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Parola e silenzio nell’opera di Gesualdo Bufalino

Lo scrittore, invitato a tracciare una summa dei temi e delle strategie stilistiche, pone
subito una relazione tra dolore e recitazione. Il grido originato dal patimento
esistenziale deve essere trasformato in un parlare accentuato ed enfatico, in una
recitazione che sposti su un piano di finzione la pena di vivere. Bufalino rivela così la
genesi della complessa costruzione retorica della sua scrittura che cerca per tale via
di scongiurare lo strazio, l’infelicità, e in definitiva la morte. Tuttavia la coscienza
dell’incompiutezza del linguaggio evoca la perfezione del silenzio. E all’ambivalenza
fra parola e silenzio Bufalino riconduce la lunga preparazione e l’infinito processo
compositivo di Diceria:
Io mi accingo alla pubblicazione con l’eterno rimorso di consegnare un’incompiuta
alle stampe. Nel senso che considero l’opera alla quale sto lavorando come una
specie di opus perpetuum, il cui sigillo dovrebbe essere posto soltanto dalla morte
dello scrittore. Stabilito questo, per me non c’è mai un’edizione definitiva e io soffro
questa ambivalenza fra parola e silenzio, questa oscillazione tra logorrea e omertà,
questo negarmi e offrirmi insieme.
Le riflessioni su questo nodo centrale sono ribadite in più occasioni dallo scrittore. In
Le ragioni dello scrivere, per esempio, Bufalino condanna la natura della scrittura
come denudamento e valorizza per converso la purezza del silenzio: ‘’Il silenzio,
invece… la perfezione’’. Eppure tale proposizione viene poco dopo ribaltata rilevando
per ‘’perfino chi si affezione alla segregazione, nemmeno costui resiste alla
tentazione di raccontare al mondo il suo narciso piacere e le mille soddisfazioni
dell’ammutinamento’’. La sottile affermazione pone sul tappeto la contraddizione
che presiede all’atto dello scrivere bufaliniano, contraddizione di cui lo scrittore dà
più volte conto con sorprendente consapevolezza. È significativo infatti che, durante
il seminario tenuto a Taormina nel 1989, egli, si serva di alcune sue poesie per
tornare a dichiarare la propria fiducia e sfiducia insieme nei poteri della parola, ed è
eloquente peraltro che la riflessione venga proposta nella sezione dedicata a La
retorica. Qui lo scrittore si sofferma a considerare la valenza della prima poesia de
L’amore miele, Dedica dopo molti anni, in cui la parola viene associata ripetutamente
a immagini di fragilità, di eloquio inceppato o, all’opposto finto e artificioso. Le
parole esibite dal poeta appartengono a ‘’un uomo dal cuore debole’’, e sono ‘’scritte
senza crederci’’. Il rilevamento di tale insufficienza tuttavia non impedisce di
riconoscere in esse un artificio che può lenire la sofferenza, come recita il secondo
verso che definisce le parole della poesia una ‘’sorta di macchine o giochi per soffrire
di meno’’. Il gioco della scrittura si sviluppa fra ‘’pena e finzione’’, tra ‘’vita e
letteratura’’ confermando in tal modo la peculiarità del linguaggio di svilupparsi
insieme alla vita, di essere ‘’coestensivo alla vita’’, il che vuol dire poi anche misurarsi
continuamente con la morte. Sono preziose le analisi condotte da Paolo Valesio in
Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria. Il volume fu pubblicato peraltro nel
1986, due anni prima che Bufalino preparasse gli appunti per il seminario sulle
maniere e le ragioni dello scrivere e nel decennio in cui lo scrittore, dopo il debutto
di Diceria, dà alle stampe con cadenza quasi annuale opere narrative e saggistiche.
L’esplorazione della retorica compiuta da Valesio offre delle chiavi utili per risalire
all’origine dell’apparente contraddizione tra la ‘’profusione verbale’’ dello scrittore
comisano e la sua reiterata apologia del silenzio, svelando come questi due aspetti
più che contrati siano ‘’entrambi modi di celare la silente azione dello spirito’’. Nel
superare l’ideologia umanistiche che definisce l’uomo sopra tutto in base alla sua
capacità di parola, Valesio si spinge a indagare quel punto in cui la corda tesa è
prossima a spezzarsi, ovvero quella zona estrema della parola che confina con il
silenzio. Ed è un percorso che naturalmente non può non includere anche
l’esperienza della morte. Ed è su questo crinale che emerge un parallelismo fra le
due dimensioni: evocare il silenzio significa anche prendersi incarico del muro della
morte. La retorica contemporanea, suggerisce Valesio, può compiere il gesto radicale
di rendere poroso questo muro e di figurativizzare infine anche la morte.
