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DA MYRICAE: L’ ASSIUOLO

SCRITTO NEL 1897. L’ Assiuolo è un piccolo uccello rapace notturno, simile al gufo, che emette un verso monotoo
e malinconico

La struttura.
La poesia esteriormente è la descrizione di un notturno lunare, reso attraverso una serie di sensazioni visive e uditive,
ma come sempre il quadro apparen, temente impressionistico sì rivela immerso in un’atmosfera arcana, gravida di
sensi suggestivi, legati da una trama sotterranea di echi e rimandi. Tutt’e tre le strofe si strut. turano secondo un
analogo schema: la prima quartina propone immagini quiete, serene e di pace, mentre nella seconda si delineano
immagini più inquietanti: un’atmosfera iniziale incantata e sospesa si converte poi in un motivo di angoscia, di dolore
e di morte, che si materializza nel verso lugubre dell’assiuolo.

La prima strofa
All’inizio della prima strofa viene colto un momento fuggevole e impalpabile di trapasso, il momento in eui sta per
sorgere la luna (l’incertezza e la labilità sono accentuate dall’interrogazione che apre il discorso, «Dov’era la luna?»);
il cielo invase da un chiarore perlaceo, ma l’astro non è ancora apparso da dietro l’orizzonte. La natura è protesa
nell’aspettazione della sua comparsa (il mandorlo e il melo si ergono per meglio vederla), come dinanzi ad
un’apparizione divina; apparizione che sembra possedere una magica funzione rasserenante e purificatrice, a cui
allude sia la nota di bianco sia l’idea di nascita, di inizio che è implicita nella metafora dell’alba («un’alba di perla»),
A contrasto con questa calma pienezza, nella seconda parte della strofa si delines un’immagine inquietante, di vaga e
imprecisata minaccia: il «nero» delle nubi, che si profilano in una lontananza remota e indeterminata («laggiù»), si
contrappone 4 biancore perlaceo dell’alba lunare, ed ancora più inquietanti sono i silenziosi lampi di calore che da
esse scaturiscono, evocati con suggestivo procedimento sinestetico («sof di lampi»), per cui l’impressione visiva di
luce è assimilata a quella tattile (o, se si preferisce, acustica) del soffio. Sl negativo implicito nelle notazioni visive si
precisa poi in una voce, il verso dell’ assiuolo che viene da uno spazio indefinito, nella notte. Sappiamo che la voce
degli uc” celli, in Pascoli, ha sempre il valore di un messaggio arcano, oracolare, pieno di sen! simbolici (»T2, p. 550).
Rispetto ai Puffini dell’Adriatico la valenza è però diversa: n n° un messaggio gioioso e sereno, ma, col suo tono
malinconico e misterioso e il risuona nelle tenebre notturne, ha qualcosa di lugubre, di vagamente funebre. Coi puffini
si pù addirittura scorgere una rispondenza volutamente rovesciata: il loro verso echeggia un’alba solare, quello
dell’assiuolo invece in una falsa alba notturna, quella lunare.

La seconda strofa.
All’inizio della seconda strofa si ripresentano immagini quiete e serene, le stelle che rilucono nel chiarore diffuso e
lattiginoso (è ribadita la na di bianco della strofa precedente, con lo stesso valore simbolico), il rumore del man che si
associa a immagini consolanti (la metafora del «cullare» rievoca sensazioni di abbandono infantile alla dolcezza
materna). Il rumore indistinto che proviene dall fratte introduce già una nota più misteriosa e segna il passaggio al
clima della secondi quartina: al guizzo dell’imprecisato essere tra la vegetazione risponde 11 «sussulto» ne cuore del
poeta al sorgere di un'eco di dolore, che è come ridestato dai rumori nottuni Il «grido» che risuona nell’interiorità
dell’io lirico è ripreso dal verso dell’assiuok ora la nota vagamente inquietante si precisa, quella che era
semplicemente la «voce» dell’uccello suona come un «singulto».

La terza strofa.
All’inizio della terza strofa ritorna, in simmetria con le precedenb l’immagine della luce lunare, che qui colpisce le
cime degli alberi, ma subito pois inseriscono notazioni più negative, il «sospiro» del vento che trema, il suono finissim
delle cavallette. È questa un'impressione fonica che è ambigua come il «fru fru tra ; fratte», e reca anch'essa un
messaggio misterioso. L'incertezza e l'ambiguità sono di nuovo sottolineate da una domanda, che ipotizza il valore
simbolico di quel suona: «invisibili porte» sono plausibilmente quelle della morte. Come opportunamente ricorda
Giuseppe Nava, attento commentatore di Myricae, i «sistri» erano strumenti sacri alla dea egiziana Iside, ed il suo
culto era un culto misterico che prometteva la risurrezione dopo la morte. Ma se per il poeta le porte della morte non si
aprono più, si comprende la vaga angoscia che pervade tutte le sensazioni del notturno lunare: è l’angoscia della morte
che non consente la rinascita della vita, non permette il ritorno dei cari scomparsi.
A conferma del valore simbolico dei «sistri» delle cavallette e delle «invisibili porte», in chiusura della strofa e della
poesia il verso dell’assiuolo si concreta in un «pianto di morte». L'atmosfera inquietante, angosciosa, funebre che
pervade tutto il componimento assume nella sua conclusione una fisionomia più precisa: evocato dai rumori misteriosi
della notte e dal grido lontano dell’assiuolo, riaffiora alla memoria del poeta il pensiero della sua tragedia personale,
dei lutti che hanno funestato la sua vita, l’idea dei suoi morti che non possono più tornare, della morte che incombe
anche su di lui. È questa l’eco «d’un grido che fu», che rinasce dentro di lui facendolo sussultare.

Ma tutto ciò non è detto esplicitamente, in un discorso logicamente strutturato: è alluso attraverso una rete di
immagini indefinitamente suggestive, ed è questo che costituisce il fascino incomparabile della poesia, in confronto a
tante altre in cui la tragedia familiare del poeta è rievocata in forme retoriche, patetiche e predicatorie.

Gli aspetti formali.


