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Cuore di cristallo, Lina Bolzoni

Capitolo 1
1. Il canto delle tre fanciulle

Il saggio si apre con i componimenti delle fanciulle degli Asolani di Pietro Bembo (io
vissi pargoletta...). Le canzoni, eseguite dalle due fanciulle, ognuna in tre quartine, si
rispondono e si rispecchiano l’una nell’altra proponendo un raconto esemplare, in cui
l’esperienza d’amore capovolge le aspettative. Le prime due quartine, divise in due
distici, segnano il contrasto tra il passato e il presente, tra ciò che l’io credeva e la
situazione emozionale che sta vivendo. L’ultima quartina mantiene questa struttura e
fa corrispondere la storia che l’io racconta a quella di un personaggio mitologico: alla
sorte di Medea, nel primo caso e alla fama che toccò ad Andromeda nel secondo. La
vicenda individuale, a questo punto, acquista un valore universale in quanto trova
conferma e significato nel mito. A questo punto, dopo che tutti hanno ascoltato le due
canzoni, la regia chiama una sua amigdala ordinandole di aggiungere una delle sue
canzoni (amor, la tua virtute..). Cambia lo stile metrico, si tratta di una stanza di
canzone usata come madrigale (Il madrigale è una composizione musicale o lirica, in
maggior parte per gruppi di 3-5 voci, originaria dell'Italia, e diffusa in particolare tra
Rinascimento e Barocco.)., il discorso non è fatto in prima persona ma è indirizzato ad
Amore, “da viltate offesa” inferno, II, 5 sottolinea il carattere moralmente più elevato
della poesia. La contrapposizione è tra chi conosce la vera natura di amore e chi si
condanna all’infelicita e all’errore perché la viltate gli impedisce di compiere il
cammino necessario. I versi finali che cantano un possibile ritorno all’età dell’oro
proiettano le scelte individuali su un piano universale, che coinvolge l’intera umanità.
Dunque, il punto di vista è quello secondo cui l’amore e quindi la vita, possono essere
guardati da un osservatorio che sia davvero illuminato dal raggio puro dell’Amore. Se
torniamo al punto in cui Virgilio, nella divina commedia ammonisce Dante nel secondo
canto dell’inferno:

L’anima tua è da viltate offesa.


La quale molte fiate l’olmo ingombra
Sì che d’onorata impresa lo rivolve,
Come falso veder bestia quand’ombra (vv. 45-48)

La tessera dantesca, acquista il valore di un forte segnale, sta sulla soglia per illuminare
il cammino o, almeno, per accennare al suo senso più profondo. La damigella è
bellissima, ha un rapporto privilegiato con la regina e canta solo perché gliel’ha chiesto
di farlo, inoltre quando canta arrossisce, dimostrando il pudore che si richiede ad una
donna. Questo comportamento era già previsto nel testo di Francesco da Barberino,
Del reggimento e costumi di donna e si adatta a quella dimensione di fascino e di
incantamento erotico che è legato alla donna che canta e suona. Nel 1541, Bembo
negherà alla figlia Elena il permesso di suonare uno strumento perché “il sonare è cosa
da donna vana e leggiera”. Ma gli asolani riflettono il fascino di che un giovane
scrittore prova per un intrattenimento musicale che faceva parte delle corti del tempo.
Nella scena iniziale, lo strumento che accompagna il canto è il liuto, nel caso delle due
fanciulle, e la viola, nel caso della damigella della regina. Entrambi gli strumenti erano
considerati adatti sia agli uomini che alle donne, perché potevano essere suonati
mantenendo la grazia e il decoro (al contrario degli strumenti a fiato). A metà
Cinquecento, Federico Luigini, nel libro della bella donna citerà la scena iniziale degli
Asolani per accomandare alle donne di imparare a suonare il liuto e la viola. Ma perché
la damigella suona la viola? Nel Cortegiano, riserva alla viola il posto culminante nella
gerarchia degli strumenti: “ma soprattutto parmi gratissimo il cantare alla viola per
recitare; il che tanto di venusità ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran
meraviglia”. A metà secolo, Innocenzo Ringhieri, proporrà un gioco della Ustica in cui
la viola è associata all’armonia e il liuto alla soavità. Diversi sono non solo gli
strumenti, ma anche il modo in cui vengono presentati: del liuto si sottolinea la bellezza
della forma “un bellissimo liuto”, della viola la bellezza del suono. Il canto della
damigella raggiunge così il massimo degli effetti sul pubblico.

2. Il cambio di regia

Tra la versione manoscritta e quella a stampa del 1505, si ha in primo luogo un vistoso
cambiamento di regia. Nella prima versione, dopo che la brigata è nel giardino,
Gismondo parla ricordando che le due fanciulle hanno cantato le canzoni; lui le recita
a memoria, suscitando la meraviglia delle sue ascoltatrici. (Amor, perché m’insegni
andar al foco e latra le risponde amor d’ogni mia pena i’ti ringratio). Tre quartine di
settenari. Si ha una storia individuale in cui l’esperienza dell’amore capovolge le
aspettative questa storia è incastonata in mezzo a un’invocazione ad Amore e a un
appello finale alle altre donne. Il suo valore Universale è affidato non al mito ma alla
proposta della propria vicenda come qualcosa dalla quale tutte possono imparare. Il
loro canto è direttamente narrato dalla voce narrante, nel manoscritto Gismondo diceva
che esse cantavano accompagnate dal liuto mentre nella versione a stampa sono loro a
suonarlo. Nel Cuore del secondo libro, esaltando i piaceri che l'amore offre attraverso
l'udito, gismondo dedicherà ambia parte alla dolcezza delle donne e ricorderà la
dottrina pitagorica dell'armonia per trasformare questa dolcezza nell'occasione di un
incontro tra umano e divino.

