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CANZONIERE (edizione critica M.

Santagata)

1. È particolarmente importante riuscire a datare questo testo perché esso si collega alla
decisione petrarchesca di organizzare le ‘rime sparse’ in un libro che disegni la parabola
storica ed esemplare del suo amore. La composizione dell’attuale proemio segna
l’abbandono delle raccolte di impianto tematico-sincronico per la nuova rivoluzionaria
soluzione ‘romanzesca’ a cui Petrarca seguiterà ad attendere per il resto dei suoi giorni.
Wilkins 1951 discostandosi dall’opinione prevalente che il sonetto sia posteriore alla morte
di Laura ne anticipa la composizione al 1347, come testo di apertura di quella che egli
ritiene la seconda redazione del Canzoniere. Convincono però gli argomenti di Rico 1976,
che ne fissa la composizione nel 1349 o nel 1350. Ancora Rico 1988 ha mostrato come il
sonetto e i due successivi, che vengono a formare un prologo entro il prologo, riflettano
temi e tonalità di testi proemiali classici, in particolare di Orazio, di Properzio e di Ovidio:
Rico ne deduce che l’idea stessa di Canzoniere come liber molto deve a questi poeti latini e
che almeno i primi tre sonetti sono stati ideati e scritti nel biennio 1349-50,
congiuntamente al precisarsi del progetto di raccolta. Il sonetto si adegua per più aspetti ai
canoni, classici e romanzi, dell’exordium: dalla captatio benevolentiae dei lettori-ascoltatori
alle iniziali dichiarazioni sul ‘genere’ dell’opera sino al forte dualismo tra fronte e sirma che
anticipa, secondo i dettami della partitio materiae, la bipartizione del libro (in vita e in
morte); Goldin Folena 1995, rileva nel sonetto procedure di tipo epistolare proprie della
salutatio e le mette in relazione con le formule conclusive della petitio riscontrabili nella
canzone della Vergine (366). Accanto a quella proemiale sussiste anche una funzione
conclusiva, “per cui tutto il Canzoniere si presenta nella prospettiva ambigua del flash back:
la storia di un amore, detta come presente, ma vista come passato”.
Sonetto su 5 rime a schema ABBA ABBA CDE CDE; A (-ono) ed E (-ogno) sono legate da
assonanza, ribadite da una consonanza imperfetta, e condividono la vocale tonica con B (-
ore); tende all’equivocità della coppia: “suono” : “sono” (1, 4).

2. Se 1 risponde ai canoni dell’exordium, la serie 2-5 rispetta quelli dell’initium narrationis,


con l’utilizzazione di loci a re (2 causa 3 tempus) e a persona (4 patria 5 nomen). Chiòrboli e
Rico 1976 pensano che una così studiata orditura retorica presupponga una genesi
contemporanea dell’intero gruppo di testi; a mio parere, non è necessario ipotizzare che
tutti e quattro i testi siano stati concepiti ab origine in vista di questa collocazione e quindi
che essi siano coevi. Per quanto riguarda 2, concordo con quanti lo ritengono ‘giovanile’,
dello stesso periodo della canzone 23; a meno di non pensare a un tardivo effetto di
ricaduta della canzone, alla quale Petrarca stava lavorando proprio nel 1350 e 51. Anche la
complementarità di 2 e 3 è più apparente che reale: la dinamica dell’innamoramento
descritta in 2 non è armonizzabile con quella di 3: lo avevano visto bene nel Cinquecento,
quando addirittura arrivarono a modificare il testo per smussare le contraddizioni. Molto
numerose sono le coppie di testi collegati per opposizione: si vedano nell’ambito degli
anniversari 61 e 62.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; le rime delle quartine hanno in comune la
tonica e, quelle delle terzine la a; assuonano C (-alto) e D (-azio); inclusive le rime: “assalto”
: “alto”; ricca “offese” : “difese”; paranomastiche “difese” : “discese”, “spazio” : “strazio”.

3. La datazione del sonetto dipende da quale soluzione viene data al problema del giorno
dell’innamoramento. L’evento è fissato, qui e in 62, 14, senza ulteriori precisaizioni, nel
giorno della passione di Cristo. Il sonetto 211 specifica essersi trattato del 6 aprile 1327,
esattamente all’ora prima. Laura muore all’ora prima del 6 aprile 1348 (336); la coincidenza
fra i due avvenimenti è sottolineata in TM I, 133-34 (‘L’ora prima era, il dì sesto d’aprile /
che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse) e nella nota obituaria del Virgilio Ambrosiano.
Ora il 6 Aprile 1327 non era di venerdì santo, che quell’anno ricorse il 10 aprile. Ne è nata,
a partire dalla metà del Cinquecento, una secolare discussione. A tesi di Calcaterra 1926,
secondo la quale Petrarca non farebbe riferimento alla ricorrenza mobile del calendario
liturgico, ma a una tradizione che fissava stabilmente la morte di Cristo al 6 aprile, è stata
efficacemente contrastata da Martinelli 1972. Non convince invece l’idea di Martinelli che
la data dell’innamoramento debba essere fissata il 10 aprile, invece che al 6 e che la
corrispondenza tra quella data e il giorno della morte di Laura sia inventata da Petrarca
solo dopo il rientro in Provenza nel 1351, per accentuare la portata simbolica della vicenda
se così fosse, i testi di anniversario, come questo e come 62, che fanno riferimento alla
passione di Cristo, sarebbero anteriori alla morte di Laura. Pastore Stocchi 1981,
obiettando che non si vede per quali motivi Petrarca avrebbe falsificato i dati della nota
obituaria, suggerisce che egli, dopo l’evento fatale del 1348, abbia o fatta propria la
tradizione della data fissa della crocefissione o trasformato il lunedì del primo incontro nel
più simbolico venerdì di passione. Ritengo che quest’ultima soluzione sia la più corretta.
Per questo sonetto, sicuramente posteriore alla morte di Laura, non accetterei però la
datazione al 1349 proposta da Pastore Stocchi; se è vero che la nota obituaria è posteriore
al rientro in Provenza, la composizione di 3 va collocata dopo l’estate del 51. Del resto, il
sonetto sembra concepito espressamente in funzione dell’esordio del libro, con un occhio a
quello che precede
Sonetto su 5 rime a schema ABBA ABBA CDE CDE: mentre A (-aro) C (-ato) ed E (-arco)
assuonano e condividono la tonica con B (-ari), A e D (-ore) consuonano, con estensione
della r interna a E (-arco): la forte incidenza della rotata è accentuata dalle ripetizioni in
prossimità della rima nella serie iniziale: scoloRaRo, Rai, guaRda; ricca la rima “guardai” :
“andai”.

4. Elogio del natale di Laura, di incerta datazione. L’esaltazione dell’umiltà di Cristo ritorna,
con espressioni prossime a quelle del sonetto, nella Fam. VII 2, non datata: siccome per
tutte le lettere di questo libro, con la sola eccezione della 3, sono state proposte date
comprese fra il 1347 e il 1352, si potrebbe forse ipotizzare un analogo arco di tempo per la
scrittura del sonetto. Indubbi mi sembrano i legami con la canzone di Triolo in Filostrato III:
nulla esclude che la dipendenza sia del giovane Boccaccio, ma si potrebbe anche pensare
l’inverso e questo allora sarebbe un argomento, se non per convalidare le tesi di Chiorboli
e Rico, almeno per ipotizzare una datazione posteriore al 1340-41. Prosegue il metodo di
ordinamento dei microtesti per continuità / opposizione inaugurato dalla coppia 2 e 3: dal
sonetto precedente, 4 riprende il tema cristologico e, con forte amplificazione, l’immagine
solare, tuttavia, mentre in 3 il nascere del sentimento amoroso è in drammatica
contraddizione con la pietas religiosa, in 4 Laura è collocata entro il piano provvidenziale e
scompare pertanto ogni ombra di dissidio o, come scrive Pastore Stocchi (1981), di
“angoscia tecnologica”. Comune a entrambi i sonetti è la rima in -ato, che porta con sé
l’identità della parola “stato”.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; A (-arte) assuona con E (-acque) e consuona
imperfettamente con B (-ero); condividono la vocale tonica le rime delle terzine; derivativa
la rima “gratia” : “ringratia”.
5. Elogio del nome dell’amata condotto innestando su una sorta di doppio acrostico (di cui la
parola tematica “reverenza” sembra indicare l’immediato precedente Paradiso VII 13-14
“Ma quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per Be e per ice”, una complessa
interpretatio nominis, figura tipica dei panegirici e delle agiografie, applicata a ogni sillaba.
Le lettere non sono evidenziate sull’autografo, il che rende difficoltoso ricostruire il nome
disperso nelle terzine: siccome dalle quartine si ricava la regola che siano in gioco solo le
sillabe iniziali di parola (LAU-RE-TA), non è pensabile pensare alla ripetizione dello stesso
nome (ricavando l’ultima sillaba da “morTAI”) e d’altra parte sembra incongrua al forma
francese LAURE. Utilizzando invece la A di “Apollo”, otteniamo la forma latina LAUREA, che
renderebbe ragione anche della duplicazione del nome; prima celebrato nel suo aspetto
anagrafico-referenziale e poi in quello simbolico. La presenza del mito dafneo non è indizio
sufficiente di composizione giovanile: anzi, il fatto che il simbolo dafneo sia pienamente
dispiegato anche sul versante poetico potrebbe suggerire una datazione molto più bassa.
Un termine ante quem potrebbe essere costituito dal passo del De vita… Petracchi in cui
Boccaccio nomina più volte Lauretta. Si potrebbe pensare infatti che nel De vita, abbozzato
nel 41-42 e ultimato nel 47-48, Boccaccio avesse presente proprio questo sonetto. Della
realtà storica di Laura non è possibile dubitare, mentre può lasciare adito a dubbi
l’identificazione con Laure de Noves, moglie di Hugues de Sade, colpita dalla peste il 3
aprile del 1348.
Sonetto su 4 rime a schema ABBA ABBA CDC CDC; A e B condividono la tonica o; derivativa
la rima “degna” : “disdegna”.

6. Datato, ma senza validi argomenti, al periodo avignonese (primavera del 1327 – fine del
1336). Inizia il racconto della storia d’amore, racconto che però è quasi subito interrotto:
seguono infatti quattro sonetti d’occasione con i quali, sulla soglia del libro, Petrarca rende
omaggio, io credo, alla famiglia dei protettori. L’ordinamento dei primi dieci testi, almeno a
partire da Chigi, da cui probabilmente Co non differiva, si struttura allora secondo
l’algoritmo 1+4, 1+4 (un testo proemiale seguito da quattro testi di esordio; l’inizio del
racconto cui fanno seguito altri quattro sonetti riservati ai ‘committenti’): non solo 5 è il
numero delle lettere del nome dell’amata, ma sul 5 e sul 10 è giocato il finale del libro. Il
sonetto 6 si collega al precedente attraverso il mito dafneo, che però è qui interpretato in
una prevalente chiave erotica.
Sonetto a 5 rime a schema ABBA ABBA CDE CDE; assonanza arricchita da una consonanza
imperfetta, fra B (-olta) ed E (-orta) equivoca la rima “volta”; derivativa “raccoglie” :
“coglie”.

7. Sonetto indirizzato a un amico per esortarlo a non abbandonare una sua “magnanima…
impresa” di tipo letterario. Più che di un testo responsivo, o comunque inserito in una
corrispondenza, sembra trattarsi di un “semplice sonetto di rallegramento e
incoraggiamento”: e ciò anche se è dato riscontrarvi qualche movenza di uno scambio di
sonetti intercorso fra Dante e Cino da Pistoia. Numerose sono state le proposte di
identificazione del destinatario: ritengo che esso sia il frate domenicano Giovanni Colonna,
del ramo di Gallicano, compagno di Petrarca in ricerche filologiche, soprattutto intorno a
Livio, negli anni a cavallo fra il ’20 e il ’30 e che l’invito sia a preservare nel lavoro intorno a
una enciclopedia storia De viris illustribus, iniziata da Giovanni ad Avignone e condotta a
termine a Roma dopo 1332. Il sonetto sarebbe anteriore alla partenza di Giovanni da
Avignone, databile fra il 1331 e il 1332. L’appartenenza a Giovanni al clan dei Colonna
collega il testo ai tre successivi, mentre il suo contenuto riprende e amplifica il discorso di
6; il traviamento e la follia del singolo sono omogenei al traviamento dell’intera società.
Dietro al discorso generale è facile individuare la sagoma di Avignone: in tal modo, al
traviamento amoroso viene dato un referente geografico nella corrotta città papale. La
funzionalità strututrale dell’implicito rinvio ad Avignone si perde a partire da Chigi, ma era
limpida in Co: la prima parte di quella redazione si chiudeva infatti con un testo di
pentimento (142) ambientato in Roma: alla perdizione morale e culturale di Avignone
rispondeva la renovatio nella città santa.
Sonetto in 5 rime a schema ABBA ABBA CDE DCE; B (-ita) e C (-irto) consuonano
imperfettamente e condividono la tonica con D (-ia); ricca la rima “sbandita” : “s’addita”.

8. È il primo dei tre sonetti d’occasione inviati a un destinatario storico: i primi due
accompagnavano doni materiali, il terzo è un invito. Gli indizi per identificare i destinatari,
tranne che per 10, sono labilissimi: ritengo tuttavia, basandomi soprattutto sul parallelismo
con l’organizzazione del II libro delle Familiares, che essi siano i tre fratelli Colonna
(Giovanni, Agapito e Giacomo) con i quali Petrarca ebbe i rapporti più stretti. Sulla soglia di
testi legati a doni è simbolica – alla famiglia ormai dispersa dei protettori. In tal modo
Petrarca verrebbe a collocare il libro sotto il segno della rievocazione dei personaggi
fondamentali (Laura e i Colonna) dela sua vita transalpina, sino alla grande peste e al
definitivo trasferimento in Italia. Il sonetto 8, il solo della raccolta in cui il locutore non
coincide con l’autore, accompagnava il dono di prede venatorie che si tratti di colombe può
essere avvalorato, oltre che dal genere femminile, dal fatto che il testo è un mosaico di
tessere lessicali e di situazioni desunte in prevalenza dal V canto dell’Inferno (David) e che
le colombe sono associate al ricordo degli amanti danteschi. Un indizio per sostenere la
candidatura del cardinale Giovanni è fornito da BC VIII: nell’egloga, che mette in scena il
‘divortium” dal cardinale sulla fine del 1347, Ganimedes (il cardinale), per cercare di
convincerlo a restare in Provenza, ricorda ad Amiclas (Petrarca) il piacere delle cacce a cui
era solito partecipare. Forse in quei versi rivive l’eco di antichi omaggi da parte del cliente,
eco tanto più viva se erano accompagnati da presenti letterari sul tipo di questo sonetto.
Viene ritenuto un testo giovanile, mancano però gli elementi per una convincente
datazione.
Sonetto su 4 rime a schema ABBA ABBA CDC DCD; A (-esta) e D (-ema) assuonano e
condividono la tonica con C (-emo); derivativa la rima “ne ‘nvia” : “via”.

