne risulta una differenza estrema tra i momenti costruttori
di prosa e i momenti creatori di poesia).
Così, nell'arte della Danza, ove l'oggetto dell'arte è lo stato
del danzatore (o quello dell'appassionato di balletti), i movi-
menti e gli spostamenti dei corpi non hanno nessun termine
nello spazio, - nessun fine visibile; nessuna cosa, che rag-
giunta li annulli; e a nessuno viene in mente di imporre a delle
azioni coreografiche la legge degli atti non-poetici, ma utili,
cioè di compiersi con la massima economia di forze, e secondo
le vie più brevi.

Questo paragone può far capire che né la semplicità né la


chiarezza sono degli assoluti in poesia, - nella quale è
perfettamente ragionevole, - e persino necessario- mante-

80
nersi in una condizione quanto più lontana possibile da quella
della prosa, - a costo di perdere (senza troppi rimpianti) un
adeguato numero di lettori.

Voltaire ha detto mirabilmente che «la poesia è fatta solo di


bei particolari». Io dico la stessa cosa. L'universo poetico di
cui parlavo s'introduce con il numero, o meglio, con la densità
delle immagini, delle figure, delle consonanze,' dissonanze,
con il concatenarsi di movimenti e di ritmi, - ché l'essenziale
è di evitare costantemente ciò che ricondurrebbe alla prosa, o
facendola rimpiangere, o seguendo esclusivamente l'idea ...
Insomma, più un poema è conforme alla Poesia, meno può
pensarsi in prosa senza perire. Riassumere, mettere in prosa
un poema, significa semplicemente misconoscere l'essenza di
un'arte. La necessità poetica è inseparabile dalla forma
sensibile, e i pensieri enunciati o suggeriti da un testo poetico
non sono assolutamente l'oggetto unico e capitale del discorso,
- ma sono dei mezzi che concorrono in parallelo con i suoni,
le cadenze, il numero e gli ornamenti, a provocare, a soste-
nere una certa tensione o esaltazione, a generare in noi un
mondo- o un modo d'esistenza -tutt'armonico.

Se dunque mi si interroga; se ci si preoccupa (come accade,


e a volte con eccessivo vigore) di quello che ho «voluto dire» in
una certa poesia, io rispondo che non ho voluto dire, ma
voluto fare, e che è stata l'intenzione di fare che ha voluto
quello che ho detto .. .
Riguardo al Cimetière marin, quest'intenzione non fu
dapprima che una figura ritmica vuota, o riempita di vane
sillabe, che venne a ossessionarmi per alcun tempo. Osservai
che questa figura era decasillabica, e feci alcune riflessioni su
questo tipo di verso così poco usato nella poesia moderna; mi
sembrava povero e monotono. Era poca cosa di fronte all'ales-
sandrino, prodigiosamente elaborato da tre o quattro genera-
zioni di grandi artisti. Il demone della generalizzazione
suggeriva di tentar di portare quel Dieci alla potenza del
Dodici. Esso mi propose certa strofa di sei versi e l'idea di una

81
composizione fondata sul numero di tali strofe, e consolidata
da una varietà di toni e di funzioni da assegnar loro. Fra le
strofe, dovevano essere istituiti dei contrasti o delle corrispon-
denze. Quest'ultima condizione richiese subito che il poema
possibile fosse un monologo dell'« io», in cui i temi più
semplici e più costanti della mia vita affettiva e intellettuale,
quali si erano imposti alla mia adolescenza e associati al mare
e alla luce di un certo luogo delle rive del Mediterraneo,
fossero evocati, intrecciati, opposti. ..
Tutto ciò conduceva alla morte e toccava il pensiero puro.
(Il verso scelto di dieci sillabe ha qualche rapporto con il verso
dantesco).
Bisognava che il mio verso fosse denso e fortemente rit-
mato. Sapevo di orientarmi verso un monologo tanto perso-
nale e insieme tanto universale quanto mi sarebbe stato
possibile costruirlo. Il tipo di verso scelto, la forma adottata
per le strofe m'offrivano delle condizioni che favorivano certi
«movimenti», permettevano certi cambiamenti di tono, ri-
chiedevano un certo stile ... Il Cimetière marin era concepito.
Ne seguì un lavoro piuttosto lungo.

Ogni volta che penso all'arte della scrittura (in versi o in


prosa), lo stesso «ideale» si manifesta alla mia mente. Il mito
della «creazione» ci seduce a voler far qualcosa dal nulla. Io
sogno dunque di trovare progressivamente la mia opera a
partire da pure condizioni formali, sempre più meditate,
- precisate fino al punto che esse stesse propongono o quasi
impongono ... un soggetto, - o almeno, una famiglia di
soggetti.
Notiamo che delle condizioni formali precise non sono altro
che l'espressione dell'intelligenza e della consapevolezza che
noi abbiamo dei mezzi di cui possiamo disporre, e della loro
portata, come dei loro limiti e dei loro difetti. È per questo
che mi accade di definire fra me e me lo scrittore attraverso
una relazione fra un certo «spirito» e il Linguaggio ...
Ma so quanto vi sia di chimerico nel mio «ideale». La
natura del linguaggio non si presta a combinazioni concate-

82
nate; e d'altra parte la formazione e le abitudini del lettore
moderno, al quale l'abituale nutrimento d'incoerenza e di
effetti istantanei rende impercettibile ogni ricerca di strut-
tura, non consigliano certo di perdersi così lontano da lui. ..
Eppure il solo pensiero di costruzioni di questo tipo resta
per me la più poetica delle idee: l'idea di composizione.

Mi fermo su questa parola ... Essa mi condurrebbe a non so


quali ampliamenti del discorso. Nulla mi ha più stupito nei
poeti né mi ha dato maggiori rimpianti quanto la poca ricerca
nelle composizioni. Nei lirici più illustri, non trovo che
sviluppi puramente lineari, - o ... deliranti, - che proce-
dono cioè a mano a mano, senza maggior continuità organica
di quanto ne mostri una striscia di polvere su cui corre la
fiamma. (Non parlo delle poesie in cui domina un'azione, e
interviene la successione cronologica degli avvenimenti: sono
opere miste; come opere liriche, e non sonate o sinfonie).
Ma il mio stupore non dura che il tempo di ricordarmi delle
mie proprie esperienze e delle difficoltà quasi scoraggianti che
ho incontrato nei miei saggi di composizione poetica. Qui,
infatti, il particolare è ad ogni istante d'importanza essen-
ziale, e la previsione più bella e più sapiente deve combinarsi
con l'incertezza delle scoperte. Nell'universo lirico, ogni mo-
mento deve consumare un'alleanza indefinibile del sensibile e
del significativo. Ne risulta che la composizione è, in certo
modo, continua, e non può situarsi in un tempo diverso da
quello dell'esecuzione. Non c'è un tempo per il «contenuto» e
uno per la «forma»; e in questo genere la composizione non
s'oppone solo al disordine o alla sproporzione, ma alla decom-
posizione. Se il senso e il suono (o se il contenuto e la forma) si
possono facilmente dissociare, la poesia si decompone.
Conseguenza capitale: le «idee» che figurano in un'opera
poetica non vi hanno la stessa funzione, non sono affatto
valori di ugual natura, delle «idee>> della prosa.

Ho detto che il Cimetière marin si era dapprima proposto


alla mia mente sotto la forma di una composizione di strofe di

83
sei versi decasillabici. Questa decisione strutturale mi ha
permesso di distribuire abbastanza facilmente nella mia opera
quanto essa doveva contenere di sensibile, d'affettivo e d'a-
stratto per suggerire, trasposta nell'universo poetico, la medi-
tazione di un certo io.
L'esigenza dei contrasti da produrre e di una sorta d'equili-
brio da osservare tra i momenti di questo io m'ha condotto
(per esempio) a introdurre in un punto un qualche richiamo
di filosofia. I versi in cui appaiono le famose argomentazioni
di Zenone d'Elea, - (ma animate, rimescolate, trascinate
nell'impeto della dialettica, come da un improvviso colpo di
burrasca che spazza il ponte), - hanno la funzione di com-
pensare, con una tonalità metafisica, il sensuale e il «troppo
umano» delle strofe precedenti; essi determinano inoltre con
maggior precisione la persona che parla, - un amante di
astrazioni -; oppongono, infine, a ciò che vi fu in lui di
speculativo e di troppo intento, l'attuale potenza riflessa, il
cui sussulto infrange e dissipa uno stato di cupa fissità, quasi
complementare dello splendore regnante; - sconvolgendo al
tempo stesso un insieme di giudizi su tutte le cose umane,
inumane e sovrumane. Ho alterato un po' le immagini di
Zenone per far loro esprimere la ribellione contro la durata e
l'acutezza di una meditazione che fa troppo crudelmente
sentire lo scarto fra l'essere e il conoscere, sviluppato dalla
coscienza della coscienza. L'anima ingenuamente vuole esau-
rire l'infinito dell'Eleata.
- Ma non ho voluto prendere alla filosofia che un po' del
suo colore.

Le diverse osservazioni che precedono possono dare un'idea


delle riflessioni di un autore davanti a un commento della sua
opera. Piu che quello che essa è, egli vi vede quello che
avrebbe dovuto e potuto essere. Che di più interessante per
lui, dunque, del risultato di uno scrupoloso esame e delle
impressioni di uno sguardo estraneo? Non è in me che si
compone la vera unità della mia opera. Ho scritto una
«partitura», - ma non posso sentirla che eseguita dall'anima
e dallo spirito altrui.

84
Per questo il lavoro di Gustave Cohen, (astrazione fatta per
le cose troppo gentili al mio riguardo in esso contenute) è per
me straordinariamente prezioso. Egli ha ricercato le mie
intenzioni con una cura e un metodo notevoli, ha applicato a
un testo contemporaneo la stessa scienza e la stessa precisione
che è solito mostrare nei suoi dotti studi di storia letteraria.
Egli ha saputo a un tempo ridisegnare l'architettura di questo
poema e osservare i particolari, - segnalando, per esempio,
quei ritorni di termini che rivelano le tendenze, le frequenze
caratteristiche di uno spirito. (Certe parole fra tutte risuo-
nano in noi, come armoniche della nostra più profonda
natura ... ). Infine, gli sono molto riconoscente di avermi così
lucidamente spiegato ai giovani suoi allievi.
Quanto all'interpretazione della lettera, mi sono già spie-
gato altrove su questo punto; ma non si insisterà mai abba-
stanza: non esiste il vero senso di un testo. Nessuna autorità
dell'autore. Qualunque cosa abbia voluto dire, ha scritto quel
che ha scritto. Una volta pubblicato, un testo è come uno
strumento di cui ognuno si può servire a suo modo e secondo i
suoi mezzi: non è sicuro che il costruttore se ne serva meglio di
un altro. Del resto, se egli sa bene quel che ha voluto fare,
questa conoscenza offusca sempre in lui la percezione di quel
che ha fatto.

(1933)

Note

I Alcune osservazioni di Valéry sono pienamente apprezzabili solo oggi, dopo la


pubblicazione dei Cahiers. In questo paragrafo la parola «transformation>> rinvia al
tema centrale dei Cahiers, - l'analisi del mentale in termini di trasformazione fra
sensazione e pensiero, - e il termine matematico-chimico «reduction>> alla metafo-
rizzazione scientifica che ne forma il lessico.

85
Riflessioni sull'arte

Signore e Signori, obbedisco al desiderio di Xavier Léon


venendo qui oggi a parlare e ad esporre presso la Société de
Philosophie, uditorio che per sua natura mi intimorisce,
qualche idea sull'arte.
È questo un campo immenso, che non pretendo di percor-
rere per intero con voi oggi, uno di quelli la cui estensione
dipende solo dalle riflessioni che se ne fanno. In questa
materia infinita, la grande difficoltà è limitarsi. Come dicevo
a Brunschvieg e Lalande, soltanto poco fa (prima di entrare
qui) ho pensato a quale sarebbe stato il mio vero argomento.
Circostanze esterne mi hanno impedito di svolgere una prepa-
razione molto seria della questione. Comunque sia, procederò
seguendo la breve traccia che ho potuto fare.
Vi sono naturalmente - e quasi per definizione - mille e
un modo di pensare all'arte e di parlarne. È questa la
maggiore difficoltà della materia ...
Vi è tutto un insieme di discipline che si occupano dell'arte
in modo sistematico; Estetica è il termine generico che
designa queste ricerche dagli oggetti assai diversi e dai metodi
più differenti ancora. Esiste, per esempio, un'estetica classica,
che ha la caratteristica peculiare di essere stata, non tanto

87
dedotta dall'osservazione dei fenomeni artistici, quanto piut-
tosto ottenuta attraverso un procedimento dialettico. È stata
un'analisi delle concezioni della mente che ha indotto a
costituire questo corpo di idee e questa varietà di tesi. Un fatto
piuttosto notevole, è che questa estetica classica potrebbe
esistere anche se non esistesse nessuna opera d'arte: in un certo
senso, essa è del tutto indipendente dall'esistenza dell'arte. Di
origine dialettica, essa specula quindi sul linguaggio, e se
parla dei fatti artistici osservabili e delle opere, li considera
come esempi di applicazione o di infrazione, ma non come
punto di partenza.
Esiste poi anche quella che si potrebbe chiamare l'estetica
storica, che si occupa di ricercare nell'ambito delle arti tutto
ciò che viene designato sotto il termine di influenze, e che si
pone il problema delle origini stesse dell'arte.
Vi è un'estetica scientifica, e persino più di un'estetica
scientifica: cioè uno studio che procede attraverso l'analisi
stessa delle opere (alle quali si applicano per esempio procedi-
menti di misurazione), oppure che considera colui che subisce
l'opera e ne registra le reazioni. Lo studio delle sensazioni fa
parte di questo ramo. Altre ricerche sono rivolte in modo
particolare al produttore e pretendono di fornirgli indicazioni
pratiche, mezzi per venire a capo della sua opera: ad esempio,
tutte quelle formule di proporzione che sono state calcolate
(sezione aurea, ecc.), un tempo in vigore presso gli antichi o
durante il Rinascimento, e che oggi si cerca di ricostruire e di
utilizzare nuovamente, appartengono ad una sorta di scienza
dell'arte.
Tutte queste estetiche sono perfettamente legittime, dal
momento che esistono! Ma, quanto a me, considererò l'argo-
mento a modo mio, vale a dire nella maniera più semplice e
più concreta possibile. Se leggo un'opera qualunque relativa
alle arti, o se ascolto una qualsiasi conferenza che abbia lo
stesso tema, potrò aspettarmi di riceverne solo uno di questi
due vantaggi: ciò che ascolto mi insegnerà forse qualcosa che
potrà sviluppare il mio eventuale godimento delle opere
d'arte; sarò più in grado di gioirne, comprenderò meglio il

88
modo in cui conviene adeguarsi a quell'opera; e di conse~
guenza, avrò aumentato, grazie alla conoscenza trasmessami,
la mia capacità di godimento. Notate bene che, dicendo che
una conferenza o una lettura sono tali da aumentare la mia
capacità di godere dell'opera d'arte, resta beninteso che non si
tratta di un piacere laterale che io potrei provare in assenza di
quest'opera: se per esempio, a proposito di pittura, mi si parla
della storia della pittura, delle influenze subite dal pittore,
delle scuole, ecc., questo argomento storico può essere interes~
santissimo in sé ma non aumenterà affatto il mio piacere vero
e proprio, che deve risultare unicamente dalla considerazione
dell'opera di per sé stessa, indipendentemente da ogni consi~
derazione fatta su di essa. Mi spingo così lontano in questa
mia opinione che non ho avuto alcun timore di dire, al
Conseil cles Musées Nationaux, che se avessi la responsabilità
di conservatore dei musei, farei cancellare tutti i nomi dei
pittori... Che l'occhio riconosca i suoi!
O forse, e in secondo luogo, questa trasmissione di cono~
scenze può avere un'importanza del tutto diversa. Mi si può
insegnare non più a godere dell'opera d'arte, ma ad eseguirla;
si aumenteranno le mie capacità di esecuzione per quanto
riguarda l'opera. Osserviamo a questo proposito che insegna~
menti del genere sono estremamente rari, e se, forse, vi sono
ancora scuole d'arte in cui si possono imparare aspetti tecnici,
non vi è dubbio che l'insegnamento dell'arte in quanto
combinazione di operazioni è, oggi, per varie ragioni, molto
meno preciso di un tempo.
Vi sono persino dei rami dell'arte in cui la tecnica non esiste
più, o quasi. Personalmente, ricordo che nel campo della
poesia gli ultimi consigli di tipo tradizionale che ho sentito
erano trasmessi da Heredia, che li aveva ricevuti a sua volta
da Leconte de Lisle e questi da qualche altro poeta. Venivano
indicati ai giovani (in modo del tutto familiare, d'altronde)
alcuni preziosi procedimenti da applicare nella composizione
dei versi. Credo che questo genere di insegnamento non esista
più, ma è esistito per lunghi secoli fino a quando non sono
intervenuti, nella nostra epoca, l'esaltazione dell'originalità

89
ed il disprezzo verso ciò che si apprende. L'ossessione della
genialità ha voluto che ciascuno si imponesse di inventare la
propria tecnica. In definitiva, l'opera d'arte è un oggetto, una
costruzione umana, realizzata in vista di una certa azione su
certe persone. Le opere possono essere o degli oggetti nel senso
proprio del termine, o delle combinazioni di atti come la
danza o la commedia, o ancora delle somme di impressioni
successive prodotte anch'esse da delle azioni: come la musica.
Possiamo tentare di precisare la nostra nozione d'arte con
un'analisi che parta da questi oggetti che possono essere
ritenuti i soli elementi positivi delle nostre ricerche: conside-
rando questi oggetti, e risalendo da un lato al loro autore,
dall'altro a colui che li subisce, scopriamo che il fenomeno
Arte può essere rappresentato da due trasformazioni perfetta-
mente distinte. (È la stessa relazione che esiste in economia fra
la produzione e il consumo).
Quel che è molto importante, è che queste due trasforma-
zioni - quella che procede dall'autore al prodotto materiale,
e quella che esprime che l'oggetto o l'opera modificano il
consumatore - sono del tutto indipendenti. Ne risulta che
esse devono essere pensate solo separatamente.
Qualunque proposizione in cui facciate figurare questi tre
termini: un autore, un'opera, uno spettatore o ascoltatore, è
una proposizione priva di significato - nel senso che non
troverete mai l'occasione di un'osservazione che riunisca
questi tre termini. Certo, potete formulare giudizi (e ne
esistono molti) in cui figurino tutti e tre, ma nell'osservazione
non troverete mai altro che l'autore e la sua opera, da un lato;
l'opera e l'osservatore, dall'altro. Vi è sì nell'autore una certa
presenza di uno spettatore o di un ascoltatore, ma si tratta di
un personaggio ideale: l'autore si forgia - più o meno
consciamente - un ascoltatore, un lettore ideale. Capita
anche, d'altra parte, che il paziente si forgi un autore ideale.
È questa una specie di prova della mia asserzione.
Dirò di più - e arrivo a un punto che troverete probabil-
mente strano e paradossale, se non lo avete già fatto per
quanto ho appena detto: il valore arte (poiché, in fondo,

90
stiamo studiando un problema di valore) dipende essenzial-
mente da questa non-identificazione, da questa necessità di
un intermediario fra il produttore e il consumatore. È impor-
tante che vi sia fra di essi qualcosa di irriducibile all'intelli-
genza, che non esista una comunicazione immediata, e che
l'opera, questo medium, non possa fornire a chi la subisce
elementi che possano ridurla ad un'idea della persona e del
pensiero dell'autore.
Capire questo punto è fondamentale nelle arti. E ogni volta
che sentirete un artista dire, disperato, che non si è potuto
esprimere come avrebbe voluto, egli commette un errore di
espressione. È in fondo un'assurdità: non dico che questa
assurdità non lo costringa a compiere degli sforzi per rendere,
come egli afferma, il suo pensiero nella sua opera, ma non vi
riuscirà mai. Tutto ciò che l'artista può fare, è elaborare
qualcosa che produrrà su una mente estranea un certo effetto.
Non vi sarà mai modo di confrontare esattamente ciò che è
successo nell'uno e nell'altro; e ancora: se ciò che è successo
nell'uno si comunicasse direttamente all'altro, tutta l'arte
crollerebbe, ne scomparirebbero tutti gli effetti? È necessaria
l'interposizione di un elemento impenetrabile e nuovo che
agisca sull'altro perché possa prodursi tutto l'effetto dell'arte,
tutto il lavoro richiesto al paziente dal lavoro dell'autore.
Creatore è colui che fa creare.
Vediamo fino a che punto (in certi casi) sia possibile
evidenziare ciò che chiamerò, forse un po' scherzosamente, il
malinteso creatore.
L'artista, in genere, maneggia la sua materia servendosi di
una serie di convenzioni: la convenzione interviene nel suo
lavoro. Egli suscita (o per lo meno ha intenzione di suscitare)
nel suo paziente un gran numero di effetti, e non ha bisogno,
in virtù della natura stessa dell'uomo, di impiegarvi tanta
energia quanta ne può scatenare. Qui tutto si svolge come
nell'atto riflesso della fisiologia; spesso è sufficiente pungere
un animale in un certo punto per produrre effetti infinita-
mente più energici dell'azione che si è compiuta. Allo stesso
modo, se si preme un pulsante che comanda una trasforma-

91
zione di energia, l'energia così sviluppata non ha alcun
rapporto né qualitativo, né quantitativo con quella che può
richiedere una pressione sul pulsante. Ad un musicista costa
ben poco scrivere sul pentagramma «fortissimo» o «furioso»
per scatenare, nella sala da concerto, una tempesta di cento
strumenti. Gli basta scrivere una parola; e, ragionando
ingenuamente, non bisognerebbe supporre che tutta l'energia
che ci sembra prodotta da questo formidabile scatenarsi
d'orchestra, l'autore sia stato obbligato a trarla da se stesso, e
persino ad immaginarsela precisamente. Vi è dunque un
dispositivo intermedio, che permette all'autore di scatenare
effetti considerevoli. Allo stesso modo, nelle arti del linguag-
gio, si possono scrivere facilmente parole potenti senza fati-
care di più che per scrivere parole molto semplici e dal
significato più limitato. Per puro svago. mi sono divertito a
prendere un verso di La Fontaine, verso peraltro delizioso, e
degno di nota per altri aspetti, verso di un'armonia quasi
imitativa, estremamente ben riuscito, fatto di monosillabi:

« Prends ce pie et me romps ce caillou qui me nuit »

e a sostituire due parole in questo verso. Sotto questa nuova


forma, potrebbe figurare in un poema cosmogonico:

«Prends tajoudre et me romps l'univers qui me nuit»

Avete cambiato totalmente l'andamento. È bastata una


modifica semplicissima per passare da un verso all'altro.
Vedete quindi quanto poco gli effetti prodotti sul paziente
dell'opera d'arte dipendano dall'energia spesa da colui che la
produce.
Ho detto che se vi fosse comunicazione diretta da colui che
fa l'espressione a colui che riceve l'impressione, scomparireb-
bero gran parte degli effetti. Ecco perché, in tutte le arti, vi
sono dei mezzi per moltiplicare le impressioni prodotte grazie
a procedimenti più o meno semplici.
Ma cos'è un'opera d'arte?

92
Ci si può chiedere da cosa si riconosca un'opera o un
0 ggetto d'arte. Notate che li si può riconoscere in certi oggetti
fra i più brutti; si dirà «È un orrore, ma è un oggetto d'arte».
_ Se ne vedono molti di questo genere. Come li distinguiamo
dunque, per assegnare loro questa qualifica?
Ma qui si pone una domanda preliminare. Oggetto d'arte,
opera d'arte, sono cose fatte dall'uomo. Da cosa ricono-
sciamo, esaminando un oggetto, che questo oggetto è stato
fatto dall'uomo? Ci si può porre (come ho fatto molto tempo
fa) questa domanda che sembra a prima vista molto ingenua:
cosa mi prova che un certo oggetto sia opera della mano del-
l'uomo? Che questo calamaio, per esempio, non sia un pro-
dotto naturale? Mi ero creato una teoria (naturalmente) che
mi spiegava un poco, o almeno mi rappresentava abbastanza
le difficoltà, e mi offriva una sorta di rozza soluzione del pro-
blema, pensando che nell'opera che non è frutto del lavoro
umano si devono riscontrare certi tratti che sono contraddetti
nelle caratteristiche dell'opera umana.
In genere, se si esamina un oggetto fatto dall'uomo, se ne si
considera la forma, la struttura esterna e la si confronta con la
struttura interna, si deve trovare fra queste strutture una rela-
zione che è diversa da quella che si trova esaminando un og-
getto cosiddetto naturale, sia esso prodotto organico della vita
o minerale. Non dico che il problema possa sempre essere
risolto; vi sono casi di ambiguità, ma molto spesso si scopre che
la struttura delle componenti intime dell'opera - ad un
esame superficiale, e non al microscopio - sembra svolgere,
nell'opera dell'uomo, soltanto un ruolo secondario quanto alla
forma della composizione. Ne risulterebbe, di conseguenza,
che l'opera umana fatta di materiali qualsiasi è una composi-
zione il cui agente tiene in ben poco conto la struttura intima
della cosa che sta modellando. Potete fare oggetti simili con i
materiali più svariati; che un vaso sia di vetro, di metallo o di
porcellana, potrà ricevere più o meno la stessa forma, ma
avrete quindi trascurato (tranne che durante la fabbricazione)
la materia con la quale avete fatto quel vaso. Inoltre, se si
esamina ancora questo oggetto fatto dalla mano dell'uomo, si

93
scopre che la forma dell'insieme è meno complessa della strut-
tura intima delle parti, cosa che suggerisce l'idea di uno scon-
volgimento. In questo senso, l'ordine impone un disordine.
Ricordo di aver fatto questo esempio: se schierate un reggi-
mento, ottenete una figura geometrica composta di elementi
ognuno dei quali è molto più complesso dell'insieme, essendo
ciascuno di essi un uomo. Allo stesso modo, se costruite un
mobile, operate uno sconvolgimento della struttura dell'al-
bero, del quale avete tagliato e riunito i pezzi senza preoccu-
parvi della sua struttura interna. Il legno vi offre elementi di
una certa consistenza che potete considerare come invariabili
rispetto alle forme che date alla costruzione ed alle sagome.
Ma ciò non basta a definire l'opera d'arte. È una caratteri-
stica molto generale, che può essere applicata a un'infinità di
cose. È necessario spingere oltre l'analisi dell'oggetto.
Il semplice buon senso ci dice: l'oggetto d'arte è essenzial-
mente un oggetto inutile. Cosa significa ciò? Significa che
l'oggetto d'arte non risponde a nessuno dei bisogni fisiologici
della vita; per lo meno alle funzioni fisiologiche comuni a tutti
noi, la cui attività è in un certo senso costante, l'esigenza
regolare. Ma, al contrario, gli effetti dell'arte stimolano o
soddisfano funzioni fisiologiche particolari e locali, quelle dei
sensi. Ad ogni modo, questi effetti sono individuali e general-
mente incostanti: non tutti reagiscono all'opera d'arte allo
stesso modo; l'opera d'arte è più o meno «utile» alle funzioni
particolari che ho indicato, a seconda dell'individuo e delle
circostanze. Siccome essa non soddisfa le esigenze delle fun-
zioni fisiologiche definite essenziali, costanti e generali, di-
remo che è inutile.
E inoltre, anche nei casi più favorevoli in cui vi è una
particolare azione fisiologica sull'occhio, l'orecchio, ecc., gli
oggetti agiscono come oggetti d'arte soltanto se si verificano
certe condizioni. In una certa disposizione, il colore, il suono
mi sono indifferenti: li percepisco, ma li trascuro, non presto
attenzione al rapporto di toni che vi è fra questa parete e
questo tavolo. Tuttavia esso esiste; ne sono vagamente coin-
volto e, se occorresse, se si presentasse l'occasione, la mia

94
attenzione lo isolerebbe e trarrei da questo confronto di toni
qualche proposito o qualche suggestione di ordine pittorico.
p 0 sso quindi specializzarmi - o essere specializzato - essere
sensibilizzato per questa concomitanza di colori - specializ~
zazione a cui si può dare il nome, provvisorio, di attenzione
artistica o estetica.
Questa specializzazione, come tutte quelle di cui è successi~
vamente composta la nostra vita, ha una sua personalità e una
sua durata. L'oggetto d'arte non è costantemente un oggetto
d'arte, l'oggetto d'arte non è oggetto d'arte per tutti. È quindi
sottoposto a rigide condizioni. Questa cosa inutile è in un
certo senso un'eccezione a due dimensioni.
Giungo infine ad una terza caratteristica che è forse un po'
azzardato trattare davanti a voi. Vi leggerò qualche pagina
che ho scritto su questo tema: si tratta di ciò che chiamo
l'infinito estetico. Mi perdonerete questo termine di infinito,
non ho la benché minima cattiva intenzione: è un termine
convenzionale che mi è parso esatto e divertente utilizzare. In
verità, sarei dell'idea di proscrivere, per quanto possibile, in
ogni materia, l'espressione infinito, che semina sempre un
certo scompiglio, anche in matematica, e di sostituirla con un
termine equivalente. L'idea fondamentale che trovo nell'ana-
lisi dell'infinito si riduce alla nozione di indipendenza.
Quando si ammucchiano delle pietre, l'azione di aggiungere
una pietra è indipendente dalla quantità di pietre già accu-
mulate. Si può dire che di qui si introduce l'idea di infinito.
Anche quando si esamina una qualunque operazione di
ripetizione e non se ne considera l'applicazione a qualcosa,
questa operazione in sé porta ad un infinito. È questa nozione
di indipendenza dall'atto e dal risultato dell'atto che è in
fondo la nostra idea dell'infinito considerato in questo senso.
Ecco quindi la mia citazione:
«La maggior parte delle nostre percezioni stimolano in noi,
quando stimolano qualcosa, ciò che è necessario per annul-
larle o per tentare di annullarle. Ora con un atto, riflesso o
meno, ora con una sorta di indifferenza acquisita o no, o con
un adattamento, le aboliamo, tentiamo di abolirle, ed esiste

95
in noi, rispetto ad esse, una costante tendenza a tornare nel
modo più veloce possibile e per la via più breve allo stato in cui
ci trovavamo prima che queste percezioni si fossero imposte su
di noi. Sembra quindi che la grande impresa della nostra vita
sia quella di riportare a zero non so quale indice della nostra
sensibilità e di ritornare per la via più breve ad un certo massi-
mo di libertà o di disponibilità dei nostri sensi. Le nostre perce-
zioni tendono sempre a sparire e a venire, in un certo senso
sbrigate da noi, come si dice per gli affari. Questi effetti delle
nostre modificazioni percettibili che tendono a liberarci da esse
sono tanto diversi quanto lo sono esse stesse. Si può tuttavia
raggrupparli sotto una denominazione comune (per una rela-
zione) e dire che l'insieme degli effetti a tendenza finita costi-
tuisce l'ordine delle cose pratiche. Chiamo quindi ordine delle
cose pratiche quello in cui tutto ciò che si produce, genera una
reazione che tende ad annullarlo, riporta allo stato zero la spe-
cializzazione di cui ho parlato. Ma vi sono altri effetti delle no-
stre percezioni che sono di tipo assolutamente opposto. Vi sono
in noi il desiderio, il bisogno, i cambiamenti di stato che ten-
dono a conservare o a riprodurre le percezioni iniziali. Se un
uomo ha fame, la fame gli farà fare ciò che occorre per venire
annullata al più presto; ma se il cibo è per lui delizioso, questo
piacere vorrà durare in lui, perpetuarsi o rinascere. La fame ci
spinge a sopprimere una sensazione; e il piacere a svilupparne
un'altra; e queste due tendenze saranno sufficientemente indi-
pendenti l'una dall'altra perché l'uomo impari presto a cercare
la raffinatezza nell'alimentazione, e a mangiare senza avere
fame».
Quanto ho detto per la fame si estende a tutti i tipi di
sensazione, tutti i tipi di sensibilità in cui l'azione cosciente
può intervenire per accrescere o prolungare ciò che la mera
azione riflessa sembra dover abolire. Qui interviene la realiz-
zazione della cosa d'arte che permetterà di prolungare, di
restituire l'impressione gradevole.
La vista, il tatto, l'olfatto, il moto e la parola ci inducono
talvolta a soffermarci sull'impressione che provocano in noi, a
conservarla o a rinnovarla. L'insieme di questi effetti a

96
tendenza infinita potrebbe costituire l'ordine delle cose esteti-
che, che per brevità ho chiamato l'infinito estetico.
Per giustificare il termine di infinito e dargli un senso
preciso, è sufficiente ricordare che qui la soddisfazione fa
rinascere il bisogno, la risposta genera nuovamente la do-
manda, l'assenza dà origine alla presenza ed il possesso al
desiderio. Mentre nell'ordine che ho chiamato pratico, lo
scopo raggiunto fa svanire tutte le condizioni sensibili dell'a-
zione, la cui durata stessa è come riassorbita e non lascia altro
che un ricordo astratto e senza forza; accade del tutto
diversamente nell'ordine estetico, in quello che si può chia-
mare un universo di sensibilità. La sensazione e l'attesa della
sensazione sono in qualche modo reciproche e si ricercano l'un
l'altra indefinitamente. Ne abbiamo un esempio nell'universo
dei colori, nel quale troviamo il notevolissimo fenomeno dei
complementari che si succedono e si alternano l'un l'altro, a
partire da una forte sollecitazione della retina. Non vi è
fenomeno più interessante di questo, nella questione di cui mi
occupo, perché osservando ciò che avviene nei nostri occhi
quando abbiamo fissato una superficie di un determinato
colore, sotto una luce intensa, vediamo, subito dopo, prodursi
una sorta di reciproco. È un'esperienza semplice e molto
interessante, ma che non bisogna fare troppo spesso a causa
dello sforzo che comporta. Suppongo che abbiate guardato
una superficie rossa e che in seguito sia apparso il colore verde
«soggettivo»: vedrete in seguito dopo un certo lasso di tempo,
apparire un nuovo rosso, al quale succede un nuovo verde
alterato, e via di seguito. Questa progressiva alterazione,
d'altronde molto lenta, può prolungarsi abbastanza a lungo;
ho osservato su di me questo fenomeno per un periodo di
un'ora, con grande affaticamento degli occhi.
Quel che è molto curioso, è l'aspetto di moto pendolare fra
due estremi, che si verifica così a partire da un colore dato, il
rosso, o il verde iniziale, per passare al verde o al rosso
simmetrico; la riproduzione alternativa non è esatta e tutto
succede come se questo fenomeno di produzione di colori
complementari da parte dei nostri sensi osservasse le leggi

97
sullo smorzamento del pendolo. In questo caso particolare
facilmente osservabile, vediamo a che punto sia attiva la
nostra sensibilità, che è al contrario spesso considerata come
passiva; questa sorta di oscillazione di cui ho parlato, se, come
ho detto, segue le leggi sullo smorzamento del pendolo, o può
essere rappresentata da esse, non termina affatto spontanea-
mente; interviene un elemento estraneo· alla proprietà così
rivelata, che ci ricondurrà a poco a poco, lungo questo
percorso pendolare, fino alla libertà, questo zero che ho già
menzionato. La circostanza estranea si chiama generalmente
affaticamento. Sarà questo ad interrompere il processo. Si
può dire che non è il processo di per sé (che continuerebbe
indefinitamente) a cessare o ad interrompersi; ma esso si
produce in un organo che dipende da tutto l'essere vivente: il
ricaricamento ad un tratto non avviene più; in breve, questa
sensazione a due termini scompare poco a poco, per esauri-
mento delle risorse, ma non perché abbia raggiunto un limite.
Ma l'affaticamento produce anche un altro effetto; la
diminuzione della sensibilità rispetto alla cosa stessa che era
stata all'inizio un piacere o un desiderio; qui interviene la
varietà. Siamo costretti a cercare o a produrre la varietà,
come per rianimare la nostra sensibilità. La varietà si fa
quindi richiedere come complementare della durata troppo
prolungata della nostra sensazione. Il rimedio contro l'esauri-
mento - che chiamiamo sazietà - delle fonti finite della
nostra energia sensoriale, è la varietà. Per poter desiderare
ancora qualcos'altro, abbiamo questo bisogno di cambia-
mento, che si introduce ora e che potremmo definire come
una sorta di facoltà del desiderio, dicendo che è l'espressione
di un desiderio di desiderio che si pronuncia. Ma se l'evento
non si verifica, se l'ambiente in cui viviamo non ci offre
abbastanza prontamente un adeguato oggetto di stimolo,
allora la nostra sensibilità reagisce, sempre in modo comple-
mentare. Ma i complementari di questo tipo possono essere
molto più complessi che nel gruppo dei colori. In certi casi,
quando il bisogno in questione ha radici molto profonde nella
vita stessa, vediamo la sensibilità produrre immagini straordi-

98
nariamente precise e potenti degli oggetti che desideriamo.
Vediamo la sete generare immagini di bevande, la fame
immagini di cibo, e ciò con una precisione e con una
insistenza tali che nei casi estremi si hanno allucinazioni e
visioni deliranti.
Queste considerazioni estremamente semplici permettono
di separare e di definire abbastanza chiaramente il campo
delle sensazioni e delle reazioni sensibili che si compensano e
che ho definito l'ordine estetico delle cose. Ma, per tornare
all'arte, occorre tornare all'ordine delle cose pr~tiche, poiché
l'arte esige un'azione, l'azione della fabbricazione, e occorre,
di conseguenza, che l'ordine dell'azione finita si combini con
l'ordine estetico. Ciò che chiamiamo opera d'arte è quindi il
risultato di un'azione il cui scopo finito è provocare in
qualcuno sviluppi infiniti, da cui si può dedurre che l'artista
deve contenere un essere duplice: poiché compone leggi e
mezzi del mondo dell'azione, in vista dell'effetto da produrre
nell'universo della risonanza sensibile.
Si sono fatti molti tentativi per ridurre l'una all'altra queste
due tendenze, ma non credo che vi si sia riusciti. Insomma, la
nozione fondamentale che volevo mettere in evidenza come
caratteristica della ricerca nell'arte è quella delle cose che
portano in se stesse di che creare il bisogno di esse stesse.
L'oggetto o l'opera d'arte vengono realizzate con l'intento di
produrre questo effetto.