L'atmosfera indefinita e magica si riflette in una serie di espressioni dal carattere suggestivamente analogico: «alba di
perla», «soffi di lampi», «nero di nubi», «nebbia di latte», «cullare del mare», «sospiro di vento», «finissimi sistri
d’argento», «pianto di morte». Per capire il funzionamento del linguaggio analogico si prenda un’espressione come
«notava in un’alba di perla». Vi è implicita tutta una serie di paragoni, che si potrebbe così esplicitare: il sorgere della
luna è come un’alba, il cielo chiaro ha il biancore della perla ed è invaso come da un liquido trasparente, in cui sembra
nuotare. Tutti i passaggi intermedi che abbiamo indicato sono saltati e gli estremi sono immediatamente identificati.
L'effetto è una maggior densità del linguaggio poetico: la cancellazione dei passaggi logico-discorsivi accresce la sua
forza suggestiva, che sembra alludere a segreti legami tra le cose, inattingibili ad una visione puramente razionale.
Significativo è poi il sintagma «nero di nubi»: l’uso del sostantivo astratto con il complemento di specificazione, in
luogo del concreto «nubi nere», accresce l’indefinitezza dell’espressione e accentua il carattere simbolico, inquietante
e minaccioso dell’immagine. A ciò concorre anche l’indicazione di indeterminata lontananza spaziale che
l’accompagna, «laggiù». All’effetto suggestivo del linguaggio analogico si associa ancora il simbolismo fonico, così
caro a Pascoli: l’allitterazione «fru fru tra le fratte», col suo valore onomatopeico, accresce il carattere misterioso e
inquietante dell’immagine indeterminata. Nel sintagma «finissimi sistri» il fonosimbolismo è scoperto: l’insistenza
sulle vocali dal suono sottile, le i (sono ben sei in due parole) rende fonicamente l’impressione del verso delle
cavallette, così come successivamente «tintinni» ed «invisibili» (altre otto i in due parole consecutive).

La poesia è un affollarsi di sensazioni, in cui si delinea sempre più qualcosa di misteriosamente angoscioso: ebbene, il
processo è reso attraverso una struttura verbale prevalentemente anaforica, che dà appunto l’idea di un affollarsi
ripetitivo, incalzante. Si noti la collocazione dei verbi tutti all’inizio del verso: «notava», «ed ergersi», «parevano»,
«venivano», «veniva», «sentivo», «sentivo», «sentivo», «sonava», «tremava», «squassavano», «e c’era». Su
ventiquattro versi, ben dodici iniziano con un verbo. L'effetto è ribadito dalla costruzione sintattica, sistematicamente
fondata sulla paratassi: si ha l’allinearsi in parallelo di brevi membri tra loro coordinati, quasi tutti collegati per
asindeto, cioè senza congiunzione. Non si ha una struttura sintattica complessa, gerarchizzata, i membri si succedono
semplicemente uno dopo l’altro. Non si crea quindi una struttura logica, che sarebbe l’effetto di un insieme di
proposizioni gerarchicamente subordinate: il reale si frantuma in impressioni isolate, e il legame che le unisce non è
logico ma analogico, simbolico, allusivo, segreto.

I POEMETTI
IL ‘’ROMANZO GEORGICO’’
Una fisionomia diversa possiedono i Poemetti, raccolti una prima volta nel 1897 (l’anno del Fanciullino e della quarta
edizione di Myricae), poi ripubblicati con aggiunte nel 1900, ed infine, nella veste definitiva, divisi in due raccolte
distinte, Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909). Si tratta di componimenti più ampi di quelli di Myricae, che
all’impianto lirico sostituiscono un più disteso taglio narrativo, divenendo spesso dei veri e propri racconti in versi.
Muta anche la struttura metrica: ai versi brevi subentrano, di regola, le terzine dantesche, raggruppate in sezioni più o
meno ampie.
Anche qui, però, assume rilievo dominante la vita della campagna. All’interno delle due raccolte si viene a delineare
un vero e proprio «romanzo georgico», come è stato opportunamente definito da Giorgio Barberi Squarotti, cioè la
descrizione di una famiglia rurale di Barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. La narrazione è
articolata in veri e propri cicli, che traggono il titolo dalle varie operazioni del lavoro dei campi, La sementa,
L’accestire nei Primi poemetti, La fiorita e La mietitura nei Nuovi poemetti.

Questa raffigurazione della vita contadina si carica di scoperti intenti ideologici: il poeta, in nome dei principi che si
sono esaminati, vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori
tradizionali e autentici, solidarietà familiare e affetti, laboriosità, bontà, purezza morale, schiettezza, semplicità,
saggezza, in contrapposizione alla negatività della realtà contemporanea. La vita del contadino, chiusa nelle
dimensioni ristrette del podere e del «nido» domestico, scandita dal ritorno ciclico delle stagioni e dall’avvicendarsi
sempre eguale dei lavori dei campi, appare al poeta come un rifugio rassicurante, un baluardo contro l’incombere di
una realtà storica minacciosa. La rappresentazione della vita contadina assume quindi la fisionomia di un’utopia
regressiva, nel senso che Pascoli proietta il suo ideale nel passato, in forme di vita che stanno scomparendo, travolte
dallo sviluppo della realtà sociale ed economica moderna, in un processo ormai irreversibile.

È evidente perciò come questa raffigurazione della campagna non abbia punti di contatto con quella che pochi anni
prima era stata offerta dal Verismo, in particolare da Verga: il mondo rurale pascoliano è idealizzato e idillico,
ignora gli aspetti più crudi della realtà popolare, il bisogno, la miseria, la degradazione e l’abbrutimento della natura
umana, ignora i conflitti sociali, la violenza della lotta per la vita, la disumanità delle leggi economiche, che fanno sì
che la campagna sia nella sua essenza equivalente alla società delle «Banche» e delle «Imprese industriali, anziché un
Eden intatto di autenticità e innocenza.

Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimessi di quel mondo, designando con minuziosa precisione
gli oggetti e le operazioni del lavoro dei campi, ma anche questa precisione non ha nulla di naturalistico, di
documentario: al contrario risponde all’intento, enunciato nel contemporaneo Fanciullino, di ridare la sua vergine
freschezza originaria alla parola, per esprimere una stupita meraviglia dinanzi alle cose,

Non solo, ma il poeta vuole mettere in rilievo quanto di poetico è insito anche nelle realtà umili, la loro dignità
“sublime”, per cui le più consuete attività quotidiane della vita di campagna sono da lui trasfigurate in una luce di
epos, mediante il ricorrere di formule tratte dagli antichi poeti, Omero, Esiodo, Virgilio: la fanciulla Rosa è sempre
accompagnata dall’epiteto «dalle bianche braccia», che nell’/liade viene attribuito alla dea Hera, il pettine del telaio è
«sonoro» come quello di Circe nel libro VII dell’Eneide, ìl ladro è definito «dormi ’l-dì» come in Esiodo (ma
d’altronde per Pascoli proprio que, sti poeti antichi sono esempi sommi della visione stupita e ingenua del
«fanciullino, eterno).