3. I segnali del rispecchiamento

La scena iniziale col canto delle tre fanciulle è, allo stesso tempo, preludio e sintesi
dell’opera: nel primo libro Perottino denuncerà le sofferenze che comporta l’amore,
nel secondo Gismondo esalterà il potere e i piaceri dell’amore mentre nel terzo
Lavinello inviterà a distinguere fra i diversi tipi d’amore e fermarsi ai piaceri della
vista, inteso come desiderio della bellezza divina, che gli è stata comunicata da un
eremita. Le canzoni e i tre libri compresi i dialoghi, si corrispondono e si riflettono le
une negli altri: per costruire questo rispecchiamento, Bembo compie tra il manoscritto
e la prima edizione, il cambiamento di regia: le canzonette da due diventano tre e sono
presentante nella loro successione mentre prima venivano raccontate a memoria da
Gismondo, vengono cantante direttamente dalle ragazze. Anche nella prima versione,
il testo si affanna a richiamare l’attenzione sul gioco delle corrispondenze. Così fa
Perottio quando inizia ad argomentare sulla natura dolorosa dell’amore, sul nesso tra
“amare” e “amaro”. Nel manoscritto avevamo un ordo artificilis: Gismondo ricorreva
a un flashback delle scene iniziali; invece, nelle edizioni a stampa vi è un ordo naturalis,
che riproduce la successione temporale. Bembo vuole assicurarsi che i risultati della
nuova regia non sfuggano ai suoi lettori: la scena iniziale deve restare presente nella
loro memoria. Lì sta il cuore dell’inventio. Quella che ci viene proposta è una struttura
ternaria tout se tient. Ma è anche una struttura doppia. Bembo usa la metafora del
viaggio per rappresentare la vita umana, la costruzione del testo per procedere ad
un’argomentazione.

Capitolo secondo
1. La lettera di dedica a Lucrezia Borgia: il fascino dell’assenza.

Fra gli esemplari superstiti della prima edizione degli Asolani del 1505, alcuni recano
una lettera dedicata a Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, datata Venezia 1° agosto
1504. Si sono fatte varie ipotesi: in un primo momento si è pensato che Bembo abbia
pubblicato l’opera ponendola sotto l’insegna di Lucrezia, la quale poi l’avrebbe spinto
a rimuoverla per prudenza; sembra ora che la volontà finale sia quella di porre la lettera
ma che sia saltato fatto solo ad un certo punto della stampa. Dunque, mettendoci nei
panni dei lettori del Cinquecento abbiamo a che fare con due versioni: quella con la
lettera di dedica e quella senza. La presenza della lettera o la sua assenza offrono una
diversa prospettiva che il libro costruisce di sé sul lettore. Dopo un’introduzione nel
testo vi è la presentazione di Adolfo e della festa nuziale che la regina di Cipro celebra,
tutto è bello e gentile e questa visione resta nelle successive versioni: le correzioni
sottolineano la dignità della regina, si aggiunge il titolo di “madonna” e si darà lei la
discendenza di una famiglia latina, nel testo degli asolani assumono una connotazione
più affettuosità sia i rapporti con la famiglia di Bembo sia la relazione con la damigella
che si sposa: la regina le è affezionata perché bella, gentile e anche “perciò che da
bambina cresciuta se l’havea”. Il manoscritto degli asolani, in merito alla parte dedicata
alla regina, usa un tono idillico con un racconto idealizzato. La regina che celebra il
matrimonio della sua damigella ha subito una doppia perdita: quella del marito e quella
del regno. Lo scenario resta splendido e raffinato ma l’immagine di corte ci appare
fragile e illusoria, quella di Caterina è una corte che la repubblica di Venezia le ha dato
in dono, sui propri territori. Nella versione a a stampa, scompare la storia della regina
di Cipro: Bembo sottolinea i legami di parentela e di amicizia che ha la propria famiglia
con quella della regina. I temi rimossi – morte, perdita, lontananza, sostituzione –
tornano sotto diversa forma nella lettera di dedica a Lucrezia Borgia. Bembo inizia
scusandosi per il ritardo (per l’invio della lettera) dicendo che la ragione sia dovuta al
dolore provato per la morte di suo fratello Carlo, più giovane di lui; anche Lucrezia
aggiunge Bembo, ha subito delle perdite dolorose. Il testo degli asolani che la lettera
accompagna, rappresenta e sostituisce la persona dell’autore, che è lontana da Ferrara
e costituisce un doppio della realtà, nel senso che mette in scena una festa nuziale di
corte come quella che anche Lucrezia sta celebrando. Nelle nozze che si celebrano a
Ferrara a ragionar d’amore saranno tre uomini (Bembo attraverso il testo, ercole Strozzi
e Antonio Tebaldeo) e le tre donne (Lucrezia, Angela Borgia e la sposa). Bembo
sottolinea come le situazioni siano diverse ma simili. Il vincolo che lega Lucrezia
all’autore renderà il rispecchiamento più forte e più segreto. Nello stesso tempo il tema
dell’assenza, della lontananza, acquista un sapore particolare perché è direttamente
investito dalla dimensione della morte e dalla perdita che essa comporta. Negli
esemplari della prima stampa degli asolani con la lettera a Lucrezia, la prospettiva si
fa più complessa e tragica.

