Sei sulla pagina 1di 64

1. LETTERATURA SPAGNOLA 8.03.

21
La letteratura che studiamo è la letteratura spagnola in castigliano (in Spagna si parlano anche il catalano, il
gallego e il basco). Queste lingue ufficiali hanno, a seconda del periodo, una loro letteratura. L’aggettivo
medievale si riferisce al periodo della letteratura spagnola che va dal IX° al XV° secolo. Non tutte le opere
create in quel periodo ci sono giunte. Il 1492 è una data fondamentale per la storia della Spagna e del
mondo, perché viene scoperta l’America da Colombo, e la spedizione per quelle che si pensavano essere le
Indie e poi si sono scoperte essere le Americhe, viene sovvenzionata dai re spagnoli Isabella di Castiglia e
Ferdinando d’Aragona. I due re unirono sotto il loro potere i due regni di Castiglia e di Aragona, riuscendo
ad avere un potere enorme, che gli permise di sovvenzionare la spedizione. Essi erano i re cattolici perché
avevano promulgato la religione unica, cioè la cattolica, in Spagna. In quel periodo ci sono gli arabi che
occupano la Spagna nel 711 d.C. , cominciano a conquistare vari territori spagnoli fino a stabilizzarsi in tutta
la Spagna. Quasi subito si cerca di cacciarli ma non ci si riesce. La Reconquista dei territori spagnoli comincia
intorno all’anno mille. Fu un processo molto lento perché gli arabi avevano ormai messo le radici nella
Spagna dell’epoca, addirittura si era creata una convivenza tra spagnoli e arabi anche a livello di religione,
usanze e culture, ma la Reconquista andava avanti e termina nel 1492, quando viene conquistata
definitivamente l’ultima città ancora in mano agli arabi, Granada, che si trova in Andalucia, regione
spagnola che ha maggiormente sopportato l’occupazione araba. Nel 1492, con l’ultima battaglia contro i
mori, termina la Reconquista, perché viene conquistata Granada (ciò viene rappresentato in moltissimi
quadri della regina Isabella di Castiglia che entra con un crocifisso in mano nella città di Granada, simbolo di
conquista politica e religiosa). Nel 1429 inoltre, Antonio de Lebrija, studioso dell’epoca, scrive la prima
grammatica castigliana, quindi si comincia ad avere una visione del popolo castigliano e anche della lingua
unitaria, con la cacciata dei mori si comincia ad acquisire un’identità unitaria di tutta la Spagna. Il 1492 è
una data simbolica che sancisce la fine dell’epoca medievale, quindi di conseguenza la fine della letteratura
medievale. Successivamente al 1492 comincia quella che sarà la letteratura del rinascimento, chiamato così
perché c’è una rinascita letteraria e culturale. La letteratura delle origini non è uguale dal 711 fino al 1492,
ma evolve, ci sono diverse fasi della letteratura medievale. Si è cominciato a pensare come questa
letteratura possa essere nata, cioè come mai ci sono delle attestazioni di opere con delle determinate
caratteristiche oppure scritte in una determinata maniera. Ci viene in aiuto lo studioso Marcelino
Menéndez y Pelayo, che nasce nella seconda metà dell’Ottocento e muore all’inizio del Novecento. Egli
comincia ad analizzare le opere della letteratura spagnola e comincia a interrogarsi sulle sue origini, cioè da
dove venissero le prime attestazioni e per questo motivo elabora la teoria tradizionalista, scrive un libro che
si chiama Estudios y discursos de critica historica y literaria (1942). Quest’opera analizza la storia della
nascita della letteratura spagnola e in essa parla della teoria tradizionalista. Il verbo “tradere” significa
trasmettere, consegnare, e tradizione deriva proprio da questo verbo latino, che ci dà l’idea di qualcosa che
viene trasmesso, quindi anche la teoria tradizionalista di cui parla Menendez y Pelayo parla di qualcosa che
viene trasmesso da qualcos’altro. Egli afferma che le prime attestazioni delle opere letterarie spagnole,
quelle che sono arrivate fino a noi, provengano da una tradizione letteraria precedente di cui non abbiamo
traccia, perciò si parla di una teoria. Questa teoria tradizionalista prevede che ci sia una tradizione orale
precedente alle attestazioni che sono giunte fino a noi, che però è stata perduta o modificata. Questa
tradizione orale veniva da ciò che esisteva nel suolo spagnolo prima delle opere che studiamo, che quindi è
legata anche ad altri popoli. La Spagna non subì solo l’occupazione araba ma anche un’occupazione romana
(la Spagna era un grande polo del sacro romano impero per la sua posizione strategica) e visigota.
Menendez y Pelayo afferma che ci sono le influenze ispano-romane e ispano-visigote nella letteratura
spagnola. “Ispano-romana” significa che provengono dall’occupazione dei romani in Spagna, che quindi la
commistione delle culture romana e poi visigota abbiano creato delle espressioni che hanno dato il via a
delle espressioni letterarie giunte fino a noi. Un altro studioso/critico, Ramon Menendez Pidal (più o meno
contemporaneo a Menendez y Pelayo), ha appoggiato la teoria tradizionalista, ma ha individuato all’interno
della letteratura spagnola delle caratteristiche comuni, quindi appoggia la teoria tradizionalista sulla
tradizione romana e visigota, ma dà un elemento in più, dice che ci sono dei caratteri salienti della
letteratura delle origini, che non si ritrovano in tutte le opere, che andranno cambiando col tempo e
l’avanzare dello sviluppo letterario, ma che riusciamo a trovare nelle opere maggiori. La prima caratteristica
della letteratura delle origini è il COLLETTIVISMO che si collega alla seconda caratteristica che è
l’ANONIMATO. Il collettivismo ci dà l’idea di qualcosa che è fatta in maniera collettiva, da più persone
insieme. Queste caratteristiche si fondono insieme rispetto a quelle che sono le caratteristiche delle origini,
perché tutte le opere che vengono composte nei primi due secoli della letteratura spagnola medievale sono
anonime, non hanno autore, fino ad arrivare a Gonzalo de Berceo, primo autore che firma le sue opere.
Precedentemente a Berceo vige la mancanza di indicazione dell’autore delle opere, perché erano composte
da autori che spesso erano giullari, ma venivano tramandate oralmente, qui entra in gioco il collettivismo,
ovvero un giullare componeva un’opera, questa veniva cantata, arrivava ad un altro giullare che aggiungeva
un pezzo, ne cambiava un altro, aggiungeva delle cose, quindi ne usciva un’opera che non poteva avere un
solo autore ma era collettiva e creata nei vari passaggi da più autori, poi veniva cantata (la stampa viene
inventata in Cina all’inizio dell’anno mille e poi nel mondo occidentale nella metà del Quattrocento con
Gutenberg). Queste opere non potevano essere stampate, sono arrivate fino a noi grazie ai copisti che
scrivevano a mano, i cosiddetti amanuensi, in particolare scrivevano nei monasteri, erano di solito dei
monaci perché il popolo era analfabeta, e coloro che avevano l’istruzione erano i religiosi che avevano
grandi biblioteche. I copisti trascrivevano l’opera ma non ne erano autori, quindi pubblicavano opere
anonime che a volte venivano perse perché non esisteva la stampa e la cultura della conservazione del
testo scritto. Ciò riguarda opere letterarie non latine. La terza caratteristica è la tradizione ORALE. I giullari,
che erano questi personaggi che cantavano queste opere per la strada e ai quali era affidato il compito della
diffusione delle notizie, cantavano le opere oralmente e in rima assonante, cioè abbiamo una
corrispondenza tra le sole vocali a partire dall’ultima vocale tonica del verso (es. pelle/terre). Utilizzavano la
rima assonante perché era più facile da cambiare. L’opera poteva subire tanti cambiamenti nel tempo,
anche da un giorno all’altro. La versione giunta a noi è quella definitiva, che è stata messa per iscritto.
Oralità, collettivismo e anonimato sono tre caratteristiche che ritroviamo nella letteratura delle origini, fino
a quelli che sono i cantares de jesta, più avanti si comincerà ad avere un’idea più specifica del testo
letterario e si cominceranno a trascriverle più facilmente. Queste tre caratteristiche riguardano la
trasmissione delle opere. Pidal però individua caratteristiche che riguardano il livello tematico, ovvero
interne al testo. Queste sono tre. La prima è il REALISMO STORICO (il realismo è una corrente letteraria che
si sviluppa nell’Ottocento in Europa. Quello di cui parliamo ora non è una corrente letteraria del medioevo
ma è una caratteristica di queste opere). Realismo è qualcosa che rimanda alla realtà contemporanea alle
opere di cui si parla, ma in questo caso si parla di realismo storico, significa che nelle opere della letteratura
spagnola del medioevo ritroviamo tanti riferimenti alla realtà storica del tempo. Gli avvenimenti storici
venivano riprodotti quasi perfettamente nelle opere. Le letterature francese e tedesca delle origini hanno
caratteristiche molto diverse perché trattano argomenti anche fantastici che si allontanano molto dalla
realtà, i personaggi sfidavano draghi, avevano spade incantate o sfidavano esseri mitologici. Nella
letteratura spagnola abbiamo personaggi realmente esistiti, eventi raccontati realmente successi, molto
vicini alla realtà quotidiana. Il realismo è molto profondo. Ciò non li rende racconti storici o cronache. La
seconda caratteristica è la SOBRIETÀ, la letteratura era molto semplice sia dal punto di vista linguistico
(espressione in cui veniva raccontata) sia dal punto di vista stilistico (struttura delle opere). Le figure
retoriche erano comprensibili. Le opere erano semplici anche perché il primo pubblico a cui si voleva
arrivare era il popolo; i giullari erano coloro che avevano a che fare con il popolo, mentre coloro che erano
a corte erano i trovatori. I giullari avevano l’intento di arrivare al popolo, quindi le opere dovevano essere
capite dal popolo già nel momento in cui venivano ascoltate perché il giullare non poteva ripetere. Il
pubblico che si creava attorno al giullare doveva capire al volo, se il pubblico non capiva, il giullare non
guadagnava (era un mestiere). Nelle opere classiche, dalle quali pur viene la letteratura spagnola, c’erano
molte strutture retoriche difficilmente comprensibili da coloro che ne entravano a contatto ma non il
popolo, quelle opere erano destinate ad intellettuali. Anche all’interno della letteratura delle origini si
trovano modi di dire, metafore, strutture letterarie che facevano parte della tradizione popolare. L’ultima
caratteristica è l’AUSTERITÀ MORALE, che ritroviamo sia nelle opere in versi sia in quelle in prosa (dal
Trecento). La parola austero significa qualcosa di ricco, per esempio l’austerità di un portamento, regale,
nobile, ma subito dopo c’è morale. Le tematiche trattate nelle opere della letteratura spagnola delle origini
non sono amorali, anzi, tutte le opere hanno un messaggio di insegnamento morale. All’interno delle opere,
che sia grazie alla figura dell’eroe, alle avventure del protagonista, alle rappresentazioni di azioni, si vuole
dare sempre l’insegnamento morale, si vogliono dare indicazioni sui modi di comportarsi, sugli
atteggiamenti da avere in società, su cosa fare in determinate situazioni. Accanto a questi insegnamenti, c’è
la rappresentazione dell’amore, non troveremo mai rappresentazioni di passione amorosa o di amore
impuro, ma le rappresentazioni dell’amore sono di un amore puro, da portare avanti, che di solito è l’amore
verso Dio oppure l’amore di un uomo e una donna sempre virtuoso. Questo si oppone all’amore più
passionale della letteratura francese e italiana. Le Cantigas de amigo sono componimenti che hanno come
protagoniste delle fanciulle. Amigo significa anche amore, l’”amigo” è l’innamorato, che non si nomina
esplicitamente. Le fanciulle cantano un amore puro e soave nei confronti del proprio cavaliere. La
letteratura delle origini deve trasmettere un insegnamento e deve piacere. Lo scopo della letteratura delle
origini è quello del “deleitar aprovechando” (deleitar significa intrattenere, divertire, aprovechar in questo
caso significa cogliere qualcosa di positivo, insegnare qualcosa piacevolmente), una letteratura piacevole
che intrattiene e allo stesso tempo trasmette un insegnamento. La teoria tradizionalista non viene
appoggiata da tutti, altri autori hanno altre teorie. Un autore, Dàmaso Alonso (poeta importante della
generazione del’27), diceva che la letteratura spagnola nasce successivamente e non proviene da quelle che
erano le letterature ispano-visigota e ispano-romana, e critica la caratteristica del realismo storico di cui
parla Pidal, perché dice che la letteratura spagnola delle origini non è caratterizzata solo dal realismo ma le
due caratteristiche che vanno di pari passo sono realismo e idealismo, egli mette insieme qualcosa di
concreto come la realtà del tempo a qualcosa di ideale che era quello che si voleva trasmettere, quindi non
parla di realismo storico in quanto tale ma un’unione di realismo e idealismo. Un altro studioso, Claudio
Sanchez Albornoz, diceva che nella tradizione, non c’è un momento in cui si crea la letteratura spagnola. In
parte appoggia la teoria tradizionalista perché dice che c’è una continuità nella tradizione, ma c’è una
nascita della letteratura spagnola solo quando c’è un equilibrio tra il fattore storico e quello geografico. Per
Albornoz, la divisione della Spagna geografica non permette di creare un’unica letteratura spagnola. Nel
momento in un cui dal punto di vista storico la Spagna si unisce sotto un unico territorio, quindi anche
geograficamente, può nascere la letteratura spagnola, e si rifà alla teoria di un altro autore, Amerigo Castro
che diceva che non si poteva parlare di letteratura spagnola prima che il popolo spagnolo prendesse
coscienza di sé stesso (fine della Reconquista). Quando gli arabi sono in Spagna, la cosa che unisce gli
spagnoli è la lotta contro gli arabi, oltretutto la Spagna, trovandosi in una posizione strategica, diventa un
centro dove si riuniscono più culture in particolare araba, ebraica e cristiana, infatti, molte opere sono il
risultato di queste tre presenze culturali in Spagna. Di conseguenza non c’è un’unitarietà nell’idea di Castro.
Egli diceva che nel momento in cui la Spagna si libera dell’occupazione straniera e il popolo spagnolo
comincia a rendersi conto della propria identità, si può parlare di letteratura spagnola. Possiamo parlare di
attestazioni che ci sono arrivate per iscritto, quelle che non sono giunte fino a noi possono o non essere mai
conosciute oppure ne possiamo conoscere l’esistenza attraverso altre opere. Per questo si parla di prima
attestazione della lingua spagnola medievale: le glosas emilianenses (risalgono intorno al X secolo),
rappresentano l’unico documento anteriore alle prime attestazioni letterarie, chiamate così perché sono
delle glosse. La glossa è un piccolo appunto che si può fare a margine di un testo. Le glosse sono state
ritrovate nel 1911 da uno studioso nel monastero di San Millan della Gogolla, a nord della Spagna. Questo
monastero aveva una biblioteca immensa di testi antichi, trascritti, opere di amanuensi, in cui è stato
ritrovato un testo che era un codice, a margine di questo codice sono stati ritrovati degli appunti di un
amanuense che leggendo questo codice in latino, ha appuntato al margine delle annotazioni di alcuni
passaggi, la cosa fondamentale è che la lingua che ha usato è il castigliano volgare. Le glosas emilianenses
non sono testi letterari ma vere e proprie annotazioni, preghiere o piccole traduzioni per rendere
comprensibile il testo per qualcun altro. Le glosas sono la prima espressione della lingua spagnola. Abbiamo
dei corrispettivi nella cultura italiana e francese. Il corrispettivo italiano si chiama placito capuano. Si tratta
di testimonianze che venivano raccolte in un’aula di tribunale, quindi di un testo giuridico. In questo caso si
parla della testimonianza di un monaco di un convento di Capua, dopo che un nobile lo aveva accusato di
utilizzare le sue terre. La sua testimonianza era stata scritta in una lingua che era quella delle origini
dell’italiano. Per la Francia abbiamo il giuramento di Strasburgo dove le tre parti che giurano, giurano in
latino e in francese medievale, anche in questo caso non è un’opera letteraria.

2. LETTERATURA SPAGNOLA 9.03.21


Nozione sulle glosas emilianenses: appunti che hanno un’importanza linguistica più che letteraria e che
sono piccole aggiunte a margine di alcuni codici, di un codice ritrovato nella biblioteca di san Millan. Il
codice è naturalmente scritto a mano, non esisteva la stampa, questo è tutto un lavoro degli amanuensi. Le
piccole annotazioni a margine, ma anche sulle parole, rappresentano una fondamentale conoscenza della
lingua dell’epoca. Le glosas emilianenses sono la prima espressione del castigliano volgare. La prima
espressione della letteratura castigliana è un’altra, perché il primo interesse letterario si sviluppa attorno
alle jarchas, che rappresentano le prime espressioni di quella che è la commistione delle varie culture che si
ritrovano in Spagna (cristiana, araba ed ebraica). La jarcha rappresenta l’unione di queste tre culture perché
queste si intersecano a tal punto che formano un’unica espressione letteraria. La jarcha è un piccolo
componimento di pochi versi che ha una caratteristica, cioè la lingua in cui sono scritte, infatti esse sono
chiamate jarchas mozarabiche e sono state scoperte nel 1948 da uno studioso (Samuel Stern) e
rappresentano quest’unione perché la lingua mozarabe è una lingua che si trova a metà strada tra lo
spagnolo dell’epoca, cioè il volgare, l’arabo e l’ebraico. Il mozarabo era la lingua che veniva parlata dagli
arabi che si trovavano nella penisola iberica. Teniamo conto che la lingua araba si ritrova ancora oggi nel
castigliano parlato, le parole che in castigliano moderno cominciano per “al” derivano dall’arabo, per
esempio “alfombra” (tappeto). Le jarchas ci sono giunte in due versioni: quella araba e quella ebraica, e si
distinguono tra loro perché nella versione araba sono più preminenti i caratteri e le parole di origine araba,
mentre nella versione ebraica sono più preminenti quelle di origine ebraica. Le jarchas non si ritrovano da
sole ma si ritrovano o all’interno o alla fine di un componimento più lungo chiamato moaxaja (muwassaha
in arabo). La jarcha si ritrovava alla fine di questo componimento più lungo e rappresentava molto spesso
anche un ritornello che si ripeteva in varie moaxajas. Questi ritornelli erano imparati a memoria. La
moaxaja quindi rappresentava il componimento più lungo articolato in varie strofe, mentre la jarcha
costituisce il finale o il ritornello, ed è costituito da pochissime righe, a volte anche un paio. Siamo ancora in
un momento di oralità quindi le jarchas venivano tramandate oralmente, venivano cantate per attirare
anche l’attenzione del pubblico, e venivano composte in lingua mozarabe per essere capite da tutti coloro
che ascoltavano queste rappresentazioni. Anche le jarchas hanno una tradizione anteriore, provengono da
una tradizione precedente in particolare araba, che era fatta di piccoli ritornelli e piccoli versi brevi, a tema
amoroso, esse infatti erano composte di frasi in particolare pronunciate da donne che erano coloro che
raccontavano, che erano innamorate ma sofferenti. C’erano anche componimenti che parlavano della
felicità presente ma erano pochi perché la maggior parte parlava dell’assenza dell’amato, della lontananza
dell’amato o di un amore non corrisposto. Ci sono in queste jarchas molte parole che si rifanno all’arabo, in
particolare “habib”, parola araba che significa “amigo” e rappresenta l’amato. La jarcha è quindi una
commistione profonda tra arabo e spagnolo volgare. Le jarchas sono state ritrovate nel 1948 ma sono state
composte intorno ai secoli XI° e XII°, all’origine della letteratura spagnola. La più antica scrittura delle
jarchas, che a noi non è giunta, probabilmente risale agli inizi del X° secolo. La parola “jarcha” significa in
castigliano moderno “salida”, uscita, quindi rappresentava la chiusura della moaxaja. Sono state ritrovate
da uno studioso, Samuel Miklos Stern, nel 1948. Questo studioso ungherese le ritrova in maniera casuale, si
trovava nella biblioteca del Cairo per studiare dei testi, dei manoscritti in arabo, e mentre li leggeva
cominciava a vedere che c’erano parole che gli risultavano familiari ma non erano arabe. Nota che questi
piccoli componimenti, scritti con caratteri arabi, corrispondevano a parole spagnole. Questi componimenti
hanno una scrittura araba ma in arabo sono trascritte delle parole spagnole. Egli fa questo ritrovamento e
comincia a chiedersi come mai nell’ambito di un componimento arabo ci fossero parole spagnole scritte in
arabo. Comincia a studiare le jarchas e comincia a capire che c’erano realmente delle parole spagnole. Le
vocali in arabo sono poco utilizzate, quindi molto spesso la parola spagnola trascritta nelle jarchas non
aveva le vocali, quindi Stern le inserisce, fa un lavoro di riempimento di queste parole, completa le parti
mancanti e capisce che era di fronte ad un componimento in mozarabe, cioè che aveva una potente
commistione di spagnolo e arabo. Studia le jarchas e pubblica un articolo nel 1948 su una rivista che
all’epoca raccoglieva tutti questi studi e scoperte, che si chiamava Al-Andalus (nome con cui gli arabi
chiamavano l’Andalusia). In questo articolo Stern affronta lo studio di 20 jarchas che erano state ritrovate.
Successivamente ci sono altri studiosi che affiancano Stern nello studio di questi piccoli componimenti, tra
cui Emilio Garcia Gomez, il quale aiuta Stern in questo studio e ne scopre altre. Ad oggi ne sono state
scoperte quasi un centinaio. La struttura delle jarchas è rappresentata da una sola strofa. (una poesia è
formata da versi, ogni verso è formato da sillabe, a seconda del numero di versi e del numero di sillabe le
poesie acquisiscono un particolare nome es. strofa di quattro versi= quartina). La jarcha è rappresentata da
una piccola strofa con una struttura metrica abbastanza uniforme, cioè la jarcha aveva anch’essa una rima
assonante. La moaxaja è tutto quello che c’è prima ed è scritta solo in arabo. Lo scherma di alternanza di
rime è molto preciso. La jarcha che chiude il componimento è scritta in mozarabe. La moaxaja non è un
componimento che deriva dalla tradizione araba, ma nasce proprio nella Spagna dominata dagli arabi, nei
paesi arabi non esisteva. È un componimento che prevede l’assonanza, di conseguenza qualcosa che è
caratteristico della metrica nascente in Spagna. Ha dei versi abbastanza brevi, cosa non condivisa dalla
tradizione araba che prevedeva versi più lunghi. Le origini della moaxaja non sono arabe, essa proviene da
un componimento lirico arabo che si chiama “qasida”, composto da lunghi versi monorimati. La moaxaja
differisce dalla qasida perché ha dei versi più brevi, ciò significa che si è adeguata alla lirica tradizionale
della Spagna. Gli arabi si riferivano al componimento moaxaja come delle canzonette fatte allo stile dei
cristiani, cioè ritrovavano nelle caratteristiche della moaxaja qualcosa che era appartenente alla tradizione
cristiana spagnola. Dalla moaxaja successivamente nasce un altro componimento che si chiama “zejel”,
componimento in cui i ritornelli in mozarabe non si trovavano solo alla fine ma anche fra le strofe. La lingua
mozarabica seguiva quella che era la struttura araba o ebraica, infatti quando Stern le ritrova, ritrova le
jarchas scritte con le sole consonanti. Lui fa un lavoro di completamento. La jarcha ha una terminologia, un
lessico spagnolo delle origini, volgare, con una scrittura e con influssi nelle stesse parole che sono arabe ed
ebraiche. C’è una continuità di scrittura ma c’è una discontinuità di lingua (moaxaja arabo, jarcha
mozarabo). La jarcha ha delle protagoniste che sono soprattutto donne, ragazze. La tematica della moaxaja
molto spesso era un omaggio, un panegirico (parlar bene di qualcuno, esaltazione) fatto dal poeta al
signore che lo pagava affinché componesse la poesia. La tematica della moaxaja differisce da quella della
jarcha. Nella strofa ultima della moaxaja di passaggio alla jarcha c’è un cambiamento di linguaggio a
seconda di chi parlava poi nella jarcha, c’è una sorta di piccola introduzione nell’ultima strofa che introduce
alla jarcha. La jarcha è quasi sempre un componimento in cui c’è una donna che parla, che è privata del suo
amato, del suo “habib”, che si lamenta della sua lontananza o dell’amore non corrisposto.
Apparentemente, tra la moaxaja e la jarcha non c’è nessuna corrispondenza tematica. A volte ci sono delle
tematiche non amorose, altri personaggi anche allegorici che parlano nelle jarchas, ad esempio due
uccellini o esseri inanimati, ma la maggior parte delle jarchas ha come protagonista la voce femminile. La
tematica delle donne che sentivano la lontananza dei propri amati, dei propri cari, dell’amore non
corrisposto, si rifà a quella austerità morale perché si parla di un amore abbastanza platonico che non viene
portato a termine, che è legato ad una base storica reale perché ci si rifà alle donne che avevano i propri
amati in guerra, basti pensare che questo è un periodo di reconquista, quindi gli uomini erano spesso
lontani da casa. Dalle jarchas derivano le cantigas de amigo, che sono scritte in una lingua che verrà
utilizzata anche da alcuni poeti successivamente, che è la lingua gallego-portoghese che si trovava a cavallo
tra la Galizia ed il Portogallo ed era ritenuta una lingua molto lirica, di conseguenza con cui si potevano
creare delle poesie. Le cantigas de amigo, e anche successivamente le cantigas de amor ed i villancicos (nel
‘400), sono dei componimenti che fanno parte della tradizione spagnola e derivano anche questi dalle
jarchas. Per Sanchez Albornoz le jarchas non rappresentano la vera origine della letteratura spagnola,
perché sono dei componimenti che prevedono l’utilizzo di una lingua che non è il castigliano puro ma c’è un
influsso arabo. Per lui la letteratura spagnola comincia nel momento in cui c’è una purezza del castigliano
volgare ma senza influssi di altre lingue, ebraiche o arabe. Per lui la tradizione della letteratura spagnola ha
origini francese e germanica. Per Albornoz l’origine della letteratura spagnola è da ritrovarsi nella poesia
epica, la parola “epos” deriva dal greco “parola, discorso, canto” ed ha cominciato a significare nel tempo
“discorso in versi, poesia”. La poesia epica è la poesia che mette in scena le gesta degli eroi. La parola gesta
deriva dal latino “gero” che significa “fare, produrre, compiere”, quindi le gesta sono le cose fatte,
accadute, e per estensione rispetto alla poesia epica, sono le imprese, le cose fatte dagli eroi. Per Albornoz
la poesia epica è l’origine della letteratura spagnola perché è una espressione originale della Spagna
dell’epoca ed è composta solo nello spagnolo dell’epoca. Guarda la purezza della lingua e dell’espressione,
anche se la tradizione è quella francese e germanica, ma arrivando in Spagna si trasforma in qualcosa che è
caratteristico della lingua spagnola. La poesia epica spagnola corrisponde ai cosiddetti cantares de gesta.
“Cantares” perché sono trasmessi oralmente, è un periodo in cui si trascrive poco e male, e molte delle
cose trascritte vanno perdute, ma è soprattutto un periodo in cui la grande tradizione è quella di cantare
queste opere per strada, nelle piazze. Queste opere erano cantate dai giullari, che cantavano le gesta, le
azioni di questi personaggi. Per questo si parla di mester de juglaria. I giullari erano uomini di umili origini,
la maggior parte delle volte non erano autori dei versi che cantavano ma riprendevano componimenti fatti
da altri autori e li cantavano nelle piazze, erano molto amati dal popolo e avevano molto successo, erano
meno amati dai nobili e coloro che vivevano a corte perché li ritenevano poveri e non all’altezza, anche per
le tematiche che trattavano. Alla figura del giullare si oppone quella del trovatore, l’arte del trovar era l’arte
del trovare, poetare, immaginare, ricercare, era autore delle opere che cantava e soprattutto lo faceva
privatamente, il trovatore era colui che frequentava le corti, che veniva pagato dai nobili per allietare le
serate a corte. Quello del giullare era comunque un lavoro, “mester” viene dal latino “ministerium” cioè
“lavoro”. Il mester de juglaria rappresenta un vero e proprio lavoro di questi personaggi che per quanto
umili e vicini al popolo comunque facevano un lavoro che piaceva e trovava un grande riscontro. Il giullare
imparava a memoria opere molto spesso di altri autori per guadagnarsi da vivere. Le sue esibizioni erano
tenute in strade e piazze, era un po’ il propagatore di notizie, attraverso di lui il popolo conosceva ciò che
accadeva nelle immediate vicinanze spaziali e temporali. Il pubblico era ansioso di sapere, il giullare
raccontava ogni volta un pezzo anche perché imparava a memoria e non poteva avere una visione
completa di tutto ciò che doveva ricordare. La lingua in cui cantavano era il castigliano volgare, che era
compresa dal popolo. La parola “giullare” viene dal latino “iocularis”, che significa colui che scherza/gioca.
Menendez Pidal nel 1949 ha scritto un testo critico che si chiama Poesia juglaresca y juglares, in cui studia il
ruolo dei giullari all’epoca e quanti tipi di giullari esistevano. Divide due tipi di giullari: epici, cioè coloro che
cantavano la poesia epica che aveva un contenuto di narrazione, e quelli lirici che si dedicavano soprattutto
ad una poesia più sentimentale e breve, che non aveva necessariamente una trama, erano dei piccoli
componimenti che avevano una caratteristica più lirica. I giullari epici avevano avuto molto successo fino al
XIII° secolo, i giullari lirici dal XIII° in poi. Il mester de juglaria andrà man mano affievolendosi. I giullari erano
dei punti di riferimento importanti per il popolo, perché grazie a loro erano aggiornati su ciò che succedeva.
Pidal in questo testo analizza le modalità con cui i giullari portavano al popolo i componimenti, c’erano
diverse specializzazioni per i giullari: c’erano coloro che imitavano, color che conoscevano la musica e si
accompagnavano con strumenti mentre proclamavano i loro versi, coloro che recitavano i versi mettendoli
quasi in scena in una sorta di spettacolo teatrale, e poi i giullari che componevano i cantares. Alla fine del
loro spettacolo chiedevano un pagamento. Il verso giullaresco è un verso anisosillabico; ANA è una
particella privativa, la particella ISO invece significa “uguale”, se è isosillabico c’è lo stesso numero di sillabe,
se è anisosillabico il numero di sillabe in un verso è diverso. Nei componimenti del mester de juglaria non
troviamo quasi mai lo stesso numero di sillabe nei versi perché c’era il verso libero che permetteva di
ricordare meglio i cantares. Il verso oscillava tra le 10 e le 16 sillabe, in media 14 sillabe (verso
alessandrino). Il verso del mester de juglaria è strutturato in due parti che si chiamano emistichi (emi
significa metà), divisi da una spaziatura/pausa che si chiama cesura. Pidal ha individuato 4 tappe
dell’evoluzione della poesia epica. La prima tappa (900-1140) è chiamata “dei cantares brevi”, formati da
pochi versi (500-600 versi). Le tematiche trattate sono le gesta compiute da personaggi storici come per
esempio Fernan Gonzales, protagonista di un cantares che non ci è giunto. Sono cantares che raccontano
episodi realmente esistiti che spesso fanno parte del passato storico della Spagna, che in questo momento
di occupazione araba vuole ritrovare le proprie radici raccontando delle imprese dei grandi personaggi
spagnoli. La seconda tappa va dal 1140 al 1236, il 1140 è la data presunta della composizione del Cantar di
mio Cid, uno degli esempi di questa seconda tappa, il 1236 è la data in cui lo scrittore Lucas de Tuy scrive
un’opera che si chiama “Chronicon mundi”, già non si parla più di cantares ma di una cronaca, è un’opera
più storiografica che letteraria, ma che utilizza le fonti dei racconti epici come fonti storiche. Pidal chiama
questa tappa “epoca della pienezza (formale e contenutistica) della poesia epica” perché ad essa
appartengono i cantares più lunghi e perfetti che seguono delle caratteristiche simili tra di loro e sono più
lunghi di quelli della prima epoca (arrivano fino a 2000-3000 versi), risentono dell’influsso francese ed
hanno una caratteristica particolare, cioè avere delle strofe che si chiamano lasse. La terza tappa (1236-
1350) è chiamata “periodo delle prolificazioni”, perché la letteratura epica prolifica, si rigenera, in questa
tappa ritroviamo molte opere in prosa più che opere in rima. Da Chronicon mundi cominciano ad essere
prodotte molte chronicas come “La primera cronica general” di Alfonso X el sabio. Queste opere
raccontavano degli eventi con uno sguardo storico, a rappresentare vere fonti storiografiche, cioè
raccontavano qualcosa senza l’aspetto letterario tipico della poesia epica delle origini. La prosa è più adatta
al racconto di fatti che non riguardano più uno stesso personaggio e le azioni che egli stesso fa, ma una
cronaca che riguarda un tempo molto ampio. La quarta tappa (1350-1450) è chiamata “dei cantares
drammatici”. Ci avviciniamo quasi alla fine dell’epoca medievale. In quest’ultima tappa ci si allontana
ancora di più dai cantares, si abbandonano il realismo storico e l’austerità morale, ci si avvicina ad opere più
letterarie dove si parte sempre dagli antichi cantares per trarne solo le parti più leggendarie e che possono
piacere ed interessare di più. In questo periodo c’è ancora più influenza della letteratura francese, secondo
Pidal. Quest’ultima tappa non rappresenta una distruzione delle prime due tappe ma un’evoluzione, una
creazione di un’opera letteraria più originale che si avvicinava al gusto dell’epoca.

3. LETTERATURA SPAGNOLA 15.03.21


Finora abbiamo visto un’attestazione delle origini che riguardava solo l’importanza linguistica dei
documenti ritrovati (le glosas), poi abbiamo visto le prime attestazioni letterarie che si rifanno alle jarchas,
scritte in lingua mozarabe cioè la commistione tra spagnolo e arabo, la lingua parlata dagli invasori e da
coloro che vivevano nella penisola iberica. Per alcuni studiosi la letteratura spagnola nasce con i cantares de
gesta. Abbiamo analizzato la suddivisione fatta da Pidal in 4 tappe rispetto all’evoluzione dei cantares, a
partire dai cantares brevi fino ai cantares drammatici. Questa suddivisione sottolinea il cambiamento del
genere dei cantares de gesta che passa anche attraverso la prosa. Nell’ultima suddivisione c’è anche
l’influsso francese che ha cominciato ad inserirsi all’interno dei cantares de gesta fin dalle origini. La
maggiore differenza tra la letteratura spagnola e quella francese è il realismo storico, presente nella
letteratura spagnola; nella letteratura francese abbiamo più fantasia, situazioni legate all’impossibilità di
qualcosa che poteva accadere realmente (draghi, spade magiche). Per quanto riguarda i cantares de gesta,
ci sono tre caratteristiche principali, tra cui il realismo. Il contenuto dei cantares de gesta è veridico, per la
maggior parte storico, e si inseriscono elementi letterari. Ciò che si poteva trovare come elemento
meraviglioso e sovrannaturale, era legato alle credenze popolari, cioè a dei modi di vedere la realtà molto
spesso legati alla religione, quindi miracoli per esempio. Al di là dell’elemento meraviglioso, i cantares
rispettano gli avvenimenti storici, tant’è che si trasformeranno in cronache. Seconda caratteristica dei
cantares de gesta è il tradizionalismo, cioè le loro tematiche e la poesia epica in generale derivano
probabilmente da letterature precedenti, che a loro volta danno vita a delle rappresentazioni letterarie
successive, quindi c’è una tradizione che comincia prima dei cantares de gesta e arriva alla
contemporaneità (per esempio, dai poemi epici cioè dai cantares de gesta prenderanno spunto i romances,
che sono delle rappresentazioni poetiche composte nel ‘400 e nel ‘500. A loro volta i romances vengono
ripresi da Garcia Lorca nel ‘900). La terza caratteristica, dal punto di vista formale, è la rima assonante, che
prevede la corrispondenza delle sole vocali a partire dall’ultima vocale tonica del verso. Prevede
l’anisosillabismo, il metro è molto irregolare, e soprattutto un elemento importante è il mantenimento
della “e” latina alla fine delle parole, che col tempo verrà a cadere. Il mantenimento della “e” latina ci
permette di dare un riferimento cronologico abbastanza preciso a questi cantares, perché molto spesso la
datazione non si conosce.