 Si ha quindi, nei Poemetti, una singolare mescolanza di elementare semplicità e di preziosa


raffinatezza, che talora però suona falsa e rivela lo sforzo artificioso.

GLI ALTRI TEMI


AI di fuori di questo ciclo “georgico” si collocano però numerosi poemetti, che presentano temi più inquietanti e torbidi, densi
di significati simbolici, come:

vischio (111), che insiste sull’immagine mostruosa di una pianta parassita e “vampira”, che succhia la vita di un albero da frutto,
dando origine ad un ibrido ripugnante, Digitale purpurea con al centro un «fiore di morte» che emana un profumo inebriante e
insidioso e turba l’innocenza delle educande di un convento, Suor Virginia, che crea un’atmosfera notturna arcana, sospesa e
visionaria, in cui aleggia un presagio di morte; oltre a questi, vanno poi ricordati altri testi famosi:

L’aquilone (+ T14, p. 589), tutto giocato sul tema della memoria che riporta a stagioni passate, facendo rivivere l’infanzia; Italy
(+T15, p. 593), che affronta invece un tema sociale, quello dell’emigrazione che tanto sta a cuore a Pascoli, descrivendo il ritorno
temporaneo di una famiglia di emigranti al paese natale e il conflitto fra due mondi, quello moderno e industriale della nuova
patria, l'America, e quello arcaico della campagna lucchese;

La vertigine che esprime l’angoscia originata dal percepire la terra muoversi negli infiniti spazi siderali e il terrore di precipitare
in essi senza mai trovar fine.
TESTO: DIGITALE PURPUREA
Il componimento uscì la prima volta sul “Marzocco” il 20 marzo 1898, poi fu raccolto nella seconda edizione dei
Poemetti, nel 1900. La fonte ci è rivelata da Maria Pascoli nella sua biografia del fratello. Durante gli anni da lei
trascorsi come educanda in convento, un giorno ie fanciulle, durante una passeggiata, avevano scorto una pianta con
una bella spiga di fiori rossi. La curiosità le spinse ad avvicinarsi, ma la suora maestra intimò loro di non appressarsi a
quel fiore «che emanava un profumo venefico così penetrante che faceva morire». Le fanciulle indietreggiarono
impaurite e Maria rimase per un pezzo con il timore di quel fiore, standone sempre alla lontana. Maria Pascoli precisa
ancora che il dialogo tra le due ex compagne è di invenzione del poeta: «in Maria ha voluto raffigurare me, ma
Rachele l’ha creata lui».

La donna bionda e la donna bruna.


In apertura del componimento si delinean, due figure femminili in antitesi:

1. la fanciulla biondadalle vesti semplici hi dallo sguardo modesto, è un’immagine di innocenza verginale,
2. quella brunadag i occhi «ch ardono», è immagine di una sensualità torbida e inquieta. La contrapposizione
simbolica tra donna bionda e donna bruna, donna “angelo” e donna “demonio”, è un motivo ricorrente nella
letteratura romantica e decadente. Pascoli qui lo riprende in chiave personale, caricandolo di una problematica
complessa, che si connette con i nuclei più profondi della sua ispirazione.

L’innocenza e il fiore perverso.


Nella prima delle tre sezioniil dialogo tra le due amiche rievoca l’atmosfera del convento e della loro fanciullezza,
creando un clima di innocenza, candore e soavità. Ma proprio in questo giardino, tra piante comuni eq ìnnocenti, si
profila nel ricordo delle fanciulle il fiore misterioso e inquietante, il «fio di morte» (e si noti che a pronunciare la
parola «morte», che le labbra della fanciulla bionda non osano proferire, è proprio la bruna). Al clima verginale si
contrappone la presenza perversa del fiore velenoso, col suo profumo insidioso che inebria l’aria intor. no e bagna
l’anima «d’un oblìo dolce e crudele».

Nella seconda sezioneattraverso un flashback (+ Glossario), il passato lontano nel ri. cordo si materializza nel
presente. Anche qui inizialmente si ripropone l’atmosfera dj innocenza già preannunciata dalle «bianche» suore: gli
elementi che la costituiscono sono la purezza del cielo sereno primaverile, le litanie, l’incenso, il biancore delle
educande che invade tutto il giardino, il «libro buono» che le fanciulle leggono. Ma in tutto quel candore, tanto
insistito da apparire quasi lezioso, cova come un segreto fermento. Lo preannuncia la formula «sentor d’innocenza e
di mistero», con i due sostantivi a contrasto, e lo conferma l’episodio del colloquio in parlatorio, che rivela le
inquietudini erotiche delle educande, tanto più intense quanto più inconsapevoli, che inducono a mescolare
ambiguamente sacro e profano (il coro delle fanciulle eccitate intona più forte l’Ave Maria). Di nuovo poi, nella parte
finale, in opposizione alla sanità fisica e morale delle fanciulle («agili e sane») si profila l’immagine del fiore venefico
e del suo fascino inquietante. Il fiore si precisa nelle sue forme mostruose, ripugnanti, quasi macabre (le «dita /
spruzzolate di sangue, dita umane»). L'innocenza non è in realtà sicura e intangibile, su di essa incombe un’insidia
misteriosa.