9. Accompagnava il dono di un frutto che nasce sotto terra (‘dove già mai non s’aggiorna’).
Daniello riferisce che “ne gli scritti di sua man propria sopra questo Sonetto si legge
“Tuberorum munus”: potrebbe allora trattarsi di tartufi, e più precisamente di tartufi neri –
dei quali Vaucluse è tipica zona di produzione – che nascono in inverno e all’inizio della
primavera. Come tartufi li interpreta anche l’anonimo postillatore dell’esemplare
dell’aldina del 1521 conservata al Museo Civico di Padova: da un lato, allega una citazione
di Giovenale in cui si parla di cene primaverili con tartufi, dall’altro rincalza il passo citato
con la postilla; il passo di Plinio, riportato anche da Castelvetro. Non sussistono indizi
testuali o documentari per individuare il destinatario in Agapito Colonna: ne propongo
ugualmente la candidatura per i motivi discussi nell’introduzione a 8. Il sonetto 58
conferma inoltre che Petrarca inviava doni ad Agapito. Il sonetto non è databile, se però il
destinatario è Agapito (morto nel 1344), è probabile che esso preceda la composizione di
58, avvenuta nel 1337 o 38. Berra 1990 suppone, al contrario, che il sonetto sia stato
composto a Valchiusa dopo il 1337, e non esclude la possibilità di una revisione più tarda.
Sonetto su 5 rime a schema ABBA ABBA CDE DCE; le coppie A (-ore), D (-ole) e B (-orna), C
(-olga) assuonano e condividono la vocale tonica; una consonanza imperfetta collega
inoltre A e B, C e D; ricca la rima “l’ore” : “colore”.

10. La tesi più diffusa, autorizzata soprattuto da Carducci, è che questo sia un invito rivolto
nell’estate del 1330, a nome di Giacomo e degli altri familiari, a Stefano Colonna il Vecchio
a unirsi alla loro compagnia in Lombez. Foresti 1934 concorda sul fatto che il sonetto sia
scritto a Lombez, ma lo ritiene rivolto a Giacomo Colonna in occasione di una sua assenza.
Altri hanno ipotizzato che il destinatario sia il cardinale Giovanni o, ancora, che il sonetto
non sia un invito, ma un saluto a un personaggio che si congeda. Un punto fisso delle varie
ricostruzioni è comunque che il testo sia dei primissimi anni Trenta e che sia inviato a un
destinatario residente ad Avignone o in partenza per Avignone dal luogo agreste in cui
Petrarca sta scrivendo. A mio avviso, l’allusione contenuta nella prima quartina e una più
attenta considerazione del paesaggio evocato dal testo inducono a ipotizzare, con
ragionevole sicurezza, che si tratti di un biglietto d’invito mandato da Valchiusa a Giacomo
Colonna, residente a Roma, e che pertanto il sonetto risalga alla seconda metà del 1337 o
al 1338. Le numerose coincidenze con scritti dell’ultimo periodo in cui Petrarca abito alla
Sorgue potrebbero spiegarsi anche con una revisione del sonetto originario operata al
momento della trascrizione ‘in ordine’, cioè proprio in quei primi anni Cinquanta nei quali
Petrarca compose la maggior parte dei testi d’ambiente valchiusano.
Sonetto con lo stesso schema del precedente: assuonano A (-oggia) e D (-ombra);
derivativa la rima “appoggia” : “poggia”; assai rilevata l’inclusiva “ombra” : “’ngombra”; si
osservi anche la ricchezza di p in vicinanza alla rima: s’aPPoggia, Pioggia, Poggia (a cui si
aggiungono: Pino, Piagne, scomPagne).

22. La composizione di questa sestina è assegnata, su basi puramente indiziarie, al periodo


avignonese; se però riconosciamo fondato il riscontro tra il verso 32 e Catullo, VII 7-8, e
diamo credito alla ricostruzione di Billanovich 1988, secondo la quale Petrarca conobbe le
poesie di Catullo a Verona nell’estate del 1345, siamo costretti ad ammettere almeno una
revisione in data posteriore a quel soggiorno veronese. Si aggiunga che lo scatto sensuale
dei versi 31-36, entro i quali cade il possibile riscontro con Catullo, ritornerà in forme
molto vicine nella sestina 237, per la quale è stata ipotizzata una datazione intorno alla
primavera del 1346. In ogni caso, ritocchi o parziali rifacimenti in anni più recenti non
stupiscono, se si tiene conto del fatto che l’adiacente canzone 23 è ancora in fase di
revisione nei primi anni Cinquanta. La prima delle nove sestine della raccolta rende
omaggio nel v. 24 ad Arnaut Daniel, inventore del metro, senza dimenticare colui che lo
aveva acclimatato in terra italiana, il Dante di Al poco giorno. Accanto ai modelli canonici,
un forte influsso esercita il genere delle ‘albe’ profane provenzali: non solo esso fornisce
uno dei rimanti, ma suggerisce anche la situazione dell’incontro notturno degli amanti, con
le conseguenti invocazioni a che il giorno non ritorni. Dal punto di vista tematico, la sestina
mostra numerose analogie con la canzone 50 e con la sestina 237. La connessione con il
sonetto precedente è affidata a una figura di antitesi fra il “v’ama” di 21, 14 e il “ch’ànno in
odio” di 22,2.
Sestina con congedo di schema (A = “sotterra” [“terra]) E = “selva” (C = “giorno”) D =
“stelle” (F = “alba”) B = “sole”: sull’esempio di Arnaut [BEDCFA] e di Dante [BADFEC] la
retrogradatio non si estende al congedo (la successione parole-rima ripeterà l’ordine della
prima stanza solo nelle ultime cinque sestine, a partire da 142): più che su quello
danielino, che accoppia i rimanti in clausola a ciascun verso, il congedo di Petrarca si
struttura su quello di Dante, che dispone i rimanti, oltre che in fine di verso, anche alla fine
del primo emistichio, con la sola eccezione dell’ultimo verso nel quale è riproposta la
coppia di tipo arnaldiano (“petra sott’erba”). Le parole-rima delle sestine petrarchesche
sono sempre, come del resto quelle dei due predecessori, bisillabe: fa qui eccezione, nel
congedo, “sotterra”, ma è eccezione autorizzata da Arnaut (s’engongla : ongla) e
direttamente ispirata da Dante, che chiude la sua sestina con “sott’erba”.

31. Il sonetto parla di una donna in grave pericolo di vita che, stando al sonetto 33, potrebbe
essere Laura stessa. In Secretum III Agostino testimonia che effettivamente Laura venne a
trovarsi in una simile situazione e che in quel frangente Petrarca scrisse un “funereo
carme”, carme che, tuttavia, non va identificato con il sonetto, ma con la cosiddetta Elegia
ritmica in morte di Laura. Che poi la malattia di Laura possa essere insorta durante
l’epidemia dell’estate del 1334 è ipotesi indimostrabile. La tesi cinquecentesca, ripresa da
Cochin, e riproposta di recente, che vuole il sonetto collegato con i due successivi a
costituire una sequenza narrativa imperniata sullo stesso episodio biografico, sottovaluta
gli effetti indotti dal ‘montaggio’ e la capacità petrarchesca di unificare componimenti
ispirati a occasioni diverse. Ritengo che 31 si colleghi strettamente al solo 33 e che
l’episodio da essi sottesi abbia un reale fondamento biografico; non mi avventurerei però
in ipotesi cronologiche e, se mai, insisterei sul carattere di esercitazione letteraria,
particolarmente evidente in 31: già Castelvetro ne indicava lo spunto nel passo virgiliano e
altre fonti classiche individua Cherchi 1997. Il collegamento con 30 è affidato alla
riproposizione, nei primi due versi del sonetto, del motivo della morte prematura
contenuto nell’ultimo verso della sestina.
Sonetto su 4 rime basata ABBA ABBA CDC DCD; C ha in comune con B la tonica i; D (-ella)
inverte le vocali di A (-arte); ricche le rime “diparte” : “parte” : “sparte”; contraffatta
“bella” : “habitrebbe ella”.

33. Ritengo che il sonetto originariamente facesse coppia con 31, di cui rappresenta uno
sviluppo temarico e narrativo e nel cui ultimo verso trova il punto di partenza: “Già
fiammeggiava l’amorosa stella / per l’oriente, et l’altra che Giunone”. In un secondo
tempo, la coppia fu separata dall’inserimento di 32, al quale, peraltro, 33 può legarsi
attraverso l’identità dello schema metrico e alcune microriprese lessicali: “suol far breve”,
“suol far gelosa” “I’ dico”, “parea dir”. Benché la coppia 31-33 adombri, plausibilmente, un
episodio della biografia di Laura, vale la pena di insistere, anche per 33, sull’aspetto di
esercitazione su un tema, di origine classica, ma già ambientato nella lirica amorosa: si
vedano, ad esempio i sonetti XVI e XVII della Corona di casistica amorosa, imperniati sulla
sequenza malattia-guarigione della donna. Il motivo dell’apparizione in sogno sarà
sviluppato nei testi scritti dopo la morte di Laura.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; A (-ella) consuona con E (-olle), che a sua
volta assuona con B (-one).

34. Stando alle argomentazioni di Rafti, i testi contenuti sembrerebbero composti prima del 4
novembre 1336; 24 entra in Pr prima del 16 novembre 1337; P1 non solo documenta che il
21 agosto del 1342 il sonetto venne trascritto in Ps, ma sembra anche indicare che la
raccolta iniziata in quel giorno cominciava proprio con questo sonetto. È pura illazione
l’ipotesi del Mascetta, accettata da Amaturo, che il sonetto risalga al febbraio-marzo del
1333; analogo discorso vale per quelle di Jones 1995, che sia del maggio-giugno 1334 e di
Amaturo che sia stato elaborato nel 1342. Anche la ricostruzione largamente diffusa che lo
vuole legato al ciclo della malattia di Laura, riferendosi, secondo alcuni, al momento della
convalescenza, è sprovvista di supporti: a ragione, io credo, Wilkins 1951, nega ogni
legame genetico tra questo sonetto e i tre precedenti. Il che non significa negare che il
testo si riferisca a un episodio della biografia di Laura, quasi sicuramente una malattia
(l’invocazione ad Apollo perché disperda il maltempo che minaccia il lauro va intesa infatti
come invocazione ad allontanare il morbo dalla donna; aneddotica senza fondamento è
invece l’idea, divulgata dai cinquecentisti e ripresa da Galimberti 1983 che Apollo-Sole sia
pregato di salvaguardare un lauro appena piantato): anche in questo caso, peraltro, entra
in gioco il precedente classico di ps.-Tibullo IV 4, dove Apollo è chiamato a guarire una
fanciulla malata. Tra le connessioni con 33 è rilevante quella incipitaria giocata sulla
presenza del verbo ‘infiammare’ e sull’accento mitologico; si noti anche il sintagma
“amorosa speme” che combina “l’amorosa stella” e la “mia speme”.
Sonetto su 5 rime di ABBA ABBA CDE CDE; C e D hanno in comune la tonica in e, B ed E in
o; inclusive le rime “desio”: “oblio” : “rio” : “io”; “onde” : “bionde” : “asconde” : “fronde”
e, da considerare come paretimologica, “disgombra” : “ombra”.

35. Composto in data anteriore al 16 novembre 1337, entrato a far parte di Pr durante quello
stesso anno, venne trascritto in Ps dopo l’agosto del 1342. Prende spunto dal Bellerofonte
omerico, conosciuto attraverso la traduzione di Cicerone. I versi ciceroniani sono citati in
Secretum III; Petrarca parla di Bellerofonte anche in Familiares III 21. Le riserve di Bosco
1942 sulla conoscenza degli elegiaci latini da parte di Petrarca sono ormai superate: nel
caso specifico sono riscontrabili influssi di Properzio e di Tibullo. Si osservi che il motivo
della solitudine per amore, che è potuto apparire una sorta di prefigurazione romantica,
illustra in realtà, così come farà anche il sonetto successivo, uno degli effetti del “furor
amoris”: il “tristis amor solitudinis atque hominum fuga”.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; le rime delle quartine hanno in comune la
vocale finale (i); A (-ampi) e C (-agge) condividono la tonica in a, B (-enti) e D (-empre) la
tonica in e; D, inoltre, consuona parzialmente con A, che, a sua volta, è legata a B da una
stretta parentela fonica; paranomastica la rima “stampi” : “scampi”, con “scampi”
etimologicamente collegata a “campi”.

