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INTERVISTA di Bufalino

La retorica;
Bufalino crede di poter attribuire alle sue opere il carattere di poemetti narrativi,
anziché di saggi, diari o romanzi. Fra romanzo, poesia e prosa narrativa vi sono
steccati tradizionali che al giorno d’oggi risultano sorpassati. Il fatto è che fra poesia
e prosa i confini sono fluidi e irriconoscibili. Così nel caso di Bufalino, egli interpreta il
carattere di narratore impuro. Nella pratica testuale non risulta possibile porre un
confine tra testi poetici e non, tanto minimi sono i passaggi dal non poetico al
poetico, tanto arduo stabilire dove qualcosa comincia a diventare poetica… Deve
dunque entrare nel discorso quella apparente prosa, detta poetica o prosa d’arte, la
cui caratteristica sta nel dare parità di diritto, assoluta uguaglianza al suono e al
senso, ai significanti e ai significati. Ed è questo quello che Bufalino ha sperimentato
nel corso del suo lavoro. In termini più semplici, a volte c’è un senso che vuol farsi
suono, altre volte un suono che vuol farsi senso. Il romanzo nasce generalmente
dalla prima esigenza, la poesia dall’altra. La stessa cosa dice Eco, quando distingue
narrativa da poesia, attribuendo alla prima il motto: sta ai fatti, le parole verranno
dopo, e alla seconda il rovescio di quel motto: tieniti alle parole, i fatti verranno
dopo. Questo confermerebbe l’indole lirica dei testi di Bufalino, in cui da un lato il
suono prevale sul senso, mentre il senso aspira volentieri al sublime, sebbene
corretti dall’ironia. In ‘Aspetti del romanzo’ di Forster si legge: ‘’in un romanzo non
interessa il messaggio del profeta ma il timbro della sua voce’’. Bufalino condivide a
pieno queste parole e con ciò suggerisce una lettura musicale delle sue cose, uno
studio del ritmo, delle andature melodiche, dei campi metaforici. Con una riserva,
però: che anche i contenuti si riveleranno ugualmente autonomi, non astratti né
slegati dalla melodia, ma spie di un consistente nucleo sentimentale e morale.
Questo, virtù o vizio che sia, sembra distinguere Bufalino dalla concorrenza. C’è, del
resto, nelle pagine del nostro autore, l’applicazione di una retorica. Con in più
l’ambizione di sposare a questa retorica una passione. Di giocare a un tempo su due
tablò: dello stile e degli affetti. A cominciare dai versi che Bufalino scrive
quarant’anni fa, ad esempio una brevissima Suasoria, premettendo che ‘’Suasoria’’ si
dicevano le orazioni che si proponevano di persuadere gli ascoltatori e di piegarli alla
benevolenza.
Suasoria
Le mie ragioni, amici:
la metrica e il dolore, l’ordine e la follia,
spazio e mura che cerco tentoni,
gogne guardinghe del cuore…
Trovare un mattino la via,
la pieta dove si volta…
una volta, una sola volta,
in un pugno di sillabe nude
donarvi una leggenda che fu mia!
Ma non altro che polvere scavo;
o qualche gonfia maschera d’atride
che la luce deprava:
un volto putrefatto e fuggitivo.
Oh mentitemi, ditemi ch’è vero.
Il significato dovrebbe essere chiaro: il poeta supplica un lettore futuro di credere ai
suoi fantasmi, così rendendoli vivi, sia pure a patto d’una pietosa bugia. Ma
significativi sono gli ossimori dei primi versi, dove si contrappone la metrica (cioè la
retorica) al dolore (cioè la passione del vivere); l’ordine (cioè la norma) alla follia
(cioè l’infrazione, la non ragione); lo spazio (cioè la libertà) alle mura (cioè le
costrizioni, le regole che l’arte subisce). Si può rilevare, nell’ultimo verso della poesia
(oh mentitemi, ditemi ch’è vero) una fiducia e sfiducia insieme nei poteri della
parola. Nel senso che, seppure l’arte risultasse alla fine una medicina per burla, è pur
sempre sacrosanto credere nella sua forza e nella sua consolazione. Vi è un’altra
poesia importante e rivelatrice, dove Bufalino profetizza una fortuna postume (allora
era lontanissimo da ogni idea di pubblicazione e di successo) e immaginando perfino
dieci traduzioni, concludeva con un verbo di disamore e sfiducia: sbaglieranno il mio
cuore in dieci lingue, con ciò sanzionando l’incomunicabilità d’ogni comunicazione
poetica. Nella prima poesia di Amaro Miele c’è tutto: ‘’queste parole…sorta di
macchine o giochi per soffrire di meno’’ … l’arte, dunque, come medicina e
autoconsolazione; ma anche (‘’macchine’’) come ingranaggio, artifizio. E più in là:
‘’queste parole scritte senza crederci’’ (ecco la menzogna), ‘’e tuttavia piangendo’’
(ecco lo strazio) ‘’a un me stesso bambino’’ (ecco l’ossessione del monologo, della
chiusura). L’opera serve a chi la scrive, prima che agli altri, è un gesto di autoterapia.