Il primo cantar di cui parliamo è il CANTAR DE LOS SIETE INFANTES DE LARA. Non è giunto fino a noi, ne
abbiamo notizia perché è stato riprodotto in alcune cronache medievali successive, cioè non c’è un
manoscritto ma l’opera di questo cantar è stata riprodotta in testi successivi. L’originale si può pensare che
sia andato perduto o che non sia mai stato trascritto. Nelle cronache sono riportati solo alcuni frammenti,
ma nonostante ciò, la storia di questi infantes è una delle leggende più importanti della letteratura
spagnola. Si parla di due famiglie, la famiglia Lambra e la famiglia de Lara, che hanno dei piccoli screzi
perché della famiglia de Lara facevano parte i sette infantes (appartenenti alle famiglie nobiliari, predisposti
per diventare re e regina). Questo cantar ruota attorno alla disputa tra queste due famiglie; i sette infanti,
figli di Gonzalo Gustios, sposato con dona Sancha, vengono accusati di aver oltraggiato il fratello della
madre, Ruy Velazquez, che li uccide, e quindi Gonzalo Gustios vuole vendicarsi. Purtroppo, si ritrova in
prigione, quindi viene vendicato da un figliastro che Gonzalo ha avuto con un’altra donna, un tale Mudarra.
Per aver vendicato i sette infantes uccidendo Ruy Velasquez, dona Sancha lo prende sotto la sua protezione
come figlio. La cosa fondamentale è che quando Gonzalo Gustios vede le teste decapitate da Ruy Velazques
dei suoi sette figli, si lancia in un terribile lamento, che è una delle parti più commoventi della letteratura
spagnola. Questa storia avrà un tale successo da ispirare i romances del ‘400 e del ‘500. Ancor di meno
sappiamo del CANTAR DE FERNAN GONZALES, perché non abbiamo il testo nemmeno riportato nelle
cronache, abbiamo semplicemente la citazione di questo cantar nelle cronache successive, cioè si parla
dell’esistenza di questo cantar ma non ne abbiamo nemmeno un verso, quindi è impossibile capire di
quanti versi fosse composto e di che parlasse in particolare. Fernan Gonzales è uno dei personaggi storici
più importanti della Spagna perché si ritiene essere il fondatore della Castiglia. Il terzo cantar è il CANTAR
DE RONCESVALLES, di cui ci è giunto qualcosa. Era composto circa da 5500 versi ma ce ne sono giunti 100.
Teniamo conto che la poesia epica nasce quando si vuole passare da uno scopo di informazione ad uno di
formazione, cioè nel momento in cui non si vuole solo raccontare qualcosa ma si vuole insegnare qualcosa.
Il cantar di Roncesvalles appartiene al ciclo carolingio, che tratta la figura di Carlo Magno e delle sue
imprese. Il ciclo carolingio nasce in Francia. La Chanson de Roland (Roldan in spagnolo): Roland è il nipote in
Carlo Magno, suo seguace fedele, che porta avanti una delle coppie zio-nipote caratteristiche della
letteratura spagnola che troveremo anche nel Cid. Questo frammento di 100 versi rappresenta un
momento molto commovente della letteratura spagnola perché Carlo Magno ritrova i cadaveri dei suoi
seguaci Roldan, Oliviero e Turpin. Il cantar de Roncesvalles è scritto in castigliano medievale, ha le
caratteristiche dell’anisosillabismo e dell’assonanza e lo possiamo dire perché abbiamo parte del
manoscritto. È il diretto discendente dei cantares francesi, in particolare della Chanson de Roland.

Il camino de Santiago è un pellegrinaggio che si fa per andare a rendere omaggio alla tomba di san Giacomo
apostolo, a Santiago de Compostela in Galizia. Nasce intorno all’anno mille, perché nell’800 è stata rivenuta
questa tomba che si riteneva essere di san Giacomo. Questo unisce la Spagna e la Francia perché il camino
de Santiago passa anche attraverso la Francia. Questo passaggio tra Francia e Spagna e viceversa incontrava
anche coloro che potevano intrattenere i pellegrini durante il cammino. C’era quindi un interscambio di
culture, opere che venivano create al momento, personaggi su cui si cantava l’opera.

Nonostante la provenienza esplicita dalla chanson francese, nel Cantar de Roncesvalles ci sono elementi
prettamente spagnoli che fanno sì che la letteratura epica spagnola abbia uno sviluppo originale.
Il poema epico più conosciuto è il CANTAR DE MIO CID, che a differenza dei precedenti, ci è giunto quasi
integro. Sono giunti fino a noi 3730 versi e 74 folios (i fogli dei manoscritti su cui venivano trascritte le
opere. Comprende il fronte-retro). Ci è giunto QUASI integro perché mancano due folios iniziali e due
interni che fanno parte dell’ultimo cantar. La cosa importante è che ci è giunto quasi integro anche se non
conosciamo l’incipit, infatti si può dire che il Cantar de mio Cid comincia in medias res. Pidal ha studiato il
Cantar de mio Cid ed ha ricostruito dal punto di vista del contenuto, in prosa, i due folios persi dell’inizio.
Però come facciamo a sapere che c’erano due folios iniziali se sono stati persi? Siccome i folios avevano il
fronte-retro ed avevano una corrispondenza alla fine, come quando si strappa una pagina da un quaderno e
si stacca anche quella alla fine, ciò ha fatto capire che ci mancassero i due folios. Nonostante queste
mancanze, non manca all’interno dell’opera una parte importante della storia, non si perde tanto di quello
che doveva essere narrato, perché l’inizio ha un senso compiuto anche se comincia in medias res. Tante
cose restano incerte nonostante gli studi. Le problematiche legate al Cid sono sostanzialmente due: la data
di composizione e l’autore del testo. L’ultima pagina dell’opera contiene delle informazioni importanti sul
Cantar de mio Cid. Al terzultimo e quartultimo verso ci sono delle parole che ci danno informazioni sulla
datazione. Per quanto riguarda la datazione, partiamo dal presupposto che non conosciamo la data di
composizione dell’opera, né sappiamo se quest’opera sia stata rimaneggiata (collettivismo), com’era la
versione originale e com’è arrivata ad essere trascritta. Nel tempo sono state fatte varie congetture sulla
data dell’opera, per risalire alla quale si parte da elementi concreti, in questo caso il manoscritto, in cui
ritroviamo una parte che si chiama colophon (che deriva da una parola greca che significa finitura, cioè che
sta alla fine), che dava indicazioni su luoghi, autore, datazione ecc. Il colophon del Cantar de mio Cid ci dà
notizie importanti: ci dice un nome, Per Abbat, ed una data, 1245, una data che però non si sa se sia della
composizione dell’opera o della trascrizione del manoscritto. Per com’è scritta questa data, vediamo che c’è
scritto mil, CC (200 in numeri romani), poi c’è uno spazio che sembra qualcosa di cancellato, e poi cuarenta
y cinco anos. È stato pensato che probabilmente in questo spazio c’era un’altra lettera che poteva essere
un’altra C (quindi 1345). Non si sapeva a che periodo far risalire questo manoscritto, poi si è capito che in
quello spazio bianco dove ci sono anche dei tagli, in realtà non c’è mai stato nulla, ma è stato lasciato da chi
ha trascritto il manoscritto o per separare le centinaia dalle decine o perché, proprio perché la pergamena
era rovinata in quel punto, l’ha saltato. Gli spagnoli avevano un modo di contare gli anni diverso da quello
del resto dell’occidente, perché partivano da un punto 0 differente da quello preso dal tutto l’occidente
(cioè la nascita di Cristo), ovvero il 38 a.C, perché in questa data Giulio Cesare avrebbe diviso l’antica
Ispania in province, quindi gli spagnoli all’epoca cominciavano a contare gli anni dalla supposta data di
fondazione delle province romane. Per capire a che anno si riferisce il Cantar de mio Cid, dobbiamo fare
1245-38, cioè 1207. Il 1207 è la data della trascrizione (NO di composizione) del Cantar de mio Cid del
manoscritto giunto fino a noi.

4. LETTERATURA SPAGNOLA 16.03.21


Abbiamo assodato che la data del manoscritto è il 1207. Un’altra problematica è legata all’autore. Nel
colophon c’è scritto il nome di Per Abbat (un tale Pedro Abate) su cui si è fatta qualche ricerca, ma all’epoca
ce n’erano tanti quindi era difficile risalire alla sua identità. Possiamo partire dal colophon e capire che
ruolo ha avuto nella storia del Cid. Dopo il nome di Per Abbat c’è scritto “le escribio”, che nell’anno mille
poteva avere diversi significati, poteva significare scrivere, comporre, copiare, quindi Per Abbat, potrebbe
aver trascritto il poema da un canto orale precedente, oppure lo ha composto proprio lui. Fatti vari studi
sulla sua personalità, ma anche su quello che poteva significare il verbo “escribir”, si è comparato con altri
manoscritti dell’epoca di cui magari si sapeva chi aveva creato quel testo (non necessariamente letterario),
e si è visto che il verbo “escribir” era utilizzato solo per la copia, perché per la composizione originale veniva
utilizzato il verbo “fazer” (hacer). Se Per Abbat fosse stato l’autore del Cid, non avrebbe scritto “le escribio”
ma “lo fizo”. Di conseguenza, questo testo, manoscritto unico a cui mancano le due pagine iniziali e in
mezzo, risale al 1207 ed ha il nome di un copista, Per Abbat. Quindi il manoscritto non ci dice l’autore e la
data di composizione, su cui si sono fatti vari studi. Colui che ha fatto una delle prime supposizioni rispetto
all’autoria del Cantar de Mio Cid è Menendez Pidal, che ha fatto una delle edizioni critiche più importanti
sul Cid. Egli avanza due ipotesi, la prima è un’ipotesi individualista, cioè la teoria di un solo autore, che
secondo Pidal era un giullare di un posto chiamato Medinaceli, in provincia di Castilla y Leon, che avrebbe
composto tutta l’opera, poi però Pidal avanza un’altra ipotesi, cioè che fossero due autori, il giullare di
Medinaceli insieme ad un altro giullare di San Esteban de Gormaz. Quest’ultima era una teoria
tradizionalista perché nell’ipotesi di due autori probabilmente è stato rielaborato un poema anteriore al
1140 (supposta data di creazione del Cid) che era molto più vicino alla data della vita del Cid. Pidal,
studiando il testo, vede che il primo cantar e parte del secondo, hanno molte più cose in comune rispetto al
resto del poema, quindi Pidal pensa che il primo giullare ha vissuto in un periodo più vicino alle gesta del
Cid e quindi nel momento in cui le doveva raccontare, le raccontava in maniera più veridica rispetto a
quello che era accaduto, mentre la parte attribuita all’altro giullare è più recente perché inserisce degli
elementi più letterari e di fantasia che si discostano dalla vita del Cid. Queste due teorie vengono studiate
da vari autori e la maggior parte non è stata molto d’accordo con quella tradizionalista. I critici pensavano
fosse più valida la teoria individualista. Pensavano che la teoria individualista veda come unico autore un
autore colto, estraneo alla juglaria, non era probabilmente un giullare di quelli che raccontavano nelle
strade ed erano di umili origini, ma erano autori più colti che avevano composto questo poema che poi i
giullari andavano a cantare. Probabilmente se il Cid si attribuisse a due autori, deriverebbe da una lunga
tradizione popolare, da poemi anche più antichi che deriverebbero anche dalla cultura germanica.
Ritorniamo al problema della datazione. La data del manoscritto è il 1207, il nome che si trova nel colophon
è del copista, l’autore è quindi anonimo, e ci si chiede quando ha creato quest’opera. Il 1140 è la data
presunta di composizione del Cid, ci si è arrivati tramite l’analisi della scrittura del manoscritto e tramite
elementi interni al testo. Il 1140 è la data individuata da Menendez Pidal ed è la più accreditata dalle teorie.
Altri attribuiscono la composizione dell’opera al 1160, altri al 1180. Il 1140 è la data più appoggiata perché
la scrittura utilizzata nel manoscritto giunto fino a noi è una particolare scrittura chiamata gotico-rotonda.
Questa scrittura veniva utilizzata tra la fine del XII° secolo e l’inizio del XIII°. Ciò significa che l’opera è
sicuramente stata composta prima. Molte parole non avevano ancora la trasformazione dell’h all’inizio
della parola quando il termine latino iniziava per f, e le parole all’interno del testo mantenevano la “e”
finale. Tutte queste indicazioni ci danno la teoria per cui l’evoluzione delle parole con l’h iniziale e la caduta
della “e” finale avviene alla metà del ‘200. È importante il contenuto del Cantar de Mio Cid perché parla di
un personaggio storico. Il protagonista del Cid è Rodrigo Diaz de Vivar, realmente esistito, è un eroe
spagnolo la cui vita è attestata in diversi documenti. Egli vive in un periodo abbastanza sicuro. Nasce
intorno al 1040/50 a Vivar (nord della Spagna) e muore nel 1090/99 a Valencia. Avendo queste indicazioni,
possiamo pensare che le gesta di un eroe non venivano narrate contemporaneamente ai fatti, ma prima
che corresse la voce di quello che accadeva passava minimo una decina di anni. Quindi rispetto alla data
della morte del Cid, il 1140 rappresenta la possibile data in cui si è cominciato a creare il cantar su questo
eroe. L’opera viene quindi composta almeno una 50ina di anni dopo la morte di De Vivar, ma ci sono altri
elementi interni al testo. Si raccontano degli episodi in cui si ritrovano usi e costumi della società
medievale, che sono evoluti, quindi avendo l’attestazione di particolari usi e costumi, sappiamo che sono
elementi appartenenti ad un’epoca precisa. Il primo elemento è la presenza di alcuni personaggi che si
chiamano quiñoneros. Nel momento in cui si andava in battaglia e si riusciva a vincere, si tornava a casa con
un bottino, che doveva essere diviso tra coloro che avevano preso parte alla battaglia, a seconda del ruolo
avuto nello scontro ed a seconda del grado di importanza che si aveva nella stessa, e la divisione del bottino
era fatta proprio dai quiñoneros. Questa di dividere il bottino servendosi di questi personaggi era un’usanza
propria dell’epoca della probabile scrittura del Cid, anche un po’ precedente. All’interno del testo vengono
fatti molti riferimenti ai beni in denaro, quindi si riesce a risalire ancora una volta a quella data. Un altro
elemento sono alcune descrizioni di alcuni duelli e battaglie che si tengono all’interno del poema perché
sono, in alcuni casi, descritte armature e armi utilizzate, del tipo di movimenti che si facevano in battaglia.
Grazie a queste descrizioni si risale all’epoca in cui questi elementi esistevano. L’ultimo elemento, ma più
labile, è quello dei confini geografici, perché nel tempo i nomi cambiano o cominciano a scomparire.
Quindi, dati linguistici, biografici del protagonista, del contenuto del testo, riportano al 1140 come data più
sicura della composizione del Cid

Il Cantar de Mio Cid si divide in tre cantares: cantar del destierro (esilio, fuori dalla terra), cantar de las
bodas (le nozze), cantar de la afrenta de Corpes (è un luogo). La struttura interna di questo cantar è una
sorta di W, un po’ sghemba perché il punto 1 è un po’ più basso del punto 5. Le chanson de gesta francesi
avevano una struttura circolare, cioè si cominciava da un punto e bene o male si tornava allo stesso punto,
ad esempio l’eroe tornava a casa dopo le battaglie. Invece la struttura a W del Cantar del Cid ci dà proprio la
misura dei cambiamenti che subisce il protagonista durante la narrazione. L’argomento del Cid è un
alternarsi continuo di aspetti pubblici e privati di Rodrigo Diaz de Vivar. L’autore anonimo ha preferito
concentrarsi sugli aspetti privati della biografia del Cid, anche per suscitare l’interesse del pubblico.
Teniamo conto che il Cid reale, il personaggio storico, non è stato tra i più buoni della storia della Spagna.
Ogni punto della W rappresenta un momento fondamentale della vita di Rodrigo Diaz de Vivar, un
cambiamento, un’evoluzione. Bisogna fare una distinzione tra due termini utilizzati in spagnolo ancora oggi:
honor e honra. L’honor è quello pubblico, che bisogna mantenere nella società, quello che l’eroe deve
difendere davanti a coloro che lo seguono e lo ammirano. La honra è l’aspetto privato dell’onore, quello
che bisogna difendere rispetto al proprio ruolo nella famiglia. Honra e honor spesso si mescolano, perché
spesso l’aspetto pubblico nella vita del Cid si collega con quello privato. Il primo punto è quello in cui
comincia il Cantar de Mio Cid. Noi in realtà non abbiamo notizia del reale incipit del Cid ma Pidal ne fa una
ricostruzione: racconta di come Rodrigo Diaz de Vivar è un fedele vassallo del re Alfonso VI di Castiglia. Il
Cid non appartiene alla nobiltà di sangue. All’epoca esistevano la nobiltà di sangue (la discendenza di padre
in figlio dell’essere nobile) e l’hidalguia. L’hidalgo apparteneva a questa nuova nobiltà perché aveva
acquisito qualcosa con guerre, battaglie, donazioni. Hidalgo viene da hijo e algo, figlio di qualcosa. Gli
hidalgos venivano chiamati anche infanzones. L’infanzon era un nobile di basso rango, non legato alla corte.
Il Cid era un vassallo, un infanzon di Alfonzo VI, ma nonostante appartenesse a questa nobiltà “bassa” era
uno di cui il re si fidava molto. Per il fatto che fosse così amato dal re si trova tante inimicize, in particolare
da Garcia Ordoñez, il conte di Barcellona, che lo accusa al re di rubare i tributi che il Cid andava a riscuotere
dai mori. Il re aveva dato al Cid un compito importante cioè di andare a riscuotere le tasse dai mori che
occupavano le terre cristiane (dopo la cacciata dei mori, alcuni erano rimasti, ma dovevano pagare tasse al
re di Castiglia). Il re crede a Garcia Ordoñez e manda in esilio il Cid, che lascia la sua casa di Vivar, e
cominciano i versi del Cantar del Cid. il Cid, da grande seguace del re, obbedisce subito. Questa è la prima
caduta che subisce il Cid. Col Cid, in esilio, c’è un personaggio che si chiama Alvar Fañez, il nipote del Cid. Il
comportamento del Cid non è quello di un uomo che ha subito un torto, ma è l’atteggiamento del fedele
vassallo, di colui che continua ad avere fiducia nel suo re e cerca di riacquistare la sua fiducia, infatti va in
esilio e comincia una propria personale reconquista combattendo i mori con il suo piccolo esercito, ogni
volta che conquista una terra manda parte dei bottini al re, perché non dimentica l’amore che prova per il
suo signore. Rincontra il conte di Barcellona, lo imprigiona ma poi lo libera per la sua generosità. Così finisce
il primo cantar. La prima caduta del Cid, cioè l’esilio, comincia ad avere una risalita. Il punto massimo della
risalita del Cid (punto 3 della W) è quello in cui conquista la città di Valencia, una delle più importanti città
occupate dai mori. Insieme ai bottini che manda al re, manda anche la richiesta di potersi riunire con la
moglie e le figlie. Rodrigo Diaz de Vivar ha una moglie (doña Jimena) e due figlie (Elvira e Sol). Quando il re
riceve questa richiesta, acconsente, quindi permette l’unione del Cid con le sue donne, che lo raggiungono
a Valencia.

Gli invidiosi cominciano a tramare nei confronti del Cid. Garcia Ordoñez ha due nipoti, gli infantes de
Carrion, che invidiosi del percorso che sta facendo il Cid e invidiosi della benevolenza del re verso il Cid,
tramano alle sue spalle e chiedono in spose le figlie di Rodrigo Diaz de Vivar, che non aveva intenzione di
accettare perché aveva capito che ci fosse qualcosa sotto, ma Alfonso VI acconsente alle nozze e Rodrigo
Diaz non poteva dire di no. Quindi gli Infantes de Carrion sposano le figlie del Cid, iniziamo un po’ a
scendere dal punto 3. Cosi, finisce il secondo cantar. Nel terzo cantar ci sono diversi episodi che mettono in
luce la codardia di questi due infantes, codardia che veniva molto derisa alla corte del Cid. Chiedono di
portare con loro le due donne a Carrion, nella loro patria, e nel viaggio verso Carrion si fermano nel
querceto di Corpes dove denudano le figlie e le percuotono, lasciandole quasi morte. Questo è l’affronto
fatto alle figlie del Cid e al Cid stesso. Questa è la seconda caduta, il punto 4. Da questo momento può solo
risalire. Chiede ad Alfonso VI di incontrarsi e chiede vendetta, soprattutto perché era stato Alfonso VI a dare
il beneplacito di questo matrimonio. Chiede la riparazione dell’offesa subita, e il re acconsente, in questo
caso è lui a non dire di no. La prima cosa che fa il Cid è farsi restituire le due spade che lui aveva regalato ai
suoi generi, le spade si chiamavano Colada e Tizon. Dare il nome alla spada significa darle un’identità,
creare una sorta di legame, il fatto di averle regalate ai suoi generi rappresentava una dimostrazione di
fiducia nei loro confronti, e ritirandosele ritira tutta la fiducia, e pretende che i due infantes si scontrino a
duello con due dei suoi seguaci, che vincono e i due infantes vengono cacciati dal regno. Il recupero
dell’onore non gli fa recuperare anche l’alto grado nobiliare che aveva raggiunto dopo le nozze. Questo
grado viene recuperato perché mentre si conclude il duello e gli infantes vengono cacciati, si presentano
due ambasciatori degli infanti di Navarra e Aragona, che chiedono le mani delle figlie del Cid, che
acconsente. Il punto 5 è più in alto del punto 1 perché ottiene ancora di più di quanto aveva. La morte del
Cid è un elemento molto insignificante rispetto a tutto il resto, ne sono dedicati pochissimi versi perché la
cosa fondamentale è tutto ciò che ha fatto in vita. Possiamo trovare due sequenze parallele nei 3 cantares,
questo ci conduce a quella omogeneità che ci fa dire che è un solo autore ad aver composto il Cid, nei 3
cantares ci sono tre fasi uguali di uno stesso processo: la crisi di partenza, la riparazione della crisi e il
successo finale. Questo schema triadico è diffuso in molti racconti non solo medievali ma anche
contemporanei.

5. LETTERATURA SPAGNOLA 22.03.21


La volta scorsa abbiamo analizzato i contenuti del Cantar, com’è suddiviso, quali sono le teorie fatte sulla
datazione e sull’autoria e abbiamo visto lo schema a W con le cadute e le risalite dell’eroe. Abbiamo
accennato alla compresenza di elementi della vita pubblica e privata del Cid, cioè di Rodrigo Diaz de Vivar.
Compresenza perché questi due elementi non sono scissi, non si parla mai prima del pubblico e poi del
privato o viceversa, questi piani si sovrappongono o coincidono. L’autore anonimo (un giullare o qualcuno
più colto) ha messo in risalto da una parte, ma in maniera più debole, l’aspetto religioso, dall’altra l’aspetto
del recupero dell’onore da parte dell’eroe. Il Cid è un eroe nazionale, è fedele alla patria e al proprio re,
Alfonso VI, ma probabilmente la scelta di alcuni aspetti invece di altri riflette un po’ la visione della vita che
aveva questo autore. Ha messo in risalto che un piccolo nobile (un infanzon, nobile non di sangue) è stato
scacciato, e si affida alle proprie conquiste, alle proprie gesta, per tornare ad acquisire questo onore ed una
sorta di rinascita. Quindi, gli aspetti messi in risalto dall’autore, non riflettono necessariamente gli
avvenimenti storici a cui si fa riferimento nel testo. Questi aspetti riguardano sia la sfera pubblica sia quella
privata. All’onore pubblico appartiene la voglia di recuperare il suo onore agli occhi della società con le
imprese e le conquiste, o il far parte di una corte, il privato invece riguarda il matrimonio delle figlie, la vita
della famiglia del Cid, l’oltraggio subito dalle figlie. Si può parlare di tre momenti importanti in cui si
sovrappongono pubblico e privato: il primo momento è la prima caduta del Cid, quando viene esiliato, in
questo caso pubblico e privato coincidono perché nel momento in cui viene esiliato, riceve un’offesa verso
la sua persona, e allo stesso tempo c’è un peggioramento della stabilità della società in cui vive il Cid perché
c’è una guerra interna nella corte dove vive il Cid. il secondo momento è quello del miglioramento della
condizione personale, la risalita verso il punto 3, cioè il Cid sta riconquistando delle terre e si sta riscattando
rispetto a quanto successo in precedenza, e ciò gli viene riconosciuto, allo stesso tempo c’è un
miglioramento della condizione economica del regno di Castiglia a cui appartiene il Cid, proprio perché sta
conquistando delle terre e mandava i bottini al re. L’ultimo momento è alla fine, l’apice del recupero
dell’honor e della honra da parte del Cid, perché vince sui nemici, viene riscattato il suo onore dopo
l’oltraggio alle figlie, allo stesso tempo c’è la reintegrazione del Cid nella società, e si viene a creare
equilibro, la collettività appoggia il bene. Quindi pubblico e privato sono inscindibili. L’autore, tuttavia, dà
più importanza all’elemento privato del Cid, come si evince ad esempio dai titoli dei cantares. Partendo da
quello del “destierro”, il destierro si riferisce al Cid, così anche quello “de las bodas” che si riferisce alle
figlie, ed anche “la afrenta de Corpes” riguarda le figlie del Cid e di conseguenza il suo onore. Un altro
esempio riguarda la conquista di Valencia, che avrebbe dovuto occupare tutto il secondo cantar, invece ne
viene data un’importanza molto relativa, viene data più importanza al ricongiungimento del Cid con la
moglie e le figlie. Questo perché uno spettatore che appartiene al popolo si può ritrovare molto di più nelle
vicende intime del protagonista, dato anche il fine dell’opera che è quello di insegnare (deleitar
aprovechando). L’autore del cantar de Mio Cid, può aver preso spunto dalle cronache che parlavano di
Rodrigo Diaz de Vivar, un eroe che compare in tanti documenti e cronache dell’epoca, quindi il contenuto
storico del Cid è presente all’interno di quest’opera (realismo storico). Oltretutto sono narrati anche degli
episodi storici come appunto la presa di Valencia nel 1094. Si dà maggiore importanza ai fatti privati perché
è un’opera letteraria.

All’interno del testo ci sono riferimento che potevano non conoscere tutti. Ad esempio, il Cid va in esilio nel
1081, quindi aveva dai 40 anni in su, e nei primi versi si parla di un luogo che si chiama Sierra de Miedes, un
valico montuoso che all’epoca, solo per quattro anni, divideva il territorio di dominazione araba da quello
spagnolo. Sierra de Miedes viene citato dal poeta come un punto di confine e dice dove si trovava
esattamente, questo significa che l’autore aveva ben chiara la geografia dell’epoca e i vari spostamenti di
potere tra gli arabi cristiani ecc. altro esempio: nomina numerosi personaggi minori che non compaiono in
cronache importanti ma in documenti minori, quindi l’autore si informava molto. Ci sono degli
allontanamenti dalla realtà che si può pensare che siano sbagli ma in realtà si rifanno a delle scelte
letterarie dell’autore: il Cid lascia moglie e figlie nel monastero di san Pedro de Cardeña, il sacerdote a capo
di questo monastero, si chiama don Sancho, ma in realtà il vero nome di questo abate era Sisebuto, ed era
una personalità molto importante, perché questo monastero rappresentava un fulcro importante nel
territorio in cui si trovava, per cui poteva essere molto difficile non conoscere il nome di questo abate, ma
l’autore decide di chiamarlo don Sancho. Secondo caso: abbiamo menzionato il personaggio di Alvar Fañez,
nipote (sobrino) del Cid, uno dei primi vassalli che segue il Cid in esilio. È quello che spesso il Cid invia ad
Alfonso VI per inviargli i bottini. In realtà, nelle cronache che riguardano la vita del Cid, Alvar Fañez non
segue il Cid in esilio, resta a corte. Quindi un personaggio storico realmente esistito, ma che all’interno
dell’opera cambia la sua vita. Terzo caso di diversità sono i nomi delle figlie del Cid, che nel poema sono
Elvira e Sol ma nella realtà sono Cristina e Maria. Questi sono cambiamenti che l’autore del poema fa
all’interno del poema stesso, oltre al fatto che il Cid non era poi così buono come viene descritto, ma per
insegnare qualcosa e trasmettere esempi l’eroe descritto dev’essere necessariamente buono.

Pidal, tramite la sua teoria tradizionalista, aveva pensato che questi “sbagli” fossero dovuti al fatto che
erano stati fatti dal presunto secondo autore, che cronologicamente viveva più lontano dal Cid. Ma la teoria
che prevale è quella individualista, cioè quella di un solo giullare che crea tutti e tre i cantares, e la teoria è
che questi allontanamenti dalla realtà siano dovuti al rispetto di alcuni canoni letterari. Lo “sbaglio” che
riguarda don Sancho ed i nomi delle figlie del Cid, sono attribuibili alla versificazione, cioè probabilmente il
nome Sisebuto non solo era più difficile da ricordare, per l’oralità, ma era anche più difficile trovare rime
anche se assonanti, oppure si doveva trovare un verso che si adattasse a un nome così lungo; la stessa cosa
per Elvira e Sol, Cristina e Maria rendono la versificazione e la rima più pesanti. Il cambiamento dei nomi
avviene per una questione di praticità della versificazione. Per quanto riguarda Alvar Fañez, che nella realtà
non segue lo zio in esilio, nel testo invece l’autore segue un canone letterario molto in voga al tempo, il
rapporto tra zio e nipote che abbiamo già nominato (chanson de Roland, gli Infantes de Carrion). Questo
sistema narrativo prevedeva il rapporto tra lo zio materno ed il nipote. Dobbiamo pensare alla struttura
familiare della società cavalleresca del tempo: una donna veniva data in sposa ad un uomo insieme a una
dote, che era un’eredità, e l’uomo poteva usufruire di questa eredità come voleva. Quindi per cercare di
mantenere da parte della famiglia della donna un controllo su questi beni, il fratello della sposa di solito
aveva una sorta di predilezione per il figlio maschio che nasceva dal matrimonio. Cioè c’era comunque un
legame tra lo zio materno e il nipote, per continuare a mantenere una sorta di controllo da parte della
famiglia di lei sull’eredità. Quindi tra zio e nipote, per questo motivo economico, si viene a creare una
relazione molto stretta che si riflette nella letteratura. Per questo motivo, l’autore fa in modo che il seguace
più fedele del Cid sia proprio suo nipote, mette in scena questa stretta relazione perché è credibile e
fondata su quanto accadeva all’epoca. Ultimo elemento che non rispecchia la realtà storica dei fatti
riguarda gli infanti di Carrion, coloro che sposano le figlie del Cid. Gli infanti di Carrion sono dei personaggi
storici realmente esistiti, che nelle cronache storiche non risultano mai lontani dal proprio territorio.
Questo è strano perché in realtà, nel momento in cui perdono il duello perché sconfitti dai seguaci dei Cid,
dovrebbero essere esiliati. Invece dalle cronache, è attestato che si trovano nel loro regno. L’autore li fa
cacciare dal regno per seguire il canone letterario della lotta tra bene e male, cioè nel momento in cui il
cattivo vince, non c’è un insegnamento (quello che il bene deve vincere). Quindi, seguendo la lotta tra bene
e male, e la conseguente ed inevitabile sconfitta del male, i cattivi devono essere puniti. Nel testo, i cattivi
vengono puniti e sconfitti, NON uccisi, perché il Cid è anche benevolo verso ii suoi nemici.

L’ultimo elemento che analizziamo sul piano del contenuto è quello della società all’interno dell’opera.
Vediamo come si riflette la realtà sociale dell’epoca all’interno del poema epico, in cui troviamo tre gruppi
sociali in cui era divisa la società del tempo: oratores, bellatores e laboratores. È significativo che nei primi
versi del Cid ritroviamo tutti e tre questi ordini sociali, cioè l’autore mette già in chiaro il tipo di società che
sta descrivendo, in cui si muove l’eroe. È significativo che questi tre ordini sociali siano delineati con le loro
caratteristiche; quindi, non si fa un riferimento vago ma a seconda dell’ordine sociale c’è un diverso
atteggiamento. Ai bellatores appartengono il Cid, i seguaci del Cid ma anche i malos enemigos. Sono coloro
che vanno in guerra (bellum dal latino). Entrambe le nobiltà nel Cid (nobili di sangue e nobiltà acquisita)
fanno parte dei bellatores. Gli oratores sono rappresentati da don Sancho e dai monaci che si trovano a San
Pedro de Cardeña. Vengono descritti come indipendenti dal volere del re, perché come leggeremo don
Sancho non si tira mai indietro quando il Cid gli chiede aiuto per ospitare le sue donne, cosa che avrebbe
potuto fare in quando il Cid era stato esiliato dal re, e quindi avrebbe potuto ricevere una recriminazione da
parte del re, invece don Sancho, in maniera indipendente, accoglie moglie e figlie del Cid. Gli oratores sono
coloro che pregano, che fanno parte del clero (dal verbo latino orare). Il clero era un ceto sociale a parte,
non era sottomesso al volere del re. I laboratores (labor) sono coloro che lavorano e sopravvivono grazie al
lavoro delle proprie mani. Essi devono sottostare necessariamente al volere del re. Questi tre gruppi sociali
vengono descritti quasi all’inizio dell’opera proprio per far “ambientare” il pubblico.

Il numero delle sillabe all’interno di un verso è sempre diverso. Il Cantar de mio Cid segue l’anisosillabismo.
Le sillabe all’interno non si contano con la divisione in sillabe normale. È una conta che si fa affidandosi alla
tonicità delle vocali. La rima è assonante. Anche il numero di versi all’interno di una strofa è disuguale. A
differenza delle poesie che verranno successivamente, come per esempio nel sonetto in cui troviamo due
quartine e due terzine, nel poema epico non c’è una struttura fissa delle strofe. La strofa del poema epico si
chiama lassa o tirada. La poesia epica viene divisa in questo modo secondo dei criteri. Il criterio che tiene
unito la lassa è l’argomento di cui si parla. Ogni lassa, breve o lunga che sia, tratta un determinato
argomento. Se nella prima lassa la rima assonante è “A-O”, nella seconda lassa la rima assonante è “E-A”.
Quindi l’argomento e la rima assonante tengono insieme una lassa. La struttura esterna del Cid è composta
da tre cantares, ogni cantar è diviso in lasse o tiradas, ogni lassa ha un suo argomento che la tiene insieme
ed una sua rima. All’interno delle lasse c’è l’anisosillabismo, perché ogni verso ha un numero differente di
sillabe. Questi versi, che hanno un numero di sillabe diverso, hanno una particolare struttura: il verso di
solito è di 14 sillabe cioè alessandrino, ed è diviso in due parti chiamate emistichio (emi significa metà,
metà verso) e la parte bianca ovvero lo spazio tra i due emistichi si chiama cesura. Un verso così lungo non
poteva avere un’unica accentazione, che dà il ritmo al poema, cantare il verso diventava pesante se i versi
erano molto lunghi, quindi veniva diviso in due emistichi, ognuno dei quali ha una propria accentazione. Il
castigliano medievale non si legge come quello moderno. La “f” seguita da vocale, si legge aspirata. La “j” e
la “g” seguite da vocali “e” ed “i” corrispondono alla “g” di gentile. La “x” si pronuncia “sh”. “c” seguita da
“e” o “i” si legge come la “z” di forza. “B” e “v” si leggono come nello spagnolo moderno, anche “ch” e la
“ll” e come anche la ñ

6. LETTERATURA SPAGNOLA 23.03.21


1. Cantar del destierro (esilio). Il Cid abbiamo detto che va in esilio nel 1081, quindi questo è l’anno in cui è
ambientata la prima parte del cantar, poi col passare della narrazione il cantar prosegue negli anni. In
letteratura c’è un’epoca della narrazione ed un’epoca del narrato, l’epoca dell’azione è quella in cui si
sviluppa l’azione raccontata, invece il momento della narrazione è il momento in cui si sta narrando quello
che è accaduto. Il momento dell’azione è il 1081, il momento della narrazione è il momento in cui è stato
creato il cantar che è una data ipotetica.

Strofa 1: la prima immagine che ci viene data di quest’uomo, è un uomo che piange. Questo piangere
fortemente dagli occhi è una figura retorica che sottolinea il fatto del piangere, non si può piangere se non
dagli occhi, però sottolinearlo dà ancora di più la misura di quanto stesse soffrendo quest’uomo. Un uomo
che piange, soprattutto all’epoca dove c’era la figura del soldato/cavaliere forte, non era visto bene. In
questo caso invece la figura dell’eroe che piange, è una figura umana e vicina al pubblico. L’inizio è in
medias res, ma la prima cosa che viene detta è che quest’uomo piange. Non ci si può che affezionare ad un
uomo che sta piangendo, soprattutto perché ha subìto un torto. La situazione: un uomo che piange perché
si volge indietro a guardare quello che sta lasciando, la sua casa, la quale ha delle caratteristiche, ci sono
“pielles” e “mantos” citati che sono dei particolari della nobiltà. Si capisce quindi che siamo davanti a un
uomo che ha dei sentimenti, che è umano, che si sta allontanando dalla sua casa dove non ci sono più pelli
e manti, quindi significa che c’erano e che fa parte della nobiltà, ancor di più perché si parla di falconi e
astori, che sono degli uccelli utilizzati nella caccia (attività dei nobili). Al verso 6 si inizia a dire “mio Cid”:
l’aggettivo mio rappresenta un’appartenenza, uno schieramento da parte di quest’uomo. “Cid” viene
dall’arabo e significa “signore”. Il Cid soffre grandi dolori e preoccupazioni. Il Cid non parla moltissimo o a
vanvera, ma quando parla dice cose esatte, perfette, e in maniera misurata. Le prime parole che
conosciamo del Cid sono un ringraziamento a Dio. Il fatto di essere credente fa parte del suo essere, si
rivolge a Dio sia per ringraziarlo sia per pregarlo nei momenti di difficoltà. C’è una contrapposizione tra il
“bien e tan mesurado” come parla il Cid e “los enemigos malos” che hanno parlato contro di lui.