2. La corte di Caterina Cornaro e i suoi diversi ritratti

Nel 1530 Bembo viene incaricato dal consiglio dei dieci di scrivere la storia di Venezia.
Lo stesso incarico era stato dato ad Andrea Navagero che aveva fatto bruciare nel 1529
quanto aveva scritto. L’opera, scritta in latino sarà finita nel 1544, Bembo era già
cardinale (era stato nominato nel 1539). Quando Bembo muore nel 1547, l’opera era
già stata tradotta da lui in volgare. La storia della regina di Cipro compare subito nel
primo dei dodici libri che formano la istoria veneziana e le differenze rispetto agli
asolani sono impressionanti. La versione della storia è più mossa e si delinea intorno
alla figura femminile e alle nozze della damigella. A quattordici anni Caterina viene
data in sposa, per procura a Giacomo II di Lusignano, nel 1468. Egli era diventato re
di Cipro usurpando il trono della sorellastra Carlotta. Per motivi personali, egli non
tiene fede all’impegno nuziale per alcuni anni. Dopo pesanti interventi della repubblica
di Venezia, che aveva dichiarato Caterina sua figlia adottiva, le nozze avvengono nel
1472. Il re muore l’anno dopo e nel 1474 morirà anche il figlio che era nato da questo
matrimonio. Lei accusa della morte del figlio Vettor Soranzo, che le aveva proibito di
allenarsi da Famagosta a causa della malaria. Negli asolani, veniamo a sapere che il re
di Napoli Ferdinando II aveva mandato dei messaggeri per proporre a Federica di
sposare uno dei suoi figli: questo non avviene con la forza dalla Serenisima, i due
messaggeri vengono catturati e imbarcati su una galea per Venezia. Uno dei due,
tristano Giblet, non arriverà mai. Caterina sale lilla galea del fratello e dopo, il 5 giugno
1489 arriva a Venezia dove viene accolta in modo ufficiale, accoglie a che non era mai
stata dedicata ad una donna. Asolo è la conclusione di tutta la vicenda. Viene trattata
da regina ma, di fatto, non lo è più: nel 1510 il consiglio dei dieci la sospetterà di aver
parte negli intrighi di Cipro da un certo Antonio Rossi e minaccia di punirla. Il
volgarizzamento di Bembo viene pubblicato nel 1552; nel 1786-90 Jacopo Morelli
critica delle scelte editoriali. L’edizione cinquecentesca ha cambiato la narrazione di
alcuni eventi. L’editore cinquecentesco intervenne sulla lingua e sullo stile, la versione
di Morelli è invece fedele all’originalità. La regina Cornaro che celebra le nozze è
immagine emblematica della dea d’amore. Ci sono come due ritratti per riprendere il
paragone di Morelli: quello storico (realistico) e quello emblematico. Il secondo si
spiega nell’ambito dell’elogio cortigiano e del codice mitologico. Riscrivendo il canto
della seconda fanciulla, Bembo ha lavorato sul tema della servitù d’amore, l’ha
separato dalla contrapposizione tra la vita e la morte per introdurre al dimensione del
regno d0Amore in cui l’ancilletta diventa una “gran reina”. Nel terzo libro, l’eremita
racconta a Lavinello il mito della regina delle isole fortunate: ella fa cadere
addormentati coloro che la amano e quando si svegliano conosce di loro sogni, misura
la qualità del loro amore e li tratta di conseguenza. Se non l’hanno mai sognata, non la
amano. Perottino, Gismondo e Lavinello hanno sognato poco della regina. Siamo alla
fine degli asolani; la corte di Asolo resta sullo sfondo e si sovrappongono la corte
d’amore, la corte fiabesca della regina delle isole fortunate.

Capitolo terzo
1. Lo specchio del testo e la cornice dei proemi

Gli asolani mettono in scena diversi livelli: ci presentano un dialogo in cui i personaggi,
maschili e femminili, sono ben caratterizzati: discutono d’amore, leggono poesie, si
atteggiano in modi diversi: è una specie di spettacolo teatrale che vede sulla scena la
letteratura nelle sue diverse forme (la lirica, i ragionamenti) e insieme le diverse
reazioni di un pubblico ideale (la brigata che si ritira nel giardino, poi la regina con il
suo seguito). Gli Asolani mettono in gioco lo statuto della letteratura che è
pluriprospettico; Lo schema ternario indica un percorso verso la verità. I primi tre
proemi dei libri hanno una funzione importante: fanno da cornice ai dialoghi,
inserendoli nella più generale tematica della funzione della letteratura e danno
all'elettore le istruzioni utili a riconoscere le tappe del percorso per il quale è stato
guidato. Se noi leggiamo di seguito i tre proemi possiamo cogliere bene questa
operazione: essa si basa sulla persistenza di un gioco metaforico ripreso e interpretato
in senso morale che costituisce una progressiva messa a fuoco. Quella che ci viene
proposta è in primo luogo l'immagine canonica della letteratura come specchio della
vita umana. È un'immagine che ha ha ascendenze medievali ma qui è reinterpretata in
chiave umanistica. La letteratura ci offre una via breve alla conoscenza che può
prevenire e in parte sostituire quella che ci viene dall'esperienza diretta dei vari casi
della vita. La Letteratura così come la scrittura ci permettono di guardare come in uno
specchio, di vivere cioè un'esperienza fatta sia di lontananza sia di identificazione. Le
metafore con cui il brano (ma di vero, sì come nel più delle cose.) si chiude.
Riprendono gli ampi paragoni con cui il proemio si apre: nelle questioni di fondo della
vita e in primo luogo nell'amore, la passione originaria, leggiamo siamo come naviganti
in una notte buia e tempestosa, che ritrovano la via grazie a una bussola oppure come
viandanti in una terra sconosciuta, che si fermano esitando dove diverse strade si
incontrano. In questa ottica lo scopo della letteratura è fornire la bussola, gli Asolani
aiuteranno a conoscere quale amore sia buono e quale sia da evitare. L 'esegesi delle
metafore offrite da bembo sono le seguenti: i venti che tempestano il mare sono le
passioni, L'intrico delle vie che rende esitante il Pellegrino è la varietà delle opinioni.
Lo schema delle quattro passioni può mandamentali dell'anima, di ascendenza stoica
poi ampiamente adottato nel medioevo, verrà usato prima da perottino nel primo libro
canto ventunesimo poi da Gismondo nel secondo libro canto tredicesimo. Nel proemio
del terzo libro la metafora di una navigazione senza bussola verrà ripresa e declinata in
vari modi per indicare il rischio di non perseverare nella difficile ricerca della verità e
di affidarsi invece alle opinioni altrui; l'altro rischio quello di fermarsi alla prima
soluzione trovata, è simile a quello di colui che rinuncia alla ricerca. la varietà delle
opinioni è simboleggiata di strade che rende incerta la via del Pellegrino. Accanto
all'utilità alla letteratura offre anche un particolare piacere: nello specchio della
letteratura le immagini si moltiplicano alla qualità infinita del piacere è proprio legata
alla loro diversità. La metafora del cibo dell'anima tornerà nel proemio del secondo
libro. Bembo vuole dimostrare l'assurdità del fatto che gli uomini si occupino più del
corpo che dell'animo. Il proemio ci guida nel percorso della lettura, il primo libro ci
ha fatto conoscere quanto sia terribile la malattia d'amore; nel secondo ci sarà
un'opinione discordante. L'autore non prende distanze da Perottino ma sottolinea la
dimensione conoscitiva del suo discorso.