Consideriamo ora l'autore. Vi ho fatto l'esempio dei com-


plementari. Credo che si potrebbe trovare nella produzione
dell'opera d'arte un'altra applicazione della stessa proprietà.
Mi pare che, per certe forme molto semplici e primitive di
opere d'arte, per esempio l'ornamento geometrico o una
combinazione di colori nella paglia intrecciata o nella tessi-
tura di una stoffa, si scoprirebbe che questa decorazione ha
un'origine complementare. È probabile che, all'inizio, l'opera
d'arte non risponda che ad un bisogno dell'autore; non vi è
ancora un pubblico, è l'azione che interessa colui che la
compie; è un uomo che si annoia. È l'orrore del vuoto, il cui

99
complementare sarà l'ornamento; è il vuoto del tempo o dello
spazio, la pagina bianca che la sensibilità non può sopportare
(poiché se esiste un fatto che caratterizza la sensibilità, credo
che sia l'instabilità; essa è una sorta di facoltà di instabilità.
Lo si comprende facilmente da soli: basta aver assistito a
conferenze o a lezioni, e aver scarabocchiato dei segni sulla
carta mentre si ascoltava, o piuttosto non si ascoltava il
conferenziere). Il bisogno di occupare un tempo vuoto o di
riempire uno spazio vuoto è un bisogno molto naturale. È
possibile che l'ornamento non abbia altra origine.
Vi ho d'altronde appena mostrato l'esempio dell'occhio e
della sua reazione creatrice: credo che riprendendo questo
esempio si vedrebbe nelle decorazioni primitive in cui inter-
vengono i colori, come la scelta dei colori derivi da una sorta
di ragione alternativa, in un certo senso dall'invenzione della
retina. Comunque sia, per le linee, è quasi evidente. È chiaro,
in effetti, che le linee che si trovano sui vasi antichi o sulle
stoffe sono estremamente simili, sono delle specie di disegni
sinusoidali o di greche che ritornano sempre, simmetrie che si
producono e che mostrano chiaramente il ruolo della ripeti-
zione per riempire un vuoto.
Ma l'uomo è un animale che supera volentieri i propri
limiti. Non si è fermato qui. Non gli è bastato fare delle
creazioni spontanee per se stesso; è intervenuto un ambiente
sociale, si sono costituite delle tecniche; si sono presentati
nuovi problemi e nuovi pretesti. Si è imparato a fare un vaso;
a tornire una terracotta, a costruire una casa, a creare un
mobile, e in tutti i casi si è manifestato il bisogno complemen-
tare di ornare quell'oggetto, vale a dire di riempire dei vuoti.
Allora la combinazione della parte materiale, la tecnica da
una parte, con il bisogno di decorazione dall'altra, con i gusti
di coloro per i quali si è costruito la casa o fatto il mobile,
hanno condotto ad una sorta di specializzazione complessa.
Allora, non basta più la sola spontaneità, il lavoro quasi
meccanico (come quello dell'uomo che canta fra sé una nenia
monotona, o che riempie uno spazio con disegni casuali);
vediamo agire qualcosa di diverso dalla pura sensibilità,

100
interviene ciò che chiamiamo intelletto, intelligenza; e con
l'intelligenza, la previsione cosciente. Nell'opera d'arte, ve-
diamo apparire una sorta di calcolo. Vediamo apparire anche
una complicazione delle forme, un tentativo di renderle più
interessanti.
All'ornamento astratto si aggiunge la rappresentazione
delle cose. Di conseguenza, si è reso necessario che entrassero
in gioco a poco a poco l'intelletto, con tutte le sue risorse, e
l'osservazione meditata.
Quanto all'autore, l'artista - egli stesso diviene un essere
più complesso. Occorre che un artista contenga al tempo
stesso un poeta che inventi, che fecondi con la sua sensibilità le
cose, i tempi e gli spazi vuoti, ed un tecnico, un uomo che
abbia il coraggio e la forza di imparare e di lottare contro le
difficoltà con lo studio. Ci vuole carattere e bisogna che
quest'uomo sia anche un critico per prevedere non soltanto
l'opera in sé, ma anche gli effetti dell'opera sugli altri.
Così si forma, si espande, si arricchisce la persona dell'arti-
sta. Non ha più nulla a che vedere con un uomo che produce
spontaneamente ... Ma rimarrà sempre una specie di pregiu-
dizio in favore della produzione spontanea, un pregiudizio
magico. Si attribuirà alla spontaneità un valore trascendente.
Si parlerà di ispirazione; la si opporrà all'intelligenza. Ma il
ruolo dell'intelletto è, molto semplicemente, il ruolo del resto
dell'essere che controlla, dirige un'attività particolare, che
interviene con tutte le sue conoscenze, le sue facoltà, le sue
forze; e questo ruolo cresce, nell'opera d'arte, con la cultura.
Più la cultura è grande, più diventa grande la parte dell'intel-
letto. Essa cresce con la rappresentazione che l'artista si fa
degli effetti esterni dell'opera sul pubblico. Essa aumenta
anche con l'importanza dell'opera dal punto di vista mate-
riale: quando l'opera è considerevole, come un'opera d'archi-
tettura, e richiede un tempo molto lungo, numerose collabo-
razioni, una tecnica sapiente, la parte dell'intelletto e della
riflessione razionale si fa preponderante.
Un altro fattore, infine, diminuisce il ruolo della sponta-
neità: le condizioni esterne imposte dalle circostanze. In

101
pittura o in scultura se dovete fare il ritratto di qualcuno,
l'ispirazione non renderà il vostro ritratto più o meno rassomi-
gliante. Il talento reale e particolare del pittore farà sì che
quel ritratto sia un'opera d'arte e canti da sé, indipendente-
mente dalla rassomiglianza. Il ritratto varrà come quadro;
quando quell'uomo sarà morto; il quadro avrà come solo
valore l'impressione d'arte; ma poiché il ritratto deve somi-
gliare al modello, è impossibile ottenere, con un atto sponta-
neo, la rappresentazione esatta, la somiglianza del disegno
con il modello. È necessario che qui intervengano provvedi-
menti più o meno precisi, che il lavoro venga ripreso più volte;
e la ripresa è il correttivo dell'ispirazione spontanea. Ogni
volta che vi è una ripresa (e non sapete mai quando non ve ne
sono) è intervenuto un fattore nuovo che interrompe il
processo della spontaneità e che ha fatto appello alle risorse
intellettuali dell'autore.
Infine, punto molto importante (arriviamo ai grandi segreti
dell'arte, e non so se devo esser chiaro!), un elemento costante,
indispensabile dell'arte è l'imitazione che l'autore fa di se stes-
so, e precisamente nella stessa proporzione in cui l'autore ha
beneficiato della fortuna, o ha approfittato di casi favorevoli, è
costretto, per dare all'opera la continuità di valore che deve de-
siderare, ad imitare se stesso, e, di conseguenza, a studiare il
proprio modo di procedere, a costruire la spontaneità.
Nessuno è miglior critico di un artista che egli stesso;
nessuno meglio di lui sa esattamente quanto vale, perché egli
ha ricostruito per via di sintesi quel che gli è caduto dal cielo.
È inevitabile che si imiti, perché è impossibile mantenere per
tutta la durata di un'opera il valore ottenuto in certi punti; se
si vuole che l'opera sia omogenea quanto al suo valore, è
necessario cercare di trovare in se stessi di che riprodurre una
certa spontaneità, di che costruire un insieme omogeneo, con
mezzi appropriati, con dei «trucchi».
Ciò è assolutamente generico. Un'opera che presenta una
certa perfezione è stata fatta dapprima con momenti di
qualità differente. Si è dovuto poi dare a questi momenti di
qualità differente un valore quasi simile. Qui interviene al

102
massimo grado tutta la capacità di critica, di analisi, di
ragionamento e di sintesi dell'autore.
Infine, la composizione stessa è ancora un altro aspetto
della questione. La composizione è ciò che vi è di più raro in
certe arti. Per esempio, in poesia. Conosco veramente pochis-
sime poesie davvero composte. Mi spiego: conosco pochissime
poesie composte, a condizione che l o non si intenda per
composizione un'enumerazione cronologica. I fatti si succe-
dono, li si racconta nell'ordine dei tempi. Cominciano il tal
giorno alla tale ora e finiscono il tal giorno. Questa è una
successione di fatti, ma non vi è composizione, poiché non è
composizione la successione delle cose nella vita di qualcuno,
o in strada, dall'ora H all'ora H'. L'opera d'arte che riproduce
questi fatti non è un'opera composta. È una registrazione. 2°
Non è composizione, nel senso artistico, il procedimento che
consiste nel seguire un piano (piano nel senso logico del
termine, categorie, specie e generi, ecc.); infatti, questo piano
comporta solo in modo molto incompleto la solidarietà delle
diverse parti dell'opera, ed è questo il punto fondamentale.
Questa solidarietà non è realizzata col solo argomento dell'o-
pera, né con una dipendenza puramente logica delle parti,
poiché la materia dell'opera e la sua forma rimangono senza
rapporto con quest'ordine. Ma ]a composizione a cui penso è
quella che esige, e talvolta realizza, l'indivisibilità, l'indisso-
lubilità della materia e della forma dell'opera.
Ho pronunciato la parola «materia». Mi scuso con i filosofi;
questo termine, secondo me, non dovrebbe mai essere impie-
gato da solo: si eviterebbero molte discussioni (anche nel
campo della fisica) sulla materia, se si accettasse, ogni volta
che la si utilizza, di precisarla, dicendo: rispetto ad una data
trasformazione. Si direbbe: rispetto ad una certa trasforma-
zione od operazione, chiameremo materia ciò che si conserva
(sia esso energia, o altro). Ciò mi consente di parlare di
materia dell'opera d'arte, poiché, all'infuori delle arti plasti-
che, e, per esempio, in musica o in poesia, la materia di queste
arti sarebbe piuttosto difficile da precisare nell'accezione
comune del termine. Se si conserva qualcosa nell'operazione

103
che consiste nel subire un brano di musica o una poesia,
dall'inizio alla fine, lo chiameremo materia di quella poesia o
di quel brano.
Ma torniamo alla composizione che cerca l'indissolubilità
così preziosa della forma con il contenuto (mi spiegherò su
questi due termini fra breve): essa esige che ogni elemento sia
in una solidarietà particolare con un altro elemento. In una
poesia, ciò non sarà mai realizzato da un legame logico, o
cronologico; si potrà sempre ridurre una poesia o un enun-
ciato in prosa; è quello che fa la mente del lettore, uccidendo
l'opera per il solo fatto di averla compresa. Bisogna quindi
cercare la composizione all'interno e per mezzo della materia,
ossia il linguaggio; vale a dire che la sostanza della poesia deve
opporsi alla trasformazione immediata della parola in signifi-
cato. Occorrono similitudini di sonorità, di ritmo, di forma,
ecc., che dovranno corrispondersi e ricondurre l'attenzione
alla forma. Ciò può essere realizzato abbastanza facilmente in
un poema in strofe. Si può così ottenere una sorta di unità
dell'opera che dipende dal suo corpo.
Diciamo a questo proposito (è una parentesi molto impor-
tante soprattutto per l'insegnamento) che ciò che chiamiamo
una poesia esiste solo in atto. Quando si parla di poesia, di un
poema o di un poeta, bisogna sempre dire «pronunciato da
me» o «capito da me». Una poesia diviene poesia, come del
resto un brano musicale, solo quando la si sente risuonare in
tutto il suo valore. Quando è sulla carta, si è tentati di fare
astrazione da quanto essa ha di più importante, dal suo valore
integrale, e quindi di giudicarla ad una lettura visiva. Nulla
di più estraneo alla poesia. Di conseguenza, ogni volta che si
tratta di poesia e di poeta, si tratta in realtà della poesia in
atto, ed il verso non ha che una definizione possibile; è un
«modo di dire». Tutto il resto non è nulla. Sapete che, per un
abile recitatore, è facilissimo dare valore di verso anche ad
una brutta prosa, mentre non vi sono bei versi che resistano ad
una cattiva recitazione. Ogni volta che avete a che fare con
una poesia, essa risuonerà sempre in una bocca umana. I
giudizi sulla carta cadono nel falso.

104
Poiché ho l'occasione di rivolgermi qui a dei professori di fi-
losofia, gradirei che assegnassero ai loro allievi questo compito:
«Definire cosa si intende in letteratura ed in arte per soggetto».
Cos'è il soggetto di una poesia, di un dramma, di un quadro? Vi
è qui un piccolo enigma. Sarebbe molto curioso proporlo ad un
gruppo di liceali o di studenti universitari.
Chiaramente ho una mia idea, ma non posso dirla oggi;
trovo che sarebbe interessante avere la risposta di studenti di
lettere e di filosofia sull'idea che si fanno di una nozione
corrente, e spero che qualcuno di voi mi porterà dei risultati.
Quanto all'esecuzione in sé di cui avrei parlato molto se ne
avessi avuto il tempo, quanto all'esecuzione (che può essere
magnificamente definita un passaggio dal disordine all'or-
dine, dall'informe alla forma o dall'impuro al puro, dall'arbi-
trario al necessario, ecc., dal confuso al preciso, come un
cambiamento di luce al quale l'occhio si adatta), bisogne-
rebbe considerarla nell'autore, ritrovarne le tracce nell'og-
getto, e gli effetti nel paziente che li prova.
L'esecuzione solleva un'infinità di questioni e di idee: per
esempio il problema della facilità, delle impossibilità, delle
difficoltà di diversi ordini; i tormenti degli artisti in preda a
queste difficoltà; il problema enorme delle varie convenzioni,
delle libertà, del mestiere stesso; il caso, che svolge un ruolo
importantissimo, se si può parlare di ruolo a proposito del
caso; la parte del ragionamento e delle analogie; quella di ciò
che si può chiamare il modello, il tipo che certi artisti devono
avere in mente. È curioso notare che in certi casi, per esempio
a proposito del ritratto, l'artista ha due modelli: la persona
che deve rappresentare ed il tipo d'opera d'arte che la sua
natura gli chiede di realizzare.
Sotto un punto di vista del tutto diverso, l'etica degli artisti
e la loro vita affettiva di relazione svolgono, nella produzione
della loro opera, un ruolo di primaria importanza. Pur-
troppo, questa vita viene sempre dissimulata. È molto diffi-
cile, quando non si è vissuta la vita stessa dell'arte (e anche
quando la si è vissuta), discernere esattamente la parte che
essa ha nelle opere.

105
È chiaro che i fattori che vengono designati con i termini
tradizionali di orgoglio, vanità, gelosia esercitano un'in-
fluenza fondamentale; quante opere devono la loro nascita o
il loro abbandono alla sensibilità affettiva dei loro artisti! Altra
cosa: bisogna considerare anche il modo in cui l'artista si
rappresenta il proprio pubblico. Si potrebbe fondare una
certa divisione delle opere d'arte sull'osservazione che una
parte delle produzioni è creata dal pubblico, e che un'altra si
crea il proprio pubblico. Vi sono dunque sotto questo aspetto
due categorie di intenzioni: l o fare un'opera su misura per il
pubblico, un'opera che gli si addica; 2° oppure, formarsi un
pubblico che si addica all'opera.
Infine vi avrei dovuto parlare degli idoli in arte: sarebbe il
capitolo dei miti, delle sovrapposizioni, delle credenze degli
artisti, e di quelle del pubblico riguardo agli artisti; posso solo
sfiorare questo argomento.
Mi è capitato spesso di dirmi: perché l'esecuzione dell'opera
d'arte non è essa stessa un'opera d'arte? Lo si può pensare,
almeno per certe arti. Mi ricordo a questo proposito il
seguente esempio.
Goncourt racconta che un pittore giapponese, venuto a
Parigi, tenne una seduta di lavoro alla presenza di alcuni
appassionati d'arte. Dopo aver preparato i suoi strumenti,
inumidì, con una spugna, il foglio teso su di un telaio, poi
gettò una goccia di inchiostro di china su questo foglio
inumidito. Dopo che la goccia si fu sparsa, diede fuoco a dei
giornali appallottolati per seccare il foglio. Inumidì una
seconda volta, in un altro angolo il foglio secco, fece una
seconda macchia, ecc. È un venditore di fumo, dicevano
tutti. Ma quando ebbe terminato le asciugature ed i getti di
inchiostro di china, ritornò sul foglio teso e, con un pennel-
lino, fece due o tre tratti, qua e là. Apparve subito l'opera: un
uccello che dispiegava le piume. Non una sola operazione era
stata fallita, e tutto era stato fatto con un ordine scrupoloso
che provava che egli lo aveva fatto centinaia di volte ed era
pervenuto a questo prodigio di esecuzione. Quell'uomo faceva
dell'esecuzione dell'opera un'altra opera d'arte.

106
Si può quindi immaginare un pittore o uno scultore, che
lavorino in una specie di danza, che operino ritmicamente.
L'esecuzione, dopo tutto, è una mimica. Se si potessero
ricostruire tutti i movimenti, si espliciterebbe il quadro con
una successione di azioni ordinate; questa successione po-
trebbe quindi venir ripetuta, riprodotta, e l'artista diverrebbe
paragonabile all'attore che recita cento volte lo stesso ruolo.
Ciò mostra, sotto forma di fantasia, che tutti questi gesti
dell'arte, una volta che sono stati ben acquisiti, sono suscetti-
bili di una certa ripetizione, e che il vero artista è colui che
giunge a possedere (ma non tanto sicuramente come ho detto)
una conoscenza di se stesso spinta fino alla pratica e all'im-
piego automatico della propria personalità, della propria
originalità.
Ancora due parole: per prima cosa a proposito di una
nozione che è stata sommersa dal ridicolo (come molte altre in
arte). È quella di Grande Arte. A mio parere, la si potrebbe
riprendere con profitto. La Grande Arte viene confusa con
l'arte cosiddetta «accademica»: si è chiamata Grande Arte
l'arte imponente, molto noiosa e ufficiale. Ma chiamerei
Grande Arte quella che esige dall'autore fuso di tutte le
facoltà della mente: abbiamo visto intervenire la spontaneità,
poi il calcolo, il ragionamento ecc.; se supponete che l'artista
si senta in grado di affrontare qualunque opera (senza curarsi
delle dimensioni) in modo che questa piccola opera rifletta
tutte le facoltà possibili della mente applicate all'arte, o
piuttosto applicabili nell'opera d'arte, questa nozione per me
definisce la Grande Arte opera dell'uomo completo. D'altra
parte quest'opera di Grande Arte deve esigere anche da colui
che la subisce l'impiego di tutte le sue facoltà. Ciò che l'autore
può desiderare, è di avere a che fare con un lettore o con uno
spettatore che gli concedano non l'ammirazione (che non è
nulla), ma una viva attenzione. Probabilmente, quest'uomo
troverà spesso qualcosa di diverso da ciò che l'autore ha
voluto: può darsi che l'autore abbia voluto meno di quanto gli
accordi l'attenzione del lettore o dell'ascoltatore; ma è certo

107
che l'intenzione dell'autore di voler stimolare con la sua opera
l'insieme delle facoltà dell'uomo - e quindi di esigere dal
pubblico uno sforzo della stessa qualità del proprio - definì~
sce un'arte che si può ben qualificare come grande.

(1935)

108
Questioni di poesia

Da una quarantina d'anni ho visto la poesia subire sperimen-


tazioni molteplici, essere sottoposta alle esperienze più diverse
e tentare vie del tutto sconosciute, ritornando talvolta a certe
tradizioni; partecipare, insomma, alle rapide fluttuazioni ed
allo stato di frequente novità che sembrano caratterizzare il
mondo attuale. La ricchezza e la fragilità delle combinazioni,
l'instabilità dei gusti e le rapide trasformazioni di valori; in
breve, la fede negli opposti e la scomparsa del durevole
costituiscono i tratti di quest'epoca, e sarebbero ben più
avvertibili se non rispondessero esattamente alla nostra stessa
sensibilità, che si fa ogni giorno più ottusa.
In quest'ultimo mezzo secolo si è espressa una serie di
formule e modi poetici, dal modello rigido e facilmente
definibile del Parnasse, fino alle produzioni più sregolate ed ai
tentativi più autenticamente liberi. Occorre inoltre aggiun-
gere a questo insieme d'invenzioni certe riprese, spesso molto
felici: forme pure o dotte, di innegabile eleganza, prese a
prestito dal XVI, xvn e XVIII secolo.

Il fatto che queste ricerche si siano svolte in Francia è


piuttosto notevole, dal momento che questo paese è conside-

109
rato poco poetico, pur avendo prodotto più di un poeta
famoso. Vero è che, da circa trecento anni, i Francesi sono
stati educati a misconoscere la vera natura della poesia e a
procedere su strade che conducono nella direzione a lei
opposta. Lo dimostrerò facilmente più avanti. Questo spiega
perché le improvvise fiammate di poesia che, di tanto in
tanto, si sono prodotte da noi, abbiano dovuto prodursi in
forma di rivolta o di ribellione; o, al contrario, si siano
concentrate in un esiguo numero di teste ferventi, gelose delle
loro segrete certezze. Ma, proprio in questa nazione così poco
incline al canto, è apparsa durante l'ultimo quarto del secolo
scorso una sorprendente ricchezza di invenzioni liriche. Verso
il 1875, mentre Victor Hugo era ancora vivo e Leconte de
Lisle e i suoi accedevano alla gloria, si son visti nascere i nomi
di Verlaine, di Stéphane Mallarmé, di Arthur Rimbaud,
questi tre Re Magi della poetica moderna, portatori di così
preziosi doni e di essenze tanto rare che il tempo da allora
trascorso non ha alterato affatto lo splendore né il potere di
quei doni straordinari.
L'estrema diversità delle loro opere, unita alla varietà dei
modelli offerti dai poeti della generazione precedente, ha
permesso e permette di concepire, sentire e praticare la poesia
in molti e diversissimi modi. Probabilmente oggi c'è ancora
chi segue Lamartine; altri continuano la lezione di Rimbaud.
La stessa persona può cambiare gusto e stile, bruciare a
vent'anni ciò che adorava a sedici; una qualche intima
trasformazione fa slittare da un maestro all'altro il potere di
incantare. Il cultore di Musset si affina e l'abbandona per
Verlaine. Un altro, nutritosi precocemente di Hugo, si dedica
interamente a Mallarmé.
Questi passaggi spirituali si compiono, generalmente, in un
senso piuttosto che nell'altro, molto meno probabile: deve
essere rarissimo che il Bateau lvre conduca, alla lunga, verso
Le Lac. In compenso, è possibile non perdere, per amore
della pura e dura H érodiade, il gusto per la Preghiera di
Esther.
Queste disaffezioni, questi colpi di fulmine o di grazia,

110
queste conversioni e sostituzioni, queste possibilità di essere
successivamente sensibilizzati all'azione di poeti incompati-
bili sono fenomeni letterari di primaria importanza. Dunque
non se ne parla mai.
Ma, - di cosa si parla, parlando di «Poesia»?
Mi stupisce che in nessun altro campo di nostro interesse
l'osservazione delle cose stesse sia più trascurata. È vero che
questo accade in tutti i campi in cui si può temere che lo
sguardo diretto dissipi o disincanti il proprio oggetto. Ho
notato, non senza attenzione, lo scontento suscitato da ciò che
ho scritto recentemente a proposito della Storia, e che si
riduceva a semplici constatazioni che ognuno può fare. Que-
sta piccola effervescenza era del tutto naturale e facilmente
prevedibile, poiché è più semplice agire che riflettere e questo
riflesso automatico ha necessariamente la meglio per la mag-
gior parte delle persone. Per quanto mi riguarda, io cerco
sempre di non seguire ciò che mi porterebbe lontano dall'og-
getto osservabile, l'impeto delle idee che, di segno in segno,
vola a suscitare il sentimento particolare... Ritengo che si
debba imparare a non considerare soltanto ciò che le consue-
tudini e in primo luogo la più potente di tutte, il linguaggio, ci
fanno considerare. Bisogna tentare di soffermarsi su punti
diversi da quelli indicati dalle parole, - cioè - dagli altri.
Cercherò dunque di mostrare come l'uso corrente tratta la
Poesia, facendone qualcosa che essa non è, a scapito di ciò che
essa è veramente.

Non si può dire quasi nulla sulla «Poesia» che non sia
perfettamente inutile a tutti coloro che sentono nella loro vita
intima il singolare potere di desiderarla o produrla, come una
richiesta inesplicabile del loro essere, o come la sua risposta
più pura.
Queste persone sentono la necessità di ciò che di solito non
serve a nulla, e avvertono talvolta non so quale rigore in certe
combinazioni di parole del tutto arbitrarie agli occhi altrui.
Queste stesse persone non si lasciano facilmente convincere
ad amare ciò che non amano e a non amare ciò che amano,

lll
- cosa che fu, in ogni tempo, lo sforzo principale della
critica.

Per coloro che non sentono molto intensamente la presenza


o l'assenza della Poesia, essa forse non è che una cosa astratta e
misteriosamente ammessa: cosa vana quanto si vuole, - seb-
bene una tradizione che conviene rispettare attribuisca a
questa entità uno di quei valori indeterminati così diffusi
nella mentalità comune. La considerazione che si accorda ad
un titolo di nobiltà in una nazione democratica può qui
servire da esempio.
Riguardo all'essenza della Poesia, ritengo che sia a seconda
degli individui, di valore nullo o di importanza infinita: cosa
che la assimila a Dio.

Tra questi uomini senza gran sete di Poesia, che non ne


sentono il bisogno e che non l'avrebbero inventata, la sfortuna
vuole che figurino un buon numero di quelli il cui compito o
destino è' di giudicare la Poesia, di discuterne, di stimolarne e
coltivarne il gusto; di dispensare, insomma, ciò che essi non
hanno. Essi vi applicano spesso tutta la loro intelligenza e
tutto il loro zelo: con temibili conseguenze.
Sotto il nome magnifico e discreto di «Poesia», costoro sono
inevitabilmente portati o costretti a considerare oggetti total-
mente diversi da quello di cui credono di occuparsi. Ogni
scusa è buona, senza che se ne avvedano, per fuggire o per
eludere innocentemente l'essenziale. Ogni pretesto è buono,
purché non sia il testo.
Si enumerano, ad esempio, i mezzi esterni usati dai poeti; si
rilevano frequenze o assenze nel loro vocabolario; si mettono
in evidenza le loro immagini favorite; si segnalano reciproci
prestiti e somiglianze. Alcuni tentano di ricostruirne i segreti
disegni e di leggerne, in una trasparenza ingannevole, inten-
zioni o allusioni nelle opere. Con un compiacimento che ben
rivela i loro abbagli, essi scrutano volentieri ciò che si sa (o che
si crede di sapere) della vita degli autori, come se fosse
possibile dedurre da questa l'origine di un'opera, e come se

112
d'altronde le bellezze dell'espressione, il delizioso accordo,
sempre ... provvidenziale, di termini e suoni, fossero effetti del
tutto naturali delle vicissitudini affascinanti o patetiche di
un'esistenza. Ma tutti sono stati felici e infelici; e gli eccessi del-
la gioia come quelli del dolore non sono stati negati alle anime
più grossolane e meno liriche. Sentire non comporta rendere
sensibile, - e tanto meno rendere sensibile in bellezza.

Non è forse stupefacente che si cerchino e che si trovino


tante maniere di trattare un argomento senza nemmeno
sfiorarne il principio, e dimostrando poi con i metodi impie-
gati, con la maniera di applicarvisi, e persino con lo sforzo che
ci si infligge, un'ignoranza piena e perfetta della vera que-
stione?
Non solo: nella quantità di lavori eruditi che, da secoli,
sono stati consacrati alla Poesia, se ne vedono straordinaria-
mente pochi (e dico «pochi» per non essere drastico), che non
implichino una negazione della sua stessa esistenza. Gli
aspetti più sensibili, i problemi più concreti di quest'arte così
composita vengono quasi del tutto offuscati dal genere di
sguardi che si concentrano su di essa.

Cosa si fa, in genere? Si tratta una poesia come se fosse


divisibile (e dovesse esserlo) da un lato in un discorso in prosa
che sia autonomo e autosufficiente; e dall'altro, in un pezzo di
una musica particolare, più o meno affine alla musica pro-
priamente detta, quale può essere prodotta dalla voce umana;
ma la nostra non si eleva mai fino al canto, il quale, del resto,
non conserva affatto le parole, legato com'è soltanto alle
sillabe.
Quanto al discorso in prosa, - discorso che messo in altri
termini assolverebbe al medesimo compito, - esso viene
diviso a sua volta. Lo si ritiene scomponibile, da un lato in un
piccolo testo (riducibile talvolta ad un solo termine o al titolo
dell'opera) e, dall'altro, in una certa quantità di parola
accessoria: ornamenti, immagini, figure, epiteti, «bei detta-
gli», il cui carattere comune è di poter essere introdotti,
moltiplicati, soppressi, ad libitum ...

113
E per quanto riguarda la musica della poesia, questa
musica particolare a cui mi riferivo, essa è per taluni impossi-
bile da percepire; per i più, trascurabile; per certi altri,
oggetto di ricerche astratte, talvolta colte, generalmente
sterili. Ammirevoli sforzi, lo so, sono stati fatti contro le
difficoltà di questa materia; ma temo proprio che le forze
siano state male applicate. Nulla di più ingannevole dei
metodi detti «scientifici» (e, in particolare, le rilevazioni o le
registrazioni) che permettono sempre di far rispondere con
«un fatto» ad una domanda anche assurda o mal posta. Il loro
valore (come quello della logica) dipende dalla maniera di
servirsene. Le statistiche, i tracciati sulla cera, le osservazioni
cronometriche invocate per risolvere controversie del tutto
«soggettive» di origine o di tendenza, dimostrano certo
qualcosa; - ma in questo caso i loro oracoli, ben lontani dal
trarci d'impaccio e chiudere così ogni discussione, non fanno
che introdurre, sotto le specie e l'apparato materiale della
fisica, tutta una metafisica ingenuamente dissimulata.
Abbiamo un bel contare i passi della dea, rilevarne la
frequenza e la lunghezza media, non ne ricaveremo mai il
segreto della sua grazia istantanea. La lodevole curiosità spesa
a scrutare i misteri della musica propria del linguaggio
«articolato» non ci ha valso, fino ad oggi, produzioni di
importanza nuova e capitale. Ora, il punto è proprio questo.
La sola prova del vero sapere è il potere: potere di fare o di
predire. Tout le reste est Littérature ...
Devo però riconoscere che queste ricerche che ritengo poco
fruttuose hanno almeno il merito di aspirare alla precisione.
La loro intenzione è eccellente ... L'approssimativo soddisfa in
pieno la nostra epoca, in ogni occasione in cui la materia non è
in gioco. La nostra epoca si scopre dunque allo stesso tempo
più precisa e più superficiale di ogni altra: più precisa suo
malgrado, più superficiale solo per causa sua. Essa considera
l'accidente più prezioso della sostanza. I personaggi la diver-
tono e l'uomo la tedia; ed essa teme sopra ogni cosa questa
feconda inquietudine, che in tempi più quieti e quasi più
vuoti, generava lettori profondi, difficili e desiderabili. Chi

114
soppeserebbe oggi le sue minime parole? E per chi? Quale
Racine interrogherebbe il proprio Boileau per ottenerne li-
cenza, peraltro negata, di sostituire il termine «miserable» a
«infortuné» nel tal verso?

Dato che intendo liberare un po' la Poesia da tanta prosa e


da tanto spirito prosastico che la soffocano e la velano di
conoscenze del tutto inutili alla conoscenza ed al possesso
della sua natura, posso ben osservare l'effetto che tali lavori
producono su numerosi intelletti della nostra epoca. Accade
che l'abitudine, raggiunta in certi ambiti, all'estrema esat-
tezza, (divenuta familiare ai più dopo innumerevoli applica-
zioni alla vita pratica), tenda a rendere vane per noi, se non
addirittura insopportabili, tante speculazioni tradizionali,
tante tesi o teorie che, forse, possono ancora interessarci,
stuzzicarci un po' l'intelletto, farci scrivere ed anche sfogliare
più di un buon libro; ma noi sentiamo peraltro che sarebbe
sufficiente uno sguardo un po' più attivo o qualche domanda
imprevista per vedere risolversi in semplici possibilità verbali i
miraggi astratti, i sistemi arbitrari e le vaghe prospettive.
Ormai tutte le scienze che hanno per sé solo ciò che esse stesse
dicono si trovano «virtualmente» svalutate dallo sviluppo di
quelle scienze i cui risultati sono provati .ed utilizzati ad ogni
istante.
Cerchiamo di immaginare dunque i giudizi che possono
nascere in un'intelligenza abituata ad un certo rigore, quando
le si propongono certe «definizioni » e certe « analisi» che
pretendono di introdurla alla comprensione delle Lettere e in
particolar modo della Poesia. Quale valore accordare alle
discussioni che si fanno sul «Classicismo», il «Romanti-
cismo», il «Simbolismo» ecc., quando noi avremmo serie
difficoltà a collegare alle pretese idee generali e alle tendenze
«estetiche» che questi bei nomi si presume designino, le
singole caratteristiche e le qualità d'esecuzione che fanno il
pregio ed assicurano la sopravvivenza di un'opera allo stato
vivente? Sono termini astratti e convenzionali: ma conven-
zioni che sono tutto tranne che «comodità», poiché il disac-

115
cordo degli autori sul loro significato è, in un certo senso, di
regola; e poiché esse sembrano create per provocarlo e dare un
pretesto per dissensi infiniti.

È fin troppo chiaro che tutte queste classificazioni e queste


vedute a volo d'uccello non aggiungono nulla al piacere di un
lettore capace d'amore, né accrescono, presso un uomo del
mestiere, la comprensione dei mezzi che i maestri hanno
messo in opera: esse distolgono e dispensano l'intelletto dai
problemi reali dell'arte; ma permettono anche a tanti ciechi
di dissertare mirabilmente del colore. Quante cose superficiali
furono scritte grazie al termine «Umanesimo» e quante
sciocchezze per far credere alla gente che Rousseau avesse
inventato la «Natura» l. .. Vero è che una volta adottate ed
assorbite dal pubblico, tra gli infiniti fantasmi che gli fanno
perdere tempo, queste apparenze di pensieri divengono quasi
reali e danno pretesto e materia per un gran numero di
combinazioni di una certa scolastica originalità. In Victor
Hugo viene ingegnosamente scoperto un Boileau, un roman-
tico in Corneille, un «psicologo» o un realista in Racine ...
Tutte cose che non sono né vere né false; - e che d'altronde
non possono esserlo.

Ammetto che non si tenga in alcun conto la letteratura in


generale, e la poesia in particolare. La bellezza è una fac-
cenda privata; la sensazione di riconoscerla e di sentirla in
quel dato istante è un evento più o meno frequente in
un'esistenza, come accade per il dolore e la voluttà, ma ancor
più casuale. Non è mai sicuro che un certo oggetto ci seduca,
né che essendoci piaciuto o meno una volta, ci piaccia o meno
di nuovo. Questa incertezza che elude tutti i calcoli e l'atten-
zione, e che permette tutte le combinazioni delle opere con gli
individui, tutte le repulsioni e le idolatrie, rende i destini dei
testi partecipi dei capricci, delle passioni e dei mutamenti di
ognuno. Se qualcuno apprezza davvero una certa poesia, si
riconosce dal fatto che ne parla come di un affetto personale,
- sempre che ne parli. Ho conosciuto persone così gelose di

116
ciò che ammiravano perdutamente, da mal sopportare che
altri ne fossero attratti o che soltanto ne fossero a conoscenza,
ritenendo che il loro amore, condiviso con altri, potesse
guastarsi. Essi preferivano nascondere anziché diffondere i
loro libri preferiti, e li trattavano (a scapito della gloria degli
autori presso il pubblico, e a vantaggio del loro culto) come i
saggi mariti d'Oriente trattano le loro spose, circondandole di
mistero.