Torna il dualismo fra pena a finzione. Un dualismo che l’autore soffre. A questo
punto si potrebbe citare Valéry che su Pascal afferma: ‘’una disperazione che scrive
bene non è mai totale’’. Questo, dice Bufalino è falso, anche se concede che ci scrive
bene, nel momento in cui si imbelletta e trucca con parole la propria pena,
l’addolcisce e l’attenua. La Diceria, abbozzata sin dai primi anni cinquanta, fu poi
finita al principio degli anni Settanta. Vero è che originariamente voleva essere una
sorta di Vita Nuova, con poesia alternate ai capitoli. E in tale veste approdò in casa
editrice, salvo a essere poi ridotta nella forma odierna. Questo deve essere
segnalato a riprova della liricità viscerale del romanzo di Bufalino sin dal suo primo
emergere alla luce. Già in quell’opera, ma anche dopo in tutto ciò che ha scritto, ha
sempre mirato a comporre una specie di partitura musicale, un recitare cantando.
Qualcuno se n’è accorto. Vittore Branca, concludendo un suo articolo, sulla
melodicità nascosta di tanta prosa classica e italiana attraverso i secoli, dopo aver
esemplificato i versi di vari autori, da Boccaccio ai giorni nostri, citava Bufalino alla
fine, invitando il lettore dei suoi scritti a cercare questi versi nascosti anche
nell’ultimo romanzo. È evidente che negli scritti di Bufalino il ritmo, le rime nascoste,
l’allitterazione, la fanno da padroni. Un ritmo che obbedisce a leggi infallibili. Come
evitare le sdrucciole a fine di frase o di anteporre l’aggettivo al sostantivo. Al troppo
di musica, cerca al contempo di ovviare con qualche screzio di suono, o falsetto, o
dissonanza voluta. Si può fare qualche esempio di rime esplicita, innanzi tutto. Ecco il
principio di Diceria: O quando tutte le notti, per pigrizia, per avarizia… Ma sono tante
di più le rime finte, travisate in assonanze, allitterazioni… Ecco alcuni esempi in
Diceria: le materne mucose delle lenzuola dove, oltre all’impasto sonoro, è da
osservare la metafora del letto come utero materno. Ancora, sempre nella Diceria,
l’esempio più significativo: bulbi d’occhi gonfi come bubboni… L’ultima parola,
bubboni, introducendo un’idea di peste riconduce alla tematica e alla musica
generale dell’opera, dando quindi un esempio di suono-senso significativo. Dentro
l’involucro musicale, soprattutto la metafora diventa il cuore di ogni discorso
poetico. La metafora è una sorta di similitudine obliqua e occulta, che mette in
contatto due campi o catena di sensi ora contigui ora lontani. L’espressione
manzoniana ‘’Di quel securo il fulmine’’, per dire di Napoleone ch’è un fulmine di
guerra, vorrà mettere in contatto imprevisto una tecnica bellica e un fenomeno
celeste, che in comune hanno solo la rapidità. Il numero delle metafore di questo
tipo nelle pagine di Bufalino è di insolita frequenza: la metafora è il cibo della sua
prosa. È un procedimento tipicamente barocco, anche se nel suo caso si potrebbe
più precisamente parlare di barocco borrominiano, in quanto in Borromini l’ornato è
una funzione e senza di esso l’architettura cadrebbe. Altrettanto in Bufalino. Con
un’aggiunta: che a questo valore utilitario, se ne somma un altro, edonistico. Le
metafore di Bufalino hanno o vogliono avere un plusvalore di adescamento, cercano
il piacere contemporaneo dell’autore e del lettore, instaurano fra i due una
complicità; secondo una regola fissa, codificata: che la dilatazione di significato
interessi due estremi quanto più è possibile divaricati. Il piacere della sorpresa
(componente barocca), sta nel chiamare in causa a un tempo due estremi, tipo un
verme e una stella e nel farli viaggiare con la velocità della luce da due punto A e Z,
per incontrarsi in una dimensione di purissimo immaginario. Essendo esorbitante
l’uso della metafora, ne viene che l’ambiguità regni sovrana nei testi di Bufalino.