52. La composizione del primo madrigale della raccolta viene tradizionalmente collocata, in
virtù del numero d’ordine, durante gli anni avignonesi. Il dato, tuttavia, è lungi dall’essere
acquisito: ma anche i pochi elementi sui quali basare una proposta di dotazione alternativa
non sono tali da consentire conclusioni univoche. Indubbi sono i rapporti tematici e
formali con le raffigurazioni di bagnanti contenute in 23 e 126: chi scrive ha pure avanzato
l’ipotesi, ripresa da Capovilla 1983, che il madrigale possa essere anteriore alla canzone
23. Anche lo stabilire se il testo sia legato geneticamente al ciclo laurano oppure nasca,
come sembra proprio di quasi tutti i madrigali petrarcheschi, da un’occasione galante –
accertamento fondamentale per la sua esatta comprensione – non è dirimente ai fini
cronologici. A favore della seconda ipotesi depone la variante addotta dal Corsi per il verso
6: in effetti, essa sembrerebbe testimoniare uno stato redazionale anteriore nel quale
l’espressione “a l’aura” non aveva la marcata funzione di senhal assunta dopo che il testo
fu inserito nella raccolta e che la “pastorella” ebbe assunto, con il passaggio da “vago
capel” a “vago et biondo capel”, i connotati dell’amata. Si aggiunga, a conferma di una
probabile estraneità originaria del madrigale al sistema di immagini ruotante attorno a
Laura, che questa è la sola attestazione del gioco di parole “Laura” = “l’aura” contenuta
entro i primi 79 testi della raccolta. Neri a proposito della “pellegrina” di 54 e della
“pastorella” di questo testo, parla di “figure leggiadre e fugaci […] che lasciano
intravvedere una poesia giovanile; assai più argomentata e convincente è tuttavia l’ipotesi
di Petrobelli che il madrigale sia il frutto di una occasione “cortese” e sia da mettere in
relazione ai contatti di P. con Jacopo da Bologna, che ne fu intonatore: tali contatti
possono essere intervenuti o nell’ambito della corte milanese o, più probabilmente, di
quella veronese degli Scaligeri tra il marzo del 1348 e il settembre del 1352. Per una via
indipendente da Petrobelli anche Battisti fissa la composizione del madrigale a Verona nel
1350. Per ulteriori ragguagli sui rapporti di Petrarca con la polifonia profana. Se la
datazione intorno alla metà del secolo toglie a Petrarca un possibile primato nell’uso di
questa forma metrica, resta tuttavia che, allo stato attuale degli studi, 52 contende a La
bella stella dell’amico P. Lancillotto Anguissola il titolo di primo madrigale d’autore della
nostra tradizione e che l’operazione petrarchesca di inserire componimenti di tale metro
in una raccolta di rime non solo non ha precedenti, ma neppure imitatori prima del
Sacchetti.
Madrigale di schema ABA BCB CC, nel quale “non è difficile riconoscere l’applicazione del
principio che genera la terzina incatenata”; inclusiva la rima “piacque” : “acque”;
paranomastica “cruda” : “chiuda”.

63. Ballata assegnata o al periodo avignonese o alla seconda metà del 1339: ma sono ipotesi
non suffragate da indizi sufficienti. Altrettanto dicasi per quella secondo cui il pallore
descritto nei primi versi andrebbe riferito ai postumi di una malattia del poeta. Se si
ammette che il riscontro fra i versi 3-4 e Filostrato V 54 non è casuale e soprattutto che
l’influsso, come è ipotizzabile per la più estesa rammemorazione che di quello stesso
passo boccacciano denuncia il sonetto 112, sia di Boccaccio su Petrarca, il termine post
quem potrebbe essere abbassato sino ai primi anni Quaranta. Ancora una volta assistiamo
alla ripresa, con segno invertito, della situazione del testo che precede: a Dio, salvatore
spirituale, subentra Laura, salvatrice in senso biologico; la “nemica” si fa “angelo”.
Notevole la ripresa lessicale “Or volge”, “Volgendo”.
Ballata grande di soli endecasillabi (unico caso riscontrabile nei Fragmenta, ma non fra le
Estravaganti) disposti secondo lo schema, simile a quello di 11 e 14, XYYX ABCBAC CDDX.
Quasi identiche le rime Y (-ente) e D (-ento); secondo Bigi 1974 la scansione metrico-
sintattica e le corrispondenze foniche finiscono “per suscitare l’impressione di un sonetto
in cui le quartine siano collocate agli estremi e le terzine in centro”.

70. Avvalendosi dell’artificio dei cosiddetti versus cum auctoritate, frequente nella poesia
mediolatina e ancora vivo nella produzione innodica vicina a Petrarca, come quella di
Jacopo Caetani Stefaneschi, morto ad Avignone nel 1343, ma molto raro nella produzione
lirica in volgare, se è vero che gli unici due precedenti sembrano essere la canzone oitanica
Se par mon chant me deusse aligier di Gilles de Vieux- Maisons e quella occitanica Be m’a
lonc temps menat a guiza d’aura di Jofre de Foixà, la canzone chiude ciascuna delle sue
stanze citando per esteso l’incipit di canzoni di illustri poeti del passato. Si ossservi però
che il giovane Petrarca del carme Ursa peregrinis modo già aveva sperimentato la tecnica
del centone, alternando un verso suo e uno di autori classici. In questa canzone egli cita,
nell’ordine, capoversi di Arnaut Daniel, Guido Cavalcanti, Dante e Cino e, nell’ultima
stanza, quello della sua canzone 23. Le citazioni rappresentano un omaggio ai maestri, ma
nello stesso tempo anche una presa di distanze: la canzone 70 si presenta infatti come una
palinodia della concezione amorosa di cui la 23 costituiva un vero e proprio manifesto.
Con questo testo Petrarca rinnega l’ideologia amorosa della sua giovinezza per aprire un
discorso nuovo e diverso di cui le “cantilene oculorum” rappresentano la prima
manifestazione. Critici e commentatori, e in particolare Appel 1924, sottolineano
concordemente lo stretto legame con le “canzoni degli occhi”, delle quali questa è
considerata una sorta di preludio: discordanti sono invece le proposte di datazione. I più la
ritengono del periodo avignonese. Appel ne colloca la composizione negli anni valchiusani
fra il 1337 e il 1340; Martinelli 1977 fra il 1343 e il 1344. Bettarini 1992 dopo aver fatto
notare che il termine a quo è rappresentato dalla morte di Cino, all’inizio del 1337,
accoglie anch’essa l’ipotesi di Appel. Due circostanze consigliano tuttavia di abbassare
sensibilmente la datazione: da un lato, il fatto che le “canzoni degli occhi”, così
strettamente collegate, fossero ancora in fase di composizione o comunque di profonda
revisione nei primi anni Cinquanta; dall’altro, e soprattutto, la storia redazionale della
canzone 23: di ideazione giovanile, ma rivista ancora nel 1350 e 1351, e trascritta “in
ordine” solo nel 1356. Poteva Petrarca citare, tra la fine degli anni Trenta e i primi anni
Quaranta, in compagnia di testi tanto illustri una sua canzone ancora lontana dallo stato
definitivo di elaborazione? Anche le connessioni che la Bettarini 1992 individua tra i
rimaneggiamenti apportati nel 1350-51 alla seconda stanza di 23 e la seconda stanza di 70,
mentre comprovano i rapporti che intercorrono anche in fase di revisione tra i due testi,
non costringono a collocare la composizione di 70 troppo tempo prima del 1350-51. È
dunque ipotizzabile che anche 70, come i principali testi di cornice della redazione
Correggio sia stata composta espressamente in funzione della raccolta di Petrarca
progetta dopo la morte di Laura e di cui Co sembrerebbe essere la prima organica
sistemazione. Dei testi di cornice la canzone ha la rilevanza strutturale, collocata, insieme
alle “cantilene oculorum”, a metà delle rime in vita della redazione Co, e subito a ridosso
dei testi romani, segna un netto discrimine nella vicenda narrata in quella redazione. La
svolta consiste in un passaggio da una concezione sensuale e pessimistica dell’amore a una
visione spiritualeggiante che potremmo chiamare stilnovistica, con il conseguente
mutamento di segno del personaggio di Laura. È rilevante che tale soluzione abbia come
referente geografico-simbolico proprio Roma: viene così istituito un ponte tra questa
svolta ideologica e l’ansia di renovatio che la sestina 142, fra gli ultimi testi della prima
parte di Co, sembra ambientare proprio nella città sacra.
Canzone di 5 stanze di 10 versi a schema ABBA AccADD, senza congedo (l’assenza di
congedo si riscontrerà solo in 105). Benché presenti uno degli schemi più
provenzaleggianti del Canzoniere, mi sembra opinabile l’identificazione della canzone con
la “cantilena de quatuor rhytmis” che, stando alla testimonianza di Benvenuto, Petrarca
dichiarava di avere attinto da Arnaut. Semmai, dietro a quello petrarchesco è leggibile ‘in
filigrana’ lo schema, con i piedi di 2 versi, della canzone di Cino, La dolce vista, citata al
verso 40 e, soprattutto, quello della dantesca Donne ch’avete. Il principio delle coblas
capfinidas è rispettato tra la I e la II stanza e la III e la IV: più labile il collegamento tra il
“dire” della II e il “ragionar” della III. Nella I stanza hanno la stessa tonica (o) B e D, mentre
A e c presentano l’inversione delle vocali (-eghi; -ine). Si segnalano la rima derivativa
“preghi” : “ripreghi” e la quasi sovrapponibilità di “pieghi” e “preghi”. Nella II assuonano B
e c (-empo; - etto); identica la rima “tempo”, che sempre, per altro, rima con se stesso.
Notevole il fonosemantismo tra “AMANTI” e “senzA MENTIre”, che sottintende il gioco
antonimico “amantium / amentium”. La III stanza presenta ben tre rime (A, B, D) tra loro
assonanti (-asso; -alto; -aspro), una equivoca “passo” e una derivativa “naspro” : “aspro”.
Meno elaborare le rime della IV: identità della tonica fra A (-anna) e D (-ave), B (-erchio) e
c (-elle), e insistenza su rime con una sola vocale e geminazione interna: - anna; -elle (c).
Complesso è invece il trattamento delle terminazioni dell’ultima stanza: A, B e c sono
collegate da consonanza perfetta (-orno; -erno) o quasi (-ermo), a cui si aggiunge
l’assonanza tra B e c; ricche le rime “intorno” : “ritorno”, “beltade” : “etade”; derivativa
“fermo” : “infermo”.

71. Le canzoni 71, 72, 73 – dette ‘degli occhi’ (“cantilene oculorum”) dallo stesso Petrarca
nella postilla di V2 qui riportata in n. al verso 37 – costituiscono “un unico e ampio
discorso a tre forti pause”, una “specie di poemetto lirico… diviso in tre canzoni”.
L’unitarietà del trittico (a cui l’autore allude con l’espressione “lungo… ragionar”
dell’ultimo congedo), poggiante sulla dinamica dell’argomentazione e sull’omometria, è
sottolineata da ciascuno dei tre congedi. Pertanto, anche le ipotesi di datazione non
possono prescinderne. Che la loro ideazione risalga agli anni avignonesi (“composte, quasi
sicuramente, per celebrare l’avvenuta normalizzazione dei suoi rapporti con [Laura] dopo
la rottura del 1336”) o comunque prima del 1341, è puramente congetturale; è certo,
invece, che la terza canzone era in fase di profonda revisione nei primi anni Cinquanta,
una revisione da collegare ai lavori preparatori di Co. Il carattere unitario del ciclo impone
di considerare unitariamente anche le vicende redazionali: da qui l’ipotesi che le
testimonianze di V2 possano essere interpretate non come tracce di un lavoro
redazionale, ma come indizi di una gestazione in corso. Se così fosse, ancora più stretto
risulterebbe il legame con la canzone 70, considerata, fin dal Cinquecento, come loro
preludio.
Le canzoni variano nel numero di stanze (questa ne conta sette), ma hanno identico
schema: aBCbAC CDEeDfDFF, più il congedo ABB. Sono le prime della raccolta a
presentare, rompendo la regola dantesca dell’incipit endecasillabico (regola disattesa già
da Cino), un attacco settenario. Nella 71 il collegamento sul tipo delle coblas capfinidas è
attuato fra le stanze IV e V, V e VI e VI e VII. Nella I stanza tutte le rime sono collegate a
due a due dall’identità della vocale tonica: e fra a e B, i fra C e D, o fra E e f; B (-esa) e f (-
ose) consuonano; spicca inoltre l’addensarsi di r in posizione protonica: bReve, impResa,
gRido, spRona, Ragiona, amoRose. Ricche: “stile” : “gentile”; “cose” : “ascose”. Nella II
assuonano a (-eggia) e f (-senza); hanno vocali invertite B (-oi) e C (-io); anche qui è ricca la
rima baciata conclusiva: “presenza” : “senza” e paranomastica “m’intende” : “m’incende”.
Nella III stanza sia a, sia B sono costruite su una sola vocale (-accia; -oco); C e D hanno
invece vocali invertite (-ampi, -ita). D consuona parzialmente con E (-orte) e con f (-ura);
ricca “scampi” : “campi”. Nella IV si rileva l’assonanza fra B (-oglio) e D (-olto) e la quasi
consonanza, in rime che presentano l’inversione delle vocali, fra a (-eni) e C (-igne); ricca
“spigne” : “depigne”. Nella V stanza assuonano D (-atio) ed E (-ado); ricche “ringratio” :
“stracio”; “grado” : “rado”. Nella VI assuonano a (-ora) e C (-ova), invertono le vocali C e D
(-anto); ricca “porrebbe” : “farrebbe”, inclusiva “ora” : “allora”. Nella VII un legame
consonantico e l’inversione delle vocali collegano a e B (-ero, -opre): ricca “innamorata” :
“entrata”; tende alla rima ricca “insieme” : “seme”; inclusiva “discopre” : “opre”.

72. Canzone di 5 stanze e congedo, con lo stesso schema della precedente e della successiva.
Si riscontra un solo collegamento forte, tra la III e la IV stanza. Nella I stanza assuonano B (-
ume) e C (-uce), consuonano D (-ine) ed E (-ana); ricca “fanno” : “affanno”, ricca ed
etimologica “conduce” : “induce”. La II presenta, con la sola eccezione di “soave”, solo
parole in rima bisillabe; mancano rime tecniche; una sola assonanza e, per di più, fra rime
distanziate: B (-elle), E (-ene). Caratteristico della III stanza è l’addensamento di rime a una
sola vocale: a (-oso), C (-ici), D (-ende); da segnalare l’inclusiva “Fortuna” : “una”. Nella IV
invertono le vocali a (-ancho) e B (-olta); assuonano E (-elo) e f (-etto); ricca “petto” :
“aspetto”; ricca, e collegata etimologicamente, la serie “adversa” : “s’atraversa”:
“rinversa”. L’ultima stanza presenta un più elaborato trattamento delle rime: tutte hanno
la tonica in a; inoltre assuonano a (-ace), B (-ale) ed E (-arme); ricca: “tremanti” : “amanti”;
inclusiva: “sguardo” : “ardo”; consonanza e allitterazione collegano infine “farme” a
“fama”.