Ma se, come l'uso richiede, si vuole fare delle Lettere una


sorta di istituzione di pubblica utilità, associando alla fama di
una nazione- che è, in fondo, affare di Stato, -dei titoli di
«capolavori» da inscriversi accanto ai nomi delle sue vittorie;
se, trasformando strumenti di piacere spirituale in mezzi
educativi, si assegna a queste creazioni un ruolo importante
nella formazione e nella valutazione dei giovani, - bisogna
almeno fare attenzione a non corrompere in questo modo il
giusto e vero senso dell'arte. Questa corruzione consiste nel
sostituire alla precisione assoluta del piacere o dell'interesse
diretto che un'opera suscita, dettagli vani ed esteriori oppure
opinioni convenzionali; e nel fare di quest'opera un reagente
utile al controllo pedagogico, una materia per sviluppi super-
flui, un pretesto per problemi assurdi. ..
Tutte queste intenzioni concorrono allo stesso effetto: evi-
tare le questioni reali, organizzare un equivoco.
Quando io osservo ciò che si fa della Poesia, ciò che di essa si
chiede e si risponde, l'idea che se ne dà negli studi (e un po'
dovunque), la mia mente, che si crede la più semplice delle
menti possibili (in conseguenza forse della natura intima delle
menti), si stupisce «al limite dello stupore)).
Essa dice tra sé: io non vedo nulla in tutto ciò, che mi
permetta di leggere meglio tale poesia né di eseguirla meglio
per mio piacere; né di concepirne più distintamente la
struttura. Mi si spinge a tutt'altro, e non v'è nulla che non si
ricerchi per distogliermi dal divino. Mi si insegnano date e
notizie biografiche; mi si intrattiene su dispute e dottrine di
cui non mi curo, quando si tratta di canto e dell'arte sottile

117
della voce portatrice di idee ... Dov'è dunque l'essenziale in
questi discorsi ed in queste tesi? Cosa si fa di ciò che si osserva
immediatamente in un testo, delle sensazioni per produrre le
quali esso è stato composto? Il momento di trattare della vita,
degli amori e delle opinioni del poeta, dei suoi amici e nemici,
della sua nascita e della sua morte, verrà quando saremo
abbastanza avanzati nella conoscenza poetica della sua poe-
sia, cioè quando ci saremo resi noi stessi strumento della cosa
scritta, in modo che la nostra voce, la nostra intelligenza e
tutte le risorse della nostra sensibilità si siano unite per dare
vita e presenza efficace all'atto creativo dell'autore.
Il carattere superficiale e vano degli studi e degli insegna-
menti che hanno appena suscitato il mio stupore appare alla
minima domanda precisa. Mentre ascolto queste dissertazioni
alle quali non mancano né le «documentazioni», né le
sottigliezze, non posso impedirmi di pensare che non so
nemmeno che cosa è una Frase ... Io faccio congetture sulla
definizione di Verso. Ho letto o forgiato venti «definizioni» di
Ritmo, e non ne adotto nessuna ... Cosa dico! ... Se solo mi
fermo a domandarmi che cos'è una Consonante, m'interrogo;
consulto; e non trovo altro che parvenze di conoscenza netta,
distribuita in cento opinioni contraddittorie ...
Se adesso provo ad informarmi su questi usi o piuttosto
abusi del linguaggio, che vengono riuniti sotto il termine vago
e generico di «figure», non trovo altro che le abbandonate
vestigia dell'analisi molto imperfetta che di questi fenomeni
«retorici» avevano tentato gli antichi. Ora queste figure, così
trascurate dalla critica moderna svolgono un ruolo di prima-
ria importanza, non solo nella poesia dichiarata e organiz-
zata, ma anche in quella perpetuamente attiva che tormenta
il vocabolario stabilito, dilata o restringe il senso delle parole,
opera su di esse per simmetrie o conversioni, altera ad ogni
istante i valori di questa moneta fiduciaria; e ora attraverso le
bocche del popolo, ora sotto la penna esitante dello scrittore,
genera questa variazione della lingua che la rende insensibil-
mente altra. Nessuno sembra aver anche soltanto provato a
riprendere questa analisi. Nessuno cerca nell'esame approfon-

118
dito di queste sostituzioni, di queste notazioni contratte, di
questi equivoci ragionati e di questi espedienti, così vaga-
mente definiti finora dai grammatici, le proprietà che essi
suppongono e che non possono essere molto diverse da quelle
rnesse talvolta in evidenza dal genio geometrico e dalla sua
arte di crearsi strumenti di pensiero sempre più duttili e
penetranti. Senza saperlo il Poeta si muove in un ordine di
relazioni e di trasformazioni possibili, di cui egli non avverte o
non percepisce che gli effetti momentanei e particolari che gli
interessano in una certa fase della sua operazione interiore.
Ammetto che le ricerche di quest'ordine siano terribilmente
difficili e che la loro utilità non possa manifestarsi che a pochi;
e convengo che sia meno astratto, più agevole, più «umano»,
più «vivo», sviluppare considerazioni sulle «fonth, le «in-
fluenze», la «psicologia», gli «ambienth, le «ispirazioni»
poetiche, piuttosto che applicarsi ai problemi organici dell'e-
spressione e dei suoi effetti. Io non nego il valore né contesto
l'interesse di una letteratura che ha la Letteratura stessa come
sfondo e gli autori come personaggi; ma devo constatare che
non vi ho trovato gran cosa che mi potesse davvero servire.
Tutto ciò va bene per faccende esterne come conversazioni,
discussioni, conferenze, esami o tesi, - le cui esigenze sono
molto diverse da quelle del faccia a faccia impietoso tra il
volere e il potere di qualcuno. La Poesia si forma e si comunica
nell'abbandono più puro o nell'attesa più profonda: se la si
prende per oggetto di studio, è qui che bisogna guardare:
nell'essere, e molto poco nei suoi dintorni.

Com'è sorprendente- mi sussurra ancora il mio spirito di


semplicità- che un'epoca che spinge ad un punto incredi-
bile, in fabbrica, in cantiere, in parlamento, nel laboratorio o
nell'ufficio, la dissezione del lavoro, l'economia e l'efficacia
delle azioni, la purezza e la proprietà delle operazioni, re-
spinga nelle arti i vantaggi dell'esperienza acquisita, rifiuti di
invocare altro che l'improvvisazione, il fuoco celeste, il ricorso
al caso sotto diversi nomi allettanti! ... In nessun tempo si è
stabilito, espresso, affermato, e nemmeno proclamato con più

119
forza, il disprezzo per ciò che assicura la perfezione propria
delle opere, che dona loro con il legame delle parti l'unità e la
consistenza della forma, e tutte le qualità che le trovate più
felici non possono conferire. Ma noi siamo istantanei. Troppe
metamorfosi, e rivoluzioni di ogni ordine, troppe trasmuta-
zioni rapide di gusti in disgusti, e di cose disprezzate in cose
inestimabili, troppi valori troppo diversi dati simultanea-
mente ci abituano ad accontentarci dei primi elementi delle
nostre impressioni. E come si può ai nostri giorni pensare alla
durata, speculare sull'avvenire, voler tramandare? Ci sembra
vano cercare di resistere al «tempo» e di offrire a sconosciuti
che vivranno fra duecento anni dei modelli che possano com-
muoverli. Troviamo inspiegabile che tanti uomini illustri ab-
biano pensato a noi e siano forse diventati tali perché vi hanno
pensato. Infine, tutto ci appare così precario ed instabile in
ogni cosa, così necessariamente accidentale, che abbiamo fi-
nito per fare della sensazione, semplici accidenti, e della co-
scienza meno vigile, la sostanza di tante opere.
Insomma, una volta abolita la superstizione della posterità;
dissipata la preoccupazione dei giorni a venire; e divenute
inavvertibili ad un pubblico meno sensibile e più ingenuo di
un tempo la composizione, l'economia dei mezzi, l'eleganza e
la perfezione, è naturale che l'arte della poesia e la compren-
sione di essa ne siano (come tante altre cose) compromesse a tal
punto da impedire ogni previsione o supposizione del loro de-
stino anche prossimo. La Fortuna di un'arte è legata da un
lato alla sorte dei suoi mezzi materiali; dall'altro, a quella
delle menti che ad essa possono interessarsi, e che vi trovano la
soddisfazione di un vero bisogno. Dalla più lontana antichità,
fino ad oggi, la lettura e la scrittura sono stati i soli mezzi di
scambio come i soli procedimenti di lavoro e di conservazione
dell'espressione attraverso il linguaggio. Ora non si può più ri-
spondere del loro avvenire. Quanto alle menti, si vede già che
esse vengono sollecitate e sedotte da tanti prestigi immediati,
da tanti eccitanti diretti che danno loro senza sforzo le sensa-
zioni più intense, e rappresentano per loro la vita stessa e la
natura del tutto presente, tanto che si può dubitare se i nostri

120
nipoti troveranno il minimo sapore nelle grazie antiquate dei
nostri più straordinari poeti, e di tutta la poesia in generale.

Il mio progetto consisteva nel mostrare, attraverso il modo


in cui la Poesia è generalmente considerata, quanto essa sia
generalmente misconosciuta - pietosa vittima di intelligenze
talvolta fra le più grandi, ma che non hanno sensibilità per
essa. Devo dunque continuare questo progetto e giungere a
qualche precisazione.
Citerò per cominciare il grande D' Alembert: «Voici, ce me
semble», egli scrive, «la loi rigoureuse, mais juste, que notre
siècle impose aux poètes: il ne reconnait plus pour bon que ce
qu'il trouverait excellent en prose» 1 •
La celebre frase è una di quelle il cui inverso è esattamente
ciò che noi pensiamo che si debba pensare. Ad un lettore del
1760 sarebbe bastato formularla al contrario per trovare ciò
che si doveva ricercare e gustare nel seguito assai prossimo dei
tempi. Non che D'Alembert si sbagliasse, e nemmeno il suo
secolo. Dico solo che egli credeva di parlare di Poesia, mentre
pensava a tutt'altra cosa sotto questo nome.
Dio solo sa se dall'epoca in cui questo «Teorema di D'Alem-
bert » è stato enunciato, i poeti non si siano prodigati a
contraddirlo! ...
Alcuni, mossi dall'istinto, sono fuggiti, nelle loro opere,
quanto più lontano possibile dalla prosa. Si sono anche
felicemente liberati dell'eloquenza, della morale, della storia,
della filosofia, e di tutto ciò che non si sviluppa nell'intelletto
se non a spese della parola.
Altri, un po' più esigenti, grazie ad un'analisi sempre più
sottile e precisa del desiderio e del piacere poetico, nonché
delle loro risorse, hanno tentato di costruire una poesia che
non potesse mai ridursi all'espressione di un pensiero, né
dunque tradursi in altri termini senza per questo perire. Essi
capirono che la trasmissione di uno stato poetico che coin-
volge l'intero essere senziente, è ben altro rispetto alla trasmis-
sione di un'idea. Compresero anche che il senso letterale di
una poesia non è, e non realizza affatto, ogni suo fine; e non è
dunque, necessariamente unico.

121
Tuttavia, a dispetto di ricerche e di creazioni ammirevoli
la consuetudine di giudicare i versi secondo la prosa e la sua'
funzione, di valutarli, in un certo senso, per la quantità di
prosa che essi contengono; il temperamento nazionale dive-
nuto sempre più prosaico dal XVI secolo; gli errori stupefa-
centi dell'insegnamento letterario; l'influenza del teatro e
della poesia drammatica (cioè dell'azione, che è essenzial-
mente prosa), tutto ciò perpetua tante assurdità e tante
pratiche che testimoniano l'ignoranza più clamorosa delle
condizioni poetiche.
Sarebbe facile redigere una tavola dei «criteri» dello spirito
antipoetico. Sarebbe la lista dei modi di trattare una poesia,
di giudicarla e di parlarne, che costituiscono manovre diretta-
mente opposte agli sforzi del poeta. Trasferite nell'insegna-
mento, in cui sono la regola, queste operazioni vane e barbare
tendono a rovinare sin dall'infanzia il senso poetico, e perfino
la nozione del piacere che esso potrebbe donare.
Distinguere nei versi il contenuto e la forma; un soggetto e
uno sviluppo; il suono e il senso; considerare la ritmica, la
metrica e la prosodia come naturalmente e facilmente separa-
bili dall'espressione verbale stessa, dalle parole e dalla sin-
tassi; ecco altrettanti sintomi di non comprensione e di
insensibilità in materia poetica. Volgere o far volgere in prosa
una poesia; farne materiale di istruzione o d'esame, sono
peccati non veniali di eresia. È una autentica perversione
ingegnarsi a travisare i principi di un'arte, quando si tratte-
rebbe, al contrario, di introdurre le menti in un universo di
linguaggio che non è per nulla il sistema comune degli scambi
tra segni e atti o idee. Il poeta dispone delle parole in tutt'altro
modo di come lo richiedano l'uso e il bisogno. Sono senz'altro
le stesse parole, ma assolutamente non gli stessi valori.
È proprio il non-uso, il non dire «che piove» ad essere affar
suo; e tutto ciò che afferma, che dimostra che egli non parla in
prosa, gli va bene. La rima, l'inversione, le figure retoriche, le
simmetrie e le immagini, creazioni o convenzioni che siano,
sono altrettanti strumenti per opporsi all'indole prosaica del
lettore (come le «regole» famose dell'arte poetica hanno per

122
effetto di richiamare continuamente al poeta l'universo com-
plesso di quest'arte). L'impossibilità di ridurre a prosa la sua
opera, l'impossibilità di dirla, o di comprenderla in quanto
prosa, sono condizioni assolute di esistenza, al di fuori delle
quali quest'opera non ha poeticamente alcun senso.

Dopo tante proposizioni negative, dovrei ora entrare nel


positivo del soggetto; ma mi sembrerebbe poco opportuno far
precedere ad una raccolta di poesie in cui appaiono le
tendenze e i modi di esecuzione più diversi, una esposizione di
idee del tutto personali malgrado i miei sforzi per sviluppare
ed esporre solo osservazioni e ragionamenti che tutti possono
rifare. Niente di più difficile che non essere se stessi o non
esserlo fino in fondo.

(1935)

Note
I Ecco quale mi sembra la legge rigorosa, ma giusta, che il nostro secolo impone
ai poeti: esso ora riconosce buono in versi soltanto ciò che troverebbe eccellente in
prosa. (N.d.T.)

123
Prima lezione
del corso di poetica

Signor Ministro, Signor Amministratore, Signore, Signori,


provo una sensazione un po' strana e molto commovente
sedendomi a questa cattedra e intraprendendo una nuova
carriera all'età in cui tutto c'invita ad abbandonare l'azione e
a desistere da ogni iniziativa.
Vi ringrazio, Egregi Professori, dell'onore che mi avete
concesso accogliendomi tra voi e della fiducia accordata sia
alla proposta di istituire un insegnamento che si chiamasse
Poetica, sia a chi ve la sottoponeva.
Potete aver pensato che certe materie, pur non essendo né
potendo propriamente essere oggetto di scienza per la loro
natura prevalentemente interiore e la loro stretta dipendenza
dalle persone che le coltivano, si potessero tuttavia, se non
proprio insegnare, almeno in qualche modo comunicare come
frutto dell'esperienza individuale di un'intera vita e che
perciò, in questo caso particolare, l'età fosse una condizione
giustificabile.
Allo stesso modo esprimo la mia gratitudine nei riguardi dei
colleghi dell' Académie française che si sono cortesemente
uniti a voi per presentare la mia candidatura.
Ringrazio infine il Ministro dell'Educazione nazionale per

125
aver accettato la trasformazione di questa cattedra e per aver
proposto al Presidente della Repubblica il mio decreto di
nomina.

Egregi Signori, non potrei nemmeno intraprendere la spie-


gazione del mio compito, senza aver prima espresso i miei
sentimenti di riconoscenza, rispetto e ammirazione nei con-
fronti del mio illustre amico Joseph Bédier. Non è certo in
questa sede che occorre ricordare la gloria e i grandi meriti
dello studioso e dello scrittore, onore delle Lettere francesi, né
menzionare la sua dolce e persuasiva autorità di amministra-
tore. Ma non posso tacere, Egregi Professori, che fu lui,
d'accordo con alcuni di voi, ad avere l'idea che vediamo oggi
realizzarsi. Egli mi ha reso sensibile al fascino del vostro
Centro, che stava per lasciare, ed è stato lui a persuadermi che
avrei potuto occupare questo posto, a cui io mai avrei
pensato. Infine è da un nostro colloquio, dal nostro scambio di
interrogativi e di riflessioni, che è scaturito il nome di questa
cattedra.

Il mio primo compito dev'essere quello di spiegare il nome


«Poetica», che ho restituito al suo significato originale, di-
verso da quello d'uso comune. Mi è venuto in mente, e mi è
sembrato l'unico adatto a designare il genere di studio che mi
propongo di svolgere in questo corso.
S'intende comunemente con questo termine ogni trattato o
raccolta di regole, di convenzioni o di precetti concernenti la
composizione dei poemi lirici e drammatici oppure la costru-
zione dei versi. Ma si può ritenere che in questa accezione sia
abbastanza invecchiato, insieme con la cosa che designa, per
dargli un diverso impiego.
Tutte le arti ammettevano un tempo di sottostare, ciascuna
secondo la propria natura, a certe forme o modi obbligati,
imposti a tutte le opere dello stesso genere, che si potevano e
dovevano apprendere, come si fa per la sintassi di una lingua.
Non si ammetteva che gli effetti prodotti da un'opera, per
quanto possenti o felici, fossero garanzie sufficienti a giustifi-

126
care l'opera stessa e ad assicurarle un valore universale. Il
fatto non comportava il diritto. Si era ben presto riconosciuto
che in ogni arte vi erano tecniche da raccomandare, prescri-
zioni e restrizioni .favorevoli a una migliore riuscita del
progetto dell'artista, e che questi aveva tutto l'interesse a
conoscerle e rispettarle.
Ma, a poco a poco, grazie all'autorità di uomini illustri, si è
introdotta l'idea di una specie di legalità, che si è sostituita
alle iniziali raccomandazioni di natura empirica. Si ragionò e
fu creato il rigore della regola. La si espresse in formule
precise: la critica se ne armò. La conseguenza che ne derivò fu
paradossale: una disciplina delle arti, che opponeva agli
impulsi dell'artista difficoltà ragionate, conobbe un favore
ampio e duraturo perché facilitava notevolmente il giudizio e
la classificazione delle opere, mediante il semplice riferimento
a un codice o a un canone ben definito.
Per coloro che intendevano produrre risultava da quelle
regole formali un'altra facilitazione. Condizioni estrema-
mente limitative e severe dispensano l'artista da un gran
numero di decisioni fra le più delicate_e lo sòllevano da molte
responsabilità in questioni di forma mentre, al tempo stesso,
possono suggerirgli invenzioni alle quali una libertà totale
non l'avrebbe mai condotto.
Ma, che lo si deplori o se ne gioisca, è finita da tempo nelle
arti l'era dell'autorità, e la parola «Poetica» oggi non evoca
altro che l'idea di prescrizioni fastidiose e sorpassate. Ho
dunque creduto di poterla riprendere in un senso che rimanda
all'etimologia, senza peraltro osare pronunciarla Poietica,
termine usato in fisiologia quando si parla di funzione emato-
poietiche e galattopoietiche. Ma è, in fondo, proprio la
semplicissima nozione di fare che volevo esprimere. Il fare, il
poiein, di cui intendo occuparmi, è quello che si conclude in
un'opera, e che limiterò ora a quel genere di opere dette
solitamente opere dell'intelletto, cioè quelle che la mente
vuole produrre per suo proprio uso, utilizzando allo scopo
tutti i mezzi fisici che le possono servire.
Ogni opera può, allo stesso modo dell'atto semplice di cui

127
parlavo, indurci o meno a meditare sulla sua creazione e
suscitare o no un atteggiamento interrogativo più o meno
pronunciato, più o meno esigente, che la _costituisca come
problema.
Un tale studio di per sé non si impone. Possiamo giudicarlo
vano, possiamo anche stimare chimerica questa pretesa. Ma
c'è di più: alcune menti troveranno questa ricerca non solo
inutile ma perfino dannosa; e forse si sentiranno anche in
obbligo di giudicarla tale. Si pensa per esempio che un poeta
possa giustamente temere di alterare le sue doti originali e la
sua capacità immediata di produrre, qualora ne facesse
l'analisi. Egli istintivamente si rifiuta sia di approfondirle se
non con l'esercizio della sua arte, sia di rendersene più
interamente padrone mediante la ragione dimostrativa. Il
nostro atto più semplice, il nostro gesto più familiare non
potrebbe compiersi e il più piccolo dei nostri poteri ci sarebbe
d'ostacolo se dovessimo richiamarlo alla mente e conoscerlo a
fondo per esercitarlo.
Achille non può vincere la tartaruga se pensa allo spazio e al
tempo.
Può tuttavia accadere che si provi un interesse così vivo per
questa curiosità, che si attribuisca un'importanza così premi-
nente al fatto di soddisfarla, da essere indotti a considerare
con maggior favore e perfino con maggior passione, l'azione
che fa, piuttosto che la cosa fatta.
È a questo punto, Egregi Signori, che il mio compito deve
necessariamente differenziarsi da quello che svolge da un lato
la Storia della Letteratura, e dall'altro la Critica dei testi e
delle opere.
La Storia della Letteratura indaga le circostanze concrete
in cui le opere furono composte, si manifestarono e produssero
i loro effetti. Ci dà notizie sugli autori, sulle vicissitudini della
loro vita e della loro opera, in quanto cose visibili che hanno
lasciato delle tracce che è possibile rilevare, coordinare,
interpretare. Essa raccoglie le tradizioni e i documenti.
Non ho certo bisogno di ricordarvi l'erudizione e l'origina-
lità di vedute con cui questo insegnamento fu impartito

128
proprio qui dal vostro eminente collega Abel Lefranc. Ma la
conoscenza degli autori e della loro epoca, lo studio della
successione dei fenomeni letterari ci spinge necessariamente a
interrogarci su ciò che è potuto accadere nell'intimo di quei
personaggi che hanno a buon diritto ottenuto di pervenire ai
fasti della Storia Letteraria. Se l'hanno ottenuto, è stato grazie
al concorso di due condizioni che è sempre possibile conside-
rare come indipendenti: la prima è necessariamente la produ-
zione dell'opera; l'altra è la produzione di un certo valore
dell'opera, da parte di coloro che hanno conosciuto, apprez-
zato l'opera prodotta, che ne hanno imposto la fama e assicu-
rato la trasmissione, la conservazione, l'esistenza ulteriore.
Ho appena pronunciato le parole «valore» e «produ-
zione». Mi ci soffermo un istante.
Se si vuole esplorare il campo dell'intelletto creatore, non
bisogna temere di attenersi, inizialmente, alle considerazioni
di carattere più generale che ci permetteranno poi di avan-
zare senza dover essere costretti a ritornare troppo sui nostri
passi. Esse ci forniranno anche il maggior numero di analo-
gie, cioè il maggior numero possibile di espressioni che ten-
dono sempre più a precisare fatti e idee che, a causa della loro
stessa natura, sfuggono molto spesso a ogni tentativo di defi-
nizione diretta. Ecco perché faccio notare questo prestito di
alcuni termini dall'economia: mi sarà forse comodo riunire
sotto il nome di produzione e di produttore le varie attività e
figure di cui dovremo occuparci, se vorremo parlare di ciò
che hanno in comune senza far distinzioni tra le loro diverse
nature. E non meno comodo sarà, prima di specificare se si
parla di lettore, di ascoltatore o di spettatore, riunire tutte
queste figure subalterne sotto il termine economico di consu-
matore.
Per quanto riguarda la nozione di valore, è noto che essa
svolge nell'universo dell'intelletto un ruolo di prim'ordine,
paragonabile a quello che svolge nel mondo economico, seb-
bene il valore spirituale sia molto più sottile, essendo legato a
necessità infinitamente più varie e non quantificabili come
quelle dell'esistenza fisiologica. Se ancor oggi noi conosciamo

129
l'Iliade e se l'oro, dopo tanti secoli, è rimasto qualcosa di più 0
meno semplice ma abbastanza notevole e generalmente vene-
rato, ciò è dovuto al fatto che la rarità, l'inimitabilità e
alcune altre caratteristiche distinguono l'oro e l'Iliade, ren-
dendoli degli oggetti privilegiati, delle unità di valore.
Senza voler insistere sul paragone economico, è tuttavia
evidente che i concetti di lavoro, di creazione, e di accumulo
di ricchezza, di domanda e di offerta si applicano molto
naturalmente al campo che ci interessa.
Sia per la loro somiglianza che per le loro diverse applica-
zioni, questi concetti espressi con termini identici ci ricordano
come, in due ordini di fatti apparentemente molto distanti gli
uni dagli altri, si pongano i problemi della relazione tra le
persone e il loro ambiente sociale. Del resto, così come esiste
un'analogia economica, e per gli stessi motivi, esiste pure
un'analogia politica tra i fenomeni della vita intellettuale
organizzata e quelli della vita pubblica. Vi è tutta una
politica del potere intellettuale, una politica interna (molto
interna, s'intende) e una politica estera; questa è di compe-
tenza della Storia letteraria di cui, fra l'altro, dovrebbe
costituire uno degli oggetti principali.
Fin dal nostro primo sguardo sull'universo della mente,
quando anche lo considerassimo come un sistema perfetta-
mente isolabile nella fase di formazione delle opere, le nozioni
di politica e di economia così generalizzate si impongono e
appaiono profondamente insite nella maggior parte di quelle
creazioni, e sempre presenti in prossimità di quegli atti.
Al fondo stesso del pensiero dello studioso o dell'artista tutto
assorto nella sua ricerca, e in apparenza completamente
isolato nella sua sfera, a tu per tu con ciò che vi è di più
profondamente sé e di più impersonale, esiste un indefinibile
presentimento delle reazioni esterne che provocherà l'opera in
via di formazione: l'uomo è difficilmente solo.
Questa azione di presenza dev'essere sempre presupposta,
senza timore di sbagliare; ma essa si combina così sottilmente
con gli altri fattori dell'opera, si maschera a volte talmente
bene che risulta quasi impossibile isolarla.

130
Sappiamo tuttavia che il vero senso di una certa scelta o di
un certo sforzo di un creatore si trova spesso al di fuori della
creazione stessa, e risulta da una preoccupazione più 0 meno
cosciente dell'effetto che verrà prodotto e delle sue conse-
guenze per il produttore. Così, durante il suo lavoro, l'intel-
letto passa incessantemente dal Medesimo all'Altro; e modi-
fica ciò che produce il suo essere più interiore, secondo quella
particolare sensazione del giudizio di terzi. E dunque, nelle
nostre riflessioni su un'opera, possiamo assumere l'uno o
l'altro di questi due atteggiamenti che si escludono a vicenda.
Se intendiamo procedere col massimo rigore possibile in tale
materia, dobbiamo imporci di separare accuratamente la
nostra ricerca sulla genesi di un'opera, dal nostro studio sulla
produzione del suo valore, cioè degli effetti che può generare
in luoghi, menti ed epoche diverse.
Per dimostrarlo basta notare che, in ogni campo, possiamo
realmente sapere o credere di sapere soltanto ciò che possiamo
osservare o fare noi stessi, e che non si può riunire in un
medesimo stato e in una medesima attenzione, l'osservazione
della mente che produce l'opera e l'osservazione della mente
che produce un qualche valore di quest'opera. Non esiste
sguardo capace di osservare contemporaneamente queste due
funzioni; produttore e consumatore sono due sistemi essen-
zialmente separati. L'opera è per il primo il termine, per
l'altro l'origine di sviluppi che possono essere completamente
estranei l'uno all'altro.
Bisogna perciò concludere che qualsiasi giudizio che
esprima una relazione a tre termini fra il produttore, l'opera e
il consumatore - e siffatti giudizi non sono rari nella cri-
tica - è un giudizio illusorio che non può avere alcun senso e
che si deteriora non appena diventa oggetto di riflessione. Noi
non possiamo che osservare la relazione dell'opera con il suo
produttore, oppure la relazione dell'opera con colui che essa
modifica quando è ormai realizzata. L'azione del primo e la
reazione del secondo non possono mai confondersi. Le opi-
nioni che l'uno e l'altro si fanno dell'opera sono incompatibili.
Ne risultano frequenti sorprese, alcune delle quali vantag-

131
giose. Vi sono dei malintesi creativi; ed esiste una quantità di
effetti- tra i più efficaci -che esigono l'assenza di qualsiasi
relazione diretta fra le due attività interessate. Una certa
opera, per esempio, è frutto di meticolose cure e riassume
infiniti tentativi, riprese, scarti e scelte. Ha richiesto mesi,
forse anni di riflessione e può anche implicare le esperienze e
le acquisizioni di un'intera vita. Ebbene, l'effetto di quest'o-
pera si manifesterà in alcuni istanti. Sarà sufficiente un'oc-
chiata per apprezzare un imponente monumento e rimanerne
impressionati. In due ore tutti i calcoli del poeta tragico, tutta
la fatica spesa per strutturare il suo testo e formarne i versi
uno ad uno; tutte le combinazioni armoniche e orchestrali che
il compositore ha costruito; o tutte le meditazioni del filosofo
e gli anni in cui ha rinviato, conservato i suoi pensieri
nell'attesa di scorgerne e accettarne la disposizione definitiva,
tutti questi atti di fede, tutte queste scelte, tutte queste
transazioni mentali giungono infine, sotto forma di opera
compiuta, a colpire, sorprendere, meravigliare e sconcertare
la mente dell'Altro, bruscamente sottoposto allo stimolo di
questa enorme mole di lavoro intellettuale. Vi è in tutto ciò
un'azione di dismisura.
Si potrebbe paragonare tale effetto (molto sommaria-
mente, si intende) a quello prodotto dalla caduta, in pochi
secondi, di una massa sollevata frammento per frammento in
cima ad una torre, senza preoccuparsi né del tempo, né del
numero di viaggi.
Si ottiene in questo modo l'impressione di una forza sovru-
mana. Ma, come si sa, tale effetto non sempre si produce; può
succedere, all'interno di questa meccanica intellettuale, che
la torre sia troppo alta, la massa troppo grande, e che si
riscontri perciò un risultato nullo o negativo.
Supponiamo invece che si verifichi il grande effetto. Le
persone che l'hanno subito e sono state come sopraffatte dalla
potenza, la perfezione, la quantità di scelte felici, le piacevoli
sorprese accumulate, non possono né devono immaginarsi
tutto il lavoro interno, le possibilità vagliate, le prolungate
ricerche di elementi favorevoli, i ragionamenti sottili le cui

132
conclusioni assumono l'apparenza di rivelazioni; in breve, la
quantità di vita interiore che fu trattata dal chimico dell'intel-
letto produttore o scelta nel caos mentale da un demone alla
Maxwell; e queste persone saranno dunque indotte ad imma-
ginare un essere dagli immensi poteri, capace di creare tali
prodigi senz' altro sforzo che quello necessario per creare una
qualsiasi cosa.
Ciò che l'opera allora produce in noi è incommensurabile
con le nostre facoltà di produzione istantanea. Del resto, certi
elementi dell'opera, sorti nell'autore per qualche caso fortu-
nato, verranno attribuiti ad una singolare virtù della sua
mente. Il consumatore diviene così a sua volta produttore:
anzitutto, del valore dell'opera; poi, in virtù di un'immediata
applicazione del principio di causalità (che in fondo è solo
un'espressione ingenua di uno dei modi di produzione men-
tale) diviene produttore del valore di quell'essere immaginario
che ha creato ciò che egli ammira.
Forse, se i grandi uomini fossero coscienti quanto grandi,
nessun grande uomo sarebbe tale per se stesso.
Così, ed è qui che volevo giungere, quest'esempio, benché
molto particolare, ci fa capire che l'indipendenza o l'igno-
ranza reciproca dei pensieri e delle condizioni del produttore e
del consumatore è quasi essenziale per l'effetto delle opere. Il
segreto e la sorpresa che gli strateghi raccomandano spesso nei
loro scritti sono qui senz'altro assicurati.
In sintesi, quando parliamo di opere dell'intelletto, inten-
diamo o il termine di una certa attività oppure l'origine di
un'altra attività e questo crea due ordini di modificazioni in-
comunicabili, ognuno dei quali ci richiede un adattamento
speciale, incompatibile con l'altro.

Rimane l'opera in sé, in quanto cosa sensibile. Ecco una


terza considerazione, ben diversa dalle altre due.
Noi guardiamo allora un'opera come un oggetto, solo og-
getto, vale a dire senza mettervi nulla di nostro al di fuori di
ciò che si può applicare indistintamente a tutti gli oggetti:
atteggiamento questo, caratterizzato dall'assenza di qualsiasi
produzione di valore.

133
Che possiamo fare di questo oggetto che non ha ora alcun
potere su di noi? Ma noi ne abbiamo su di lui. Possiamo misu-
rarlo in base alle sue caratteristiche spaziali o temporali, con-
tare le parole di un testo o le sillabe di un verso; constatare che
un certo libro è apparso in una tal epoca; che una composi-
zione di un quadro è il calco di un'altra; che esiste in Lamar-
tine un emistichio presente anche in Thomas, e che una certa
pagina di Victor Hugo appartiene, dal 1645, a uno scono-
sciuto Père François. Possiamo rilevare come un certo ragio-
namento sia un paralogismo, un sonetto sia difettoso, il dise-
gno di un braccio una sfida all'anatomia e un certo impiego di
termini, insolito. Tutto ciò è il risultato di processi riconduci-
bili ad operazioni puramente materiali, poiché si riducono a
sovrapposizioni dell'opera o di suoi frammenti a un modello.
Trattando così le opere dell'intelletto non le distinguiamo
da tutte le possibili opere. Le poniamo e le manteniamo al
rango di cose, imponendo loro un'esistenza definibile. Ed ecco
il punto che bisogna ricordare:
Tutto ciò che possiamo definire si distingue immediata-
mente dall'intelletto produttore e gli si oppone. L'intelletto ne
fa, allo stesso tempo, una materia sulla quale operare o uno
strumento con il quale operare.
Esso pone dunque al di fuori della sua portata ciò che ha
ben definito dimostrando, in tal modo, di conoscersi e di fare
affidamento solo su ciò che è diverso da lui.