In apertura della terza sezionenell’intimità affettuosa tra le due compagne, accomunate dalla dolcezza dei ricordi,
torna il motivo dell’innocenza. Ma per la terza volta il clima di candore verginale è rotto dalla comparsa del motivo
perverso del fiore, che qui si accampa ad occupare quasi tutto lo spazio narrativo. Al momento del congedo, Rachele
confessa all’amica il segreto che urge al fondo del suo animo, l’esperienza ds lei fatta del fiore proibito. Si ha un
nuovo flashback che fa rivivere il passato, ma l’atmosfera è ora diversa: no” più il candore del convento, ma un clima
sospeso, percorso da segrete inquietudini € da aspettative arcane, pervaso da una snervata, estenuata mollezza. La
trasgressione della fanciulla ha come sfondo una natura tempestosa, sconvolta come da un «turbamento cosmico»
(Bérberi Squarotti). Ad essa si intona lo stato d’animo della fanciulla che st? per compiere il gesto trasgressivo: ciò
che la spinge a tentare l’esperienza proibita ) assaporare il profumo del fiore velenoso è il «languido fermento»
lasciato nel suo anima da un sogno erotico «che notturno arse», uno stimolo rimasto inconsapevole nell’«ignara
anima», e per questo più eccitato e morboso.
Il significato del «fior di morte»:
Il racconto di Rachele si chiude su un’immagit misteriosa, il destino di morte scaturito dalla dolcezza indicibile di
quell’esperien?” Pascoli qui gioca volutamente sul non detto, sull’indefinito, sull’ambiguo, sull’allusive Intorno a
questa conclusione del poemetto si sono accumulate molte ipotesi interpretative. Particolarmente suggestiva appare
quella di Getto, secondo il quale l’assaporamento, da parte di Rachele, del profumo vietato ha un valore simbolico,
anticipatore di tante analoghe esperienze future compiute dalla fanciulla, e nel ricordo viene a riassumere tutte le altre.

Tali esperienze, secondo il critico, possono essere una passione amorosa che conduce alla morte, ma forse anche una
malattia mortale, «voluttuosamente accolta e covata», «morbosamente goduta come mezzo di distruzione e avvio al
mistero della morte». È un’ipotesi suggestiva, che consuona con la sensibilità decadente in generale, affascinata dalla
malattia e dalla morte, e con quella di Pascoli in particolare. Ma non si possono escludere diverse ipotesi proposte da
altri interpreti (Chimenz, Bàarberi Squarotti): esperienze di tossicomania, intese decadentisticamente come mezzo per
attingere all’ignoto, ma anche l’esperienza erotica, trasformatasi in vizio che corrompe, che consuma le forze e porta
alla malattia e alla morte. Comunque, anche accettando queste interpretazioni, la proposia di Getto resta valida:
l’assaporamento del fiore velenoso e del suo profumo ha un valore simbolico, è la prima trasgressione che nel ricordo
accomuna in sé tutte quelle successive, per diverse che siano. Dopo aver passato in rassegna queste ipotesi, tuttavia, il
voler poi precisare ad ogni costo è forse sbagliato: Pascoli ha volutamente lasciato nell’indefinito la conclusione,
proprio per caricarla di sensi misieriosi e perciò più suggestivi. Basta quindi pensare in termini vaghi ad un’esperienza
di trasgressione, di voluttuoso assaporamento del proibito, che induce all’autodistruzione e alla morte, senza chiedersi
altro, per rispettare il senso intimo della poesia.

Il motivo del fiore velenoso, carico di un fascino inebriante e perverso che attira e porta all’annientamento, è
squisitamente decadente, e ricorre di frequente, in varie forme, nella letteratura di fine Ottocento.

La tecnica narrativa e il linguaggio:


L’inquietante tematica della poesia trova riscontro in moduli espressivi altrettanto inquieti. Colpisce l’attenzione del
lettore la frantumazione dell’asse sintagmatico del racconto, che non segue la successione cronologica lineare, ma è
continuamente spezzato da ritorni indietro nel tempo: comincia al presente (un presente del tutto indeterminato, come
si è appena visto), fa rivivere il passato come un /lashback, torna al presente del colloquio fra le due amiche, per
risalire infine al passato con la rievocazione dell’esperienza trasgressiva del fiore velenoso. L'andamento tortuoso del
tempo narrativo mette in rilievo il carattere ambiguo del reale rappresentato, in cui l’innocenza si oppone
apparentemente alla perversione, ma reca già al suo interno qualcosa di languido ed eccitato insieme, che anticipa e
richiama l’esperienza morbosa del proibito.

Anche la struttura sintattica e metrica è intimamente frantumata, discontinua. Le frasi sono brevi e spezzano
sistematicamente il discorso in unità a sé stanti. Intervengono poi, a sminuzzare ulteriormente il tessuto discorsivo,
puntini di sospensione («così dolci al Cuore...», «fior di...», «tastiere appena appena tocche...», «piangete...», «vedi...»,
«con un suo lungo brivido...»), e parentesi: «(perché mai?)», «(l’una sa dell’altra al muto / premere)», sino alla lunga
parentesi, dì quasi tre versi, che nella chiusa allontana con una forte sospensione la confessione suprema, «si muore! ».
I versi sono continuamente interrotti al loro interno da forti pause, come si può cogliere sin dall’incipit: «Siedono.
L'una guarda l’altra. Luna / esile e bionda». A ciò si uniscono i frequenti ejambamat.

 [ La successione spezzata del discorso poetico di Pascoli è l’indizio più rivelatore di come egli sia interprete
della grande crisi delle visioni del mondo verificatasi a cavallo fra Otto e Novecento, che si riflette
puntualmente sul piano formale. E la sua sintassi poetica è rivoluzionaria non solo, come si è verificato,
nella misura lirica breve e concentrata (Myricae), ma anche nel modulo più ampio del poemetto
narrativo.]
I CANTI DI CASTELVECCHIO
I Canti di Castelvecchio (1903) sono definiti dal poeta stesso, nella prefazione, «myricae», quindi si propongono
intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Anche qui ritornano immagini della vita di campagna,
canti d’uccelli, alberi, fiori, suoni di campane, e ricompare una misura più breve, lirica anziché narrativa. I
componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle Stagioni ancora una volta
l’immutabile ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore e dall’angoscia
dell’esistenza storica e sociale. ° Bicorre con frequenza ossessiva, infatti, il motivo della tragedia familiare e dei cari
morti, che si stringono intorno al poeta a rinsaldare quel vincolo di sangue e d’affetti che la brutale violenza degli
uomini ha spezzato. Vi è anche il rimando continuo del nuovo «paesaggio di Castelvecchio a quello antico
dell’infanzia in Romagna, quasi ad istituire un legame ideale tra il nuovo «nido» costruito dal poeta e quello spazzato
via dalla tragedia (parallelismo che prende vita esplicitamente nel ciclo intitolato Ritorno a“an Mauro). Non mancano
però anche in questa raccolta i temi più inquieti e morbosi, che danno _corpo : e segrete ossessioni del poeta: l’eros,
contemplato col turbamento del fanciullo per il quale il rapporto adulto è qualcosa di ignoto, affascinante e ripugnante
insieme gelsomino notturno, YT17), e la morte, che a volte appare un rifugio dolce in cui sprofondare, come in una
regressione nel grembo materno (La mia sera). Dalle piccole cose e.«areat: umile lo sguardo si allarga poi agli infiniti
spazi cosmici, ad immaginare misteriose apocalissi future che distruggeranno forse la vita dell’universo (// ciocco).