73. 37 costituisce, e la circostanza è confermata da P1, un abbozzo dei versi 25-30 di questa
canzone. 37 è allogato sul recto della c. 6 di V2, preceduto dalla parte finale della prima
stesura di Familiares XVI 6: la prima parte dell’epistola è vergata sul verso di quella stessa
carta e sull’attuale c. 15v. È possibile stabilire che la scrittura di 37 e delle relative varianti
è posteriore a quella dell’epistola e, inoltre, che la composizione dell’epistola risale al 15
febbraio 1353. È così documentato che dopo quella data la canzone era ancora in fase di
profonda revisione. Tuttavia, tenendo conto della distanza che sperata 37 dalla redazione
finale, distanza che presuppone numerosi gradi intermedi, ci si può chiedere
legittimamente se quell’abbozzo non rappresenti, piuttosto che il rifacimento di un testo
già scritto da tempo, la testimonianza di un testo che stava allora prendendo forma: in altri
termini, se la composizione della canzone 73 non vada ascritta proprio ai primi anni
Cinquanta. Stante il carattere unitario del ciclo, sarebbe la datazione di tutte e tre le
canzoni a dover essere abbassata rispetto alle ipotesi correnti.
Canzone di 6 stanze e congedo, con lo stesso schema delle due precedenti. Solo le prime
due stanze sono collegate da un richiamo lessicale: “le parole”, “parlando”. Nella I stanza
numerose le rime tecniche: etimologiche: “voglia” : “invoglia”; “contempre” : “stempre”;
equivoca “sòle” : “sole”; l’assonanza fra A (-ia) e f (-ica), e la prima ricca “nemica” :
“amica”. Nella III stanza spiccano la consonanza fra a (-ate) e D (-ute), nonché le rime
ricche ed etimologiche “ricorro” : “corro” : “soccorro” e la rica pseudo-etimologica
“s’avolse” : “volse”. Nella IV assuonano C (-olo) ed E (-ono); tende alla rima ricca la coppia
“norma” : “un’orma”. Anche nella V stanza sono pochi i fenomeni rilevanti: la rima ricca
“fanno” : “affanno” e il terzetto “presso” : “stesso” : “spesso”, che si approssima alle rime
ricche. Nell’ultima stanza si segnalano l’assonanza tra B (-odo) e f (-orto), rafforzata
dall’identità della tonica di D (-ove), e la rima etimologica “smorto” : “morto”.

77. Questo sonetto e il successivo si riferiscono al ritratto di Laura (“una miniatura o forse un
disegno acquarellato”) eseguito da Simone Martini, ritratto di cui parla anche Agostino in
Secretum II. P1 attestante che nel 1357 Petrarca stava preparando una copia della raccolta
per Azzo da Correggio, documenta che entrambi i sonetti furono trascritti in quella
redazione, il 29 novembre di quell’anno, “post mille annos” dalla loro composizione.
Secondo la ricostruzione di Wilkins 1951 entrambi erano già stati inseriti in Pr in un
periodo di poco anteriore al 4 novembre del 1336. Anche la data di composizione non può
precedere di molto quel novembre: infatti, l’inizio del soggiorno del Martini in Avignone
viene generalmente collocato proprio nel 1336. Quest’ultimo dato è tuttavia controverso:
vi è chi sposta l’arrivo di Simone a dopo l’ottobre del 1340 e chi utilizza proprio la
ricostruzione del Wilkins per datare al 1335-36 il primo soggiorno avignonese del Martini.
Le ipotesi di datazione tradizionali, anteriori cioè al lavoro filologico di Wilkins puntano sul
biennio 1339-40. La questione è rilevante, perché non si restringe alla cronologia dei due
sonetti, ma coinvolge l’intera prima forma di riferimento della raccolta. Infatti, qualora
fosse provato che i rapporti di Petrarca con il Martini sono posteriori al novembre del
1336, verrebbe rimessa in discussione la data di trascrizione delle copie 7 e 8 di V2, e con
ciò verrebbe a cadere gran parte della ricostruzione della prima raccolta prospettata da
Wilkins: come fa Jones 1995 che ricolloca 77 e 78 nel 1339. Si osservi, a favore dell’ipotesi
filologica di Wilkins, che la collocazione dei due testi in questa zona della raccolta, se può
essere incongrua dal punto di vista cronologico è del tutto adeguata al loro contenuto: la
Laura paradisiaca ritratta da Simone ben si accorda, infatti, con i nuovi tratti celestiali che
la donna comincia ad assumere con la svolta spiritualizzante delle canzoni 70-73. A Simone
Petrarca commissionò, in un periodo compreso fra il 1338 e il 1343 la miniatura,
raffigurante Servio che svela Virgilio, contenuta sul frontespizio del Virgilio Ambrosiano: in
calce alla miniatura appose i due esametri seguenti: “Mantua Virgilium qui talia carmine
finxit / Sena tulit Symonem digito qui talia pinxit”. Al Martini accenna, in compagni di
Giotto, nella Familiares V 17 e in una postilla sul manoscritto di Plinio il Vecchio relativa
alla “comitas” di Apelle.
Sonetto su 4 rime con lo stesso schema del precedente equivoca “parte”, includente
“arte”.

78. Sonetto su 4 rime schema ABBA ABBA CDC CDC; si segnalano le rime ricche “stile” :
“gentile” e “petto” : “aspetto”.

90. A Wilkins 1951 il sonetto non sembra databile; altri propongono date che vanno dal 1334,
passando attraverso il 1338 e il 1339-40, sino al 1342. Quest’ultima, non insostenibile per
Chiòrboli, gradita ad Amaturo e a Taddeo, è tuttavia legata a un aneddoto, diffuso nel
Cinquecento, secondo il quale P si rivolgerebbe a un illustre personaggio (Roberto d’Angiò)
rimasto deluso dalla vista di Laura: la credibilità di simili racconti è pressocché nulla. Una
datazione negli anni Quaranta potrebbe, invece, sostenersi sul fatto che le immagini
dell’andare sovrannaturale e della voce celestiale ospitate nella prima terzina ritornano,
spesso congiunte, in altri testi petrarcheschi sicuramente posteriori al 1341. Accettando
questo termine post quem, i contatti con i testi del Boccaccio su Petrarca; nel caso
contrario, che cioè inversa sia la direzione dell’influsso, dovremmo ammettere una
composizione del sonetto nella seconda metà degli anni Trenta e una sua procacissima
lettura da parte di Boccaccio.
Sonetto con lo stesso schema dell’88 e dell’89. Le rime A, C, E hanno la stessa tonica a
(suono duplicato in E [-ana]); consuonano C (-ale) e D (-ole). La serie “sparsi” : “scarsi” :
“farsi” include “arsi”; ricca “mortale” : “tale”.

92. Il sonetto, in morte di Cino da Pistoia, deceduto alla fine del 1336 o ai primi del 1337,
dovrebbe risalire ai primi mesi del 1337, durante il soggiorno di Petrarca a Capranica o a
Roma. La collocazione in coppia con il precedente è giustificata, oltre che dall’occasione
funebre, da numerose concordanze linguistiche: si notino quelle fra “donna” e “donne” in
sede incipitaria, fra 91, 2 “subitamente s’è da noi partita” e 92, 11 “novellamente s’è da
noi partito” e fra 91, 3 “al ciel salita” e 92, 14 “il cielo, ov’ello è gito”.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE CDE, con D (-ino) e E (-ito) assonanti.
Numerose le rime ricche: “intese” : “contese” : “cortese”, con rapporto etimologico fra le
prime due e paronomastico fra le seconde due; “versi” : “perversi”; “Cino” : “vicino”, dove
la seconda parola reduplica il nome del poeta defunto.

106.La datazione al primo soggiorno valchiusano (1337-1341), largamente accettata


sull’autorità di Wilkins 1951 è fra le più labili; Contini rileva “l’arcaismo stilnovistico del
linguaggio (che può, ma non necessariamente, significare data antica)”. Egli ritiene,
inoltre, che “il componimento sia estraneo all’affabulazione generale del Canzoniere,
come del resto quelli che in esso lo precedono immediatamente: un gruppetto in qualche
modo extravagante, che si direbbe preannunciato dal finale del sonetto 102. Anche De
Robertis 1992 esprime il dubbio che “in origine” il madrigale sia stato “laurano”, e Fenzi
1998 estende la conclusione all’intero ciclo dei quattro madrigali. Paolino 2001 ritiene che
106 sia stato composto “sin dall’inizio per entrare nel Canzoniere e consolidare, così, la
posizione del madrigale all’interno delle forme metriche attestate dalla raccolta”.
Madrigale di schema ABC ABC DD, con B e C accomunate dalla stessa vocale tonica (i),
così come A e D (o). Ricca la rima “accorta” : “scorta”.

112.A Sennunccio del Bene. Inconfutabili i legami con Filostrato V 54-55 segnalati dal Wilkins:
“Quando sol gia per Troia cavalcando / ciaschedun luogo gli tornava in mente; / de’ quai
con seco giva ragionando: / “Quivi rider la vidi lietamente, / quivi la vidi verso me
guardando, / quivi mi salutò benignamente, / quivi far festa e quivi star pensosa, / quivi la
vidi a’ miei sospir pietosa. / Colà istava, quand’ella mi prese / con gli occhi belli e vaghi
con amore; / colà istava, quand’ella m’accese / con un sospir di maggior fuoco il cuore; /
colà istava, quando condiscese / al mio piacere donnesco valore; / colà la vidi altera, e là
umile / mi si mostrò la mia donna gentile”. Problematica è invece la direzione
dell’influsso. Fino a poco tempo addietro gli studiosi concordavano nel ritenere che fosse
Boccaccio a dipendere da Petrarca, Balduino 1984 che utilizza il sonetto petrarchesco
come termine post quem per la datazione del Filostrato, e da ultimo Fenzi 1998: su
questa base il sonetto di Petrarca deve essere considerato anteriore almeno al 1340. Se si
ammette, al contrario come io credo, e soprattutto come ritiene Velli 1992, secondo il
quale Boccaccio si interpone fra il testo ovidiano dei Remedia nella n. 5 e quello di
Petrarca, che la direzione vada capovolta, diventa plausibile l’ipotesi che la composizione
del testo cada nei primi anni Quaranta, dopo il viaggio a Napoli, dove può essere
avvenuta la scoperta, da parte di Petrarca, dello scrittore Boccaccio. Per altra via, sarebbe
così avvalorata la tesi di Foresti 1940, che vuole il sonetto composto dopo il rientro in
Provenza nel 1342. Un omaggio a Boccaccio si spiegherebbe bene in un testo a
Sennuccio: da tempo, infatti, egli svolgeva un ruolo di mediazione tra i due poeti, che
ancora non si conoscevano di persona. La rievocazione dei “luoghi dell’amore” collega il
sonetto alla serie 108-111, senza che, per questo, si debba pensare a un destinatario
comune a tutta la serie.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE CDE, con A (-era), E (-ore) consonanti, e C (-
ise) e D (-asso) parzialmente consonanti.