Strofa 2: appena cominciano ad allontanarsi da Vivar a cavallo, hanno un presagio. Il realismo storico è
presente, ma se c’è qualcosa al di là della concretezza storica si collega alle credenze popolari, in questo
caso abbiamo un presagio dato da queste cornacchie che vedevano passare all’uscita di Vivar. Quando
escono da Vivar hanno le cornacchie a destra, quando entrano a Burgos le hanno a sinistra. Questa doppia
visione delle cornacchie è una doppia previsione, la cornacchia a destra significa “sfavore”, qualcosa di
negativo che ci si lascia alle spalle, mentre entrando a Burgos (la prima città che il Cid incontra in esilio) ha
un “augurio favorevole”. C’è una sorta di previsione da parte dell’autore, tramite una credenza popolare,
che prevede un futuro roseo per le azioni del Cid. Si rivolge per primo ad Alvar Fañez, che nella realtà non
accompagna lo zio in esilio, ma per il canone letterario zio-nipote lo troviamo qui, e gli dice “ci hanno
cacciati dalla nostra terra, dobbiamo solo guardare avanti con questo presagio positivo”

Strofa 3: arrivano a Burgos, la prima città in cui s’incontra qualcun altro che non sia un seguace del Cid. I
primi seguaci del Cid sono solo 60 (verso 16), li chiama “pendones” perché pendones era il riconoscimento
che veniva dato ai nobili quando aiutavano il re in guerra, significa soldati fondamentalmente, coloro che
partecipavano alla guerra. A Burgos arriva quindi questo piccolo esercito di 61 persone compreso il Cid, e
tutti si affacciano per vedere chi sta arrivando, ma tutte queste persone già sapevano cos’era successo,
tant’è che tutti gli abitanti piangevano anche loro disperati. C’è un opposizione più sottile “que buen
vassallo,…si oviesse buen señor”, c’è un congiuntivo, il congiuntivo è dell’impossibilità, ciò significa che
Alfonso VI, non era un “buen señor” ma invece è un buon vassallo il Cid. Alfonso VI passa dalla parte del
torto. Anche i laboratores che incontriamo in questo caso sono coloro che si schiarano col Cid. I pendones
corrispondono ai bellatores. Già abbiamo due delle tre categorie della società di cui abbiamo parlato.

Strofa 4: abbiamo un esempio della completa sottomissione dei laboratores al re. Al verso 25 abbiamo “no
l’ diessen”, è un’unione di due parole che sarebbe “no le diessen”, per contare una sillaba in meno ed
averne 14. Gli abitanti di Burgos avrebbero voluto accogliere il Cid col suo seguito, ma non possono, perché
era arrivata a Burgos una lettera letta da un messo del re, in cui si diceva che nessuno avrebbe dovuto
ospitare il Cid nelle proprie case. Era una lettera importante “fuertemente sellada”, affinché nessuno desse
ospitalità al Cid, a chiunque avesse offerto casa, cibo o averi al Cid, sarebbero stati tolti tutti i propri averi e
sarebbero stati cavati gli occhi (sarebbero stati uccisi). Il re era fortemente convinto che il Cid l’avesse
tradito, i malos enemigos erano stati persuasivi nel convincere il re ad andargli contro. I laboratores
soffrivano per quello che loro non potevano fare (“grande duelo”) e si nascondevano. Si parla molte volte di
“puerta cerrada”, ci sono molte immagini di chiusura completa verso il Cid. In aiuto del Cid e dei suoi
seguaci arriva una bambina di nove anni, che è l’unica che nella sua ingenuità può parlare al Cid. Notiamo
che lo chiama “campeador en buen ora cinxiestes espada” (in un buon momento cingeste la spada), sta
indicando un epiteto positivo del Cid ovvero che è un buon soldato, chi cinge la spada in un buon momento
significa che è un personaggio forte. La bambina gli racconta della lettera che era arrivata da parte del re,
del fatto che loro non potevano ospitarlo e che hanno paura di ospitarlo perché perderebbero tutto,
compresa la vita. Gli chiede di non mettere gli abitanti in difficoltà. L’intervento di una bambina innocente
fa’ si che il Cid prenda coscienza della situazione, si rende conto che lui deve necessariamente abbandonare
questa terra. Successivamente c’è scritto che giunge a Santa Maria, poi arriva fuori città e mette le tende,
deve trovare un posto dove stare. La lassa 4 è lunga ma parla di un unico argomento, racconta del
passaggio e l’uscita da Burgos. Il narratore decide di raccontare più volte cose che riguardano il Cid, in
questo caso sottolinea più volte che il Cid è solo e nessuno lo accoglie.

Strofa 5: compare un altro personaggio che sarà molto importante, Martin Antolinez, un uomo di Burgos
che nonostante quanto detto precedentemente, porta dei viveri al Cid e ai suoi. Va contro la legge ma
relativamente. Al verso 70 “odredes lo que ha dicho” è una formula che rappresenta il giullare che si rivolge
direttamente al pubblico e significa “state per ascoltare ciò che ha detto”, per richiamare l’attenzione.
Martin Antolinez dice che probabilmente sarà accusato da re Alfonso VI, quindi si unisce a loro. Egli non
solo aiuta il Cid ed i seguaci, ma si unisce a lui, perché non ha niente da perdere.

Strofe 6-7-8: il Cid è anche furbo. Nel momento in cui Martin Antolinez propone di unirsi al suo esercito, il
Cid lo accoglie molto volentieri perché è un bravo soldato (“sodes ardida lanca”) e gli dice che gli darà una
doppia paga nel momento in cui riuscirà a ritornare vivo in patria. Afferma che questo stratagemma che
riguarda la presa in giro, deve farlo necessariamente. Il Cid chiede ad Antolinez, l’ultimo arrivato, anche per
metterlo alla prova, di costruire due arche (piccoli bauli), nelle quali dice di inserire della sabbia affinché
sembrino piene e ben pesanti, e al di fuori rivestirle di cuoio rosso pregiato con i chiodi dorati affinché si
pensi che nelle arche ci sia qualcosa di prezioso. Lo stratagemma del Cid è far finta che queste due arche
siano piene di beni preziosi, e chiede ad Antolinez di andare a cercare due personaggi, Rachel e Vidas, che
sono due ebrei (all’epoca erano ricchi). Essi vengono fatti chiamare dal Cid perché, siccome a Burgos non
può comprare, il re ce l’ha con lui ecc deve fare necessariamente qualcosa. Antolinez cerca questi due
personaggi a Burgos per portarli dal Cid

Strofa 9: Antolinez trova Rachel e Vidas, gli racconta che il Cid ha vinto tante ricchezze in battaglia e in più è
andato a riscuotere i tributi annuali (“parias”) che i mori pagavano ai cristiani quando restavano nei territori
riconquistati dai cristiani. Questi tributi che lui aveva trattenuto per sé, e per cui era stato accusato, erano
stati raccolti in due arche. Antolinez dice che queste due arche sono talmente pesanti ed ingombranti, che
non può portarle appresso, quindi le affida a loro in cambio di denaro da dare al Cid e ai seguaci, affinché le
due arche rimangano come una promessa del ritorno del Cid per rendergli quanto prestato. *al verso 103
“O” è l’odierno “donde”, al verso 120 “y” è un avverbio di luogo”*. Rachel e Vidas rispondono
positivamente. La prima immagine che troviamo di questi due personaggi nei primi versi della lassa 9 li
ritrae mentre contavano i soldi, quindi hanno solo interessi economici. Essi sanno che il Cid aveva
guadagnato tanto, gli era arrivata la notizia che fosse ricco e quindi ci credono che in quelle arche potessero
esserci dei beni, quindi decidono di prendere quest’offerta, ma soprattutto chiedono cosa avrebbero
guadagnato. Antolinez subito risponde che gli ridarà 600 marchi. Seguono momenti di contrattazioni, alla
fine accettano. Arrivano alla tenda del Cid e s’incontrano. Al verso 155, dopo che Rachel e Vidas gli hanno
baciato le mani in segno di rispetto, il Cid dice “mi avete già dimenticato?” ciò significa che il Cid in
precedenza aveva già avuto dei rapporti con i due ebrei. La cosa importante è che si ripete nuovamente
questo accordo (v 160), secondo il quale per le due arche che dovranno custodire fino alla fine dell’anno,
avranno 600 marchi. Però c’è una clausola, cioè Rachel e Vidas non avrebbero mai dovuto aprire le arche
altrimenti non avrebbero più ricevuto i soldi. Le arche erano così pesanti che avevano difficoltà a caricarle
in spalla, quindi pensavano fossero davvero piene di soldi. I due ebrei erano molto contenti perché con
quello che avrebbero ricavato avrebbero potuto vivere bene tutta la vita. Questo episodio mostra che il Cid
pur di aiutare coloro che lo seguivano e di riuscire a fare la sua risalita, arriva anche a fare cose scorrette

Strofa 11: Rachel e Vidas sono molto grati a Martin Antolinez per aver fatto da mediatore in questo affare,
quindi gli danno 30 marchi, questo sottolinea come siano ingenui i due ebrei. Martinez ritorna
all’accampamento del Cid, e diventa ufficialmente un suo vassallo in seguito all’abbraccio del Cid. Antolinez,
da bravo vassallo, condivide i 30 marchi guadagnati col Cid e i seguaci. Si preannuncia la prossima tappa che
è San Pero de Cardeña, dove il Cid affida a don Sancho la moglie e le figlie.

7. LETTERATURA SPAGNOLA 29.03.21


Strofa 14: la prima cosa da notare è la differenza tra l’atmosfera che il Cid trova a Burgos (strade vuote,
silenziose, senza persone che lo accolgono, chiusura completa) e quella attuale che è un’atmosfera
luminosa, tant’è che il Cid arriva all’alba, quindi è come se avesse lasciato le tenebre alle sue spalle.
Troviamo don Sancho che stava recitando le preghiere della mattina, la moglie del Cid con cinque dame del
suo seguito che pregava. C’è un’appartenenza religiosa molto forte.

Strofa 15: opposizione tra Burgos e San Pedro de Cardeña, qui troviamo gli oratores, coloro che facevano
parte del clero e potevano anche non tener conto delle richieste del re, perché clero e nobiltà erano sullo
stesso piano. Don Sancho era “alegre” all’entrata del Cid in monastero. Parla direttamente il giullare, colui
che sta raccontando questo episodio e che deve esprimere la felicità di don Sancho. ll Cid a Burgos dà calci
nelle porte per essere aperto, qui bussa alla porta e tutti gli vanno incontro con lampade, candele e grande
gioia. C’è una grande opposizione di accoglienza tra coloro che dovevano sottostare al re rispetto a coloro
che potevano anche non rispettarlo. Il contenuto di questa lassa è la richiesta di aiuto del Cid non per se
stesso ma per i suoi familiari (moglie e figlie). Al verso 255 ci indica quanto fossero piccole le figlie del Cid
(niñas) e chiede che vengano accolte. C’è questo affidamento nelle braccia di don Sancho e quindi di tutti
coloro che erano al monastero, affinché le protegga, e in cambio di questa protezione il Cid offre 50 marchi
che è la ricompensa immediata, però aggiunge che se riuscisse a tornare vivo ne avrebbe dati il doppio,
quindi il Cid è sicuro del fatto che avrà il denaro quando tornerà perché sa che lui potrà guadagnarlo con le
battaglie. Per la moglie offre 100 marchi come ricompensa immediata. Poi c’è una ricompensa futura (v
260): “per ogni marco che spendete io ve ne darò 4”. Prima era un uomo senza soldi, che si allontana dalla
propria patria senza nulla, ed ora invece promette ricchezze proprio perché sa che potrà riscattare sua
moglie e le figlie. Al verso 262 c’è un afevos, che serve ad introdurre una scena, è una di quelle frasi che
utilizzano i giullari per tenere alta l’attenzione e significa “ecco a voi”, come se nello spettacolo stesse
entrando in scena un personaggio, e in questo caso stanno entrando doña Ximena e le figlie, la prima cosa
che fa Ximena davanti al Cid è piegare le ginocchia, segno di rispetto e sottomissione. Anche la moglie
utilizza l’aggettivo malos, si sottolinea la differenza tra buoni, il Cid è stato scacciato dalla patria per dei
cattivi cospiratori.
Strofa 16: è terribile la sofferenza che prova il Cid quando deve staccarsi dalla moglie e dalle figlie. Al verso
268 abbiamo “barba tan conplida”, uno degli appellativi che ritroviamo per il Cid, abbiamo visto che nacque
in un buon momento, in un buon momento cinse la spada e spesso si farà riferimento alla barba del Cid, a
volte anche fiorita. La barba in questo caso è ben curata, la barba è segno di virilità, onore, rispetto,
dell’essere invincibile. Quanto più lunga è la barba, tanto più è rispettabile e saggio il personaggio, una
barba ben curata rappresenta un uomo onorevole e forte. Ximena parla con il Cid chiedendo di essere
aiutata. Due sposi si promettono di essere insieme fino alla morte, in questo caso invece devono separarsi
in vita. V. 274, il Cid abbassa le sue mani, prende le sue figlie in braccio, le avvicina al proprio cuore perché
le voleva molto bene, piange ancora dagli occhi (umanità verso qualcosa di privato).

Strofa 17: il Cid era partito con 60 pendones, ora, dopo che si fa un banchetto molto ricco, suonano le
campane (opposizione col silenzio di Burgos), si comincia a spargere la voce in Castilla che il Cid è stato
esiliato, e molti senza sapere quale sarebbe stata la sorte del Cid e di chi lo seguiva, si aggiungono a lui, si
trova ancora a san Pedro de Cardeña e ci sono 115 cavalieri, tra cui Martin Antolinez che li raggiunge
nuovamente. Appena il Cid viene a sapere che ci sono tutti questi uomini che vogliono unirsi a lui per
seguirlo, prende il cavallo e va incontro a questi uomini, è felice (v 298a), finalmente sorride dopo aver
pianto tanto ed è più fiducioso verso il futuro. Tutti gli baciano la mano, anche a loro promette ricchezze, gli
dice che coloro che avevano lasciato la propria terra e le proprie case per lui sarebbero stati ricompensati
con il doppio. Erano già passati 6 giorni, il re ne aveva dati 9 al Cid per lasciare la patria, quindi il re lo
teneva sotto controllo per vedere se realmente fosse partito per l’esilio, perciò il Cid dice ne mancano
ancora tre, di giorni per lasciare la patria.

Prima del verso 366, il Cid deve salutare la moglie e le figlie, partecipano ad una messa, e c’è una lunga
preghiera da parte di Ximena che riprende tante citazioni dai passi biblici dove esalta le doti di suo marito,
chiede protezione a Dio per salvarlo da ogni male.

Verso 366: la cosa fondamentale è che si prega, dopo c’è il saluto tra il Cid e le sue donne. La cosa
fondamentale è questa figura al verso 375, cioè il distacco, la separazione tra il Cid, la moglie e le figlie, è
tanto doloroso come il distacco delle unghie dalla carne. L’autore ha voluto sottolineare questo momento
con una figura che dà proprio la sensazione di quel dolore. Quando il Cid prova tristezza e si sente
abbattuto, c’è qualcuno che interviene in suo aiuto ed è quasi sempre Alvar Fañez suo nipote, che lo
rassicura dicendo che devono mettersi in viaggio ma anche dicendo che tutti questi dolori diventeranno
gioie (riferimento alle cornacchie, c’è sempre la previsione di qualcosa di positivo). Affida le figlie all’abate
don Sancho che è consapevole di ricevere una buona ricompensa.

Verso 387: Alvar Fanez lascia un’imbasciata a don Sancho dicendo che coloro che volevano raggiungere il
Cid ed aggiungersi al suo esercito dovevano seguirne le tracce. Anche in questo caso già si sa che ci sono
persone che volevano aggiungersi, comincia tutta una serie di località nei dintorni di Burgos, i riferimenti
topografici indicano il viaggio del Cid, si può seguire il suo spostamento e questo ci riporta a quanto detto
rispetto alla datazione. Il Cid prima di lasciare la sua terra, si addormenta, e sogna l’angelo Gabriele. Il Cid
diventa un personaggio quasi religioso, valoroso, degno di avere in sogno l’angelo Gabriele. Nell’epica
spagnola non esistono le cose impossibili, c’è molto realismo storico, quindi com’è possibile che in un’opera
così realistica c’è il sogno dell’angelo Gabriele? Perché è un’opera letteraria in cui sono presenti anche
credenze popolari e cose conosciute, in questo caso i Vangeli. Prima di partire, il Cid si affida a Dio

Prima della strofa 55: il Cid continua nel suo esilio, ci saranno tanti nomi di luoghi, indicazioni di quelli
occupati dai mori e quelli invece già in mano ai cristiani, scontri i cui si distingue Alvar Fanez, ci sono tanti
bottini che il Cid coincia a recuperare e ad inviare al re, troviamo già una lenta risalita, ha cominciato ad
occupare tante terre e a cercare il contatto con il re Alfonso VI, e comincia ad avere tanti seguaci.
Verso 951 strofa 54: in questi vari spostamenti, il Cid è arrivato ad Alicante. Si comincia a parlare del fatto
che il Cid si stia avvicinando e la notizia arriva alle orecchie del conte di Barcellona, Ramon Berenguer. Egli
aveva già avuto a che fare col Cid, perché il Cid aveva ferito suo nipote, e il conte non si era vendicato. Ora
però il conte, potente signore cristiano che difendeva i mori, viene a sapere che il Cid sta attraversando le
sue terre, e questa cosa non gli piace. Nella realtà il Cid ha attraversato realmente Barcellona ma
probabilmente questo episodio (lo scontro con il conte) è inventato.

Strofa 56: “follon” significa uno che parla molto e a vanvera, lo scopo è quello di mettere in cattiva luce il
conte rispetto al Cid. C’è tanta gente che si unisce al Cid, si forma una grande schiera. Il conte nel frattempo
crede di poterlo combattere e vincere. A un certo punto il Cid vede arrivare dei messaggeri da parte del
conte Berenguer che dicono che il conte vuole entrare in battaglia con lui, il Cid non vuole scontrarsi col
conte, sa che lo avrebbe distrutto. Il conte non contento si sente ancora più oltraggiato da questo rifiuto, e
dice che il Cid deve pagare, quindi il Cid capisce che deve entrare in battaglia.

Strofa 57 (esempio di descrizione di modalità di vestiti ed abiti che si usavano in battaglia, discorso che fa il
Cid ai seguaci): veniamo a sapere che don Ramon ha un esercito fatto di mori e cristiani. Il Cid ripete che se
non fossero andati in battaglia non gli avrebbe dato pace. Le calzas erano quelle che indossavano i cavalieri
più raffinati. L’esercito del conde è formato da cavalieri ben vestiti, selle leggere, le cinghie allenate, invece
l’esercito del Cid è più feroce, con stivali sopra le calze.

Strofa 58 (la battaglia): incontro dei due eserciti. L’esercito del Cid è pronto a tutto e pieno di volontà, alla
fine il Cid vince la battaglia e il conte viene catturato. La cosa fondamentale è che il Cid vince e il cattivo
viene catturato. Non c’è molta descrizione della battaglia.

Strofa 59/60/61: oltre a grandi bottini il Cid guadagna una delle due spade, Colada, la spada che darà agli
infantes de Carrion come affidamento delle figlie. L’altra spada, Tison, la vince contro un re marocchino che
voleva riconquistare Valencia. Le spade sono le fedeli compagne di chi va in battaglia. La spada rappresenta
la possibilità di salvarsi. In molte opere epiche ci sono le spade che hanno i nomi. Il Cid, dunque, conquista
la spada dopo aver sconfitto il conte. C’è grande festa, c’è la divisione dei bottini, e si prepara un grande
banchetto, una grande festa, alla quale il Cid vuole che partecipi anche il conte di Barcellona, ma per
difendere il suo onore non vuole accettare cibo, pur di non essere sottomesso e prigioniero del Cid, vuole
morire di fame. Il Cid lo invita a mangiare pane e a bere vino (riferimento a Cristo), se lo avesse fatto non lo
avrebbe reso suo prigioniero. Il conte all’inizio non vuole mangiare nulla, per tre giorni non tocca nemmeno
un pezzo di pane

Strofa 62: in questa lassa c’è il climax che segue l’atteggiamento del conte. Innanzitutto, egli non vuole
mangiare, si oppone completamente al Cid, ma ad un certo punto il Cid sa come prenderlo, e promette a lui
e ad altri due cavalieri del suo seguito di essere liberati. Il conte, che fa parte dei cattivi, gli dice: “se fate
una cosa del genere, ne sarò molto meravigliato”. Il conte non avrebbe mai pensato di liberare dei nemici
che lui aveva catturato, invece il Cid gli ripete che se avesse mangiato lo avrebbe liberato. Però non gli
avrebbe ridato il bottino perché sarebbe servito a sfamare i suoi seguaci, il Cid quindi non risulta mai
cattivo. Il conte (v 1049) comincia a convincersi del fatto che davvero può essere liberato, e perde le sue
buone maniere di conte: prende l’acqua con le mani e subito gliela danno, e comincia a prendere tutto il
cibo con le mani, si lascia andare dalla chiusura totale. Chiede dei cavalli al Cid per andare via e chiede
anche dei vestiti, che il Cid gli Concede. Il Cid lo ringrazia in maniera ironica per quello che ha guadagnato, e
se un giorno gli dovesse venire in mente di volerlo riscattare, lo può venire a cercare o per riprendere ciò
che era suo o per perdere ciò che avrà guadagnato nel frattempo. La risposta del conte risponde che non lo
avrebbe mai cercato.

Strofa 63: il conte se ne va di fretta, ha paura che il Cid possa cambiare idea. Ma un uomo valoroso come il
Cid non lo farebbe mai. Il cantar si chiude con gioia, siamo quasi alla fine della risalita. Il Cid ritorna dal suo
seguito, hanno guadagnato un bottino enorme.
8. LETTERATURA SPAGNOLA 30.03.21
2. Cantar de las bodas: riguarda i matrimoni delle figlie del Cid.

Strofa 64: comincia con le parole “qui cominciano le gesta del mio Cid”, ci si potrebbe quindi chiedere se
fosse questo il vero inizio dell’opera, ma non lo è, perché anche se fosse vera la teoria di Menendez Pidal
per la quale ci sono due giullari diversi che hanno composto l’opera, in ogni caso il primo giullare avrebbe
composto il primo cantar e parte del secondo, quindi il secondo giullare non avrebbe composto l’inizio del
secondo; queste parole all’inizio della lassa, indicano un nuovo inizio tematico, come se si stesse
introducendo un nuovo capitolo della vita del Cid, però facendo una sorta di riassunto di quello che è
successo, infatti ci sono vari nomi di luoghi che sono tutte conquiste del Cid, e sono tutti luoghi attraverso i
quali è passato il Cid andando in esilio. Ad ogni conquista corrisponde una spedizione di bottini al re.

Strofa 65: l’avvenimento più importante del secondo cantar, dal punto di vista delle conquiste, è la
conquista di Valencia. Il Cid conquista questa città che era la seconda città più grande occupata dai mori
dopo Toledo, e raggiunge una fama ed una ricchezza molto grandi. Queste prime lasse del secondo cantar
ci avvicinano geograficamente a Valencia, infatti le città che il Cid aveva conquistato si trovano vicino
Valencia, che il Cid sta raggiungendo grazie all’aiuto di Dio (el creador), e coloro che si trovano a Valencia
cominciano ad avere paura perché sanno che il Cid sta puntando alla conquista.

*nelle lasse saltate si raccontano altre conquiste del Cid, altri luoghi che attraversa, l’avanzare dell’esercito
ormai abbastanza numeroso del Cid verso Valencia*

Strofa 71: le figlie del Cid avevano 15-16 anni all’inizio dell’opera, ma quando arriveranno al matrimonio
saranno già più grandi, e in questa lassa c’è un’indicazione temporale ovvero che tra tutte le conquiste
passano ben 3 anni.

Strofa 72: a Valencia c’è una situazione tragica, erano assediati quindi non si poteva né entrare né uscire
dalla città, e tutto quello che apparteneva ai valenciani veniva bruciato, per esempio i raccolti. Non c’era
cibo, non ci si poteva sostenere tra le famiglie e tra gli amici perché c’era crisi ovunque. Chiedono l’aiuto del
re del Marocco perché sapevano che egli aveva delle questioni in sospeso con il Cid ma il re capisce che non
è il caso, quindi i valenciani restano da soli. Il Cid invece chiede ancora più rinforzi mandando messaggeri
nei regni di Navarra e Aragona, affinché chi volesse partecipare alla presa di Valencia si unisse subito
all’esercito. Si contrappone la richiesta di coloro che erano a Valencia che non ha risultati positivi alla
richiesta del Cid accolta da soldati di tutto il regno. Il Cid, nonostante stia stremando una città intera, risulta
comunque un eroe, perché libera la città dall’oppressione dei mori. Lui è dispiaciuto per la condizione dei
valenciani ma sa che è necessario agire così.

Strofa 74: si racconta la presa di Valencia in una sola lassa perché non si dà così rilievo alle conquiste
pubbliche ma prevale l’aspetto del privato. Nessuno voleva rinunciare al bottino ed alla ricchezza che
sarebbero derivati dalla presa di Valencia, per questo da molte regioni cristiane arrivano persone
intenzionate ad unirsi all’esercito del Cid. il Cid è soddisfatto di quello che ha raggiunto col suo esercito.
Fino al verso 1201 non si parla ancora della presa di Valencia. L’assedio e la conquista della città vanno dal
verso 1202 al 1220. La presa di Valencia non si racconta in maniera negativa con distruzioni e uccisioni, ma
si dice che il Cid va verso Valencia, vuole assaltarla, la circonda “senza alcun inganno”, quindi anche nel
momento in cui il Cid fa qualcosa di negativo lo sta facendo bene ed è “giustificabile”. Tutta questa impresa
ha una risonanza, viene raccontata nelle vicinanze e si aggiungono all’esercito più persone di quelle che si
allontanano. Durante la presa della città, dal punto di vista storico, viene raccontato nelle cronache che Ruy
Diaz de Vivar concede per due volte ai valenciani di chiedere rinforzi. L’assedio dura 9 mesi, dopo i quali si
danno per arresi. L’assedio, il momento in cui si entra a Valencia, dura fino al verso 1210. Per due volte
(verso 1214 e 1218) il narratore ripete “quién los podrié contar?” che significa “chi potrebbe mai contare
tutte le cose conquistate dal Cid?”, domanda retorica che significa che aveva conquistato così tante cose,
ricchezze, bottini e terre che non si potevano contare. L’ultima parola della lassa è “alcacer” (alcazar in
spagnolo moderno), ovvero l’edificio più alto che si trova in una città che rappresentava il punto da cui si
poteva guardare tutta la città, quindi questa parola indica la grandezza del Cid, che dopo la conquista si
trova in alto.

Inizio strofa 76: il Cid dice che per amore del suo re, che l’ha cacciato trattandolo come l’ultimo dei nemici,
non taglierà mai la barba, metafora per dire che continuerà a fare conquiste per il suo re

Strofa 77: il Cid finalmente è felice, capisce che è giunto il momento di fare una richiesta al suo re. È
contento perché il suo esercito arriva a 3600 uomini (era partito con 60). Dice a Minaya (Alvar Fanez)
“siamo partiti con tanti uomini e ricchezze in meno da Vivar, ora abbiamo entrambe le cose e ne avremo
ancora di più”, è molto sicuro di sé. Il Cid dice di voler mandare Alvar Fanez ad Alfonso VI affinché gli faccia
una richiesta, gli dice di baciargli la mano da parte sua (atto di rispetto e sottomissione) e di pregarlo
affinché la moglie e le figlie del Cid possano raggiungerlo a Valencia, dato che gli sta mandando tante cose
(al re) e non gli sta chiedendo di tornare in patria ma solo di riunirsi con la sua famiglia. Minaya accetta, il
Cid gli affida 100 uomini del suo esercito affinché vada a prendere le sue donne, e dà 100 marchi d’argento
da portare a San Pedro de Cardeña da consegnare a don Sancho. Il Cid pensa che potrà finalmente riunirsi
con la sua famiglia.

Le lasse successive parlano del viaggio di Alvar Fanez attraverso le varie terre che lo portano alla corte di
Alfonso VI

Strofe 81-82 dal verso 1340: Alvar Fanez è giunto con i 100 uomini e tutti i bottini al cospetto del re. Ci sono
anche dei cavalli che il Cid invia al re. Nel momento in cui il Cid ricomincia ad avere attenzione a corte,
suscita l’invidia di certe persone, ossia Garcia Ordoñez. Abbiamo l’opposizione tra il re che sta
ricominciando ad andare dalla parte del Cid e quelli che sono i veri cattivi. Garcia Ordoñez racconta al re i
suoi sospetti riguardo una presunta amicizia tra il Cid ed i mori, che gli avrebbero quindi concesso di
conquistare facilmente le terre. Il re gli risponde di lasciar perdere questa questione e che il Cid gli sarebbe
servito più di lui. Successivamente, Minaya chiede al re la possibilità di riportare moglie e figlie del Cid a
Valencia, e il re risponde di essere d’accordo, inoltre aggiunge che avrebbe restituito tutto ciò che aveva
tolto a chi aveva deciso di seguire il Cid. Il re si ricrede completamente di tutto quello di cui aveva accusato
il Cid. Non si ricongiungono ancora fisicamente. Il re, tornato dalla parte del Cid, parla “tan vellido” (verso
1368), come parlava il Cid. Entrano in scena gli Infantes de Carrion, e parlano tra di loro dicendo che dato
che la fama del Cid sta crescendo e sta conquistando delle terre potrebbero sposare le figlie avendo
vantaggi, però pensano di non poter fare il primo passo in quanto nobili di Carrion (all’epoca capitale di
contea) mentre il Cid era del piccolo villaggio di Vivar. È il primo momento in cui tramano qualcosa. “Razon”
(verso 1377) indica varie cose, un ragionamento, un discorso, un’opera. Intanto Minaya se ne va, il re gli dà
ciò che serve per fare questo viaggio e gli Infantes de Carrion si rivolgono a Minaya prima che partisse
dicendogli di portare i loro saluti al Cid, cominciano ad avvicinarsi a lui.

Le lasse 83-84 raccontano il viaggio di Alvar Fanez prima a San Pedro de Cardeña dove accoglie moglie e
figlie del Cid e il viaggio da qui a Valencia.

Strofa 85: il Cid è in attesa di ricongiungersi con la moglie e le figlie, al verso 1563 si sottolinea ancora una
volta il sentimento forte che prova nei confronti delle figlie, dicendo che le conquiste erano relative ma
quello che più amava era la famiglia.

Strofa 86: nella prima parte di questa lassa c’è tutta l’emozione che il Cid prova nell’attesa delle sue donne,
sa che stanno per arrivare perché gli è arrivata notizia, e dà ordini di guardare dai punti più alti della città
per vedere quando arrivassero. Si fa riferimento ad un altro grande alleato del soldato, cioè il cavallo che lo
trasporta. In questo caso si parla del cavallo del Cid che si chiama Bavieca (v 1573) ancora non conosciuto
bene dal Cid perché l’ha guadagnato in battaglia da poco tempo, quindi non sa ancora che tipo di cavallo è,
se veloce, se docile, se buono in battaglia. Il Cid e si avvicina alle porte di Valencia. Per accogliere moglie e
figlie del Cid nella maniera più festosa possibile si fa una festa, alla quale si unisce anche il vescovo don
Jeronimo con tutti i prelati. La prima cosa che fa il Cid è cavalcare il suo cavallo Bavieca e tutti si
meravigliarono di quanto fosse bello e potente il suo cavallo. Dal verso 1580 al verso 1588 c’è tutta una
descrizione di cose che vengono indossate, tuniche, abbigliamento del prelato, i crocifissi. In questo caso
finalmente si piange ma di piacere e gioia, si riuniscono il Cid e le sue donne e dona Ximena riesce ad uscire
da quella vergogna che provava per essersi divisa dal marito che era stato accusato (quindi anche su di lei
ricadeva negatività), e si getta ai piedi del Cid. Ci si avvicina sempre di più al punto terzo della W, il punto
più alto che il Cid raggiunge.

Strofa 87: è la lassa del riscatto completo del Cid, se prima era da solo sull’alcazar ora è con la moglie e le
figlie a guardare la città dall’alto e alzano le mani a Dio per ringraziarlo. Sia nel momento di sconforto sia nel
momento di gioia pregano e ringraziano Dio. C’è ancora un riferimento temporale: è finito l’inverno, sono
agli inizi di marzo. C’è l’immagine della natura che accompagna le imprese del Cid, il periodo buio (inverno)
è finito e c’è nuovamente positività. Questa lassa si chiude con il riferimento al re del Marocco, che sarà un
nemico del Cid, il cui esercito sconfigge 50mila mori dell’esercito del re del Marocco, che vuole conquistare
la città di Valencia.

Strofa 99: è il momento in cui il Cid ha vinto contro Yusuf e i seguaci del Cid stanno portando i bottini di
questa battaglia al re. Il re è felice di ricevere questi bottini e di sapere che il Cid è sempre stato un fedele
seguace. Sono arrivati i messi del Cid, Pedro Bermudes e Alvar Fanez, e assistono a questo incontro gli
Infantes de Carrion e Garcia Ordoñez. I due messi del Cid raccontano che è stato sconfitto l’esercito di
50mila mori di Yusef (re del Marocco), quindi dopo questa vittoria il Cid manda 200 cavalli al re. C’è sempre
l’opposizione tra chi sostiene il Cid e chi è contro di lui. Il re vuole ripagare il Cid, c’è volontà di riunirsi con
lui, cosa che dispiacque al conte Garcia Ordoñez, inviperito per questa situazione. Egli, con alcuni suoi
parenti, si apparta per cospirare, e parla della honra del Cid che sta crescendo così tanto che è
inversamente proporzionale alla loro, più cresce l’onore del Cid più loro lo perdono, perché sembra molto
facile per lui conquistare e vincere.

Strofa 101: comincia la cospirazione degli Infantes de Carrion, pensano che sarebbe andato a loro favore
unirsi a qualcuno della famiglia del Cid. Al verso 1879, il cronista sta cambiando il punto focale della
situazione, per parlare degli Infantes de Carrion. Si capisce subito che vorrebbero sposare le figlie del Cid
non per amore ma perché ne avrebbero vantaggio. Vanno di nascosto dal re Alfonso, e chiedono il suo
permesso affinché possano sposare le figlie del Campeador. L’autorizzazione al matrimonio non viene data
dal Cid ovvero il padre delle spose, come dovrebbe essere, ma dal re.

Strofa 102: il re dice di aver cacciato il Cid, mentre quest’ultimo gli ha dato tanto. Dice di non sapere se al
Cid farebbe piacere questo matrimonio, ma dice che la questione potrà essere affrontata. Il re prende
un’altra decisione, dice che vuole organizzare delle riunioni di corte sia per perdonare il Cid sia per le nozze
(che porteranno onore pubblico e privato). |verso 1931: i due hanno raccontato che era successo e il Cid
non è convinto, come il re in un primo momento. Il Cid, dopo aver riflettuto per un’ora, dice che non gli
farebbe molto piacere il matrimonio delle sue figlie con gli infantes de Carrion, esprime in maniera poco
velata la contrarietà verso le nozze, anche perché sapeva che tipi erano gli infantes, ma per far piacere al
re, ovvero colui che vale più di tutti, acconsente alle nozze. Il luogo dove il Cid vuole incontrare il re, la corte
e gli Infantes de Carrion è il Tajo, il fiume più lungo della penisola Iberica arrivando fino a Lisbona.

Inizio strofa 103: il re accetta l’incontro sul fiume Tajo, dà anche una tempistica cioè dopo tre settimane.
Durante l’incontro (le vistas) il Cid otterrà il perdono e si festeggiano le nozze delle figlie.
9. LETTERATURA SPAGNOLA 12.04.21
Strofa 104: s’incontrano il re e il Cid, c’è tutta una sequenza di azioni da parte del Cid che dimostrano la sua
sottomissione nei confronti del re: s’inginocchia, strappa con i denti l’erba del campo. Dobbiamo notare
che, al contrario di com’era stato accolto a Burgos all’inizio (porte chiuse ecc), qui si riceve il Cid con tanto
onore. C’è gioia, infatti “llorando de los ojos” in questo caso si riferisce alla felicità che prova, queste
lacrime sono lacrime di gioia. Il re non vuole che il Cid si prostri ai suoi piedi, anzi gli dice di alzarsi in piedi
perché già baciargli le mani è un gran gesto di vassallaggio. Il Cid chiede perdono al re e viene riammesso
nel regno. Alcuni erano contenti, ad altri dispiace il suo ritorno, ovvero ai nemici. Dopo che il re ha
perdonato il Cid, si fanno avanti gli Infantes de Carrion, che stavano tramando contro il Cid. Essi si
presentano davanti al Cid. La barba significa onore, gloria, saggezza, e in questo caso il cronista punta
l’attenzione sul fatto che la barba era molto cresciuta al Cid, e tutti lo notavano. Non sono gli Infantes de
Carrion che chiedono direttamente in sposa le figlie, è il re che lo chiede al Cid. Per convincerlo gli dice che
questo matrimonio gli porterebbe grande onore e grande profitto. Dal momento che il re gli ha concesso il
perdono e lui è vassallo ubbidiente, si sente dire che comunque c’è un profitto per lui, il Cid risponde in
maniera affermativa. Nonostante questa presentazione positiva da parte del re, e nonostante la situazione
di sottomissione del Cid, egli non è convinto. Dice che le figlie sono troppo piccole, non hanno ancora l’età
da marito, che gli Infantes de Carrion da un punto di vista sociale sono troppo “buoni” per le figlie e
andrebbero bene anche ad altre (è come se invitasse gli infantes a guardare altrove), e poi dice “io le ho
fatte, ma sono nel vostro potere, quindi le affido a voi, e che ne facciate quello che volete affinché anch’io
sia soddisfatto”, quindi il Cid non decide del matrimonio delle figlie, lascia tutto nelle mani del re. La prima
cosa da notare è come il narratore tratta positivamente il re, prima era un cattivo signore, ora un “tan buen
senor” perché è di nuovo dalla parte del Cid. In questo caso scambiarsi le spade era un segno di alleanza, un
patto tra il re, il Cid e gli Infantes. Il re accetta questo onore che gli affida il Cid, dà anche un aiuto per le
nozze (i 300 marchi d’argento). Si sottolinea sempre come il Cid sia contrario alle nozze.