2. Le indicazioni del percorso: conoscenza e terapia dell’anima

Alla Fine del secondo libro il discorso appassionato di Gismondo viene interrotto dal
suono delle trombe ed egli passa il testimone a Lavinello: toccherà a lui dire dell'amore
quello che egli non ha fatto in tempo a dire. quest'ultimo non vorrebbe, è consapevole
del fatto che la sua collocazione nel tempo e nello spazio del dialogo gli assegna un
ruolo particolare, al quale egli vorrebbe sottrarsi: il ruolo di colui che pronuncia la
sentenza, di chi ha la parola definitiva. Gismondo reagisce con una minaccia che da un
lato richiama alla mente il modello della Corte d'amore dall'altro ha una funzione
profetica (o Lavinello, o tu ci prometti di dire). Lavinello Fa notare che in tempo di
festa il lavoro dei tribunali è sospeso ma poi si fa convincere. La profezia di Gismondo
si avvera, all'inizio del terzo libro la regina incuriosita da quanto ha sentito, interroga
Berenice sul giardino e sui ragionamenti e decide di partecipare. Berenice non è scelto
al caso dalla regina: è la più autorevole delle donne ed è anche la più adatta a fare da
mediatrice tra due spazi e due tempi: quello del palazzo e quello nel giardino, quello
della festa e quello dei ragionamenti d'amore. Il codice del decorum stabiliva una
corrispondenza tra la qualità del discorso e la qualità di chi lo pronuncia e chi lo ascolta.
La presenza della regina crea aspettative precise. Lavinello diventa una specie di
maestro delle cerimonie: fa la sua riverenza alla regina e allo stesso tempo fa da
suggeritore e da commentatore per il pubblico dei lettori sottolineando la diversità del
pubblico e la superiorità del discorso che tutto questo richiede e comporta. Egli dice di
essersi interrogato a lungo su cosa potesse dire preoccupato dalla debolezza del suo
ingegno. Quando Lavinello incontra l’eremita questi lo chiama per nome e dice di aver
avuto un sogno che gli ha comunicato quanto accaduto nel giardino della regina.
Lavinello dice di essere arrivato lì per volere degli dèi. Abbiamo una specie di doppio
proemio, o almeno di un proemio interno al terzo libro che segnala lo scarto: il codice
del decorum sta per lavorare in un piano più alto. Il messaggio che l'eremita sta per
pronunciare si adatta a quella parte dell'umanità che, come la regina, è più vicina agli
dèi il che svela anche la funzione cortigiana svolta da l'armamentario sapienziale che è
mobilitato intorno alla figura e al discorso del Romito. Si alza non solo la qualità del
pubblico ma anche quella di chi parla. Il proemio del terzo libro rafforza giustifica con
le debite argomentazioni l'attesa della verità questo intravedere arrivo della metà che
crea la cornice del dialogo. Si intrecciano due temi: la difficoltà di arrivare al vero e
dall'altro lato la possibilità e il dovere morale di farlo. I due libri precedenti sono come
guardati con uno sguardo esterno così da diventare esempi di questa problematica più
ampia. Bembo qui (et furono già di coloro che, di ciò che venisser) Ci propone la
ricostruzione di un circolo vizioso in cui la ricerca della verità genera il dubbio, adesso
alimenta la topica retorica (disputa in utramque parte, l’improvvisazione). Per Lina
Bolzoni, Bembo legge qui in modo personale il dibattito tardo quattrocentesco sui
rapporti fra retorica e dialettica e fra retorica e ricerca della verità (la qual credenza
quantunque et in que’ tempi fosse..). Il modello della palinodia viene rievocato da
savinelli per ribadire la necessità che i piaceri dell'amore si limitano a quelli legati della
vista e all'udito. quello che poteva apparire come disputare a favore dell'amore adesso
ha una nuova prospettiva: lo fa apparire come un discorso in biasimo dell'amore che
merita una palinodia. Bembo cita l’elogio E/o il biasimo di Elena tradotto tra il 1492 e
il 1493 scritto da gorgia (elogio di Elena), per condannarne la tesi. Gorgia aveva difeso
Elena ricordando i poteri incantatori della parola, oltre alla forza dell'amore. Negli
asolani il caso di Elena, e dei testi a lei dedicati serve a riaffermare il carattere parziale
della tradizione retorica che si affida solo ai propri strumenti logici e formali. Il terzo
libro potremmo dire che stia raccogliendo gli indizi narrativi e le indicazioni di lettura
dei proemi, è il libro della verità. È significativo l'invito con cui si chiude il proemio
del terzo libro (et hora le quistioni e tirando...), se fin dalle origini il dialogo si colloca
ai confini tra la vita e scrittura qui bembo ci invita ad ascoltare.