Poiché quanto più ambigua sarà l’espressione, tanto più ampio sarà lo scarto fra i
termini chiamati a confronto e voluttuosa la crepa di buio che li divide. Ambiguità sì,
ma bisogna distinguere le molte varianti di essa: ellissi, allusione, reticenza,
sottinteso. Tutto questo insinua nei rapporti fra autore e lettore un sentimento di
equivoca connivenza. Non esiste più il confidente abbandono del secondo alle
suasive affabulazioni del primo ma tutto diventa scherma, forse guerra, amorosa. Il
campo dei lettori si frantuma in classi non omogenee e fra di loro rivali: chi capisce,
chi non capisce, chi si illude d’aver capito. S’instaura un ossequio al fascino del non
detto, del non finito, dell’interrogativo, quando non insorga un’irritata rivolta. Si
possono fare alcuni esempi di reticenza, allusioni, omissioni. In Diceria Marta
racconta la sua infanzia in un castello, con un parente ‘’vedovo e vecchio, che
quando aveva bevuto timidamente la toccava’’. E lei? Che reazioni ha avuto? Cos’è
accaduto? Più tardi: ‘’Per me l’amore è un cimento che mi fa male… Dai tempi del
castello, da quelle notti’’. Notti? Dormiva col vecchio, dunque? Non si saprà, né si
saprà quanto ci fosse in lei di ripulsa o partecipazione a quei giochi crudeli. Ancora,
di Marta si sa che probabilmente è stata in un campo di sterminio nazista e ha fatto
la spia dei compagni da una sola parola, ‘’Kapò’’, che s’insinua fuggevolmente nel
discorso. Si vedano inoltre le dediche della Diceria: ‘’a chi lo sa’’. Che vuol dire? A chi
sa chi? A chi sa che questo libro le è dedicato? Il riferimento è così velato da far
supporre che lui scriva solo per se stesso. Ciò implica un sospetto di trappola e truffa
nei riguardi del destinatario, e un sostanziale disprezzo. Ne derivano conseguenza
contraddittorie ma ragionevoli, prima fra tutte il fatto che Bufalino goda di ampi
consensi e altrettante vaste antipatie. Il che riproduce la sostanziale schizofrenia del
suo essere, la divisione in due metà di cui l’una mi ama e l’altra non mi sopporta e
cerca alleati. L’unica scusa è che in fondo Bufalino scrive lettere a se stesso e può
concedersi le confidenze che vuole. Se poi, a siffatte tecniche si vuole dare un nome,
non si saprebbe trovare altro nome che quello di retorica erotica, nel senso che fra
autore e lettore s’instaura una scherma sensuale. Le fasi sono tre,
fondamentalmente: tensione, orgasmo, distensione malinconica e sazia. Dei trucchi
fanno parte gli effetti di sorpresa, i colpi di scena, gli adescamenti, i vellicamenti,
soprattutto la dilatazione o effetto ‘’retard’’ (come quelle pillole che agiscono dopo
un tempo previsto). A questa tecnica, volendo, si può aggiungere talvolta un dippiù
di crudeltà, lasciando il lettore a mani vuote ed eludendone la curiosità e l’attesa, o
comunque rispondendovi a metà. Esempi di sorprese e di reticenze viziose, in
Diceria, quando il medico consegna all’eroe il dossier che contiene i segreti del
passato di Marta e lui brucia tutto: ‘’la stufa era lì accanto, non esitai’’. Ultimo
punto: il gusto dell’ossimoro. L’ossimoro, come si sa, è l’accostamento di due contrari
e Bufalino ne fa largo uso, persino nei titoli. Ad esempio: ‘’L’Amaro miele’’,
intendendo così mimare la contraddittoria complessità dell’esistenza. Rimane da
aggiungere qualcosa sul modo di trattare la parola, il problema del vocabolario, la
sostanza di significati e significanti di cui s’intesse il lavoro dello scrittore. Esistono
talune particolarità dello stile di Bufalino, come l’utilizzo di termini nuovi (ad es.
moribondismo); l’uso e abuso degli aggettivi (ad es. tasca avventurosa, mani
scamiciate); l’uso di arcaismi e di preziosismi, di voci dotte o rare, o di altre dialettali
o popolari; la preferenza dell’astratto per il concreto (ad es. ululato delle tue
braccia).