125.“Fa parte di una serie, unica nel libro, di ben cinque canzoni (dalla 125 alla 129), delle
quali quattro, legate due a due da aspetti metrici e tematici (con la seconda coppia
intervallata dalla canzone civile Italia mia), ‘dicono’, variandolo, lo stesso tema centrale:
quello… del costituirsi” nel pensiero del soggetto “dell’immagine fantasmatica” di Laura
assente. I legami con 126 sono talmente stretti che Bembo (Prose II 13), mutuando
l’espressione usata da Petrarca per le canzoni ‘degli occhi’, le ha definite “sorelle”. Oltre
che negli elementi tematici di fondo, tali legami si manifestano con piena evidenza nella
quasi identità dello schema metrico, nell’esplicito richiamarsi dei congedi, nella comune
ambientazione ‘campestre’. Queest’ultimo aspetto, congiunto alla prevalenza del
settenario sull’endecasillabo e alla stessa dichiarazione di “rusticitas” contenuta nei
congedi, induce a evocare la tradizione delle ‘pastorelle’ e la loro tematica erotica.
Praloran 2002 respinge però la definizione di canzonetta-pastorella sicuramente per
questa e forse anche per la successiva canzone. Le parentele tipologiche e formali tra 125
e 126 suggeriscono una composizione ravvicinata: Bembo ritiene la 125 “nata da un
corpo” con la 126. Le proposte di datazione sono però numerose e discordanti; non vi è
accordo neppure sul fatto che entrambe siano state ideate e composte a Valchiusa.
Quest’ultima circostanza, tuttavia, appare allo stato attuale la più probabile, anche se
niente consente di decidere a favore del primo soggiorno (e più precisamente, per la fine
del 1340 e l’inizio del 1341, prima cioè della partenza per Napoli e Roma) o del secondo
(circoscrivibile all’estate del 1343, prima della seconda partenza per Napoli). Non so quale
rilevanza possa avere, ai fini cronologici, la constatazione che in 126 mancano quegli
elementi “per qualche lato di tipo arcaico” a cui accenna fuggevolmente Contini 1946:
non sembrano queste le considerazioni che inducono Ponte a separare la 125, che egli
data “verso la fine del 1343”, dalla 126, assegnata invece alla fine del 1340 e inizio del
1341. È suggestiva, ma attende ulteriori verifiche, l’ipotesi di Fenzi 1991 che la divisione in
due parti (tre stanze + tre stanze) stilisticamente distinte (la prima ‘aspra’, la seconda
‘dolce’) sottenda due diverse fasi di composizione, e che la scrittura della seconda parte
risalga a dopo la morte di Laura, forse negli anni Cinquanta, nello stesso periodo in cui, a
suo avviso, sarebbe stata composta la 126. Per quanto riguarda il rapporto fra le due
canzoni egli parla del “caso, assolutamente anomalo e perciò assai interessante… di una
canzone [125] che, giunta a metà del proprio corso, muta stile e contenuto, e si trasforma
in una sorte di lunga pròtasi della canzone successiva”. Numerosi sono anche i
collegamenti lessicali con il sonetto precedente: un particolare rilievo assume quello, in
posizione capfinida, tra 124, 14 “et tutti miei pensier’ romper nel mezzo” e 125, 1 “Se ‘l
pensier che mi strugge” (il verbo era già in 124, 5 “Amor mi strugge”).
Canzone di 6 stanze di 13 versi, di cui ben 10 settenari, di schema abCabCcdeeeDff, e
congedo Abb. Con la sola variante che l’ultimo verso è settenario anziché endecasillabo, è
lo stesso schema di 126 (ma si veda anche la versione ‘tragica’, cioè a forte prevalenza
endecasillabica, dello schema proposto dalla canzone 129). L’attacco settenario, che
ritornerà in 135, è proprio delle tre canzoni degli occhi, cioè, non a caso, di un altro
gruppo caratterizzato dalla continuità tematica, dall’identità dello schema e dal fatto che i
congedi si riprendono tra loro. 125 e 126 sono le uniche canzoni nelle quali i settenari
prevalgono sugli endecasillabi; si noti inoltre che esse condividono solamente con 270 e
323 un commiato di soli tre versi. Per quanto riguarda 125 va messa in rilievo la
particolare densità di rime consonantiche, difficili e rare, densità seconda soltanto a
quella della canzone 23: è infatti al trattamento delle rime, oltre che alla tessitura
‘leggera’ a base settenaria e all’ambientazione bucolico-campestre, che andrà imputata
l’accusa di rozzezza, mossale dall’autore. Molte sono le famiglie di rime tipicamente
‘petrose’; moltissime quelle di derivazione ‘comica’. Tra le stanze spicca un solo forte
collegamento, quello, modellato sul tipo delle coblas capdenals, tra la II e la III a nomadi
rime bivocaliche. Mentre la I stanza non presenta fenomeni di rilievo, nella II si segnalano:
l’assonanza tra a (-orza), b (-oglia) ed e (-ombra), con le quali d (-occhi) condivide la
tonica; la rima pseudo-etimologica “ombra” : “sgombra”; l’inclusiva “occhi” : “trabocchi”
e la paronomastica “sforza” : “scorza”. La III stanza presenta la tessitura rimica più
complessa: condividono la tonica (a) a, b, C, e; inoltre a (-adre) assuona con C (-arme),
che a sua volta consuona imperfettamente con d (-empre), mentre una parziale
consonanza su r percorre quasi l’intera serie di rime: -adRe, -aRme, -empRe, -aRla, -oRso;
gli ultimi cinque versi, infine, presentano un blocco di rime, disposte per di più a coppie,
costruite su una sola vocale: -EmprE, -ArIA, -OrsO. Ricca la coppia baciata “scorso” :
“soccorso”; inclusiva la serie “arme” : “sfogarme” : “parme”; paronomastica “sempre” :
“stempre”. Le parole in rima della IV stanza, con la sola eccezione della coppia finale,
sono tutte bisillabe: si segnalano l’assonanza tra b e C (-oda, -oia) ed e e f (-iva, -ica).
Mentre la penultima stanza non presenta fenomeni significativi, l’ultima mostra una
assonanza tra b (-emo) e d (-eggio), rincalzata dall’identità della tonica di e (-erde), e la
rima ricca “sereno” : “terreno”. Infine, le due rime del congedo condividono la stessa
vocale tonica (o).

126.Prosegue l’evocazione della natura valchiusana sacralizzata dalla presenza di Laura, già al
centro delle ultime due stanze della “sorella” 125. Il salto tonale da una tessitura
programmaticamente “aspra” e “petrosa” a una dulcedo stilnovistica e paradisiaca (nel
senso dantesco) è già almeno in parte avvenuto a metà della precedente, di cui la 126
appare la continuazione. Sugli stretti rapporti di genere e metrici fra le due canzoni e per
le ipotesi cronologiche vedere l’introduzione alla 125. Sia la datazione al 1340-41, sia
quella all’estate del 1343 si reggono sul presupposto (enunciato da Sicardi) che la
canzone sia un addio a Valchiusa nell’imminenza di un viaggio, che potrebbe essere,
allora, quello a Roma, nella prima ipotesi, o quello a Napoli, nella seconda. Tale lettura è
suggestiva, ma, più che dalla canzone 126 (dove, al massimo, potrebbe essere
interpretato come un congedo solo il verso 13) è autorizzata dalla 127, esplicitamente di
lontananza. Ancora una volta, dunque, si può correre il rischio di proiettare su un singolo
microtesto gli effetti narrativi cercati dall’autore tramite ben calcolate sequenze
macrotestuali. È certo, a mio avviso, che nel passaggio da 125-126 alle tre canzoni
successive Petrarca adombra uno spostamento di luogo, da Valchiusa all’Italia, ma non è
certo che i testi valchiusani coinvolti in questa sequenza fossero sin dall’origine concepiti
in quelle particolari circostanze biografiche. Altre ipotesi di datazione tengono distinte, o
non considerano congiuntamente, le due canzoni “sorelle”: Battisti ritiene che la 126
composta in Italia (sembrerebbe di capire intorno al 1350); sia Amaturo, sia David,
propendono per il 1345: mentre il primo non specifica il luogo (che allora dovrebbe
essere Parma), il secondo pensa a una scrittura a Valchiusa (nel quale caso, saremmo
dopo l’ottobre di quell’anno, al rientro di Petrarca dall’Italia). Come quelle viste in
precedenza, anche queste ultime ipotesi appaiono nel complesso quanto mai
evanescenti. Non è stato osservato che i contatti con Teseida III 10-14, a seconda che
vengano interpretati come effetto di un influsso di Petrarca su Boccaccio o viceversa,
consentirebbero di individuare nei mesi a cavallo fra il 1340 e il 1341 un termine post o
ante quem di datazione: personalmente propenderei per l’ipotesi che sia Boccaccio a
influenzare Petrarca ma è materia ancora tutta da vagliare (in ogni caso dobbiamo
ammettere che la reciproca conoscenza dei loro scritti da parte di autori che non si
conoscevano era alquanto tempestiva). Questo termine risulterebbe del tutto ininfluente
se si accettasse per buona l’ipotesi di Fenzi 1991 che la 126 sia una canzone ‘in vita’
scritta ‘in morte’, cioè intorno agli anni Cinquanta: ipotesi basata sulla forte impronta
agostiniana che egli vi riconosce (con analogie rispetto all’agostinismo del Secretum) e sul
possibile spostamento dalla morte reale dell’amata alla morte fittizia dell’amante.
L’immagine di Laura che “pone” le membra nell’acqua della Sorgue, immagine che ha
dato origine a un dibattito secolare, suscita fra l’altro il problema dei rapporti fra la
canzone e la scena della donna al bagno ospitata in 23, 147-160 e nel madrigale 52:
mentre non è possibile provare che a esse sottostia un unico e preciso evento biografico,
per di più riferito alle vicende dell’amore per Laura, è facile mettere in rilievo i tratti
formali e di genere che accomunano le diverse descrizioni dell’episodio. Capovilla 1983 ha
rilevato che “tutte le parole in rima” del madrigale 52 “eccettuata quella conclusiva”
ritornano “nelle prime tre stanze della canzone, rispettando inoltre il medesimo ordine
d’entrata delle terminazioni foniche”. La possibile postdatazione del madrigale agli anni
Cinquanta potrebbe essere, allora, un ulteriore elemento a favore della tesi di Fenzi.
Noferi 1986 sottolinea giustamente come la canzone lasci intravedere in filigrana il
genere ‘pastorella’, caratterizzato dall’ambientazione agrese e dai contenuti erotici, e
come la stessa ambientazione e gli stessi contenuti siano propri del genere madrigalistico.
Negando l’elemento costitutivo della ‘pastorella’, cioè l’esplicitazione del desiderio (per di
più, molto spesso soddisfatto), Petrarca opererebbe dunque una trasformazione interna
al genere (come, su altro versante, fa con quello della sestina): il genere è, sì, alluso
chiaramente nel congedo (“boscho”) ed è pure fatto giocare, nelle sue componenti
ambientali, come implicito punto di riferimento dell’intero testo, ma è tradito nella sua
sostanza erotica.
Canzone di 5 stanze di schema quasi identico a quello della precedente. Una forte
connessione capfinida, giocata sulla ripresa per contrasto di un intero verso, è posta a
cavallo tra la I stanza e la II; molto più deboli, anche se ravvicinate, quelle fra III e IV, IV e
V. Mentre 125 presenta un numero molto elevato di rime consonantiche o difficili, ma
poche figure di collegamento tra le rime e poche rime tecniche, queste ultime abbondano
in 126, dove, al contrario, sono nettamente prevalenti le rime semplici e vocaliche. Nella I
stanza, oltre all’inversione di vocali fra a (-acque) e b (-embra), spicca il gioco sulla e nelle
rime della sirma: dall’assonanza fra d (-erse) e f (-eme), alla serie tonica comprendente b,
d e ed f. Ricca “membra” : “rimembra”, paronomastica “seno” : “sereno”. Anche nella II i
giochi fonici si concentrano nella sirma: dalla quasi sovrapposizione (consonanza più
inversione di vocali) di e (-asso) e f (-ossa), all’assonanza tra b (-opra) ed f, e alla rima
equivoca in “porto”. Le rime a (-orse) e b (-orno) della III stanza condividono la tonica e
parzialmente consuonano, esattamente come C (-eta) e d (-etre); la tonica in e è comune
anche a f (-elo). Etimologiche le rime “soggiorno” : “giorno”; “inspiri” : “sospiri”; tende
alla rima ricca di “pietre” : “m’impetre”; da segnalare anche il gioco allitterante tra
“pieta” e “pietre”. Nella IV stanza invertono le vocali C (-embo) e d (-onde) e quest’ultima
assuona con f (-ore); ricca e paronomastica “scendea” : “sedea”. Nell’ultima una parziale
consonanza unisce b (-ento) a e (-ando), e un’assonanza a (-io) e C (-iso), mentre d (-era) e
f (-ace) invertono le vocali; ricca la rima “vera” : “dov’era”; paronomastica “piace” :
“pace”.

129.La canzone fu composta a Selvapiana o nel biennio 1341-42 o, più probabilmente, stando
alle concordanze con l’Epystolae II 16 a Barbato da Sulmona, fra il 1344-45; potrebbe
costituire un termine ante quem il passo di Vita Solitaria I: “Unde saepe montanum
carmen quasi hedum e toto grege letissimum vidi et, nitore insito admonitus originis, dixi
mecum: “Gramen alpinum sapis, ex alto venis” se, con Amaturo, e, più dubitativamente,
Capovilla, vi scorgiamo una allusione a questa canzone, oltre che alla ‘montanina’
dantesca. Chiudendo il ciclo iniziato con la 125 continua, esasperandola in forme che
ricordano a volte la fissità della sestina, l’evocazione del ‘fantasma’ di Laura lontana negli
oggetti e negli spettacoli di natura, già preannunciata sulla fine della 125 e centrale nelle
stanze di 127: come in quest’ultima, e a differenza delle prime due, il netto prevalere
degli endecasillabi sui settenari la accomuna a 127. Il ruolo conclusivo della canzone è ben
evidenziato dalla metrica: mentre la successione delle rime ripete quella delle prime due,
il netto prevalere degli endecasillabi sui settenari la accomuna a 127. Si osservi inoltre che
il passaggio dal settenario all’endecasillabo riflette, dal punto di vista retorico, la diversa
funzione che i due gruppi di testi assegnano al paesaggio e agli elementi naturali: un ruolo
consolatorio, e quindi ‘bucolico-pastorale’, nei primi due, angoscioso, e perciò “tragico”,
nella situazione di esilio dei secondi due. Il collegamento con la 128 è giocato sulla
ripresa, nella prima stanza, di termini caratteristici del congedo: 128, 119 “Proverai una
ventura”, 129, 3 “provo contrario a la tranquilla vita”; 128, 121 “Chi m’assicura?”; 129, 8
“or ‘assecura”.
Canzone di 5 stanze di 13 versi a schema ABCABCcDEeDFF (simile a quello di 125 e 126),
più congedo uguale alla sirma aBCcBDD. Numerosi sono i collegamenti interstrofici, quasi
a sopperire alla sostanziale autosufficienza di ogni stanza: “la parola-motivo montana
collega… tutti gli inizi di strofa (monte, monti, colle; montagna, alpe)” (Contini), con la sola
eccezione della IV stanza, e per di più tali elementi paesaggistici compaiono entro
strutture sintattiche prolettiche: “Di pensier in pensier, di monte in monte / qualche
riposo…”; “Ove porge ombra un pino alto od un colle / talor m’arresto”; “Ove d’altra
montagna ombra non tocchi / verso ‘l maggiore e ‘l più expedito giogo / tirar mi suol…”;
“Canzone, oltre quell’alpe / là dove il ciel è più sereno et lieto / mi rivedrai…”; in tutte le
stanze ritorna il termine pensier che, “dopo esser comparso all’inizio della prima, scende
progressivamente di posto nelle successive, fino a comparire proprio nell’ultimo verso
della quinta”; ancora con l’eccezione della IV, nelle altre stanze “compaiono parole
interne, per lo più dell’io a se stesso” (Contini). Da notare ancora che alla mancanza di
collegamenti della quarta stanza sembra surrogare la forte connessione iniziale tra le due
che la contornano “Ove porge ombra…”; “Ove d’altra montagna ombra…”. Meno
elaborato è invece il trattamento delle rime: nella I stanza si evidenzia solo la rima ricca
“vita” : “l’envita”; nella II si fanno notare le assonanze tra A (-ovo) e B (-oco) e tra D (-aro)
e F (-ando): esaltata dall’incontro delle parole rima “amaro” e “Amore”, la consonanza tra
D ed E. Nella III, alla consonanza tra B (-asso) ed E (-esso), rincalzata da C (-iso), si
aggiunge l’assonanza tra E e F (-eggio); ricca “viso” : “diviso”. La IV stanza, oltre alla
parentela tra A (-eda) e B (-erde), presenta la classica rima pseudo-etimologica
“adombra” : “sgombra”; etimologiche sono invece le coppie “diparte” : “parte”,
“sospira” : “respira” della V stanza, nella quale quasi tutte le rime sono collegate dalla
ripresa di almeno un suono: la tonica in o tra A e B, in a tra D ed E; una parziale
consonanza tra C (-enso) ed E (-ano) e tra D (-arte) e F (-ira). Da notare inoltre la rima
inclusiva “tocchi” : “occhi”. Nel congedo, infine, B (-eto) e C (-ente) condividono la vocale
tonica e parzialmente consuonano.