Le distinzioni appena proposte nella nozione di opera, da


cui risulta suddivisa, non per amor di sottigliezza ma con il
semplice riferimento a osservazioni immediate, tendono a
porre in evidenza l'ideale di cui mi servirò per analizzare la
produzione delle opere dell'intelletto.
Si può riassumere quanto detto finora in queste poche
parole: l'opera dell'intelletto non esiste che in atto, al di fuori
del quale resta solo un oggetto che con la mente non ha alcuna
relazione particolare. Trasportate la statua che più ammirate
presso una popolazione abbastanza diversa dalla nostra: sarà
soltanto una pietra insignificante. Un Partenone non sarà che
una piccola cava di marmo. Il testo poetico cessa immediata-

134
mente di essere un'opera dell'intelletto se utilizzato come
raccolta di difficoltà grammaticali o di esempi, poiché l'uso
che se ne fa è totalmente estraneo alle condizioni della sua
nascita e gli viene d'altro canto negato quel valore di consumo
che gli dà un senso.
Una poesia sulla carta è solo uno scritto, sottoposto a tutto
ciò che di uno scritto si può fare. Ma fra tutte le sue possibilità
ve n'è una, e una soltanto, che pone infine il testo nelle
condizioni da cui trarrà forza e forma d'azione. Una poesia è
un discorso che esige e implica un legame continuato fra la
voce che è e la voce che viene e deve venire. E questa voce
deve essere tale da imporsi e da suscitare lo stato affettivo di
cui il testo sia l'unica espressione verbale. Togliete la voce, la
voce che ci vuole, tutto diventa arbitrario. La poesia si
trasforma in una serie di segni, legati tra loro solo per il fatto
di essere materialmente tracciati gli uni dopo gli altri.
Per questi motivi, non cesserò di condannare l'odiosa pra-
tica che consiste nell'abusare delle opere migliori al fine di
creare e sviluppare il sentimento della poesia fra i giovani; nel
trattare le poesie come cose e ritagliarle come se la composi-
zione non contasse affatto, nell'ammettere, se non nell'esigere
che siano recitate nel modo che sappiamo, usate come prove
di memoria e di ortografia; in breve, nel fare astrazione
dall'essenziale di quelle opere, da ciò che le fa essere ciò che
sono, e non altro, e conferisce loro virtù e necessità proprie.
L'esecuzione della poesia è la poesia stessa. Al di fuori ciò,
quelle sequenze di parole curiosamente riunite sono costru-
zioni inesplicabili.
Le opere dell'intelletto, poesia o altro, si riferiscono sol-
tanto a ciò che fa nascere ciò che le fece nascere, e assoluta-
mente a nient'altro. Possono certo manifestarsi divergenze fra
le interpretazioni poetiche di una poesia, fra le impressioni e i
significati o piuttosto fra le risonanze che l'opera provoca
nell'uno o nell'altro. Ma ecco che, se vi riflettiamo, questa
osservazione banale assume un ruolo di primaria importanza:
la diversità possibile degli effetti legittimi di un'opera è il
marchio stesso della mente. D'altronde, essa corrisponde alla

135
pluralità delle vie che si sono offerte all'autore durante il suo
lavoro di produzione. Ciò è dovuto al fatto che ogni atto della
mente è sempre come accompagnato da un'atmosfera d'inde-
terminazione più o meno sensibile.
Mi scuso per questa espressione. Non ne trovo una mi-
gliore.
Poniamoci nello stato in cui ci trasporta un'opera, una di
quelle che ci costringono a desiderarle tanto più, quanto più
le possediamo, o ne siamo posseduti. Ci troviamo allora com-
battuti fra sentimenti nascenti, la cui alternanza e il cui
contrasto sono davvero notevoli. Da un lato sentiamo che
l'opera che agisce su di noi ci è così confacente, da non poterla
concepire diversa. Anche in certi casi di supremo appaga-
mento, sentiamo di trasformarci profondamente per acqui-
sire una sensibilità capace di una simile pienezza di diletto e
di comprensione immediata. Ma sentiamo non meno forte-
mente, e come per mezzo di un sesto senso, che il fenomeno
che provoca e sviluppa in noi questo stato, che ce ne infligge
la potenza, avrebbe potuto non essere, avrebbe persino do-
vuto non essere, e si colloca nell'improbabile.
Mentre il nostro piacere o la nostra gioia è forte, forte come
un fatto, l'esistenza e la formazione del mezzo, cioè dell'opera
che genera la nostra sensazione, ci sembrano accidentali.
Questa esistenza ci appare come l'effetto di un caso straordi-
nario, di un sontuoso dono della fortuna, ed è in ciò (non
dimentichiamo di notarlo) che si scopre un'analogia partico-
lare fra questo effetto di un'opera d'arte e quello di certi
aspetti della natura: irregolarità geologica, o combinazioni
passeggere di luce e vapore nel cielo della sera.
Talvolta non possiamo immaginare che un uomo come noi
sia l'autore di un dono così straordinario, e la gloria che gli
tributiamo è r espressione della nostra impotenza.
Ma comunque si svolgano nel produttore questi giochi o
questi drammi, tutto deve compiersi nell'opera visibile, e
trovare proprio grazie a questo fatto una determinazione
finale assoluta. Questo è il risultato di una serie di modifica-
zioni interiori che, per quanto disordinate, devono necessaria-

136
mente risolversi, nel momento in cui la mano agisce, in un
comando unico, più o meno felice. Ora, questa mano,
quest'azione esteriore, risolve necessariamente, in bene o in
male, lo stato di indeterminazione di cui parlavo. La mente
che produce sembra d'altronde cercare di imprimere alla sua
opera dei caratteri completamente opposti ai suoi propri.
Sembra sfuggire in un'opera l'instabilità, l'incoerenza, l'in-
congruenza che riconosce in sé e che costituiscono il suo stato
più frequente. E dunque, agisce contro gli interventi, in ogni
senso e di ogni sorta, che deve continuamente subire. Essa
riassorbe la varietà infinita degli accidenti; respinge le sostitu-
zioni casuali di immagini, di sensazioni, di impulsi e di idee
che attraversano le altre idee. Lotta contro ciò che è costretta
ad ammettere, a produrre o a emettere; e insomma, contro la
sua natura e la sua attività accidentale e istantanea.
Durante la meditazione, la mente stessa gira intorno al
proprio punto di riferimento. Tutto le serve per distrarsi. San
Bernardo osserva: (( Odoratus impedit cogitationem >>. Perfino
nella testa più solida la contraddizione è regola; la consequen-
zialità rigorosa è l'eccezione. E questo stesso rigore è un
artificio da logico che consiste, come tutti gli artifici che la
mente inventa contro se stessa, nel materializzare gli elementi
del pensiero, che egli chiama «concetti», sotto forma di
insiemi o di domini accordando a questi oggetti intellettuali
una durata indipendente dalle vicissitudini della mente,
poiché la logica, dopo tutto, non è che una speculazione sulla
permanenza delle osservazioni.
Ma ecco una circostanza davvero sorprendente: questa
dispersione, sempre imminente, è importante per la produ-
zione dell'opera e vi concorre quasi quanto la concentrazione
stessa. La mente all'opera, in lotta contro la mobilità, l'in-
quietudine costituzionale e la varietà che le sono proprie,
contro la dissipazione e la naturale degradazione di ogni
capacità specializzata, trova, d'altra parte, in questa stessa
condizione, delle incomparabili risorse. L'instabilità, l'incoe-
renza, la non consequenzialità di cui parlavo, che ostacolano
e limitano la mente nella sua impresa di costruzione o di

137
composizione rigorosa, sono d'altra parte tesori di possibilità,
dei quali essa intravvede la ricchezza solo all'approssimarsi!
del momento in cui si consulta. Sono riserve dalle quali può
aspettarsi di tutto, delle ragioni per sperare che la soluzione, il
segnale, l'immagine, la parola mancante le siano più vicini di
quanto non veda. La mente può sempre presentire nella sua
penombra la verità o la decisione cercata che, come essa sa, è
alla mercè di un nonnulla, di questo stesso disturbo insignifi-
cante che sembrava distrarla e allontanarla indefinitamente.
Talvolta, ciò che desideriamo veder apparire nel nostro
pensiero (anche un semplice ricordo) è per noi come un
oggetto prezioso da poter tenere e toccare solo attraverso una
stoffa che lo avvolge e lo nasconde ai nostri occhi. È e non è
nostro, e il minimo incidente lo svela. Talvolta invochiamo
ciò che dovrebbe essere, avendolo definito in base a precise
condizioni. Lo ricerchiamo, immobili davanti a un vago
insieme di elementi, a noi ugualmente prossimi e dei quali
nessuno accenna a staccarsi per venire incontro alla nostra
esigenza. Imploriamo dalla nostra mente una manifestazione
di ineguaglianza. Poniamo davanti a noi stessi il nostro
desiderio, come si oppone una calamita al disordine di una
polvere composita, dalla quale un corpuscolo di ferro si
separerà improvvisamente. Sembra che ci siano, nell'ambito
dei fatti mentali, relazioni misteriosissime fra il desiderio e
l'avvenimento. Non voglio dire che il desiderio dell'intelletto
crei una specie di campo, molto più complesso di un campo
magnetico e che abbia il potere di attrarre quello che ci
conviene. Questa immagine non è che un modo per esprimere
un fatto osservabile, sul quale tornerò più avanti. Ma per
quanto grandi siano la chiarezza, l'evidenza, la forza, la
bellezza dell'avvenimento spirituale che pone fine alla nostra
attesa, che conclude il nostro pensiero o elimina il nostro
dubbio, nulla è ancora irrevocabile. Qui, l'istante successivo
ha potere assoluto sul prodotto dell'istante precedente. Poiché
la mente, ridotta alla sua sola sostanza, non può disporre del
finito, né vincolarsi in alcun modo.
Quando affermiamo che il nostro parere su un certo punto è

138
definitivo, lo diciamo per renderlo tale: ricorriamo agli altri.
Il suono della nostra voce ci rassicura molto più del fermo
proposito interiore che essa a parole pretende che noi conce-
piamo. Quando riteniamo di aver concluso qualche pensiero,
non ci sentiamo mai sicuri di poterlo riprendere senza com-
pletare o distruggere ciò che abbiamo fissato. Ed è per questo
che la vita dell'intelletto fa violenza a se stessa non appena si
applica ad un'opera. Qualsiasi opera esige delle azioni volon-
tarie (per quanto essa comporti sempre un gran numero di
elementi all'interno dei quali ciò che chiamiamo volontà non
ha nessuna funzione). Ma la nostra volontà, il nostro potere
che si esprime quando tenta di rivolgersi al nostro stesso
intelletto e di farsi obbedire da lui, si riducono sempre a una
semplice battuta d'arresto, al mantenimento oppure al rinno-
vamento di alcune condizioni.
Infatti, possiamo agire direttamente solo sulla libertà del
sistema del nostro intelletto. Possiamo abbassare il livello di
questa libertà, ma per il resto, intendo dire per le sostituzioni
e i cambiamenti che questa costrizione ancora permette,
aspettiamo semplicemente che quanto desideriamo si pro-
duca, poiché non possiamo far altro che attendere. Non
abbiamo alcun mezzo per raggiungere esattamente in noi
quello che ci auguriamo di ottenere.
In effetti questa esattezza, questo risultato sperato e il
nostro desiderio sono formati dalla stessa so~tanza mentale e
forse si ostacolano l'un l'altro con la loro attività simultanea.
È noto come accada abbastanza di frequente che la soluzione
desiderata giunga a noi dopo un periodo di disinteresse per il
problema, quasi come ricompensa della libertà resa al nostro
intelletto.
Quanto ho appena detto si applica più esattamente al
produttore, ma vale anche per il consumatore dell'opera. In
quest'ultimo, la produzione di valore ovvero, per esempio, la
comprensione, l'interesse suscitato, lo sforzo compiuto per
possedere più pienamente l'opera, potrebbe dar luogo ad
osservazioni analoghe.

139
Sia che io mi vincoli alla pagina che devo scrivere o a quella
che voglio ascoltare, entro comunque in una fase di minore
libertà. Ma in entrambi i casi questa restrizione può presen-
tarsi sotto due aspetti completamente opposti. Talvolta il mio
compito stesso m'incita a ricercarla e, lungi dal sentirla come
un peso, come uno scarto dal corso ·più naturale della mia
mente, mi abbandono ad essa, e avanzo con un tale vigore
lungo la via tracciata dal mio progetto che la sensazione di
fatica ne viene diminuita, fino al momento in cui essa d'un
tratto obnubila realmente il pensiero, e ingarbuglia il gioco
delle idee per ricostituire il disordine degli scambi normali di
breve respiro, lo stato d'indifferenza dispersiva e riposante.
Ma talvolta la costrizione è in primo piano, il manteni-
mento della direzione è sempre più arduo, il lavoro diventa
più sensibile del suo effetto, il mezzo si oppone al fine, e la
tensione della mente dev'essere alimentata per mezzo di
risorse sempre più precarie ed estranee all'oggetto ideale di
cui bisogna mantenere viva la potenza e l'azione, a costo di
una fatica che diviene presto insopportabile. Vi è qui un forte
contrasto tra due applicazioni della nostra mente. Mi servirà a
dimostrarvi che la precauzione da me presa nel sottolineare la
necessità di considerare le opere solo nell'atto di produzione o
in quello di consumo, era perfettamente conforme a ciò che si
può osservare; e, d'altra parte, ci fornisce al tempo stesso la
possibilità di introdurre una distinzione molto importante fra
le opere dell'intelletto.
Tra queste opere, la consuetudine crea una categoria detta
delle opere d'arte. Non è molto semplice precisare questo
termine, ammesso che si debba precisarlo. Anzitutto non vedo
nulla, nella produzione delle opere, che mi costringa vera-
mente a creare una_ categoria dell'opera d'arte. Un po' ovun-
que, nelle menti, trovo attenzione, brancolamenti, luce inat-
tesa e notti oscure, improvvisazioni e tentativi, o riprese molto
insistenti. In tutti i focolari mentali vi sono fuoco e ceneri;
prudenza e imprudenza; il metodo e il suo contrario; il caso
sotto mille forme. Artisti, scienziati, tutti s'identificano nei
particolari di questa strana vita del pensiero. Si può dire che

140
ad ogni istante la differenza funzionale fra le menti al lavoro è
indistinguibile. Ma se si volge l'attenzione agli effetti delle
opere compiute, si scopre in alcune una particolarità che le
raggruppa e le oppone a tutte le altre. Una data opera che
abbiamo prescelto si divide in parti complete, ciascuna delle
quali ha in sé di che creare un desiderio e di che soddisfarlo.
L'opera ci offre, in ognuna delle sue porzioni, l'alimento e lo
stimolo al tempo stesso. Risveglia continuamente in noi la sete
e la sorgente. In cambio della parte di libertà che le cediamo,
ci dà l'amore della prigionia che essa c'impone e il sentimento
di una specie deliziosa di conoscenza immediata; e fa tutto
questo utilizzando, con nostro immenso piacere, la nostra
energia che essa richiama a sé in modo talmente conforme al
rendimento più favorevole delle nostre risorse organiche, da
rendere inebriante la sensazione stessa dello sforzo, e da farci
sentire possessori pur essendo magnificamente posseduti.
Dunque più diamo e più vogliamo dare, credendo invece di
ricevere. Ci anima l'illusione di agire, di esprimere, di
scoprire, di capire, di risolvere, di vincere.
Questi effetti, che raggiungono talvolta livelli prodigiosi so-
no istantanei, come tutto ciò che ha potere sulla sensibilità; essi
attaccano per la via più breve i punti strategici che comandano
la nostra vita affettiva, costringono per il suo tramite la nostra
disponibilità intellettuale, accelerano, sospendono, o anche
regolarizzano i diversi meccanismi, il cui accordo o disaccordo
ci dà infine tutte le modulazioni della sensazione di vivere,
dalla calma più piatta fino alla tempesta.
Il solo timbro del violoncello domina molte persone in
modo viscerale. In un autore la frequenza di alcune parole ci
rivela come esse siano per lui dotate, diversamente da quanto
lo sono in generale, di risonanza e, quindi, di forza positiva-
mente creatrice. È questo un esempio di quelle valutazioni
personali, di quei grandi valori-per-uno-solo, che svolgono
certamente uno splendido ruolo in una produzione mentale,
in cui la singolarità è un elemento di primaria importanza.

Queste considerazioni ci serviranno per chiarire in parte il

141
costituirsi della poesia, che è piuttosto misterioso. È strano
come ci s'ingegni a comporre un discorso che deve osservare
delle condizioni simultanee estremamente disparate: mUSi-
cali, razionali, significative, suggestive che esigono un legame
continuamente mantenuto tra un ritmo e una sintassi, tra il
suono e il senso.
Non vi sono relazioni concepibili fra queste parti. Dob-
biamo crearci l'illusione della loro intimità profonda. A che
serve tutto ciò? L'osservanza dei ritmi, delle rime, della
melodia verbale ostacola i movimenti diretti del mio pensiero,
ed ecco che non posso più dire ciò che voglio ... Ma cosa voglio
dunque? Questo è il problema.
Si conclude che è qui necessario voler quello che si deve
volere, affinché il pensiero, il linguaggio con le sue conven-
zioni tratte dalla vita esteriore, il ritmo e gli accenti della
voce, che appartengono invece direttamente all'essere, si
accordino; tale accordo esige sacrifici reciproci, dei quali il
più notevole è quello che il pensiero deve accettare.
Spiegherò un giorno come questa alterazione si riscontri nel
linguaggio dei poeti, e come esista un linguaggio poetico in
cui le parole non sono più quelle dell'uso pratico e libero. Esse
non si associano più in base alle stesse attrazioni; sono
connotate da due valori assunti simultaneamente e di uguale
importanza: il loro suono e il loro effetto psichico immediato.
Fanno allora pensare ai numeri complessi dei matematici, e
l'abbinamento della variabile fonetica con la variabile seman-
tica genera problemi di prolungamento e di convergenza, che
i poeti risolvono ad occhi chiusi, - ma li risolvono (e questo è
l'essenziale), di tanto in tanto ... Di Tanto in Tanto, ecco
l'espressione chiave! Ecco l'incertezza, la disparità dei mo-
menti e degli individui. Qui sta il fatto di capitale impor-
tanza. Sarà necessario ritornare a lungo su questo punto,
poiché tutta l'arte, poesia o altro, consiste nel difendersi dalla
discontinuità del momento.
Quel che ho appena abbozzato in questo esame sommario,
riguardante la nozione generale dell'opera, deve condurmi
infine a indicare i presupposti da cui sono partito per esplo-
rare l'immenso campo di produzione delle opere dell'intel-

142
Ietto. Ho tentato, in pochi istanti, di darvi un'idea della
complessità di questi problemi, dove si può dire che tutto
interviene contemporaneamente, e dove ciò che vi è di più
profondo nell'uomo si combina con un gran numero di fattori
esterni.
Tutto questo si riassume nella seguente formula: nella
produzione dell'opera, l'azione viene a contatto con l'indefi-
nibile.
Un'azione volontaria che, in ogni arte, è estremamente
composita e può richiedere lunghe ricerche, attenzioni fra le
più astratte, e conoscenze molto precise, giunge ad adattarsi
nell'operazione artistica a uno stato dell'essere del tutto
irriducibile in sé ad un'espressione finita, e non riferibile ad
alcun oggetto che si possa localizzare, individuare e raggiun-
gere con un sistema di atti uniformemente determinati; e
tutto ciò troverà compimento nell'opera, il cui effetto dovrà
essere tale da ricostituire in altri uno stato analogo - non
dico simile (poiché non ne sapremo mai nulla), ma analogo
allo stato iniziale del produttore.
E così da una parte l'indefinibile, dall'altra un'azione
necessariamente finita; da una parte uno stato, talvolta una
pura sensazione che produce valore e impulso, stato la cui
unica caratteristica è di non corrispondere ad alcun termine
finito della nostra esperienza; e dall'altra parte l'atto, vale a
dire la determinazione essenziale, poiché un atto è una
miracolosa fuga dal chiuso mondo del possibile e un'immis-
sione nell'universo del fatto: quest'atto, prodotto di frequente
contro l'intelletto, con tutti i suoi particolari; uscito dall'insta-
bilità, come Minerva tutta armata uscita dalla mente di
Giove, antica immagine ancora piena di significato!
Accade in effetti all'artista - ed è il caso più favorevo-
le - che sia proprio il movimento interno di produzione a
procurargli al tempo stesso e indistintamente l'impulso, il fine
esterno immediato, i mezzi o i dispositivi tecnici dell'azione.
In genere si stabilisce un regime di esecuzione, durante il
quale avviene uno scambio più o meno vivace fra le esigenze,
le conoscenze, le intenzioni, i mezzi, tutto il campo mentale e
strumentale, tutti gli elementi d'azione, di un'azione il cui

143
stimolo non risiede nel mondo dove sono situati gli scopi
dell'azione ordinaria, e non può quindi dar adito a una
previsione che determini la formula degli atti da compiere per
poterla sicuramente raggiungere.
Infine, rappresentandomi questo fatto così notevole (per
quanto assai poco notato, mi pare) cioè l'esecuzione di un atto
come compimento, esito, determinazione finale di uno stato
inesprimibile in termini finiti (vale a dire che annulla del
tutto la sensazione-causa), ho adottato la risoluzione di impo-
stare questo corso sul tipo di azione umana più generale
possibile. Ho pensato fosse necessario ad ogni costo fissare una
linea semplice, una specie di tracciato geodetico attraverso
osservazioni e idee di una materia multiforme, consapevole
che in uno studio mai, per quanto ne sappia, affrontato in
precedenza nel suo insieme, è illusorio cercare un ordine
intrinseco, uno sviluppo senza ripetizioni che permetta di
enumerare problemi secondo il progresso di una variabile,
poiché questa variabile non esiste.
Dal momento in cui l'intelletto è chiamato in causa, tutto è
in causa; tutto è disordine ed ogni reazione contro il disordine è
della sua stessa specie. Del resto questa confusione è la condi-
zione stessa della sua fecondità: ne contiene la promessa poiché
questa fecondità dipende dall'inatte-So piuttosto che dall'atte-
so, e da ciò che ignoriamo, e per il fatto stesso che l'ignoriamo,
piuttosto che da ciò che sappiamo. Ma come potrebbe essere
altrimenti? Il campo che tento di percorrere è illimitato, ma
tutto si riduce a proporzioni umane non appena ci si attenga
alla propria esperienza, alle osservazioni compiute in prima
persona, ai mezzi che si sono sperimentati. Mi sforzo di non
dimenticare mai che ciascuno è la misura delle cose.

(1937)

Note

l Lett. « au voisinage», espressione del linguaggio matematico: «all'intorno».

144
Frammenti di memorie di un poema

Vivevo lontano da ogni tipo di letteratura, senza alcuna


intenzione di scrivere per essere letto, e dunque in pace con
tutti quelli che leggono, quando, verso il 1912, Gide e
Gallimard mi chiesero di riunire e di pubblicare alcuni versi
che avevo scritto vent'anni prima, e che a quell'epoca erano
apparsi in alcune riviste.
Rimasi stupefatto. Non riuscii a soffermarmi più di un
momento su quella proposta rivolta a qualcosa che non
esisteva più nella mia mente, e che non poteva più risvegliare
in essa nulla di seducente. Il vago ricordo di quei brevi
componimenti non mi era gradito: non provavo per essi
alcuna indulgenza. Se alcuni erano piaciuti nella ristretta
cerchia in cui erano stati prodotti a quel tempo, l'epoca ed il
clima favorevole erano svaniti come la mia disposizione
d'animo. Anche se d'altronde non avevo seguito le sorti della
poesia per tanti anni, non ignoravo che il gusto non era più lo
stesso: la moda era cambiata. Ma se anche fosse rimasta quale
l'avevo conosciuta, poco mi sarebbe importato, perché mi ero
reso insensibile a qualsiasi moda.
Avevo abbandonato la partita, appena intrapresa e con
noncuranza, come un uomo che non è abbagliato da speranze

145
di questo genere e vede proprio nel gioco di rivolgersi alla
mente la certezza di perdere la propria «anima», - cioè la
libertà, la purezza, la singolarità e l'universalità dello spirito.
Non dico che «avessi ragione» ... Non conosco nulla di più
e
insensato, insieme di più volgare, che voler avere ragione.

Avevo sempre provato un certo disagio mentale quando


pensavo alle Lettere. L'amicizia più fascinosa ed entusiastica
mi spingeva ad arrischiarmi in questa strana carriera in cui
bisogna essere se stessi per gli altri.
Mi sembrava che vivere per pubblicare significasse votarsi
ad un'eterna ambiguità. «Come piacere e al tempo stesso
piacersi?» mi domandavo ingenuamente.
Appena il piacere procuratomi da certe letture risvegliava
in me il demone che impone di scrivere, subito qualch~
riflessione di ugual forza e di senso contrario si opponeva alla
tentazione.
Confesso che prendevo molto sul serio le vicende del mio
intelletto, e mi preoccupavo della sua salute come altri fanno
per la loro anima. Consideravo nullo e trascuravo ciò che esso
può produrre senza fatica, poiché ritenevo che solo lo sforzo ci
trasforma e muta quella prima scioltezza che nasce dall'occa-
sione e in essa si esaurisce, in una facilità ultima che sa creare
l'occasione e può dominarla. Così dai gesti incantevoli della
prima infanzia agli atti puri e stupendamente precisi dell'a-
tleta o della danzatrice, il corpo vivente si eleva nel possesso di
sé attraverso la consapevolezza, l'analisi e l'esercizio.
Quanto alle Lettere, si trattava di accordare loro un ruolo
fuori dall'ordinario e di definirle in maniera originale. Nel
mio sistema le opere divenivano un mezzo che consentiva di
modificare per reazione l'essere del loro autore, mentre
nell' opinìone generale esse rappresentano un punto d'arrivo,
sia che rispondano ad una necessità di espressione, sia che
mirino a qualche vantaggio esterno: denaro, donne o gloria.

La Letteratura si propone anzitutto come un metodo per


sviluppare la nostra facoltà di invenzione e il dinamismo

146
mentale, nella più assoluta libertà, dal momento che essa ha
per sostanza e per agente la parola, liberata da tutto il suo
peso di utilità immediata, e subordinata a tutte le funzioni e a
tutte le fascinazioni immaginabili. Ma il fatto di agire su un
pubblico indistinto interviene subito a guastare questa bella
promessa. Lo scopo di un'arte può essere soltanto la produ-
zione dell'effetto più riuscito su persone sconosciute, che siano
o le più numerose o le più raffinate possibili ... Quale che sia
l'esito dell'impresa, essa ci porta dunque ad una dipendenza
da altri ai quali attribuiamo uno spirito e dei gusti che
finiscono per introdursi nel nostro intimo. Anche l'impresa
più disinteressata, quella che crediamo più riservata, ci
allontana insensibilmente dall'ambizioso disegno di portare il
nostro io all'apice del desiderio di possedersi, e sostituisce la
considerazione di probabili lettori alla nostra idea originaria
di un testimone diretto o di un giudice implacabile del nostro
sforzo. Rinunciamo senza saperlo ad ogni rigore o perfezioni-
smo, ad ogni profondità difficilmente comunicabile, perse-
guiamo solamente ciò che può essere volgarizzato, conce-
piamo solo ciò che può essere pubblicato, poiché non si può
arrivare se non soli fino al termine del proprio pensiero, cui si
giunge solo per una sorta di abuso di sovranità interiore.

Forse tanti ragionamenti di parte manifestavano soltanto


una mia naturale ripugnanza nei confronti di una forma di
attività definibile quasi come una continua confusione tra la
vita, il pensiero e la professione di colui che vi si dedica.
Palissy non gettava che i suoi mobili nel fuoco del suo forno da
ceramica. Lo scrittore brucia tutto ciò che egli è e tutto ciò che
lo concerne. I suoi piaceri e le sue pene, le sue faccende, il suo
Dio, la sua infanzia, la sua donna, i suoi amici e i suoi nemici,
il suo sapere e la sua ignoranza, tutto precipita sulla pagina
fatale; c'è chi si attribuisce avventure, chi tormenta qualche
piaga, chi coltiva le sue disgrazie per poi scriverne e da
quando è stata inventata la «sincerità» come valore di scam-
bio letterario (cosa abbastanza strana dove impera la fin-
zione) non vi è tara, anomalia, riserva che non sia divenuta
oggetto pregiato: una confessione vale un'idea.

147
Farò dunque la mia, denunciando anch'io la mia anomalia.
Se si considera umano questo sistema di esporre in pubblico le
proprie faccende private, io devo dichiararmi essenzialmente
inumano.
Non che non mi divertano, quando sono dati per quello che
sono, gli effetti letterari ottenuti mediante il facile contrasto
tra i costumi della media e quelli particolari, tra i comporta-
menti ammessi e quelli possibili: in questo genere preferisco
Restif a Jean Jacques, e talvolta, il Cavaliere di Seingalt a
Stendhal. L'impudicizia non ha alcun bisogno di considera-
zioni generali. Mi piace pura.
Quanto ai racconti ed alla storia, mi capita di !asciarmi
appassionare e di ammirarli, come stimoli, passatempi ed
opere d'arte, ma se aspirano alla «verità» e si illudono di
essere presi sul serio, subito l'arbitrarietà e le convenzioni
inconsapevoli si manifestano; mi tenta allora la mania per-
versa delle possibili sostituzioni.
La mia stessa vita non sfugge a questo sguardo. Mi sento
stranamente distinto dalle sue circostanze. La mia memoria è
solo memoria di idee e di qualche sensazione. Gli eventi della
mia vita svaniscono in fretta. Ciò che ho fatto, ben presto non
mi appartiene più. I ricordi che fanno rivivere mi sono penosi,
e i migliori, insopportabili. Non sarò certo io a tentare di
ritrovare il tempo perduto! E infine, le situazioni, le combina-
zioni di personaggi, i soggetti di racconti e di drammi non
trovano certo in me un terreno fertile in cui produrre sviluppi
in una sola direzione. Sarebbe forse interessante fare una
volta un'opera che mostrasse a ciascuno dei suoi punti nodali
la molteplicità di sviluppi che si può presentare alla mente, e
all'interno della quale essa sceglie il seguito unico che sarà
dato nel testo. Così facendo si sostituirebbe all'illusione di una
determinazione unica e che imita il reale, l'illusione del
possibile-ad-ogni-istante che mi pare più veritiera. Mi è
capitato di pubblicare diverse versioni delle stesse poesie; ve
ne furono di contraddittorie e non si è mancato di criticarmi
per questo. Ma nessuno mi ha detto perché avrei dovuto
astenermi da queste varianti.

148
Non so da dove mi venga questo sentimento molto vivo
dell'arbitrarietà: è innato o acquisito? ... Tento involontaria-
mente di modificare o di far variare con il pensiero tutto ciò
che mi suggerisce una possibile sostituzione all'interno di ciò
che mi si offre, e la mia mente si compiace di questi atti
virtuali, - un po' come quando si maneggia un oggetto col
quale il nostro tatto si familiarizza. Si tratta di una mania o di
un metodo, oppure di entrambi contemporaneamente; non
c'è contraddizione. Mi capita, di fronte ad un paesaggio, che
le sagome della terra, i profili dell'orizzonte, la posizione e i
contorni dei boschi e dei campi, mi appaiano puri accidenti;
definiscono senza dubbio un certo luogo, ma io li guardo
come se potessi trasformarli liberamente, come si farebbe
sulla carta, con la matita o il pennello. Non mi soffermo a
lungo sugli aspetti di cui dispongo, e che d'altronde potrei
alterare solo muovendomi. Ciò che invece mi attrae è la
sostanza degli oggetti che ho sotto gli occhi, la roccia, l'acqua,
la materia della corteccia o della foglia, e la forma degli esseri
organizzati. Posso interessarmi solo a ciò che non posso
inventare.
Questa stessa tentazione modifica in me le opere degli
uomini. Mi è quasi impossibile leggere un romanzo senza che,
una volta risvegliatasi la mia attenzione attiva, io tenda a
sostituire alle frasi date altre frasi che l'autore avrebbe potuto
ugualmente scrivere senza gran danno per l'effetto. Sfortuna-
tamente, tutta l'apparenza di realtà che il romanzo moderno
vuole produrre sta proprio in queste determinazioni fragilis-
sime e in questi dettagli insignificanti. Non può essere altri-
menti: la vita che vediamo, e anche la nostra, sono intessute di
dettagli che devono essere, per riempire un certo riquadro
della scacchiera della comprensione; ma che possono essere
questo o quello. La realtà osservabile non ha mai nulla di
visibilmente necessario; e la necessità non appare mai senza
manifestare anche qualche azione della volontà e della mente.
Dunque, - basta con le illusioni! Confesso che la mia ten-
denza e la mia istintiva pratica delle sostituzioni sono detesta-
bili: annullano dei piaceri. Ammiro e invidio i romanzieri che

149
garantiscono di credere all'« esistenza» dei loro personaggi. Es-
si pretendono di esserne gli schiavi, di seguirne ciecamente le
sorti, ignorandone i progetti, soffrendo le loro pene e provando
le loro sensazioni, - tutte possessioni sorprendenti che fanno
pensare alle meraviglie dell'occultismo, alla funzione di quei
«medium » che reggono la penna agli spiriti, o che subiscono il
transfert della loro sensibilità in un bicchiere d'acqua, e gri-
dano di dolore, se in quest'acqua si immerge una punta.
È superfluo aggiungere che la storia stessa mi stimola ancor
più del romanzo a questo gioco delle possibili alterazioni, le.
quali si combinano molto bene con le reali falsificazioni che di
tanto in tanto si scoprono nei documenti più autorevoli. E
tutto ciò mette utilmente in evidenza la struttura ingenua e
bizzarra della nostra fede nel «passato».
Anche nelle scienze positive, molte cose potrebbero essere
enunciate, descritte e ordinate diversamente da come lo sono,
senza alcun danno per la parte non modificabile di queste
discipline, costituita da procedimenti e risultati verificabili.
Quando il mio intelletto non è ostacolato nella sua libertà, e
si sofferma spontaneamente su qualche oggetto che lo affa-
scina, esso crede di vederlo in una sorta di spazio in cui da
presente e interamente definito che era, l'oggetto torna ad
essere solo possibile ...
E ciò che mi viene in mente mi appare subito come uno
«specimen», un caso particolare, un singolo elemento di una
varietà di altre combinazioni ugualmente concepibili. Le mie
opinioni richiamano subito i loro contrari o i loro complemen-
tari; e io mi sentirei umiliato se non fossi in grado di
considerare l'avvenimento reale, o l'impulso particolare che
provo, semplici elementi di un insieme - una sjaccettatura di
uno dei sistemi di cui sono capace.

Non ero dunque adatto per impegnarmi a vita in un'occu-


pazione che mi interessava solo per ciò che mi offre di meno
«umano». Non vi vedevo che un rifugio, un rimedio estremo;
e, in definitiva, molto più di un sistema di separazione o di
organizzazione del pensiero autonomo, che non un mezzo di

150
comunicazione con sconosciuti e di azione su di essi. Era per
me un esercizio e la giustificavo in quanto tale.
Scrivere era già per me un'operazione del tutto distinta
dall'espressione istantanea di qualche «idea» attraverso il
linguaggio immediatamente sollecitato. Le idee non costano
nulla, non più dei fatti e delle sensazioni. Quelle che paiono le
più preziose, le immagini, le analogie, i motivi e i ritmi che
noi produciamo sono degli accidenti più o meno frequenti
nella nostra esistenza immaginativa. L'uomo non fa che
inventare. Ma chi si accorge della facilità, della fragilità,
dell'incoerenza di questo modo di generare le oppone lo sforzo
dell'intelletto. Ne risulta questa meravigliosa conseguenza: le
«creazioni» più efficaci, i monumenti più illustri del pensiero,
sono stati ottenuti con l'impiego ragionato di mezzi volontari
di resistenza alla nostra «creazione» immediata e continua di
parole, di relazioni, d'impulsi che si sostituiscono senza alcun
condizionamento. Una produzione totalmente spontanea ac-
cetta facilmente, ad esempio, contraddizioni e «circoli vizio-
si»; la logica invece vi si oppone. Essa è la più nota e la più
importante di tutte le convenzioni formali ed esplicite che la
mente crea contro se stessa. Metodi, precise poetiche, canoni e
proporzioni, regole dell'armonia, precetti di composizione,
forme fisse non sono (come si crede comunemente) delle
formule limitative della creazione. Il loro fine ultimo consiste
nell'esortare l'uomo completo e intellettualmente organiz-
zato, l'essere fatto per agire, e che viene perfezionato a sua
volta dall'azione stessa, ad imporsi nella produzione delle
opere dell'intelletto. Questi vincoli possono essere del tutto
arbitrari: è necessario e sufficiente che a poco a poco ostaco-
lino il corso naturale ed incoerente della divagazione o della
creazione. Come i nostri impulsi, quando si trasformano in
atto, devono adeguarsi alle esigenze del nostro apparato
motorio e incontrano un ostacolo nelle condizioni materiali
dell'ambiente, permettendoci di acquisire con questa espe-
rienza una sempre più precisa consapevolezza della nostra
forma e delle nostre forze, così è per l'invenzione contrastata e
ben temperata ...

151
Scrivere mi sembrava dunque un'operazione molto diversa
dall'espressione immediata, come l'analisi di un problema di
fisica differisce dalla registrazione delle osservazioni: l'analisi
esige che si ripensino i fenomeni, che si definiscano nozioni
che non compaiono nel linguaggio corrente e costringe tal-
volta a creare nuovi metodi di calcolo. Scoprivo inoltre che le
ricerche formali a cui doveva portare questa concezione della
scrittura esigevano una maniera di vedere le cose, e una certa
idea del linguaggio, più sottili, più precise, più coscienti di
quelle che bastano per l'uso comune.
Inoltre i perfezionamenti e i laboriosi abbellimenti che i
poeti avevano introdotto nella versificazione dal 1850 circa,
l'obbligo di separare più di quanto fosse mai stato fatto lo
stimolo e l'intenzione iniziali dall'esecuzione mi portavano a
considerare le Lettere sotto questo aspetto. Non vi vedevo che
una combinazione di ascesi e di gioco. La loro azione sull'e-
sterno era senza dubbio una condizione, più o meno rigida, da
soddisfare; ma niente di più.

Dovevo poi riconoscere nella mia natura certe peculiarità


che chiamerei insulari. Si tratta di curiose lacune nel sistema
dei miei istinti intellettuali, mancanze che credo abbiano
avuto conseguenze sullo sviluppo delle mie opinioni, e dei
miei partiti presi, e perfino sui soggetti e sulle forme di alcune
mie opere.
Confesso, ad esempio, di non essermi mai preoccupato di
far condividere ad altri le mie opinioni in nessuna materia.
Sarei piuttosto incline al contrario. Il desiderio ostinato di
«avere ragione», di convincere, di sedurre o soggiogare gli
spiriti, di eccitarli pro o contro qualcuno o qualcosa mi è
essenzialmente estraneo se non addirittura odioso. Dal mo-
mento che non posso sopportare che mi si voglia far cambiare
idea per vie affettive, attribuisco agli altri la mia stessa
insofferenza. Niente mi urta più del proselitismo e dei suoi
metodi, sempre impuri. Sono convinto che l'apologetica ab-
bia finito per arrecare più danno che aiuto alla religione, -
almeno se si guarda alla qualità dei suoi acquisti. Ne ho tratto

152
questo principio: «Cache ton Dieu», tieni nascosto il tuo Dio,
poiché se è la tua forza fintanto che rimane il tuo più grande
segreto, diventa la tua debolezza appena gli altri ne vengono a
conoscenza.
Se si vuole dichiarare il proprio pensiero, mi piace che lo si
esponga senza calore e con assoluta chiarezza in modo che si
esprima non come il prodotto di un individuo, ma come la
conseguenza di condizioni che si accordano e si combinano in
un istante, o come un fenomeno di un mondo estraneo a
quello in cui vi sono degli individui e i loro temperamenti. Mi
infastidisce immaginare, dietro la pagina che sto leggendo,
qualche volto infiammato o ghignante, sul quale è dipinta
l'intenzione di farmi amare ciò che odio e odiare ciò che amo.
Agire sui nervi della gente è la grande preoccupazione dei
politici di ogni specie; cosa diverrebbero costoro senza gli
epiteti? Sarebbero molto a disagio se si chiedesse loro di
organizzare il loro pensiero punto per punto. Ma la vera forza
si impone con la struttura e non richiede nulla. Essa costringe
gli uomini senza vederli.
Insomma io guardo molto più benevolmente ai metodi che
non ai risultati, e il fine per me non giustifica i mezzi, poiché
-non vi è un fine.
Inoltre, non essendo interessato a modificare le opinioni
altrui, mi ritengo abbastanza insensibile ai loro tentativi di
commuovermi. Non provo alcun bisogno delle passioni del
mio prossimo, e non mi è mai venuto in mente di lavorare per
quelli che chiedono allo scrittore di insegnare o di offrire loro
ciò che si scopre, o ciò che si prova, semplicemente vivendo.
Del resto si incarica di ciò la maggior parte degli autori, e i più
grandi poeti hanno realizzato alla perfezione il compito di
rappresentarci le emozioni immediate della vita. È un com-
pito tradizionale. I capolavori di questo genere abbondano.
Mi domandavo se ci fosse altro da fare.