Osservazioni notevoli queste che si prestano a dare conto del modo con cui Bufalino
intende e sviluppa la sua retorica. Una prima spia è data dal finale memorabile di
Diceria laddove appunto il protagonista guarito, all’uscita dall’ospedale, tornando fra
gli uomini ‘sani’, tornado a sentirsi ‘’uno dei tanti della strada’’, cerca di dare una
spiegazione alla propria casuale sopravvivenza:
Per questo forse m’era stato concesso l’esonero; per questo io solo m’ero salvato, e
nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza di una retorica e d’una pietà.
Nel momento in cui egli riemerge alla salute, alla vita, dal mondo infero della
malattia è quest’ultima che si prospetta come una condizione unica di cui va
salvaguardato il ricordo e data testimonianza: è questa finalità infatti che può
legittimare, giustificare la sua salvezza. Ciò che il personaggio deve testimoniare è il
racconto, l’organizzazione funzionale di un’esperienza vissuta, nel suo intreccio
esistenziale di vita e morte, di parola e silenzio, mentre nel dichiarare la pietà
conferma l’inalienabile rapporto tra realtà e finzione, tra scrittura e verità di ogni
rappresentazione verbale. La conclusione del romanzo ribalta l’affermazione
precedente: ‘’Benchè sapessi già allora che avrei preferito starmene zitto e portarmi
lungo gli anni la mia Diceria al sicuro sotto la lingua’’. L’esigenza di testimoniare con
la parola è contrapposta ancora una volta a quella antitetica di tacere, sebbene
questa seconda opzione ipotizzi nuovamente un’ultima possibilità. Il romanzo viene
così siglato con l’infinito gioco dell’affermare e del negare insieme. Alcuni rilevamenti
particolari sui testi possono fornire ulteriori elementi. Una prima interessante
informazione si può ricavare da un empirico sondaggio linguistico (effettuato su
Diceria) che verifichi per esempio la occorrenza dei lemmi silenzio e parola nonché la
presenza di altri che afferiscono alla sfera del dire e del tacere (loquace, balbuzie,
taciturno, declamare, chiacchiera, gridare). Ne risulta una presenza che conferma il
valore di parola chiave dei due lemmi: silenzio, a un esame rapido, risulta presente
25 volte. Altrettanto presenta è parola, parlare o lemmi della stessa sfera semantica.
Insieme a questa occorrenza linguistica va considerato poi il ricordo alla tecnica della
reticenza, del non detto, dell’allusione, che restituisce il suo tendere alla perfezione
del silenzio. Insieme al mito di Sheherazade, figura del potere che la parola ha di
dilazionare la morte, agisce in Bufalino una spinta profonda di segno opposto che,
affondando nella consapevolezza della ingannevolezza della parola, aspira a
realizzare una radicale negazione del dire, aspira al silenzio come limite estremo e
insieme coronamento della retorica, un silenzio come paradosso. Il tacere cui si
riferisce lo scrittore non è un tacere qualcosa che non può essere detto bensì una
ricerca di pienezza, di compiutezza. È soprattutto il racconto Gorgia e lo scriba sabeo
che risulta, a tal proposito, molto importante. Il filosofo-retore, allievo di Empedocle,
che nell’Encomio di Elena esalta il potere incantatore della parola, è il personaggio
cui Bufalino affida la rappresentazione del suo totalizzante rapporto con la parola,
ma pure la coscienza del suo essere effimero. Egli ce lo mostra mentre,
accompagnato dal suo scriba, un giovane barbaro di razza sabea che comprende a
fatica la lingua nostra, parla da solo. Il racconto, articolato in più quadri offre spunti
di analisi diversi, a partire dalla scena introduttiva iniziale che sottolinea l’aspetto
teatrale dell’atto del parlare. Gorgia schiocca le dita come un direttore d’orchestra; è
un primo attore che conquista, seduce, innamora chi lo ascolta, armato solo
dell’acuta lingua. Nella seconda scena lo sorprendiamo in piena azione mentre canta
le lodi della parola e dimostra con un ‘’turbine di melodiosi concetti’’ l’innocenza di
Elena. Nel calcolatissimo ordito del racconto, alla seduzione dell’eloquio del filosofo
corrisponde, infatti, non a caso, il balbettare del servo emozionato di fronte a tanta
maestrìa. Di rimando accadono piccoli fatti. Una farfalla attira l’attenzione del servo
che inseguendola si accorge del sandalo sinistro di bronzo che questi calza. Gorgia
spiega che si tratta di una reliquia, dell’unica cosa rimasta del suo maestro