Strofa 105: il narratore ripete tante volte il racconto di questo momento in cui il Cid dice che non è colpa
sua. Le fanciulle non sono presenti nel momento in cui c’erano le vistas, era andato solo il Cid all’incontro
con il re, per cui il re prende questo incarico e affida la missione ad Alvar Fanez di fare le sue veci, dice a lui
di dare le figlie del Cid agli infantes, e gli chiede poi di raccontargli le nozze a cui non avrebbe preso parte. Il
Cid torna a Valencia, racconta cosa è successo. Le figlie del Cid prendono coscienza del fatto che saranno
sposate, e nella lassa 110 c’è l’incontro del Cid con le sue donne, e ripete che non è lui che vuole farle
sposare, ma è il re. Dopo di che si cominciano ad organizzare le nozze. C’è una descrizione
dell’organizzazione, dei vestiti, di come viene preparato il palazzo del Cid per accogliere i due Infantes. Si
festeggia per 15 giorni.

Strofa 111: i matrimoni dell’epoca duravano molto perché c’era tutta un’organizzazione di tornei, giostre,
feste, arrivavano nobili da tutto il regno. Nonostante il Cid fosse contrario, alla fine era “pagado” perché
vede che gli Infantes non sono così male, perché in questi tornei organizzati per le nozze si erano
comunque fatti valere. Quindi comincia ad avere un po’ di fiducia, ma subito cambierà idea. Per due anni,
gli Infantes restano a Valencia con il Cid e lo accompagnano nelle sue imprese, perché ormai fanno parte
dell’esercito del Cid. Gli ultimi due versi del secondo cantar ne annunciano la fine. Viene dedicato poco
spazio al matrimonio ma il cantar viene chiamato “de las bodas” perché l’aspetto privato della vita del Cid
viene preferito a quello pubblico.

3. Cantar de la afrenta de Corpes

Strofa 112 (definisce una volta e per sempre i ruoli nell’esercito del Cid e i ruoli dei vari individui, vedremo
come si comportano gli Infantes e da questo episodio nascerà la decisione di oltraggiare le figlie del Cid): il
narratore ci fa proprio vedere la scena, siamo a corte a Valencia, il Cid si trova nel suo palazzo e riposa, e ci
sono gli Infantes de Carrion. Proprio nel momento in cui risposa, quindi abbassa la guardia, un “leone si
libera dalla gabbia”, il leone rappresentava lusso e legalità per cui spesso si trovava nelle corti. C’è paura
per tutta la corte, ma i vassalli e i fedeli del Cid prendono i loro mantelli e si mettono attorno a dove stava
dormendo il Cid per proteggerlo. Fernan Gonzales, uno dei due infantes, si ripara sotto il letto dove
riposava il Cid, Diego l’altro infantes scappa dalla porta urlando e pensando che già sarebbe morto. Per
nascondersi dietro una trave, il mantello e la tunica di Diego Gonzales si sporcano. Da una parte i fedeli del
Cid lo accerchiano per difenderlo, dall’altra gli infantes urlano e si sporca il mantello. Il Cid si sveglia e si
vede circondato dai suoi uomini, che gli raccontano cosa è successo. Il Cid quando si sveglia non scatta, non
ha paura, ma si appoggia sul gomito per alzarsi e si alza in piedi con molta calma, soprattutto lui ha il
mantello al collo e non lo toglie mai perché è un combattente. Va verso il leone, lo guarda negli occhi e il
leone ebbe vergogna di lui e abbassa lo sguardo. Nonostante gli Infantes siano i nobili di sangue, c’è molta
differenza tra loro e il Cid. Il mantello sporco di Diego Gonzales rappresenta una macchia nel suo onore,
codardia. Il Cid poi si guarda attorno e si chiede dove siano i suoi generi. Li trovano pallidi e senza colore,
impauriti da quanto successo, e cominciano ad essere presi in giro. Il Cid zittisce tutti perché non vuole che i
suoi generi siano trattati in questa maniera, ma gli infantes si sentono oltraggiati pesantemente. Questo è il
momento decisivo.

Tra la lassa 114 e 115, c’è il folio centrale che è stato perso. Nel testo c’è una ricostruzione. C’è il re del
Marocco Bucar, da cui il Cid vince la spada Tison, che vuole riconquistare Valencia. Il Cid chiede di
combattere contro i mori, gli infantes vogliono cominciare a lottare per mostrare che sono forti e
coraggiosi, ma Fernando si scontra contro uno di questi mori, il moro avanza contro di lui e lui fugge a
cavallo. Questa scena viene vista da uno dei seguaci del Cid, Pedro Bermudez, che per non far sì che nella
corte continuassero le voci contro gli infantes, uccide il moro e dice che è stato Fernando. Quest’episodio
che manca, viene raccontato alla fine nel processo che verrà fatto agli infantes. Il Cid vince contro Bucar,
guadagna la spada Tison e arriviamo al momento in cui gli infantes decidono di mettere in atto la loro
vendetta.

Strofa 123: gli infantes si prendono meriti che non hanno. Tra i soldati si parlava di chi era stato più
valoroso, chi aveva combattuto meglio, chi aveva ucciso più nemici, ma tra tutti questi personaggi non
risultavano mai gli infantes. Il narratore si fa complice con il pubblico (v 2539) dicendo “non possiamo
prendere parte di quello di cui hanno parlato” perché in realtà hanno confabulato tra loro gli infantes.
quello che viene raccontato è la decisione degli infantes, perché ormai hanno acquisito tante ricchezze.

Strofa 124: qui c’è la rivelazione delle idee degli infantes, dicono di portare con loro le donne e farne quello
che vogliono, dicono che in quanto nobili di sangue possono anche fare ciò che vogliono con queste donne
e possono aspirare a qualcosa di più alto. Tutto ciò per evitare di nuovo episodi come quello del leone.
Vanno dal Cid e chiedono di portare con loro le due figlie. Il Cid affida le sue figlie agli infantes che ormai
erano i loro mariti, e gli dà dei soldi, dei beni, dei cavalli e le due spade, quindi affida anche i suoi guadagni
delle battaglie come per dire che lui era un vero uomo quando ha conquistato le spade, per dire che loro
non lo erano. Gli infantes hanno quindi il permesso di portar con loro le due figlie. Di nuovo comincia il
pianto, perché c’è un nuovo distacco con le figlie, c’è di nuovo la metafora delle unghie nella carne. Si sta
scendendo verso il punto 4 della W. C’è tristezza e c’è di nuovo una previsione di sventura, alla fine della
lassa 125 (v 2615), ritornano le cornacchie, c’è un presagio per cui questi matrimoni porteranno delle
macchie, ma ormai non si può tornare indietro. Per cercare di evitare che succeda qualcosa, il Cid chiama
un suo nipote, al quale dice di accompagnare tutta la carovana di persone che andavano a Carrion, gli dice
di seguire la carovana in modo da controllare che tutto vada bene. La carovana si ferma da un moro che è
amico del Cid, questo moro accoglie gioiosamente le figlie e gli infantes con il loro seguito, ma gli infantes
vedono che il suo palazzo è molto ricco quindi vogliono ucciderlo e prendersi il suo regno, vengono però
sgamati dai seguaci del moro, che li caccia non dicendo niente al Cid

Strofa 128-129: gli infantes con le figlie del Cid sono in viaggio, dopo aver sostato una notte in un luogo,
chiedono a tutti di precederli perché volevano restare soli con le loro mogli. Quindi tutti si avviano, mentre
loro prendono le donne e le portano nel querceto. La descrizione di questo querceto de Corpes è molto
bella, ricorda un locus amoenus, perché è un luogo piacevole con caratteristiche particolari, di solito c’è un
boschetto, un giardinetto, una fonte. Gli infantes si fermano, avvertono le figlie del Cid che sta per
accaderle qualcosa di brutto, cioè che non arriveranno mai a Carrion e che saranno lasciate lì morte, perché
non riescono a passare sopra all’episodio del leone, quindi devono vendicarsi, cominciano a spogliarle, le
lasciano in abiti intimi con i camicioni dell’epoca, le picchiano con le cinghie. Dona Sol chiede pietà, chiede
di essere uccise con le due belle spade per ricordargli da chi le avevano prese, vogliono diventare delle
martiri piuttosto che continuare a soffrire. Dopo che le hanno ridotte così male, le ragazze sono svenute, il
narratore aggiunge “che fortuna se ora arrivasse il Campeador ad aiutarle”. Gli Infantes le lasciano quasi
morte e sono addirittura stanchi di picchiarle, sono vigliacchi perché non hanno sfidato il Cid per vendicare
l’oltraggio subito. Le lasciano quasi morte e nude, rubando loro gli abiti ricchi, ma le lasciano anche in balia
degli animali che potevano esserci nel querceto.

Strofa 130: gli infantes si sentono finalmente vendicati di questo matrimonio, nelle loro parole si ritrovano i
due motivi di questa vendetta, il primo cioè che loro avevano sposato queste donne di scala sociale più
bassa, aggiungendo che loro avrebbero dovuto pregarli per stare con gli infantes, l’altro la questione del
leone.

Successivamente, Felez Munoz, il nipote del Cid, essendo dei buoni ha un’intuizione e torna indietro, trova
le due fanciulle abbandonate, le salva, le porta in un paese vicino dove le lascia, e dice tutto al Cid. Il Cid
vuole vendetta. Le fanciulle riescono a riprendersi. Il Cid si rincontra con le figlie, dice prevedendo quasi il
futuro che sicuramente i matrimoni successivi saranno migliori e invia Munoz a parlare con il re, perché
dice che è lui che le ha fatte sposare ed è lui che deve vendicarlo. Il re accetta.

Dal verso 2985 al verso 3532 c’è una sorta di causa in tribunale davanti ai giudici, dove la parte degli
infantes e la parte del Cid si difendono e si accusano a vicenda. È in questa parte che Pedro Bermudez
racconta quello che aveva fatto Fernando, cioè che non aveva ucciso lui il moro. La terminologia giuridica è
stata importante per la datazione dell’opera. Si viene a creare una contrapposizione tra la serietà e la
compostezza di chi difende il Cid, e la goffaggine di chi difende gli Infantes.

Verso 3175: ora sta iniziando la risalita del Cid, dopo aver raggiunto il punto più basso della W con la
afrenta de Corpes. Ora sta avendo il riscatto del suo onore, in questo caso Colada e Tison non sono due
semplici spade, hanno un valore simbolico molto forte, tutta la corte rimane stupita guardandole, perché
sono d’oro. Nel momento in cui ha le spade di nuovo nelle sue mani, ricomincia a sorridere. Queste due
spade verranno affidate a due suoi seguaci che poi saranno coloro che combatteranno contro i due infantes
de Carrion, cioè saranno Martin Antolinez e Pedro Bermudez. Il Cid oltre a richiedere le spade richiede
come vendetta tutto il denaro che era stato dato loro nel periodo da quando si erano sposati.

Strofa 141: Fernan Gonzales, dopo tutto quello che hanno fatto, si permette davanti alla corte e davanti al
re di dire anche che, hanno restituito tutti i loro averi (hanno richiesto dei prestiti) e per loro avevano
chiuso ogni rapporto, e se le hanno lasciate in quello stato hanno fatto bene perché loro meritavano
qualcuno di superiore.

A un certo punto arrivano due personaggi, Ojarra e Yenego Simenoz, che sono i due infantes di Navarra e
Aragona. Il punto più alto della W è spostato in alto rispetto al primo perché in questo momento arrivano i
due infantes che chiedono in sposa le figlie del Cid, che subito dice di sì. Martin Antolinez, Pedro Bermudez
e Muno Gustios, combattono contro i due Infantes de Carrion e contro un terzo parente loro, ma questi
combattimenti non ci saranno perché gli infantes scappano, anche nel momento in cui dovevano vendicare
il loro onore, scappano e vengono esiliati. Storicamente, i due infantes rimangono nel regno, ma l’esilio era
un elemento necessario perché i cattivi che perdevano dovevano essere puniti.
Verso 3693: ancora una volta c’è l’opposizione tra i cavalieri del Cid che vengono onorati, e il dispiacere che
provano quelli di Carrion. Sono state lasciate delle armi perché erano quelli erano scappati. Il Cid è
finalmente alegre, non avrà più momenti di sofferenza e tristezza, tornano a Valencia. Per gli infantes de
Carrion resta sono infamia. C’è un intervento esterno del narratore, dice che chiunque oltraggia una dama
e poi l’abbandona, subirà qualcosa di peggio. Ora si mettono da parte gli infantes di carrion, perché ormai
sono stati puniti. Dice che finalmente si può parlare del Cid, si trova a Valencia e si fanno grandi
festeggiamenti, ha acquistato nuovamente honra e honor. Il Cid afferra la sua barba che ormai è
lunghissima. Finalmente può dire che fa sposare le sue figlie senza vergogna, è convinto di poter dare in
spose le sue figlie a due uomini che veramente meritano, siamo al punto 5 della W perché anche il Cid ha
acquistato la nobiltà di sangue tramite il matrimonio delle sue figlie. Storicamente, non si sposano le figlie
con gli infantes di Navarra e Aragona, ma si sposano la nipote e la pronipote del Cid. Questi matrimoni
furono ancora più grandi di quelli con gli infantes de Carrion. Dopo aver parlato della nuova parentela tra il
Cid e la nobiltà spagnola, si parla della morte, c’è un rapido accenno alla morte del Cid. L’eroe non muore,
resta nella memoria del popolo. L’unica cosa che si dice è “ha lasciato questo mondo terreno”, ma si fa un
riferimento al giorno di Pentecoste, 50 giorni dopo la Pasqua. Il fatto che sia il giorno di Pentecoste (altro
riferimento religioso) lo fa innalzare a qualcosa di immortale. Subito dopo si parla di un finale del racconto,
poi c’è il famoso colophon, e c’è la conclusione: il giullare che, dopo aver dato tutte le informazioni sulla
vita del personaggio, dice che finalmente la poesia è finita e gli si può dare del vino, dei soldi o cose di
abbigliamento. C’è quindi una ricompensa per il giullare, per il suo lavoro. Questa formula finale era
ovviamente orale, ma Per Abbat l’ha riportata in forma scritta.

10. LETTERATURA SPAGNOLA 13.04.21


Tra il 1100 e il 1200 ci sono contemporaneamente attestazioni di poesia epica e di questo tipo di letteratura
che segna il passo tra il mester de juglaria e il mester de clerecia. Questa attestazione letteraria rappresenta
un passo in avanti rispetto all’epica, e sono i poemetti giullareschi. Si chiamano “poemetti” perché per la
maggior parte queste composizioni sono in versi, “giullareschi” perché appartengono alla creazione dei
giullari. Questi giullari stanno avendo una sorta di evoluzione, in particolare con il contatto geografico con i
giullari francesi, i trovatori. Questi poemetti giullareschi hanno un valore letterario più europeo, ed hanno
una funzione soprattutto di intrattenimento, infatti hanno degli argomenti più leggeri rispetto a quelli
trattati nella poesia epica. L’origine dei poemetti giullareschi è trans-pirenaica, cioè al di là dei Pirenei e
quindi francese, perché appunto vengono proprio dalla Francia. Attraverso il camino de Santiago, giungono
nella penisola iberica, ma una volta in Spagna tramite l’oralità e il collettivismo, c’è un adattamento alle
tematiche ed alla cultura spagnola. Quindi c’è un’origine francese ma quello che poi viene creato in Spagna
ha una propria originalità e rispecchia la cultura spagnola dell’epoca. Questi poemetti sono molto più brevi
rispetto ai cantares de gesta quindi più facili da ricordare e più soggetti al collettivismo. Alcune
caratteristiche della letteratura epica si ritrovano nei poemetti giullareschi, perché ritroviamo ancora una
volta l’anisosillabismo e la rima assonante, anche se cominciamo a ritrovare delle caratteristiche che si
troveranno nel mester de clerecia, ecco perché i poemetti giullareschi sono il passaggio tra i due mester. Il
camino de Santiago amplia gli orizzonti letterari spagnoli, ma c’è anche un altro elemento che permette
un’apertura ad altre culture, cioè la reconquista della città di Toledo. Essa è stata riconquistata dagli
spagnoli nel 1085, in questo momento c’è una forte presenza di altre culture a Toledo perché è occupata
dagli arabi, che dopo la riconquista non scompaiono nel nulla, vengono scacciati soldati esercito ecc ma si è
comunque radicata una cultura araba, oltre alla cultura cristiana e quella ebraica. Quindi Toledo
rappresentava un enorme centro culturale, in questa città nasce la Scuola dei traduttori di Toledo, dove si
recuperava lo studio della filosofia greca, delle scienze orientali, dove si traducevano i testi dalle lingue
classiche. Tutto questo fa sì che i giullari, che prima erano coloro che lavoravano per le strade ed avevano a
che fare con il popolo, cominciano ad essere più acculturati, quindi quello che creano (cominciano ad
essere anch’essi autori delle opere) non attinge solo alla cultura popolare o alla poesia epica. Insieme al
collettivismo, all’austerità morale e alla sobrietà abbiamo ancora l’anonimato, tranne per uno dei poemetti
che ci sono giunti, e anche per questi poemetti abbiamo una datazione ancora incerta. Molti sono arrivati a
noi non integri. I poemetti giullareschi, che avranno grande successo, si dividono in due categorie
tematiche: 1. Categoria religiosa 2. Categoria delle dispute. Questa seconda categoria di opere raccoglie dei
poemetti che rappresentano due personaggi o anche due oggetti che disputano tra di loro, che hanno uno
scontro in cui ognuno difende i propri interessi ed accusa l’altro. In alcune di queste dispute non viene
esplicitamente indicato il vincitore proprio per far sì che non ci fosse una parte che vincesse sull’altra.

Poemetti a TEMA RELIGIOSO: “Libre dels Tres Reyes d’Orient”. Questo titolo è catalano, molto
probabilmente è stato attribuito in seguito alla sua composizione perché in effetti nel racconto all’interno di
questo poemetto c’è poco riferimento ai tre re d’oriente (i re Magi). A metà del secolo scorso si è deciso di
rinominare questo testo perché col nuovo titolo si riusciva ad individuare l’argomento di cui si parlava,
“Libro de la infancia y la muerte de Jesus”. Questo testo parla di alcuni episodi della vita di Gesù ispirati ai
Vangeli apocrifi, a noi sono arrivati 242 versi. Si parla di un episodio che riguarda la visita dei Magi a Gesù
bambino, tutti i primi anni di vita di Gesù, e la fuga della sacra famiglia in Egitto, dove Gesù bambino
incontra, ancora bambini, i due ladroni che verranno crocifissi insieme a lui. Si passa poi direttamente
all’età adulta di Gesù quando è crocifisso, e dove uno dei due ladroni (quello buono) gli chiede di
accompagnarlo in paradiso. C’è come un preambolo a quello che poi viene raccontato, per questo è stato
dato questo nuovo titolo perché si passa proprio dall’infanzia all’età adulta di Gesù. Il testo, nonostante
abbia un titolo catalano, in realtà non ha nessun accenno linguistico catalano, anzi si ritrovano degli
elementi della lingua aragonese, e dovrebbe essere stato composto intorno alla metà del 13° secolo. Si
mettono in successione immediata l’infanzia e l’età adulta di Gesù perché si voleva dimostrare come
l’incontro con Gesù da bambini, avrebbe spinto il ladrone al pentimento da grande. Questi poemetti erano
raccontati e rappresentati, come se fossero delle messe in scena, ed essendo più brevi si cercava di rendere
il pubblico sempre attento, infatti in questo poemetto ci sono molti momenti in cui ci si rivolge al pubblico
come se gli altri attori non ascoltassero. Il giullare che ha composto questo poemetto era probabilmente
molto acculturato perché usava parecchi termini molto ricercati. Il secondo poemetto di argomento
religioso è “Vida de madona sancta maria egipciaca”, composto probabilmente prima del precedente,
all’inizio del 13° secolo, ed è più lungo, si compone di 1451 versi di 8-9 sillabe, infatti la letteratura francese
prevede dei versi molto più brevi rispetto a quelli spagnoli, e probabilmente questo testo ha come
ispirazione un testo francese che più o meno ha lo stesso titolo (vie de saite marie l’egiptienne). Questo
poemetto, che appartiene alla tradizione agiografica (l’agiografia è quella scienza che studia le vite dei
santi), racconta la vita di questa Maria egipciaca che è diventata santa dopo che da cortigiana e peccatrice
incontra Gesù e cambia la propria vita. Nel poemetto si racconta proprio il momento di questa
trasformazione profonda. L’attenzione è posta sull’incontro quasi salvifico con Gesù. Il racconto era molto
popolare ed aveva uno scopo didattico, si voleva invogliare a prendere una vita retta piuttosto che una vita
di peccati. Il racconto spagnolo si ispira ai testi francesi, anche se ritroviamo comunque originalità spagnola-
L’interesse che ha suscitato questo poemetto è legato all’aspetto linguistico oltre che al fatto che
apparteneva ad un nuovo genere letterario, perché sia nella lingua che nella struttura della metrica anticipa
il mester de clerecia. Le sacre scritture alle quali attingeva il giullare che componeva i testi servivano a
rendere inconfutabili le idee espresse nell’opera perché non le si poteva andare contro.

Poemetti delle DISPUTE: “Disputa del alma y el cuerpo”. Già è evidente lo scontro tra le due componenti.
Questo poemetto probabilmente è il più antico poemetto giullaresco, forse risale alla fine del 12° secolo, ed
è stato recuperato a metà del ‘900 da Menendez Pidal. A noi è giunto solo un frammento della parte
iniziale, composta da 37 versi, ma probabilmente era molto più lungo. Parla dello scontro tra l’anima e il
corpo di una persona defunta, viene descritto il cadavere che giace su un letto, e l’anima che si è staccata
dal corpo lo guarda da lontano sottoforma di un bambino. L’anima accusa il corpo perché a causa dei
peccati del corpo (comportamenti sbagliati, voglie esagerate) dovranno finire condannati entrambi.
Sappiamo che non era composto solo dai 37 versi che ci sono giunti perché si ferma nel momento in cui
l’anima sta parlando e non c’è la risposta del corpo. Il tema della contrapposizione tra anima e corpo era
molto utilizzato nel medioevo perché era didatticamente importante insegnare al pubblico a dare
importanza ai piaceri dello spirito e non a quelli della carne. C’è sempre un fondo di tema religioso. La fonte
di questo poemetto giullaresco è francese, però data la sua brevità non suscita molto interesse letterario,
però è importante perché probabilmente è quello che ha inaugurato il genere della disputa tra due
elementi. Un altro poemetto è “Disputa entre un cristiano y un judio”, composto probabilmente nella prima
metà del 13° secolo e fa parte della tradizione apologetica, che è una branca della teologia che vuole
verificare e difendere anche razionalmente la credibilità della fede, quindi vuole dare delle dimostrazioni
concrete a quello che viene creduto per fede. In quest’opera si parla proprio di elementi della fede cristiana
e della fede ebraica. Nella Spagna dell’epoca c’era un gruppo di persone chiamate conversos, che erano
coloro che si convertivano dalla religione ebraica a quella cristiana, che quindi avevano delle conoscenze
profonde di entrambe le religioni, proprio per questo alcuni studiosi pensano che questo poemetto sia
stato creato da un converso, perché nell’opera si analizzano le due religioni alla stessa maniera. In realtà di
quest’opera ci è giunto solo un frammento, in cui si parla della circoncisione, dell’osservanza del sabato e
della natura umana e divina di Dio, che sono tre argomenti legati alla religione ebraica. Si parla di questi
argomenti affrontandoli anche da un punto di vista razionale. Nonostante ci sia arrivato un piccolo
frammento, si può dividere in due parti: nella prima c’è uno scambio di domande e risposte tra il cristiano e
l’ebreo, nella seconda si cominciano a delineare con più chiarezza gli argomenti da trattare e il cristiano
comincia ad argomentare ma viene interrotto dall’ebreo. La fonte non è conosciuta, non sappiamo da dove
possa derivare, ma si può immaginare che l’argomento del confronto-scontro fra due culture e religioni
fosse importante per l’epoca, basti pensare che Toledo era un punto focale di tutti questi incontri culturali.
Il poemetto giullaresco più importante tra le dispute è “Razon feita de amor y denuestos del agua y el
vino”. Si nota subito “razon” che ci rimanda al Cid, in questo caso significa “racconto, qualcosa che è
intorno all’amore (feita de amor) e agli insulti/scontri (desnuestos) dell’acqua e il vino”. Questo testo risale
probabilmente alla prima metà del ‘200, e si compone di 264 versi brevi di 9 sillabe. È un testo che ci è
giunto integro. La rima spesso è una rima consonante, che prevede l’uguaglianza di vocali e consonanti a
partire dall’ultima vocale tonica del verso (rima baciata). Questo poemetto si avvicina al mester de clerecia
anche come composizione, ma anche perché per questo poemetto abbiamo il nome di un possibile autore,
perché nella parte finale del poemetto abbiamo un colophon simile a quello del Cantar de mio Cid dove è
indicato un nome, perché alla fine del poemetto c’è scritto “Lupus me fecit de Moros”, cioè “Lope de Moros
mi fece” (il verbo fare all’epoca significava comporre). Quindi abbiamo il nome di un autore ma di cui non
sappiamo nulla. Probabilmente è stato scritto nella zona dell’Aragona anche se il linguaggio è un misto tra
aragonese e castigliano (collettivismo). Questo poemetto si potrebbe dividere in due parti, infatti all’inizio si
pensava che fossero due parti distinte che erano state poi unite in un unico poemetto. Nella prima, che va
dal verso 1 al 145, si parla di un episodio amoroso, dai versi 146 a 161 c’è una sorta di passaggio in cui si
racconta cosa succede dopo l’episodio amoroso, e poi dal verso 162 al 259 c’è la disputa tra acqua e vino.
Non si immagina quale possa essere la connessione tra queste due parti, gli ultimi cinque versi sono quel
colophon in cui si parla di questo Lupus de Moros, e anche qui il giullare chiede il vino come nella
conclusione del Cid. Sebbene le tematiche siano differenti c’è un elemento che unisce queste due parti. La
prima parte: c’è un protagonista, letterato che ha studiato in molti luoghi dell’Europa, che parla in prima
persona quasi in maniera autobiografica (nel mester de clerecia cominciano a comparire gli autori) che si
ritrova a camminare in un bellissimo prato e riposa sotto un albero. Si trova in quel cosiddetto topos che è il
tipico locus amoenus. Su un ramo dell’albero vede due coppe, una contenente acqua e l’altra vino. Poi
distoglie lo sguardo dalle due coppe perché arriva una fanciulla, descritta dall’autore mentre sta cantando
le sue pene d’amore. C’è ispirazione alle jarchas e alle cantigas de amigo. I due pensavano di non
conoscersi, ma quando s’incontrano lei riconosce in lui un grosso letterato e lui la riconosce come una
bellissima fanciulla. I due si innamorano e cominciano a parlare di alcuni pegni d’amore che avevano
ricevuto da fidanzato e fidanzata. Giungono alla conclusione che sono in realtà i due amanti che non si
erano mai incontrati ma che si erano inviati quei pegni d’amore. All’epoca spesso i fidanzamenti erano
organizzati, e non potendosi incontrare si spedivano guanti o cinture ad esempio. Ora lui ha la cintura, lei i
guanti e quindi si riconoscono. Quando si riconoscono sono felici si essersi incontrati ma non si sa cosa
succede perché il testo è interrotto. Questo si ricongiunge all’austerità morale per cui forse si era già detto
troppo rispetto all’incontro amoroso. Poi ci sono i versi di transizione: i due si separano all’alba. Arriva una
colomba bianca che si poggia sul ramo dove il letterato aveva visto le due coppe, e fa sì che la coppa
dell’acqua si versi in quella del vino, e quindi che i due elementi si mescolino. In questo momento comincia
la disputa. Quello che viene fuori dalla disputa è la cattiveria del vino che fa inebriare le menti e la purezza
dell’acqua che pulisce interiormente, poi il discorso si sposta sulla religione: l’importanza dell’acqua nella
religione cristiana per il battesimo che rappresenta la purificazione, e quella del vino che si trasforma in
sangue di Gesù. Si è capito che è un unico testo perché c’è l’elemento delle coppe che ci sono all’inizio del
testo e che tornano dopo l’incontro amoroso. Sono state fatte tante interpretazioni di quest’opera anche
da un punto di vista allegorico, sul significato della colomba, della dama ecc. ma in realtà per il periodo in
cui viene composta l’opera e anche per l’argomento trattato si deve pensare che non abbia alcun
simbolismo, perché non è un’opera allegorica. Le forze dell’acqua e del vino sono abbastanza equilibrate
ma alla fine pare che vinca l’acqua, però poi il narratore chiede del vino, quindi è come se l’ultima parola
andasse al vino. L’unione di questi due testi ha una motivazione che riguarda il gusto dell’epoca medievale,
probabilmente chi ha composto quest’opera voleva creare un’opera che raccogliesse l’interesse di due tipi
di pubblico diversi: quello che amava la storia amorosa e quello che amava le dispute. Le fonti di
quest’opera provengono da una fonte franco-provenzale. Questo testo è molto importante perché è giunto
integro, ha un autore esplicito ed ha la caratteristica di trattare due generi in uno. L’ultimo poemetto
giullaresco è “Elena y Maria (disputa del clerigo y el caballero)”. In questo caso ci sono due personaggi che
rappresentano due classi sociali che inevitabilmente avevano punti su cui si scontravano. La prima
pubblicazione moderna di questo componimento avvenne grazie a Menendez Pidal. Il testo non è integro, è
arrivato senza parte iniziale e finale. Quello che sappiamo è che probabilmente è stato composto alla fine
del 13° secolo intorno al 1280, e i versi arrivati a noi sono 402. I versi sono assonanti, per lo più ha un verso
anisosillabico. Elena e Maria sono due sorelle che appartengono ad una famiglia di media nobiltà, che
hanno due amanti. Maria è la donna di un clerigo (indica un letterato, ma in questo caso è realmente un
uomo di chiesa) mentre Elena è la donna di un cavaliere. La disputa si svolge tra le accuse di una delle due
sorelle al fidanzato dell’altra con la difesa del proprio, e viceversa. Quindi in questo caso non sono i due che
si scontrano che disputano tra di loro, ma ci sono le due sorelle che si scontrano nella difesa e nell’attacco
del fidanzato e dell’avversario. La prima fonte che ritroviamo è un testo del latino medievale che si chiama
“Phillis e Flora”, dove anche queste due fanciulle discutono tra loro su vari argomenti e poi un testo che
proviene da una regione della Francia settentrionale che si chiama “Le jugement d’amour”, cioè giudizio
d’amore. L’ambientazione di questa disputa è più elevata perché si svolge in un ambiente di corte. Anche i
due fidanzati delle fanciulle appartengono a classi sociali abbastanza alte. Si parla anche della sottomissione
feudale, che era un’alta usanza cavalleresca perché si dice che tra le due sorelle chi avesse perso la contesa,
quindi chi avesse avuto torno, sarebbe diventata la vassalla dell’altra. In quest’opera si raccontano e si
scontrano le armi per il cavaliere e il credo e le lettere per il clerigo. Gli attacchi che vengono fatti dalle due
sorelle sono abbastanza generici ed oggettivi, e riportano dei luoghi comuni tipici dell’epoca, ad esempio gli
attacchi che vengono fatti al clerigo sono sul rifugiarsi nel piacere, la ricerca del cibo, del denaro, al fatto di
essere molto grasso proprio perché ci si dedica i piaceri del corpo, mentre al cavaliere si diceva che era
senza soldi, che viveva sulle spalle della sua amata, che non sapeva combattere. Le lodi che vengono fatte a
favore dei propri amati dalle fanciulle sono molto più soggettive perché tendono ad esaltare i propri
uomini. Non c’è nessun vincitore perché l’opera non ha finale: le due fanciulle decidono di rivolgersi al re
Oriol affinché come giudice decida chi ha ragione, ma l’opera non è integra quindi non sappiamo la sua
risposta.
11. LETTERATURA SPAGNOLA 19.04.21
Oggi parliamo dell’unica attestazione di opera teatrale del Medioevo giunta fino a noi. Fino ad ora abbiamo
parlato di testi in versi, di poesia epica e giullaresca, anche se abbiamo fatto riferimento al genere teatrale
in particolare perché già con il fatto che i giullari raccontavano nelle piazze delle determinate storie si aveva
già una sorta di opera teatrale, infatti abbiamo fatto riferimento agli “a parte”, ovvero la modalità utilizzata
soprattutto nel teatro, per cui si parla verso il pubblico e gli altri personaggi in scena non ascoltano. I
poemetti giullareschi, come anche la poesia epica, erano una sorta di preparazione al genere teatrale. Al
‘200 risale la prima (o meglio, l’unica giunta fino a noi) espressione del genere teatrale della letteratura
castigliana. Quest’opera si chiama “Auto de los reyes magos”: probabilmente è stato composto tra la fine
del 12° secolo e l’inizio del 13°. Non ne conosciamo l’autore e nemmeno colui che ha trascritto quest’opera.
L’opera che è giunta fino a noi è composta da 147 versi, è abbastanza breve. Ha una particolarità: il
manoscritto di quest’opera è stato ritrovato non in un testo a sé stante, ma è stata ritrovata una
trascrizione in un codice. Il fatto che si trovasse alla fine di questo codice, ha fatto anche pensare che la
trascrizione non fosse completa, perché magari c’era altro da scrivere, però da vari studi è emerso che la
storia è completa. Pensiamo che oggi, un testo teatrale, ha delle determinate caratteristiche (elenco dei
personaggi, luoghi e descrizioni, chi parla in un determinato momento): tutto questo non c’è nel testo del
Auto de los reyes magos, anzi non c’era nemmeno il titolo, che verrà poi dato da Menendez Pidal quando
l’ha trascritto e pubblicato. Non sappiamo se tutto quello che manca rispetto alle norme del genere teatrale
contemporaneo non c’era per mancanza di spazio o perché all’epoca non era prevista questo tipo di
scrittura teatrale.

“Auto de los reyes magos” si capisce che parla di un argomento religioso perché parla dei re Magi, in
particolare viene messa in scena la drammatizzazione della storia dei re Magi ripresa dal vangelo di Matteo.
Probabilmente questo testo era abbastanza rappresentato, perché le prime attestazioni del teatro
castigliano avevano uno stretto legame con gli argomenti religiosi. Pensiamo al fatto che la liturgia
rappresenta già qualcosa di “rappresentato”, c’è chi parla e chi risponde, così come anche i racconti biblici
hanno una caratterizzazione di rappresentazione perché ci sono tanti dialoghi. Il fatto che l’argomento
religioso fosse già strutturato in una sorta di teatro fa sì che sia più facile da mettere in scena, oltretutto c’è
sempre l’intento morale alla base di queste opere. Dalle prime rappresentazioni teatrali che avevano tema
religioso, nascono i cosiddetti “Autos sacramentales” cioè gli atti sacramentali, che sono dei brevi drammi
teatrali a tema religioso, e venivano messi in scena in particolare durante la domenica dopo la Pentecoste.
Pensiamo anche al fatto che il clero aveva più istruzione, tant’è che molti manoscritti si trovano nei
monasteri.

“Auto de los reyes magos” è il racconto dei re Magi ripreso dal vangelo di san Matteo, ed è un racconto che
viene suddiviso in cinque scene. Nella trascrizione moderna sono stati aggiunti i personaggi che parlano, le
pause, chi entra e chi esce dalla scena. Le cinque scene sono abbastanza brevi ma contengono i momenti
salienti della storia dei re Magi. Nella prima scena parlano due dei tre re magi ma ci sono tutti e tre. I tre re
Magi vedono la stella, discutono sul suo significato e arrivano alla conclusione che è nato il creatore, quindi
decidono di mettersi in cammino e seguire la stella. Nella seconda scena i Magi cominciano a mettersi in
viaggio ripetendo la sicurezza per cui è nato il salvatore, e si mettono d’accordo su quali omaggi portare al
bambino, e dicono che nel momento in cui egli deve accettare l’incenso (il simbolo degli dei) non deve
accettare l’oro perché è qualcosa di mortale. Nella terza scena arrivano da Erode e gli raccontano il motivo
di questo viaggio, gli raccontano che è nato un nuovo re, ed Erode dice di andare a cercarlo e una volta
trovato che lo portassero da lui perché anche lui vuole adorarlo. Nella quarta scena c’è Erode che è da solo,
c’è un monologo in cui si preoccupa della presenza di quest’altro re perché teme che possa usurpargli il
potere. Quindi subito chiede di chiamare tutti i saggi della corte a lui affinché si capisca chi è questo re, che
cosa faccia e perché fosse nato. Nella quinta scena insieme a Erode ci sono i saggi della corte, tra i quali ci
sono dei rabbini. In questa ultima scena, Erode si rivolge a dei personaggi che sono anche ebrei, con i quali
s’interroga sul significato e sulla veridicità delle Scritture (la venuta di Gesù fu preannunciata nell’antico
testamento, che abbiamo in comune con gli ebrei). Gli ebrei però non credono che Gesù sia il salvatore. In
questo breve dialogo tra i vari rabbini, s’interrogano a vicenda sul fatto che le Scritture in cui anch’essi
credono si stiano avverando oppure no. Si resta nel dubbio. Si era pensato che mancassero delle parti al
testo, perché magari era un po’ strano che il testo si chiudesse con le parole di due rabbini ebrei, ma dopo
vari studi si è capito che l’opera è completa e si voleva proprio concludere con il dialogo di questi ebrei per
affermare la veridicità della religione cristiana. Dato che questo testo era stato copiato sulle ultime pagine
di questo codice biblico nella cattedrale di Toledo, ce ne potrebbero essere tanti altri. Questo è un testo
abbastanza breve, sono pochi versi, e questo testo rappresenta l’unica attestazione di testo di opera
teatrale che ci è giunta dal Medioevo. abbiamo già fatto riferimento a Toledo, riconquistata nel 1085,
quindi è comunque una città che rappresentava il centro di varie culture e inevitabilmente il riferimento agli
ebrei è dovuto al fatto che a Toledo c’era tutta questa mistura di culture e religioni. Quest’opera
probabilmente veniva rappresentata nella stessa cattedrale di Toledo, forse per questo si ritrova in un
codice, perché probabilmente venne trascritto il testo da rappresentare. La rappresentazione di questo
testo avveniva di solito nel periodo dell’epifania. In realtà le abitudini teatrali dell’epoca venivano messe in
scena soprattutto nelle festività religiose più importanti, perché tutte le principali opere teatrali erano
collegate all’argomento religioso. All’inizio, anche le opere teatrali, che venivano riprese dalle Sacre
Scritture, erano in latino. Poi dal latino si passa al volgare dei giullari che introducono anche degli elementi
che si allontanano dalla religione, in effetti questo percorso che seguono i testi teatrali, si sviluppa anche in
altre parti d’Europa, in Francia troviamo il corrispettivo degli “autos”, troviamo anche opre teatrali che si
chiamano “misteri” che mettevano in scena le vite della sacra famiglia e dei santi, poi c’erano le “moralità”,
che si chiamavano così perché mettevano in scena in maniera allegorica i vizi e le virtù dell’uomo. In Spagna
ritroviamo più o meno queste stesse rappresentazioni. Oltre al “Auto de los reyes magos” che è un testo
teatrale abbiamo delle notizie teoriche, una sorte di teoria del teatro medievale, in un’opera di un autore
che era anche un re, Alfonso X, che scrive un’opera che si chiama “Las siete partidas”, divisa in 7 parti
ognuna dedicata ad un argomento. Quest’opera era legislativa. Attraverso quest’opera conosciamo alcune
delle particolarità delle rappresentazioni. “Auto de los reyes magos” non si può inserire in nessuno dei
mesteres. Per un certo periodo i due mester si accavallano, c’è un’evoluzione. Piano piano si comincia ad
avere una coscienza letteraria sempre più affermata, e nasce il MESTER DE CLERECIA. Non c’è un centro
territoriale specifico in cui nasce, si era sparso per tutto il territorio. Nel mester de clerecia ci sono i clerigos,
che non sono necessariamente collegati alla chiesa, ma sono dei poeti letterati cioè sono acculturati. Il
mester de clerecia è un mester preciso e strutturato, con delle regole, perciò è un’evoluzione, perché
deriva da un mester già esistente al quale ha aggiunto regole precise. Il fatto che i clerigos fossero poeti
letterati deriva dal fatto che gli uomini di chiesa erano quelli ad avere più cultura.