Ironie correttive;
Le ironie correttive sono lo strumento di cui l’io narrante si serve per prendere le
distanze dalle esuberanze barocche del linguaggio o dei sentimenti. Se ne contano
moltissime dalla sola Diceria, ecco alcuni esempi: ‘’un esubero di parole, un gusto di
cantarsi e compiangersi di cui io per primo non ho saputo guarire’’; ‘’fantasie,
esorbitanze dette per riempirsene le labbra, una sera’’; ‘’con una chiacchiera delle
mie’’; ‘’ciarlatano eloquente’’, ecc.
La passione;
Se Bufalino ha dedicato tanto tempo agli ingranaggi e alle funzioni della retorica,
qualche ragione c’era: tenersi al tema, che era appunto centrato sulle maniere della
scrittura; e, inoltre, essere questo il suo connotato più appariscente, dove tenta di
esplorare talune inedite virtualità del linguaggio. Resta ora da trattare il punto più
delicato: l’innesto, su questa scrittura, di un universo credibile di sentimento e
figure, e cioè il punto d’attacco fra la buccia e la polpa. Se si immagina un’opera
come un frutto, la buccia è la scrittura, la polpa sono le figure, gli affetti, la passione.
È venuto il momento di chiedersi cosa c’è in questa polpa di sentimenti, che visione
del mondo agisce sotto la patina delle parole. La risposta è: l’amore, la memoria, la
morte, la Sicilia; temi che sono di tanti ma che Bufalino considera particolarmente
suoi. Sempre con un denominatore comune, che è lo stupore davanti alla vita e alle
sue incredibili maschere. Su tutto questo, un valore aggiunto: il falsetto e l’ironia,
pronti a contraddire e a correggere così i lussi della macchina retorica come gli
abbondoni del cuore. Dunque i temi dominanti: amore, memoria, morte, sarebbero
gli organi interni. I tre romanzi di Bufalino, che sono la Diceria, che è un
bildungroman, cioè romanzo d’educazione e in questo caso educazione alla morte,
poi c’è Argo, che è un romanzo di strutture e di segni, infine le Menzogne, che è un
romanzo incentrato sul tema della conoscenza e potrebbe quindi dirsi romanzo
gnoseologico, ne sono i contenitori più appariscenti. Per quanto riguarda la Diceria,
una cosa che pochissimi sanno, che sin dall’uscita del libro, nell’81, Bufalino pubblicò
in una cinquantina di copie riservate agli intimi (non ai critici, non ai lettori esterni),
un libretto di Istruzioni per l’uso, in cui egli diventava critico, filologo, glossatore di lui
stesso. Da esso si può trarre una pagina di notizie e dichiarazione d’intenti:
‘’A una storia di febbri una scrittura febbricitante, un arazzo mortuario di suoni.
Parole succulente, altolocate, con l’impegno di far quadrare il difficile cerchio fra
oltranza lirica e scrupolo documentario. (…)’’
Per quanto riguarda i tempi di stesura, Bufalino inizia a scrivere il romanzo nei primi
anni dopo la guerra. Ma smise quasi subito, turbato di non riuscire a reprimere gli
effetti di liberty funebre. Successivamente ci ripensò verso il ’70 e si ricredette. Da
allora una revisione ininterrotta fino all’ultimo. Invece, per quanto riguarda l’idea del
libro, esso nasce soprattutto dall’esigenza e da un turgore espressivo: c’era in lui un
grumo di parole che voleva liberarsi e che coagulò attorno ad eventi di morte e di
estate, e sotto il segno, metaforico e reale, del contagio. Il contagio è il connotato di
ogni peste. Per esse un malanno individuale ha il potere di tramutarsi in calamità
collettiva. A monte del libro stà un’esperienza: la scoperta del sentimento di morte.
Esorcizzare tale esperienza e sfogare insieme quel turgore di parole: questa è la
doppia spinta che costrinse Bufalino ad esprimersi.

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