IL GELSOMINO NOTTURNO
Il rito di fecondazione:

A una prima lettura la poesia appare costituita da una serie di notazioni impressionistiche che non hanno fra loro
legami, se non quelk di creare una suggestiva atmosfera notturna. La chiave che permette di entrare ne] complesso
sistema dei suoi significati è offerta dalla nota che, nella prima edizione faceva riferimento alla poesia: «E a me pensi
Gabriele Briganti risentendo l’odore del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del Gelsomino notturno. n
quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l’intenzione sua), al nome d'un dio e d’un angiolo, quello d’un
povero uomo: voglio dire, gli nacque il suo Dante Gabriele Giovanni». Come si desume da quesie parole, il
componimento, dedicato alle nozze dell’amico Gabriele Briganti, evoca, in termini simbolici e allusivi, la prima notte
di nozze, in cui è stato concepito il piccolo Dante Gabriele Giovanni. Si chiariscono allora le immagini riferentisi alla
casa che sola «bisbiglia» nel silenzio della notte, al lume che splende nella sala, sale per le scale, brilla al primo piano,
si spegne: esse rivelano il vagheggiamento, attraverso un’immaginazione trepidante, del rito di fecondazione che si
svolge nella casa nuziale e da cui deve nascere la nuova vita.

In questa prospettiva assume anche significato l’immagine, centrale nella poesia, del fiore che apre il suo calice al
calar della sera e per tutta la notte esala il suo profumo penetrante ed inebriante: il fiore sì schiude anch’esso per
il processo di feconda zione, quindi l’immagine vegetale è allusiva all’altro rito, quello che si svolge nel mondo
umano. L’aprirsi della corolla e l’esalare del profumo appaiono come un invito all’amore, di cui il poeta sottolinea con
forza la carica sensuale, con l’insistere sulle intense sensazioni olfattive e cromatiche: il colore rosso, che allude ad
un’access sensualità, si fonde sinesteticamente con il profumo dolce e invitante che ricorda le fragole. Ma all’alba,
compiuta la fecondazione, i petali del fiore si chiudono «un poco gualciti» Jl vagheggiamento del rito amoroso è
trepidante ma anche turbato: Pascoli non pùo concepire il rapporto sessuale che come violenza inferta alla carne.

Quello di Pascoli non è un inno gioioso alla fecondità, quale si poteva trovare nelle poesie per nozze del mondo
classico, gli epitalami: è un epitalamio moderno, quale può scrivere un poeta dalla coscienza inquieta e infelice.

La contemplazione del rito avviene da parte di chi ne è escluso:

Il punto di osservazione infatti si colloca all’esterno della casa dove avviene il rapporto amoroso, una distanza
incolmabile separa l’osservatore dall’oggetto, come indica Ìa ripetizione insistita dell’avverbio di luogo «là»: «là sola
una casa bisbiglia», «splende un lume ià nella sala». Il poeta vuole celebrare la fecondazione, ma sa che non può
personalmente avere il suo «nido», coi suoi «quattro rondinotti» («Oh! se, rondini rondini anch?’io... / io li avessi
quattro rondinotti / dentro questo mio nido di sassi», scrive nella lirica Addio!, compresa sempre nei Canti di
Castelvecchio), che non può essere il sereno e appagato pater familias. È l’«ape tardiva» che è rimasta esclusa
dall’alveare e si aggira nella sua desolata solitudine.

Le immagini mortuarie:

Si chiarisce allora il significato delle immagini mortuarie che si alternano in immediata contiguità con quelle del fiore
che invita all’amore («E s’aprono i fiori notturni, / nell’ora che penso a’ miei cari», «Dai calici aperti si esala / l’odore
di fragole rosse. / [...] Nasce l’erba sopra le fosse» [corsivi nostri]). La tragedia familiare che ha distrutto il «nido» ha
bloccato il poeta alla condizione psicologica infantile, lo ha tenuto prigioniero del «nido» ormai impossibile,
impedendogli di uscirne. In luogo del legame adulto e maturo col mondo esterno, con l’altro’, la donna, si instaura il
legame viscerale, oscuro, ossessivo con i morti, che continuano a vivere come lugubri presenze fantasmatiche coi
superstiti nel simulacro di «nido» costruito dal poeta insieme con la sorella.

La fedeltà ai morti, all’impegno di ricreare il «nido» originario andato distrutto, gli impedisce di uscire da quel cerchio
chiuso, geloso, protettivo ma anche soffocante, di rispondere al richiamo dell’amore: quando i «fiori notturni» si
aprono in un invito sensuale, egli pensa ai suoi «cari». Uscire, legarsi alla donna, generare, sarebbe un tradimento ad
un vincolo sentito come sacro, inviolabile.

Le immagini del «nido»:

Si chiarisce in tal modo anche il quarto ordine delle immagini che, nella poesia, si alternano con quelle della casa, del
fiore, dei morti, quelle appunto che si riferiscono al «nido»: «sotto l’ali dormono i nidi», le api chiuse nelle loro
«celle», la «Chioccetta» che va «per l’aia azzurra» col suo «pigolìo di stelle». Esse riproducono tutte l’immagine
chiusa, gelosa, rassicurante del «nido» originario, quello andato perduto e che deve essere ricostituito dai superstiti,
quello dove i piccoli sono protetti dal calore dei grandi, in cui vi sono solo i rapporti affettivi tra genitori e figli. Si
crea dunque una contrapposizione tra queste immagini del «nido» e quella della casa in cui avviene il rito d’amore
della notte nuziale.