Caratteristiche del mester de clerecia: il testo che ci viene in aiuto perché parla del nuovo mester è il “Libro
de Alexandre”. Ci sono dei versi che ci danno indicazioni su questo nuovo mester. Questi 4 versi ci dicono
che c’è un nuovo modo di fare letteratura e di comporre, questo mester è “fermoso” ovvero “hermoso”,
quindi bello e perfetto. Si dice che non è un mester de juglaria ma è “sin pecado”, senza errore, perché è di
clerecia, questo mester “parla” con la rima in cuaderna via, ci vuole molto impegno e grande bravura a
scrivere così. La cuaderna via è la strofa che viene utilizzata in questo mester, è tenuta insieme dal numero
di versi, dalle sillabe in ogni verso e dalla rima. È una strofa di 4 versi, si chiama anche tetrastico
monorimato. Non c’è più l’anisosillabismo ma abbiamo l’isosillabismo, il verso alessandrino è il verso
ufficiale ora. Il verso si divide in due emistichi di 7 e 7 sillabe divise dalla cesura. La rima è consonante cioè
la corrispondenza di vocali e consonanti a partire dall’ultima vocale tonica del verso. (rima baciata). Nel
mester de clerecia le opere vengono ancora trasmesse oralmente, di conseguenza c’è sempre la possibilità
di sbagliare. Le opere del mester de clerecia sono anonime, ancora non c’è la concezione del possesso di un
testo. Dal ‘200 la clerecia durerà circa un secolo e mezzo. Il primo testo che appartiene al mester de
clerecia, probabilmente, è il “Libro de Apollonio”, un t esto abbastanza lungo composto da 2624 versi,
utilizza la cuaderna via e il verso alessandrino. Si pensa che sia stato composto nel 1230/35. La fonte di
quest’opera è greca ed è andata perduta, sappiamo che ne è la fonte perché ne abbiamo notizie grazie alla
traduzione latina. Apollonio è una figura letteraria che riprende la figura di questo eroe che era il re di Tiro.
Il testo che ci è giunto, ci è giunto in un codice dedicato alle opere letterarie, perché in questo stesso codice
c’erano anche i due poemetti giullareschi a tema religioso (tres reyes e vida de madona sancta maria). Dalla
fonte greca viene ripreso questo personaggio e viene trasformato rispettando la tradizione spagnola, quindi
non viene solo copiato il personaggio ma viene trasportato negli usi e costumi della cultura spagnola,
perché Apollonio come il Cid dev’essere un esempio. Apollonio è un eroe che non solo ha la spada come
arma, ma si aiuta anche con l’intelletto e la cultura, c’è un cambiamento dal Cid ad Apollonio, che oltre ad
essere un soldato è anche sapiente.

LA STORIA di Apollonio: è molto complicata, ci sono cambi di prospettiva, viene spostata l’attenzione sui
vari personaggi. Apollonio è il re di Tiro, si innamora della figlia del re Antioco. Il re avrebbe scelto l’uomo a
cui dare in sposa sua figlia solo se questo avesse sciolto un indovinello. Apollonio riesce a risolverlo, lo
esprime al re e questo indovinello svelava il rapporto incestuoso tra padre e figlia. Quando Apollonio risolve
l’indovinello, il re dice che non ha indovinato e gli dà dei giorni per continuare a pensarci. Apollonio capisce
che è in pericolo perché Antioco sta pensando di ammazzarlo perché aveva scoperto il segreto dell’incesto,
per cui Apollonio fugge, e dopo vari viaggi, con tutto il suo seguito, naufraga e rimane l’unico superstite.
Arriva quasi morto sulle spiagge del regno di un altro re, Arcitrastes. Qui viene notato da alcuni nobili
perché sa giocare bene a palla, viene invitato a corte, all’inizio non vuole svelare la sua identità perché è un
naufrago, non ha niente, poi il re Arcitrastes si rende conto della legalità di quest’uomo nonostante non
avesse niente, lo invita presso la sua corte e la figlia del re, Lusiana, s’innamora di lui. Apollonio, che è bravo
anche a suonare strumenti (la viola in questo caso), diventa il maestro di Lusiana e i due si innamorano e si
sposano. Nel momento in cui lei è incinta decidono di tornare a Tiro perché Apollonio ha ripreso le forze e
vuole ritornare nel suo regno. Mentre sono in viaggio per Tiro, lei partorisce una bimba che si chiama
Tarsiana, e cade in uno stato di morte apparente. All’epoca c’era la credenza che avere un cadavere sul
mezzo su cui si sta viaggiando fosse presagio di cattivo augurio, quindi il corpo di Lusiana viene
abbandonato in mare con preziosi gioielli. Da una parte c’è Apollonio con la bimba, dall’altra c’è Lusiana che
viene salvata, arriva ad Efeso dove viene rianimata e dove diventa una sacerdotessa di Diana, le viene
affidato un tempio. Nel mentre Apollonio arriva a Tiro dove affida sua figlia a degli amici, perché non riesce
a crescerla, e va in Egitto. Tarsiana viene rapita, venduta, diventa una giullaressa perché prende dal padre la
bravura nel suonare, acquista una meravigliosa bellezza dalla madre. Apollonio e Tarsiana, dopo varie
vicissitudini, si riconoscono grazie alla musica perché Apollonio riconosce la sua bravura, e alla fine,
attraverso altri incontri fortuiti come la visita al tempio dove c’era come sacerdotessa Lusiana, si riunisce la
famiglia. Tarsiana si sposa nel mentre. Il filo conduttore dei riconoscimenti è dovuto all’arte e alla cultura,
non alle battaglie. Nel frattempo, Antioco e la figlia erano entrambi morti, quindi Apollonio guadagna anche
il regno di Antiochia pur non uccidendo nessuno. Il proposito dell’opera è moralizzante, cioè i buoni
vincono soprattutto se accompagnati dalla cultura. I protagonisti sono nobili, hanno un onore da difendere,
che viene difeso da parte di Apollonio grazie alle sue doti morali. La scena che racconta il momento in cui
arriva a corte dal re Arcitrastes è molto significativa perché nonostante lui sia un re non ha
quell’atteggiamento di superiorità verso il re che lo accoglie, ma attraverso la sua umiltà riesce a farsi
riconoscere. Apollonio è l’emblema di quella che sarà la “cortesia”. Quest’opera rappresenta il deleitar
aprovechando. Quest’opera contiene dei vari riferimenti letterari di diverse culture, prima tra tutte quella
greca e la sua cultura del viaggio (Odissea), che rappresenta una crescita delle proprie conoscenze e
possibilità. Altro tema è quello dell’indovinello, tipico della cultura araba. Poi ci sono personaggi tipici della
tradizione letteraria spagnola, ovvero la giullaressa, che rappresenta un antecedente diretto del picaro e
della gitana.
12. LETTERATURA SPAGNOLA 20.04.21
Il mester de clerecia è fatto da clerigos (letterato, uomo di chiesa). Ha regole ben precise, cioè le opere
hanno una strofa fissa formata da 4 versi che si chiama cuaderna via o tetrastico monorimato. Il numero
delle sillabe di ogni verso è 14, divisi in due emistichi di 7 e 7 sillabe, e la rima è consonante (rima baciata).
Abbiamo parlato della prima opera composta in cuaderna via cioè il Libro de Apollonio.

Parliamo di due opere del mester di clerecia: nella prima compare per la prima volta la dicitura di questo
nuovo mester. L’opera è il “Libro de Alexandre”, questo testo ebbe un enorme successo durante il
medioevo, tant’è che si ritrova citato in altri testi della letteratura spagnola medievale, in particolare si fa
riferimento a questo testo nel “Poema di Fernan Gonzales”, nel “Libro de buen amor” e anche in un’opera
del ‘400 di un autore che si chiama Marques se Santillana, “Carta proemio”. Il “Libro de Alexandre” risale
alla metà del ‘200, ed è un’opera abbastanza lunga composta da 2675 tetrastici monorimati (strofe di
cuaderna via), i versi sono quasi sempre alessandrini. L’eroe di cui si parla nel titolo è Alessandro Magno.
Questo dimostra come la letteratura spagnola medievale non trattasse solo tematiche e personaggi locali e
religiosi, ma si cominciava anche a seguire la scia delle grandi tematiche e dei grandi personaggi a livello
europeo. Per quanto riguarda l’autore ci sono varie attribuzioni, è stato attribuito a Gonzalo de Berceo ed è
stato attribuito anche ad Alfonso X el sabio ma è improbabile, l’autore più probabile secondo i critici è
Lorenzo de Astorga, perché uno dei manoscritti giunti fino a noi è stato firmato proprio da Lorenzo da
Astorga, quindi almeno è sicuramente il copista di uno dei manoscritti completi. Il manoscritto del “Libro di
Alexandre” è stato ritrovato in un codice della biblioteca di una famosa casata spagnola cioè la casa degli
Ozuna, che era una famiglia nobile che aveva un’enorme biblioteca. Un altro manoscritto si trova nella
biblioteca nazionale di Parigi. In questo testo ai ritrovano i primi riferimenti espliciti al mester de clerecia e
alla cuaderna via. Il fatto che l’autore si riferisca a lui come buon clerigo e hondrado fa pensare che l’autore
fosse un letterato che aveva conoscenze della letteratura classica. Egli aveva conoscenze anche della
letteratura araba. Le fonti di questo testo sono francesi e sono 1. l’Alexandreis di un autore che si chiama
Gautier de Chatillon e 2. Le Roman d’Alexandre, un poema cavalleresco francese. Entrambe le fonti parlano
di Alessandro Magno. Nel codice di Ozuna, insieme al codice, sono state ritrovate due lettere in prosa
aggiunte al testo del poema, che sono due versioni musulmane della leggenda alessandrina, quindi ci sono
come due versioni arabizzate della vicenda di Alessandro Magno.

Libro de Alexandre: ci sono numerosi anacronismi (rimandi nel tempo che non seguono un filo logico) e
digressioni lunghe, per cui non si parla solo del personaggio di Alessandro ma di varie storie che sono
intercalate. Si dedica molto spazio alla distruzione di Troia. Proprio per questi motivi, l’intreccio della storia
è molto complicato. Ebbe molto successo. Si presenta questo eroe, Alessandro Magno, come un cavaliere
cristiano, ancora una volta abbiamo un prototipo di eroe da prendere come esempio. Si uniscono sia la
tematica profana sia quella divina, quindi è sicuramente un cavaliere cristiano che affronta anche delle
imprese che sono di argomento profano. In più, si aggiunge anche un registro leggendario alla storia
proprio perché deriva dalla letteratura francese che si spinge a raccontare quello che magari aveva una
caratterizzazione favolistica. L’autore riesce ad inglobare tutto il suo sapere in quest’opera. La figura di
Alessandro Magno è un pretesto per l’autore per raccontare la società medievale dell’epoca, la storia di
quest’eroe ma focalizzandosi sulla cultura dell’epoca.

Poema de Fernan Gonzalez: è l’unica attestazione di cui abbiamo notizia di un argomento epico trasformato
in opera del mester de clerecia, cioè è l’unico esempio di narrazione epica nazionale nell’ambito delle opere
in cuaderna via. Il contenuto è tipico dei cantares de gesta e prende ispirazione dal cantar de Fernan
Gonzalez. Unisce quindi la tradizione giullaresca e le forme colte del mester de clerecia. Fernan Gonzalez è
un personaggio storico realmente esistito, molto importante per la Spagna perché si ritiene essere colui che
ha dato l’indipendenza alla Castiglia. Di Fernan Gonzalez parla anche Berceo in una delle sue opere, la “Vida
de san Millan de la Cogolla”. Le fonti sono il “cantar de Fernan Gonzalez” ed episodi della Bibbia. C’è anche
l’elemento della tradizione popolare perché su Fernan G. c’erano tante leggende. È scritto in cuaderna via
ed è stato attribuito ad un monaco, quindi un clerigo sia dal punto di vista letterario sia religioso. Un clerigo
che si trovava nel monastero di san Pedro de Arlanza, che probabilmente fu fondato dallo stesso Fernan
Gonzalez. Questo clerigo decide di dedicare un poema a questo personaggio storico con un testo creato
intorno al 1260, anche se non si è sicuri della data. Questo personaggio viene rappresentato come il più
grande eroe religioso e politico della Spagna perché era il miglior guerriero, aveva salvato la Castiglia da
varie occupazioni, e l’autore, attraverso questo personaggio vissuto tanto tempo prima rispetto a quando
viene creata l’opera, vuole far conoscere la verità della Spagna e della Castiglia ma portata alla sua
contemporaneità, cioè in un periodo difficile come il ‘200 in cui c’erano ancora gli arabi, la reconquista in
atto, dissidi interni tra re e sudditi, vuole cercare di riportare una sorta di pace ricordando i bei tempi.
Anche perché la Castiglia rappresenta, all’interno del poema, il paradigma della cristianità contro
l’occupazione mora, infatti viene esaltata la Spagna in particolare la Castiglia, definita la parte migliore.
L’intento dell’autore è quello di un’esaltazione patriottica attraverso Fernan Gonzalez. Il manoscritto che ci
è giunto è incompleto ma nonostante questo rappresenta un’opera fondamentale della letteratura
dell’epoca, sia per la tematica sia per l’unione dei due mester (le gesta dell’eroe raccontate alla maniera di
clerigos).

Nell’ambito del mester de clerecia accade qualcosa di nuovo, si cominciano a conoscere i nomi degli autori.
L’anonimato rappresentava una delle caratteristiche della letteratura medievale, ma dal 1200 abbiamo
sempre più spesso il riferimento all’autoria dei testi

Gonzalo de Berceo: è il primo autore della letteratura spagnola ad inserire il proprio nome all’interno delle
opere, è il primo che prende coscienza del fatto che lui è un lavoratore, un operaio della parola, e si rende
conto che il fatto che a lui possano essere attribuite quelle opere è segno di compiacimento, lui vuole
scrivere opere. Fa un processo che in latino si chiama “autonominatio”, cioè si autonimina; non solo nei
Milagros, ma anche in altre sue opere. L’autonominatio è dovuta anche al fatto che lui vuole rivendicare la
veridicità delle cose che racconta. Gonzalo de Berceo nacque a Berceo, cittadina spagnola. Si sa che è nato
intorno al 1196, e muore intorno al 1260. La sua attività letteraria si sviluppa nella prima metà del ‘200. Si
forma e studia nel monastero di san Millan de la Cogolla, centro di cultura. Si forma in questo convento
dove rimane per tutta la sua vita, ed è qui che diventa sacerdote quindi anche lui è clerigo da due punti di
vista. Fa servizio in questo convento e in vari documenti che sono stati ritrovati si attesta tutto il percorso
religioso di Berceo (prima diacono, poi presbitero). I dati biografici della sua vita sono abbastanza certi
perché ci sono rinvenuti attraverso documenti. Proprio per l’autonominatio che fa, in molte delle sue opere
troviamo dei dati biografici perché spesso parla di sé nelle sue opere. Scrive seguendo il mester de clerecia,
ma lo fa in maniera umile. Lui afferma di non sapere il latino, ma aveva una cultura molto profonda, aveva
letto le fonti latine da cui poi attingeva l’idea per le sue opere. La sua umiltà e modestia è dovuta alla
volontà di essere vicino al popolo, infatti scrive in volgare perché vuole arrivare a più gente possibile, inoltre
il fatto di ammettere di non conoscere il latino fa sì che le persone del popolo possano sentirsi più vicine
come spirito ad una persona umile e con una cultura bassa. Questa modestia lo avvicina al popolo, il suo
intento è quello di dare un insegnamento, lui vuole trasmettere la dottrina della morale cattolica al popolo,
perché è convinto che solo l’istruzione e l’insegnamento possano giovare al popolo. Tutte le sue opere
hanno una tematica religiosa. La lingua utilizzata da Berceo era popolare, i termini erano molto semplici,
ma la sua semplicità di vocaboli struttura ecc si unisce alla perfetta struttura dei versi, quindi alla cuaderna
via.

Le opere di Berceo: lui scrive 3 vite dei santi, che sono il maggior esempio moralizzante che può servire da
insegnamento, perché il santo, con le sue azioni corrette, può dare indicazioni comportamentali a chi
ascolta. Il primo è “Vida de san Millan de la Cogolla”, Berceo dedica un’opera al santo a cui era dedicato il
monastero dove ha vissuto tutta la sua vita. Poi scrive “Vida de santa Oria” e “Vida de santo domingo de
Silos”. Poi scrive 3 opere esegetiche (l’esegesi è l’interpretazione critica, quando si vogliono spiegare
determinati significati legati alla religione cristiana) che sono “Del sacrificio de la misa”, che parla
dell’eucarestia durante la messa, “Los signos que apareceran ante el juicio” e “El martirio de san Lorenzo”,
che parla della vita di san Lorenzo che è stato un martire. Poi scrive 3 opere mariane cioè dedicate alla
Madonna, “Los milagros de nuestra senora”, “Loores de nuestra senora” e “El planto que fizo la Virgen el
dia de la pasion de su hijo” (el duelo de la virgen in breve). Poi scrive 3 inni. Ritorna il numero 3,
fondamentale nella religione cristiana. Berceo spesso utilizza la numerologia riprendendo i significati e
l’importanza che hanno all’interno della Bibbia. Il fatto che Berceo appartenga al mester de clerecia, non
significa che lui non utilizzi dei ricorsi tipici del mester de juglaria, spesso viene chiamato el poeta
ajuglarado cioè “ingiullarito”. Per esempio spesso si rivolge al pubblico oppure ci sono richieste di
ricompensa come alla fine del Cid. Utilizza dei ricorsi della juglaria per essere ancora più vicino al popolo,
che era abituato a queste formule.

I Milagros de nuestra Senora: ci sono arrivati 3 manoscritti, che sono tutti derivanti probabilmente da
un’unica prima stesura originale, che deriva da diverse fonti, quindi è improbabile che Berceo non
conoscesse il latino. La prima fonte è un testo del medioevo latino che si chiama “Codice Thott 128” che è
stato ritrovato nella biblioteca di Copenaghen. Questa è la fonte primaria di Berceo, il quale, si ispira anche
a testi in volgare, in particolare testi in volgare che rappresentavano delle varie raccolte di storie. Poi si
ispira ad una raccolta in anglo-normanno che si chiama “49 miracles de la Viege (o Gracial)” della fine del
1100. Poi c’è un’opera volgare francese che si chiama “Miracles de Notre Dame” di Gautier de Conci.
L’ultima fonte, in volgare castigliano, sono le “420 cantigas de santa maria” di Alfonso X. Queste fonti non
potevano essere affrontate da una persona che non conosceva il latino. I miracoli contenuti nell’opera di
Berceo sono 25 e, ritornando al significato nei numeri, 25 è un multiplo di 5, che è il numero dedicato alla
Madonna. Il 5 ritorna spesso in riferimento alla Vergine. Scrive 25 miracoli di cui 24 sono diretta ispirazione
di queste fonti. Uno invece è completamente originale e nasce da una fonte non identificata.

13. LETTERATURA SPAGNOLA 26.04.21


Dalle fonti medio-latine, Berceo prende 24 esempi e ne aggiunge uno, probabilmente quest’aggiunta è
stata fatta in una seconda versione dell’opera. I Milagros sono scritti in cuaderna via, riprende il mester de
clerecia anche se ci sono parti in cui non lo rispetta pienamente. Un “milagro” è un racconto esemplare,
cioè che vuole dare un esempio. Si chiama “Milagros de Nuestra Senora” perché questi milagros, questi
racconti, parlano di azioni della Vergine Maria. Queste fonti alla base dei milagros di Berceo sono
supportate anche da racconti folkloristici-tradizionali insieme agli episodi biblici. Berceo afferma di non
sapere il latino, voleva arrivare al popolo mettendosi sullo stesso piano. Questo lo aiuta anche nel
momento in cui deve piacere al pubblico e quindi raccontare qualcosa che il pubblico in parte già
conosceva. La prima stesura dei Milagros risale probabilmente al 1260, per la seconda non passerà molto
tempo. Il 25esimo milagro è in realtà il 24esimo, ed è leggermente diverso come struttura rispetto agli altri.
Il 1260 è anche più o meno la data in cui Berceo muore, quindi è una delle sue ultime opere. Le storie che
racconta Berceo sono per lo più inventate, sono storie che provengono da fatti potenzialmente successi che
si aggiungono ad episodi inverosimili. In questo caso, proprio perché la protagonista è la Vergine, si può
uscire dall’ambito del reale per dedicarsi a fatti ultraterreni, che sono giustificati. In questi Milagros c’è
sempre la presenza della Vergine accanto ad un personaggio di solito umile (sacerdoti, donne). La Vergine si
cala nella quotidianità dell’epoca. Questi personaggi terreni interagiscono con la Vergine perché di solito i
protagonisti di questi racconti sono fedeli devoti alla Vergine che hanno un trascorso quotidiano positivo o
negativo. L’insegnamento che si vuole dare è quello di essere fedeli alla Vergine perché così si può essere
aiutati. Questa modalità di racconto esemplare verrà ripresa nel ‘300 come ejemplos (in prosa). Il rapporto
che si crea tra il fedele e la Vergine è un rapporto di vassallaggio, cioè quello del vassallo che deve portare
rispetto ed omaggiare la Vergine. C’è una sorta di amore puro e casto nei suoi confronti. Attraverso il
rapporto di vassallaggio, il personaggio arriva ad una salvezza. La Madonna viene presentata come una
donna che in molti casi ha poco di divino e molto di umano perché prova dei sentimenti abbastanza terreni
come ad esempio la gelosia. Il fatto che lei sia così umana fa sì che, sia il personaggio del racconto ma anche
coloro che ascoltavano o leggevano questi racconti, sentissero questa figura molto più vicina a loro. Ai 25
Milagros Berceo antepone un’introduzione che presenta l’opera, ed è composta da un piano allegorico ed
uno letterale, ma contrariamente a quello che si può pensare, i due piani sono ben distinti perché è Berceo
che li esplicita per renderli chiari al pubblico. Dopo l’introduzione seguono i 25 milagros, ognuno ha il suo
titoletto che anticipa la materia che viene trattata all’interno, e tutti i milagros hanno una struttura
abbastanza fissa, seguono una scaletta, una sorta di struttura che dà unitarietà ai 25 milagros. Questo
schema è abbastanza semplice. Il milagro è strutturato con una sorta di breve prologo iniziale, a cui segue
una localizzazione, cioè un luogo in cui si svolge il milagro, che spesso è un luogo in Spagna ma saranno
ambientati anche da altre parti come anche in Italia. Non c’è un riferimento cronologico tranne nel famoso
24° esempio, perché Berceo vuole dare una visione generale di questi milagros, vuole dire che una
determinata cosa può accadere sempre. Nel milagro 24 c’è un riferimento a Fernando III detto il Santo, che
è stato re di Castilla y Leon a metà del ‘200 ed era nipote di re Alfonso VIII. In questo caso c’è un riferimento
esplicito al momento in cui si è verificato il milagro. Struttura: breve prologo, localizzazione, mancato
riferimento cronologico, poi una presentazione del protagonista che quasi mai ha nome, si parla spesso
della sua attività lavorativa, di cosa fa durante la giornata. Non ha nome proprio perché, come con la
cronologia, si può chiamare in qualsiasi modo, è un protagonista universale. Dopo la presentazione del
protagonista c’è la narrazione dell’episodio, alla fine della quale c’è un epilogo del narratore, con una
morale che molto spesso viene esplicitata e non lasciata all’intuizione del pubblico. Usare lo stesso schema
nei 25 milagros rendeva ancora più immediato l’insegnamento al pubblico che sapeva cosa aspettarsi.

INTRODUZIONE: la prima cosa che notiamo dal punto di vista musicale è la rima baciata, ogni cuaderna
rima ha la sua rima. Le prime parole utilizzate nell’introduzione “Amigos e vassallo…” sono una ripresa di
una delle tecniche giullaresche cioè quella di rivolgersi al pubblico per attirare l’attenzione ma anche per
parlare direttamente con il pubblico. Berceo si rivolge ad amici e vassalli di Dio onnipotenti. Il vassallo è
qualcuno che è sottoposto a qualcun altro e deve portare rispetto. Si rivolge quindi ai credenti. La prima
strofa è un esempio tipico di captatio benevolentiae, una formula latina che utilizzano di solito gli scrittori
medievali per catturare la benevolenza del pubblico/lettore. Il fatto di affermare che si vuole raccontare
qualcosa di bello e che sicuramente si ritroverà questa bellezza nel racconto, è qualcosa che invoglia il
lettore a leggere. Lo scrittore presenta il contenuto dell’opera come molto appetibile per appassionare il
lettore fin da subito. Subito dopo dice che vuole raccontare un “buen aveniment”, che è un richiamo alla
buona novella evangelica. Nella strofa 2 c’è l’autonominatio: utilizza la prima persona “yo, maestro…”
maestro era un titolo che poteva essere dato anche ai sacerdoti. Ci teneva ad essere riconosciuto come
autore di queste opere. Il fatto che lui scrivesse le Vidas rappresentava per lui un modo di pubblicizzare
questi luoghi, perché quanti più pellegrini arrivavano nei monasteri, più denaro e offerte portavano. Dopo
che si autonomina, dice dove si trova: si trova “en romeria”, il romero è il pellegrino, quindi lui si definisce
in pellegrinaggio, e arriva in un prato, la cui descrizione ci ricorda il locus amoenus. C’è una descrizione di
questo luogo che è molto particolareggiata, ci rende partecipi del luogo: è un prato verde, rigoglioso e
curato, popolato di fiori, è un luogo che viene desiderato dagli uomini stanchi. Nel prato ci sono degli alberi,
i fiori emanavano un profumo meraviglioso, che erano piacevoli anche alle menti. Ci sono varie fonti
d’acqua fresche in estate e calde in inverno, davano sempre sollievo. C’erano tanti frutti maturi. il
pellegrino si scarica dell’accumulo di tutte le difficoltà della sua vita e si stende all’ombra. Dopo tutto quello
che ha raccontato, passa alla descrizione della fauna, comincia a parlare degli uccelli che ci sono in questo
luogo. Ritorna la parola “temprados”, che in questo caso significa “accordati” perché sta parlando del canto
degli uccelli, di come tra di loro avessero dei suoni che erano perfetti, nessuno stonava. Parla di come
cantavano gli uccelli, delle note a cui arrivavano. Poi dice che il canto e la musica dei grandi musicisti non
valeva nemmeno un soldo a confronto. Dopo aver parlato degli uccelli riprende la descrizione del prato la
cui bellezza resta sempre intatta nonostante le stagioni e le tempeste. Quanti più fiori si raccoglievano, più
ne nascevano. Nell’ultima strofa fa un paragone con l’eden del paradiso terrestre ma in particolare il
paradiso celeste, quindi qualcosa a cui si deve arrivare. Il riferimento a Adamo ed Eva è un riferimento al
peccato originale, Berceo riprende questo racconto biblico per dire che i frutti degli alberi di questo posto
erano dolci come quelli dell’albero del bene e del male. La strofa 16 è una strofa di passaggio e la
riconosciamo per la formula di richiamo al pubblico. Il narratore dice che quello che ha detto fino ad ora ha
un significato oscuro e vuole spiegarlo, e per farlo usa una metafora, quella dell’albero che ha una corteccia
esteriore ed un midollo interiore, lui dice “togliamo la corteccia, entriamo nel midollo, prendiamo la parte
interna e lasciamo quella di fuori”, vuole dire che i significati superficiali li mettiamo da parte per entrare
nel significato vero e profondo (il midollo). Riprende la figura del pellegrino e dice che tutti gli uomini senza
alcuna distinzione sono pellegrini che affrontano un cammino. È come se tutti abitassero in un esilio il cui
camino è quello che ci conduce alla vera vita, cioè la vita nell’aldilà. Il pellegrinaggio della vita terrena si
conclude nel momento in cui la nostra anima arriva in paradiso. Sta spiegando la figura del pellegrino,
l’uomo, che attraversa il suo percorso nella vita terrena. Una volta terminato il suo pellegrinaggio arriva alla
sua meta cioè la vita dell’aldilà. Il pellegrino dell’inizio che riposa è l’essere umano che si ritrova in un prato
che è la sua aspirazione. Durante questo pellegrinaggio sulla terra (quindi durante la vita terrena) ci
ritroviamo in un bel prato dove trova rifugio ogni pellegrino stanco. Il prato, sempreverde e rigoglioso, è la
vergine Gloriosa, rappresenta l’onestà che non viene mai macchiata della vergine perché fu concepita senza
peccato. Quel prato sempreverde rappresenta l’integrità della verginità di Maria. Piano piano riprende tutti
gli elementi di cui aveva parlato all’inizio e ne spiega il significato. Le 4 fonti limpide sono i 4 vangeli. Gli
evangelisti hanno scritto i vangeli consultandosi con la Madonna, che era quasi un’ispirazione alla scrittura
dei vangeli. Dopo aver parlato del prato e delle fonti, parla dell’ombra (l’ombra degli alberi che faceva
asciugare il sudore della stanchezza del pellegrino): l’ombra sono le preghiere di Maria per i fedeli, infatti i
pellegrini hanno conforto e protezione con l’ombra.

14. LETTERATURA SPAGNOLA 27.04.21


Da strofa 25: gli alberi, descritti come sempreverdi, sono i miracoli della Vergine, sono quelli che aiutano il
fedele. Dice che questi miracoli sono più dolci dello zucchero stesso e aiutano a guarire il peccatore, come
fossero una medicina. Poi si parla degli uccelli, si era parlato di un coro molto intonato, cantavano
all’unisono, gli uccelli che cantano nel prato sono i santi padri della chiesa, color che hanno dato il loro
contributo alla fondazione della chiesa ed hanno cantato le lodi alla Vergine (in questo caso si parla si
sant’Agostino e san Gregorio) e tra tutti questi cantori dello splendore e delle sue azioni c’è un usignolo che
viene però superato dal profeta Isaia e dagli altri profeti. Poi si parla degli apostoli, dei confessori ed ai
martiri, e con loro alla fine si parla delle vergini che dedicano la propria vita alla Vergine, e fanno un canto
molto speciale. Tutte le voci che risuonano in questo prato appartengono a coloro che della vergine sono
stati i migliori cantori e fedeli. Tutti questi personaggi sono tutti collegati all’esaltazione e alla fede nei
confronti di Maria, che rappresenta il personaggio principale verso cui sono indirizzati questi canti. Dopo
aver parlato del passato, quindi dei personaggi che hanno popolato il panorama degli appartenenti alla
chiesa, si passa al presente, si parla del fatto che ogni giorno, in tutte le chiese del mondo, ci sono tutte
persone del clero che cantano le lodi alla Vergine, quindi è un’usanza che è cominciata tanto tempo fa e
che ancora oggi esiste, tutti fanno parte del coro di usignoli. Nella strofa 31, che è un po’ di passaggio, si
ritorna ai fiori, dice che sono tutti i nomi che vengono dati alla Vergine, riprende il termine “temprado” che
significa che tutti questi fiori rendono armonioso, ordinato e perfetto questo prato che è appunto la
Vergine. Dalla strofa 32 comincia l’elenco di nomi che vengono dati alla Vergine. Nella strofa 34 ci sono due
episodi biblici che Berceo attribuisce alla presenza e all’influenza della Vergine nel miracolo che viene fatto:
nel primo si parla di Gedeone, un personaggio dell’antico testamento, il quale chiede a Dio di avere un
segno della sua presenza e vicinanza e gli chiede di far piovere solo su questa pelle di animale e non su
tutto il prato intorno, e Dio così fa, quindi questo miracolo Berceo lo riconduce alla mediazione della
Madonna, così anche il fatto che Davide riesce a sconfiggere il gigante grazie alla forza che gli viene data da
Dio e Berceo attribuisce alla Vergine l’aiuto dato a Davide Golia. Berceo dice che non c’è un nome che non
possa essere attribuito alla Vergine, perché tutto quello che proviene da lei è positivo. Seguono altri due
esempi di personaggi biblici dell’antico testamento, cioè Mosè e Aarone che erano fratelli, che hanno
guidato il popolo di Israele lontano dagli egiziani che li tenevano prigionieri, anche in questo caso la Vergine
interviene a favore dei giusti ed aiuta questi due personaggi a fare del bene. Ci sono dei piani cronologici
sovrapposti, nell’antico testamento non c’è ancora la figura di Maria, ma l’azione dei suoi miracoli e della
sua benevolenza agisce anche in cose precedenti alla sua venuta. Nella strofa 42 si riprende la formula
giullaresca di richiamo all’attenzione, come se Berceo si accorgesse che sta divagando, quindi riprende il
discorso dei fiori, paragona l’enormità di nomi della Vergine ai fiori di un campo enorme. Si avvia alla
conclusione dell’introduzione. Dopo aver ripreso la figura dei fiori infiniti, parla degli alberi da frutto dove si
ritrovano gli uccellini che fanno i bellissimi canti. Chiusa la descrizione dell’allegoria, introduce la vera
introduzione dell’opera. È qui che il lettore capisce l’intento dell’autore, cioè scrivere dei versi sui miracoli
della Vergine. Nelle ultime 2 strofe rappresentano la concreta introduzione dell’opera, riassume quanto
esposto in precedenza ma con l’invocazione sua alla Vergine, è come se lui stesso si immedesimasse in uno
di quegli uccelli di cui aveva parlato prima per cantare in prima persona le lodi alla Vergine Maria. Chiede
aiuto alla stessa perché dice di non essere all’altezza di farlo senza il suo appoggio, ritroviamo ancora la sua
umiltà. Il buen aveniment dell’inizio è proprio il messaggio allegorico del pellegrino che nella sua vita
terrena si trova a dover trovare un riparo, un conforto, un’ombra dove riposarsi, e quest’ombra è la
Vergine. Ci sono varie parti di questa introduzione: la prima parte che è l’introduzione dell’introduzione,
dove si presenta il poeta e annuncia che cosa sta per fare, la seconda parte dopo l’allegoria della
spiegazione del locus amoenus che riprende e spiega la prima parte, la terza dove riprende tutte le allegorie
e rivela l’intento dell’opera e la quarta parte dove c’è il senso vero dell’opera e l’invocazione alla Vergine.