3. Lo specchio incrinato: la seduzione della parola

Nel proemio del terzo libro Bembo indica le difficoltà che si incontrano nella ricerca
del vero, e nello stesso tempo ribadisce che trovare la verità sia possibile e doveroso.
Fra i rischi da evitare c’è quello di affidarsi alle posizioni altrui (egli non si dee così
leggiero); qui l’idea della letteratura come specchio subisce una pericolosa incrinatura:
non solo le parole possono essere lontane dalla verità, Ma possono anche non riflettere
le reali convinzioni di chi scrive: a rendere torbida è infedele l'immagine riflessa dallo
specchio possono concorrere molti legami e impedimenti quali, le passioni, lo stile di
vita. Può capitare che l'immagine riflessa dallo specchio acquisti una vita propria e ci
seduca. nel bel mezzo del discorso sulla verità questa parentesi rimette in gioco la forza
della parola e la sua capacità di incantamento: è la descrizione dell'azione di un legame
magico. Possiamo partire da qui per vedere come il testo decostruisca la cornice
interpretativa di cui si è dotato, i tre dialoghi appaiono non tanto come un percorso
verso un porto sicuro ma piuttosto come i luoghi in cui si possono trovare collocazione
le diverse forme che può prendere la materia trattata. Rispetto al tema della ricerca del
vero si vanno così delineando, nell'interno del testo, il piacere autonomo del dire e lo
spazio del gioco, dello scherzo, della favola. Analoga chiave interpretativa viene
proposta da gismondo all'inizio del secondo libro, dapprima rimprovera a perottino di
comportarsi come un fanciullo che piange per le sue disavventure invece di reagire
come un uomo cioè calpestando la fortuna. dunque, incapace di reagire da uomo per
Perottino ha addossato tutte le colpe ad amore. Che così ogni valore di conoscenza e di
verità alle parole dell'amico; la condanna di amore può apparire come la copertura
dell'incapacità di assumere un atteggiamento stoico nei confronti della sorte.

4. La messa in scena degli strumenti del dialogo

Le doti che al di là del discorso di perottino intendono caratterizzare tutti i dialoghi


dell'opera sono altezza e diversità di dire. E’ significativo in quest'ottica che vengano
puntualmente messi in scena gli strumenti di natura diversa usati per l'argomentazione
e per lo sviluppo del discorso. Si sottolinea come Perottino faccia ricorso prima
all'etimologia per cui “amare” venga da “amaro”: Soffermandosi poi sui miracoli
d'amore e annunciando in seguito di voler lasciare da parte i sillogismi, poco adatti a
un pubblico femminile per poi Fermarsi sulle quattro passioni fondamentali dell'anima
(I, XXI). Secondo le regole del in untramque parte, a Gismondo tocca il compito Di
ripercorrere la tela argomentativa di perottino per rivolgerla contro di lui. Per questo la
tradizione richiedeva memoria: ricordiamo che nel manoscritto Gismondo aveva
esibito a memoria le canzoni delle fanciulle.

5. Il poeta come giocoliere e le reazioni del publico

Perottino e Gismondo si fanno portatori di due modelli: il primo incarna un modello di


trasparenza, la poesia dà voce alle passioni che lui prova che a loro volta rivelano la
vera natura di Amore. Gli ascoltatori sono chiamati ad una ricezione passiva; le donne
capiscono subito che Gismondo, proponendo di ragionare d’amore provocò Perottino.
Alla fine della prima giornata piangeranno tutti, trascinati dal pianto di Perottino.
Gismondo decostruisce l’idea della poesia trasmessa da perottino; riconosce la forza
della sua posizione e si dice in primo luogo partecipe alla seduzione generata dalle sue
parole: il sole che sta tramontando; anche lui ha pianto con Perottino ma l’intensità
delle emozioni, sono altro dalla verità. Punto centrale del discorso di Gismondo è che
perottino ha barato al gioco, anzi ha nascosto l’esistenza stessa del gioco. Quei miracoli
d’amore che egli ha presentato come testimonianza di verità sono solo componenti di
una tradizione, così egli esordisce citando l’intreccio tra amore e morte che Perottino
aveva declinato in modo coinvolgente. Gismondo mette in crisi, in primo luogo, l’idea
della poesia come testimonianza della verità, il mito della trasparenza, che nasconde
sia l’esistenza della tradizione, sia l’intervento del poeta. È un modo di mascherare,
egli nota, la volontà di dominio sul pubblico o l’incapacità di controllare le proprie
passioni che nasce dalla malinconia d’amore; quelle canzoni che Gismondo ha scritto
vengono presentate come responsi di oracoli, depositari di una verità che va solo
riconosciuta e interpretata. Per Gismondo la novità et la vaghezza dei veri di Perottino,
il piacere e il diletto che essi hanno prodotto, non sono in alcun rapporto con la verità.
Gismondo rivendica la dimensione autonoma della poesia, il lavoro di variazione in
cui essa consiste, il suo operare alla ricerca di effetti nuovi. Molto importanti sono per
noi le metafore visive che Gismondo usa. Ci invitano, attraverso le altre, a scorgervi
l’immagine dell’Amore. Tramite queste metafore, il lettore guarda ciò che aveva
narrato Perottino con occhi diversi. Rispetto alla redazione del testo pubblicata nel
1505, Gismondo non recita la canzone di seguito ma ne recita una stanza alla volta: la
prima stanza descrive la partenza del cuore, che segue la vita dell’amante. Il poeta –
Gismondo – esibisce la propria abilità di giocoliere (per il Tesauro). La consapevolezza
della tradizione, di un patrimonio topico comune. Gli Asolani contribuiscono ad una
rielaborazione di quella tradizione. Le parole di Gismondo rendono tutto questo visibile
attraverso la connotazione del gioco e dello scherzo, che corrisponde anche al senso di
padronanza. Allo stesso tempo, gli Asolani, contribuiscono a ricreare la tradizione a
due livelli, di scrittura e di lettura. In primo luogo sono una scelta commentata delle
poesie di Bembo, egli modifica via via nelle. Versioni degli Asolani la sezione delle
poesie. Il rapporto con Petrarca è molto significativo sul versante della lettura, dato che
la prosa degli asolani tende a tradurre la lirica petrarchesca.

Capitolo quarto
1. L’amorosa pintura, ovvero perché Amore è un dio.