Empedocle e afferma che gli oggetti hanno più memoria degli uomini. Racconta
inoltre di aver provato invidia nella sua vita solo due volte:
‘’Ascolta. Due volte ho sofferto d’invidia nella mia vita. La prima fu per Empedocle,
per come ha saputo morire. La seconda ad Atene per Socrate, per come vive e saprà
un giorno morire. Socrate l’hai conosciuto anche tu in casa di Callicle, gli hai portato
l’acqua più volte, quel giorno che aveva la gola secca dal gran discorrere, e c’era un
giovinetto silenzioso di cui non rammento il nome. E io parlai della mia arte, a che
cosa serve quest’arte che professo, del persuadere…’’
In questa confessione fatta al servo c’è il nucleo tematico del racconto e insieme
un’importante chiave ermeneutica. Il venerato sofista teme di non sapere eguagliare
Empedocle e Socrate nel modo di morire ovvero di non saper essere altrettanto
grande nell’andare incontro all’esperienza fondamentale del silenzio. La scena
rievocata a tale proposito pone al centro dell’osservazione il parlare e il tacere, i
protagonisti vengono sorpresi mentre discorrono e ognuno di loro è definito e
ritratto in rapporto a tale azione: Socrate ha la gola secca dal gran discorrere e un
altro giovinetto presente è silenzioso. Nella terza scena, il parlare di Gorgia viene
interrotto dall’irruzione improvvisa del siracusano Ermocrate. Il filosofo cerca, sin dal
primo scambio di battute, di colpire con la sola arma della parola l’avversario. E,
tuttavia, se le sottili arti verbali del filosofo possono far rabbuiare il suo interlocutore
non possono altresì impedire che questi lo faccia suo prigioniero. Di fronte a tale
emergenza, Gorgia lascia libero il servo e gli fa dono dei suoi sandali. Infine, nella
grotta, dove Ermocrate e i suoi compagni lo conducono per passare la notte, egli,
sempre senz’altra spada che l’acuta lingua, continua a stuzzicare l’avversario con la
musica delle sue parole, senza riuscire ad impedire che questi spinga contro il suo
fianco una lancia e lo ferisca. Ermocrate non lo ascolta più, mentre il filosofo da
Lentini seguita a parlare. La retorica continua nel suo esercizio, ma gli eventi non ne
sono intaccati. Ad agire e a cambiarli radicalmente sarà invece il servo sabeo che,
appostato fuori della grotta, armato del sandalo, eliminerà, uno a uno, gli uomini che
si succedono nella guardia e prenderà prigioniero Ermocrate uscito per ultimo. ‘’Gli
oggetti hanno più memoria degli uomini’’, aveva detto Gorgia. E con un oggetto
carico di memoria questi lo libererà. Ma egli aveva fatto poi seguire il ricordo del suo
maestro da un altro ricordo, quello del giorno in cui ad Atene, alla presenza di
Socrate, aveva spiegare a cosa serve l’arte del persuadere. Poi, a bassa voce, aveva
fatto una confidenza che svela il nucleo ideativo di questo racconto e la sua valenza
profondamente autobiografica (di un’autobiografia ovviamente di natura
intellettuale):
Ebbene, ciò che non dissi quel giorno, è che questa ricchezza che possiedo qui, sulla
punta della lingua, questa mia retorica, è solo un po’ di vento di cui si commuovono
le cime degli alberi, ma presto cade e quelle tornano a rizzarsi immobili contro il
turchino del cielo. Mentre è il morire, il saper morire l’unica cosa che ci giustifichi
sopra la terra. Ma temo di non saper morire, temo che la mia retorica non saprà
inventare, nel momento del trapasso, né il silenzio di Empedocle né la parola di
Socrate.
Gorgia, che sa di essere insuperabile per la sua facondia, non è sicuro (e con lui
Bufalino) di saper esercitare con altrettanta grandezza l’arte del silenzio che è poi
anche l’arte suprema del morire. O meglio, egli teme di non saper portare alle
estreme conseguenze la sua riflessione: se la parola partecipa della vanità dell’essere
e la sua azione è illusoria, la vera scommessa è nella capacità di tacere. Il silenzio
coincide allora con il punto di massima tensione della parola che, dopo essere stata
sviscerata in tutte le sue possibilità espressive, può raggiungere il traguardo assoluto
nel suo azzeramento e può realizzare così la perfezione di un’assenza che è pienezza.
Ed è con questo paradosso che la retorica dello scrittore di Diceria, si prende incarico
del muro della morte, la figurativizza e, oltre a trasformare la vita in vita, riesce infine
a trasformare la morte in morte.

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