(1 2 6 9 15 i milagros che leggiamo)

PRIMO MILAGRO: le prime due strofe sono di introduzione. Questo milagro è ambientato a Toledo. Il breve
prologo diventa sempre più lungo man mano che avanzano i miracoli, quindi all’inizio è molto breve, infatti
qui si passa direttamente alla localizzazione che sarebbe la seconda parte dello schema che viene utilizzato.
La prima cosa che viene detta è “en Espana”. All’inizio mette le mani avanti per dire che anche se racconta
poche cose ne sa davvero tante. Nella seconda strofa si dice che è a Toledo, viene menzionato il fiume Tajo.
Si passa poi alla presentazione del personaggio, che ha un nome (non succede spesso per
l’universalizzazione dei fatti), si parla di un personaggio ben preciso che ha avuto un ruolo fondamentale
nella storia della chiesa. Si dice che è un arcivescovo, un sacerdote, che fu un amico di Maria. C’è sempre un
rapporto tra Maria e il fedele altrimenti non può intervenire. Il personaggio di cui si parla è Ildefonso, che
sarà anche santo, il miracolo di cui si parla avviene quando è già santo. San Ildefonso è stato vescovo di
Toledo nel ‘600 d.C ed è stato uno dei padri della chiesa. È importante perché è stato uno dei primi ad
introdurre nella liturgia ispanica elementi mariani cioè dedicati alla Vergine, è stato tra i primi a
propagandare l’immagine di Maria come fondamentale nella storia del cristianesimo. Ildefonso era un buon
pastore di gregge (metafora che si utilizza per Gesù), aveva un modo di fare molto onesto e giusto. Oltre ad
avere gran fede per la Vergine ha fatto anche cose pratiche: a lei ha dedicato un libro di detti ben scritti
sulla verginità contro tre rinnegati, è un testo dove difende la verginità di Maria contro tre personaggi che
invece non credevano a questa verginità. Le strofe da 52 a 56 raccontano che, all’inizio, la festa
dell’annunciazione della Vergine cadeva sempre in un periodo che era di quaresima, durante il quale la
chiesa non “canta”, non era un periodo gioioso. Il fatto che questo lieto annuncio cadesse nel periodo di
quaresima faceva sì che non si fosse festeggiato come si voleva, quindi Ildefonso sposta l’annunciazione dal
periodo della quaresima al periodo di natale, mise vicino la festa dell’annuncio della Vergine e la nascita di
suo figlio. Tutto questo serve a Berceo a presentare il personaggio. Molti andavano a messa nel giorno
dell’annunciazione. La Vergine ringrazia l’arcivescovo, il giorno in cui si prepara per dire questa prima messa
il 18 dicembre, gli appare la Madonna, che aveva in mano il libro che aveva scritto Ildefonso, e insieme gli fa
un regalo, gli regala una casula, il paravento sacro che indossa il sacerdote per dire la messa. Era una casula
senza cuciture e gli parla, lo ringrazia per quello che ha fatto per lei e gli dice che il regalo doveva indossarlo
nel giorno di natale. Questa casula poteva essere indossata solo da Ildefonso. Successivamente, la Vergine
scompare, aveva concluso il compito di ringraziarlo. Nella strofa 65 si parla dell’ufficializzazione di questa
festa che era stata proposta da Ildefonso, perché nel concilio di Toledo del 656 viene confermata l’ufficialità
della festa dell’annunciazione il 18 dicembre. Secondo il volere di Cristo, Ildefonso muore, viene onorato
dalla Vergine quando la sua anima arriva in paradiso, e viene nominato un altro arcivescovo, che era molto
superbo, non era così credente, ma voleva uguagliare l’altro anche se non fu bravo. Questo Siagro, il nuovo
arcivescovo di Toledo, vuole la casula che la Madonna aveva regalato a Ildefonso, perché dice di non essere
diverso da Ildefonso. La Vergine si dispiace di queste parole, e anche il creador prova ira nei confronti di
questo personaggio. Siagro manda i suoi sottoposti a prendere la casula per dire la messa e per confessare,
ma non riuscì a fare nulla di ciò perché ciò che a Dio non piace non può essere realizzato. Questa casula era
molto larga, ma a Siagro risultava strettissima, tanto che lo strinse alla gola, lo soffoc e morì, viene quindi
subito punito, questo perché vuole andare contro uno dei fedeli più grandi della Vergine, e gli si vuole
paragonare con poca umiltà. La strofa 73 racconta che la Vergine sa dare premi ai suoi amigos, ai fedeli, ma
allo stesso tempo sa ben castigare coloro che sono nemici. Si ricorda che è una Vergine molto umanizzata.
La strofa 74 riprende la formula “amigos…” e c’è la morale: dobbiamo rispettare la madre, se noi vogliamo
raggiungere il nostro bene, anche facendo poco ma facendolo bene possiamo essere aiutati

SECONDO MILAGRO: rispetto al primo milagro che iniziava direttamente col luogo, c’è una strofa di
introduzione con la formula “amigos”. Introduce il fatto che sta per raccontare un altro milagro fatto dalla
Vergine. Qui non c’è un luogo, c’è direttamente la presentazione del personaggio, un monaco benedetto
molto devoto che abitava in un’abbazia, è esplicitato che non si conosce il luogo di questa abbazia, può
essere una qualunque. “querer de corazon bien” significa provare un amore profondo, indica tutto l’affetto
che questo monaco provava per la Madonna e proprio per questo ogni giorno faceva un inchino davanti
alla sua statua. Questo dell’inchino viene riportato nel verso 76d e nel 77a, la ripetizione di questa azione è
un’usanza giullaresca per dare enfasi o nel caso in cui qualcuno avesse perso delle parti, e viene ripreso da
Berceo con lo stesso intento, e per dare importanza all’azione. Questo monaco era molto attento, gli fu
affidata la sagrestia, nella sua piccolezza era un gran fedele. Nonostante il fatto che questo monaco fosse
così buono, accorto e devoto, si fa tentare dal male (Belzebù il demonio). Cede alla tentazione della
fornicazione, si dedica ai piaceri della carne. Nella strofa 79 si parla di un uso malo ovvero una cattiva
usanza che comincia a prendere cioè quella di uscire di notte quando il priore dell’abbazia va a dormire. È
come se la cosa importante non è il fatto che lui peccava ma il fatto che faceva l’inchino alla vergine tutti i
giorni. Non viene raccontato come pecca. Sia quando usciva sia quando rientrava (di notte) passava dinanzi
all’altare e s’inchinava davanti alla statua, senza mai dimenticarsene. Dalle parti dell’abbazia c’era un
ruscello, e una volta mente lui stava rientrando dalle sue notti folli, vi cadde dentro e muore. Questa morte
non è come la morte che viene data all’arcivescovo del milagro precedente, non è una punizione o meglio
non è esplicitato che è per punizione, ma la cosa importante è ciò che viene raccontato dopo. Il giorno
dopo, le campane che avrebbe dovuto suonare, non suonano. I frati vanno a cercarlo ma non lo trovano.
Poi lo trovano affogato nel fiume. Nella strofa 84 si dice che non si riesce a capire che cosa avesse
provocato questa morte, se l’avessero ucciso o altro. Sono tutti dispiaciuti per la sua morte, anche perché il
monastero viene screditato. Mentre il corpo continua a giacere nel fiume, l’anima affronta un’altra
avventura, si vede circondata da una folla di diavoli che voleva portarla con sé nel baratro.

15. LETTERATURA SPAGNOLA 03.05.21


Continuo del 2° milagro, strofa 86: non solo arrivano i diavoli, ma anche gli angeli (opposizione bene e
male) per contendersi quest’anima, perché il sacerdote prima di dedicarsi alle sue notti di peccato aveva
condotto una vita abbastanza tranquilla e sana. Gli angeli vogliono prendersi quest’anima ma non ci
riuscirono perché erano più deboli dei diavoli, soprattutto per le ragioni che portavano avanti per reclamare
quell’anima, cioè il fatto che avesse peccato alla fine della sua vita era più forte del fatto che all’inizio si
comportava bene. Quando gli angeli perdono le speranze di conquistare l’anima, arriva la Vergine che
mette a tacere i diavoli, che non osano controbattere. La Vergine gli dice che quell’anima era sua, perché
durante la sua vita si era affidato a lei ed ora deve proteggerla. Si fa avanti uno dei diavoli più coraggiosi ed
importanti, il quale dice che è risaputo che l’uomo viene giudicato secondo le sue azioni, quindi nel
momento in cui quell’uomo è morto facendo un’azione negativa, dev’essere preda dei diavoli. La Vergine
vuole salvare quest’anima e dice che quando l’uomo è uscito di casa le ha fatto una riverenza, quindi lo
perdona, ma si appella a Cristo perché lei non ha potere di decidere. Cristo decide di dargli una seconda
possibilità e farlo rivivere, soprattutto per porre rimedio ai peccati che aveva commesso. Ad un certo punto
l’uomo resuscita e tutti si spaventano. Afferma che tutto quello che è successo è grazie alla Vergine, che
salva i suoi fedeli. Dopo quello che è successo si rende grazie a Dio per quello che ha fatto, si tratta di un
miracolo che convince ancora di più tutti i fedeli della grande potenza di Maria. La strofa 99 ha 5 versi, è
uno di quei casi in cui non si rispetta l’ordine, il quinto verso è in latino (era una frase famosa della liturgia
ma può dimostrare che Berceo conoscesse il latino) ed è una formula che si utilizzava nei riti latini quando si
facevano le messe per i defunti. Dopo questa dimostrazione d’affetto della Vergine, la vita del fedele
cambia, infatti il monaco si confessa, fa penitenza e riscatta tutto quanto era successo. La penultima strofa
è un po’ la morale, l’ultima invece è un’ulteriore captatio che Berceo fa, parla di tanti miracoli che fece
santa Maria e che non può raccontare perché ne sono tanti.

SESTO MILAGRO: non viene indicato il luogo, inizia con la presentazione del personaggio di cui non
sappiamo il nome, sappiamo che è un ladro generico. Era un ladro cattivo che più che pregare e lavorare
preferiva rubare. La seconda strofa sottolinea che quello che sappiamo possiamo raccontare e possiamo
attribuirgli ma per altre cose non possiamo condannarlo, quindi ci dice che qualche altra cosa la faceva. Tra
tutte queste cose negative ce n’era una buona, credeva alla Vergine. Ogni volta che doveva uscire la
salutava, le rivolgeva un inchino, e recitava l’Ave Maria ed altre cose a lei dedicate. Chi pratica il male però
va incontro a qualcosa di negativo, e deve aspettarsi una punizione: viene preso in flagrante durante un
furto, e siccome non riuscì a difendersi, venne giudicato affinché fosse impiccato. La crucejada sarebbe
l’incrocio delle strade, dove all’epoca si metteva il luogo dove venivano uccisi gli uomini per essere punito,
perché rappresentava un’ammonizione per gli altri. Viene quindi impiccato. Si ripete per due volte
“alzaronlo de tierra”, ripetizione giullaresca che serve a sottolineare una cosa. La Vergine, che soccorre i
suoi fedeli, volle aiutare questo ladro, perché si ricorda delle attenzioni che le dedicava, quindi mette le sue
mani sotto i piedi dell’impiccato in modo tale che la corda non lo strozza. Quando dopo tre giorni i suoi
parenti addolorati vanno a riprendere il corpo per seppellirlo, lo trovano senza nessun danno e in piena
tranquillità, e sotto lo scagno dove era stato appeso sentiva qualcosa che lo sosteneva. Quelli che lo
avevano impiccato pensavano che avessero fatto male il nodo, che il cappio che lo doveva soffocare fosse
troppo lento, quindi non pensano ad un miracolo, e decidono di tagliargli la testa in modo da non sbagliare.
Nel momento in cui stanno per tagliargli la testa con dei grandi coltelli, le mani della Vergine si
intromettono tra il coltello e la gola del ladro. Si cominciano a rendere conto che c’era qualcosa di
miracoloso e capiscono che la Vergine ha deciso di farlo vivere, e anche loro appoggiano questo volere
soprattutto per non mettersi contro di lei. Anche in questo caso c’è un cambiamento di vita avendo una
seconda chance. Nelle ultime due strofe si parla della pietà della Vergine, e del fatto che lei c’è sempre per i
buoni e per i cattivi, e se la si prega accorre per tutti.

NONO MILAGRO: non ci sono luogo e tempo, c’è un clerigo generico e semplice, “pobre de clerecia” ovvero
senza grande cultura ma che ogni giorno diceva la messa alla Vergine, sapeva a memoria delle formule
dedicate alla Vergine e che ripeteva tutti i giorni. Viene accusato di fronte al vescovo di non essere un buon
sacerdote perché riusciva a dire solo “Salve Sancta Parens” cioè l’inizio della messa dell’8 dicembre. Il
vescovo si arrabbia talmente tanto per l’ignoranza di questo sacerdote che chiede che si presenti davanti a
lui per essere giudicato. L’atteggiamento del sacerdote è di sottomissione, non riesce nemmeno a guardare
negli occhi il vescovo perché ha timore, è pallido in viso. Gli viene chiesto se è davvero così ignorante, e lui
umilmente risponde che se dicesse di no, mentirebbe. Il vescovo gli dice che non può continuare ad essere
un sacerdote, fin quando non imparerà altro, quindi lo caccia. Per avere conforto, il clerigo si rivolge alla
Vergine, le chiede cosa fare. La prima cosa che fa la Vergine, vedendo un suo fedele in difficoltà che le si
rivolge per chiedere aiuto, è ascoltarlo, e lo aiuta immediatamente. Si presenta davanti al vescovo e, con
impeto (brabamiente) gli chiede perché l’ha trattata così, togliendole un sacerdote fedele. Gli ordina di
reintegrarlo se no avrebbe passato un bel guaio, cioè sarebbe morto tra 30 giorni. La rabbia di Maria è
davvero una rabbia di cui aver paura, la rabbia del vescovo poteva essere controllata da qualcuno che è al
di sopra. Il vescovo reintegra il sacerdote, gli dice che può cantare tutte le messe che voleva, e che se
avesse avuto bisogno di qualcosa, gliel’avrebbe dato. Il sacerdote morirà quando sarà il suo momento. I
miracoli letti finiscono tutti con la morte ma non è una morte tragica, sono tutte accompagnate dalla
vergine. Nell’ultima strofa ripete ancora che la vergine ha fatto tanti miracoli

QUINDICESIMO MILAGRO: in questo caso abbiamo una localizzazione che non è spagnola ma italiana, la
città di Pisa. Parla di un porto che ha lo sbocco sul fiume Arno dove c’era un canonico. Questo canonico
aveva una particolare attenzione nei confronti della vergine, lamava più di tanti cristiani, e anche se
all’epoca tra i chierici non era abituale dedicare delle preghiere alla vergine, per lui era normale dirle.
Questo sacerdote aveva dei genitori, dai quali aveva ricevuto come eredità tutto ciò che possedevano
perché era figlio unico. Era una famiglia molto ricca (denaro, possedimenti). Non potendo avere figli in
quando sacerdote, non avrebbe avuto a chi dare l’eredità, di conseguenza gli fanno pensare di sposarsi, di
lasciare l’abito e di avere dei figli, e lui acconsente. Accade tutto velocemente, decide di sposarsi, cerca una
sposa, si organizza il matrimonio e il giorno delle nozze si trova con i suoi parenti, ma si accorge di non
avere tempo per dedicarsi alla vergine come faceva prima. Una delle caratteristiche della vergine è la
gelosia, è gelosa di quest’altra donna, del fatto che il suo canonico non la pensi più. Lui si rende conto di
essere in torto nei confronti della vergine, e soprattutto pensa che l’avrebbe ucciso. Entra in una chiesa, si
inginocchia e la vergine gli appare e gli parla, sempre con una certa rabbia. Torna il vocabolo “razon” in
questo caso si riferisce a ciò che gli dice. Le parole della vergine sono piene di rabbia, risentimento, gelosia.
Gli dice di essere cambiato, sembra che abbia bevuto un filtro che l’ha cambiato, e che sia stato battuto da
san Martino (padre degli ubriachi). Gli dice che prima era sposato con lei, ora ha cercato qualcosa di meglio
di lei, che non esiste, per cui non si ritroverà nulla tra le mani. Gli fa una proposta: se mi vuoi credere e
ascoltare, non devi rinunciare alla vita di prima, non deve lasciarla per un’altra, se no avrebbe portato sulle
spalle un enorme fardello. Lui non dice nulla, la sposa pensa che sia tutto perfetto. Lui era stato molto
turbato dalle parole della vergine, quindi non si gode il momento delle nozze. Si sottolinea che l’uomo
avrebbe avuto una vita ricca e gioiosa, ma la rete che aveva teso santa Maria aveva fatto una bella pescata,
cioè qualcosa di particolare sarebbe successa al canonico. La sera viene preparato il letto per la prima notte
di nozze, vanno a dormire, la sposa vuole abbracciare il marito ma non si ritrova niente tra le braccia,
l’uomo svanisce e non si sa che fine abbia fatto. La vergine lo ha ben nascosto perché non voleva che fosse
corrotto avendo un rapporto con la sua moglie. Lasciò quindi una bella moglie e tanti possedimenti. Nelle
ultime due strofe si dice che poi è stato lui a voler scappare, è stata iniziativa dell’uomo perché voleva
dedicarsi completamente alla vergine, per ottenere la vita eterna.

MILAGRO 25 (ULTIME 4 STROFE): è il miracolo di Teofilo. Queste ultime strofe sono di chiusura non solo
all’ultimo miracolo ma a tutta l’opera. C’è la ripresa di “amigos” alla strofa 908, e poi prima si era detto
“senores” quindi si riferisce a quel pubblico che sta ascoltando/leggendo. Nella strofa 908 c’è un
suggerimento, cioè di accettare il consiglio di fare penitenza, confessarsi e convertirsi. Le ultime 3 strofe
terminano con “amen”, sono come delle piccole preghiere che chiudono l’opera, “amen” significa “così
sia”, ci si augura quindi quello che è stato detto in precedenza. C’è la preghiera a Gesu e alla Vergine senza i
quali non si fa nessuna buona cosa, ripete la metafora del pellegrino che deve guadagnarsi quel prato cioè
quel locus amoenus a cui arrivare che è eterno e luminoso. Nell’ultima strofa si riprende l’autonominatio. E
c’è un verso in più in cui si fa un’ulteriore richiesta, chiede la grazia anche a Nostro Signore.

16. LETTERATURA SPAGNOLA 4.05.21


Dopo aver parlato dell’affermazione del mester de clerecia, cominciamo a parlare di letteratura in prosa, in
particolare una letteratura che ha come scopo quello di insegnare. Siamo ancora verso la fine del ‘200, non
è la letteratura didattica che troveremo nel ‘300. Quello che aveva fatto Berceo che aveva introdotto nelle
sue opere elementi del quotidiano, viene ripreso da questo tipo di letteratura che voleva essere vicina al
popolo. Questa letteratura vuole trasmettere un insegnamento che non sempre è esplicito. Questi testi
sono in prosa, all’epoca si trovavano anche al di fuori dell’ambito letterario. Le attestazioni di opere in prosa
in volgare sono quelle che rappresentano le documentazioni ufficiali dell’epoca: documenti in archivio,
statuti, contratti (hanno importanza linguistica più che letteraria). Questi sono i primi testi in prosa
castigliana, più tardi troveremo altri testi che hanno importanza letteraria e sono le traduzioni. Abbiamo
parlato di Toledo come epicentro di incontro di culture, vi era una scuola “Escuela de traductores de
Toledo”, dove cominciano ad essere tradotte diverse opere provenienti dalla cultura orientale, si comincia
ad abbandonare la scrittura in latino per dedicarsi al volgare castigliano. Questa novità della letteratura
spagnola fa sì che potessero accedere a questo tipo di opere appartenenti a culture tanto lontane, anche
persone del popolo, si potevano cominciare a conoscere la scienza e la storia proprio perché c’è una
divulgazione di documenti che appartenevano a qualsiasi genere in castigliano. Il primo testo letterario
spagnolo in prosa, scritto direttamente in castigliano, risale all’inizio del 12° secolo (1100), parla di
argomenti religiosi molto in voga, ed ha un titolo che assomiglia ad una delle dispute dei poemetti
giullareschi, si chiama “Disputa del cristiano y del judio”. La prima (probabilmente) opera giunta fino a noi è
“CALILA E DIMNA” (Digna): fa parte di una collezione di favole indiane che si chiama “Panchatantra”, che
raccoglieva dei testi sia in versi che in prosa ed è un testo conosciutissimo all’epoca, è stato diffuso in tutto
il mondo e tradotto in più di 50 lingue. Questa raccolta di racconti è stata tradotta in arabo e persiano, ed
ha raggiunto l’Europa dove ha ispirato tutta la letteratura occidentale. Calila e Digna è stata tradotta in
castigliano dall’originale indiano che si trovava nel Panchatantra. Forse la traduzione è stata fatta per volere
di Alfonso X, ma il testo originale da cui è stata tradotta probabilmente era la traduzione dall’indiano in
arabo, e il traduttore che ha tradotto l’originale si chiama Abdallah ibn al-Muqaffa. È stata tradotta poi
anche in latino da Giovanni da Capua con il titolo “Directorium humanae vitae". Calila e Dimna sono le due
protagoniste, sono due animali (o due linci o due sciacalli). Esse, attraverso ironia e critica alla società
contemporanea, conversano tra di loro nei primi 4 capitoli del libro, poi dal 5° c’è una coppia di uomini, un
filosofo e il suo re Abendubet. La coppia “saggio-discepolo” è caratteristica delle opere didattiche che
troveremo nel ‘300, questo ci fa capire che colui che legge l’opera impara a sua volta. Ci sono dialoghi
anche tra le cose, ognuna di queste figure è un’allegoria. Lo scopo del testo è di insegnare nell’ambito della
quotidianità, come affrontare problemi reali. Alla fine di ogni piccolo episodio che compone i vari capitoli,
c’è una morale. Ogni episodio è a sé stante, non c’è un filo logico che le relaziona. Gli episodi sono uniti solo
dalla morale.

Altra opera tradotta in questo periodo è il “LIBRO DE LOS ENGAÑOS Y DE LOS ASSAYAMIENTOS (danni) DE
LAS MUGERES (SENDEBAR O 7 SAVI)”. Con l’opera precedente ha in comune il periodo in cui è stato
tradotto, anche questo è una raccolta di favole indiane, e il fatto di essere stato tradotto. Entrambi i testi
sono caratterizzati dalla voglia di didatticismo, e dalla saggezza religiosa affiancata a quella profana, proprio
perché erano opere orientali che non prevedevano la stessa credenza cristiana, venivano riadattate. Forse
colui che fa tradurre questo testo è Don Fadrique, fratello di Alfonso X nel 1253. L’opera è abbastanza
misogina, parla degli inganni che possono portare le donne. Il tema viene trattato raccontando della corte
del re Arcos che aveva più mogli, una delle quali s’innamora del figlio di una delle altre mogli del re. Fa delle
avances a questo principe, il quale le rifiuta. La donna rifiutata, accusa per prima il principe di averla
violentata. Il giovane viene condannato, ma il suo saggio Cendubete, dopo aver visto l’oroscopo, gli
consiglia di restare in silenzio per 7 giorni, se avesse parlato per discolparsi sarebbe morto. Il saggio
convince il re ad aspettare 7 giorni, e in questi giorni altri saggi raccontano storie contro le donne che sono
astute. Passati i 7 giorni, il principe può discolparsi dalle accuse, e la donna viene uccisa sul rogo.

Il re Alfonso X el Sabio è colui che dà il via a tutte queste traduzioni e dà tanta attenzione alla divulgazione
della letteratura. Il suo soprannome ci fa capire che non si occupava solo di conquiste ma anche di
letteratura. Nasce nel 1221. È stato re di Castiglia y Leon. Era figlio di Fernando III il Santo e Beatrice di
Baviera. Il padre aveva allargato la corona al territorio che era sotto la corona di Castiglia y Leon perché
aveva annesso anche la parte di Cordoba e Siviglia. Quando diviene re nel 1252, la sua politica è quella di
difendere la laicità della corona spagnola, questo non lo rese benvisto dalla chiesa, il Papato non appoggiò
la sua candidatura come imperatore del Sacro romano impero. La chiesa si oppone a questa candidatura
perché lui dedica molto tempo della sua vita a studiare altri saperi come l’astronomia verso cui la chiesa
non aveva interesse. Alfonso X aveva una cultura a 360°, s’interessava alle scienze. Tuttavia non metteva da
parte la politica, combatte comunque contro i musulmani. Si dedica anche a fronteggiare problemi interni
soprattutto quando si crea il problema della successione al suo regno, perché nel 1249 si sposa con una
donna, da questo matrimonio nascono molti figli, tra legittimi e illegittimi. Il primo figlio legittimo che quindi
doveva ereditare il trono, muore giovane, quindi si crea una lotta interna per salire al trono, alla fine sale al
trono Sancho 4°. Alfonso X dedica molta attenzione alla letteratura e alla cultura. Amplia la scuola di Toledo
che era già affermata, aggiunge degli elementi con quella che è stata chiamata Camara real, un laboratorio
di traduzione e di ricerca, un luogo dove confluivano studiosi da diverse parti del mondo, e si studiavano
testi che venivano tradotti. Struttura anche il lavoro nella Camara real, il testo che veniva tradotto
attraversava 3 step di lavoro:

1. Trasladadores = coloro che facevano la prima traduzione dei testi, letterari e scientifici
2. Ayuntadores = redattori. Davano una versione modernizzata dell’opera, inserendo elementi
castigliani e cristiani
3. Capituladores = mettevano tutto insieme e decidevano la struttura dell’opera, dividendola in
capitoli.

Alfonso dirigeva tutto e a volte correggeva la lingua perché voleva il castigliano drecho, la lingua perfetta
per la traduzione, e a volte aggiungeva capitoli. Quindi merita la paternità di queste opere.

“LAS SIETE PARTIDAS”: ci dà notizie sul teatro, è un’opera di Alfonso X. L’opera è un insieme di circa 2500
leggi. Verranno promulgate come codice di leggi da seguire solo un secolo dopo la morte di Alfonso X. Si
chiamano siete partidas perché il testo è diviso in 7 parti, il titolo originale era “Libro de las leyes” o “Libro
del fuero”. Ogni sezione ha un suo argomento, diritto canonico, mercantile, amministrazione della giustizia
ecc. tra le varie sezioni c’è anche la parte in cui si parla della cultura. È un documento legislativo che si
studia nell’ambito della letteratura perché è compreso in quei testi di Alfonso X e che rappresenta la realtà
castigliana dell’epoca. Verrà presa successivamente come base della legislazione in America latina. Alfonso
X scrive quest’opera perché vuole dare una strutturazione fissa alle leggi che esistevano per porre fine alla
confusione normativa che c’era al tempo ed è un importante testimonianza del castigliano drecho.
“Drecho” è una forma sincopata di “derecho” che significa “dritto, giusto”. il re voleva dare una norma
unica anche alla lingua parlata. Il castigliano drecho viene creato per dare unità linguistica in Castiglia. Il re
crede di aver inventato una lingua nuova ma non poteva in così poco tempo, anche perché la lingua è in
evoluzione continua. Lo stesso Alfonso X utilizza un castigliano diverso nelle ultime opere rispetto alle
prime. Il testo in cui Alfonso X parla di castigliano drecho è il “LIBRO DE LA OCHAVA ESFERA” che ha un
contenuto astrologico. Esempio di come cercava di dare unitarietà alla lingua: siccome nelle traduzioni
doveva affrontare campi scientifici nuovi per il castigliano che quindi non aveva ancora dei termini, Alfonso
X ed i suoi collaboratori si trovano di fronte alla necessità di creare nuovi termini che dovevano far parte
del castigliano drecho. La prima cosa che si faceva: si cercava di utilizzare le derivazioni del sostantivo già
esistente si creava il verbo (paladino-paladinar). Se non si poteva creare dal castigliano già esistente si
ricorreva a prestiti dal latino, e si spiegava in castigliano. Se nemmeno in latino si trovava il corrispettivo per
la traduzione si ricorreva al greco, e infine all’arabo.

Alfonso X scrive anche altri testi. Sempre per la sua precisione, decide di tradurre molti trattati scientifici,
didattici, di divertimenti (come giocare a scacchi), elabora anche opere storiche, le Cronicas. La prima è la
“ESTORIA DE ESPANA” che è stata editata col titolo di “primera cronica general”, iniziata intorno al 1270.
Quest’opera ha una fonte storica modesta, gli avvenimenti storici reali sono pochi rispetto a quelli che poi
vengono raccontati. Viene conclusa poco prima della morte di Alfonso X. L’idea originale del re era quella di
scrivere una storia della Spagna dalle origini fino all’epoca in cui vive Alfonso X. L’inizio della storia parte
dalla storia di Mosè, dall’Antico testamento, proseguendo con la Spagna pre-romana quando vengono
fondate le varie province romane, fino alla contemporaneità di Alfonso X ma si ferma a Fernando III. Lui
attinge da cronache latine e arabe, da storie e legende popolari ed ecclesiastiche, dalla Bibbia, dai cantares
de gesta, da letteratura classica ma soprattutto dalla tradizione delle storie castigliane. Altra opera che fa
sempre parte delle cronache è la “GRANDE E GENERAL ESTORIA” che rappresenta un desiderio di Alfonso
ancora più grande rispetto all’opera precedente, Alfonso X si propone di partire dall’antico testamento per
scrivere la storia universale, infatti non riesce a portarla a termine, si conclude quando lui muore, ma
quando muore è arrivato a raccontare fino alla storia dei genitori della Vergine Maria. La sua intenzione era
di mettere insieme la storia biblica, greca, romana fino alla contemporaneità. La struttura che voleva dare
all’opera era di 7 parti, a noi ne sono giunte 5 e della sesta ci sono giunte delle bozze. Alfonso non scrive
solo prosa, ma anche poesia utilizzando il gallego portoghese, la lingua ritenuta più adatta alla creazione
poetica e con la quale scrive “CANTIGAS DE SANTA MARÍA”, raccolta meglio riuscita, composta da 427
poesie in onore della Madonna. Le cantigas comprendono anche miracoli e storie relative alla Vergine (da
cui prende spunto Berceo). Scrive anche inni e preghiere sempre in versi in gallego portoghese. È stato un
re che ha dedicato la maggior parte della sua vita alla letteratura. Ha contribuito (come Berceo)
all’espansione culturale del suo popolo.

I discendenti di Alfonso X continuano la sua tradizione letteraria, in particolare il suo erede al trono Sancho
IV e suo nipote Don Juan Manuel. Grazie al loro contributo la letteratura spagnola continua ad ampliarsi,
ma era difficile continuare lo stesso lavoro di Alfonso, infatti Sancho IV veniva chiamato “el bravo”
(coraggioso). Il ‘300 è caratterizzato dall’affermazione della prosa che raggiunge il massimo livello. (non
tutte le opere però sono in prosa, ad esempio il Libro de buen amor è in versi). È soprattutto una prosa
didattica, che non necessariamente insegna tramite il testo letterario di finzione, ma anche attraverso testi
scientifici. Si distingue in vari tipi: prosa scientifica, collegata spesso a traduzioni perché i testi scientifici di
questo periodo venivano da testi scientifici già esistiti. Il primo di cui parliamo è la traduzione del
“TESORETTO” di Brunetto Latini, di fine ‘200. Parla di un protagonista che si ritrova dopo la battaglia di
Montaperti (1260) in Toscana, in cui si scontravano Guelfi (Firenze, appoggiavano il papato) e Ghibellini
(Siena, impero). La battaglia viene vinta dai Ghibellini. Il protagonista era guelfo, si trova a camminare in
una “selva diversa” (richiamo dantesco” ed incontra le personificazioni della natura e della virtù. Esse gli
descrivono la composizione del mondo e gli danno indicazioni precise sui comportamenti cortesi del ‘200. Il
poema s’interrompe quando il protagonista incontra Tolomeo che gli sta per spiegare i fondamenti
dell’astronomia. Altra opera che viene tradotta è il “LUCIDARIO”, la traduzione della parte “speculum
naturale” dell’opera “SPECULUM MAIUS” di Vincenzo de Beauvais, nella metà del 3° secolo. è un’opera
enciclopedica formata da 3 parti: speculum naturale, doctrinale e historiale, che parlano di natura, filosofia
e storia. Nel Lucidario viene presa la parte che parla della scienza naturale e viene riadattato alla cultura
spagnola dell’epoca. È formato da 106 capitoli che trattano diversi tipi di sapere, naturale e teologico. È
strutturato secondo l’accoppiata maestro-discepolo. Successivamente poi abbiamo la creazione di diverse
cronicas che non sono traduzioni ma entrano a far parte della prosa scientifica didattica del ‘300 prendendo
spunto dalle cronicas di Alfonso X.

17. LETTERATURA SPAGNOLA 10.05.21


L’ultima volta abbiamo parlato della prosa didattica che ha diverse caratteristiche e tematiche. Abbiamo
parlato anche della prosa scientifica. Oggi parliamo degli altri due tipi di prosa didattica del ‘300. La cosa
fondamentale è che questa prosa didattica non solo è caratteristica perché è prosa, ma anche perché da
questa prosa didattica nascerà tutto quello che sarà la prosa successiva, cioè pone le basi per quello che
successivamente verrà creato in prosa. Il secondo tipo di prosa di cui parliamo è quello DIDATTICO-
MORALE. Abbiamo già detto che si vuole insegnare, però si comincia a capire che non solo l’insegnamento
dev’essere verso il popolo, ma anche verso i nobili. Un’opera importante che appartiene alla prosa
didattico-morale è “Libro de los castigos e documentos para bien vivir que don Sancho IV de Castilla dio a su
fijo”, il titolo è indicativo perché si capisce già la tematica del testo, cioè “tutte le indicazioni per vivere bene
che il re Sancho IV dà a suo figlio”, quindi c’è un maestro che insegna qualcosa ad un discepolo. Non si sa se
sia stata creata dallo stesso Sancho IV oppure è stata attribuita a lui attraverso degli insegnamenti che lui ha
dato nel tempo. Gli insegnamenti che troviamo nel testo hanno una diversa provenienza culturale. La
versione originale di questo testo, quella attribuita a Sancho IV, constava di 50 capitoli, ma successivamente
sono state fatte ulteriori aggiunte, perché la cultura si evolve e gli insegnamenti si adeguano al tempo, di
conseguenza sono stati aggiunti altri 40 capitoli. Nel 15° secolo ha raggiunto la totalità dei capitoli.
L’importanza è l’attribuzione didattica che si voleva dare a quest’opera, quindi anche la conoscenza della
società dell’epoca. Di letterario queste opere hanno poco perché hanno poca invenzione, però fanno sì che
possiamo comprendere come ci si comportava all’epoca. All’interno nell’opera ci sono anche delle fonti
fantastiche che erano dei sermoni e delle favole del tempo. Si comincia ad avere la cultura
dell’abbellimento del testo, l’opera letteraria comincia ad essere importante, non per solo per il guadagno
ma perché rappresenta una fonte di insegnamento e di piacere. Il terzo tipo di prosa è la prosa STORICO-
ROMANZESCA, che dà il via alla nascita del romanzo in Spagna. (romanzo in spagnolo si dice novela, il
romance è in versi). Quando parliamo di prosa storico-romanzesca non ci riferiamo ancora alla novela, che
nascerà nell’Ottocento, ma si parla di radici di quella che sarà la novela. “Storica” perché si rifà ad
avvenimenti storici. Nell’Ottocento nasce il romanzo storico, e con la prosa storico-romanzesca c’è proprio
il fulcro da cui nasce il romanzo storico, per esempio nell’opera Cronica troyana, che prende spunto da un
romanzo cavalleresco francese ovvero Le roman de Troie, c’è la storia della città di Troia, però è un
“roman”, una versione romanzata del fatto storico della conquista di Troia. Altro testo che appartiene a
questa terza categoria è “La gran conquista de Ultramar”, primo esempio di romanzo spagnolo. È datata
intorno al 1293, e il tema principale sono le crociate in terrasanta, dove i cristiani cercavano di esportare la
loro religione. Vengono raccontate in una maniera pesante e prolissa, è un’opera molto lunga e articolata
anche perché in essa confluisce molto del materiale epico francese che si conosceva all’epoca. Ci sono delle
fonti latine come la Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, la storia delle gesta transmarine, e
delle fonti francesi come Le roman d’Eracle, la Cansò d’Antioca, La Chanson de Jerusalem e Les chetifs. La
gran conquista de ultramar parla delle crociate ma c’è tutto un insieme di racconti che viene inserito come
per esempio la storia di Carlo Magno, soprattutto l’infanzia, e altre leggende che erano conosciute
all’epoca, una che parlava di sette gemelli che potevano ricordare gli infantes de Lara, un’altra leggenda
quale El caballero del cisne. La gran conquista de ultramar rappresenta una base di diversi racconti in un
unico testo. Il testo che fonda la letteratura cavalleresca in Spagna è Historia del cavallero de Dios que
havia por nombre Zifar. Questo testo ci presenta un terzo tipo di cavaliere dopo il Cid che aveva come arma
la spada e Apolonio che aveva come arma la cultura e le arti. Il terzo eroe, Zifar, è un eroe cristiano che ha
come arma la fede, ma ha anche le altre armi (spada e cultura). È l’esempio di eroe che viene messo alla
prova da Dio e che non cede, affronta tutte le vicissitudini che gli capitano con la fede. Questo testo è stato
attribuito dall’allora arcidiacono di Madrid, Fernan Martinez, che era originario di Toledo. Nel prologo
dell’opera c’è il suo nome, quindi a lui è attribuibile solo il prologo con certezza. È un testo datato agli inizi
del ‘300, perché gli avvenimenti narrati sono della primavera del 1301. Historia del cavallero Zifar parla di
questo cavaliere, che ha una moglie che si chiama Grima e due figli che si chiamano Garfin e Roboan. Zifar
vive una serie di vicissitudini, va incontro a diversi problemi. Con la sua famiglia è costretto a viaggiare
perché nel suo regno non riusciva a tirare avanti. Durante questo viaggio alla ricerca di una vita migliore,
Dio li metterà alla prova più volte, però Zifar riuscirà ad affrontare e superare queste problematiche con
grande fede. Riescono ad arrivare al regno di Menton dove, grazie alle sue doti di bravo soldato e grazie
anche all’aiuto dei suoi figli, sconfigge il nemico che opprimeva il regno e diventa re. Quando il testo
sembra concludersi con questo lieto fine, comincia una seconda parte, che riguarda il secondogenito
Roboan, che in quanto tale non avrebbe ricevuto l’eredità del regno perché Garfin sarebbe diventato re,
quindi chiede a suo padre di insegnargli ad essere un buon soldato. Gli chiede come comportarsi, come
trattare il prossimo, come essere un buon cristiano e come amministrare i propri beni. Sono tutte richieste
didattiche, Zifar diventa il saggio che insegna al figlio-discepolo. Dopo questa lunga parte didattica, Roboan
parte, c’è anche la messa in pratica degli insegnamenti, grazie ai quali Roboan diventa imperatore di un
regno, dove sposerà una donna e vive felice. Quest’opera è formata da tre parti, che fanno parte della
prosa storico-romanzesca ma si può dire che hanno delle diverse categorizzazioni letterarie, la prima parte
fa parte del genere bizantino, caratterizzato da viaggi, avventure. La seconda parte appartiene alla
tradizione didattica, e la terza parte è l’antecedente diretto del romanzo di cavalleria. Questo testo ci fa
conoscere il prototipo del cavaliere medievale, forte, coraggioso, che però non era sempre perfetto perché
poteva avere dei problemi, doveva cercare di essere scaltro per affrontarli. Oltre ad essere la base del
romanzo cavalleresco è anche la base del Manuale dei principi, testo che alla fine del ‘400 viene copiato per
volere di Enrico IV di Castiglia. Durante le guerre tra Francia e Spagna alla fine del ‘700, lo stesso
Napoleone, lo porta a Parigi. Alla prosa didattica appartiene uno degli autori più importanti del ‘300, Don
Juan Manuel, parente di Alfonso X. Nasce vicino Toledo nel 1282, è un autore che vive in pieno l’evoluzione
della prosa del ‘300. Molto giovane rimane orfano. Ha un’educazione molto più approfondita rispetto a
quella che avevano gli altri nobili, ha conosceva l’astronomia, l’equitazione, gli viene insegnato ad essere un
bravo soldato, infatti combatterà contro gli arabi. Anche lui doveva affrontare, come suo zio Alfonso X,
doveva affrontare delle questioni interne tra vari parenti, per il potere, perché proprio per la sua
importanza diventa mira di alcune invidie, in particolare Alfonso XI e Fernando IV che saranno i successivi re
dopo Sancho IV tramano contro di lui per ucciderlo perché rappresenta un pericolo per il loro regno. Si è
tentato in vari modi di toglierlo da mezzo, infatti, Alfonso XI chiede la mano della figlia di Don Juan Manuel,
però con molte scuse rimanda sempre questo matrimonio fino a rompere il fidanzamento, all’epoca questo
era segno di disonore. Don Juan Manuel vuole vendicarsi, dichiara guerra, ma grazie all’intervento del papa
si mette pace tra i due, fino a una battaglia (la battaglia del salado) dove entrambi combattono insieme
contro i mori. Dopo questi avvenimenti, si ritira dalla vita politica e si dedica alla letteratura, aveva già
composto qualcosa in precedenza. La sua letteratura è esempio della letteratura didattica, è esempio
dell’accoppiata maestro-discepolo, ed è esempio di grande fede religiosa. Nelle sue opere c’è una
componente laica e religiosa, c’è anche la componente della devozione alla Vergine. Scrive 3 testi principali,
ma scrive tantissime opere. Essendo uno dei primi autori che ha la coscienza del “libro”, crea degli
esemplari delle sue opere nel monastero di Peñafiel, che sottolineavano il modo in cui lui avesse scritto le
sue opere, per distinguerle dalle copie. A differenza di Berceo, non solo si nomina nelle opere, ma cita
anche le altre opere scritte da lui. Alcune opere minori sono: Cronica abreviada, costituita da riassunti
capitolo per capitolo della Historia de Espana di Alfonso X, dal quale eredita la volontà di sapere e la
concezione laica della cultura; il Libro infinido, che è il titolo breve di un titolo più lungo (Libro de los
castigos o consejos que fizo don Johan Manuel para su fijo), con la quale vuole tramandare consigli su come
affrontare la vita. Si chiama così perché si afferma che il sapere è infinito; Libro de la caza, considerato una
delle prime opere dedicate alla falconeria, che diventerà la base per i manuali successivi, si teorizza l’arte
della caccia. La caccia al falco era molto praticata dai nobili. Vi erano non solo descritte le tecniche utilizzate
per la caccia, ma anche differenti forme di caccia. la letteratura di Don Juan Manuel è basata sulla vita
quotidiana, rispecchia il vissuto dell’autore.