136.Con il 137 e il 138 forma il trittico di sonetti, scagliati contro la curia papale (ma l’invettiva
investe contemporaneamente la curia e la città), detti ‘babilonesi’ dalla metafora biblica
che ne costituisce il nucleo centrale (un preannuncio della polemica si era avuto in 114 e
117, ma i contorni della città corrotta trasparivano in filigrana già in 7; altri cenni polemici
torneranno in 259 e 305). Sulla loro datazione si registrano pareri discordanti: anche se la
tesi prevalente li fa risalire al biennio valchiusano 1346-47 o, per lo meno, a un periodo
anteriore alla morte di Laura, i precisi riscontri con alcune epistole Sine nomine
depongono ancora di alcuni anni. Urta contro i dati filologici disponibili, la proposta delle
Voci di datarli ai primi anni Sessanta, più precisamente al 1363. Per il ruolo che
l’evocazione di Avignone come città infernale in questo punto del libro svolgeva nella
prima redazione del Canzoniere.
Sonetto su quattro rime di schema ABBA ABBA CDC DCD; oltre all’indennità della vocale
tonica di C e D, si segnalano i giochi paronomastici “piova” : “prova”, “ghiande” :
“grande”, “specchi” : “stecchi”.
188.Non databile, ma forse collegato alla serie 191-193. Compreso in Qr, venne trascritto su
V1 per mano del Malpaghini, insieme ai due precedenti, in un periodo compreso tra la
fine del 1366 e il marzo del 1367. Su V2 è presente in duplice redazione, l’una di seguito
all’altra sulla c. 1v. Il motivo dafneo , lo ricollega al “nomen lauri”.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE CDE; assuonano B (-ormo) e D (-oco), che
inoltre condividono la tonica con C (-olle); etimologica la rima “soggiorno” : “giorno”;
“amo” è incluso in “Adamo” : “chiamo” : “bramo”.

211.Benché inserito in Sr, è il solo fra i pochi testi noti di quella raccolta a non essere entrato
in Ch. Le estreme vicende redazionali sono documentate da una postilla di V2, peraltro di
difficile lettura. “Mirum: hunc cancellatum et damnatum post multos annos, casu
relegens, absolvi et transcripsi in ordine statim, non obstante. 1369 iunii 22, hora 23,
veneris. Pauca, postea, die 27, in vesperis, mutavi finem”. Il 22 giugno del 1369 “post
multos annos”, alle ore 23, Petrarca rilegge per caso questo sonetto, che in passato aveva
condannato e cancellato, e lo “assolve” da quell’antica condanna e subito lo trascrive “in
ordine”. Pochi giorni dopo, il 27, interviene di nuovo sul testo già trascritto modificando il
finale. Nella versione definitiva al verso 12 è introdotto l’anno dell’innamoramento
(“Mille trecento ventisette…”) evidentemente per perfezionare il collegamento con
l’ultima terzina di 336, contenente le coordinate cronologiche della morte di Laura. Una
seconda postilla, di ancor più difficile decifrazione perché quasi totalmente illegibile, è
relativa al verso 14. C la leggeva così: “Rescripsi hoc quia removi de transcriptis, quia
videtur esse alibi melius”. Dalla postilla si potrebbe dedurre che il verso 14 fu eraso da V1
per essere trasferito altrove. Ma, se si considera che la lezione del verso 10 poi erasa da
V1 era concettualmente vicina a quella del verso 3 di 213, sembra proponibile anche
un’altra ipotesi, e cioè che Petrarca abbia trascritto e collocato in serie i sonetti 211-213
perché presentavano marcati elementi in comune, e che, poi, sia intervenuto quasi subito
su 211 per eliminare le ripetizioni e le coincidenze flagranti. Resta aperto il problema
della data di composizione: l’accenno al “dì sesto d’aprile”, già in V2 , se si potesse
accettare la tesi di Martinelli sulla “feria sexta”, renderebbe automatica la datazione ad
anni successivi alla morte di Laura, e precisamente a dopo il 1351. Se invece, come io
ritengo, Petrarca non modificò il giorno dell’innamoramento, allora quell’indicazione può
benissimo sussitere anche prima del 6 aprile 1348. Dall’altra parte, è tutt’altro che
stringente l’ipotesi che 211 sia cronologicamente anteriore a 212, autodatato al 1347. In
questo quadro incerto resta a mio avviso preferibile l’ipotesi della composizione post
mortem: la precisione dei dettagli ricorda da vicino, infatti, la nota obituaria sul Virgilio
Ambrosiano, che si ipotizza redatta nel 1351 o poco dopo. In questa stessa direzione
andrebbero i riscontri, in vero non molto stringenti, con il Secretum addotti da Iliescu. Da
segnalare, inoltre, che anche Zingarelli, pur con un diverso tipo di ragionamento, propone
per la datazione in morte. Mi sembra, invece, priva di credibilità l’ipotesi di Jones 1989
che vuole il sonetto composto durante il 1342-43. La rima in -orge delle terzine di 210
ritorna nelle quartine di 211; il sintagma “Amor mi guida et scorge” di 211, rimanda a “ma
chi la scorge” di 210, 9; la clausola “o non s’accorge” di 210, 13 a quella “et non
s’accorge”.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE DCE; A (-orge) e B (-orta) hanno in comune
la vocale tonica e una consonanza imperfetta. Derivativa la rima “scorge” : “s’accorge”;
“scorge” è legata etimologicamente a “scorta”.
249.L’introduzione a 246. Con il successivo, anticipa il motivo – che sarà al centro di alcuni
testi della seconda parte – dell’ultimo commiato da Laura.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; E (-ano) inverte le vocali con B (-osa), A e D
hanno in comune la tonica e; sono legati etimologicamente “mente” : “humilmente”.

250. Sviluppa in una vera e propria ‘visione’ notturna (251, 1) l’accenno ai ‘sogni’ con il quale
si chiude 249. Si osservi, tuttavia, che nella prima parte del Canzoniere non figurano testi
nei quali, come dicono i versi 1-3, Laura lontana appaia in sogno all’amante:
evidentemente questa visione è modellata su quelle di Laura morta che compariranno
nella seconda sezione a partire da 282. Anche questo è un indizio che depone a favore di
una cronologia molto ‘bassa’ dei testi del presagio.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE DCE; A (-arme) e C (-era) invertono le vocali
e condividono una imperfetta consonanza.

251.Commenta la visione del sonetto precedente.


Sonetto su 4 rime di schema ABBA ABBA CDC DCD; condividono la tonica A (-one), C (-
ora) e D (-orno); una consonanza imperfetta si estende su tutte e quattro le rime.
Derivative le rime “senta” : “consenta”, “soggiorno” : “giorno”; ricca “visione” :
“opinione”; paronomastiche “contenta” : “consenta” e “spenta”: “senta”.

261.L’accenno al “ciel, che lei aspetta et brama” (v. 8) ha preciso riscontro in 248, 7 “questa,
aspettata al regno delli dèi”, e ciò indica anche per questo testo una data di composizione
posteriore alla morte di Laura. Continua l’elogio degli occhi iniziato nel sonetto
precedente, a cui lo collega anche il legame capfinido tra il “gloriosa” dell’incipit e “gloria”
di 260, 12.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE CDE; assuonano A (-ama) e C (-aglia), aventi
in comune la tonica con E (-arte); inclusiva la rima “carte” : “arte”; paronomastica
“aguaglia” : “abbaglia”.

262.Sonetto dialogato, non databile. Il dialogo è fra Laura (a cui spettano le battute dei vv. 3-
11) e una donna anziana, per questo chiamata ‘madre’, a cui spetta quella dei versi 1-2.
L’ultima terzina ospita il ‘commento’ del poeta. I tentativi di identificare l’interlocutrice
(come quello del Mascetta che, sulla base della misteriosa “amica di Laura” di TM II 61-66
e di una ingenua lettura di Epyst. I 8, 50) sono vani, anche perché improntati a una
concezione ‘positivistica’ che sottovaluta la componente di finzione del testo. Il motivo
dell’onestà congiunta alla bellezza lo accomuna al precedente, con il quale condivide
anche lo schema metrico e la rima B; l’esempio di Lucrezia lo riallaccia al 260.
Sonetto con lo stesso schema di 261; assuonano A (-are) e D (-asse); B (-ia) e C (-ai)
invertono le vocali; ricca la rima “pria” : “ria”.

263.È l’ultimo testo trascritto su V1. È molto probabile che la sua composizione non solo sia
posteriore alla morte di Laura (Martinelli 1977), ma possa risalire ad anni tardi, prossimi
alla data di inserimento nella raccolta (Ponte, che insiste sulla circostanza che questo è
l’unico testo della prima parte nel quale Petrarca si rivolge a Laura con il “tu”, come
sempre far nella seconda). La prima parte del Canzoniere si chiude con la riapparizione
della simbologia dafnea, introdotta nella sua doppia valenza, di simbolo poetico e insieme
erotico, fin dai sonetti 5 e 6: alla fine del percorso, tuttavia, il simbolo perde ogni
connotazione negativa e la frustrazione amorosa legata all’imprendibilità di Laura – Dafne
si rovescia nella celebrazione della castità dell’amata. Sul ruolo della coppia 262-263.
Sonetto con lo stesso schema di 261 e 262; assuonano A (-ale) e C (-are); B (-eti) ed E (-
egi); consuonano C e D (-oro); ricca “dispregi” : “fregi”; inclusiva “oro” : “thesoro”.

PARTE SECONDA
264.A partire da Ch apre la seconda parte del Canzoniere. Siccome il suo ingresso nella
raccolta è indissolubilmente legato a quello del sonetto proemiale, la canzone doveva già
essere presente in Co: alcuni indizi, però, non suggeriscono l’ipotesi che in quella
redazione la raccolta non fosse bipartita, o meglio, che lo stacco fra le due parti non fosse
segnato da un intervallo. La 264 si sarebbe dunque trovata a stretto contatto con la
sestina 142: e i due testi, in effetti, non solo sono apparentati dal motivo dell’incalzare
della morte, ma anche da precisi collegamenti tra il finale dell’uno e la prima stanza
dell’altro, quali la ripresa dell’immagine sulla croce (“Quelle pietose braccia / … veggio
aperte anchora”, 264, 14-15; “altri rami”, 142, 39) e dell’aggettivo “altro” (264, 4),
ripetuto insistentemente nel congedo della sestina. Sulla decisione, presa in Ch, di aprire
la seconda parte del libro con questa canzone e con i due sonetti 265 e 266, testi tutti nei
quali Laura è ancora vivente, avranno agito ragioni diverse e in parte a noi oscure:
fondamentale però era la necessità di non fare dipendere troppo strettamente l’insorgere
del processo penitenziale, che è il fulcro nella sezione in morte, da un evento biografico
esterno; la conversione, cioè, doveva apparire come un processo interiore giunto a
maturazione già prima della morte di Laura. In Rv, all’originaria funzione ideologica la
canzone assomma un forte simbolismo legato al calendario liturgico; in effetti, se si
assume la corrispondenza sonetto 1 = 6 aprile e si prosegue lungo la raccolta associando a
ciascun testo un giorno del calendario, la canzone 264 viene a corrispondere al 25
dicembre: così la storia dell’amore nato il giorno della morte di Cristo compie la sua virata
verso il pentimento finale il giorno della nascita di Cristo. Si aggiunga ancora: 1) che il
giorno di Natale era, secondo l’indizione romana o pontificia seguita da Petrarca, il primo
giorno dell’anno; 2) che la canzone 264 è la ventunesima della raccolta, così come sono
trascorsi 21 anni dal giorno del primo incontro a quello della morte di Laura. Le ipotesi
sulla data di composizione sono, oggi, sostanzialmente analoghe a quelle formulate per il
sonetto proemiale. L’assenza di cenni alla morte di Laura e i numerosi punti di accordo
con il Secretum e, in minore misura, con l’epistola “ad seipsum” (Epystolae I 14) in
passato hanno suggerito una serie di ipotesi anche diverse fra loro, ma accomunate dalla
convinzione che il testo fosse anteriore al maggio del 1348. La tesi più accreditata è stata
a lungo quella di Wilkins 1957 secondo il quale la canzone risalirebbe al biennio 1343-45.
L’assenza di allusioni alla morte dell’amata non ha valore, tanto è vero che 265, sebbene
‘in vita’, è sicuramente scritto nel 1350. D’altro canto, la nuova datazione del Secretum al
1347-53 e quella dell’epistola agli ultimi mesi del 1348 o, più probabilmente, al 1349
sembrano imporre di abbassare anche la data della canzone, in sintonia con quella del
sonetto 1. Questa è la posizione assunta dagli studiosi più recenti, con l’eccezione di
Baron, che, accettando solo in parte la datazione del Secretum di Rico, colloca la canzone
fra la primavera del 1347 e quella del 1348. Si noti infine che la struttura a contrasto (“un
modo di tradurre in termini lirici la drammatica dialogicità del Secretum”) avvicina questa
canzone alla 360, un testo che, non a caso, svolge nel Canzoniere un ruolo non dissimile
dal punto di vista strutturale.
Canzone di 7 stanze di 18 versi (la più lunga dopo i 20 della canzone 23), di cui 4 settenari,
a schema ABbCBAaC CDEEDdFfGG, più congedo uguale alla sirma. Una connessione
capfinida collega le stanze II e III; IV e V; VI e VII e quest’ultima con il congedo; fra la V, VI
e VII stanze vige anche la figura della coblas capdenals. Nella I stanza è derivativa la rima
“leva” : “releva”, sono ricche “solleva” : “leva”, “anchora” : “accora”, “tremo” :
“extremo”; paronomastica “stesso” : “spesso”; A (-ale) e C (-eva) invertono le vocali, B (-
esso) assuona con G (-emo). Mentre nella II stanza, oltre all’equivoca “lassa”, si notano la
rima ricca “dice” : “radice” e la derivativa “attendi” : “intendi”, nella III ha rilievo solo la
paronomasia “face” : “fallace”. La IV stanza presente l’assonanza fra D (-eco) ed F (-ento),
la rima equivoca “alma”, la pseudo-derivativa “sgombre” : “ombre”, la ricca “vento” :
“pavento” e include “agro” nella serie “flagro” : “magro”. Nella V spiccano le assonanze
fra C (-alme) e G (-arme), D (-ogli) ed E (-odi) e la rima ricca “sereno” : “freno”. Nella VI
stanza una consonanza, valorizzata dall’inversione delle vocali, lega A (-ero) a B (-ore);
“vero” forma rima ricca con “severo”, “spigne” con “depigne”. L’ultima stanza presenta
notevole solo l’assonanza tra F (-olve) e G (-orte); ricca la rima “breve” : “greve” del
congedo.