Cosa è la pintura, l’immagine dell’amore? Gli Asolani ci introducono nel vivo di quel
forte intreccio tra parole e immagini che caratterizza la cultura del periodo. Abbiamo
visto che Perottino ne rivendica la verità conoscitiva ed emozionale, mentre Gismondo
porta alla luce l’intervento del poeta. I miracoli d’amore trovano corrispondenza nelle
metafore del linguaggio poetico, nella memoria culturale cioè nelle immagini del mito
e nell’iconografa di Amore (il giovane dio, il fanciullo alato che colpisce con le frecce).
Questa immagine diventa una specie di sintesi visualizzata nei miracoli d’amore,
un’immagine di memoria. Perottino chiede a Lisa perché mai se amore è causa di tanti
mali, gli scrittori lo fanno dio. La questione appare peregrina, chiama in gioco il valore
della verità del mito e con esso della poesia. La risposta che Perottino dà prende le
mosse da una rilettura del mito di Orfeo che ne fa l’immagine della forza primogenita:
alle origini del mondo, quando gli uomini sono rozzi e selvatici, la natura insegna a
trovare la poesia, e con essa il canto. Il mito viene interpretato in chiave allegorica, le
bestie, gli alberi, i sassi che sono affascinati dal canto di Orfeo, sono in realtà gli uomini
primitivi. La missione diventa allora educatrice, che si può compire solo attraverso le
favole. Le divinità degli antichi sono una delle favole poetiche nell’interpretazione di
Perottino. L’iconografa di Amore è uno strumento che ci aiuta a conoscere e a ricordare
la sua potenza; la stessa origine e funzione hanno, nell’ottica di Perottino, altre figure
del mito, in particolare quelle dei dannati alle pene infernali. Così viene evocato il
supplizio di Tantalo. Le parole di Perottino sono cariche di memoria letteraria, il
canzoniere petrarchesco alimenta la descrizione delle pene notturne che travagliano
l’innamorato, contrapposte alla quiete della natura mentre la Fiammetta di Boccaccio
ispira l’evocazione dei tormenti infernali. Eppure, è Bembo a sottolineare il carattere
visivo dei dannati, che rimedia alla inadeguatezza di parole.
2. I miracoli della mente

Nel manoscritto degli Asolani vi sono due note che convocano Marsilio Ficino, in
particolare l’opera Theologia Platonica scritta tra il 1469 e il 1474 e pubblicata nel
1482. Questo avviene in due punti del testo: il primo riguarda la risposta di Perottino a
Lisa che gli ha chiesto perché amore è chiamato dio; il secondo rinvio a Ficino riguarda
il brano in cui si evocano i torrenti da cui l’innamorato è assalito anche di notte. In una
glossa c’è un rinvio a Ficino. Per Claudia Berra, il rimando indica a cultura
neoplatonica di Bembo mentre per Finotti indica il distacco tra i due. La theologia
platonica ha come tema principale l’immortalità dell’anima, dimostrata attraverso il
ricorso a Platone e ai platonici. Il tredicesimo libro – da cui Bembo attinge – vuole
dimostrare che l’anima domina il corpo e che essa abbia quattro tipi di poteri, a seconda
che derivino:
- “ab affectibus phantasiae”: mostrano come la fantasia agisca sul corpo attraverso
le quattro passioni del desiderio, piacere, timore, dolore; gli esempi vanno dalle
immagini che la donna incontra imprime sul feto;
- “Ab affectibus rationis”: si citano le capacità che l’anima mette in atto quando
si estrae dal corpo e torna a sé stessa, così da ritrovare pieno legame che la unisce
alle altre menti e a dio. Può vedere tutto, senza limiti di tempo e i luogo. Il sonno
è il primo dei sette vacatio, cioè il distacco dell’anima dal corpo.
- “Ab artium et gubernationis industria” cioè i segni che derivano dalle capacità
che l’uomo rivela nelle arti, in cui non solo imita ma supera la natura, in cui
insegue non solo il necessario per la sopravvivenza ma il soddisfacimento del
piacere.
- “Ab effectu miraculorum” cioè dai miracoli che l’uomo può operare, mutando
la specie delle cose. La potenza dell’anima si può manifestare sia nei malefici
(capacità di uccidere con lo sguardo) sia nei benefici (quando gli uomini santi si
danno interpreti dei bisogni dell’umanità). Il momento culminante è quando
l’anima si inebria di Dio e diventa partecipe del suo potere di controllare l’intera
realtà.

Bembo non crede alla verità risposta nei miti, non ne fa posto di segreti sapienziali, è
significativo però che quando si interroga sui modi in cui essi sono costruiti, pensa al
testo di Ficino che riconosce alla mente umana poteri di perturbante complessità. Le
note su Ficino suggeriscono una chiave di lettura, ed esse danno al problema dei sogni
e delle figure dei miti, uno spessore che resta nella nostra memoria.

3. L’incontro con Narciso

La risposta di Gismondo sul perché amore disia un dio ripercorre L argomentazione di


perottino cogliendone da subito i punti deboli: la contraddizione tra L attribuire verità
ai miracoli di Amore e quindi in qualche modo alla sua natura divina, e dall’altro lato
il riconoscere che tutto nasce dalle nostre passioni. I personaggi del mito che Perottino
aveva invocato a piena testimonianza delle pene d’amore, qui vengono ricordati.
Questa visione infernale dell’amore
deriva, secondo Gismondo, dall’eroe di fondo che egli ha denunciato prima,
dell’incapacità di temperare le proprie passioni e l’amore. L’amore di sé
sopravviverebbe in universo privo di affetti e di vita (in merito a narciso); Gismondo
rievoca il mito dell’androgino per dimostrare che questo fanno le donne e gli uomini.
Nella sua ottica, il mito di Orfeo diventa l’antitesi e l’antidoto alla tentazione di
Narciso: se Perottino l’aveva ricordato a indicare la potenza della poesia, che insegna
agli uomini la natura divina e terribile dell’amore, Gismondo invece lo cita nel mezzo
dell’esaltazione dei piaceri che l’amore dà. Questo significa, per Gismondo, che il
potere che ha la voce della donna amata fa dimenticare ogni pena. L'incanto dell’amore
unito alla poesia è una mise en abyme degli asolani stessi.