È questa la ragione per cui avrei rivolto i miei favori, molto


più che alle Lettere, alle arti che non riproducono nulla, che
non fingono, che fanno ricorso soltanto alle nostre proprietà

153
in atto, senza ricorrere al nostro potenziale di vite immagina-
rie e alla falsa precisione che facilmente si accorda loro.
Questi «puri» modi non sono oppressi da personaggi ed eventi
che traggono dalla realtà osservabile tutto ciò che essa offre di
arbitrario e superficiale, poiché vi è solo questo di imitabile.
Esse, al contrario, sfruttano, organizzano e strutturano i
valori della nostra sensibilità potenziale, libera da ogni refe-
rente e da ogni funzione di segno. Così restituita a se stessa, la
serie delle nostre sensazioni non ha più un ordine cronologico,
ma una sorta di ordine intrinseco ed istantaneo che si rivela a
poco a poco ... Non posso ora spiegare dettagliatamente la mia
idea e le sue argomentazioni né le sue conseguenze: ma per
capirmi basta pensare alle produzioni riunite sotto il termine
generico di Ornamento, o meglio alla musica pura. Il musici-
sta, ad esempio, si trova come in presenza di un insieme di
possibilità di cui può disporre senza alcun riferimento al
mondo delle cose e degli uomini. Mediante la sua operazione
sugli elementi dell'universo uditivo gli affetti e le emozioni
«umane» possono essere stimolati senza che si smetta di
avvertire che le formule musicali che li suscitano apparten-
gono al sistema generale dei suoni, nascono in esso e poi vi si
risolvono, affinché le loro unità si ricompongano in nuove
combinazioni. In questo modo non vi è mai confusione
possibile tra l'effetto dell'opera e le apparenze di una vita
estranea; ma invece comunione possibile con i moventi pro-
fondi di ogni vita.
Ma io non avevo né le doti né le conoscenze tecniche
necessarie per seguire questo istinto formale delle produzioni
della sensibilità sviluppata indipendentemente da ogni rap-
presentazione. Queste produzioni rendono manifesta la strut-
tura di ciò che non somiglia a nulla, tendendo a ordinarsi in
costruzioni complete in se stesse. Nasce così uno stato mentale
curiosamente antistorico, la viva percezione della attualità
delle nostre immagini del «passato» e della nostra assoluta
libertà di modificarle così facilmente come possiamo conce-
pirle, senza alcuna conseguenza ...

154
Alcuni poemi che ho composto hanno avuto per origine solo
una di queste sollecitazioni di sensibilità «formale» anteriore
ad ogni «soggetto», ad ogni idea esprimibile e finita. La ]eune
Parque fu un tentativo, letteralmente indefinito, di creare in
poesia l'analogo di ciò che in musica è detto «modulazione». I
«passaggi» mi hanno creato notevoli difficoltà; ma queste
difficoltà mi spingevano a scoprire e notare numerosi pro-
blemi precisi del funzionamento della mia mente, ed è questo
in fondo che mi interessava. Niente, d'altronde, nelle arti, mi
interessa più di questi passaggi in cui vedo ciò che vi è di più
delicato e di più arduo a farsi, cose che i contemporanei
invece ignorano o disprezzano. Non mi stanco mai di ammi-
rare le sfumature di forma attraverso le quali la figura di un
corpo vivo, o quella di una pianta, insensibilmente si deduce,
e si accorda con se stessa; e come si schiude infine l'elice di una
conchiglia, dopo alcune rotazioni, per fasciarsi della sua
madreperla interna. L'architetto di un'epoca bella usava le
modanature più squisite e ricercate per accordare le superfici
successive della sua opera ...
Un'altra poesia è iniziata in me con la semplice indicazione
di un ritmo che a poco o poco si è dato un senso. Questa
produzione, che in un et;rto senso procedeva dalla «forma»
verso il «contenuto», e finiva per stimolare il lavoro più
cosciente a partire da una struttura vuota, si collegava senza
dubbio al problema che per alcuni anni mi si era posto:
ricercare le condizioni generali di ogni pensiero, quale che sia
il suo contenuto.
Riporterò ora un'osservazione piuttosto importante fatta su
me stesso poco tempo fa.
Ero uscito di casa per distrarmi, camminando e guardan-
domi un po' attorno 1, da una certa fastidiosa preoccupazione.
Mentre percorrevo la via in cui abito, che sale rapidamente,
fui colto da un ritmo che mi si imponeva e che mi dette ben
presto l'impressione di un funzionamento estraneo. Un altro
ritmo venne ad associarsi al primo combinandosi con esso, e
tra queste leggi si stabilirono misteriose relazioni trasversali.
Questa combinazione, che superava di molto tutto ciò che

155
potevo aspettarmi dalle mie facoltà ritmiche, rese quasi
insopportabile la sensazione di estraneità di cui parlavo. Mi
dicevo che vi era un errore sulla persona, che questo dono
sbagliava destinatario, poiché io non sapevo che farne mentre
in un musicista avrebbe forse assunto forma e durata. Questi
due movimenti mi offrivano invano una composizione la cui
sequenza e complessità disorientavano ed esasperavano la mia
ignoranza. L'incantesimo svanì bruscamente, dopo una ven-
tina di minuti, !asciandomi sulle rive della Senna sbalordito
come l'anatra della favola che vide uscire un cigno dall'uovo
che aveva covato. Volato via il cigno, passata la sorpresa,
osservai che il moto mi stimola spesso ad una vivace produ-
zione di idee, con le quali manifesta talvolta una sorta di
reciprocità: l'andatura stimola i pensieri, i pensieri modifi-
cano l'andatura, l'una irrigidisce colui che cammina, l'altra
incalza il suo passo. Ma questa volta accade che il mio
movimento attacca la mia coscienza con un sistema di ritmi,
invece di provocare quell'insieme di immagini, di discorsi
interiori, di atti virtuali che chiamiamo Idea. Ma per quanto
nuova e inattesa possa essere un'«idea», essa è ancora solo
un'idea: appartiene ad una specie che mi è familiare, che so
più o meno classificare, manovrare, adattare al mio stato.
Diderot diceva: Le mie idee sono le mie prostitute. Ecco una
buona formula. Ma non posso dire altrettanto dei miei ritmi
inattesi. Cosa si dovrebbe pensare? Immaginavo che la pro-
duzione mentale durante il cammino dovesse rispondere ad
una eccitazione generale che si dispiegava come poteva nel
mio cervello; che questa specie di funzione quantitativa
potesse essere ugualmente soddisfatta dall'emissione di un
certo ritmo così come da figure verbali o da segni qualsiasi; vi
era dunque un momento del mio funzionamento in cui idee,
ritmi, immagini, ricordi o invenzioni non erano che degli
equivalenti. A questo punto noi non saremmo ancora intera-
mente noi stessi. La persona che sa di non sapere la musica
non era ancora in vigore in me, quando il mio ritmo si è
imposto, come la persona che sa di non poter volare non è
ancora in vigore in colui che sogna di volare ...

156
Credo, d'altronde (per altre considerazioni) che ogni pen-
siero sarebbe impossibile se noi fossimo interamente presenti a
noi stessi ad ogni istante. È necessaria al pensiero una certa
libertà, con l'astensione di una parte delle nostre facoltà
mentali.
Comunque sia, questo episodio mi è sembrato degno di
nota ed utile in uno studio sull'invenzione. Quanto all' equiva-
lenza di cui parlavo, essa è certo una delle principali risorse
della mente a cui offre preziosissime sostituzioni.

Questo bizzarro amore per ciò che nell'arte di scrivere è


insensibile o indifferente o noioso agli occhi della maggior
parte dei lettori e la tendenza a considerare negativamente
proprio ciò che essi amano in un libro, mi allontanavano
sempre più dal desiderio di fondare qualcosa sull'incerto
piacere altrui. Sapevo, d'altra parte, per una precoce espe-
rienza accordatami dal caso, che la magia della letteratura sta
tutta in un «equivoco» dovuto alla natura stessa del linguag-
gio, che permette spesso di dare più di quanto non si possieda;
e talvolta, molto meno.
Temevo talmente di cadere io stesso in questa trappola che
per qualche anno mi sono imposto di non impiegare nei miei
appunti personali, un buon numero di termini ... Non dico
quali. Se mi venivano in mente, tentavo di sostituir loro
un'espressione che dicesse solo ciò che volevo dire. Se non la
trovavo, li segnavo in modo da indicare che erano messi a
titolo provvisorio. Mi sembrava che dovessero servire solo
all'uso esterno ... Era un modo per definire la Letteratura,
opponendo i suoi mezzi a quelli del pensiero che opera per se
stesso. La Letteratura (in generale) esige che questo lavoro sia
limitato, arrestato ad un certo punto, e anche dissimulato. Un
autore deve sforzarsi di fare credere che non potrebbe trattare
altrimenti la sua opera. Flaubert era convinto che per un'idea
esistesse una sola forma, che si trattava di trovarla, o di
costruirla, e che si dovesse penare fino a quel momento.
Questa bella dottrina non ha sfortunatamente alcun senso.
Ma non è un male seguirla. Uno sforzo non va mai perduto.
Sisifo si faceva i muscoli.

157
È una cosa deliziosa poter vivere e lavorare, senza attese né
scopi esterni, senza pensare ad un obbiettivo fissato fuori da
sé, ad un'opera compiuta, ad un fine che possa esprimersi in
poche parole, senza l'assillo di effetti da produrre su qualcuno
e degli altrui giudizi, considerazioni che portano necessaria-
mente a fare ciò che non si sarebbe mai fatto di propria
iniziativa e a soffermarsi su altri punti: insomma a compor-
tarsi come un altro. Quest'altro diventa il vostro personaggio:
l'Uomo Famoso.
Il «tempo)) non mi costava nulla, non contava; e dunque
non era mai perso.
I miei amici non concepivano affatto questa indifferenza
per l'avvenire. Nulla risultava da un'esistenza che non poteva
tuttavia apparire né troppo oziosa, né staccata dalle cose dello
spirito. Nulla ne sarebbe scaturito se circostanze indipendenti
dalla mia volontà (come dice ingenuamente il Codice) non
avessero assolto il loro compito, che consiste nel fare tutto. Nel
mio caso specifico dovevano risolvere un problema piuttosto
difficile: trasformare in scrittore di professione un appassio-
nato di esperienze intellettuali perseguite nel più assoluto
isolamento. Tuttavia, offrivo loro una possibilità: da sempre
avevo abbandonato al caso la direzione della mia vita este-
riore. Gli avvenimenti non si possono trattare; e d'altronde i
più fortunati successi sono solo superficiali; il calcolo è del
tutto illusorio, ciò che si considera come il suo buon risultato
esigerebbe quell'infinità di condizioni che costituiscono la
«realtà)), Tutta la mia volontà si applicava all'esterno solo per
tentare di preservare la mia libertà interiore. Cosa facevo di
questa?

Rimpiango il tempo in cui godevo del bene supremo (questa


libertà di spirito). La mia vita si divideva tra le ore di un'occu-
pazione necessaria (ma del tutto separata dalle mie operazioni
private) e delle ore assolute, che valevano ciò che valevano, -
quanto può valere un eterno scorrazzare nell'indipendenza
pura! Mi sembrò che il tema ideale di una vita mentale fosse il
sentire il proprio agire e il proprio sforzo fino a riconoscere le

158
condizioni invisibili e i limiti del proprio potere; da ciò mi
facevo l'immagine di un nuotatore che, lontano da ogni soli-
dità, e libero nel mare aperto, acquisisce nell'assenza di ogni
ostacolo il senso delle sue forme di potere e dei loro limiti, dal
nodo delle sue forze distinte agli estremi della loro estensione.
Non desideravo altro che il potere di fare, e non il suo eserci-
zio nel mondo.

Temo che vi fosse assai poca metafisica nel mio caso. La mia
prima e brevissima pratica nell'arte dei versi mi aveva abituato
a disporre delle parole, e anche delle «idee», come di mezzi che
hanno solo dei valori immediati, degli effetti di posizione. Con-
sideravo un'idolatria isolarli dal loro impiego locale, farne dei
problemi mentre di solito ci si serviva di esse in tutta familiari-
tà. Ma la metafisica esige che ci si attardi su queste passerelle di
fortuna. «Cos'è il tempo?» essa domanda, come se non lo sa-
pessero tutti più che bene. E risponde poi con delle combina-
zioni verbali. Mi sembrava dunque più ... filosofico interessarsi
disinvoltamente e senza altre divagazioni a queste stesse com-
binazioni. Il fare sostituisce allora un preteso sapere, e il Vero si
eleva al rango di convenzione ben applicata.
Tutto ciò è orribile a dirsi. Ma infine non potevo risolvermi
a sposare i problemi altrui e a non stupirmi che i miei non
fossero stati presi in considerazione. Forse mi stupisco troppo
facilmente? Un giorno mi sono stupito che nessuno abbia
avuto l'idea di divertirsi a costruire una tavola di trasforma-
zione delle diverse dottrine filosofiche che avrebbe permesso
di tradurle una nell'altra. Un'altra volta mi stupii di non poter
trovare da nessuna parte un'altra tavola: quella di tutti gli atti
riflessi osservati fino ad ora... Potrei comporre un vero
trattato sui miei stupori, di cui più di un esempio metterebbe
in causa me stesso ed i miei atti.
Insomma, si creava in me, di giorno in giorno, una specie di
«sistema», il cui principio essenziale era che non potesse e non
dovesse adattarsi che a me solo.
Non so se il termine «filosofia)) possa assumere un signifi-
cato che escluda l'individuo ed implichi un edificio di precetti

159
e spiegazioni che si imponga e si opponga a tutti. A mio
avviso, una filosofia è, al contrario, qualcosa di rigorosa-
mente personale; dunque, impossibile da trasmettere, inalie-
nabile e che bisogna rendere indipendente dalle scienze
affinché sia tale. La scienza è necessariamente trasmissibile,
ma non posso concepire un «sistema» di pensiero che sia
comunicabile, perché il pensiero non si limita a combinare
elementi o stati comuni.

È quasi inutile dire che leggevo molto poco, a quei tempi.


Avevo prima preso in odio la lettura e anche distribuito tra
pochi amici i miei libri preferiti. Ne ho dovuto riacquistare
qualcuno, più tardi, passato quel periodo. Ma resto un lettore
sporadico poiché cerco in un'opera solo ciò che può permet-
tere o impedire qualcosa alla mia attività. Essere passivo,
credere a una storia, etc., costa molto poco e se ne possono
ottenere in cambio grandi piaceri e un modo per scongiurare
la noia. Ma quella specie di risveglio che segue una lettura
avvincente mi risulta assai spiacevole. Ho l'impressione di
essere stato giocato, manovrato, trattato come un uomo
addormentato a cui i minimi incidenti nello svolgimento del
suo sonno fanno vivere l'assurdo, subire supplizi e delizie
insopportabili.
Così ho vissuto per anni, come se gli anni non passassero
affatto, allontanandomi sempre più dallo stato mentale in cui
può vegetare l'idea di avere a che fare col pubblico. I miei
pensieri si costruivano sempre più il loro linguaggio, che io
spogliavo il più possibile dai termini troppo comodi, e soprat-
tutto da tutti quelli che un uomo solo, impegnato a circoscri-
vere da vicino ed a scandagliare un problema, non usa mai.
Se mi capitava, a volte, di pensare alle condizioni della
letteratura in un'epoca che si modificava molto rapidamente
intorno a me, concludevo da semplice osservatore che ciò che
esige dal lettore una applicazione anche modesta non era più
di questi tèmpi nuovi. Ormai non si sarebbe più trovata una
persona su un milione in grado di dare a un'opera la qualità e
la quantità di attenzione che autorizzassero a sperare di

160
condurla abbastanza lontano con sé, che valesse la pena di
soppesare le proprie parole e di preoccuparsi delle costruzioni
e degli accordi senza i quali un'opera non diventa per il suo
autore uno strumento della volontà di perfezione.
Ora, gravi inquietudini erano venute ad attraversare que-
sta vita apparentemente statica, che non assorbiva né emet-
teva nulla; d'altra parte, la lunga perseveranza su strade così
astratte rivelava una certa stanchezza; infine, agiva ciò-
che-non-si-può-sapere (come l'età o un punto critico dell'or-
ganismo), e accadde ciò che era necessario affinché la poesia
potesse riacquistare qualche potere su di me, se si fosse
presentata l'occasione. Coloro che mi avevano chiesto di
pubblicare i miei antichi versi avevano fatto copiare e riunire
queste poesie sparse, facendomene poi avere la raccolta, che
non avevo più riaperto come non avevo più preso in conside-
razione la loro proposta. In un giorno di stanchezza e di noia,
il caso (che fa tutto) fece sì che quella copia smarrita fra le mie
carte uscisse dal loro disordine. Ero di cattivo umore. Mai
poesie sono cadute sotto uno sguardo più freddo. Esse trova-
vano nel loro autore l'uomo che era divenuto più che mai
ostile ai loro effetti. Questo padre nemico sfogliò l'esile
volume delle sue poesie complete in cui non trovava che da
rallegrarsi per aver abbandonato il gioco. Se si soffermava su
una pagina, notava la debolezze della maggior parte dei versi:
provava non so quale desiderio di rinforzarli, di rifonderne la
sostanza musicale ... Ve n'erano qua e là di gradevoli, che non
facevano altro che sminuire gli altri, e guastare l'insieme,
perché l'ineguaglianza in un'opera mi sembrava, allora, il
peggiore dei mali .. .
Questo pensiero fu fecondo. Quel giorno esso non fece che
passare nella mia mente - il tempo di depositarvi qualche
impercettibile seme che si sviluppò più tardi, in un lavoro di
molti anni.
Altre osservazioni mi indussero a ripensare vecchie idee che
mi ero fatte sull'arte del poeta; a rimetterle a punto; molto
spesso a sterminarle. Trovai ben presto un divertimento nel
tentativo di correggere qualche verso, senza sovrapporre

161
l'ombra di un disegno a quel piccolo piacere locale procurato
da un lavoro libero e leggero, che si prende, si lascia, su cui si
tentano infinite sostituzioni, in cui si mette di sé solo ciò che
non aspira a nulla. Bisogna confessare che sfiorando così
senza lasciarsi coinvolgere, le tastiere dell'intelletto, se ne'
traggono a volte combinazioni molto felici.

Stavo giocando col fuoco. Il mio gioco mi portava dove non


pensavo di arrivare. Non è normale questo in amore? Uno
sguardo appena insistente, un accordo di risa, - e già il filoso-
fo vi vede evocato il genio della specie, e le conseguenze più vive
che ne seguono, di atto in atto, dal turbamento alla culla.
Ma i sentieri dell'intelletto sono meno battuti; nessun
istinto li orienta. Andavo incontro alla poesia senza saperlo,
attraverso i problemi che si po~ono incontrare o introdurre in
essa, come in qualsiasi cosa, e la cui ricerca non concerne
affatto la pratica di quest'arte.
Poiché non intendevo per nulla correggermi, la mia libertà
era totale, e potevo tentare su questo oggetto l'applicazione di
un certo «metodo» particolare e privato che mi ero fatto o
piuttosto che era nato dalle mie osservazioni, dai miei rifiuti,
dalle precisioni, dalle analogie che avevo seguito, dalle mie
necessità reali, dalla mia forza e dalla mia debolezza.
Dirò solo due parole in proposito e sarei molto a disagio se
dovessi spiegarmi ulteriormente. Ecco la prima parola: la
maggior consapevolezza possibile. Ed ecco la seconda: tentare
di ritrovare con volontà di consapevolezza alcuni risultati
analoghi a quelli, interessanti o utilizzabili, che (tra cento-
mila colpi possibili) ci dona il caso mentale.
Ho scandalizzato molte persone, alcuni anni fa, per aver
detto che preferirei aver composto un'opera mediocre in
totale lucidità piuttosto che un capolavoro fulminante in uno
stato di trance... Perché un fulmine non mi fa avanzare in
nulla. Non mi dà che qualcosa di cui stupirmi. Mi interessa
molto di più saper produrre di mia volontà un'infima scintilla
che non attendere di proiettare qua e là i bagliori di una
folgore incerta.

162
Ma, in quel momento, non si trattava di comporre. E se
esprimevo propositi così rigorosi non era per costruirmi delle
regole e una disciplina di cui non sapevo che fare, ma era per
rispondere mentalmente a certi pregiudizi che un tempo mi
avevano urtato.
A quei tempi, regnava un'opinione forse non del tutto priva
di sostanza. Molti, o quasi tutti, pensavano, sebbene molto
vagamente, che le analisi e il lavoro dell'intelletto, gli sviluppi
della volontà ed i dettagli in cui esso impegna il pensiero non
si possono accordare con una certa ingenuità originaria, una
sovrabbondanza di forza o una grazia sognante che si vo-
gliono trovare in poesia e che la rendono riconoscibile fin
dalle prime parole.
Si faceva osservare che la riflessione astratta sulla propria
arte, il rigore applicato alla coltivazione delle rose, non
possono far altro che perdere un poeta, poiché l'effetto
principale e più seducente della sua opera deve consistere nel
suscitare l'impressione di uno stato nascente, che, in virtù
della sorpresa e del piacere, possa indefinitamente sottrarre la
poesia a qualsiao;i ulteriore riflessione critica. Non si tratta
forse di esalare un profumo così delicato o così intenso da
poter disarmare e inebriare il chimico riducendolo ogni volta
a respirare con piacere ciò che stava per scomporre?

Non amavo queste opinioni. Ci sono troppe cose in terra, e


soprattutto in cielo, che richiedono il sacrificio dell'intelletto:
la vita e la morte cospirano a ostacolare o avvilire ogni attività
del pensiero, poiché la tendenza di esso mi sembra sia quella
di procedere come se né le necessità materiali, né le paure, né
le passioni, né alcunché di umano, di sentimentale, di carnale
o di sociale potesse corrompere o alterare la suprema funzione
di distinguersi assolutamente da ogni cosa, e dalla persona
stessa che pensa, poiché tutte queste cose sono solo strumenti,
mezzi, pretesti, sorgenti di mistero e di prove che lo stimo-
lano, lo nutrono, gli rispondono o lo interrogano, - perché è
necessario, affinché la luce sia, che la potenza vibrante si
scontri con i corpi dai quali riverbera.

163
Non potevo perciò sopportare (a partire dal 1892) che lo
stato poetico fosse contrapposto all'azione completa e vigile
dell'intelletto. Questa distinzione è altrettanto grossolana di
quella che fà esistere la «sensibilità» e l'« intelligenza», due
termini difficili da precisare senza smentirsi o contraddirsi, e
che si distinguono bene solo a scuola, dove si sviluppa fino alla
nausea il celebre contrasto fra I'«esprit de géométrie» e
l'« esprit de finesse », soggetto per infinite dissertazioni e
riserva inesauribile di variazioni didattiche. In veriti!, tutto ciò
che concerne l'intelletto si esprime ancora con termini molto
venerabili (come lo stesso «esprit») che col passare del tempo
hanno assunto una quantità di significati di cui nessuno ha un
referente. Queste parole venerabili si sono formate indipen-
dentemente le une dalle altre; si ignorano a vicenda, come le
misure inglesi che non hanno un divisore comune. «Soffio»,
«peso», «scelta», «prendere insieme», etc., ecco i nostri
strumenti originali di analisi e di notazione... L'impiego
inevitabile (finora) di questi termini incoerenti in ricerche
miranti alla precisione, conduce spesso a conclusioni sorpren-
denti, ad opposizioni tutte verbali, eccetera. Ma che fare?
Chiedo scusa per essermi inoltrato in un argomento diverso
dal mio. Dicevo che non amavo che mi !ii volesse costringere a
non essere tutto ciò che ero, e a dissociarmi da me stesso. Il
mio desiderio era, al contrario, di esercitarmi con le mie
mani... Nessuno ha mai pensato di far notare al musicista che
i lunghi anni spesi a studiare l'armonia e l'orchestra esauri-
scono il suo particolare demone? Perché mettere il poeta in
balia dell'istante stesso?
Confesso di provare nel cuore il morso dell'invidia immagi-
nando questo sapiente musicista alle prese con l'immensa
pagina dai venti pentagrammi, mentre distribuiSce su questo
campo regolato il calcolo dei tempi e delle forme; egli è in
grado veramente di comporre, concepire e condurre l'insieme
e il dettaglio della sua impresa, volando dall'uno all'altro, e
osservando la loro dipendenza reciproca. La sua azione mi
pare sublime.
Questo genere di lavoro è purtroppo quasi proibito alla

164
poesia per la natura del linguaggio e per le abitudini imposte
all'intelletto dal suo costante impiego pratico: noi preten-
diamo ad esempio che un discorso non possa avere che un solo
significato.
Ricordo che la sola idea di composizione o di costruzione mi
esaltava e non concepivo opera più ammirevole del dramma
della genesi di un'opera, quando essa stimola ed impiega tutte
le funzioni superiori di cui possiamo disporre. Sentivo fin
troppo vivamente l'impotenza dei più grandi poeti dinanzi a
questo problema di organizzazione completa, che non si
riduce affatto a un certo ordine delle «idee» nè ad un certo
movimento ... Non bastano la passione, nè la logica, nè la
cronologia degli eventi o delle emozioni. Ero giunto a consi-
derare le opere più belle come monumenti mal strutturati,
che si scomponevano senza resistenza in singole meraviglie,
brani divini, versi isolabili. L'ammirazione stessa che suscita-
vano questi preziosi frammenti agiva sul resto del poema
come un acido sulla ganga di un minerale e distruggeva il
tutto di un'opera; ma questo tutto era tutto per me.

Risulta chiaro che ai miei occhi la preoccupazione dell'effet-


to esterno era subordinata a quella del «lavoro interno». Con-
sideravo di secondario interesse il cosiddetto «contenuto» o
«soggetto» di un'opera, che io definisco volentieri come la par-
te, o meglio, l'aspetto mitico di essa. Come in una dimostrazio-
ne ci si serve di un caso particolare «per fissare le idee>>, la stessa
cosa, secondo i miei gusti speculativi, bisognava fare dei «sog-
getti». Volevo ridurre al minimo l'idolatria.
Insomma, mi forgiavo una definizione della «grande arte»
che sfidava ogni praticai Questo ideale esigeva imperiosa-
mente che l'azione di produrre fosse un'azione completa, in
grado di far sentire, anche nell'opera più banale, il pieno
possesso dei poteri contrastanti che sono in noi: da un lato,
quelli che potremmo chiamare «trascendenti» o «irrazio-
nali», valutazioni «senza cognizione di causa», o interventi
inattesi, oppure impulsi, improvvise illuminazioni: tutto ciò
per cui noi siamo fonte di sorpresa per noi stessi, sorgenti di

165
problemi spontanei, di domande senza risposta, di risposte
senza domande. Tutto ciò che determina le nostre speranze
«creatrici» come i nostri timori, i nostri sonni popolati di
com binazioni rarissime che possono prodursi in noi solamente
in nostra assenza ... D'altro lato, la nostra facoltà «logica», il
nostro senso della continuità delle convenzioni e delle rela-
zioni, che procede senza omettere nessuno stadio della sua
operazione, nessuna fase della trasformazione, e che si svi-
luppa da un equilibrio ad un nuovo equilibrio; e infine la
nostra volontà di coordinare, di prevedere con il ragiona-
mento le proprietà del sistema che intendiamo costruire -
tutto il «razionale».

Certo, è molto difficile la combinazione del lavoro medi-


tato e «conservativo» con queste formazioni spontanee che
nascono dalla vita sensoriale ed affettiva (come le figure
tracciate su una membrana tesa dalla sabbia scossa a piccoli
colpi) e godono della proprietà di propagare gli stati e le
emozioni, ma non quella di comunicare le idee.
Mentre mi abbandonavo con grande piacere a tali rifles-
sioni, e trovavo nella poesia un soggetto per infinite domande,
la consapevolezza di me stesso che vi si impegnava mi
suggeriva che una speculazione senza produzione di opere o
atti che la possano verificare è cosa troppo delicata per non
divenire, per quanto profonda e ardua la si persegua in sè,
una tentazione di facilità sotto apparenze astratte. Mi accor-
gevo che ormai mi interessava in quest'arte soprattutto la
quantità di intelletto che essa poteva sviluppare. E l'intelletto
era tanto più stimolato, quanto più ci si faceva di esso un'idea
più approfondita. Capivo altrettanto chiaramente che tutto
questo sforzo analitico poteva assumere un senso ed un valore
solo mediante una pratica e produzione nate da esso. Ma le
difficoltà di esecuzione aumentavano insieme alla precisione e
alla diversità di esigenze che mi piaceva immaginare, mentre
il successo del tentativo da compiere rimaneva necessaria-
mente arbitrario.
Inoltre, mi ero troppo appassionato a ricerche molto più

166
generali. La poesia, o almeno certe opere di poesia, mi
avevano sedotto. Il fine poetico mi sembrava la produzione
del sortilegio. Il più lontano possibile da ciò che fa e vuole la
prosa, io ponevo questa sensazione di incanto senza referente.
Era la lontananza dell'uomo ad incantarmi. Non capivo
perchè si lodasse un autore di essere umano, quando tutto ciò
che eleva l'uomo è inumano o sovraumano e non si può
procedere nella conoscenza ed acquisire un po' di forza senza
prima liberarsi della confusione di valori, della visione co-
mune e composita delle cose, del buon senso, - in poche
parole - di tutto ciò che risulta dalla nostra relazione
statistica con i nostri simili e dal commercio obbligato ed
obbligatoriamente impuro con il disordine monotono della
vita esterna.

Dopo alcuni mesi di riflessione, verso la fine del mio


ventunesimo anno, ho scoperto di non avere alcun desiderio di
scrivere versi ed ho deliberatamente chiuso con la poesia, che
pure mi aveva fatto intravedere tesori di indicibile valore e
aveva sviluppato in me il culto di capolavori molto diversi da
quelli che si impara ad ammirare a scuola e in società ... Mi
piaceva che ciò che amavo non fosse amato da quelli a cui
piace parlare di ciò che amano. Amavo nascondere ciò che
amavo. Mi piaceva avere un segreto che portavo in me come
una certezza e come un germe. Ma i germi di questo tipo
nutrono il loro portatore invece di esserne nutriti. Quanto alla
certezza, essa pr()tegge il proprio uomo dalle opinioni del suo
ambiente, dai discorsi che lasciano un segno, dalle fedi
comunicabili.
Ma, di fatto, la poesia non è un culto privato: la poesia è
letteratura. La letteratura comporta, qualunque cosa si faccia
e che lo si voglia o no, una sorta di politica, delle competi-
zioni, una gran quantità di idoli, un'infernale combinazione
di sacerdozio e di commercio, di intimità e di pubblicità;
insomma tutto il necessario per sconvolgere le prime inten-
zioni che aveva fatto nascere, le quali sono generalmente ben
lontane da tutto questo, e nobili, delicate, e profonde.

167
L'atmosfera letteraria è generalmente poco propiZia per
coltivare l'incantesimo di cui parlavo: essa è vana, conten-
ziosa, tutta agitata da ambizioni che tendono agli stessi scopi,
e da movimenti che si contendono la superficie dello spirito
del pubblico. Questa sete avida e queste passioni non conven-
gono alla lenta formazione delle opere, né tantomeno alla loro
meditazione da parte delle persone desiderabili, la cui atten-
zione può, sola, ricompensare un autore che non accorda
alcun valore all'ammirazione grossolana e non pertinente 2 •
Ho avuto talvolta modo di notare che l'arte è tanto più colta e
raffinata quanto più in società l'uomo è ingenuo, e ignaro di
ciò che vi si fa e vi si dice. Forse, soltanto in Estremo Oriente e
in Oriente, e in qualche chiostro medievale, si poté veramente
vivere sulle vie della perfezione poetica senza compromessi.
Concluderò con due osservazioni che illustreranno, forse, la
differenza che volendo si può scorgere tra la Letteratura e le
Lettere.

La Letteratura è eternamente in preda ad una attività


simile a quella della Borsa. Non si tratta che di valori,
introdotti, aumentati, ribassati, come se fossero paragonabili
tra di loro, come lo sono in Borsa le industrie e gli affari più
disparati, una volta sostituiti da segni. Ne risulta che tutta la
mobilità di questo mercato è fatta dalle persone o dai nomi,
dalle speculazioni fondate su di loro, dal prestigio attribuito-
gli: non dalle opere stesse che ritengo bisognerebbe conside-
rare perfettamente isolate le une dalle altre senza riguardo per
gli autori. L'anonimato sarebbe la condizione paradossale che
un tiranno dello spirito potrebbe imporre alle Lettere. «Dopo
tutto, direbbe, nessuno di per sé ha un nome. Nessuno in sé è il
Tale!».
Ecco un'altra conseguenza di questo stato delle cose lettera-
rie sottoposte alla concorrenza, e all'assurdità del paragone
degli incomparabili (cosa che esige l'espressione in termini
semplici, dei prodotti e dei produttori): ogni nuovo arrivato si
sente obbligato a tentare di fare altro, dimenticando che se
egli è qualcuno, farà necessariamente altro. Questa condi-

168
zione del nuovo porta alla deriva perché crea innanzitutto
una sorta di automatismo. La contro-imitazione è diventata
un vero e proprio riflesso condizionato. Essa fa dipendere le
opere dalle condizioni dell'ambiente anziché dalla situazione
dell'autore. Ma come in tutti gli effetti d'urto, l'ammortizza-
mento si produce molto rapidamente; in cinquant'anni ho
visto infinite novità e creazioni a contrario sorgere, irradiare
il loro fulgore, essere poi divorate da altre, riassorbite dall'o-
blio; se qualcosa restava era solo grazie a qualità in cui la
volontà di nuovo non aveva alcuna parte. Il rapido susseguirsi
di queste ricerche del nuovo ad ogni costo porta ad un
esaurimento delle risorse dell'arte. L'originalità delle idee, del
linguaggio e anche delle forme è preziosa; è indispensabile per
risolvere i problemi che un artista trova in sé. Egli allora
innova senza saperlo. Ciò che è detestabile è l'essere sistemati-
camente originale. Ha un pericoloso effetto sul pubblico, nel
quale inculca il desiderio e poi il fastidio dello choc, gene-
rando nel frattempo facili cultori che ammirano tutto ciò che
si offre loro e si vantano di essere i primi ad ammirarlo.
D'altronde le combinazioni non sono infinite e se ci si
divertisse a fare la storia delle cose sorprendenti immaginate
da un secolo a questa parte, e delle opere prodotte per
provocare un effetto di stupore, mediante l'eccentricità, le
deviazioni sistematiche, le anamorfosi; oppure con le violenze
del linguaggio, o con inaudite confessioni, si formerebbe
abbastanza facilmente il quadro di questi scarti assoluti o
relativi, dove apparirebbe una qualche distribuzione curiosa-
mente simmetrica dei mezzi per essere originale.
È molto singolare l'impressione di un ritorno, graduale
eppure inarrestabile, verso uno stadio interiore che crede-
vamo superato per sempre. Esso avviene attraverso dettagli
così diversi da risultare evidenti solo una volta che questa
trasformazione si è compiuta.
Un giorno compresi di essere stato insensibilmente ricon-
dotto, dalle circostanze più fortuite e più diverse, in una
regione della mente che avevo abbandonato, se non fuggito.
Fu come se scappando da un luogo, ma in uno spazio la cui
forma faceva sì che il punto più distante da esso fosse questo

169
stesso luogo, ci si ritrovasse improvvisamente dove eravamo
partiti e con grande stupore ci si riconoscesse identici e
totalmente altri.
Avevo voluto fuggire l'ingenuo stato poetico, e avevo
energicamente sviluppato in me ciò che, per universale con-
senso, maggiormente si contrappone all'esistenza e alle pro-
duzioni di questo stato.
Ma forse l'universo dell'intelletto ha la sua curvatura di cui,
se esiste, non possiamo sapere nulla, non sappiamo nulla. Ho
notato, in altre cose mentali, che se possiamo talvolta giun-
gere ai nostri antipodi, siamo poi costretti a tornare indietro.
Non è che una «questione di tempo», poiché ogni nuovo
mutamento può solo avvicinarci all'origine. Sono portato a
ritenere che un uomo che vivesse molto a lungo, serbando una
mente lucida fino alla fine, avrebbe fatto, verso la fine del suo
periplo, il giro completo dei suoi sentimenti, e potrebbe
morire compiuto dopo avere adorato e bruciato, bruciato e
adorato tutto ciò che meritava di esserlo nella sfera della sua
conoscenza. Ne concludo che in genere noi non vediamo, né
siamo altro che frammenti di esistenza, e la nostra vita vissuta
non esaurisce tutta la capacità simmetrica di ciò che ci è
possibile sentire e concepire. Di conseguenza, quando met-
tiamo sul conto di qualcuno i suoi gusti, le sue opinioni, le sue
credenze o le sue negazioni, noi indichiamo solo qualche
aspetto, quello che fino a quel momento fu illuminato dalle
circostanze e che, per quanto non lo si voglia, è e non può
essere che modificabile, - ed anzi, deve esserlo, per il solo
fatto che è stato. Questa «ragione sufficiente» è essenziale: la
mente, in ciò che ha di più suo, non può assolutamente
ripetersi.
Ciò che in esso si ripete non è più la mente; ma la sua
materia, divenuta ciò che sono divenuti i primi tentativi della
nostra mano quando imparavamo a scrivere. Ciò che a poco a
poco si confonde con le nostre funzioni e le nostre capacità
originarie, cessa di essere sensibile per noi quando cessa di
essere senza passato. Per questo ogni ripresa consapevole di
un'idea la rinnova; modifica, arrichisce, semplifica o di-
strugge ciò che riprende; e se anche, in questo recupero, non si

170
trova nulla da mutare in ciò che un tempo avevamo pensato,
questo giudizio che approva e conserva una certa cosa acqui-
sita, forma con essa un fatto che non si era ancora prodotto,
un avvenimento inedito.