Il quadro notturno che sembra così idillico e armonico è dunque percorso da segrete tensioni. Esse prendono forma
nel sistema delle opposizioni strutturali che legano i quattro nuclei tematici della poesia: 1) i fiori che si aprono in
un’offerta d’amore; 2) la casa in cui si consuma il rito della fecondazione; 3) la presenza inibitrice dei morti; 4) il
«nido» geloso che esclude dalla vita adulta di relazione e rappresenta la regressione infantile. Il sistema si potrebbe
così schematizzare: offerta d’amore del fiore vS morti casa nuziale vs nido

Materiali psicologici e forma:

Il riferimento ai traumi individuali è indispensabile per capire la poesia, perché essi sono i materiali di cui il poeta si
serve per costruire quella struttura verbale, quel “segno” che è il testo poetico. Partendo da essi si può verificare come
certe realtà profonde siano divenuti Temi letterari si siano sublimate in forma

Il componimento è uno dei grandi esempi del simbolismo pascoliano. Anche qui, come in Suor Virginia, vi è una
magica notte, misteriosamente pullulante di esistenze, di movimenti, di eventi. Le diverse notazioni e sensazioni che
essa allinea sono legate da una trama segreta di rispondenze e allusioni, che creano un clima ambiguo, enigmatico,
sospeso tra struggente, morbida sensualità, trepidante vagheggiamento del fiorire della vita, senso desolato di
solitudine, angosciata dimensione funebre.

I POEMI CONVIVIALI, I CARMINA, LE ULTIME RACCOLTE I


SAGGI
Un carattere apparentemente molto diverso dai Canti di Castelvecchio presentano i Poemi conviviali (1904), così
intitolati perché gran parte di essi era comparsa, a partire dal 1895, su “Il Convito”, diretto da Adolfo De Bosis. La
rivista era una delle espressioni più significative del contemporaneo estetismo, tant'è vero che il suo nume tutelare era
d'Annunzio, che vi pubblicò nel 1895 il romanzo Le vergini delle rocce.

Al clima estetizzante rispondono anche i componimenti pascoliani. Si tratta di poemetti dedicati a personaggi e fatti
del mito e della storia antichi, dalla Grecia sino alla prima diffusione del cristianesimo: vi compaiono così Achille,
Ulisse, Elena di Troia, Solone, Socrate, Alessandro Magno. La ricostruzione del mondo antico si fonda su una
preziosa erudizione, che si compiace di esplorare aspetti marginali e poco noti del mito e della storia, con un gusto che
appare vicino a quello dell’alessandrinismo, l’epoca della letteratura greca successiva ad Alessandro Magno.

Anche il linguaggio è raffinatamente estetizzante e spesso mira a riprodurre in italiano il clima e lo stile della poesia
classica (ad esempio dei poemi omerici); l’estetismo si rivela parimenti nell’assaporamento quasi sensuale dei bei
nomi, che sono resi non nella loro grafia comune, ma nella grafia greca originaria (Alexandros, Olympiàs, Amynta,
Helena, Myrrhine), con un gusto che deriva scopertamente dalla poesia parnassiana ( Sez. 1, /l parnassianesimo, p.
174).

Non si tratta però di un arido ed esteriore esercizio erudito: sotto le vesti classiche, in questi poemetti compaiono
tutti i temi consueti della poesia pascoliana. Il mondo antico, nei Poemi conviviali, non è dunque un mondo di
immobile e gelida perfezione, come pretendeva la tradizione classicistica, ma si carica delle inquietudini e delle
angosce della sensibilità moderna.

I CARMINA E LE ULTIME RACCOLTE


Ai Poemi conviviali si possono accostare i Carmina latini. Si tratta di trenta poemetti e di settantuno componimenti
più brevi, scritti da Pascoli per il concorso di poesia latina di Amsterdam, per i quali, dal 1892, egli ottenne numerose
volte la medaglia d’oro. Non furono raccolti organicamente dal poeta e videro la luce solo postumi, nel 1915. Sono in
genere dedicati agli aspetti più marginali della vita romana ed hanno per protagonisti personaggi umili, gladiatori,
schiavi, un’umanità minore, dolente, ma riscattata da un’intima bontà. Vi si proietta l’ideologia umanitaria di Pascoli,
che della civiltà romana, per altri aspetti tanto amata, respinge il crudele costume della schiavitù, e vi si delinea
l’attenzione affascinata per il messaggio cristiano di riscatto spirituale degli umili e degli oppressi. Il latino di Pascoli
non è una lingua morta, puro esercizio erudito di riproduzione dei moduli espressivi fissati dagli esempi antichi, ma
una lingua intimamente rivissuta, che rivela profonde affinità col linguaggio delle poesie italiane, soprattutto nel suo
ritmo spezzato, che appare lontano dall’armonia del latino classico.

Nelle ultime raccolte, Odi ed inni (1906), Canzoni di re Enzio (1908-09), Poemi italici (1911-1914), Poemi del
Risorgimento (1913), Pascoli assume le vesti del poeta ufficiale, celebratore delle glorie nazionali e inteso a
propagandare principi morali e civili, prendendo spunto ora dall’attualità ora da fatti della storia medievale,
rinascimenta/e. risorgimentale, ed emulando il maestro Carducci e l’amico rivale d’Annunzio522 versi che rivelano
spesso virtuosismi linguistici e metrici del tutto artificiosi, e ehe 985 appaiono per gran parte illeggibili.

IL FANCIULLINO E IL SUPERUOMO
Il contesto storico:

Il «fanciullino» pascoliano e il superuomo dannunziano sono due miti che, pur nascendo negli stessi anni (il romanzo
Le vergini delle rocce compare nel 1895, Il fanciullino nel 1897), appaiono antitetici. Per usare l’efficace descrizione
di Carlo Salinari, «lì la lussuria e qui l'innocenza, lì la violenza e qui la mansuetudine, lì il tono esaltato e qui la voce
smorzata, lì gli oggetti e i paesaggi più esotici e strani, qui gli oggetti e i paesaggi di tutti i giorni, lì il lusso e qui la
povertà, lì il dominio e qui la sofferenza». In realtà, a ben vedere, essi hanno le radici nello stesso terreno, sono
risposte diverse ma specularmente equivalenti e complementari agli stessi problemi e agli stessi traumi.
Si è già fatto cenno ai grandiosi processi di trasformazione storica che si verificano a fine Ottocento, non solo in
ambito europeo ma anche in Italia, e che hanno effetti sconvolgenti sulla coscienza collettiva: la civiltà industriale che
assume proporzioni sempre più gigantesche e ritmi produttivi sempre più frenetici, la concentrazione monopolistica
che tende a cancellare l'iniziativa del singolo individuo, la complessità labirintica della vita economicofinanziaria e
degli apparati burocratici nelle metropoli moderne, che riducono l'individuo ad una trascurabile rotellina in un
ingranaggio, priva di possibilità di scelta e di incidenza sul processo complessivo, i conflitti sempre più esasperati fra
il capitale e le masse operaie, che sconvolgono la vita sociale con disordini e violente repressioni, lo scatenarsi degli
imperialismi aggressivi che entrano in conflitto fra loro e minacciano una guerra apocalittica (che difatti scoppierà di
lì a pochi anni, nel 1914).