266.Petrarca si scusa con il cardinale Giovanni Colonna perché ritarda il suo ritorno in
Provenza dall’Italia. Sennuccio del Bene risponde a nome del cardinale con il seguente
sonetto, trascritto da Petrarca sul c. 1r di V2: “Oltre l’usato modo si rigira / lo verde lauro,
ahi, qui dov’io or seggio / et più attenta, et com più la riveggio, / di qui in qui con gli occhi
fiso mira. / Et parmi omai ch’un dolor misto d’ira / l’affligga tanto che tacer nol deggio, /
onde dall’atto suo io vi richeggio / ch’esso mi ditta che troppo martira. / E ‘l signor nostro
in desir sempre abbonna / di vedervi seder nelli suoi scanni, / e ‘n atto et in parlar questo
distinsi: / mei’ fondata di lui trovar colonna / non potreste in cinqu’altri San Giovanni, / la
cui vigilia a scriver mi sospinsi.” Su quella stessa carta, Petrarca trascrive il sonetto di
Giacomo Colonna, Se le parti del corpo e la sua risposta (322), formando un dittico in
memoria degli antichi protettori. Dall’ultima terzina di 266 (“diciotto anni / portato ò in
seno”) e dall’ultima del sonetto di Sennuccio si ricava che lo scambio di testi si colloca fra
il 6 aprile e il 23 giugno, vigilia della festa di San Giovanni, del 1345, quando Petrarca
soggiornava a Verona, dopo la fuga da Parma (Sennuccio non era nella sua città abituale,
Firenze, ma ad Avignone “ahi, qui dov’io or seggio” scrive riprendendo il verso 6 della
canzone 128 di Petrarca dove egli certificava di essere in Italia, sul Po “dove doglioso et
grave or seggio”. Billanovich 1994 nell’ambito di un discorso volto a negare l’esistenza di
Laura in quanto persona, sostiene invece che Sennuccio non tornò più ad Avignone
doopo il 1327). A Verona Guglielmo da Pastrengo poté prendere visione di 266 e poi
riecheggiare l’ultima terzina nella chiusa di una lettera a Petrarca. A partire da Ch
l’indicazione cronologica del verso 13 contraddice quelle contenute nei sonetti 212 e 221,
riferiti all’anniversario del 1347, mentre in Co è perfettamente congruente con la data
riportata dall’ultimo sonetto di anniversario che lì precede 266, cioè il 1344 del sonetto
122. La contraddizione può essere insorta nel passaggio da Co a Ch, quando Petrarca
divide in due una raccolta prima non bipartita. La postilla “1366 sabato, ante lucem,
decembris 5”, collocata nell’angolo superiore destro della carta 1 r di V2, si riferisce al
momento in cui Petrarca cominciò a servirsi di quella carta e pertanto non significa, come
molti affermano, che a quella data il sonetto 266 sia stato rivisto o, addirittura, trascritto
“in ordine”. È questo l’ultimo testo in cui Laura figura ancora vivente: l’associazione di
Laura e del cardinale prepara il compianto del “doppio thesauro” del sonetto 269, mentre
il verso 8 “dovunque io son, dì et notte si sospira” si ricollega a 265, 6-7, “quando è ‘l dì
chiaro, et quando è notte oscura, / piango ad ognor”.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; consuonano C (-onna) e D (-anni);
derivative le rime “veggio” : “n’aveggio”; “spira” : “sospira”; “anni” è incluso in “affanni”;
tende alla paronomasia la coppia “strinsi” : “scinsi”.

267.È il primo testo in morte di Laura. Probabilmente Petrarca lo ha scritto a Parma, poco
dopo aver appreso, da una lettera di Socrate pervenutagli il 19 maggio 1348, la notizia
della morte dell’amata, avvenuta il 6 aprile. Il sonetto, ispirato dalla canzone di Cino in
morte di Selvaggia Oimè, lasso, quelle trezze bionde, è l’ultimo della serie di testi (264-
267) conclusi con la citazione di una auctoritas: il collegamento così istituito può essere
assunto a conferma dell’ipotesi che i quattro componimenti interessati fossero adiacenti
già in Co. Per le suggestioni che sulle quartine possono essere derivate da alcune
“lamentationes” staziane.
Sonetto con lo stesso schema di 265 e 266; B (-ero) consuona con C (-ire), ed entrambe,
imperfettamente, con A (-ardo); predominante nelle quartine, il suono r si addensa, in
prossimità della rima, anche nelle terzine: RespiRe, pRivo, desiRe, piaceR vivo, paRole,
ricca la rima “spero” : “impero”.

268.È il planctus (“canzon… no, ma pianto”, verso 80) per la morte di Laura. Una prima stesura
della canzone, contenuta nelle carta 13r-v e 14r di V2, fu scritta fra il 19 maggio 1348
(giorno in cui Petrarca venne a sapere della morte di Laura) e il primo settembre dello
stesso anno (data di composizione dell’abbozzo della ballata 324, ultimo testo contenuto
dalla carta 14r) e dedicata, come si ricava dal primitivo congedo (“S’Amor vivo è nel
mondo / e ne l’amicho nostro al qual tu vai, / canzone, tu ‘l troverai / mezzo dentro in
Fiorenza e mezzo fori; / altri non v’è che ‘ntenda i miei dolori”), all’amico Sennuccio del
Bene. Sulla carta 13r la canzone è preceduta da 8 versi che cominciano Amore, in pianto
mio riso è vòlto, costituenti la prima formulazione dell’incipit: i versi sono cancellati e
preceduti dalla postilla “non videtur satis triste principium”. Una seconda stesura della
canzone è contenuta nelle carte 12v: una postilla collocata nel margine superiore (P2)
informa che il testo fu lì trascritto, direttamente dalle carte 13 e 14, il 28 novembre del
1349. Petrarca inoltre, dichiara di sentirsi nella disposizione di spirito adatta a portare a
termine questa canzone, grazie al sonetto per la morte di Sennuccio (287) e al sonetto
dell’Aurora (291) che egli aveva composto nei giorni precedenti e che gli hanno sollevato
lo spirito. La morte di Sennuccio, avvenuta nell’ottobre-novembre del 1349, aveva
dunque ispirato la composizione di 287 e 291 e indotto Petrarca alla revisione del
planctus per Laura. La trascrizione sulla carta 12 avvenne in due tempi, il 28 e il 29
novembre (il secondo giorno è attestato da una postilla di carta 13r del 30 novembre
relativa a F2, dove si dice che il giorno precedente aveva copiato la canzone, prima
dell’alba) e fu una trascrizione sino al verso 73 e una nuova composizione da quel verso
alla fine. Fra l’altro, la morte di Sennuccio lo obbligò a comporre un nuovo commiato, nel
quale l’amico non figura più come destinatario. Alcune postille relative alla seconda
redazione attestano fasi di lavoro nel maggio e nel dicembre del 1350 e la definitiva
trascrizione “in ordine” nel novembre del 1356. Come 267 si rifaceva al lamento di Cino
per la morte di Selvaggia, la canzone 268 ha come riferimento quella della Vita Nova in
morte di Beatrice, Li occhi dolenti (Contini, Bettarini 1987).
La canzone tecnicamente definita “pianto” (verso 80), cioè planctus o planh, essendo
“vedova” (verso 82), si articola su 7 stanze di 11 versi (di cui 4 settenari), di schema
AbCAbC cDdEE, più congedo uguale alla sirma. “La struttura della strofa è insieme un
ampliamento… della strofa della canzone ciniana La dolce vista e ‘l bel guardo soave, e
una contrazione… di quella della canzone dantesca E m’incresce di me sì duramente”. Una
figura capfinida collega la IV e la V stanza e la VI. Nella I stanza consuonano A (-ore) e b (-
ire), assuonano D (-oia) ed E (-olta); C (-ei) inverte le vocali di b;; ricca la rima “vorrei” :
“rei”. Nella II E (-eco) inverte le vocali di C (-ole); da notare il legame etimologico fra
“doglio” e “dole”. Nella III stanza assuonano b (-ella) e C (-enza), con le quali A (-edi) ed E
(-ene) condividono la tonica; ricca la rima “conoscenza” : “presenza” : “senza”; “amo” è
incluso in “richiamo”. Mentre nella IV stanza l’unico fenomeno di nota è la consonanza fra
b (-elo) ed E (-ale), nella V si segnalano l’inversione vocalica fra b (-ome) ed E (-ero) e la
rima etimologica “dolcemente” : “mente”. Nella VI consuonano A (-ate) e b (-ita) e,
imperfettamente, C (-erra), che inverte le vocali di A, e D (-arla); ricca la rima “beltate”:
“pietate”, paronomastica “nodo” : “modo”. Nella VII stanza si segnala la consonanza con
inversione delle vocali tra C (-ira) ed E (-ari) e la serie derivativa “aspira” : “sospira” :
“spira”.

270.Sulla carta 12r di V2 sono presenti solo 4 stanze (I, II, IV, V), mentre la III è richiamata con
le sue parole iniziali (“Fammi sentire”) scritte a destra dell’ultimo verso della seconda
stanza. Manca ogni documentazione sulla storia redazionale delle due ultime stanze e del
congedo. L’analisi paleografica e l’insieme delle postille suggeriscono che la trascrizione
delle stanze di V2 sia avvenuta nel giugno del 1350 e dimostrano che la loro revisione
avvenne fra il marzo e l’aprile del 1351, periodo a cui dovrebbe risalire anche la
composizione della III stanza. In assenza di dati, nulla si può dire sulla composizione delle
stanze finali, che potrebbe essere coeva a quella della III stanza, ma anche risalire a una
ulteriore fase di lavoro: l’ultima trascrizione attestata, 20 aprile 1351, non è in effetti una
trascrizione “in ordine”, ma “in alia papiro”, cioè su una copia di servizio. Per quanto
riguarda la data di composizione delle quattro stanze di V2, rispetto all’ipotesi della
Bettarini 1987, secondo la quale il primo getto sarebbe anteriore al 28 novembre 1349 e
andrebbe collocato nell’intervallo fra la prima e la seconda stesura della canzone 268 su
V2, sembra più fondata quella della Paolino 1994, che la situa, invece, dopo il 28
novembre 1349 e prima del 9 giugno 1350. Che la composizione si intrecci con quella del
planctus in morte di Laura, come vuole la Bettarini, o sia invece a esso posteriore,
seecondo l’ipotesi Paolino, non è privo di conseguenze per l’interpretazione del testo.
Tradizionalmente la 270 viene letta in coppia con il sonetto 271, come un dittico, cioè, nel
quale Petrarca racconterebbe l’insorgenza di un secondo amore, da cui la morte di questa
seconda donna l’avrebbe liberato. Bettarini 1987 ritiene che il rapporto fra i due testi sia
strettissimo, “genetico”, e che anzi 271 preceda e condizioni 270, ma nega che essi
possano riferirsi a un episodio biografico come quello che si diceva: a suo parere,
entrambi i testi sono legati strettamente (anche dal punto di vista cronologico) alla morte
di Laura e “non parlano della nascita d’un nuovo amore, ma dell’impossibilità d’ogni
rinascita”; anche la morte di cui si parla in 271 è quella di Laura, e non quella della
supposta seconda donna. Questa lettura non mi sembra condivisibile per il sonetto 271,
ma può essere accettata per la canzone 270; salvo ammettere che, in fase di costruzione
del libro, appaiando 270 e 271, Petrarca abbia teso, deliberatamente, ad attribuire alla
canzone l’altro significato. Forti connettori lessicali, congiungono 270 al sonetto 269:
valga per tutti il sintagma “Tolto m’ài, Morte, il mio doppio thesauro” di 269, 5 che ritorna
scomposto in 270, 5 “il mio amato tesoro” e 14 “ritogli a Morte quel ch’ella n’à tolto”.
Canzone di sette stanze di 15 versi, tre dei quali settenari, a schema ABbCBAaC CDEeDFF
(lo stesso della 325), più congedo ABB. Una connessione capfinida collega le stanze I e II e
III, V, VI. Le rime della stanza I sono giocate, senza eccezione, o sulla tonica i: A (-ico), C (-
ia) o sulla o: B (-ova), che assuona con D (-ona), E (-oi), F (-olto); ricche le rime “prova” :
“trova”, “mendico” : “pudico”. Nella II stanza assuonano B (-amma) ed E (-anca), nonché
C (-endo), D (-ero) e F (-egno); derivative le rime “fiamma” : “m’infiamma”, “n’attendo” :
“intendo”. Nella III assuonano (-ile) e C (-ire); D (-orte) e F (-opre), oltre che da assonanza,
sono legate da consonanza imperfetta; ricche le rime “gentile” : “stile” e “sente” :
“possente”. Nella IV stanza assuonano A (-ole) e C (-ore), collegata da consonanza
imperfetta a B (-arco); equivoca la rima “sole”. Nella V il suono r percorre la serie di rime:
B (-irto), C (-erba), D (-are), F (-arme), queste ultime due pure assonanti; “hirto” è incluso
in “spirto” e “mirto”. Mentre nella VI stanza spiccano solo le rime ricche “cortese” :
“’ntese” e “lodarsi” : “darsi”, nella VII si notano la comunanza della tonica o in B (-odo), C
(-olse) e F (-occhi); il gioco paronomastico “modo” : “nodo” e l’inclusiva “scocchi” :
“occhi”.