Ecco dunque che ancora mi divertivo con sillabe, imma-


gini, similitudini e contrasti. Le forme e i termini che
convengono alla poesia ridivenivano sensibili e frequenti nella
mia mente, e dimenticavo me stesso aspettando da essa quei
preziosi raggruppamenti di termini che ci offrono improvvi-
samente una felice composizione, realizzatasi autonoma-
mente nel corso impuro delle cose mentali. Come una combi-
nazione definita precipita da un composto, così qualche
figura interessante si separa dal disordine o dal fluttuare o
dall'ordinario del nostro gorgoglio interiore.
È un suono puro che si leva nel clamore. È un frammento
perfettamente eseguito di un edificio inesistente. È forse
l'affiorare di un diamante da una massa di «terra blu»:
istante infinitamente più prezioso di ogni altro, e delle
circostanze che lo generano! Suscita una gioia incomparabile e
una tentazione immediata; fa sperare che si troverà nei suoi
dintorni un tesoro di cui esso è il segno e la prova; e questa
esperienza impegna talvolta il suo uomo in un lavoro che può
essere senza limiti.
Molti pensano che una specie di cielo si spalanchi in
quell'istante e che ne discenda un raggio straordinario che
illumina insieme quelle idee finora libere l'una dall'altra, e
che si ignorano a vicenda; ed eccole meravigliosamente unite,
improvvisamente, come se fossero fatte una per l'altra dall'e-
ternità; e tutto ciò senza diretta preparazione, senza lavoro,
grazie a questo fortunato effetto di luce e di certezza.
Ma la sfortuna vuole che questa rivelazione sia molto spesso
un'ingenuità, un errore, una sciocchezza. Non bisogna con-
tare solo sui casi fortuiti: questa maniera miracolosa di
produrre non ci dà alcuna garanzia sul valore di ciò che si
produce. Lo spirito soffia dove vuole, anche sugli stupidi, e
suggerisce loro ciò che possono.

171
Meditando liberamente su tutto ciò, e chiedendomi a volte
che cosa mi piaceva particolarmente immaginare néll'uni-
verso poetico, pensavo ad una certa purezza della forma e
riandavo alla mia idea di ineguaglianza nelle opere, che mi
scandalizza, e perfino mi irrita; forse più di quanto sarebbe
lecito. Cosa c'è di più impuro della mescolanza così frequente
dell'ottimo con il mediocre?
Probabilmente trovo così poche ragioni per scrivere che,
dovendo farlo, e se non ci si accontenta di sensazioni e idee che
ci si scambia tra sé, è necessario considerare lo scrivere come
un problema, interessarsi alla forma, esercitarsi a qualcosa di
perfetto. Ognuno può definirsi il suo canone di perfezione:
alcuni secondo un modello, altri a partire da ragionamenti
personali: l'essenziale è di opporsi al pensiero, di creargli delle
resistenze, e di fissarsi delle condizioni per liberarsi dell'arbi-
trario disordinato con l'arbitrio esplicito e ben limitato. Ci si
illude così di avanzare verso la formazione di un «oggetto» di
consistenza propria, nettamente distinto dal suo autore.
È sorprendente che solo con un lavoro necessariamente
discontinuo si possa ottenere questa continuità e questa uni-
formità o pienezza che sono per me le condizioni di un piacere
assoluto e che devono sovrastare tutte le altre qualità di
un'opera. L'arte si oppone all'intelletto. Il nostro intelletto
non predilige una qualche materia particolare: ammette
tutto; emette tutto. Vive letteralmente di incoerenza; non si
muove che a salti, e subisce o produce balzi smisurati che
spezzano ad ogni istante qualunque direzione indicata. È solo
mediante recuperi che può accumulare fuori di sé, in una
sostanza costante, alcuni elementi della sua azione, scelti per
adattarsi reciprocamente, a poco a poco e tendere all'unità di
qualche composizione ...

Ero libero di fare queste speculazioni, di essere insofferente


verso ciò che attira ed avvince alla poesia la maggior parte di

172
quelli che la amano. Ma venne il momento in cui mi dedicai
nuovamente ad essa, e fu necessario passare alla pratica.

(1937)

Note

l Cfr. "Poesia e pensiero astratto" p. 205.


2 L'aggettivo usato da Valéry significa sia "impertinente" che "non pertinente".

173
Discorso sull'Estetica

Signori, il Vostro Comitato non teme il paradosso, se ha


deciso di far parlare qui - come se si mettesse un'ouverture
di musica leggera all'inizio di un'opera lirica - un semplice
dilettante, in grande imbarazzo di fronte ai più eminenti
rappresentanti dell'Estetica, delegati di tutte le nazioni.
Ma forse quest'atto sovrano, e a prima vista sorprendente,
dei vostri organizzatori, si spiega grazie ad una considera-
zione che vi propongo e che permetterebbe di trasformare il
paradosso della mia presenza parlante in questo luogo, nel
momento solenne dell'apertura dei dibattiti di questo Con-
gresso, in un gesto dal significato e dalla portata più profondi.
Spesso ho pensato che, nello sviluppo di ogni scienza
costituita e già abbastanza lontana dalle proprie origini,
potesse talvolta essere utile, e quasi sempre interessante,
interpellare un mortale fra i mortali, convocare un uomo
sufficientemente estraneo a questa scienza, e chiedergli se ha
qualche idea del fine, dei mezzi, dei risultati, delle possibili
applicazioni di una disciplina, di cui suppongo che conosca il
nome. Ciò che egli risponderebbe non avrebbe, in genere,
nessuna importanza, ma sono certo che queste domande
rivolte ad un individuo che abbia dalla sua solo la semplicità e

175
la buona fede, si rifletterebbero in un certo senso sulla sua
ingenuità, e tornerebbero agli esperti che lo interrogano, a
ridestare in loro certe difficoltà elementari o certe conven-
zioni iniziali, di quelle che si lasciano dimenticare, e che si
cancellano tanto facilmente dalla mente quando si avanza
nelle sottigliezze e nella delicata struttura di una ricerca
svolta ed approfondita con passione.

Una persona che dicesse ad un'altra (con cui intendo


simboleggiare una scienza): Cosa fai? Cosa vuoi? Dove pensi
di andare? E, insomma, chi sei?- obbligherebbe probabil-
mente la mente interrogata a qualche fruttuoso ripensamento
sulle sue intenzioni prime e sui suoi fini, sulle radici e sul
principio motore della sua curiosità e, in definitiva, sulla
sostanza stessa del suo sapere. E forse ciò non è privo di
interesse.
Se è dunque questo, Signori, il ruolo di ingenuo a cui mi
destina il Comitato, sono subito a mio agio, e so cosa vengo a
fare: vengo tra voi ad ignorare pubblicamente.

Vi dichiarerò innanzitutto che il solo termine Estetica mi


ha sempre sinceramente meravigliato, e che produce ancora
su di me un effetto di stupore, se non di timore. Questa parola
fa esitare la mia mente fra l'idea singolarmente seducente di
una «Scienza del Bello» che, da un lato, ci farebbe distinguere
per certo cosa amare, cosa odiare, cosa acclamare, e cosa
distruggere, e che, dall'altro, ci insegnerebbe a produrre per
certo opere d'arte di un valore incontestabile: e insieme a
questa prima idea, l'idea di una «Scienza delle Sensazioni»,
non meno seducente e, forse ancor più seducente della prima.
Se dovessi scegliere fra il destino di essere un uomo che sa
come e perché una determinata cosa è ciò che si suol dire
«bella», e quello di sapere che cos'è sentire, penso proprio che
sceglierei il secondo, col pensiero recondito che questa cono-
scenza, se fosse possibile (e temo proprio che non sia nemmeno
concepibile) mi svelerebbe presto tutti i segreti dell'arte.
Ma, in questo mio imbarazzo, sono soccorso dal pensiero di

176
un metodo tutto cartesiano (visto che bisogna onorare e
seguire Cartesio, quest'anno) che, fondandosi sull'osserva-
zione pura, mi darà dell'Estetica una nozione precisa ed
ineccepibile.

Mi impegnerò a fare un'enumerazione completa ed una


revisione delle più generali, come è consigliato dal Discorso 1 •
Mi pongo (ma lo sono già) fuori dalla cerchia in cui si elabora
l'Estetica, e osservo ciò che ne risulta. Ne risultano moltissime
produzioni di moltissime menti. Mi dedico a rilevarne i temi;
cerco di classificarli, e riterrò che il numero delle mie osserva-
zioni sia sufficiente al mio scopo quando vedrò che non ho più
bisogno di formare nuove classi. Allora decreterò a me stesso
che l'Estetica, in quella data, è l'insieme così riunito ed
ordinato. In verità, può forse essere diversa, e posso forse fare
qualcosa di più sicuro e di più saggio? Ma le cose sicure e sagge
non sono sempre le più opportune né le più chiare, e mi rendo
conto che, per elaborare una nozione di Estetica che mi sia di
qualche utilità, devo ora tentare di riassumere in poche parole
il fine comune di tutti questi prodotti della mente. Il mio
compito è esaurire questa materia immensa... Prendo in
esame,... sfoglio,... E che cosa trovo? Il caso mi offre,
dapprima, una pagina di Geometria pura; un'altra che è
propria della Morfologia biologica. Ecco un gran numero di
libri di Storia. E né l'Anatomia, né la Fisiologia, né la
Cristallografia, né l'Acustica mancano alla raccolta; chi per
un capitolo chi per un paragrafo, non vi è quasi scienza che
non paghi il suo tributo.

E sono ancora ben lungi dall'aver concluso! ... Affronto


l'infinito innumerevole delle tecniche. Dal taglio delle pietre
alla ginnastica delle ballerine, dai segreti delle vetrate al
mistero delle vernici per violino, dai canoni della fuga alla
fusione a cera persa, dalla dizione dei versi alla pittura a
encausto, alla confezione dei vestiti, all'intarsio, al tracciato
dei giardini, - quanti trattati, album, tesi, lavori di ogni
dimensione, epoca e formato! ... L'enumerazione cartesiana

177
diviene illusoria di fronte a questa prodigiosa varietà in cui il
tocco è accanto alla sezione aurea. Sembra non esserci alcun
limite alla proliferazione di ricerche, procedimenti, contri-
buti che - tuttavia - hanno tutti qualche rapporto con
l'oggetto al quale penso, e di cui cerco l'idea chiara. Quasi
scoraggiato, abbandono la spiegazione della miriade di tecni-
che ... Cosa mi rimane da consultare? Due mucchi di impor-
tanza diseguale: uno mi sembra formato da opere in cui la
morale svolge un ruolo preminente. Intravvedo che si tratta
dei rapporti intermittenti fra l'Arte e il Bene, e mi allontano
subito da questo cumulo, attirato da un altro ben più impo-
nente. Qualcosa mi dice che qui si trova la mia ultima spe-
ranza di forgiarmi, con poche parole, una buona definizione
di Estetica ...
Raccolgo allora le mie forze e attacco questo particolare
gruppo che è una piramide di produzioni metafisiche.

Qui Signori, credo che troverò l'origine e il nucleo iniziale


della vostra scienza. Tutte le vostre ricerche, per quanto le si
possa raggruppare, rimandano ad un atto iniziale della curio-
sità filosofica. L'Estetica nacque un giorno da un'osservazione
e da un appetito da filosofo. Questo evento, certo, non fu
affatto accidentale. Era quasi inevitabile che nella sua im-
presa di attacco generale alle cose e di trasformazione sistema-
tica di tutto quel che viene a prodursi nella mente, il filosofo,
procedendo di domanda in risposta, sforzandosi di assimilare
e di ridurre la varietà della conoscenza ad un tipo di espres-
sione coerente che è in lui, si imbattesse in alcune questioni che
non appartengono né alla sfera dell'intelligenza pura, né a
quella della sola sensibilità, e neppure ai campi dell'azione
ordinaria degli uomini; ma che hanno tratti comuni a questi
diversi modi, e li combinano così strettamente che si rese ne-
cessario considerarli a parte, attribuire loro un valore ed un
significato irriducibili, e quindi stabilirne il destino, trovare
loro una giustificazione davanti alla ragione, un fine come
una necessità, nel quadro di un buon sistema del mondo.
All'inizio, e per lungo tempo, l'Estetica così istituita si svi-

178
luppò in abstracto nello spazio del pensiero puro, e fu costruita
per scaglioni, a partire dai materiali grezzi del linguaggio
comune, dal bizzarro e industrioso animale dialettico che fa
del suo meglio per scomporli, ne isola gli elementi che crede
semplici e si prodiga ad edificare, accomunando e separando
gli intelligibili, la sede della vita speculativa.
Alla radice dei problemi che essa aveva preso come propri,
la nllscente Estetica considerava un certo tipo di piacere.
Il piacere, come il dolore (che accosto l'uno all'altro solo per
conformarmi all'uso retorico, ma le cui relazioni, se esistono,
devono essere ben più sottili di una semplice « contrapposizio-
ne») sono sempre elementi di disturbo in una costruzione
intellettuale. Sono indefinibili, incommensurabili, comunque
incomparabili. Offrono il modello stesso di quella confusione
o di quella dipendenza reciproca fra l'osservatore e la cosa
osservata che sta facendo la disperazione della fisica teorica 2 •
Tuttavia, il piacere di tipo comune, il fatto puramente
sensoriale, aveva ricevuto abbastanza facilmente una fun-
zione onorevole e limitata; gli era stato assegnato un ruolo
genericamente utile nel meccanismo della conservazione del-
l'individuo, e di grande importanza in quello della propaga-
zione della razza; cosa che non metto in dubbio. Insomma, il
fenomeno Piacere veniva salvato, agli occhi della ragione, con
degli argomenti finalistici un tempo piuttosto solidi. ..
Ma c'è piacere e piacere. Nessun piacere si lascia ricondurre
tanto facilmente ad un posto ben. determinato in un buon
ordinamento delle cose. Ve ne sono certi che non servono a
nulla nell'economia della vita, e che non possono, d'altra
parte, essere visti come semplici aberrazioni di una sensibilità
necessaria all'essere vivente. Né l'utilità né l'abuso possono
spiegarli. E non è tutto. Questo tipo di piacere è inseparabile
da sviluppi che superano l'ambito della sensibilità, e la
collegano sempre alla produzione di modificazioni affettive,
di quelle che si prolungano e si arricchiscono nelle vie
dell'intelletto, e che portano talvolta ad intraprendere azioni
esterne sulla materia, sui sensi e sulla mente altrui, esigendo
l'esercizio combinato di tutte le facoltà umane.

179
Questo è il punto. Un piacere che talvolta si approfondisce
fino a comunicare l'illusione di una comprensione intima
dell'oggetto che lo causa; un piacere che stimola l'intelli-
genza, la sfida, le fa amare la sua stessa sconfitta; e ancora, un
piacere che può suscitare lo strano bisogno di produrre, o di
riprodurre la cosa, il fatto, l'oggetto e lo stato al quale sembra
legato, e che di-çiene così una fonte di attività senza un
termine certo, capace di imporre una disciplina, uno zelo, dei
tormenti a tutta una vita, e di riempirla - se non addirittura
di farla straripare - propone al pensiero un enigma singolar-
mente specioso che non poteva sottrarsi al desiderio e alla
morsa dell'idra metafisica. Nulla di più degno della volontà di
potenza del Filosofo che quest'ordine di fatti in cui egli trova
il sentire, il capire, il volere e il fare legati da un legame
essenziale, che mostrava un'evidente reciprocità fra questi
termini, e si opponeva allo sforzo scolastico, se non carte-
siano, di divisione della difficoltà. L'unione di una forma, di
una materia, di un pensiero, di una azione e di una passione;
l'assenza di un fine determinato, e di ogni compimento che
potesse esprimersi in nozioni finite: un desiderio e il suo
soddisfacimento che si rigeneravano l'uno per mezzo dell'al-
tro; questo desiderio che diveniva creatore e quindi causa di se
stesso, e che si distaccava talvolta da ogni creazione partico-
lare e da ogni soddisfazione ultima, per rivelarsi desiderio di
creare per creare, - tutto ciò animò lo spirito di metafisica:
esso dedicò la stessa attenzione che dedica a tutti gli altri
problemi che suole crearsi per esercitare la propria funzione
di ricostruttore della conoscenza in forma universale.
Ma una mente che mira a questo grado sublime, dove spera
di stabilirsi in stato di supremazia, dà forma a quel modo che
crede soltanto di rappresentare. È veramente troppo potente
per vedere solo ciò che si vede. Essa è indotta a scostarsi
insensibilmente dal suo modello, di cui rifiuta il vero volto,
che le suggerisce solo il caos, il disordine istantaneo delle cose
osservabili: essa è tentata di trascurare le singolarità e le
irregolarità che si esprimono faticosamente e che tormentano
l'uniformità distributiva dei metodi. Analizza logicamente

180
ciò che viene detto. Vi pone il problema e trae dall'avversario
stesso ciò che questi non sapeva di pensare. Gli mostra una
sostanza invisibile sotto il visibile, che è accidente; gli tramuta
il suo reale in apparenza; si diverte a creare i termini che
mancano al linguaggio per soddisfare gli equilibri formali
delle proposizioni: se manca qualche soggetto, lo fa generare
da un attributo; se la contraddizione si fa minacciosa, si
insinua nel gioco la distinzione, salvando la partita ...
E tutto ciò va bene, - fino ad un certo punto.
Così, davanti al mistero del piacere di cui parlo, il Filosofo
giustamente preoccupato di trovargli un posto categorico, un
senso universale, una funzione intelligibile; sedotto, ma messo
in difficoltà dalla mescolanza che vi scopriva di voluttà, di
fecondità e di un'energia paragonabile a quella che si spri-
giona dall'amore; non potendo separare, in questo nuovo
oggetto del suo sguardo, né la necessità dall'arbitrario, né la
contemplazione dall'azione, né la materia dallo spirito,
- non venne meno però alla sua volontà di ridurre con i
consueti mezzi di esaustione e di divisione progressiva questo
mostro della Favola Intellettuale, sfinge o grifone, sirena o
centauro, in cui la sensazione, l'azione, il sogno, l'istinto, le
riflessioni, il ritmo e la dismisura si compongono tanto
intimamente quanto gli elementi chimici nei corpi viventi; .
che talvolta ci viene offerto dalla natura, ma come per caso, e
altre volte, formato a costo di immensi sforzi dall'uomo, che
ne fa il prodotto di tutto quanto può spendere di spirito, di
tempo, di ostinazione, e - insomma - di vita.
La Dialettica, inseguendo con passione questa preda mera-
vigliosa, la incalzò, la braccò, la ridusse alle strette nel
boschetto delle Nozioni Pure.
È lì che essa cç>lse l'Idea del Bello.
Ma la caccia dialettica è una caccia magica. Nella foresta
incantata del Linguaggio, i poeti vanno espressamente per
perdervisi, e inebriarvisi di smarrimento, cercando gli incroci
di significato, gli echi imprevisti, gli incontri strani; non
temono né le deviazioni, né le sorprese, né le tenebre; - ma il
cacciatore che si entusiasma ad inseguirvi la «verità», a

181
seguire un cammino unico e continuo, di cui ogni elemento sia
il solo da prendere per non perdere né la pista, né il bottino
raccolto lungo il percorso, rischia di catturare, alla fine
soltanto la propria ombra. Gigantesca, talvolta, ma pur
sempre ombra.
Era fatale, probabilmente, che l'applicazione dell'analisi
dialettica a dei problemi che non si circoscrivono in un campo
ben determinato, che non si esprimono in termini esatti, non
producesse che delle «verità» interne alla cerchia convenzio-
nale di una dottrina, e che delle belle realtà non sottomesse
venissero sempre a turbare la sovranità del Bello Ideale e la
serenità della sua definizione.
Non dico che la scoperta dell'Idea del Bello non sia stata un
evento straordinario e che non abbia generato delle conse-
guenze positive, di importanza considerevole. Tutta la Storia
dell'Arte occidentale mostra ciò che le si dovette, per più di
venti secoli, in fatto di stili e di opere di prim'ordine. Il
pensiero astratto si è qui dimostrato non meno fecondo di
quanto sia stato nella costruzione della scienza. Ma questa
idea tuttavia portava con sé quel difetto originario ed inevita-
bile a cui ho appena fatto cenno.
Purezza, generalità, rigore, logica erano in questa materia
virtù generatrici di paradossi, tra i quali ecco il più ammire-
vole: l'Estetica dei metafisici esigeva che si separasse il Bello
dalle cose belle/ ...
Ora, se è vero che non esiste alcuna scienza del particolare,
non vi è azione né produzione che non sia al contrario
essenzialmente particolare, e non esiste alcuna sensazione che
sussista nell'universale. Il reale respinge l'ordine e l'unità che
il pensiero vuole imporgli. L'unità della natura appare solo in
sistemi di segni creati espressamente a questo scopo, e l'uni-
verso non è che un'invenzione più o meno comoda.
Il piacere, insomma, esiste solo nell'istante, e non vi è nulla
di più individuale, di più incerto, di più incomunicabile. I
giudizi che se ne danno non permettono alcun ragionamento,
poiché lungi dall'analizzare il loro oggetto, al contrario vi
aggiungono in realtà un attributo di indeterminatezza: dire
che un oggetto è bello, significa dargli valore di enigma.

182
Ma non vi sarà neppure modo di parlare di un bell'oggetto,
visto che abbiamo isolato il Bello dalle cose belle. Non so se si è
mai considerata a sufficienza questa conseguenza sorpren-
dente: la deduzione di un'Estetica Metafisica, che tende a
sostituire una conoscenza intellettuale all'effetto immediato e
singolare dei fenomeni ed alla loro risonanza specifica, tende
a dispensarci dall'esperienza del Bello, quale lo incontriamo
nel mondo sensibile. Ora che si è ottenuta l'essenza della
bellezza, che se ne sono scritte le formule generali, che la
natura insieme all'arte sono state esaurite, superate, sostituite
con il possesso del principio, e con la certezza dei suoi
sviluppi, tutte le opere e tutti gli aspetti che ci affascinavano
possono anche sparire o servire solo come esempi, mezzi
didattici, da mostrare al momento.

Questa conseguenza non viene confessata, - non ne du-


bito - , poiché non è affatto confessabile. Nessuno dei dialet-
tici dell'Estetica converrà di non aver più bisogno né degli
occhi, né delle orecchie al di fuori delle occasioni della vita
pratica. E ancora, nessuno di essi pretenderà di potersi
divertire, grazie alle sue formule, ad eseguire - o almeno a
definire con la massima precisione - capolavori incontesta-
bili, senza mettervi di sé altro che l'applicazione della propria
mente ad una specie di calcolo. Né tutto è immaginario in
questa supposizione. Sappiamo che sogni di questo genere
hanno assillato più di un ingegno, e non dei meno potenti; e
sappiamo, d'altra parte, quanto la critica, un tempo, conside-
rando infallibili i propri principi, abbia usato e abusato, nella
valutazione delle opere, dell'autorità che da essi credeva di
trarre. Il fatto è che non vi è tentazione' più grande di quella di
emettere giudizi definitivi nelle materie incerte.
Il solo proposito di una «Scienza del Bello» doveva fatal-
mente crollare davanti alla varietà delle bellezze prodotte o
ammesse nel mondo e nel tempo. Trattandosi di piacere, non
vi sono che questioni di fatto. Gli individui godono come
possono e di ciò che possono, e la malizia della sensibilità è
infinita. Essa ignora i consigli meglio fondati, quand'anche

183
fossero il frutto delle osservazioni più sagaci e dei ragiona-
menti più sottili.
Cosa vi è di più giusto, ad esempio, e di più gratificante per
la mente della celebre regola delle unità, così conforme alle
esigenze dell'attenzione e così favorevole alla solidità, alla
compattezza dell'azione drammatica? 3
Ma uno Shakespeare, tra gli altri, la ignora e trionfa. A
questo punto mi permetterò di esporre di sfuggita un'idea che
mi viene, e che vi riporto, così come mi viene, allo stato
fragile di fantasia: Shakespeare, tanto libero nel teatro, ha
composto, d'altro canto, illustri sonetti, fatti secondo tutte le
regole, e visibilmente molto curati; chissà se questo gran-
d'uomo non attribuisse un maggior valore a queste liriche
studiate, che alle tragedie e alle commedie che improvvisava,
modificava sulla scena stessa, e per un pubblico occasionale?
Ma il disprezzo o l'abbandono che finirono per estenuare la
Regola degli Antichi, non significa affatto che i precetti che la
compongono siano privi di valore; ma soltanto che si attri-
buiva loro un valore che era puramente immaginario, quello
cioè di condizioni assolute dell'effetto più desiderabile di
un'opera. Per «effetto più desiderabile» (è una definizione di
circostanza) intendo quello prodotto da un'opera in cui
l'impressione immediata che se ne riceve, lo choc iniziale, e il
giudizio che se ne dà con calma, alla riflessione, all'esame
della struttura e della forma, si oppongano fra di loro il meno
possibile; ma in cui anzi si accordino, e in cui l'analisi e lo
studio confermino e accrescano la soddisfazione del primo
contatto.
Accade a molte opere (ed è anche il fine limitato di certe
arti) di non poter dare altro che effetti di prima intenzione. Se
ci si sofferma su di esse, si scopre che esistono solo a costo di
qualche incongruenza o di qualche assurdità, o di qualche
artificio, che uno sguardo prolungato, delle domande indi-
screte, una curiosità un po' troppo spinta metterebbero in
pericolo. Vi sono monumenti di architettura che nascono
semplicemente dal desiderio di innalzare uno scenario im-
pressionante, che sia visto da un punto prescelto; e questa

184
tentazione induce abbastanza spesso il costruttore a sacrifi-
care certe qualità, la cui assenza e le cui mancanze appaiono
chiare se ci si allontana anche di poco dal punto favorevole
previsto per l'osservazione. Il pubblico confonde troppo
spesso l'arte limitata della scenografia, le cui condizioni sono
stabilite in rapporto ad un luogo ben definito e circoscritto, e
che richiedono un'unica prospettiva ed una particolare illu-
minazione, con l'arte completa in cui la struttura, le rela-
zioni, rese sensibili, della materia, delle forme e delle forze
sono dominanti, riconoscibili da ogni punto dello spazio, e
introducono in un certo senso nella visione, una qualche
presenza del sentimento della massa, della potenza statica,
dello sforzo e degli antagonismi muscolari che ci fanno
immedesimare nell'edificio, grazie ad una certa coscienza del
nostro intero corpo.
Chiedo scusa per questa digressione. Ritorno all'Estetica
che, come dicevo, ha ricevuto dalla realtà forse più smentite
che occasioni per credere di poter dominare il gusto, valutare
definitivamente il merito delle opere, imporsi agli artisti come
al pubblico, e obbligare la gente ad amare ciò che non amava
e a detestare ciò che amava.
Ma soltanto questa sua pretesa fu distrutta. Essa valeva più
del suo sogno. Il suo errore, a mio parere, stava esclusivamente
in se stessa e nella sua vera natura; nel suo vero valore e nella
sua funzione. Si credeva universale, ma al contrario, era mera-
vigliosamente se stessa, cioè originale. Cosa c'è di più originale
che opporsi alla maggior parte delle tendenze, dei gusti e delle
produzioni esistenti o possibili, condannare l'India e la Cina, il
«gotico» e il moresco, e ripudiare quasi tutta la ricchezza del
mondo per volere e per produrre altro: un oggetto sensibile di
piacere che fosse in accordo perfetto con i ripensamenti ed i
giudizi della ragione, e un'armonia dell'istante immediato con
ciò che la durata scopre con più calma?
All'epoca (e non è poi così remota) in cui tra i poeti sono
sorti grandi dibattiti tra quelli che propugnavano i versi
cosi detti «liberi» e quelli che sostenevano i versi della tradi-
zione, sottoposti a diverse regole convenzionali, mi dicevo a

185
volte che la pretesa arditezza degli uni, la pretesa servitù degli
altri erano solo una questione di pura cronologia, e che se
avessimo avuto - fino ad allora - soltanto la libertà proso-
dica, e se avessimo visto improvvisamente alcune teste strava-
ganti inventare la rima e l'alessandrino a cesura, avremmo
gridato alla follia o all'intenzione di beffarsi del lettore ... È
abbastanza facile, nelle arti, immaginare di invertire gli
antichi ed i moderni, considerare Racine giunto un secolo
dopo Victor Hugo ...
La nostra Estetica rigorosamente pura mi pare dunque
un'invenzione che si ignora in quanto tale, e si ritiene una
deduzione invincibile da qualche principio evidente. Boileau
credeva di seguire la ragione: era insensibile a tutta la
bizzarreria e alla particolarità delle norme. Cosa vi è di più
capriccioso della proscrizione dello iato? Cosa di più sottile
della giustificazione dei vantaggi della rima?
Osserviamo che non vi è nulla di più naturale e forse di più
inevitabile che prendere ciò che pare semplice, evidente e
generale per qualcosa di diverso dal risultato locale di una
riflessione personale. Tutto ciò che si crede universale è un
effetto particolare. Ogni universo che ci illudiamo di formare,
corrisponde in realtà ad un punto unico, e ci racchiude.
Ma, ben lungi dal negare l'importanza dell'Estetica ragio-
nata, le riservo, al contrario, un ruolo positivo e della
massima conseguenza reale. Un'Estetica nata dalla riflessione
e dalla volontà costante di comprensione dei fini dell'arte, che
spinge le proprie pretese fino a proibire certi mezzi, o a
prescrivere certe condizioni per la fruizione come per la
produzione delle opere, può essere ed è stata in realtà di
grandissimo aiuto a certi artisti o a certe famiglie di artisti, a
titolo di contributo, di formulario di una certa arte (e non di
ogni arte). Essa fissa delle leggi sotto le quali è possibile
ordinare le numerose convenzioni e da cui si possono far
derivare le decisioni particolari che un'opera riunisce e coor-
dina. Formule siffatte possono, d'altronde, avere in certi casi
una virtù creatrice, suggerire idee che mai avremmo avuto
senza di esse. La restrizione è inventiva almeno quanto può

186
esserlo l'eccesso delle libertà. Non arriverò ad affermare con
Joseph de Maistre che tutto ciò che ostacola l'uomo lo forti-
fica. De Maistre forse non pensava che possono esservi scarpe
·troppo strette. Ma, trattandosi di arti, mi risponderebbe,
forse giustamente, che scarpe troppo strette ci farebbero
inventare danze del tutto nuove.
È evidente che considero ciò che viene chiamata Arte
classica, e che è l'Arte accordata all'Idea del Bello, come una
singolarità e non certo come la forma d'Arte più generale e più
pura. Non dico certo che questo non sia affatto il mio
sentimento personale; ma a questa preferenza non dò altro
valore che quello di essere mia.
Il termine di partito preso che ho impiegato, significa nelle
mie intenzioni, che le regole elaborate dal teorico, il lavoro di
analisi concettuale che egli ha compiuto col proposito di
passare dal disordine dei giudizi all'ordine, dal fatto al diritto,
dal relativo all'assoluto, e di situarsi in una posizione dogma-
tica, nel punto più elevato della coscienza del Bello, diven-
gono utilizza bili nella pratica dell'Arte, in qualità di conven-
zione scelta tra altre egualmente possibili, con un atto non
obbligato, - e non sotto la pressione di una necessità intellet-
tuale ineluttabile, alla quale non ci si può sottrarre, una volta
che si è capito di cosa si tratta. Perché ciò che costringe la
ragione non costringe mai altri che essa.
La ragione è una dea che crediamo essere sempre vigile, ma
che in realtà dorme in qualche grotta della nostra mente: essa
ci appare ogni tanto per invitarci a calcolare le diverse
probabilità delle conseguenze delle nostre azioni. Ci suggeri-
sce, di tanto in tanto (poiché la legge di queste apparizioni
della ragione nella nostra coscienza è del tutto irrazionale), di
simulare una perfetta uniformità dei nostri giudizi, una
distribuzione di previsioni esente da preferenze segrete, un
bell'equilibrio di argomenti, e tutto ciò esige da noi ciò che
più ripugna alla nostra natura, - la nostra assenza. Questa
augusta Ragione vorrebbe che noi cercassimo di identificarci
con il reale al fine di dominarlo, imperare parendo; ma noi
stessi siamo reali (o nulla lo è), e lo siamo soprattutto

187
nell'azione, cosa che esige una tendenza, c10e una inegua-
glianza, cioè una sorta di ingiustizia, il cui principio, quasi
invincibile, è la nostra persona, che è singolare e diversa da
tutte le altre, e ciò è contrario alla ragione. La ragione ignora
o assimila gli individui che, talvolta, 1a ripagano abbondante-
mente. Si occupa solo di tipi e di confronti sistematici, di
gerarchie ideali dei valori, di enumerazioni di ipotesi simme-
triche, e tutto ciò, la cui formazione la definisce, ha luogo nel
pensiero, e non altrove. Ma il lavoro dell'artista, anche nella
parte tutta mentale di questo lavoro, non può ridursi a delle
operazioni di pensiero direttivo. Da una parte, la materia, i
mezzi, il momento stesso, e una schiera di accidenti (che
caratterizzano il reale, almeno per il non-filosofo) introdu-
cono nella fabbricazione dell'opera una quantità di condi-
zioni che non solo immettono l'imprevisto e l'indeterminato
nel dramma della creazione, ma concorrono persino a ren-
derlo razionalmente inconcepibile, poiché lo trascinano
nell'ambito delle cose, dove si fa cosa; e da pensabile, diviene
sensibile. D'altra parte, che lo voglia o meno, l'artista non può
assolutamente staccarsi dal sentimento dell'arbitrario. Egli
procede dall'arbitrario verso una certa necessità, e da un certo
disordine verso un certo ordine; e non può fare a meno della
sensazione costante di questo arbitrario e di questo disordine,
che si oppongono a ciò che gli nasce fra le mani e che gli
sembra necessario e ordinato. È questo contrasto che gli fa
sentire che sta creando, poiché non può dedurre ciò che gli
viene da ciò che ha. Per questo la sua necessità è completa-
mente diversa da quella del logico. Essa sta tutta nell'istante
di questo contrasto, e riceve la sua forza dalle proprietà di
questo istante di risoluzione, che si tratterà di ritrovare in
seguito, o di trasporre o di prolungare secundum artem.
La necessità del logico risulta da una certa impossibilità di
pensare, che colpisce la contraddizione: essa ha per fonda-
mento la conservazione rigorosa delle convenzioni di nota-
zione - delle definizioni e dei postulati. Ma ciò esclude
dall'ambito dialettico tutto ciò che è indefinibile, o mal
definibile, tutto ciò che non è essenzialmente linguaggio, né è

188
riducibile a espressioni tramite il linguaggio. Non vi è con-
traddizione senza dizione, ossia al di fuori del discorso. Il
discorso è dunque un fine per il metafisico, e non è altro che
un mezzo per l'uomo che mira a delle azioni. Essendosi
dapprima occupato del Vero, nel quale ha riposto ogni suo
diletto, e che riconosce dalla mancanza di contraddizione, il
metafisico, quando poi scopre l'Idea del Bello e vuole svilup-
parne la natura e le conseguenze, non può non ricordarsi della
ricerca della sua Verità; ed eccolo che persegue sotto il nome
di Bello, qualche Vero di seconda serie: inventa, senza
esitazioni, un Vero del Bello; e così facendo, come ho già
detto, separa il Bello dai momenti e dalle cose, fra cui i bei
momenti e le cose belle ...
Quando ritorna alle opere d'arte, è quindi portato a
giudicarle secondo dei principi, perché la sua mente è adde-
strata a cercare la conformità. Deve quindi per prima cosa
tradurre la sua impressione in parole, e poi giudicherà sulle
parole, speculerà sull'unità, la varietà e altri concetti. Pone
quindi nell'ordine del piacere l'esistenza di una Verità, cono-
scibile e riconoscibile da chiunque: decreta l'eguaglianza
degli uomini davanti al piacere, dichiara che vi sono piaceri
veri e falsi, e che si possono formare dei giudici per enunciare
il diritto con assoluta infallibilità.
Non esagero affatto. Non vi è dubbio che la fede incrolla-
bile nella possibilità di risolvere il problema della soggettività
dei giudizi in materia d'arte e di gusti non sia stata più o meno
radicata nel pensiero di tutti quelli che hanno sognato,
tentato o realizzato la costruzione di un'Estetica dogmatica.
Confessiamo, Signori, che nessuno di noi sfugge a questa
tentazione e scivola abbastanza spesso dal singolare all'uni-
versale, affascinato dalle promesse del demone dialettico.
Questo seduttore ci fa desiderare che tutto si riduca e si
compia in termini categorici, e che il Verbo sia alla fine di
ogni cosa. Ma bisogna rispondergli con questa semplice
osservazione: l'azione stessa del Bello su qualcuno consiste nel
render! o muto.
Muto, innanzitutto; ma osserveremo presto questa notevole