Tali processi incidono in modo devastante soprattutto sulle masse dei ceti medi, che si trovano come schiacciate tra
grandi forze anonime, senza volto, che non sono in grado di dominare, la grande industria, il grande capitale
finanziario, gli apparati burocratici, le masse proletarie inquiete e sovversive. Da un lato la nuova organizzazione
produttiva, spazzando via tutta una serie di attività che non possono più reggere la concorrenza (la piccola impresa
semiartigianale, la piccola proprietà agricola, molte professioni e mestieri antichi), declassa il ceto medio tradizionale
a condizioni squallide, talora di vera indigenza; dall’altro genera un nuovo, sterminato ceto medio impiegatizio,
totalmente massificato.

In conseguenza di questi processi sociali, che tendono ad annullare l'individuo, entra in crisi nella coscienza
collettiva un'intera nozione di uomo, quale era stata vagheggiata dalla civiltà borghese al suo apogeo, nella fase eroica
della sua affermazione: l'individuo libero, energico, sicuro di sé, capace di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e
la sua volontà, entro la sua specifica sfera d’azione che è costituita dal lavoro produttivo e dalla famiglia.

Il fenomeno investe con particolare violenza gli intellettuali, che appartengono in larga misura proprio ai ceti medi.
Lo scrittore e l'artista si trovano spesso declassati ad una condizione piccolo borghese, privati del peso sociale e
del prestigio di cui godevano in passato (la «perdita d’aureola» di cui parla già con lucidissima intuizione Baudelaire,
» Percorso 1, T7, p. 367), costretti a competere sul mercato per “vendere” i prodotti della loro arte (con risultati spesso
fallimentari perché il pubblico, ormai allettato dalla cultura di massa prodotta in serie, li respinge in quanto non
assecondano i suoi gusti), in molti casi relegati per la sopravvivenza a mansioni subalterne, non confacenti
all'immagine che essi hanno di sé, quelle dell’impiegato, dell’insegnante medio o elementare, del giornalista in fogli di
scarsa diffusione, o dell'artista bohémien, che vive precariamente senza mai trovare acquirent, alle proprie opere. Da
questa condizione sociale scaturisce uno stato d'animo diffuso, ch si rispecchia nella cultura di questa età, un senso di
smarrimento angoscioso di fronte alli complessità della realtà moderna, che appare ostile, minacciosa, soffocante, e
sfugge si alla comprensione sia al controllo degli intellettuali.

Il mito del «fanciullino»:

Il «fanciullino» e il superuomo sono appunto due risposte com, pensatorie, elaborate da due intellettuali provenienti
dai ceti medi provinciali, a questi pro, cessi traumatizzanti. Creando il mito dell’infanzia Pascoli «coglie un tratto reale
della psi, cologia e della condizione dell’uomo moderno» (Salinari), e propone quindi una soluziony destinata a
suscitare echi profondi nell'anima collettiva: l’idea di un Eden innocente, che NI sottragga alle brutture della società
contemporanea, in cui non esistano violenze e conflitt laceranti, ma solo fraternità, amore, mitezza, in cui alla spietata
logica produttiva si sostitui, sca la fantasia, la contemplazione incantata e ingenua del mondo.

È un mito consolatorio, d’evasione, che esprime un rifiuto della società e della storia, il bisogno disperato di regredire
in una condizione fuori del tempo, ignorando gli sviluppi più angosciosi della realtà moderna. Intimamente collegato
col mito dell’infanzia è quello de] «nido» familiare, che, chiudendo nel suo ambito geloso, tiepido e avvolgente, può
preservare intatta la condizione edenica dell'infanzia, impedire all'uomo di venire a contatto traumati, co con il mondo
esterno, proteggerlo dall’urgere di forze aggressive e paurose respingendole al di là dei propri confini, creare un clima
d’illusoria pace e serenità al proprio interno.

A loro volta infanzia e «nido» non possono che collocarsi sullo sfondo idillico della campa. anche, in
contrapposizione alla vita cittadina nelle metropoli moderne, veri mostri capaci solo di spersonalizzare e alienare
l’uomo, di istillargli la smania del possesso e di spingerlo alla competizione e all’aggressività, consente ancora un
rapporto innocente e fraterno con la natura, con alberi, fiori, uccelli, garantisce una vita tranquilla, sgombra di angosce
e paure, appagata del poco e quindi felice.

Il mito del superuomo:

A questo scontro traumatico con la modernità d'Annunzio, col mito del superuomo, reagisce in modo contrario, non
fuggendo all'indietro ma, per così dire, “in avanti”: invece di rimuovere, decide di celebrare proprio ciò che fa paura,
l’espansione industriale, la macchina, la guerra, il conflitto sociale violento, il dominio dei più forti che schiacciano i
più deboli. Da un lato, in Pascoli, a compensare l'impotenza e la sconfitta, si ha il ripiegamento entro il guscio
protettivo delle piccole cose quotidiane e degli affetti più comuni e miti; dall’altro, in d'Annunzio, si ha il
rovesciamento immaginario dell’impotenza in onnipotenza, attraverso atteggiamenti attivistici e aggressivi, attraverso
l'esaltazione del’ la lotta e del dominio imperiale, l'affermazione oltre ogni limite dell’io e di una sensibilità
eccezionale.