LIBRO DEL CABALLERO Y DEL ESCUDERO: c’è il saggio che istruisce il giovane discepolo. È stato composto
nel 1326 ed è quasi completamente una riproduzione di un’opera catalana di Ramon Llull, Libre del orden
de Caballeria. Don Juan Manuel prende questo testo, lo riadatta. La sua opera è composta da 51 capitoli,
ma non ci sono giunti tutti. Nel prologo di questo testo si parla di una particolarità di quest’opera, dice di
averlo composto seguendo una modalità che chiama fabliella, cioè una modalità di organizzare l’opera
tramite un procedimento narrativo che è la cornice: si crea una situazione che sarà la stessa per tutta
l’opera, e che prevede all’interno un evolversi di situazioni. La fabliella è una struttura con cui viene
organizzata l’opera di DJ Manuel, per cui abbiamo il dialogo di due personaggi che sono l’insegnante e il
discepolo. Il cavaliere, dopo aver terminato la sua attività di cavaliere, diventa eremita. Uno scudiero, sa
che il cavaliere si trova su quest’eremo e vuole apprendere da lui l’arte della cavalleria. Il vecchio cavaliere
gli dà tutti gli insegnamenti sulla cavalleria. Le tematiche trattate sono svariate, terrene, della fede, della
filosofia. Il vecchio cavaliere, poi, muore, ed il fatto che lo scudiero assista alla sua sepoltura è una sorta di
passaggio del testimone.

EL LIBRO DE LOS ESTADOS: gli estados di cui si parla non sono gli stati geografici (paises), ma sono quello
laico e quello religioso. Questo testo prende in considerazione soprattutto lo stato dei laici nobili. È stato
composto tra il 1327 e il 1332. È diviso in due parti: la prima è molto autobiografica, ci teneva a trasmettere
insegnamenti con la sua vita. Si lamenta della Spagna dell’epoca, è una parte abbastanza malinconica.
Racconta di una crisi spirituale parlando della propria interiorità. La seconda parte è più pratica perché
prende in considerazione anche le problematiche religiose, parla anche delle caratteristiche delle religioni.
In questo caso non troviamo esplicitamente quella cornice narrativa, perché ci sono sempre le figure del
discepolo e del maestro ma si avvicendano in questi due ruoli diversi personaggi. I protagonisti: c’è un re
pagano che si chiama Morovan, che ha un figlio che si chiama Johás. Questo figlio ha un insegnante che si
chiama Turin, il quale gli dà delle indicazioni sulla vita ma non gli parla della morte. Johás, durante
un’uscita, vede un morto per strada, avendo un impatto forte con qualcosa che non conosceva. (il nirvana è
lo stato di grazia assoluto, Buddha lo cerca perché capisce che la vita ha delle cose negative). Nel momento
in cui Johás viene in contatto con la morte, diventa pessimista, capisce che c’è qualcosa che finisce. Entra in
gioco Julio, una sorta di alter-ego di DJ Manuel. In questo personaggio si intravede il messaggio che
rispecchia la sua fede. Julio è cristiano, e rivela a Morovan e a Joáhs le bellezze della religione crisitana, cioè
il fatto che la morte viene sconfitta. Secondo questa visione, vedere un cadavere significa che quella
persona ha cominciato una nuova vita ed ha la possibilità di riscattarsi. I due si convertono al cristianesimo.
C’è un’esaltazione della religione cristiana. Le problematiche religiose che vengono trattate in quest’opera,
sono collegate alla quotidianità, perché il protagonista incontra per la strada un cadavere. DJ Manuel
insegna attraverso Turin, ma nei suoi insegnamenti manca qualcosa, che verrà aggiunto da Julio.

LIBRO DE LOS EXEMPLOS DEL CONDE LUCANOR Y DE PATRONIO: exemplos si rifà alla letteratura esemplare,
cioè che dà un esempio da seguire, e si ricollega ai milagros di Berceo. Attraverso racconti di vita quotidiana
si dà un insegnamento. Il conde è il discepolo e Patronio è il saggio. Patronio è l’uomo di fiducia del conde.
Abbiamo due persone adulte. È stata probabilmente creata intorno al 1335. All’interno dell’opera c’è una
gradatio, si parte da un livello più facile per finire ad un livello più difficile. DJ Manuela ha scritto
quest’opera per trasmettere insegnamenti di vita quotidiana. C’è un anteprologo, un prologo, poi ci sono
una seconda terza quarta e quinta parte. Il titolo si riferisce alla prima parte, perché la gradatio inizia
proprio dalla fine degli esempi. Un esempio a caso: c’è il titolo, poi c’è una situazione in cui il conde de
Lucanor si è trovato, ma non sa come comportarsi. Il conde quindi va da Patronio e gli chiede cosa farebbe
lui nella sua situazione, egli risponde raccontando un esempio di qualcun altro che si è trovato nella
medesima situazione. Il conde mette in pratica e si trova molto bene. Poi finisce il racconto, si ritorna alla
realtà dell’autore e conclude con una morale, l’insegnamento che ricava da questo racconto.

18. LETTERATURA SPAGNOLA 11.05.21


Abbiamo parlato del ”CONDE LUCANOR”, che è la terza opera più importante di don Juan Manuel. Abbiamo
parlato di una gradatio, un cambiamento di difficoltà andando avanti nell’opera. Questa prima parte che va
dall’anteprologo fino all’esempio 51, è formata da questi esempi la cui struttura è formata dalla domanda,
la risposta, la risoluzione del problema e la morale dell’autore che interviene nella finzione letteraria. Le
fonti a cui si ispira Don Juan Manuel sono diverse. Le storie raccontate da Patronio hanno diverse fonti
perché riguardano innanzitutto la favolistica greca, c’è un grosso materiale che si rifà alle favole greche che
hanno una morale. La favolistica aiuta alla più immediata comprensione perché vengono raccontati episodi
anche con interpretazione finale da parte dell’autore. Altre fonti sono quelle storiche e dell’epica spagnola,
episodi eroici. Una delle storie che vengono raccontate che vengono raccontate nell’ambito del Conde
Lucanor è una storia che verrà ripresa anche da Andersen, nasce dalla favolistica greca ed arriva alla
letteratura europea. È la storia del re nudo, si fa credere che ci sono dei sarti che stanno tessendo un
vestito per il re, e questo vestito dicono che non verrà visto da coloro che non erano le figlie legittime di
padre. In realtà era un inganno verso il re, per guadagnare. Il re esce con questo vestito tra il popolo,
nessuno si azzarda a dire che il re è nudo, solo un moro. Ci sono anche fonti che si rifanno alla letteratura
francese ed episodi legati ad uno degli hobby di Don Juan Manuel, ovvero la caccia. Ci sono due tipi di
esempi: l’esempio “imitando”, raccontato da Patronio per dire al conde Lucanor “fai così”, cioè con
l’imitazione del comportamento di qualcuno che si è trovato bene, e l’esempio “vitando”, quello per cui
dice “non fare come quel personaggio, fai il contrario così ti troverai bene”. Sono 5 parti, si possono
dividere in tre sezioni, la prima è questa dei 51 esempi con anteprologo e prologo, che servono ad inserire
delle chiavi di lettura che servono al lettore. Juan Manuel parla di una diversità di approcci per gli uomini
anche se sono tutti uguali, tranne che interiormente, questa diversità è una premessa per giustificare la
gradatio che si trova nell’opera. Per far sì che il testo arrivi a tutti usa la metafora della medicina, dice che
per essere assimilata una medicina dal fegato ha bisogno di qualcosa di dolce perché il fegato assimila gli
zuccheri, allo stesso modo fa lui, insieme alla medicina (insegnamento) dà anche qualcosa di dolce affinché
tutto venga assimilato meglio (deleitar aprovechando). Questo prologo è la giustificazione di quest’opera,
come il prologo dei milagros dove prima c’è un’allegoria poi la spiega. La cornice narrativa del conde
Lucanor, cioè i due personaggi che parlano che sono sempre gli stessi e tengono insieme l’opera è simile a
quella del Decameron con i ragazzi che si trovano insieme e si raccontano storie. Il Decameron è del 1351,
sono contemporanee. Dopo la sezione che rappresenta la prima parte, c’è una seconda sezione formata
dalla seconda, terza e quarta parte. Comincia la gradatio, ci troviamo davanti ad un testo di più difficile
comprensione. L’introduzione della seconda parte presenta un amico dell’autore che lo sollecita a parlare
in una maniera più difficile, oscura, Juan Manuel accoglie questa richiesta e comincia a pensare a come
parlare, e comincia una serie di proverbi: Patronio risponde al conde Lucanor tramite proverbi, delle
massime con profondi significati che derivano soprattutto dalla cultura popolare. La gradatio riguarda
anche il numero di proverbi che ci sono nelle varie parti perché crescono in numero. La quinta parte
corrisponde alla terza sezione, non si usano più massime e proverbi ma i dialoghi. Si parla delle verità della
religione cristiana, Lucanor ma soprattutto Patronio parlano delle verità fondamentali ispirandosi a San
Tommaso, Agostino (nascita di Gesù, i miracoli). Alla fine del testo don Juan Manuel parla di sé, dice in che
giorno ha finito il testo. Lo scopo del testo è di dare insegnamenti, ma notiamo che con la difficoltà della
gradatio c’è contemporaneamente un allontanamento dalla terra, si parte dalla quotidianità fino ad
arrivare alle problematiche divine, quindi Juan Manuel parla agli uomini per farli elevare verso Dio. Tutto
quello che riguarda la religione cristiana è qualcosa di immediato, però è anche vero che quest'ultima parte
non è comprensibile a tutti.

Quando si parla di Juan Ruiz si parla del suo testo, perché è l’unico che si conosce. Il “LIBRO DE BUEN
AMOR” è un grande classico della letteratura spagnola. È un testo che nonostante sia stato scritto secoli fa
è molto moderno. Il testo era molto conosciuto nel 14° e 15° secolo, poi se ne perde traccia nei secoli
successivi. Nel ‘700 ritorna in voga. La prima versione stampata dell’opera fu fatta nel 1790 da Tomás
Antonio Sánchez, che ha preso un manoscritto e con alcune censure edita il libro. A noi sono arrivati tre
manoscritti del testo, individuati tramite lettere 1. G, 2. T, 3. S. Il manoscritto G prende il nome dal
personaggio a cui era appartenuto, Benito Martinez Gayos. Il manoscritto T viene chiamato così perché è
stato trovato nella cattedrale di Toledo, risale al 14° secolo ed è molto frammentario. Il manoscritto S si
chiama così perché è stato ritrovato nel Colegio Mayor di Salamanca, è quello più completo, riporta anche
nel colophon il nome del copista che si chiama Alfonsus Paratinensis. Oltre a questi 3 manoscritti sono stati
trovati anche dei piccoli frammenti riconducibili all’opera che hanno permesso di avere un testo abbastanza
completo. Comparando i 3 manoscritti si è capito che i manoscritti G e T derivano dalla stessa redazione del
testo, Juan Ruiz in questi due manoscritti afferma di aver concluso il suo libro del 1330, da cui sono derivate
probabilmente delle copie o una copia chiamata Z, che non abbiamo. Nel manoscritto S, l’autore afferma di
aver concluso l’opera nel 1343, ha fatto due redazioni del Libro de buen amor. Juan Ruiz scrive quindi due
originali dell’opera, la prima nel 1330, la seconda nel 1343. Dalla prima stesura forse sono state fatte delle
copie che non abbiamo, da una di queste copie che chiameremo Z, Juan Ruiz decide di rimettere mano alla
sua opera, forse perché non era completa o era stato sbagliato qualcosa. Tutti questi manoscritti non hanno
titoli. I manoscritti originali A1 e A2 probabilmente avevano dei titoli ma non ci sono giunti. Fino al ‘700 i
pochi riferimenti che si fanno a quest’opera lo riportano come “libro del Arcipreste” oppure “libro del
Arcipreste de Hita”, poi quando è stato editato gli diedero un titolo abbastanza generico che era “libro de
los cantares” oppure “poesias”. È Pidal che nel 1898, basandosi su delle parti del testo, gli dà il titolo di
Libro de Buen Amor.

Strofa 12--> nella strofa 12c parla di cantares, da cui deriva uno dei titoli che gli viene dato

Strofa 13--> l'autore chiede a Dio di comporre un libro che parli di buen amor. (verso alessandrino)

Don Ruiz continua ad utilizzare nella maggior parte del testo la strofa della cuaderna via.

Strofa 933--> uno dei tanti casi in cui si parla di “buen amor”, sta parlando di un amore verso una donna,
dimostrandole amore facendole tanti doni. Rispetto alla strofa 13 in cui si parla di Dio ed è un contesto
religioso, qui si parla di una donna. Il buen amor è l’opposto del “loco amor” (amore folle, carnale). Il buen
amor è l’amore cortese che non prevede la passione e il peccato, ma la devozione, il loco amor porta
lontano dalla razionalità. In realtà l’opera gira intorno al loco amor, l’autore lo descrive per dire di evitarlo.
Il paradosso della raccomandazione di non seguire il loco amor è che il protagonista dell’opera è Juan Ruiz,
che racconta col “yo autobiografico” le sue esperienze di loco amor, e ricordiamo he era un uomo di chiesa.
Non troveremo mai riferimenti espliciti di amore peccaminoso, ma già si affronta questa tematica. C’è
molta ironia in questo testo. Tutte le storie autobiografiche che racconta finiscono tutte male, tranne una,
ma il protagonista non sarà Juan Ruiz bensì don Melón che si innamora di una donna, doña Endrina, e alla
fine si sposano. Le prime strofe sono in versi, il prologo è in prosa. Le parti in corsivo sono citazioni in latino
dalle Sacre Scritture, perché Juan Ruiz voleva mettere in mostra il suo sapere, in particolare la conoscenza
del latino. Nel prologo parla della differenza tra i due tipi di amor: il loco amor viene descritto come
qualcosa di negativo che non dev’essere seguito, fa sminuire la vita dando una cattiva fama, però visto che
è umano peccare, qualcuno può scegliere di seguirlo. Si rivolge a chi sceglie il loco amor e dice che questo
libro contiene delle modalità per metterlo in pratica, esso può essere dedicato a uomini e donne. Ruiz era
un arciprete, ha vissuto nel ‘300, tutto ciò che sappiamo lo sappiamo tramite il Libro de buen amor, non
abbiamo nessun altro documento che ci dica chi sia. Nel testo dice di essere nato ad Alcalà, ma alcuni
pensano che sia nato a Burgos. Vive nel periodo del regno di Alfonso XI, e nella versione del 1343 parla di
una prigionia. Muore prima del 1351, o meglio in quest’anno non era più arcipreste de hita. Alcuni pensano
che usasse uno pseudonimo, cosa inusuale all’epoca. All’epoca l’opera autobiografica non era in voga
(Lazarillo de Tormes nel ‘500). Alcalà compare all’interno dell’opera nella strofa 1515: parla di un’anziana
signora che aiuta il protagonista ad approcciare con le donne. La frase "es que de Alcalá" può essere
interpretata in due modi: o che è di Alcalá nel senso che è nato lì o che in quel momento si trovava lì quindi
non abbiamo un'informazione certa.

19. LETTERATURA SPAGNOLA 17.05.21


Abbiamo detto che tutto quello che sappiamo di Juan Ruiz lo sappiamo attraverso le notizie che abbiamo
nel suo testo, ma siccome è un’opera letteraria potrebbero esserci informazioni false. Il buen amor è quello
buono, puro, casto, il loco amor è quello passionale. Abbiamo detto di questa famosa nascita ad Alcalà, una
delle protagoniste di quest’opera che è la mezzana, parla di un uomo nacido en Alcalà. Tra la stesura del
1330 e quella del 1343 accade qualcosa, una prigionia, della quale si parla nel manoscritto del 1343, da cui
poi deriva il manoscritto S. Nei versi “d” delle prime tre strofe c’è la parola “presion”. Queste tre strofe
parlano di allusioni a liberazioni o atti che ha fatto Dio in vari contesti biblici rispetto a vari personaggi. Si
parla del popolo di Israele liberato dalla prigionia del faraone, si parla di Daniele che fu liberato dal popolo
babilonese, della regina Ester che fu liberata del re Assuero, di Geremia che fu liberato da Alfonso. Tutti
questi personaggi che Dio ha liberato sono d’esempio per una possibile liberazione dello stesso
protagonista. (autore, narratore e protagonista sono tre cose diverse. Nel momento in cui si usa la prima
persona per la narrazione, narratore e protagonista coincidono). In questo caso, probabilmente, coincidono
narratore, protagonista e autore, perché molto spesso all’interno dell’opera si parla di Juan Ruiz come
protagonista, in prima persona. Il riferimento alla prigione fu interpretato come una prigione vera, si
immaginò che Juan Ruiz fosse stato rinchiuso tra il 1330 e il 1343 in una prigione. Il manoscritto S aveva
come copista Alfonso de Paradinas, che sosteneva questa ipotesi della prigione, così come anche la maggior
parte dei critici. Più tardi, dal 19esimo secolo, la maggior parte della critica è propensa a pensare che la
prigione di cui parla Juan Ruiz è un’allegoria, non stava realmente rinchiuso in un carcere ma
allegoricamente utilizza un topos della letteratura medievale, cioè l’anima prigioniera del corpo, cioè un
momento in cui l’uomo si trova nel peccato, in quel momento forse Juan Ruiz voleva dire che si trovava in
un momento difficile ed aspettava la liberazione da parte di Dio. Questa prigione ritorna anche nelle strofe
7 e 10, che un po’ contraddice questa visione allegorica. In queste due strofe, parla di accuse da parte di
traditori e da parte di qualcuno che aveva tramato contro di lui, quindi in realtà chiede aiuto per difendersi.
In questo caso potrebbe essere reale la prigione, in cui era stato rinchiuso perché qualcuno l’aveva
accusato. Sappiamo che Juan Ruiz era un clerigo ajuglarado, come Berceo, perché usava ancora dei
riferimenti dei giullari, era un buon conoscitore delle leggi, un musicista, un viaggiatore e conosceva bene la
zona di Toledo. Conosciamo le sue caratteristiche fisiche perché, alla strofa 1485 c’è un ritratto fatto dalla
mezzana ad una donna che egli vuole conquistare, dona Garosa, una suora (la mezzana è l’aiutante di Juan
Ruiz, l’aiuta a conquistare le donne, ed era colei a cui l’uomo si rivolgeva quando voleva attirare l’attenzione
di una donna.). La mezzana deve dare alla donna un bel ritratto per farla innamorare. Dice che ha un naso
abbastanza lungo, ma lo dice per dare dettagli realistici. Dice che conosce la musica, è un poeta ajuglarado,
ha gli occhi piccoli, è un po’ basso. Tutto quello che ritroviamo nel testo, apparentemente, è qualcosa di
assemblato successivamente: le diverse avventure amorose del protagonista non hanno un filo conduttore.
Quello che tiene insieme l’opera è il “yo” autobiografico, il racconto in prima persona che rende coerente il
testo. Si è pensato che Juan Ruiz, nel tempo, avesse composto delle poesie o di carattere narrativo o lirico
(dedicati alla Vergine, a Dio) e poi successivamente avesse messo tutto insieme per creare un testo unitario.
Gli studi fatti su questo testo hanno come filo conduttore questo di una grande varietà del libro dovuta ai
diversi momenti in cui l’autore ha composto le varie parti. L’autobiografia non era molto utilizzata all’epoca.
La Vita Nuova di Dante (1293), significa che in Europa si comincia a cercare di esprimere la propria
autobiografia in forma letteraria. Più vicino di Dante, ha Juan Ruiz, è la letteratura ebraica e araba, infatti si
suppone che la forma autobiografica della sua opera derivi da composizioni narrative ispano-ebree, in
forma autobiografica, che si chiamano maqamat, e avevano come caratteristica quella dell’insegnamento.
Non sappiamo se Juan Ruiz le conoscesse, ma c’è molto in comune. La forma autobiografica ha un intento
didattico. Parlare in prima persona dà ancora più forza a questo intento. Ruiz fa un’operazione all’inverso e
dice che seguendo il loco amor non si è mai trovato bene, quindi invita a comportarsi diversamente. C’è
solo una storia che termina bene i cui protagonisti sono don Melon e dona Endrina che alla fine si sposano.
Ruiz si ispira anche ad opere latine in particolare si ispira a Ovidio, le cui opere minori mostrano
un’attinenza tematica al Libro de buen amor di Ruiz. Tra queste opere latine c’è anche il Pamphilus,
commedia latina medievale attribuita prima a Ovidio poi a nessun autore, da cui Ruiz prende la storia di
don Melon e dona Elvira. La storia finisce in lieto fine, ma Ruiz aggiunge che chiede perdono se ci sono cose
sbagliate perché in realtà ciò che ha detto è ripreso dal Pamphilus di Ovidio. Questo sottolinea la cultura di
Ruiz. C’è una modalità di comporre le opere, tipica medievale, che si chiama relato en sarta, l’unione di
diversi testi più o meno estesi, indipendenti ma collegati solo da un filo argomentale o tematico molto
semplice (modalità con cui sono narrati anche i milagros e il conde Lucanor). Ci sono diversi piani in cui si
può analizzare il Libro de buen amor, tutti derivanti dall’intento dell’autore: il primo è un piano didattico,
Ruiz voleva insegnare. Il secondo è quello di inserire elementi parodici e comici, molte allegorie che
rendono comico il testo. Il terzo è quello degli elementi lirici, che si collega alle diverse versificazioni da
Ruiz.
Il CONTENUTO: all’inizio c’è una preghiera a Dio, affinché lo illumini sul libro che sta per comporre. Poi c’è
quella introduzione in prosa, una sorta di prologo, dove l’autore dichiara le intenzioni del suo libro. Dopo il
prologo si passa alla strofa 11. Dalla 11 alla 18 c’è una ripresa delle intenzioni del testo, per poi passare ad
una strofa in cui si presenta, fa un autonominatio. Nella strofa 19 abbiamo il nome dell’autore con la prima
persona, e dice che siccome ogni radice della sua opera è la Vergine, deve partire da lei, la prima cosa che
deve fare è cantar los gozos, i momenti gioiosi della vita della Vergine che sono 7. La strofa 19 è sempre la
cuaderna via. Successivamente cambia, è un esempio tipico della versificazione del Libro de buen amor. Nel
momento in cui c’è la narrazione usa la cuaderna via, quando passa al momento lirico usa dei versi e delle
strofe più brevi. Per i gozos abbiamo strofe di 4 versi. Un primo gozos è quando l’angelo arriva a Nazaret e
dà l’annuncio della nascita di Gesù, il secondo è quando nasce, il terzo è quando arrivano i Magi, il quarto
quando la Maddalena dà l’annuncio che Gesù è risorto, il quinto l’ascensione al cielo, il sesto la pentecoste,
il settimo è quello per cui regna con Gesù nella gloria dei cieli. Si è pensato che magari questi gozos erano
una composizione che Ruiz aveva fatto prima, e che avesse messo all’inizio della sua opera per omaggio alla
Vergine affinché gli desse forza e onore di poter scrivere il testo. Dalle strofe 44 a 70 si parla di un episodio
tra greci e romani che non parlavano la stessa lingua e quindi dovevano comunicare a gesti. I gesti fatti
dall’uno e dall’altro sono con finalità diverse ma fanno sì che facciano la pace. Questo esempio viene
riportato da Juan Ruiz per affermare un insegnamento. La strofa 64 è il messaggio che Ruiz vuole dare: non
esiste una cattiva parola se non è ritenuta cattiva, l’interpretazione è molto importante. Le burle che
ascolterai nel testo non le prendere come cose inutili perché le devi capire: sta dicendo che non è tutto
facile nella comprensione del testo, ma ci sono delle cose che bisogna comprendere, capire e distinguere il
bene e il male. Troverai molti aironi ma nemmeno un uovo: significa che avrai l’apparenza ma non troverai
la cosa concreta, perché l’”uovo” lo devi fabbricare tu, tu devi prendere l’insegnamento che vuoi. Questo
libro parla a tutti, ma i saggi capiranno quello che c’è di saggio, mentre i ragazzini un po’ superficiali devono
allontanarsi dalla stoltezza. Sta dando indicazioni di lettura. Le ragioni del buen amor sono ragioni nascoste,
e tu devi lavorare per trovare i segnali del buen amor. Potrebbe capitare che nelle strofe più belle ci
potrebbe essere la falsità e viceversa. Tutto questo per dire che il testo può dire cose diverse a seconda di
quello che può comprendere colui che legge il testo.

Dopo quest’introduzione inizia la parte dei racconti. Il protagonista è disperato perché non riesce a
conquistare una donna, questo è il filo conduttore di tutto il testo. Il punto di partenza è una falsa citazione
di Aristotele (per avvalorare le sue tesi), dice che tutti gli esseri viventi sono mossi dall’istinto sessuale, lui
compreso. Cita per finta Aristotele per giustificarsi. Quella che sta per raccontare è un insieme di storie a
sfondo amoroso. Nel testo non ci sono le prime 3 storie. La prima è con una donna che lo rifiuta, poi prende
come intermediario un ragazzo che si chiama Fernan Garcia il quale invece di fare da messaggero per Juan
Ruiz fa innamorare la donna di sé, poi cerca di conquistare una donna encerrada (di clausura forse). Quindi
comincia a voler trovare qualcuno a cui dare la colpa per queste mancate conquiste, quindi da la colpa ad
Amore. Don Amor è il primo personaggio allegorico dell’opera. Il protagonista-autore dice di essere nato
sotto il segno di venere e quindi portato per l’amore, ma non riesce a conquistare le donne perché secondo
lui don Amor non glielo permette. In questo momento il protagonista sta parlando con don amor, c’è una
vera e propria disputa tra i due, Ruiz lo accusa. Descrive a don Amor come un uomo grande, bello,
mesurado (perfetto, nella giusta misura). Ruiz attribuisce delle accuse a don Amor, gli dice che è bugiardo,
falso, imbroglione, fa dire cose che non si vogliono, fai impazzire, fa perdere sonno fame e sete, e fa che
molti uomini si fidino di lui fino a perdere corpo e anima. Queste accuse derivano dalla sua esperienza.
Amore risponde, gli dice che non è colpa sua, ma proprio per cercare di aiutarlo gli dà dei consigli.

Strofa 430: la prima cosa da fare è capire che tipo di donna scegliere. Dice che i capelli devono essere
amarillos. Fino alla strofa 435 c’è tutta la descrizione di come dev’essere la donna da scegliere, soprattutto
fisicamente. Dalla strofa 435 si parla della donna che s’invia alla donna amata, ovvero la mezzana. Don
amor descrive anche la donna che può servire a far innamorare l’altra. La prima cosa che dice è che
dev’essere molto leale, e ogni tanto introduce modi di dire popolari. Quello che devono avere queste
donne è che devono conoscere il mondo, devono saper parlare bene per convincere. Si introduce
Trotaconventos, significa letteralmente “che parla da un convento all’altro”, molto spesso queste mezzane
lavoravano per i frati nei conventi. Queste donne avevano anche delle capacità un po’ magiche, facevano
pozioni, facevano “recuperare la verginità” alle ragazze. Trotaconventos è l’antecedente della Celestina
(fine del ‘400)

20. LETTERATURA SPAGNOLA 18.05.21


Strofa 441: don Amor dà delle indicazioni sul tipo di mezzana da cercare. L’uomo deve provare fiducia verso
la mezzana che sceglie, in questo caso “buen amor” è l’affetto verso la mezzana che viene scelta. Procede
con una descrizione fisica. La cosa che conta per queste donne è il denaro, devono essere ben
ricompensate, le si deve promettere qualcosa. Juan Ruiz si fida di cosa dice don Amor, perché è un esperto.
Dal dialogo con don Amor si passa al dialogo con un altro personaggio allegorico, dona Venus, la moglie di
don Amor. Dalla strofa 585 alla 648 c’è il dialogo con dona Venus, che più o meno ripete gli stessi consigli
che gli ha dato don Amor. Nella strofa 586 parla di “reyes, duques, condes y toda creatura”, significa che gli
effetti dell’amore e di Venere sono gli stessi su chiunque. Questa idea sarà ripresa nelle Coplas por la
muerte de su padre, ma rivolto alla morte. In questo caso significa che amore non fa nessuna differenza,
colpisce chiunque inevitabilmente. Ruiz dice che non vuole chiedere chissà cosa, ma da solo non riesce a
fare niente, non riesce ad iniziare una storia d’amore, quindi chiede l’aiuto di Venere. Improvvisamente
scopriamo che quest’uomo è molto innamorato, è ferito, perduto, nel cuore ha nascosto questo
sentimento, potrebbe uccidere se la dimentica, non riesce a dire nemmeno il suo nome. Non c’è nessun
passaggio intermedio nonostante questo brusco cambiamento. Nella strofa 596 si scopre il nome della
donna di cui è innamorato l’uomo. Si chiama dona Endrina, donna meravigliosa secondo la sua descrizione.
La parola “donaire” non ha un corrispettivo traduttivo, significa “portamento, bellezza, grazia”. C’è un
profondo senso di disperazione nell’amore verso questa donna, la freccia scagliata da Amore gli ha trafitto il
cuore. Fino alla strofa 601 si parla della donna. Dice di non riuscire a sapere come comportarsi, quindi si
rivolge a dona Venus. Successivamente c’è la sua risposta, strofa 608-609: suo marito don Amor gli ha già
detto delle cose, ma siccome Ruiz era arrabbiato con lui forse non gli ha detto tutto perché l’ha trattato
male, quindi gli dirà lei qualcosa in più. Nell’ultimo verso c’è un altro proverbio: il consiglio dato da molti è
migliore di quello dato da una sola persona. Dalla strofa 645 parla anche lei della mezzana, anche lei ripete i
consigli per trovare una buona mezzana, dice di non sceglierla a prima vista, poi si congeda dall’uomo con
cui sta parlando. Ora lui deve mettere in pratica i consigli. Strofa 653: c’è l’incontro con dona Endrina. La
sua descrizione ricorda un po’ le descrizioni di Petrarca, la donna angelo. Parla dei capelli, della bocca,
dell’atteggiamento della donna. Perde addirittura l’uso della parola vedendo la donna di cui è innamorato,
divenne pallido. Le parole che aveva pensato di dire non uscivano dalla bocca perché non riusciva a
controllarsi. Si comincia a vedere l’effetto dei consigli di Venus e Amor, comincia a capire che non è molto
indicato avvicinarsi alla donna nel mezzo della piazza con tante persone, capisce che deve mettersi in
disparte e trovare un luogo dove approcciarsi a questa donna. Comincia a trovare una scusa per avvicinarsi
alla donna, dice che c’è una sua nipote a Toledo che le invia dei saluti. Inventa anche che si sarebbe dovuto
sposare, ma che lui aveva detto di no perché non era innamorato e si sarebbe sposato solo con colei che
avrebbe posseduto il suo cuore. A bassa voce le dice che aveva scherzato e quando iniziano soli comincia a
dire quanto l’amore lo rendesse triste. Da questo momento entrano in contatto. Nelle altre strofe lui prova
a conquistarla ma dona Endrina non cede. Strofa 697: finalmente capisce di aver bisogno di aiuto, cerca una
delle trotaconventos, e lui sceglie la migliore perché guidato da Dio, era una molto furba. Questa donna che
lui sceglie vendeva cose di poco conto ed era di quelle proprio esperte di questa professione. Strofe 706-
709: parla con Trotaconventos e le dice chi è la donna della quale è innamorato. La narrazione è sempre
alla prima persona. Strofa 724: Trotaconventos è andata a casa di dona Endrina inviata dal protagonista.
Sta iniziando a farla interessare all’argomento. Il modo di rivolgersi della vecchia mezzana alla ragazza è
molto familiare, la chiama “figlia”. Trotaconventos le dice che sta sempre chiusa in casa e dovrebbe uscire,
fuori c’è tanta gioventù e tra questi ce n’è uno che è il migliore in assoluto che si chiama don Melon de la
Uerta. Il lettore si rende conto che la storia che sta raccontando il narratore, sempre con un yo
autobiografico, non è più quella di Juan Ruiz, ma quella di don Melon de la Uerta. Senza avvertire di questo
cambiamento di personaggio, l’autore fa si che si racconti una storia che riguarda un altro personaggio. Lo
fa perché vuole includere all’interno delle varie storie che finiscono male, cioè quelle che lo riguardano, una
storia di buen amor ma come una esperienza come le altre. Verso 796: Trotaconventos è tornata da Don
Melon de la Uerta gli dice che dopo la tristezza viene la gioia, perché dona Endrina ha ceduto al
corteggiamento, non vuole sposarsi se non con lui e tutto il suo desiderio è concentrato su di lui.
Trotaconventos è riuscita nel suo lavoro. Strofa 904: c’è l’insegnamento rivolto soprattutto alle donne,
invita a tenersi lontane dall’amor loco. Strofa 909: c’è tutta una serie di consigli che lui dà a sua volta, si
ritorna a Juan Ruiz, lo capiamo perché dice che ha raccontato la storia per fare un esempio ma non perché
è successa a lui.