189
conseguenza: se cerchiamo di descrivere, senza la mm1ma
intenzione di giudicare, le nostre impressioni immediate
dell'evento che ha colpito la nostra sensibilità, questa descri-
zione esige da noi l'uso della contraddizione. Il fenomeno ci
obbliga a espressioni scandalose: la necessità dell'arbitrario;
la necessità per mezzo dell'arbitrario.
Poniamoci dunque nello stato adatto: quello in cui ci
trasporta un'opera che sia di quelle che ci costringono a
desiderarle tanto più, quanto più le possediamo (non c'è che
da consultare la nostra memoria per trovarvi, lo spero, un
modello di tale stato). Ci troviamo allora in una strana
mescolanza, o meglio, in una curiosa alternanza di sentimenti
nascenti la cui presenza o il cui contrasto mi sembrano
caratteristici.
Sentiamo, da un lato, che la fonte o l'oggetto della nostra
volontà ci si addice a tal punto che non riusciamo a concepirlo
diversamente. In certi casi di supremo appagamento, sen-
tiamo persino che ci stiamo trasformando profondamente,
per rendere la nostra sensibilità generale capace di un diletto
così pieno e assoluto.
Ma sentiamo anche, non meno fortemente, e come se grazie
ad un altro senso, che il fenomeno che causa e sviluppa in noi
questo stato, e ci infligge la sua potenza invisibile, avrebbe
potuto non essere; che avrebbe persino dovuto non essere, e
che si colloca nell'improbabile.
E mentre il nostro piacere o la nostra gioia è forte come un
fatto, l'esistenza e la formazione del mezzo, dello strumento
generatore delle nostre sensazioni ci sembrano accidentali.
Questa esistenza ci pare l'effetto di un caso felice, di un'occa-
sione favorevole, di un dono gratuito della Fortuna. Ed è qui
che, notiamolo, si manifesta un'analogia particolare fra l'ef-
fetto di un'opera d'arte e quello di un aspetto della natura,
dovuto a qualche irregolarità geologica, ad una combinazione
passeggera di luce e vapore acqueo nel cielo, ecc.
Talvolta, non riusciamo ad immaginare che un uomo come
noi sia l'autore di un dono così straordinario, e la gloria che gli
accordiamo è l'espressione della nostra impotenza. Ora, que-

190
sto sentimento contraddittorio esiste al più alto grado nell'ar-
tista: è una condizione di ogni opera. L'artista vive nell'inti-
mità del suo arbitrario e nell'attesa della sua necessità. La
ricerca in ogni istante; la ottiene dalle circostanze più impre-
viste, più insignificanti, e non vi è alcuna proporzione, alcuna
uniformità di relazione tra la grandezza dell'effetto e l'impor-
tanza della causa. Attende una risposta assolutamente precisa
(poiché deve generare un atto di esecuzione) ad una domanda
essenzialmente incompleta: desidera l'effetto che produrrà, in
lui, ciò che da lui può nascere. A volte il dono precede la
domanda e sorprende un uomo che si ritrova appagato senza
esservisi preparato. Questo caso di grazia improvvisa è quello
che, meglio di ogni altro, manifesta il contrasto di cui si è
appena parlato fra le due sensazioni che accompagnano uno
stesso fenomeno; ciò che ci sembra aver potuto non essere ci si
impone con la stessa forza di ciò che non poteva non essere e
che doveva essere ciò che è.
Vi confesso, Signori, che non ho mai potuto spingermi oltre
nelle mie riflessioni su questi problemi, a meno di arri-
schiarmi al di là delle osservazioni che potevo fare su di me.
Se mi sono dilungato sulla natura dell'Estetica propria-
mente filosofica, è perché essa ci offre il modello stesso di uno
sviluppo astratto applicato o imposto ad una varietà infinita
di impressioni concrete e complesse. Ne consegue che essa non
parla di ciò di cui crede di parlare, e di cui non è dimostrato,
d'altronde, che si possa parlare. Tuttavia, fu incontestabil-
mente creatrice. Che si tratti delle regole del teatro, di quelle
della poesia, dei canoni dell'architettura, della sezione aurea,
della volontà di stabilire una Scienza dell'Arte o comunque di
istituire dei metodi e, in un certo senso, di organizzare un
terreno conquistato, o che si crede definitivamente conqui-
stato, essa ha sedotto i più grandi filosofi. Perciò mi è capitato
un tempo di confondere queste due razze, e questo mio
travisamento non ha mancato di procurarmi severi rimpro-
veri. Ho creduto di vedere in Leonardo un pensatore; in
Spinoza, una sorta di poeta o di architetto. Certamente mi
sono sbagliato. Mi sembrava però che la forma d'espressione

191
esteriore di un essere fosse a volte meno importante della
natura del suo desiderio e del suo modo di concatenare i
pensieri.
Sia come sia, non ho bisogno di aggiungere che non ho
trovato la definizione che cercavo. Ma non mi dispero per
questo risultato negativo. Se avessi trovato questa definizione,
sarei forse stato tentato di negare l'esistenza di un oggetto che
le corrispondesse, e di pretendere che l'Estetica non esistesse.
Ma ciò che è indefinibile non è necessariamente negabile.
Nessuno, che io sappia, si è mai vantato di definire la
Matematica, e nessuno dubita della sua esistenza. Alcuni si
sono cimentati a definire la vita: ma l'esito del loro sforzo fu
sempre pressocché vano: non per questo si può negare la vita.
L'Estetica esiste: e vi sono anche gli estetologi. E ad essi
proporrò, in conclusione, qualche consiglio, delle idee, che
potranno benissimo considerare come quelle di un ignorante o
di un ingenuo, o di una felice combinazione di entrambi.
Ritorno al cumulo di libri, di trattati o di memorie che ho
considerato ed esplorato poco fa, e nel quale ho trovato la
varietà che sapete. Non li si potrebbe classificare in questo
modo?
Costituirò un primo gruppo, che battezzerò Estesica, e vi
metterò tutto quel che si riferisce allo studio delle sensazioni;
ma più in particolare vi troveranno posto i lavori che hanno
per oggetto le eccitazioni e le reazioni sensibili che non hanno
ruolo fisiologico uniforme e ben definito.
Sono, infatti, le modificazioni sensoriali di cui l'essere
vivente può fare a meno, e il cui insieme (che include, a titolo
di rarità, le sensazioni indispensabili o utilizzabili) è nostro
patrimonio.
È in esso che consiste la nostra ricchezza. Tutto il lusso delle
nostre arti viene attinto dalle sue infinite risorse.
Un altro mucchio riunirebbe tutto ciò che concerne la
produzione delle opere; e un'idea generale dell'azione umana
completa, dalle sue radici psichiche e fisiologiche fino ai suoi
interventi sulla materia o sugli individui, permetterebbe di
suddividere questo secondo gruppo, che chiamerò Poetica, o

192
meglio Poietica. Da un lato, lo studio dell'invenzione e della
composizione, il ruolo del caso, quello della riflessione, quello
dell'imitazione; quello della cultura e dell'ambiente; dall'al-
tro, l'esame e l'analisi di tecniche, procedimenti, strumenti
materiali, mezzi e ausili.
Questa classificazione è piuttosto grossolana. È anche in-
sufficiente. Occorre almeno un terzo mucchio dove verreb-
bero accumulate le opere che trattano di problemi in cui la
mia Estesica e la mia Poietica si accavallano.
Ma quest'osservazione che faccio a me stesso mi fa temere
che il mio proposito sia illusorio, e sospetto che ognuna delle
comunicazioni che seguiranno ne dimostrerà l'inanità.
Cosa mi rimane dall'aver saggiato per qualche istante il
pensiero estetico, e posso almeno riassumermi - in man-
canza di un'idea distinta e risolutrice - la molteplicità delle
mie esitazioni? Questo ritorno sulle mie riflessioni non mi dà
null' altro che proposizioni negative, risultato tutto sommato
considerevole. Non esistono forse numeri che l'analisi defini-
sce solo per negazione?
Ecco dunque cosa mi dico: esiste una forma di piacere che
non si spiega; che non si lascia circoscrivere, che non resta
confinata nell'organo del senso da cui nasce, e nemmeno nel
campo della sensibilità; che differisce per natura o per
occasione, intensità, importanza e rilievo secondo le persone,
le circostanze, le epoche, la cultura, l'età e l'ambiente; che
spinge degli individui distribuiti come per caso nell'insieme di
un popolo ad azioni senza una causa universalmente valida, e
in vista di fini incerti; e queste azioni generano prodotti di
varia natura i cui valori d'uso e di scambio dipendono ben
poco da ciò che sono. Infine, ultima negativa: tutte le fatiche
affrontate per definire, regolamentare, regolarizzare, misu-
rare, consolidare o assicurare questo piacere e la sua produ-
zione sono state, fino ad ora, vane ed infruttuose; ma poiché
occorre che tutto, in questo campo, sia impossibile da circo-
scrivere, esse sono state vane solo in modo imperfetto, e il loro
insuccesso non ha mancato di essere, talvolta, curiosamente
creatore e fecondo.

193
Non oso dire che l'Estetica sia lo studio di un sistema di
negazioni, benché vi sia un pizzico di verità in questa
affermazione. Se si prendono i problemi di petto e come corpo
a corpo, problemi che sono quello del piacere e quello della
capacità di produrre il piacere, le soluzioni positive, anche i
soli enunciati ci sfidano.
Ci terrei, invece, ad esprimere tutt'altro pensiero. Vedo un
avvenire meravigliosamente vasto e radioso per le vostre
ricerche.
Riflettete: oggi tutte le scienze più sviluppate invocano o
reclamano, anche nelle loro tecniche, il soccorso o il concorso
di considerazioni o di conoscenze il cui studio particolare è di
vostra pertinenza. I matematici non parlano che della bel-
lezza della struttura dei loro ragionamenti e delle loro dimo-
strazioni. Le loro scoperte si sviluppano grazie alla percezione
di analogie formali. Al termine di una conferenza tenuta
all'Istituto Poincaré, Einstein diceva che per completare la
sua costruzione ideale dei simboli era stato obbligato ad
«introdurre alcuni punti di vista propri dell'architettura».
Anche in Fisica, d'altronde, assistiamo alla crisi di quell'i-
magerie che, da tempo immemorabile, presentava la materia
ed il movimento ben distinti; il luogo ed il tempo, ben
riconoscibili e reperibili in ogni scala; e disponeva delle
grandi facilitazioni offerte dal continuo e dalla similitudine.
Ma i suoi poteri d'azione hanno superato ogni previsione, e
oltrepassano tutti i nostri mezzi di rappresentazione figurata,
fanno crollare persino le nostre venerabili categorie. Eppure
la Fisica ha come oggetto fondamentale le nostre sensazioni e
le nostre percezioni. Ma le considera come sostanza di un
universo esterno sul quale possiamo intervenire in qualche
modo, e rifiuta o trascura, fra le nostre impressioni imme-
diate, quelle a cui non può far corrispondere un'operazione
che permetta di riprodurle in condizioni «misurabili», ossia
legate alla permanenza che noi attribuiamo ai corpi solidi. Ad
esempio, il colore non è per un fisico che una circostanza
accessoria; ne trae solo una grossolana indicazione di fre-
quenza. Quanto agli effetti di contrasto, ai complementari, e

194
ad altri fenomeni dello stesso genere, li scarta dalla sua strada.
Si giunge così a questa interessante constatazione: mentre per
il pensiero del fisico l'impressione colorata ha il carattere di
un accidente che si produce ad un tale o talaltro valore di una
serie crescente e indefinita di numeri, l'occhio dello stesso
studioso gli offre un insieme limitato e chiuso di sensazioni che
si corrispondono a due a due, a tal punto che se l'una è data
con una certa intensità ed una certa durata, viene subito
seguita dalla produzione dell'altra. Se qualcuno non avesse
mai visto il verde, gli basterebbe guardare qualcosa di rosso
per conoscerlo.
Mi son chiesto, a volte, pensando alle nuove difficoltà della
fisica, a tutte le creazioni incerte che ogni giorno è costretta a
fare e a rimaneggiare, semi-!:~ntità e semi-realtà, se, dopo
tutto, la retina non potesse avere anch'essa le sue opinioni sui
fotoni, e una sua teoria della luce, se i corpuscoli del tatto e le
meravigliose proprietà della fibra muscolare e la sua innerva-
zione non potessero essere parti in causa di grande importanza
nel processo di edificazione del tempo, dello spazio e della
materia. La Fisica dovrebbe ritornare allo studio della sensa-
zione e dei suoi organi.
Ma tutto ciò non è forse Estesica? E se nell'Estesica introdu-
ciamo infine certe diseguaglianze e certe relazioni, non siamo
allora molto vicini alla nostra indefinibile Estetica? Non vi ho
appena menzionato il fenomeno dei complementari che ci
mostra, nel modo più semplice e comodo ad osservarsi,
un'autentica creazione? Un organo affaticato da una sensa-
zione sembra fuggirla emettendo una sensazione simmetrica.
Si potrebbero trovare, similmente, innumerevoli produzioni
spontanee, che ci si offrono in qualità di complementi di un
sistema d'impressioni avvertito come insufficiente. Non pos-
siamo vedere una costellazione in cielo, che subito vi aggiun-
giamo le linee che ne uniscono gli astri, e non possiamo sentire
dei suoni abbastanza ravvicinati senza farne una successione e
trovar loro un'azione, nei nostri apparati muscolari, che
sostituisca alla pluralità di questi eventi distinti un processo di
generazione più o meno complicato.

195
Sono, queste, altrettante opere elementari. L'Arte, forse, è
fatta solamente dalla combinazione di tali elementi. Il biso-
gno di completare, di rispondere con il simmetrico, o con il
simile, quello di riempire un tempo vuoto o uno spazio nudo,
quello di colmare una lacuna, un'attesa, o di nascondere il
presente sgradevole con immagini favorevoli, sono altrettante
manifestazioni di una facoltà che, moltiplicata dalle trasfor-
mazioni che l'intelletto sa operar~, armata di uno stuolo di
procedimenti e di mezzi mutuati dall'esperienza dell'azione
pratica, ha potuto innalzarsi a quelle grandi opere di pochi
individui che raggiungono, qua e là, il grado più alto di
necessità che la natura umana possa ottenere dal possesso del
suo arbitrario, come in risposta alla varietà stessa e all'inde-
terminatezza di tutto il possibile che è in noi.

(1937)

Note

l All'inizio del Discours de la méthode, infatti, Cartesio si riproponeva di «faire


partout des dénombrements si entiers et des revues si génerales que je fusse assuré de
ne rien omettre» (DESCARTES, Discours de la méthode suivi des méditations métaphy-
siques, Parigi, F1ammarion, 1937, 14).
2 V aléry si riferisce al principio di indeterminazione.
3 La regola delle tre unità di tempo, di spazio, di azione, fondamento del teatro
classico francese.

196
Poesia e Pensiero astratto

Si oppone spesso l'idea di Poesia a quella di Pensiero, e


soprattutto di «Pensiero astratto)). Si dice «Poesia e Pensiero
astratto)) così come si dice il Bene e il Male, il Vizio e la Virtù,
il Caldo e il Freddo. I più credono, senza riflettere, che le
analisi e il lavoro dell'intelletto, gli sforzi di volontà e di
precisione in cui esso impegna la mente, non si accordino con
la naturalezza originaria, la sovrabbondanza d'espressioni, la
fantasia e la grazia che caratterizzano la poesia e la rendono
riconoscibile fin dalle prime parole. Se si scopre della profon-
dità in un poeta, essa ci appare di tutt'altra natura rispetto a
quella di un filosofo o di uno scienziato. Taluni giungono a
pensare che persino la meditazione sulla propria arte, il rigore
del ragionamento applicato alla coltivazione delle rose, non
possono far altro che perdere un poeta; infatti l'oggetto
principale e più affascinante del suo desiderio dev'essere
quello di comunicare la impressione di uno stato nascente (e
felicemente nascente) d'emozione creatrice che, in Virtù della
sorpresa e del piacere, possa indefinitamente sottrarre la
poesia ad ogni riflessione critica ulteriore.
È possibile che questa opinione contenga una parte di
verità, benché la sua semplicità mi faccia sospettare che essa

197
sia d'origine scolastica. Ho l'impressione che abbiamo appreso
e adottato quest'antitesi prima di qualsiasi riflessione e che la
ritroviamo consolidata in noi sotto forma di contrasto ver-
bale, come se rappresentasse una relazione chiara e reale tra
due nozioni ben definite. Bisogna riconoscere che quel perso-
naggio sempre impaziente di concludere che noi chiamiamo
la nostra mente, ha un debole per le semplificazioni di questo
tipo, in quanto le offrono tutte le opportunità di formare un
gran numero di combinazioni e di giudizi, di sviluppare la sua
logica e ampliare le sue risorse retoriche, di fare, insomma, il
suo mestiere di mente nel più brillante dei modi.
Tuttavia questo contrasto classico, e come cristallizzato dal
linguaggio, mi è sempre apparso troppo brutale, e allo stesso
tempo troppo comodo, per non sentirmi spinto ad esaminare
le cose più da vicino.
Poesia, Pensiero astratto. È presto detto, e crediamo subito
di aver espresso qualcosa di sufficientemente chiaro e preciso
per poter proseguire, senza dover ritornare sulle nostre espe-
rienze; per costruire una teoria o avviare una discussione, di cui
questa antinomia, così seducente nella sua semplicità, sarà il
pretesto, l'argomento e la sostanza. Si potrà persino costruire
su questa base una metafisica - o per lo meno una « psicolo-
gia» - e crearsi un sistema della vita mentale, della cono-
scenza, dell'invenzione e produzione delle opere dell'intelletto,
che dovrà necessariamente trovare come conseguenza quella
stessa dissonanza terminologica che gli è servita da avvio ...
Quanto a me, ho la strana e pericolosa mania di volere in
ogni campo iniziare dall'inizio (vale a dire, dal mio inizio
individuale), cosa che si traduce nel ricominciare e ripercor-
rere una strada, come se tanti altri non l'avessero già tracciata
e percorsa ...
Questa è la strada che ci viene offerta o imposta dal
linguaggio.
In ogni problema, e prima di qualsiasi analisi sul conte-
nuto1, mi rivolgo al linguaggio; ho l'abitudine di procedere
alla maniera dei chirurghi che anzitutto si disinfettano le
mani e preparano il campo operatorio. È ciò che definisco

198
ripulitura della situazione verbale. Mi si perdoni questa
espressione che assimila parole e forme del discorso alle mani e
agli strumenti di un operatore.
Si deve, a mio parere, fare attenzione ai primi contatti di
un problema con la nostra mente. Dobbiamo stare attenti alle
prime parole che lo esprimono nel nostro intelletto. Un nuovo
problema appare inizialmente in noi allo stadio infantile;
balbetta; non trova che termini estranei, carichi di valori e
associazioni accidentali; è costretto ad usarli. Ma così, insen-
sibilmente, altera il nostro vero bisogno. Rinunciamo senza
saperlo al nostro problema originario, e finiamo per credere
di esserci scelta un'opinione tutta nostra, dimenticando che
tale scelta non si è operata che su un ventaglio d'opinioni,
prodotto, più o meno cieco, degli altri uomini e del caso. Lo
stesso succede per i programmi dei partiti politici, nessuno dei
quali è (né può essere) quello che corrisponderebbe esatta-
mente alla nostra sensibilità e ai nostri interessi. Se ne
scegliamo uno, a poco a poco diventiamo l'uomo che occorre a
quel programma e a quel partito.
I problemi di filosofia e di estetica sono talmente oscurati
dalla quantità, diversità e antichità delle ricerche, delle
dispute e delle soluzioni che si sono prodotte nell'ambito di un
vocabolario ristrettissimo, utilizzato da ogni autore secondo le
sue tendenze, che l'insieme di quei lavori mi dà l'impressione
di una regione, negli Inferi degli antichi, espressamente
riservata a profondi intelletti. Là Danaidi, Issioni e Sisifi
lavorano eternamente per riempire botti senza fondo, per
risollevare massi che sempre ricadono, cioè per ridefinire la
stessa dozzina di parole le cui combinazioni costituiscono il
tesoro della Conoscenza Speculativa.
Permettetemi di aggiungere un'ultima osservazione ed un
esempio a queste considerazioni preliminari. L'osservazione è
la seguente: avrete certamente notato questo fatto curioso,
che una certa parola, perfettamente chiara quando la sentite
o la usate nel linguaggio corrente, e che non ingenera alcuna
difficoltà quando è inserita nel rapido procedere di una frase
comune, diventa, come per magia, ingombrante, oppone una

199
strana resistenza, elude tutti gli sforzi di definizione non
appena la ritirate dalla circolazione per esaminarla a parte e
le cercate un senso dopo averla sottratta alla sua funzione
momentanea. È quasi comico domandarsi cosa significhi
esattamente un termine che si utilizza ad ogni istante con
piena soddisfazione. Per esempio: colgo al volo la parola
Tempo. Questo termine era assolutamente limpido, preciso,
onesto e fedele nella sua funzione, finché svolgeva il suo
compito in un discorso, ed era pronunciato da qualcuno che
voleva dire qualcosa. Ma eccolo qui, tutto solo, afferrato per
le ali. Si vendica. Ci fa credere di avere più significato di
quanto non abbia funzioni. Non era che un mezzo, ed eccolo
diventato un fine, oggetto di un orribile desiderio filosofico. Si
trasforma in enigma, in abisso, in tormento per il pensiero ...
Lo stesso accade per la parola Vita, e per tutte le altre.
Questo fenomeno facilmente osservabile ha assunto per me
un grande valore critico. D'altra parte me lo sono figurato in
un modo che rappresenta abbastanza bene, per me, la strana
condizione del nostro materiale verbale.
Ogni parola, ognuna delle parole che ci permettono di oltre-
passare tanto rapidamente lo spazio di un pensiero, e di seguire
l'impulso dell'idea che si costruisce da sola la propria espres-
sione, mi sembra una di quelle assi leggere che si gettano su un
fossato, o su un crepaccio di montagna, e che sopportano il
passaggio di un uomo in rapido movimento. Ma che passi senza
far sentire il suo peso e senza soffermarsi- e soprattutto, che
non si diverta a dondolarsi sulla sottile tavola per saggiarne la
resistenza! ... Il fragile ponte subito ondeggia o si rompe, e tutto
precipita nell'abisso. Fate riferimento alla vostra esperienza;
scoprirete che capiamo gli altri, e noi stessi, solo grazie alla
rapidità del nostro passaggio sulle parole. Non bisogna indu-
giare su di esse, pena il vedere il discorso più chiaro decomporsi
in enigmi, in illusioni più o meno sofisticate.
Ma come fare per pensare - intendo dire: per ripensare,
per approfondire ciò che sembra meritare d'essere approfon-
dito - se consideriamo il linguaggio come essenzialmente
provvisorio, come il biglietto di banca o l'assegno il cui

200
«cosiddetto» valore esige l'oblio della loro reale natura, che è
quella di un pezzo di carta in genere sporca? Questa carta è
passata per tante mani. .. Ma le parole sono passate per tante
bocche, per tante frasi, usi ed abusi che occorrono le più
raffinate precauzioni per evitare un'eccessiva confusione nelle
nostre menti, tra ciò che pensiamo e cerchiamo di pensare, e ciò
che il dizionario, gli autori e, del resto, tutto il genere umano,
fin dall'origine del linguaggio, vogliono farci pensare ...
Mi guarderò dunque bene dal fidarmi di ciò che i termini di
Poesia e di Pensiero astratto mi suggeriscono, appena pronun-
ciati. Ma mi rivolgerò a me stesso. Sarà lì che cercherò le vere
difficoltà e le autentiche osservazioni sulla mia condizione
reale; lì troverò il mio razionale e il mio irrazionale; vedrò se
l'opposizione addotta esiste, e in che modo essa esista allo stato
vivente. Confesso che ho l'abitudine di distinguere fra i
problemi dell'intelletto quelli che avrei potuto inventare io
stesso e che esprimono un bisogno realmente sentito dal mio
pensiero, da quelli che sono problemi altrui. Fra questi
ultimi, ve ne sono diversi (diciamo il quaranta per cento) che
mi sembrano inesistenti, nient'altro che apparenze di pro-
blemi: io non li sento. E fra i rimanenti, ve n'è più d'uno che
mi sembra mal enunciato ... Non pretendo di aver ragione.
Dico solo che osservo in me stesso ciò che avviene quando
cerco di sostituire le formule verbali con valori e significati
non verbali, indipendenti dal linguaggio adottato. Trovo in
me degli impulsi e delle immagini primitive, dei prodotti
grezzi dei miei bisogni e delle mie esperienze personali. È la
mia stessa vita che si stupisce, ed è lei che deve fornirmi, se lo
può, le risposte, poiché solo nelle reazioni della nostra esi-
stenza può risiedere tutta la forza, e quasi la necessità, della
nostra verità. Il pensiero che emana da questa vita non si serve
mai con se stesso di certe parole, che gli sembrano valide
soltanto per l'uso esterno: né di certe altre di cui non vede il
fondo, e che possono solo ingannarlo circa la sua potenza e il
suo valore reale.
Ho dunque osservato in me stesso certi stati che posso a
buon diritto definire Poetici, poiché alcuni fra essi si sono alla

201
fine risolti in poesie. Si sono prodotti senza causa apparente, a
partire da un avvenimento qualunque; si sono sviluppati
secondo la loro natura, e in questo modo, mi sono trovato per
un certo lasso di tempo discosto dal mio regime mentale più
frequente. Poi, essendosi concluso il ciclo, sono ritornato a
quel regime di scambi ordinari tra la mia vita e i miei
pensieri. Ma intanto una poesia era stata fatta, il ciclo, al suo
compimento, lasciava qualcosa dietro a sé. Quel ciclo chiuso è
il ciclo di un atto che ha come sollevato e restituito esterior-
mente una potenza di poesia ...
Altre volte ho notato che un incidente non meno insignifi-
cante causava - o sembrava causare- un'escursione com-
pletamente diversa, uno scarto di natura e di risultato del tutto
differente. Ad esempio, un improvviso accostamento di idee,
un'analogia, mi colpiva, come il richiamo di un corno nel cuore
di una foresta fa drizzare l'orecchio e orienta virtualmente tutti
i nostri muscoli coordinandoli verso qualche punto dello spazio
nella profondità del fogliame. Ma, questa volta, invece di una
poesia, era l'analisi di quell'improvvisa sensazione intellettuale
che s'impadroniva di me. Non erano versi che si staccavano più
o meno facilmente dalla mia permanenza in questa fase; ma
una proposizione destinata a incorporarsi alle mie abitudini
mentali, una formula che doveva ormai servire come stru-
mento di ricerche ulteriori. ..
Chiedo scusa se mi espongo così davanti a voi; ma ritengo
sia più utile raccontare quel che si è provato, piuttosto che
simulare una conoscenza indipendente da qualsiasi individuo
ed un'osservazione priva di osservatore. Di fatto, non esiste
teoria che non sia un frammento, accuratamente preparato,
di un'autobiografia.
Non pretendo d'insegnarvi qualcosa. Non vi dirò nulla che
già non sappiate; ma ve lo dirò forse in un ordine diverso. Non
sarò certo io a spiegarvi che un poeta non è sempre incapace di
calcolare la quarta incognita; né che un logico non riesca a
vedere nelle parole altro che concetti, classi e semplici pretesti
a sillogismi.
A questo riguardo, aggiungerò un'idea paradossale: se il

202
logico non potesse essere mai altro che logico, non sarebbe né
potrebbe essere un logico; e se il poeta non fosse mai altro che
poeta, senza la minima speranza di poter astrarre e ragionare,
non lascerebbe dietro di sé alcuna traccia poetica. Penso
sinceramente che se l'uomo non potesse vivere numerose vite
oltre la sua, non potrebbe vivere nemmeno la propria.
La mia esperienza mi ha dunque mostrato che lo stesso io
crea delle figure molto diverse, e diventa logico o poeta
attraverso specializzazioni successive, ciascuna delle quali
rappresenta uno scarto rispetto allo stato puramente disponi-
bile e superficialmente accordato con l'ambiente esterno, che
è poi la condizione normale del nostro essere, lo stato d'indif-
ferenza degli scambi.
Vediamo anzitutto in cosa può consistere quel sommovi-
mento iniziale e sempre accidentale che costruirà in noi lo
strumento poetico, e soprattutto quali sono i suoi effetti. Il
problema si può esprimere in questa forma: la Poesia è un'arte
del Linguaggio; certe combinazioni di parole possono pro-
durre un'emozione che altre non producono, e che chiame-
remo poetica. Che specie d'emozione è questa?
La riconosco in me per la seguente caratteristica: tutti gli
oggetti possibili del mondo ordinario, esteriore o interiore, gli
esseri, gli avvenimenti, i sentimenti e gli atti, pur restando in
apparenza ciò che sono normalmente, si trovano tutt'a un
tratto in una relazione indefinibile, ma meravigliosamente
adeguata ai modi della nostra sensibilità generale. V al e a dire
che quelle cose e quegli esseri conosciuti - o piuttosto le idee
che li rappresentano - cambiano in qualche modo di valore.
Si attraggono fra di loro, si associano in modi completamente
diversi da quelli usuali; si trovano (permettetemi quest'espres-
sione) musicalizzati, risuonando l'uno per mezzo dell'altro, e
come in corrispondenza armonica. L'universo poetico così
definito presenta notevoli analogie con ciò che possiamo
supporre dell'universo del sogno.
Poiché la parola sogno si è introdotta in questo discorso,
accennerò velocemente al fatto che nei tempi moderni, a
partire dal romanticismo, si è prodotta una confusione facil-

203
mente spiegabile fra la nozione di sogno e quella di poesia. Né
il sogno né la fantasticheria sono necessariamente poetici;
possono esserlo: ma figure formate dal caso non sono che per
caso figure armoniche.
Tuttavia i ricordi dei nostri sogni ci insegnano, grazie ad
un'esperienza comune e frequente, che la nostra coscienza
può essere invasa, riempita, interamente saturata dalla pro-
duzione di un'esistenza, i cui oggetti e i cui esseri sembrano
identici a quelli della veglia; ma i loro significati, le loro
relazioni e i loro modi di variazione e sostituzione sono
completamente diversi e ci rappresentano senza dubbio, come
simboli o allegorie, le fluttuazioni immediate della nostra
sensibilità generale, non controllata dalle sensibilità dei nostri
sensi specializzati. È pressoché allo stesso modo che lo stato
poetico si insedia, si sviluppa, e alla fine si dissolve in noi.
In altre parole, lo stato di poesia è assolutamente irrego-
lare, incostante, involontario, fragile, e noi lo perdiamo,
come pure lo otteniamo accidentalmente. Ma questo stato
non basta per fare un poeta, come pure non basta vedere un
tesoro in sogno per ritrovarlo, al risveglio, scintillante ai piedi
del letto.
Un poeta- non stupitevi di ciò che sto per dirvi- non ha
come funzione quella di provare lo stato poetico: questo è un
affare privato. Ha piuttosto la funzione di ricrearlo negli
altri. Si riconosce il poeta - o, per lo meno, ciascuno
riconosce il proprio - per il semplice fatto che egli trasforma
il lettore in un essere «ispirato». L'ispirazione è, positiva-
mente parlando, un'attribuzione graziosamente concessa dal
lettore al proprio poeta: il lettore ci offre i meriti trascendenti
di poteri e grazie che si sviluppano in lui. Cerca e trova in noi
la mirabile causa della sua meraviglia.
Ma l'effetto poetico, e la sintesi artificiale di questo stato
realizzata per mezzo di un'opera, sono due cose ben distinte;
differenti tra loro quanto lo sono una sensazione e un'azione.
Un'azione coordinata è molto più complessa di qualsiasi
produzione istantanea, soprattutto quando deve svolgersi in
un campo convenzionale com'è quello del linguaggio. Ed ecco

204
che vedete apparire nelle mie spiegazioni quel famoso PEN-
SIERO ASTRATTO che l'uso comune oppone alla POESIA. Ne ripar-
leremo fra poco. Vorrei intanto raccontarvi una storia vera,
per farvi sentire, come l'ho sentita io stesso, in modo curiosa-
mente chiaro, tutta la differenza esistente fra lo stato o l'emo-
zione poetica, anche creatrice e originale, e la produzione di
un'opera. È un'osservazione abbastanza sorprendente che ho
fatto su di me, circa un anno fa.
Ero uscito di casa per distrarmi da un lavoro noioso
camminando un po' e guardandomi attorno. Percorrendo la
strada dove abito, fui improvvisamente afferrato da un ritmo
che mi si imponeva e mi offriva ben presto l'impressione di un
funzionamento estraneo. Era come se qualcuno si servisse
della mia macchina per vivere. Un altro ritmo venne allora a
sovrapporsi al primo e a combinarsi con questo; si stabilirono
delle indefinibili .relazioni trasversali fra le due leggi (mi
spiego come posso). Tutto ciò combinava il movimento delle
mie gambe in marcia con non so quale canto che stavo mor-
morando, o meglio che si stava mormorando attraverso me.
Questa composizione divenne sempre più complicata, e sor-
passò ben presto in complessità tutto ciò che potevo ragione-
volmente produrre grazie alle mie facoltà ritmiche ordinarie
e utilizzabili. Allora, la sensazione di estraneità di cui ho
parlato divenne quasi dolorosa, inquietante. Non sono musi-
cista; ignoro completamente la tecnica musicale; ed eccomi
preda di uno sviluppo ritmico composito, di una complessità
alla quale nessun poeta potrebbe mai pensare. Mi dicevo
quindi che ci doveva essere un errore di persona, che questa
grazia sbagliava individuo, poiché non potevo far nulla di un
simile dono - che in un musicista, invece, avrebbe senza
dubbio acquisito valore, forma e durata, mentre quelle parti
che s'intrecciavano e si separavano mi offrivano invano una
produzione il cui sviluppo sapiente e organizzato meravi-
gliava e faceva disperare la mia ignoranza.
In capo a una ventina di minuti l'incanto svanì brusca-
mente; !asciandomi sulla riva della Senna, perplesso quanto
l'anatra della Favola che dall'uovo che aveva covato vide

205
nascere un cigno. Volato via il cigno, la mia sorpresa si mutò
in riflessione. Sapevo bene che il fatto di camminare mi
mantiene spesso in uno stato di vivace produzione d'idee, e
che si stabilisce una certa reciprocità fra la mia andatura e i
miei pensieri, poiché i miei pensieri modificano la mia anda-
tura; e questa, a sua volta, stimola i miei pensieri - fatto,
dopo tutto, assai notevole, ma relativamente comprensibile.
Senza dubbio, i nostri diversi «tempi di reazione» si armoniz-
zano, ed è molto interessante dover ammettere che vi è possi-
bilità di modificazione reciproca fra un regime d'azione pu-
ramente muscolare ed una produzione svariata d'immagini,
di giudizi, di ragionamenti.
Ma nel caso di cui vi parlo, accadde che il movimento dei
miei passi si estese alla mia coscienza attraverso un sistema di
ritmi piuttosto complesso, invece di provocare in me quella
nascita d'immagini, di parole interiori e di atti virtuali che
chiamiamo idee. Le idee appartengono ad un genere a me
familiare; sono cose che so annotare, provocare, manovrare ...
Ma non posso dire altrettanto dei miei ritmi inattesi.
Cosa avrei dovuto pensare di tutto questo? Ho immaginato
che la produzione mentale mentre camminavo dovesse ri-
spondere ad un'eccitazione generale che si sviluppava nel mio
cervello; questa eccitazione si appagava, trovava sollievo
come poteva, e, pur di dissipare energie, poco le importava di
farlo con idee, ricordi, o ritmi canticchiati distrattamente.
Quel giorno, si era sfogata in intuizione ritmica, sviluppatasi
prima che si fosse risvegliata, nella mia coscienza, la persona
che sa di non sapere la musica. Penso che, allo stesso modo, la
persona che sa di non poter volare non sia ancora operante in
colui che sogna di volare.
Vi chiedo scusa per questa lunga storia vera- per lo meno
vera quanto lo può essere una storia di questo genere. È da
notare che tutto quello che ho detto o creduto di dire si svolge
fra ciò che chiamiamo Mondo esterno, ciò che chiamiamo il
Nostro Corpo, e ciò che chiamiamo la Nostra Mente - e
richiede una certa confusa collaborazione fra queste tre
grandi potenze.