ANALOGIEAlla base di atteggiamenti del genere si possono però ravvisare le stesse angosce, gli stessi traumi, lo
stesso senso di impotenza e di sconfitta: difatti affiora costantemente nell’opera dannunziana, come si è potuto
ampiamente verificare, l'attrazione per la morte, per il di’ sfacimento, per il nulla, che esercitano un fascino morboso e
voluttuoso. La costruzione del mito superomistico non è che il tentativo di occultare quelle spinte disgregatrici,
nichilisti che. D'altronde d'Annunzio, prima di approdare al superuomo, aveva proprio esordito col! personaggi deboli
e sconfitti (Andrea Sperelli del Piacere, Giorgio Aurispa del Trionfo delli morte), che si ritraggono con orrore dinanzi
alla realtà contemporanea e alle sue novità piÙ sconvolgenti, rifugiandosi nell’interiorità solipsistica o nel culto
dell’arte. È solo con uni scelta di spefiutare ogni ruolo pubblico, di poeta “vate”, Ma non è così: anche Pascoli, negli
stessi anni di d'Annunzio, amò assumere posizioni ufficiali, seppure in forme diverse, più dimesse, meno reboanti,
meno appariscenti e divistiche.

Fra infatti convinto, come abbiamo appena letto, che la poesia “pura”, espressione dell’ingenua meraviglia del
«fanciullino» dinanzi al mondo, potesse essere, proprio in quanto poesia “pura”, di una «suprema utilità morale e
sociale», divulgando un ideale tra francescano e tolstoiano di non violenza, di mansuetudine, di perdono, di pace e
fratellanza fra i popoli; riteneva anche che essa potesse avere un valore consolatorio verso il male del mondo e
indurre gli uomini a contentarsi della loro condizione, per quanto umile, quindi ad eliminare i dirompenti conflitti fra
le classi.

Anche il «fanciullino», quindi, cela un “vate” che diffonde miti e ideologie:

E i due “vati”, nonostante le profonde differenze (l’uno aristocraticamente vitalistico e superomistico, l’altro umile,
dimesso e modesto), si rivolgevano in fondo allo stesso pubblico, quelle masse piccolo medio borghesi create dallo
sviluppo della civiltà moderna, schiacciate e frustrate dai suoi meccanismi spersonalizzanti: nella parola magica del
superuomo dominatore quelle masse trovavano riscatto dal loro squallore quotidiano, sentendosi trasportare in un
mondo più splendido, fatto di esperienze rare e preziose; nei messaggi del «fanciullino» pascoliano potevano scoprire
la bellezza e la “poeticità” segreta che era insita nella loro vita grigia e comune ed essere indotti ad accettarla con
umile rassegnazione.

Comunque anche il «fanciullino», all'occorrenza, sapeva divenir tribuno, cantore ufficiale delle glorie patrie come
in Odi ed Inni, Canzoni di re Enzio, Poemi italici, Poemi del Risorgi. mento, o celebratore dei miti nazionalistici e
colonialistici, come nel discorso sulla guerra dì Libia, La grande proletaria si è mossa.

VEDI CAPITOLI 1 E 3

TESTO IL FANCIULLINO
Il Fanciullino è il più importante saggio di teoria poetica di Giovanni Pascoli. E’ composto da venti capitoli ed è
stato pubblicato integralmente nel 1907, dopo un’elaborazione durata circa dieci anni. Il nucleo fondamentale del
saggio è contenuto nel titolo: secondo il poeta, infatti, dentro di noi esiste un fanciullino, un bambino che rimane così
com’è anche quando cresciamo e diventiamo adulti. Il fanciullino continua a comunicare emozioni e sensazioni con la
stessa voce, ma quando cresciamo non lo ascoltiamo, in quanto siamo impegnati con i problemi che dobbiamo
affrontare quotidianamente. Solo il poeta riesce ad ascoltare la voce del fanciullino, il quale vede tutto come nuovo e
meraviglioso e viene affascinato da avventure ed eroi. Questo bambino che non cresce mai è presente in tutti gli esseri
umani e in ognuno di noi ride, sogna, si meraviglia, prova entusiasmo e curiosità.

 Il nucleo fondamentale del saggio è contenuto nel titolo: secondo il poeta, infatti, dentro di noi esiste un
fanciullino, un bambino che rimane così com’è anche quando cresciamo e diventiamo adulti. Il fanciullino continua a
comunicare emozioni e sensazioni con la stessa voce, ma quando cresciamo non lo ascoltiamo, in quanto siamo
impegnati con i problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente. Solo il poeta riesce ad ascoltare la voce del
fanciullino, il quale vede tutto come nuovo e meraviglioso e viene affascinato da avventure ed eroi. Questo bambino
che non cresce mai è presente in tutti gli esseri umani e in ognuno di noi ride, sogna, si meraviglia, prova entusiasmo e
curiosità

LA POESIANel Fanciullino Pascoli sottolinea che la poesia non ha alcuna utilità pratica, ma una suprema utilità
morale e sociale. La poesia spinge le persone ad essere contenti di ciò che hanno, a moderare desideri e sentimenti.
Grazie ad essa nelle cose si trova “il loro sorriso e la loro lacrima” attraverso due occhi infantili che fanno risorgere la
fanciullezza del poeta per farlo ricordare e cantare. Il fanciullino, secondo Pascoli, scopre il nuovo nel vecchio,
suscitando nel lettore o nell’uditore frasi del tipo “Non ci avevo pensato”! Insomma, il nuovo non s’inventa ma si
scopre e il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detto. Pascoli non
esclude la possibilità di una poesia storica e civile, ma a certe condizioni: affinché tale tipo di poesia non invecchi e
non avvizzisca nei libri fino a morire, il fatto storico deve essere reso poetico attraverso la meraviglia e l’ingenuità
dell’anima fanciulla. Pascoli ha, tuttavia, una visione antistorica della poesia, in quanto “la poesia è tal maraviglia che
se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono”. Non esiste
quindi poesia romantica, classica, arcadica, greca, italiana, ma solo poesia. In sostanza, dunque, il Fanciullino di
Pascoli è la visione pascoliana della poesia, una visione in contrasto con quella del Carducci e soprattutto con quella di
d’Annunzio.

cap. 1 Pascoli fissa l’immagine che farà da filo conduttore a tutta l’argomentazione successiva: quella del
fanciullino che è dentro ognuno di noi.

l cap. 2 è dedicato ad Omero o meglio ai modi in cui parla il suo fanciullino. I caratteri precipui della poesia
omerica vengono indicati nella ingenuità, nella chiarezza e nella precisione; l’unico artificio retorico che Omero
impiega è la similitudine e anche questa per farsi meglio capire. Il suo fanciullino non aveva bisogno di esagerare
perché «i fatti che raccontava, gli parevano già assai mirabili così come erano».

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