4. Là dove si accalca il popolo dei sogni

Molto vicino è il passo delle Enneadi di Plotino in cui Narciso rappresenta l’anima che
si lascia affascinare dalla bellezza dei corpi dimenticando che si tratti di immagini ed
ombre della bellezza vera. Ne El libro dell’amore si denuncia il rischio che l’anima,
affascinata dalla bellezza del corpo, dimentichi sé stessa per seguirlo. Il padre Bernardo
aveva il testo con le stesse note di Ficino; questo ci fa pensare che egli fosse l’autore
che più agisce nella memoria di Bembo. Nel brano della theologia platonica abbiamo
una tripartizione di base: i sogni degli uomini, ispirati ai piaceri sensibili; quelli sognati
da chi disprezza quel tipo di vita e si impegna nella vita civile o nella ricerca filosofica
e quelli che si abbandonano a dio. Un ulteriore llegame tra le due opere è dato dal nesso
che Ficino pone tra nostri sogni e il nostro destino, l’idea che noi siamo quel che
sogniamo. Ecco allora cos’è l’inferno: è il mondo dei sogni che l’anima impura porta
con sé. Il mito di Narciso viene associato a quello di Circe in quanto entrambi
esprimono l’incapacità dell’uomo di vedere la propria natura e liberarsi dai legami della
materia. Il mito di circe appare anche nell’ultimo libro della theologia di Ficino.

Capitolo quinto
1. Il giardino della regina

Nel terzo libro, la presenza della regina tra la brigata dei giovani ricostruisce anche
visivamente il suo controllo su di uno spazio – il giardino – che si era costruito come
separato dal palazzo e che Lavinello supera i limiti dei ragionamenti che vi si erano
svolti portando dentro lo spazio del giardino un altro punto di vista. Vediamo ora come
vengono rappresentati il bosco della regina e il boschetto del romito.al giardino, luogo
di diporto e di piacere, come dira la regina, si arriva per approssimazioni successive. Il
primo luogo descritto è Asolo, che a sua volta viene rappresentato nella sua lontananza
dalla città. Viene infatti collegato con una sola stagione dell’anno e con una pausa negli
ambienti quotidiani: è il luogo dell’otium. L insistenza del testo sulla consuetudine,
sulla convenienza sociale di tale divisione di luoghi, di tempi, di abitudini. Rispetto
alla redazione finale, la versione manoscritta degli asolani si sofferma su quelli che noi
chiarimmo i piaceri della villeggiatura. Questo mondo della campagna, della vita in
villa, è un microcosmo in cui tuti sono vicini o non lontani; un microcosmo che si crea
come si diceva, in relazione con la città di Venezia: tutti provengono dalla città
compresi questi tre gentiluomini, i quali ad essa faranno ritorno. Il luogo specifico dei
ragionamenti d’amore è messo a fuoco per approssimazioni successive: vi si arriva
attraverso le tappe di un percorso che inizia dall’alto, dal palazzo. Il giardino infatti
appare alla giovane brigata mentre si affaccia da un balcone. Lo sguardo dell’alto
permette di ottenere un’immagine integrale del giardino. L’invito di Gismondo a
raggiungere il giardino fa del giovane l’alter ego del Dioneo del decameron e richiama
cosi alla mente del lettore un modello che ha importanza essenziale nella cornice del
dialogo. Il giardino descritto nell’introduzione alla terza giornata del decameron è
puntualmente ripreso nella descrizione è ripreso nella descrizione del giardino della
regina. Nella redazione a stampa, un siepe di bossi diventa una siepe di ginepri
(memoria petrarchesca). Il pratello costituisce un deplacement sia rispetto al giardino
della regina, sia rispetto al giardino del decameron la cui memoria continua a essere
fortemente presente: nel testo di Boccaccio il prato è nel mezzo del giardino, non
all’estremità e la fonte è collocata nel mezzo del prato. La connotazione dell’ordine, il
controllo dell’arte tendono in questo luogo a indebolirsi. La Disposizione riflette un
ordine interno al gruppo, che diventa evidente con l'arrivo della regina con la quale
compaiono sulla scena anche due cuscini, bellissimi. Gli elementi naturali che
compongono il luogo possono inoltre venire chiamati a svolgere un ruolo
nell'argomentazione,questo avviene nel secondo libro dove l'esaltazione dell'amore che
Gismondo fa si dilata dal mondo umano a quello naturale. Lavinello nega che le piante
siano capaci di amare e questo ricorda il mito di Danae trasformata in alloro come
esempio di infelicità provocato dall'amore, gismondo propone questo come una
punizione per non aver ricambiato l'amore. Il Momento di maggiore espansione
narrativa avviene quando nel secondo libro, due colombe scendono a posarsi sull'orlo
della fontana e si baciano dolcemente finché un'aquila si avventa su di loro e ne porta
via una, lasciando l'altra nell'angoscia.

2. Il bosco del romito

Nel Terzo libro un'altro luogo naturale entra sulla scena:e il boschetto in cui vive il
Romito. Per molti aspetti si tratta dell'immagine rovesciata del giardino, in questo
luogo si arriva da soli, allontanandosi dal palazzo, salendo di prima mattina in cima a
un colle. Andarvi è una specie di destino. Se Il giardino della regina nasceva da una
natura interamente controllata dall'arte, il boschetto rappresenta una natura di per sé
perfetta e modellata che pare creata artificialmente. Come il giardino si attraversa per
giungere al praticello, così il bosco si apre in una radura, la capanna che vi si trova
viene a corrispondere al palazzo della regina. Il tema dominante è quello di una purezza
e di una perfezione naturale, insieme originarie e riconquistate. Il Bosco è rotondo;Il
romito passeggia lentamente e sembra confondersi con la natura; si ciba solo quello
che gli offre la natura. Siamo nel luogo della solitudine, del silenzio, dello studio delle
sante lettere. Si dice che il solitario romito, uomo “scientiatissimo” Non sia chiuso ma
che anzi sia pronto a trasmettere la propria saggezza agli altri. La saggezza che ha viene
dall’alto. Il discorso del romito che lavinello porta dentro l’universo parallelo del
giardino della regina, conquista per sé tutto lo spazio del testo: gli Asolani finiscono ex
abrupto, con una breve didascalia: “il che poscia che hebbe detto Lavinello, a’ suoi
ragionamenti pose fine”.