206
Perché vi ho raccontato tutto questo? Per mettere in risalto
la differenza profonda che esiste fra la produzione spontanea
della mente - o piuttosto dell'insieme della nostra sensibi-
lità, e la costruzione delle opere. Nel mio racconto, la sostanza
di un'opera musicale mi era stata liberalmente offerta; ma mi
mancava l'organizzazione che avrebbe potuto coglierla, fis-
sarla, ridisegnarla. Il grande pittore Degas mi ha spesso
riferito quella frase tanto giusta e semplice di Mallarmé.
Degas componeva a volte dei versi, e ne ha lasciati di deliziosi.
Ma incontrava spesso grandi difficoltà in quest'occupazione
accessoria rispetto alla sua pittura. (D'altronde, era uomo in
grado di introdurre in qualunque arte il massimo possibile di
difficoltà). Disse un giorno a Mallarmé: «Il vostro mestiere è
infernale. Non riesco a fare ciò che voglio eppure, sono pieno
d'idee ... ». E Mallarmé gli rispose: «Non è con le idee che si
compongono i versi, mio caro Degas, ma con le parole».
Mallarmé aveva ragione. Ma quando Degas parlava di
idee, pensava di certo a discorsi interiori o ad immagini, che,
dopo tutto, avrebbero potuto esprimersi in parole. Ma quelle
parole, quelle frasi intime che egli chiamava le sue idee, tutte
quelle intenzioni e quelle percezioni della mente - tutto ciò
non produce dei versi. Vi è dunque dell'altro, una modifica-
zione, una trasformazione, più o meno improvvisa, più o
meno spontanea, più o meno laboriosa, che si interpone
necessariamente fra il pensiero produttore d'idee, l'attività e
la molteplicità di problemi e di soluzioni interiori; ci sono poi i
versi, queste espressioni così differenti da quelle comuni, che,
bizzarramente ordinati, non rispondono ad alcun bisogno, se
non a quello che essi stessi devono creare; che non parlano se
non di cose assenti e di cose profondamente e segretamente
sentite; strani discorsi, che sembrano fatti da un personaggio
diverso da quello che li pronuncia, e sembrano indirizzarsi ad
un personaggio diverso da colui che li ascolta. Insomma, è un
linguaggio dentro un altro linguaggio.
Indaghiamo un po' questi misteri.
La poesia è un arte del linguaggio. Tuttavia, il linguaggio è
una creazione della pratica. Notiamo anzitutto che ogni

207
comunicazione fra gli uomini offre qualche certezza solo nella
pratica, e attraverso la verifica che la prassi ci permette. Vi
chiedo di accendere. Voi mi fate accendere: mi avete capito.
Ma, chiedendomi un fiammifero, avete potuto pronunciare
quelle poche parole senza importanza, con un certo tono, un
determinato timbro di voce - con una certa inflessione e una
certa lentezza o precipitazione che ho potuto notare. Ho
capito le vostre parole, poiché, senza nemmeno pensarci, vi
ho porto ciò che chiedevate, questa fiammella. Ed ecco che
tuttavia la questione non è conclusa. È strano: il suono, e
quasi la figura della vostra breve frase, ritorna e si ripete in
me; come se si trovasse bene dentro di me; e, da parte mia, mi
piace sentirmi mentre la ripeto, questa breve frase che ha
quasi perduto il suo significato, che non serve più, e che
tuttavia vuole vivere ancora, ma di una vita completamente
diversa. Ha assunto un valore; e l'ha fatto a scapito del suo
significato finito. Ha creato il bisogno di essere riascoltata ...
Eccoci proprio sulla soglia dello stato di poesia. Questo minu-
scolo esperimento ci basterà per scoprire numerose verità.
Ci ha dimostrato che il linguaggio può produrre due specie
di effetti totalmente diversi. Gli uni, che tendono a provocare
ciò che occorre per annullare interamente il linguaggio stesso.
Io vi parlo, e se avete capito le mie parole, queste parole sono
abolite. Se avete capito, ciò significa che quelle parole sono
scomparse dalla vostra mente, sono state sostituite da una
contropartita, da immagini, relazioni, impulsi; e voi avete
allora modo di ritrasmettere quelle idee e quelle immagini in
un linguaggio che può essere ben diverso da quello che avete
ricevuto. Capire consiste nel sostituire più o meno rapida-
mente un sistema di suoni, di durate e di segni con tutt'altra
cosa, che è in conclusione una modificazione o una riorganiz-
zazione interna della persona a cui si parla. Ed ecco la con-
troprova di questa affermazione: la persona che non ha ca-
pito ripete, o si fa ripetere le parole.
Di conseguenza, la perfezione di un discorso il cui unico
oggetto è la comprensione risiede evidentemente nella facilità
con la quale la parola che lo costituisce diventa qualcos'altro,

208
e il linguaggio si trasforma dapprima in non-linguaggio; in
seguito, se lo vogliamo, in una forma di linguaggio diversa da
quella primitiva.
In altri termini, nell'uso pratico o astratto del linguaggio,
la forma, vale a dire ciò che è fisico, sensibile, e l'atto stesso
del discorso non si conserva; essa non sopravvive alla com-
prensione; si dissolve nella chiarezza; ha agito e svolto il suo
compito; ha fatto capire: insomma, ha vissuto.
Ma al contrario, non appena questa forma sensibile assume
per effetto proprio un'importanza tale da imporsi e farsi, in
qualche modo, rispettare; e non solo notare e rispettare, ma
anche desiderare, e quindi riprendere - allora qualcosa di
nuovo si manifesta: siamo impercettibilmente trasformati, e
disposti a vivere, a respirare, a pensare secondo un regime e
in base a leggi che non appartengono più all'ordine prati-
co -cioè nulla di quanto accadrà in questo stato sarà risolto,
concluso, abolito da un atto ben determinato. Entriamo
nell'universo poetico.
Permettetemi di rafforzare questa nozione di universo
poetico facendo ricorso ad una nozione simile, ma ancora più
facile da spiegare perché molto più semplice, la nozione
d'universo musicale. Vi prego di fare il piccolo sacrificio di
ridurvi per un istante alla sola facoltà di udire. Un senso
semplice, come quello dell'udito ci offrirà tutto ciò che ci
serve per la nostra definizione e ci eviterà di entrare in tutte le
difficoltà e le sottigliezze alle quali ci condurrebbe la struttura
convenzionale del linguaggio comune e le sue complicazioni
storiche. Noi viviamo attraverso l'orecchio nel mondo dei
rumori. È un insieme in genere incoerente e irregolarmente
alimentato da tutti i fenomeni meccanici che questo orecchio
può interpretare a suo modo. Ma l'orecchio stesso separa da
quel caos un altro insieme di rumori particolarmente notevoli
e semplici - cioè ben riconoscibili dal nostro udito, e che gli
servono come punto di riferimento. Le relazioni esistenti fra
questi elementi sono per noi sensibili quanto gli elementi
medesimi. L'intervallo fra due di questi rumori privilegiati ci
è chiaro quanto ciascuno di essi. Mi riferisco ai suoni, e queste

209
unità sonore sono atte a formare delle combinazioni chiare,
delle implicazioni successive o simultanee, dei concatena-
menti e delle intersezioni che possiamo definire intellegibili: è
per questo che in musica esistono possibilità astratte. Ma
ritorno al mio argomento.
Mi limiterò a notare che il contrasto fra rumore e suono è
quello fra il puro e l'impuro, fra l'ordine e il disordine; che la
distinzione fra le sensazioni pure e le altre ha permesso la
costituzione della musica; che questa costituzione ha potuto
essere controllata, unificata, codificata grazie all'intervento
della scienza fisica, la quale ha saputo adattare la misura alla
sensazione ottenendo così il fondamentale risultato d'inse-
gnarci a produrre quella sensazione sonora in maniera co-
stante e identica per mezzo di strumenti che sono, in realtà,
strumenti di misura.
Il musicista si trova così in possesso di un sistema perfetto di
mezzi ben definiti che fanno esattamente corrispondere delle
sensazioni a degli atti. Da tutto ciò risulta come la musica si
sia creata un proprio ambito esclusivo. Il mondo dell'arte
musicale, regno dei suoni, è nettamente separato dal mondo
dei rumori. Mentre un rumore si limita a risvegliare in noi
un avvenimento isolato qualsiasi - un cane, una porta, una
macchina- un suono che si produce evoca, da solo, l'uni-
verso musicale. Se in questa sala, dove vi sto parlando, dove
voi udite il rumore della mia voce, un diapason o uno
strumento ben accordato si mettesse a vibrare, non appena
raggiunti da quel rumore eccezionale e puro, che non può
confondersi con gli altri, avreste subito la sensazione di un
inizio, l'inizio di un mondo; un'atmosfera del tutto diversa
verrebbe a un tratto creata, un ordine nuovo si annunce-
rebbe, e voi stessi, vi organizzereste inconsciamente per
accoglierlo. L'universo musicale era dunque in voi, con tutti i
suoi rapporti e le sue proporzioni - come, in un liquido
saturo di sale, un universo cristallino attende l'urto moleco-
lare di un minuscolo cristallo per affermarsi. Non oso dire:
l'idea cristallina di tale sistema ...
Ed ecco la controprova del nostro piccolo esperimento: se in

210
una sala da concerto, mentre risuona e domina la sinfonia,
succede che cada una sedia, che qualcuno tossisca o una porta
si chiuda, subito abbiamo l'impressione di una qualche frat-
tura. Qualcosa d'indefinibile, della stessa natura di un incan-
tesimo o di un vetro di Murano, è stato rotto o incrinato ...
L'Universo poetico non si crea con tanta facilità e tanta
forza. Esiste, ma il poeta è privo degli immensi vantaggi che il
musicista invece possiede. Non ha davanti a sé, già pronto per
produrre bellezza, un insieme di mezzi creati apposta per la
sua arte. Deve servirsi del linguaggio - la voce pubblica,
questa collezione di termini e regole tradizionali e irrazionali,
bizzarramente creati, trasformati e codificati, intesi e pro-
nunciati nei modi più diversi. Nessuno studioso di fisica ha
mai determinato i rapporti fra questi elementi; non vi sono
diapason né metronomi, costruttori di gamme né teorici
dell'armonia. Ma al contrario, solo le fluttuazioni fonetiche e
semantiche del vocabolario. Niente di puro; solo una mesco-
lanza di stimoli uditivi e psichici perfettamente incoerenti.
Ogni parola è un agglomerato momentaneo di un suono e di
un senso, che non hanno alcun rapporto fra loro. Ogni frase è
un atto così complesso che nessuno, credo, ha potuto finora
darne una definizione accettabile. Quanto all'uso di quel
mezzo, quanto alle modalità di quell'azione, voi conoscete la
varietà dei suoi impieghi e che confusione talvolta ne risulti.
Un discorso può essere logico, può essere carico di significato,
ma senza ritmo e privo di misura. Può essere gradevole
all'orecchio, e perfettamente assurdo o insignificante; può
essere chiaro e vano; vago e delizioso. Ma, per far capire la
sua strana molteplicità, che non è altro che la molteplicità
della vita stessa, basterà enumerare tutte le scienze che sono
state create per occuparsi di questa diversità, ognuna per
studiarne un aspetto particolare. Si può analizzare un testo in
molti modi differenti, poiché esso viene di volta in volta
sottoposto al giudizio della fonetica, della semantica, della
sintassi, della logica, della retorica, della filologia, senza
escludere la metrica, la prosodia e l'etimologia ...
Ecco il poeta alle prese con questa materia verbale, obbli-

211
gato a speculare, contemporaneamente, sul suono e sul senso;
a soddisfare non soltanto l'armonia, il periodo musicale ma
anche svariate condizioni intellettuali ed estetiche, senza poi
contare le regole convenzionali.. .
Notate quale sforzo esigerebbe l'impresa del poeta se egli
dovesse risolvere coscientemente tutti questi problemi. ..
È sempre interessante cercare di ricostruire una delle nostre
attività complesse, una di quelle azioni complete che esigono
da noi una specializzazione al tempo stesso mentale, senso-
riale e motoria, supponendo che, per compiere questa azione,
siamo tenuti a conoscere e a organizzare tutte le funzioni che,
come noi sappiamo, vi prendono parte. Anche se questo
tentativo immaginativo e analitico a un tempo è grossolano,
esso ci insegna pur sempre qualcosa. Quanto a me, che sono,
lo confesso, molto più interessato alla formazione o alla
costruzione delle opere che alle opere in sé, ho l'abitudine o la
mania di apprezzare le opere solo in quanto azioni. Ai miei
occhi, un poeta è un uomo che, a partire da un fatto
accidentale, subisce una trasformazione nascosta. Si allon-
tana dal suo stato ordinario di generale disponibilità, e vedo
costituirsi in lui un agente, un sistema vivente che produce
versi. Così come fra gli animali vediamo tutt'a un tratto
rivelarsi un abile cacciatore, un costruttore di nidi o di ponti,
uno scavatore di trafori e gallerie, nell'uomo vediamo manife-
starsi questa o quella organizzazione composita che applica le
sue funzioni a una certa opera. Pensate ad un bambino molto
piccolo: questo bimbo che noi stessi siamo stati portava in sé
numerose possibilità. Dopo qualche mese di vita, ha imparato
nello stesso tempo, o quasi, a parlare e a camminare. Ha
acquisito due tipi di azione. In altri termini possiede ora due
specie di possibilità da cui le circostanze accidentali di ogni
istante trarranno ciò che potranno, in risposta ai suoi bisogni
o alle sue diverse fantasie.
Avendo imparato a servirsi delle gambe, scoprirà che può
non solo camminare, ma anche correre; e non solo camminare
e correre, ma anche danzare. Questo è un grande avveni-
mento. Egli ha inventato e scoperto a un tratto una specie di

212
utilità di secondo grado per le sue membra, una generalizza-
zione della formula del suo movimento. Infatti, mentre
camminare è in fondo un'attività abbastanza monotona e
poco perfezionabile, questa nuova forma d'azione, la Danza,
permette un'infinità di creazioni, variazioni o figure.
Ma, quanto alla parola, non potrà forse tr.ovare uno
sviluppo analogo? Farà progressi nella sua facoltà di parlare;
scoprirà di poterla utilizzare non solo per chiedere la marmel-
lata o negare i piccoli crimini commessi. S'impadronirà del
potere di ragionamento; si creerà delle fantasie che lo diverti-
ranno quando è da solo; ripeterà fra sé e sé delle parole che gli
saranno piaciute per la loro stranezza e il loro mistero.
Così, parallelamente al Cammino e alla Danza, troveranno
posto e si distingueranno in lui i tipi diversi della Prosa e della
Poesia.
Questo parallelo mi ha colpito e sedotto da tempo; ma
qualcuno l'aveva intuito prima di me. Malherbe, secondo
Racan, ne faceva uso. A mio parere, non si tratta di un
semplice paragone. Vedo in esso un'analogia sostanziale e
feconda come quelle che si hanno in fisica quando si osserva
l'identità di formule atte a misurare fenomeni in apparenza
molto diversi. Ecco, in effetti, come si sviluppa il nostro
parallelo.
Il camminare, come la prosa, mira ad uno scopo preciso. È
un atto diretto verso qualcosa che vogliamo raggiungere.
Sono circostanze del momento, come il bisogno di un oggetto,
l'impulso del mio desiderio, le condizioni del mio corpo, della
mia vista, del terreno, ecc., che determinano l'andatura della
marcia, le prescrivono una direzione, una velocità, e le
assegnano un termine finito. Tutte le caratteristiche del
camminare si deducono da queste condizioni contingenti le
quali, di volta in volta, si combinano in modo unico. Nella
marcia, non esistono spostamenti che non siano degli adatta-
menti speciali, ma questi adattamenti vengono ogni volta
aboliti e come assorbiti dal compimento dell'atto, dallo scopo
raggiunto.
La danza è tutt'altra cosa. È certamente un sistema di atti;

213
ma che hanno il loro fine in se stessi. Non va da nessuna parte.
Se persegue un oggetto, non sarà che un oggetto ideale, uno
stato, un rapimento, l'apparenza di un fiore, uno spirare di
vita, un sorriso - che prende forma infine sul viso di colui
che lo domandava allo spazio vuoto.
Non si tratta quindi di effettuare un'operazione compiuta,
la cui conclusione è situata nell'ambiente che ci circonda; ma
di creare, e di mantenere esaltandolo, un certo stato, grazie a
un movimento periodico che può essere eseguito sul posto;
movimento che si disinteressa quasi completamente della
vista, ma che viene stimolato e regolato dai ritmi uditivi.
Eppure, per quanto la danza sia diversa dal camminare e
dai movimenti con scopi utilitari, vi invito a notare questo
fatto infinitamente semplice, che essa si serve degli stessi
organi, ossa e muscoli, di quella, ma diversamente coordinati
e stimolati.
È qui che ritroviamo la prosa e la poesia nel loro contrasto.
Esse utilizzano le stesse parole, la stessa sintassi, uguali forme,
suoni o timbri, ma diversamente coordinati e stimolati. Prosa
e poesia si distinguono dunque per la diversità di certi legami
e associazioni che si fanno e si disfano nel nostro organismo
nervoso e psichico, mentre gli elementi di queste modalità di
funzionamento sono identici. Bisogna perciò evitare di analiz-
zare la poesia come se si trattasse di prosa. Ciò che è vero per
l'una non ha più senso, in molti casi, quando lo si vuole
ritrovare nell'altra. Ma ecco la grande e decisiva differenza.
Quando l'uomo che cammina ha raggiunto il suo scopo
- come vi ho detto - quando ha raggiunto il luogo, il libro,
il frutto, l'oggetto del desiderio che l'ha sottratto al suo riposo,
questo possesso annulla interamente e definitivamente il suo
atto; l'effetto divora la causa, il fine ha assorbito il mezzo; e
qualunque sia stato l'atto, ne resta solo il risultato. Lo stesso
accade per il linguaggio utilitario: il linguaggio che mi è
servito per esprimere il mio intento, il mio desiderio, il mio
ordine, la mia opinione, quel linguaggio, dopo aver svolto il
suo compito, svanisce non appena espresso. L'ho pronunciato
perché perisca, perché si trasformi radicalmente in qualco-

214
s'altro nel vostro intelletto; e saprò di essere stato capito per il
fatto notevole che il mio discorso non esiste più: esso è stato
completamente sostituito dal suo senso - cioè dalle imma-
gini, dagli impulsi, dalle reazioni o dagli atti che apparten-
gono a voi: insomma, da una vostra modificazione interiore.
La perfezione di questa specie di linguaggio, la cui unica
destinazione è quella di essere compreso, consiste evidente-
mente nella facilità con cui esso si trasforma in una cosa del
tutto diversa.
La poesia, invece, non muore per il fatto d'aver vissuto: è
fatta proprio per rinascere dalle sue ceneri e ridiventare
indefinitamente ciò che era. Essa si distingue per questa
proprietà, ovvero per la tendenza a farsi riprodurre nella sua
forma: ci stimola a ricostituirla sempre identica.
Questa è in assoluto una qualità notevole e caratteristica.
Vorrei offrirvene un'immagine semplice. Pensate ad un
pendolo che oscilla fra due punti simmetrici. Supponete che
una di queste posizioni estreme rappresenti la forma, i
caratteri sensibili del linguaggio, il suono, il ritmo, gli ac-
centi, il timbro, il movimento - in una parola, la Voce in
atto. Associate poi all'altro punto, quello simmetrico al
primo, tutti i valori significativi, le immagini, le idee; gli
impulsi del sentimento e della memoria, gli stimoli virtuali e
le formazioni cognitive - vale a dire, tutto ciò che costituisce
il contenuto, il senso di un discorso. Osservate quindi gli
effetti della poesia in voi stessi. Noterete che ad ogni verso, il
significato che si produce in voi, invece di distruggere la
forma musicale che vi è stata comunicata, la richiede ancora.
Il pendolo vivente che è passato dal suono al senso tende a
ritornare verso il suo punto sensibile di partenza, come se il
significato che si presenta alla vostra mente non trovasse altra
via d'uscita, altra espressione o altra risposta al di fuori di
quella stessa musica che l'ha generato.
Così, tra la forma e il contenuto, il suono e il senso, il testo
poetico e lo stato di poesia, si manifesta una simmetria, una
identità d'importanza, di valore e potere, che non si ritrova
nella prosa, e che si oppone alla legge della prosa - la quale

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decreta la disparità dei due elementi costitutivi del linguag-
gio. Il principio essenziale della meccanica poetica - cioè
delle condizioni di produzione dello stato poetico attraverso la
parola- è secondo me questo scambio armonico fra l'espres-
sione e l'impressione.
Introduciamo ora una piccola osservazione che definirò
«filosofica», il che significa semplicemente che potremmo
anche non considerarla.
Il nostro pendolo poetico va dalla nostra sensazione verso
un'idea o un sentimento, e ritorna poi verso un ricordo della
sensazione e verso l'azione virtuale capace di riprodurla.
Ebbene, ciò che è sensazione appartiene nella sua essenza al
presente. Non esiste definizione del presente che non sia la
sensazione stessa, completata forse dall'impulso all'azione che
potrebbe modificarla. Al contrario, ciò che è propriamente
pensiero, immagine, sentimento è sempre, in qualche modo,
produzione di cose assenti. La memoria è la sostanza di ogni
pensiero. La previsione e i suoi brancolamenti, il desiderio, i
progetti, l'abbozzo delle nostre speranze e paure costituiscono
la principale attività interiore del nostro essere.
Il pensiero è, insomma, l'attività che fa vivere in noi ciò che
non esiste, prestandogli, che lo vogliamo o no, le nostre forze
attuali; ci fa scambiare la parte per il tutto, l'apparenza per la
realtà, dandoci l'illusione di vedere, di agire, di subire, di
possedere indipendentemente dal nostro caro vecchio corpo,
che lasciamo, con la sua sigaretta, in poltrona, in attesa di
riprenderlo bruscamente, allo squillo del telefono o all'impe-
rativo, non meno estraneo, del nostro stomaco che reclama
qualche sussidio ...
Tra la Voce e il Pensiero, il Pensiero e la Voce, la Presenza e
l'Assenza, oscilla il pendolo poetico.
Da quest'analisi risulta che il valore di una poesia risiede
nell'indissolubilità del suono e del senso. Ebbene, questa è una
condizione che sembra pretendere l'impossibile. Non ·vi è
alcun rapporto fra il suono e il senso di una parola. La stessa
cosa si chiama HORSE in inglese, IPPOS in greco, EQUUS in lati-
no, e CHEVAL in francese; ma nessuna operazione su uno qual-

216
siasi di questi termini mi darà l'idea dell'animale in questione,
così come nessuna operazione su questa idea mi fornirà una di
quelle parole - altrimenti conosceremmo senza difficoltà
tutte le lingue a partire dalla nostra.
Eppure è il compito del poeta quello di darci la sensazione
dell'unione intima fra la parola e lo spirito.
Bisogna notare che si tratta di un risultato davvero meravi-
glioso. Dico meraviglioso, benché non sia eccessivamente
raro. Dico: meraviglioso nel senso che diamo a questo termine
quando pensiamo agli incantesimi e ai prodigi dell'antica
magia. Non si deve dimenticare che la forma poetica è stata
per molti secoli destinata alle pratiche degli incantesimi. Chi
si affidava a quelle strane operazioni doveva necessariamente
credere al potere della parola, e molto più all'efficacia del
suono di questa parola che al suo significato. Le formule ma-
giche sono spesso prive di senso; non si pensava infatti che la
loro forza dipendesse dal loro contenuto intellettuale.
Ma ascoltiamo ora dei versi come:

Mère des Souvenirs, Maitresse des maitresses ...

oppure:

Sois sage, 6 ma douleur, et tiens-toi plus tranquille ... 2

Queste parole agiscono su di noi (o almeno, su alcuni di noi)


senza comunicarci granché. O forse ci dicono che non hanno
nulla da dirci; che svolgono, con gli stessi mezzi che, in
generale, ci trasmettono qualcosa, una funzione del tutto
diversa. Operano su di noi come un accordo musicale. L'im-
pressione prodotta dipende in gran parte dalla risonanza, dal
ritmo, dal numero delle sillabe; ma risulta anche dal semplice
accostamento dei significati. Nel secondo di questi versi,
l'accordo delle idee vaghe di Saggezza e di Dolore, e la placida
solennità del tono producono l'inestimabile valore di un
incanto: l'essere momentaneo che ha creato questo verso, non
avrebbe potuto farlo se si fosse trovato nella condizione in cui

217
la forma e il contenuto si presentano separatamente all'intel-
letto. Era invece in una fase speciale nell'ambito della sua
esistenza psichica, fase durante la quale il suono e il senso
della parola assumono o mantengono un'uguale importanza
- il che è escluso sia dalle abitudini del linguaggio pratico
che dalle esigenze del linguaggio astratto. Lo stato in cui
l'indivisibilità del suono e del senso, il desiderio, l'attesa, la
possibilità della loro combinazione intima e indissolubile sono
richiesti e domandati o concessi e talvolta aspettati con ansia,
è uno stato relativamente raro. Anzitutto perché le esigenze
della vita gli sono tutte contrarie; e poi perché si oppone alla
semplificazione grossolana e alla crescente specializzazione
delle notazioni verbali.
Ma questo stato di modificazione intima, nel quale tutte le
proprietà del nostro linguaggio sono richiamate in modo
indistinto ma armonico, non basta a produrre quest'oggetto
completo, questa composizione di begli elementi, questa
raccolta di casi intellettuali fortunati che ci offre ogni alta
poesia.
Ne otteniamo così solo dei frammenti. Tutte le cose preziose
che si trovano nelle profondità della terra, l'oro, i diamanti, le
pietre che saranno tagliate, vi si trovano disseminate, sparse,
avaramente nascoste in un ammasso di roccia o di sabbia,
dove il caso le fa talvolta scoprire. Queste ricchezze non
sarebbero nulla senza il lavoro dell'uomo che le trae dalla fitta
oscurità dove dormivano, le riunisce, le modifica e le dispone
a formare gioielli. Queste particelle di metallo racchiuse in
una materia informe, questi cristalli dalle forme bizzarre
possono acquistare tutto il loro splendore solo grazie ad una
lavorazione intelligente. Il vero poeta compie un lavoro di
questo tipo. Si intuisce subito davanti ad una bella poesia che
vi sono poche probabilità che un uomo, per quanto dotato,
abbia potuto improvvisare senza rifacimenti, con la sola
fatica di scrivere o dettare, un sistema logico e completo di
trovate felici. Poiché le tracce dello sforzo, le riprese, i
pentimenti, la quantità di tempo, i giorni neri e il disgusto
sono scomparsi, cancellati dal supremo ritorno della mente

218
sulla sua opera, alcuni, che vedono solo la perfezione del
risultato, lo considereranno come dovuto ad una sorta di
prodigio che essi chiamano ISPIRAZIONE. Vedono dunque nel
poeta una specie di medium momentaneo. Se ci divertissimo a
sviluppare rigorosamente la dottrina dell'ispirazione pura, ne
dedurremmo alcune conseguenze piuttosto strane. Si scopri-
rebbe, ad esempio, che questo poeta si limita a trasmettere ciò
che riceve, a consegnare a degli sconosciuti ciò che trae dal-
l'ignoto, e che perciò non ha alcun bisogno di capire quello
che scrive, sotto dettatura di una voce misteriosa. Potrebbe
scrivere poesie in una lingua che non conosce ...
A dire il vero, il poeta possiede un'energia spirituale di
natura particolare: essa si manifesta in lui e lo rivela a se stesso
in certi minuti d'un valore infinito. Infinito per lui. .. Dico:
infinito per lui; perché, come l'esperienza purtroppo c'inse-
gna, questi istanti che ci sembrano di valore universale sono
talvolta senza avvenire, e ci portano infine a riflettere su
questa sentenza: ciò che vale per uno solo non vale nulla. È la
legge ferrea della Letteratura.
Ma ogni vero poeta è necessariamente un critico di prim'or-
dine. Per dubitarne, bisognerebbe non pensare affatto a
quello che è il lavoro della mente: una lotta contro la
discontinuità dei momenti, la casualità delle associazioni, le
cadute dell'attenzione, le distrazioni esterne. L'intelletto è
terribilmente variabile, inganna ed è ingannato, è fecondo di
problemi insolubili e di soluzioni illusorie. Come potrebbe
un'opera notevole uscire da questo caos, se esso che contiene
tutto non racchiudesse pure qualche seria possibilità di cono-
scere se stesso e di scegliere in sé ciò che merita di essere
sottratto alla caducità dell'istante per venire poi impiegato
con cura?
E non è tutto. Ogni vero poeta è capace, molto più di
quanto si creda in generale, di formulare ragionamenti precisi
e pensieri astratti.
Non bisogna però cercare la sua vera filosofia in ciò che egli
dice di più o meno filosofico. Secondo me, la filosofia più
autentica non risiede negli oggetti della nostra riflessione, ma

219
nell'atto stesso del pensiero e nella sua messa in opera. Private
la metafisica di tutti i suoi termini favoriti o specifici, della
sua terminologia tradizionale, e constaterete forse di non aver
affatto impoverito il pensiero. Al contrario, l'avrete probabil-
mente alleggerito, rinnovato, e vi sarete liberati dai problemi
altrui, per avere a che fare solo con le vostre difficoltà
personali, coi vostri stupori che non devono niente a nessuno,
di cui sentite veramente e immediatamente il pungolo intel-
lettuale.
È tuttavia accaduto molte volte, e la storia letteraria ce lo
insegna, che la poesia si sia adattata a enunciare tesi o ipotesi e
che il linguaggio completo che le è proprio, quel linguaggio la
cui forma (vale a dire l'azione e la sensazione della Voce), ha
la stessa potenza del contenuto (vale a dire della modifica-
zione finale di una mente), sia stato utilizzato per comunicare
delle idee «astratte», che sono invece indipendenti dalla loro
forma - o che crediamo tali. Grandissimi poeti hanno a
volte tentato questo. Ma, per quanto grande sia il talento
dispensato in queste nobilissime imprese, esso non può evitare
che l'attenzione impegnata a seguire le idee sia in concorrenza
con quella che segue il canto. Il DE NATURA RERUM entra qui in
conflitto con la natura delle cose. Lo stato del lettore di poesie
è diverso dallo stato del lettore di puri pensieri. Lo stato del-
l'uomo che danza non è quello dell'uomo che si inoltra in un
territorio aspro di cui deve fare il rilevamento topografico e la
prospezione geologica.
Ho detto peraltro che il poeta ha il suo pensiero astratto, e,
se si vuole, la sua filosofia; e ho aggiunto che essa si esplicava
proprio nel suo atto di poeta. L'ho detto perché l'ho osservato,
sia su di me che su altri. Non ho, né qui né altrove, nessun
altro riferimento, nessun'altra pretesa o scusa, al di fuori del
ricorso alla mia esperienza, o alle osservazioni più comuni.
Ebbene, tutte le volte che ho lavorato come poeta, ho
notato che il mio lavoro esigeva da me non soltanto quella
presenza dell'universo poetico di cui vi ho parlato, ma anche
un gran numero di riflessioni, decisioni, scelte e combina-
zioni, senza le quali tutti i doni possibili della Musa o del Caso

220
restavano come materiali preziosi in un cantiere senza archi-
tetto. Ora, un architetto non è necessariamente costituito egli
stesso di materiali preziosi. Un poeta, in quanto architetto di
poesie, è dunque assai diverso da ciò che egli è come produt-
tore di questi elementi preziosi di cui ogni poesia dev'essere
composta, ma dai quali la composizione si distingue, ed esige
un lavoro mentale del tutto differente.
Un giorno, qualcuno m'insegnò che illirismo è entusiamo, e
che le odi dei grandi lirici furono scritte senza esitazioni, con
la rapidità di una voce in delirio e del vento tempestoso dello
spirito ...
Gli risposi che aveva pienamente ragione; ma che non si
trattava di un privilegio della poesia, e che tutti sanno che per
costruire una locomotiva, è indispensabile che il costruttore
esegua il suo lavoro alla velocità di ottanta miglia all'ora 3 •
In realtà, una poesia è una specie di macchina per produrre
lo stato poetico per mezzo delle parole. L'effetto di questo
meccanismo è incerto, poiché niente è sicuro, quando si agisce
sulle menti. Ma, qualunque sia il risultato o la sua precarietà,
la costruzione della macchina esige la soluzione di molti
problemi. Se il termine macchina vi urta, se il mio paragone
meccanico vi sembra grossolano, vi prego di osservare che
mentre la durata di composizione di una poesia anche molto
breve può protrarsi per anni, l'azione del testo su un lettore si
compirà in pochi minuti. In pochi minuti, questo lettore
subirà l'impatto di trovate, accostamenti, espressioni illumi-
nanti, accumulati in mesi di ricerca, di attesa, di pazienza e di
impazienza. Potrà attribuire all'ispirazione molto più di
quanto essa non possa dare. Immaginerà il personaggio
adatto a creare senza soste, senza esitazioni, senza ritocchi,
quest'opera possente e perfetta che lo trasporta in un mondo
dove le cose e gli esseri, le passioni e i pensieri, i suoni e i
significati derivano dalla stessa energia, si sostituiscono l'un
l'altro e si rispondono secondo leggi di risonanza eccezionali,
poiché solo uno stimolo straordinario può realizzare l'esalta-
zione simultanea della nostra sensibilità, del nostro intelletto,
della nostra memoria e del nostro potere d'azione verbale, che
raramente si accordano durante il normale corso della vita.

221
Devo forse far notare a questo punto che l'esecuzione di
un'opera poetica - qualora la considerassimo così come
l'ingegnere di poc'anzi può considerare l'idea e la costruzione
della sua locomotiva, cioè rendendo espliciti i problemi da
risolvere - ci sembrerebbe impossibile. In nessuna arte, il
numero delle condizioni e delle funzioni indipendenti da
coordinare è tanto grande. Non vi infliggerò una dimostra-
zione minuziosa di questa frase. Mi limiterò a ricordarvi
quanto ho già detto circa il suono e il senso, cioè che essi sono
legati in modo puramente convenzionale, eppure si tratta di
farli collaborare il più efficacemente possibile.. Le parole mi
fanno spesso pensare, a causa della loro doppia natura, alle
quantità complesse che i geometri manovrano con tanta
passione.
Per fortuna, non so quale virtù risieda in certi momenti
dentro ad alcuni esseri che semplifica le cose e riduce a misura
d'uomo le difficoltà insormontabili di cui parlavo.
Il poeta si risveglia nell'uomo grazie ad un avvenimento
inatteso, un fatto esterno o interno: un albero, un viso, un
«tema», un'emozione, una parola. E talvolta a cominciare la
partita è una volontà d'espressione, un bisogno di tradurre ciò
che si prova; ma altre volte, è, al contrario, un elemento
formale, un accenno d'espressione che ricerca la sua causa, o
si cerca un senso nello spazio della mia anima... Osservate
bene questa dualità possibile di inizio del gioco: talvolta
qualcosa vuole esprimersi, talvolta qualche mezzo d'espres-
sione è alla ricerca di qualcosa da poter servire.
Il mio poema Le Cimetière marin è iniziato dentro di me a
partire da un certo ritmo, quello del verso francese di dieci
sillabe con cesura dopo la quarta. Non avevo ancora nessuna
idea per riempire questa forma. A poco a poco delle parole
fluttuanti vi si fissarono, determinando sempre di più il
soggetto, e il lavoro (un lavoro lunghissimo) s'impose. Un'al-
tra poesia, La Pythie, si offrì dapprima sotto la forma di un
verso di otto sillabe 4 la cui sonorità si compose da sola. Ma
questo verso presupponeva una frase, di cui esso era solo una
parte, e questa presupponeva, qualora fosse esistita, molte
altre frasi. Un problema di questo tipo ammette un'infinità di
soluzioni. Ma in poesia le condizioni metriche e musicali
limitano molto l'indeterminazione. Ed ecco cosa accadde: il

222
mio frammento si comportò come un frammento vivo, dato
che, immerso nell'ambiente (senz'altro nutritivo) che gli
offrivano il desiderio e l'attesa del mio pensiero, proliferò e
generò tutto quello che gli mancava: alcuni versi al di sopra e
molti versi sotto di sé.
Mi scuso per aver tratto questi esempi dalla mia storia
personale; ma non potevo prenderli altrove.
Forse giudicate la mia concezione del poeta e della poesia
piuttosto singolare. Ma cercate di immaginare cosa presup-
pone il più piccolo dei nostri atti. Pensate a tutto ciò che deve
avvenire nell'uomo nel momento in cui produce una breve
frase intelligibile, e valutate quindi tutto quello che occorre
perché una poesia di Keats o di Baudelaire giunga a formarsi
su una pagina vuota, dinnanzi al poeta.
Considerate anche che, fra tutte le arti, la nostra è forse
quella che coordina il maggior numero di parti o di fattori
indipendenti: il suono, il senso, il reale e l'immaginario, la
logica, la sintassi e la duplice invenzione del contenuto e della
forma ... e tutto ciò per mezzo di questo strumento essenzial-
mente pratico, perpetuamente alterato, corrotto, capace di
ogni attività, il linguaggio comune, da cui dobbiamo estrarre
una Voce pura, ideale, capace di comunicare senza debolezze
o sforzo apparente, senza stonature e senza incrinare la sfera
istantanea dell'universo poetico l'idea d'un io meravigliosa-
mente superiore all'lo.

(1939)

Note

I Lett. «fond>> che con «forme» costituisce !"indissolubile binomio «forma-con-


tenuto».
2 Valéry cita, rispettivamente, i versi iniziali di Le balcon e di Recueillement,
dalle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire.
3 Questa similitudine paradossale ricorre alcune volte nei testi teorici di Valéry,
esempio a un tempo della sua fiducia nella lucidità della costruzione poetica e della
sua garbata ironia nei confronti dei diversi interlocutori.
4 Valéry si riferisce al quinto verso del componimento: «Prue, profondément
mordue».

223
Indice

Introduzione 5

Avvertenza 21

La caccia magica 23

La creazione artistica 25

Taccuino di un poeta 41

Ispirazioni mediterranee 59

Intorno al « Cimitière marin » 75

Riflessioni sull'arte 87

Questioni di poesia 107

Prima lezione del corso di poetica 125

Frammenti di memorie di un poema 145

Discorso sull'Estetica 175

Poesia e Pensiero astratto 197


Finito di stampare nell'ottobre 1985
per conto di Guida editori, Napoli
presso La Buona Stampa, Ercolano

ISBN 88-7042-702-1

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