271.L’ipotesi corrente è che il sonetto, sia o no collegato dal punto di vista biografico alla
canzone precedente, racconti la nascita di un nuovo amore presto stroncato dalla morte
di questa seconda donna. Alcuni si spingono a ipotizzare che si tratti della stessa donna di
cui parlano i sonetti estravaganti Quella che ‘l giovenil meo core avinse (E1, responsivo a
Jacopo da Imola) e Antonio, cosa à fatto la tua terra (E15, ad Antonio da Ferrara, che
risponde con L’arco che in vui nova sita disserra), ma è ipotesi priva di ogni supporto
documentario. Tuttavia, pur non escludendo, come fa Bettarini 1987, che alle spalle del
sonetto possa esservi un reale episodio della biografia di Petrarca, va sottolineato che
l’indubbio collegamento con la canzone 270 non comporta che i due testi si riferiscano
allo stesso episodio e neppure che siano strettamente coevi: Petrarca, infatti, è solito
sfruttare le affinità dei singoli microtesti per formare sequenze narrative in fase di
ordinamento della raccolta. Sulla formazione di questa sequenza predominano
motivazioni di carattere letterario: ritengo, in effetti, che Petrarca, con questo
‘tradimento’ della memoria di Laura voglia riproporre una situazione analoga a quella
della “donna pietosa” della Vita Nova. La data di composizione dovrebbe essere prossima
a quella di 270; Bettarini 1987 ritiene che il sonetto celebri l’anniversario del 6 aprile
1349, ma con argomentazioni non conclusive. È la prima volta nella raccolta che viene
indicata la durata dell’amore per Laura in vita: si osservi che tale indicazione, prima
dell’inserimento in Pm3 di 212 e 221, era incongruente con l’andamento cronologico del
libro; dà anche da pensare intorno a un possibile rifacimento in anni più recenti la
circostanza che le coordinate cronologiche precise dell’inizio dell’amore e della morte di
Laura siano fissate solo verso la fine degli anni Sessanta e che i ventuno anni ritornino nel
sonetto 364, inserito nel canzoniere solo in Rv6. Tra i connettori lessicali con la canzone
precedente spicca, anche per la posizione metrica, il sintagma “Morte m’à liberato”
(verso 12), in paralllelo con “Morte m’à sciolto” di 270, 106.
Sonetto su 5 rime di schema ABBA ABBA CDE CDE; A (-ora) assuona con C (-olta) e
presenta le vocali invertite rispetto a D (-arso), mentre B (-eso) assuona con E (-egno);
“hora” è inclusa con “mora” : “anchora” : “fòra”, “arso” in “sparso”; paronomastica la
rima “preso” : “peso”.

294.Il sonetto, non databile, prosegue il discorso sull’impossibilità del canto avviato dai due
precedenti. Apre un trittico di sonetti che presentano in prima sede l’imperfetto “solere”
(Soleasi, Soleano, I’ mi soglio): secondo Bettarini 1985 si tratta di una variazione
dell’incipit dantesco “Le dolci rime d’amor ch’i solia”.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; C (-orda) e D (-ombra), collegate da
assonanza e da una consonanza imperfetta, invertono le vocali di B (-asso); ricca la rima
“priva” : “scriva”; paraetimologica l’inclusiva “ingombra” : “ombra”; si osservi anche il
gioco paronomastico tra “ingombra” e “’ngorda”.

364.La data del 1358, esibita nella prima quartina (“dieci altri anni” dalla morte di Laura, verso
4), non può essere assunta automaticamente, come molti fanno, quale data di
composizione del sonetto, neppure se si accetta l’idea che si tratti di un testo di
anniversario. Petrarca fornisce le esatte coordinate temporali della nascita dell’amore e
della morte di Laura solo nel 1369 e solo da quell’anno compie le operazioni testuali che
fondano il mito della data sacra. Sebbene questo sonetto ne sia coinvolto solo in parte,
sembrerebbe strano che lo scrupolo cronologico che lo contraddistingue possa essere
anteriore a quel periodo. Nessun dubbio che la doppia ricapitolazione dei tempi della
storia amorosa (21 anni in vita, 10 in morte) sia fatta in funzione del libro, ma resta da
chiedersi perché il libro si chiuda proprio su quella data. Ritengo che Petrarca abbia
deciso di far terminare la storia d’amore nel 1358 perché quello è anche l’anno in cui, di
fatto, ha terminato il suo primo Canzoniere – il libro cioè che, per la prima volta, ha
raccontato quella storia (Co) – e ha ritoccato per l’ultima volta l’altro libro connesso alla
storia amorosa, il Secretum.
Sonetto con lo stesso schema del precedente; A (-endo) condivide la tonica con B (-eme)
e una consonanza imperfetta con C (-anni); ricche le rime “reprendo” : “rendo”; “insieme”
: “seme”, paronomastica con “speme”; “anni” è inclusa in “affanni” e “danni”; “uso” in
“rinchiuso” e “scuso”.

365.Molti, in accordo con l’idea di Cochin che 364 e 365 siano due parti distinte di una sola
preghiera, estendono anche a questo sonetto, come data di composizione, il 1358 che si
ricava dal precedente: per i dubbi che gravano su quella data. Condivisibile, anche se non
stringe l’ambito cronologico, è l’ipotesi di Konig che la serie 362-365 sia stata scritta dopo
la composizione di 366, anche in considerazione del preciso contatto fra il verso 8 e un
passo della Seniles X 1 del 1368, implicata con la composizione di 366.
Sonetto con lo stesso schema di 363 e 364; A (-empi) condivide la tonica in C (-esta) che
inverte le vocali di B (-ale), la cui tonica è ribattuta dall’omovocalica D (-anza); derivativa
la rima “mortale” : “immortale”; “empi” è inclusa in “tempi” : “exempi” : “adempi”.

366.La datazione è problematica: niente giustifica la data del 1358 prevalente presso gli
studiosi, anzi, l’ipotesi più verosimile è che essa cada fra il 1363 (fine dell’allestimento di
Ch) e l’inizio degli anni Settanta (trascrizione su V1). A favore di una datazione ‘bassa’
gioca la constatazione che il culto di Petrarca per Maria è documentato negli ultimi anni
della sua vita: Seniles X 1, del 18 marzo 1368; Test 3, 8 del 4 aprile 1370 (ai fini
cronologici, però, non serve la connessione istituita da Mommsen fra l’immagine delle
“ginocchia della mente” del Testamentum e quella della canzone). La Seniles X 1,
indirizzata a Sagremor de Pommiers, fattosi monaco cistercense, non solo evoca Bernardo
di Chiaravalle come intercessore presso la Vergine, quello stesso Bernardo chiamato da
Dante a pronunciare la preghiera nell’ultimo canto del Paradiso, ma presenta alcuni
precisi punti di contatto con la canzone. Sembra, insomma, che una serie di intrecci ci
porti verso la fine degli anni Sessanta. Nessun dubbio, invece, sussiste sulla volontà di
Petrarca di collocare la canzone alla fine della raccolta: nel manoscritto Laurenziano 41,
17 dove è seguita da quel gruppo di testi che per Wilkins costituiscono i “supplementi” a
Ma, essa è accompagnata dalla postilla “in fine libri ponatur”. Chiara è anche la funzione
palinodica ad essa demandata, funzione sottolineata da numerosi agganci con i testi
iniziali: “l’ultimo pianto sia devoto”, rispetto al “primo non d’insania voto”, rimanda al
sonetto 1, al quale rinvia anche la lettera iniziale in comune: “la V di Voi e di Vergine, a cui
il fregio dei miniatori conferisce nei manoscritti splendida evidenza”; l’evocazione di
Cristo nel congedo riprende il motivo della nascita dell’amore per Laura nel giorno della
passione del sonetto 3. Tuttavia la funzione palinodica non era così evidente fino a
quando, nell’ultimo periodo di vita, Petrarca non ha fatto precedere la canzone dai
sonetti 364 e 365: solo così la preghiera risulta lo sbocco naturale di una sequenza
marcatamente penitenziale. Fino alla ristutturazione del finale, il ruolo della canzone nel
tracciare le coordinate etiche della storia amorosa era affidato in gran parte al
simbolismo dei numeri: nella struttura liturgico-calendariale imperniata sulle
corrispondenze 6 aprile = sonetto 1 e 25 dicembre = canzone 264, il 366 viene a
corrispondere nuovamente al 6 aprile, con una sovrapposizione significativa, a dimostrare
che il peccato amoroso, cioè il dissidio fra Creatore e creatura, si purifica nelle stesse
circostanze che lo hanno generato. Sempre in tema di numeri, (si noti ancora che la
parola Vergine ricorre 21 volte, tante quanti sono stati gli anni in cui Laura ha resistito a
Petrarca (“Tenemmi Amor anni ventuno…”) – si ricordi che l’elegia in morte della madre
(Epystolae I 7, Breve Panegiricum defuncte matri) conta 38 esametri, quanti gli anni della
defunta. E su un altro piano si osservi che anche il numero delle stanze (10) è simbolico
(da collegare forse alla tradizione delle Decem dictionis, cioè delle dieci parole che
secondo Luca l’angelo rivolse a Maria durante l’annunciazione, Gorni 1987) tanto che
Bertolucci individua nel 10 e nel 5 il principio numerico delle Cantigas de Santa Maria di
Alfonso X. Se il 5 e il 10 sono numeri mariani, allora può essere significativo che la
sequenza finale del pentimento sia costituita da 2 canzoni di 10 stanze (questa e la 360)
fra le quali sono interposti 5 sonetti. L’idea di chiudere una raccolta profana con una
preghiera alla Vergine non ha precedenti nella lirica italiana: in questa scelta Petrarca può
essere ispirato, da una parte, a certa produzione trobadorica tarda (per la verità l’unico
esempio certo è quello del canzoniere di Guiraut Riquier), dall’altra, alla preghiera di
Bernardo in Paradiso XXXIII (centesimo canto della Commedia; per alcuni possibili
paralleli numerologici con Petrarca. La canzone è fittamente intessuta di reminiscenze e
di vere e proprie citazioni di testi biblici, liturgici e innodici: sulla base di questo ineludibile
terreno comune nascono molte delle coincidenze rilevabili con la produzione laudistica,
con la preghiera dantesca e con i testi più marcatamente devozionali dello stesso
Petrarca, come i Psalmi penitentiales e, se sua, la preghiera a Maria O superum matura
parens. Anche il fatto sul quale si è a lungo esercitata la critica, che gli attributi mariani
siano spesso sovrapponibili a quelli laurani, sovrapposizione certamente voluta da
Petrarca per marcare la sostituzione dell’oggetto d’amore, è stato agevolato dalla
presenza nella tradizione lirica romanza di un continuo e forte interscambio tra linguaggio
profano e linguaggio biblico-liturgico: è sintomatico che Guiraut Riquier trasferisca il
“senhal Belh Deport dalla terrena midons alla celeste Ma dona”; sulla stessa linea, si può
ricordare l’evoluzione delle ‘pastorelle’ in Marienlieder.
Canzone di 10 stanz di 13 versi di cui 3 settenari, a schema ABCBAC CddCEf(f5)E, più
congedo, AbbACd(d5)C. Una rima al mezzo nell’ultimo verso è presente anche in 135. La
misura decastrofica (adottata in 360, ma rara nella lirica italiana) potrebbe derivare dalla
canzone mariana En chantar d’aquest segle fals di Lanfranc Cigala. La parola “Vergine”
ritorna costantemente all’inizio del primo e del nono verso di ogni strofa secondo
l’artificio delle coblas consuete, posto che Vergine soppianta, nel movimento anaforico, il
profano nome di Donna, eletto di frequente dalla poesia cortese a scandire coblas
capdenals (ma proprio con Domna = Vergine si aprono le coblas capdenals di Peire de
Corbiac. Domna dels angels regina). Nella I stanza A (-ita) assuona con E (-ina) e B (-ole)
con C (-ose); ricche le rime “pose” : “rispose” e “ascose” : “cose”; nella II si segnalano una
consonanza imperfetta tra A (-una) e B (- enti), le rime inclusive “una” : “Fortuna”,
“sciocchi” : “occhi” e la paronomasica “scampa” : “stampa”. La III stanza presenta una
assonanza fra A (-era) e d (-etta) e parziali consonanze fra A, B (-adre), che inverte le
vocali della rima precedente, C (-orni), da un lato, d e f (-ata) dall’altro; ricca la rima
“intera” : “altera”; derivativa “giorni” : “soggiorni”; la IV presenta l’assonanza fra B (-ate)
e f (-aghe), di cui A (-ena) inverte le vocali; la consonanza imperfetta tra B e C (-olti); le
rime ricche “humilitate” : “pietate”, “ascolti” : “raccolti”; la paronomastica “piaghe” :
“appaghe”. Nella V stanza, oltre all’assonanza tra C (-onda) e f (-orta), si segnalano le rime
ricche “seconda” : “feconda” : “ioconda”; nella VI l’assonanza fra A (-erno) e d (-ego), la
consonanza fra A e f (-arne), parzialmente condivisa anche da E (-ostro), la rima ricca
“strida” : “rida”. Nella VII stanza A (-arte) si lega tramite inversione delle vocali e
imperfetta consonanza a E (-etta) e ancora per consonanza imperfetta a B (-arno), che, a
sua volta, assuona, e imperfettamente consuona, con C (-anno); una consonanza
imperfetta collega anche E e f (-ati); a proposito delle parole-rima di questa e della IX
stanza Gorni 1987 parla di “trionfo della desinenza in -A”; ricca la rima “indarno”:
“d’Arno”; pseudo-derivativa “sparte” : “parte”; equivoca “alma” : “anno” è inclusa nella
serie “danno” : “affanno” : “m’anno”. Mentre nell’VIII stanza non compaiono fenomeni di
rilievo, la IX, come già la VII, è quasi tutta giocata sui timbri in a, con B (-arme) e d (-ante)
assonanti; ricca la rima “devoto” : “vòto”. L’ultima stanza è caratterizzata dalla presenza
di due rime omovocaliche (A -oglio; E – iri), dalla comunanza della tonica fra B (-uca) e d (-
urgo), da un lato, C (-ile) ed E, dall’altro; ricche le rime “t’induca” : “caduca” e “gentile :
“stile”; paronomastica quella al mezzo “guado” : “grado”.

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