Capitolo sei
1. La compagnia degli amici: una fragile utopia

Il Testo si chiude bruscamente, ma non nel modo in cui il quadro ci ha consegnato: lo


specchio che il testo si impegna a costruire si apre in realtà su uno spazio teatrale dove
cambiano i personaggi e gli scenari. Il testo degli asolani ci presenta i diversi modi
possibili in cui si può pensare e dire l'amore. Diverse opzioni, personaggi che le
incarnano restano tutti lì davanti a noi. C’è uno straordinario documento che
probabilmente risale ai primi anni del 500, ossia le leggi della compagnia degli amici
o Leggi dell’amicitia (titolo più tardo). Se le leggi sono di mano del Bembo l'opera
chiamata le postille di un amico sono di Tommaso Giustiniani. I Quattro amici che si
impegnano a osservare le leggi e che il manoscritto indica solo con le iniziali sono:
Pietro Bembo, Tommaso, Vincenzo Querini e Niccolò Tiepolo. Le leggi Scritte da
bembo hanno la forza e la debolezza di una utopia giovanile:testimoniano il desiderio
di fissare nel tempo quel senso così pieno e vitale dell'amicizia che è proprio della
giovinezza, di trasformarla in qualcosa che duri negli annidando la garanzia di
funzionare anche in futuro come bastone contro le sofferenze della vita. La compagnia
è molto esclusiva, infatti, nessuno potrà chiamare con il nome di amico uno che sia al
di fuori della stessa e in comune saranno anche i nemici. Il testo può essere letto in
controluce degli Asolani: esso ce ne fornisce un'immagine fedele e utopica. Tommaso,
nelle sue postille, propone delle osservazioni che stravolgono il senso dell'opera.
Giustiniani, tra i beni dell’animo da mettere in comune, pone l’acquisizione del sapere:
ognuno deve comunicare agli altri ogni suo studio, annotazione. La compagnia è intesa
come strumento di crescita morale.

2. La tentazione dell’’eremo

In questi anni Giustiniani inizia un percorso di crescita spirituale che coinvolge amici
molto vicini a bembo, compreso Vincenzo Querini (che prenderà il nome di Pietro,
1479-1514). Giustiniani e i suoi amici ricercano un’elevazione religiosa che si nutre
della esitazione, praticano una vita solitaria che non rinuncia al sostegno dell’amicizia.
Nel 1506 si ritira nell’isola di Murano, Po va in terrasanta per studiare la bibbia. Torna
in patria nel 1510 dopo aver vissuto in un convento francescano e non prende i voti per
poter stare con i suoi amici in libertà. Successivamente, lui e Vincenzo prenderanno i
voti e scrivono per incarico del papa il Libellus ad Leone X che delinea il complesso
programma di riforma della chiesa. Querini muore nel 1514. Nel 1520 Giustiniani va
nelle indie, il nuovo mondo fermandosi però nell’appennino umbro dove aiuterà degli
eremiti; nel 1527 una missione lo fara capitare nel mezzo del sacco; viene liberato ma
muore pochi giorni dopo. Prendiamo in considerazione il Romito dell'ultimo libro,
come mostrato da Claudia Berra in lui si condensa una ricca memoria letteraria: svolge
una funzione strutturale di personaggio al quale compete la rivelazione della verità,
Mentre nella sua descrizione possiamo vedere alcuni personaggi come ad esempio il
Genipatro dell’Alberti. Potremmo dire Che bembo dia vita a quel modello che in modo
tormentato si stava delineando nel percorso del Giustiniani e dei suoi amici. Anche
Petrarca a Valchiusa fu modello.

3. Bembo ambasciatore nel regno di V

A poca distanza dalla prima edizione degli Asolani c’è un altro testo che costituisce
una specie di commento e controcanto insieme, ossia le Stanze. Siamo nel 1507, in
occasione del carnevale. Alla corte di Urbino si festeggia come conviene, con maschere
e danze e Bembo partecipa. Insieme all’amico Ottaviano Fregoso, si presenta sulla
scena vestito da ambasciatore nel regno di Venere. Entrambi non conoscono ancora la
lingua della corte in cui sono giunti e cercano un interprete per mandare un messaggio
a Elisabetta Gonzaga e alla sua amica Emilia pia. Vengono recitate le cinquanta ottave
delle stanze. E’ un elogio cortigiano, si ispira al Cortegiano: I personaggi sono gli stessi
e i dialoghi che il testo evoca sono collocati idealmente nel 1507. Le stanze vengono
pubblicate nel 1530 insieme alla prima edizione di rime, vengono accompagnate da
una lettera all'amico che lo ha aiutato nell'impresa. Le stanze sono legata al carnevale
dunque all’insegna del gioco. Sono il frutto dell'influenza di polizia e di Lorenzo de
medici, bembo continuerà a lavorare su questo tasto per riusarlo all'interno della nuova
immagine di poeta volgare che egli va costruendo attraverso gli anni. Le stanze
prendono le mosse dalla Corte d'amore: quella che è in controluce presente nella Corte
di Caterina regina di Cipro. Si realizza quello che negli Asolani, la terza fanciulla aveva
preconizzato con il suo canto (gli anni de l’oro et la felice etade perché nelle stanze
recita “ne l’odorato et lucido oriente”). Nella sezione dell’interprete c’è una
componente encomiastica: la divina bellezza delle donne richiede una mediazione. I
motti invece erano dei versi i quali rispondevano a delle domande. Partecipano alla
tradizione dei proverbi, delle massime e degli indovinelli; in un testo il verso finale
viene spacciato per un proverbio toscano mentre in realtà è un riferimento a un sonetto
petrarchesco.

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