La storia di dona Endrina e don Melon è la storia inserita per dire che bisogna seguire il buen amor. Da 910
subito rivolge le sue attenzioni ad altre donne, non c’è un’introduzione alla nuova storia, parla di
un’apuesta duena che seduce con l’aiuto di Trotaconventos, che in questo caso viene chiamata Urraca che
probabilmente è il suo vero nome, con cui litiga perchè dà a lei la colpa dei suoi fallimenti. Segue un
momento divertente in cui dice tutta una serie di nomi negativi con cui vengono chiamate queste mezzane,
la cosa divertente è che lui dice “a queste messaggere non le devi mai chiamare in tutti questi nomi, ma
facendo così li sta dicendo e sta chiamando la sua messaggera con tutte queste cose”. Dopo di che si
riappacifica con la mezzana anche perché sa di avere bisogno del suo aiuto, anche perché questa donna
riesce a fargli conquistare una donna che però muore. tutte queste storie sono inframezzate anche da
riflessioni del protagonista, infatti dopo che questa donna muore comincia tutta una serie di riflessioni
rivolte al lettore (V 943-944). Dopo di che c’è un’indicazione temporale, il mese di marzo. Strofa 950: Juan
Ruiz, con l’arrivo della primavera, decide di fare nuove esperienze, pensa di intraprendere un viaggio, si
appoggia sempre a parole di altri per avvalorare ciò che lui dice, in questo caso si appoggia ad una lettera di
San Paolo in cui dice che bisogna provare tutto. Comincia questo viaggio in cui incontrerà diverse donne, le
quali vorrebbero avere a che fare con quest’uomo ma sono così brutte che è lui che le rifiuta. Queste donne
si chiamano serranas, cioè quelle che abitano sulla Sierra. Nel tragitto, perde la mula e rimane senza cibo. Ci
dà un’indicazione temporale (marzo) e di luogo (il passo di Locoya). Prende questo sentiero, fa molto
freddo perché era in montagna. Incontra una prima donna, si chiama La Chata ed è colei che lega gli
uomini. È lei che sorveglia questo passo di montagna e riscuote la tassa di coloro che passano da quelle
parti, spoglia di tutto ciò che hanno gli uomini che non pagano. Questa donna era così grossa che riusciva a
sbarrargli la strada. Lui capisce di essere in pericolo, cerca di dirle delle parole che la convincano a lasciarlo
andare, le dice che le regalerà dei gioielli, e le chiede si accoglierlo a casa sua perché ha molto freddo. La
donna dice che deve prometterle qualcosa di concreto. Il protagonista le promette una fibbia e una
bisaccia. La donna accetta e se lo mette sulle spalle. Cambia il tipo di versificazione perché il racconto che
riguarda queste donne è più agevole e veloce, è più musicale, come se volesse dare una diversa
caratterizzazione al racconto delle serranas. Strofa 959: c’è più ritmo, ma sta dicendo le stesse cose di
prima. Incontra questa donna che non passa nessun uomo salvo da quel posto. Dopo che l’ha preso sulle
spalle, arrivano a casa della donna, gli dà tanto da mangiare e poi gli fa capire le sue intenzioni. Lui si sente
più a suo agio. Lei lo prende per il polso e lui deve necessariamente stare al suo volere, ma lui dice che fu
un buon affare. Dopo questa donna ne incontra altre 3, con aspetto selvaggio, e tutte sono raccontate
alternando cuaderna via e coplas. Con la terza donna, la quale si fa giurare eterno amore, non ci dice come
termina la storia. Dalla quarta, che è la più brutta di tutte, riesce a liberarsi. Dopo questa descrizione di
questi incontri, arriva all’eremo di Santa Maria del Vado. Strofa 1043: dedica una cantiga a santa Maria del
Vado e poi ne dedica altre 2 alla passione di Cristo.

Lui termina il suo viaggio all’inizio della quaresima, il periodo di rinunce prima di pasqua. Decide di ritornare
a casa sua e pranza con un altro personaggio allegorico, don Jueves lardero cioè giovedì grasso. Nel mentre
arriva una lettera da un altro personaggio allegorico che è dona Cuaresma. Ella ha inviato una lettera a tutti
gli arcipreti ed i clerigos che non si dedicavano all’amore puro per sfidare in guerra don Carnal, cioè
carnevale (il momento di grande festa, del mangiare, dell’essere chi non si è). Per cui, il poeta, prendendo
spunto da questa sfida, racconta in forma allegorica e parodica la guerra tra don Carnal e dona Cuaresma.
Alla fine, don Carnal vince, dona Cuaresma si ritira a Gerusalemme. La fine di questa guerra coincide con la
Pasqua. Anche don Amor festeggia la vittoria di don Carnal.

21. LETTERATURA SPAGNOLA 24.05.21


Siamo arrivati alla parte allegorica dove c’è lo scontro tra la Quaresima e il Carnevale ed i loro eserciti, e il
momento in cui don Carnal vince con l’arrivo della pasqua, e c’è la presenza di Amore che si cerca di
portare nella propria casa, ma decide di non essere ospite di nessuno, pianta la propria tenda al centro
della piazza di questa città. Anche la tenda viene descritta in maniera allegorica.

Strofa 1266: in queste quattro strofe vuole raccontare com’è fatta questa tenda, o meglio che cosa viene
rappresentato all’interno. Tanto che era meravigliosa dice che non riesce a trovare le parole per
descriverla. (esagerazione). Tanto che splendeva il rubino sull’albero che sembrava fuoco e illuminava tutto
intorno, e le corde che mantenevano la tenda che partivano dall’albero erano di seta.

Ci viene fatto capire quanto sia grande la tenda, tra i cavalieri che mangiano ad una tavolata tutti seduti,
anche se allungassero un bastone non si toccherebbero. Quello che sta descrivendo non era qualcosa di
fisico che c’era nella tenda, ma quello che era rappresentato sulle pareti della tenda, lungo tutte le pareti
c’erano degli affreschi. Erano rappresentate le 4 stagioni e tutti i mesi dell’anno secondo il calendario
mozarabe, quello utilizzato durante la dominazione araba in Spagna; l’anno iniziava con l’inverno, l’11
novembre, e il primo cavaliere è appunto il mese di novembre, infatti il primo cavaliere descritto mangiava
delle rape, dava delle carote alle bestie e dice “sono i giorni più corti e le mattinate fredde”, ci fa quindi
capire che sta parlando di un mese invernale. Al verso 1300 termina la descrizione di quanto era
rappresentato nella tenda. Dopo la descrizione dei 12 mesi dell’anno don Amor toglie le tende, abbandona
la città e Juan Ruiz si ritrova senza far nulla, e gli viene in mente di ricominciare a trovare qualche donna da
conquistare, infatti una settimana dopo si rivolge di nuovo a Trotaconventos perché vuole conquistare una
giovane vedova che però lo rifiuta. Il protagonista non si perde d’animo, scorge in chiesa una donna che
definisce “muy devota”, parliamo di dona Garosa (è a lei che Trotaconventos fa la descrizione fisica di Juan
Ruiz). Trotaconventos s’impegna molto, vuole convincerla a cedere alle avances di Juan Ruiz, la donna
accetta l’incontro con il protagonista nonostante si trovava in convento, ma la relazione si ridurrà ad un
“limpio amor”, non c’è nulla di loco amor, ma soprattutto la monaca muore. Subito dopo vede una mora
(araba), ma la mezzana non riesce proprio ad avvicinarsi perché viene cacciata. Poi avviene l’avvenimento
più triste del testo, muore Trotaconventos, con la quale il protagonista ha instaurato un rapporto di fiducia
nel mentre, quindi Juan Ruiz accusa la morte di avergli tolto la sua amica e il suo appoggio. Dalla strofa
1518/20 abbiamo questo canto di Juan Ruiz contro la morte, in ricordo della mezzana. L’autore si rivolge
direttamente alla morte dando del “tu”, le augura la morte stessa, comincia ad elencare tutta una serie di
aspetti della morte importanti all’epoca: la morte non guarda in faccia a nessuno indipendentemente dal
ceto sociale, da come ci si comporta (se si è cattivi o buoni). In quanto arciprete dovrebbe dare il messaggio
della speranza della vita dopo la morte, in questo caso invece sta dando un messaggio di fine della vita, dice
che il corpo viene mangiato dai vermi e l’anima viene portata via in fretta, non parla di una salvezza dopo la
morte. Tutti gli esseri amati in vita diventano odiati dopo la morte perché non ci sono più. Non c’è una
persona al mondo che parli bene della morte, tutti l’accusano, tranne il corvo perché si sazia con la morte.
Le sue parole si contrappongono a quell’ironia e delicatezza del racconto precedente. Dalla strofa 1530 a
1532 c’è il messaggio di insegnamento, cioè di comportarsi bene durante la vita, non essere amici del corvo
del male) e di fare del bene quando c’è la possibilità di farlo, perché la vita è qualcosa di veloce e passa
subito, invita a non rimandare le cose buone che si possono fare oggi. L’uomo non è preparato alla morte.
Dopo aver accusato la morte, c’è un pensiero a coloro che possono ancora salvarsi, questo si collega a
quella visione generosa di Juan Ruiz che accetta anche l’uomo che si rivolge al loco amor. Dopo
quest’intermezzo che dedica alla morte, Juan Ruiz non si arrende nonostante sia morta la sua mezzana. Si
rende conto che ha perso troppo tempo in questa parentesi dedicata alla morte, e fa una divagazione
sull’importanza della brevità a cui collega l’esaltazione delle duenas chicas, cioè delle donne
piccoline/bassine. Cerca di tentare la fortuna con le donne e contatta un mezzano, don Furon, ma
nemmeno lui riesce nel suo compito. A un certo punto, senza preavviso, s’interrompe l’elenco dei vari
tentativi del protagonista di raggiungere le donne, e si giunge all’epilogo del testo. Questi versi sono molto
importanti perché quando smette di raccontare queste avventure amorose comincia a riprendere delle idee
che aveva già dato nel prologo in prosa all’inizio, è come che chiudesse il cerchio, ma continua in versi.
Ripete quello che è stato il senso del libro e in qualche modo lo dona al pubblico. Strofa 1626: “santa Maria
è l’inizio e la fine di tutto, per questo motivo ho dedicato a lei 4 cantares, e ora metterò un punto al mio
libro (lo definisce libretto per quella finta umiltà dei lettori) ma non lo chiuderò”, “questo libretto ha delle
buone proprietà perché dovunque si legga e a chiunque lo legga viene il desiderio di servire Dio” l’effetto
immediato è seguire le messe, fare delle preghiere, l’elemosina. Spiega il motivo per cui non chiude il suo
“librete”, chi sa comporre versi e per chiunque lo ascolti può aggiungere o aggiustare se vuole dei brani dal
testo, perché può andare di mano in mano a chi vuole. Sta dicendo che chiunque può aggiungere o togliere
versi e fare suo il testo, perché può aggiungere la propria esperienza. L’idea in cui si dà più importanza al
testo si collega a questa affermazione perché c’è l’idea che Juan Ruiz abbia creato un testo che va di mano
in mano, che viene letto e conosciuto, ma può essere anche cambiato. Riprende quanto detto nel prologo e
ripete che poiché questo libro è un libro di buon amor, lo si può passare. Poi parla di “pequeno libro” ma il
commento che si può fare a questo testo è molto grande perché dietro ogni cosa detta c’è un significato
molto profondo. è una guida di come arrivare ad essere santi ma è anche un breviario di gioco e di scherzo.
Afferma che chiude lo scrittoio ma non il testo. Dice che offre questo testo con poca sapienza. Si ricollega
alla juglaria, chiede una ricompensa alla fine ma non concreta come i giullari ma una preghiera da dire per
lui. La strofa 1634 è il colophon che si attribuisce al copista del manoscritto T, altri al manoscritto S (come
nel Cid c’è il problema della datazione). Chiude il testo invitando chiunque sappia scrivere a correggere o
aggiungere brani al suo libro, ma vuole che questo testo si diffonda quanto più possibile nella speranza che
insegni qualcosa. Subito dopo ci sono altri gozos di santa Maria senza connessione col colophon. Ci sono i
gozos e anche dei poemi di contenuto profano, tra cui una cantiga “de los clerigos de calavera”,
adattamento di un testo latino che si chiama “consultatio sacerdotorum”. In questa cantiga ci sono dei
clerigos che si lamentano perché il vescovo della città ha ordinato a loro di abbandonare le loro concubine.
Con la strofa 1728 si chiude il testo.

La tematica principale è l’amore, quello buono e quello cattivo, è un amore anche collegato alla sofferenza
perché quasi sempre si parla di insuccessi amorosi, si parla anche di come conquistare le donne. Altra
tematica, strettamente collegata all’amore, è la morte, che è un fenomeno irreparabile ed è presente nella
vita dell’uomo, l’autore in questo caso l’affronta con coraggio in occasione della morte di Trotaconventos. È
importante la figura della donna, vengono descritti molti tipi di donne: belle, brutte, molto brutte, donne
che cedono all’amore, more o cristiane. Sono donne che magari Juan Ruiz ha davvero conosciuto e usato
come stereotipo. Poi c’è Trotaconventos, una delle donne protagoniste. È quella che agisce di più, è
l’antesignano della Celestina, del personaggio topico della mezzana. Pensa al guadagno. Riesce a far
affezionare il protagonista. Il tipo di racconto fatto da Juan Ruiz non è unico, ci sono racconti di diverse
tipologie che Juan Ruiz ha saputo tenere insieme. Oltre all’autobiografia c’è la caratteristica dell’umorismo,
tranne nell’episodio riguardante la morte di Trotaconventos. La conclusione di molti dei suoi racconti è
umoristica. Il linguaggio di Ruiz è molto semplice, pieno di detti popolari e proverbi (massima che dà un
insegnamento di derivazione popolare) così da raggiungere tutti i livelli sociali. Tra le fonti ci sono anche gli
“esempi”. Juan Ruiz, nonostante il fatto che non ci sia più l’oralità, nonostante il distacco con il pubblico a
causa della scrittura, vuole un contatto stretto con il pubblico, è uno dei primi insieme a Don Juan Manuel
che comincia ad avere la coscienza artistica del testo scritto, capisce che è sì un giullare contemporaneo ma
deve anche valorizzare il suo lavoro. Il Libro de buen amor è uno dei primi testi in cui è presente l’idea del
testo scritto e dove si comincia ad avere una diversità di rima.

Pedro Lopez de Alaya è stato un grande traduttore, comincia a nascere la cultura della traduzione (come
c’era con Alfonso X) dei grandi classici in castigliano. Le sue traduzioni danno il via ad una cultura della
traduzione, tant’è che nel ‘400 c’è una grande ispirazione ai classici latini e greci.

Il ‘400 è l’epoca di due re, Juan II (1406-1474 il regno) ed Enrique IV. In questo periodo abbiamo un
evolversi della letteratura perché nasce la corrente letteraria dell’Umanesimo. C’è una crisi a livello sociale
molto profonda che parte dalla Chiesa con lo scisma d’Occidente, perché viene trasferita da Avignone a
Roma la sede apostolica ad opera di Gregorio XI nel 1377, questo fa sì che morto papa Gregorio XI, per
paura che la sede papale venga ritrasferita ad Avignone, viene eletto Urbano VI. Ciò non viene appoggiato
da molti, soprattutto dai francesi, quindi congiurano contro il nuovo papa e ne eleggono un altro cioè
Clemente VII chiamato l’antipapa. Si trovano due sedi papali. Lo scisma si conclude nel 1417 con il concilio
di Costanza dove viene eletto papa Martino V con sede a Roma. Tutto ciò ha ripercussioni sulla storia
letteraria perché la letteratura nasce dalle esperienze di tutti i giorni, dalla società, quindi la crisi della
chiesa porta pessimismo nella società. Ci stiamo avvicinando anche ad una coscienza di classe, il popolo
comincia a capire che potrebbe avere dei poteri. Si stanno rompendo gli equilibri anche all’interno della
stessa corte, con la presenza di nobili che vogliono distaccarsi dalla corte per avere più poteri. I nobili
cominciano a dedicarsi molto alle arti lasciando da parte la loro attività di guerrieri, infatti molti autori del
‘400 spesso sono o solo letterati o anche guerrieri. L’umanesimo (viene da uomo) ruota attorno alla figura
dell’essere umano, in particolare l’intellettuale, nasce la figura dello scrittore perché si diffonde l’idea che
l’uomo può essere creatore di qualcosa di bello e importante, cioè l’opera letteraria. Con l’umanesimo si
mette in primo piano lo stile, l’arte, la poesia, la prosa e la qualità delle opere, di conseguenza anche le
fonti d’ispirazione che devono essere ben conosciute, ci ricolleghiamo al discorso della traduzione che era
necessaria per potersi ispirare alle grandi opere. L’Italia in questo momento rappresenta un modello per la
Spagna, in particolare per le opere di Dante e Petrarca. Re Alfonso VI d’Aragona nel 1443 conquista il regno
di Napoli, vi si trasferisce, si circonda di intellettuali a corte che provengono da Italia e Spagna. Gli
intellettuali del regno di Napoli vanno in Spagna, c’è uno scambio continuo. Uno degli autori che ha dato
una grande spinta alla cultura umanistica è Enrique de Aragon (marchese di Villena) che si occupava di
traduzione, in particolare dell’Eneide e della Divina Commedia. La cosa fondamentale è che, oltre a tradurre
queste opere in castigliano, aggiunge dei commenti alla traduzione, delle glosas in cui commenta e spiega i
passi più difficili della traduzione. Fa un’opera letteraria ma anche di laboratorio di traduzione, pragmatica.
Si dedica anche ad opere astrologiche, gastronomiche. Molte delle sue opere furono date alle fiamme per
mano della chiesa. Altro esponente dell’umanesimo spagnolo è Alfonso de Cartagena, vescovo di Burgos.
Anche lui traduceva, era un latinista. Traduce il De casibus di Boccaccio, opere di Cicerone e di Seneca in
castigliano. Con l’Umanesimo è evoluta la letteratura spagnola, c’è un’apertura alla cultura estera che viene
presa come esempio per la propria produzione letteraria, inoltre c’è la voglia di dare delle indicazioni ben
precise alla letteratura dell’epoca, in questo periodo nascono i “cancioneros” che sono delle raccolte di
poesia nei quali vengono unite le opere poetiche dei poeti più conosciuti all’epoca, tant’è che alla corte di
Alfonso Vi d’Aragona viene raccolto un cancionero chiamato “Cancionero de Stuñiga” (1458). Esso era una
raccolta di poesie di diversa fattura e tematica, dove vengono riuniti tutti i poeti conosciuti alla corte di
Alfonso d’Aragona. Durante il ‘400 c’è un numero di poeti sempre più consistente. Prima c’erano coloro che
producevano opere che venivano cantate, poi i clerigos che cominciano a creare opere con i loro nomi, man
mano la letteratura avanza e c’è il proliferare di autori e poeti coscienti, che potevano provenire sia dalla
nobiltà che dalla corte, ma anche dagli ambienti religiosi. Ci sono ancora i giullari. Il pubblico a cui si
rivolgevano era particolare perché il pubblico alfabetizzato era comunque minimo. Le tematiche trattate
nei cancioneros erano religiose, ma vi erano anche poesie d’occasione che si riferivano ad una particolare
festività o un particolare personaggio. La fonte più importante era Dante, veniva preso come esempio sia
dal punto di vista contenutistico sia stilistico. Le poesie di arte mayor sono quelle che utilizzano un verso
superiore alle 8 sillabe, per esempio la cuaderna via (versi di 14 sillabe). L’arte menor utilizza un verso fino
alle 8 sillabe. Le poesie composte in questo periodo sono soprattutto di arte mayor. Juan Ruiz utilizza
entrambe le modalità. Altro cancionero importante è quello di Baena che si chiama così perché è una
raccolta di poesie fatta da Juan Alfonso de Baena, che riunisce nel 1445 più di 500 poesie in questo
cancionero, dove si ritrovano sia poeti conosciuti sia poesie anonime. Tra i poeti conosciuti si trova Macìas,
conosciuto perché muore ucciso dal marito della sua amante. Nel ‘400 ci sono 3 autori fondamentali: Iñigo
Lopez de Mendoza (marques de Santillana), Juan de Mena e Manrique. Il primo (1398-1458) si dedicò alle
armi e alle lettere ed ebbe successo in entrambi i campi. Con la sua arte fa da ponte tra la parte finale
dell’Umanesimo e il Rinascimento. Si ispira alla tradizione italiana, infatti una delle sue opere più importanti
è “Sonetos fechos al italico modo” formato da 42 sonetti che trattano sia amore sia politica. Scrive anche
“El infierno de los enamorados” dove la parola inferno ci fa pensare a Dante, infatti si ispira al girone dei
lussuriosi della Divina Commedia, e inserisce personaggi a lui contemporanei. Non fu traduttore. È uno
sperimentatore perché si ispira a Petrarca ma allo stesso tempo si dedica alla poesia classica spagnola,
scrive le serranillas ed i villancicos che sono dei componimenti tipici della letteratura spagnola. Scrive dei
refranes, proverbi che si rifanno alla tradizione spagnola. Mette insieme l’innovazione della nuova
letteratura umanistica e la tradizione della letteratura castigliana.

22. LETTERATURA SPAGNOLA 25.05.21


Il secondo scrittore importante è Juan de Mena (1411-1456), contrariamente al Marques de Santillana che
proveniva da una famiglia nobile e viveva a corte, nasce in una famiglia di ebrei conversos, ovvero convertiti
al cristianesimo. Resta orfano molto giovane, trascorre la sua gioventù nella povertà, fino a quando
comincia a dedicarsi dai 20 anni in poi alle lettere. È l’unico tra questi tre scrittori importanti del ‘400 che si
dedica solo alle lettere senza avere un’attività militare. Vivrà alla corte di Juan II perché sarà preso come
poeta. Viaggia molto, a Roma entra in contatto con la letteratura italiana e si ispira a questa. Scrive alcune
liriche minori di tematica amorosa. L’opera più importante è “El laberinto de fortuna”, chiamato anche Las
trescientas perché il testo è formato da quasi 300 strofe (297) di arte mayor. La scrive intorno al 1440. Si
ispira alla Divina Commedia, ha una struttura che la ricorda molto da vicino perché il poeta-protagonista
viene accompagnato da una figura a visitare il palazzo della fortuna, che allegoricamente è un personaggio.
Lui se la prende con la fortuna per le sorti avverse della sua vita. C’è quindi una donna che si offre di
accompagnarlo nel palazzo di questa fortuna per mostrargli che tipo di vita aveva questa donna, e questa
donna che lo accompagna è la provvidenza (allegorica). In questo palazzo vede tre ruote, quella del
presente, del passato e del futuro, e solo quella del presente è in movimento mentre le altre sono fisse,
perché il passato ormai non ha più possibilità di essere cambiato, il presente è in continua evoluzione e il
futuro deve ancora venire quindi la sua ruota è ferma ma velata. Su queste tre ruote ci sono dei personaggi,
sui sette cerchi concentrici che formano ogni ruota (paragone con i gironi danteschi). Questi cerchi
riguardano i vizi e le virtù dell’uomo, per cui ogni personaggio è influenzato dal cerchio del vizio o della virtù
in cui si trova. La differenza con la Divina Commedia sta nel fatto che Dante parlava di personaggi del
passato, che dopo la morte si ritrovavano nell’inferno, nel purgatorio o nel paradiso, invece Juan de Mena
parla di personaggi di un passato molto recente che quindi potevano essere conosciuti da chi leggeva il
testo, contemporanei a lui ma anche personaggi potenzialmente futuri come per esempio il re di allora Juan
II ma con prospettiva futura, i successi che avrebbe potuto avere (era un elogio della politica di questo re
per cui lavorava). La conclusione dell’opera è una sorta di profezia dei futuri trionfi della corte di Juan II.
Altra differenza con la Divina Commedia è che Dante parlava dei vizi e delle virtù, invece in questo caso
abbiamo un solo elemento che poteva essere stato trattato come un vizio o una virtù da quel personaggio,
non erano divisi in buoni e cattivi, ma a seconda di come si erano comportati durante la vita e avevano
sfruttato quella caratteristica. Juan de Mena utilizza un linguaggio molto difficile, probabilmente per
arrivare ad un determinato tipo di pubblico, ma soprattutto perché voleva rendere il castigliano una lingua
importante. Utilizzava molti termini e caratteristiche latine, ciò rendeva difficile la comprensione del testo.
Juan de Mena aveva una sorta di rivalsa nei confronti di sé stesso, che non aveva avuto un’educazione
letteraria da piccolo, aveva fatto tutto da solo, quindi voleva dimostrare quanto avesse poi imparato e
quanto fosse un bravo letterato. Quest’opera rappresenta una denuncia della sua contemporaneità, perché
nella sua visione c’è una distanza enorme tra quella che doveva essere la realtà secondo lui e quello che in
realtà era, vivendo a corte conosceva da vicino le dinamiche della corte e quindi le denuncia. Il suo
linguaggio difficile è anche un’ispirazione all’antichità come modello, infatti traduce i classici. L’altra opera è
“El tratado de amor”, che ha molte cose in comune con il Libro de buen amor di Juan Ruiz. In quest’opera,
che è più un trattato teorico che un’opera letteraria, distingue l’amore positivo e l’amore negativo,
definendo lecito l’amore puro e coniugale, e non lecito quello che era il loco amor di Ruiz. C’è continuità
nelle tematiche perché l’ispirazione a quello che c’è prima è inevitabile. Dedica anche un’opera al Marques
de Santillana, in cui parla della sua vittoria nella battaglia di Huelma nel 1438, ma utilizza quest’opera per
parlare di vizi e virtù contemporanee.

Jorge Manrique (1440-1479) nasce a Paredes in una delle famiglie più potenti e influenti della nobiltà
spagnola. Muore in battaglia, ciò ci fa capire che univa armi e lettere, probabilmente è colui che meglio
mette insieme questi due aspetti rispetto agli altri autori. La famiglia Manrique era molto benvista
all’epoca, ed era una famiglia in cui quasi tutti i componenti erano cavalieri dell’Ordine de Santiago, uno dei
titoli a cui si aspirava di più. Muore in battaglia perché fa parte dello schieramento che difende la salita al
trono di Isabella di Castiglia, futura regina cattolica. Nelle varie lotte di successione al trono c’erano due
fazioni: chi non voleva che i regni di Castiglia e Aragona si unissero pensando che l’uno o l’altro perdesse
potere, e chi appoggiava l’unione dei due regni tra cui Manrique, che muore in battaglia contro un suo
nemico, il Marques de Villena. A fianco alla politica, Manrique si dedica alla letteratura. Scrive un
cancionero che raccoglie una cinquantina di poesie dedicate alla moglie, di tematica amorosa ma anche
burlesca e allegorica. Esso rappresenta l’attività letteraria parallela alla scrittura delle Coplas por la muerte
de su padre. “coplas” non viene tradotto perché è un tipo di strofa che non ha una traduzione italiana.

Le coplas sono dedicate al padre Rodrigo Manrique. Con quest’opera vuole rendere un tributo ad un uomo
che per lui è esemplare e vuole farlo ricordare al mondo intero nei secoli. Le coplas sono un insieme di
strofe che abbracciano una diversità di temi. Ha un carattere molto filosofico. Manrique non vuole
rinnovare nulla, non vuole formalmente fare delle innovazioni. Nonostante ciò, fa qualcosa che rappresenta
un’innovazione perché la colpa utilizzata in quest’opera verrà chiamata copla manriqueña. Altra
innovazione fatta senza volerlo è che un personaggio diventa protagonista di un’opera. Nelle opere
precedenti non c’era un solo protagonista attorno al quale ruotava tutta l’opera, o meglio non era un uomo
comune da cui prendere esempio (vi era la Vergine, l’eroe come il Cid). il titolo italiano è “elegia” perché in
realtà quest’opera è un’elegia, un’opera che prende spunto dal famoso distico (due versi) elegiaco, il verso
in cui si scrivono le elegie, formato da un esametro e un pentametro (verso di 6 e verso di 5). L’elegia è un
canto nostalgico, un componimento tipico della classicità (nella letteratura latina Catullo, in quella greca
Callimaco). L’elegia è un canto che può avere anche tematiche amorose, politiche, di guerra. In questo caso
si parla di un canto nostalgico dedicato alla morte del padre. Manrique si ispira all’elegia classica, che non è
l’unica fonte a cui si ispira, perché nel medioevo l’elegia si trasforma in diversi tipi di componimenti come
quelli chiamati “plantos” o “llantos”, nei quali si “piangeva” qualcuno. Il principale modello di Manrique
sono delle coplas di suo zio Gomez Manrique. La copla di Manrique, che di solito è formata da un numero di
versi diversi ma di 8 sillabe, si chiama “de pie quebrado” (di piede rotto), cioè formata da versi tagliati, più
brevi (4 sillabe di solito). Ciò conferisce un ritmo particolare, il verso più breve fa soffermare ancora di più
sul suo contenuto. La rima è alternata, anche questo influisce sul ritmo. Il linguaggio è più vicino al
castigliano di oggi, rispetto anche al Libro de buen amor di un secolo prima. Arte mayor e arte menor fanno
riferimento sia al numero di sillabe sia al numero di versi in una strofa. Manrique utilizza un verso di arte
menor che è tipico della lirica vicina allo stile colloquiale, ciò ci fa capire che vuole arrivare facilmente al
pubblico, no come Juan de Mena.
Ci sono varie tematiche che si possono raggruppare perché si potrebbe dire che le Coplas sono un
compendio di tutte le tematiche del Medioevo, cioè c’è tutto un insieme di tematiche che rappresentano gli
aspetti fondamentali del pensiero medievale. La prima tematica è quella del tempus fugit, cioè lo scorrere
inesorabile del tempo, la fugacità della vita e delle cose terrene. Secondo Manrique il presente non esiste
ma diventa subito un attimo già passato, è un tempo che va trasformandosi continuamente e l’unica
soluzione per trattenere il tempo che fugge è dedicarsi alla spiritualità, perché c’è un ente superiore che è
la fortuna che è un destino cieco. La fortuna è un’idea pagana, nel cristianesimo si parla di provvidenza.
L’idea di Manrique sta a metà tra le due visioni, perché vede l’uomo abbastanza fautore del proprio destino
ma allo stesso tempo deve necessariamente affidarsi a qualcosa di superiore. L’uomo vive nel mondo
terreno, che viene visto come luogo di passaggio (introduzione dei Milagros, il pellegrino che attraversa la
vita) per arrivare alla salvezza dell’anima. Durante la vita terrena l’uomo deve affrontare tre nemici: il
tempo, la fortuna e la morte. L’unica certezza è che i beni terreni sono fugaci (caducità dei beni terreni). Il
mondo quindi rappresenta un nemico. Manrique si ispira all’opera “De contemptu mundi” (il disprezzo del
mondo), scritta nel 1397, ne trae l’idea che l’uomo deve odiare le cose terrene e tutto ciò che è nel mondo,
perché finisce. Afferma che bisogna dare il giusto peso alle cose fugaci. L’unica cosa che ci può aiutare ad
affrontare un passaggio successivo è la fama, la virtù, la conoscenza che viene portata avanti attraverso le
proprie opere. Manrique dice che il successo terreno aiuta ad essere ricordato anche dopo la morte. Si può
dedurre che il padre avesse fatto qualcosa di molto buono per essere ricordato tramite l’opera. Manrique
parla di tre vite; terrena, della fama, eterna. Per lui non si può arrivare alla vita eterna senza passare per la
vita della fama. Nel Medioevo, ma soprattutto verso la fine del ‘300, c’è un’ossessione per la morte. Dal
1346 al 1353 ci fu la peste anche in Spagna, che causò circa 20 milioni di vittime in Europa, che unita alle
guerre contribuì a creare una visione della vita negativa. La risposta alla paura di morire era avere una
visione basata sul carpe diem e dedicarsi ai piaceri della vita, perché la morte poteva sopraggiungere da un
momento all’altro, questa è una visione edonista, cioè identificare il bene con il piacere come fine ultimo.
Nascono delle opere chiamate “Danzas de la muerte” che avevano una struttura molto simile tra loro, in cui
la morte è la protagonista e invita a ballare a turno diversi personaggi che appartengono a tutte le classi
sociali (re, conti, contadini, vescovo, donne): il significato è che la morte non fa distinzioni, si vuole
dimostrare il suo potere livellante, e viene rappresentata con tratti orribili. Manrique non la rappresenta in
questo modo, egli prende in considerazione la visione pessimistica del Medioevo, ma ha un filtro religioso
cioè rappresenta la morte come una presenza che invita gli uomini a seguirla, non falcia improvvisamente
ma accompagna il passaggio dalla vita terrena a quella eterna. Nell’ultima parte dell’opera la morte invita il
padre di Manrique a seguirlo, e il padre cosciente di aver vissuto una vita positiva degna di essere ricordata,
lo segue con serenità. Manrique vuole dare l’idea della morte come un sereno esaurimento della vita,
infatti si ispira a delle opere che appaiono all’inizio del XV° secolo che si chiamano “Artesi moriendi” (arti di
morire), scritte in latino, davano dei consigli per affrontare la morte in maniera tranquilla. Manrique invita a
stare attenti a quello che accade durante la vita terrena, perché c’è la morte che non fa discriminazioni
come invece le fa la vita. Per trasmettere questi messaggi manrique utilizza due topoi: l’ubi sunt (dove
sono?), cioè tutti i personaggi venuti prima di noi che hanno conquistato terre o avevano ricchezze ma non
avevano quella virtù, che fine hanno fatto? La risposta è il silenzio perché non si sa. Altro topos è quello
dell’homo viator, ovvero pellegrino. L’homo viator è quello che stava nell’introduzione dei Milagros, colui
che attraversa la vita terrena e man mano cambia, cresce, magari riesce a purificarsi con le sue azioni e
riesce ad allontanarsi dagli inganni e dai beni materiali del mondo terreno ed arriva alla vita eterna. L’opera
è stata divisa in te parti, ha una struttura coerente, perché le tre parti corrispondono alle tre vite di cui
parla. Questa suddivisione è stata fatta da Pedro Salinas (generazione del ’27), critico letterario. La prima
parte va dalla copla 1 alla 13, ed è la parte introduttiva e più caratterizzata dal discorso filosofico, Manrique
inizia la sua opera con delle considerazioni sulla vita dell’uomo e sulla caducità delle cose mondane
collegandosi alla visione edonistica. La seconda parte va dalla copla 14 alla 24, è una spiegazione di quello
che ha detto nella parte precedente e affronta il topico dell’ubi sunt, perché affrontando il problema della
fama fa l’esempio opposto ovvero coloro che non hanno raggiunto questa fama. L’ultima parte va dalla
copla 25 alla 40, si riferisce alla vita eterna e qui parla del padre, Don Rodrigo Manrique. Qui interviene la
morte. Il padre è trattato con rispetto, viene preso ad esempio, c’è un elogio del figlio verso il padre, che
viene elogiato per le sue azioni durante la vita terrena. In questa parte il padre incontra la morte e si
comporta con serena rassegnazione, mentre la morte si comporta con semplicità e tranquillità. La copla 40
rappresenta una sorta di colophon, dove non c’è il nome dello scrittore o nulla di giullaresco, ma c’è una
chiusura definitiva che è quella che chiude anche la vita eterna. Manrique non dà attenzione al linguaggio,
ma nonostante ciò utilizza degli artefatti retorici inevitabili nel momento in cui si scrive un’opera in versi,
inoltre aveva una grande cultura quindi si ispira alla retorica dell’epoca. Utilizza lo stile che viene chiamato
sermo humilis, (sermo significa modo di parlare), cioè un modo di parlare semplice, umile. Manrique rifiuta
i cultismi latini, non vuole accrescere la difficoltà del suo linguaggio, non ricorre nemmeno alla sintassi
latina ma utilizza costruzione SPO. Spesso, quando utilizza l’allontanamento di una parola dall’altra che
dovrebbero essere vicine (iperbato), non lo fa per ricercatezza di linguaggio ma per la rima. La coerenza
interna è molto profonda, comincia con delle esortazioni e si chiude riprendendo i primi versi. I verbi della
prima copla “recuerde, abive, despierte” sono esortazioni che aprono l’opera. Nella strofa 34 parla la
morte, e si oppone all’invito iniziale di svegliarsi e accendere il senno, perché invita ad abbandonare
l’illusione del mondo terreno. Tutto ciò che c’è tra la prima e questa copla è il messaggio che Manrique
vuole dare. Con il “nosotros” include anche sé stesso nel messaggio e dà una sensazione di universalità. Con
il “vosotros” si rivolge solo a chi legge. Nonostante non voglia usare figure retoriche, si ritrova a farlo. Gli
imperativi che troviamo all’inizio e durante l’opera non sono imperativi in cui l’autore si pone al di sopra del
lettore, sono dei consigli, sta dando indicazioni al lettore, affinché possa partecipare al sentimento del
poeta e porsi allo stesso livello.

23. letteratura spagnola 31.05.21


Il pie quebrado, il verso più breve, spesso fa sì che sia un verso su cui si poggia di più l’attenzione. Spesso il
poeta utilizza o il pie quebrado o uno dei versi che inserisce nell’opera per fare una sorta di riassunto di
tutto quello che dice nella copla.

Copla 1: la massima che tiene insieme la copla è costituita dagli ultimi due versi. Gli imperativi dei primi due
versi fanno parte dello stile esortativo proprio di Manrique. Essi hanno una gradatio, sono in progressione
dal significato di risvegliarsi pian piano fino a svegliarsi completamente rendendosi conto di qualcosa. In
questa gradatio c’è l’invito del poeta. Questi verbi sono ripresi probabilmente da un inno fatto da San Paolo
nella lettera agli Efesini (San Paolo esortava a ridestarsi dal sonno e superare la morte perché ci sarà la
salvezza di Cristo). “Recuerde” non significa ricordare ma ridestarsi, svegliarsi. La prima copla forse si ispira
anche ad un altro inno fatto da Sant’Agostino che si legge nella prima domenica di Avvento. Il padre di
Manrique pare sia morto intorno al novembre del 1476, quindi probabilmente Manrique aveva ascoltato
questo inno poco prima della morte del padre e si era ispirato ad esso per la sua opera, ma non è certo. Nei
versi 4-5, ci sono espressioni enunciative perché in questi versi c’è la ripetizione di “como” che sottolinea le
tematiche importanti dell’opera cioè la vita e la morte. Questa prima copla è un invito a riflettere sul fluire
dei giorni. Successivamente c’è ancora un “como” ripreso dai versi precedenti e c’è l’idea della fugaità delle
cose terrene, come se ne va velocemente il piacere e come ormai, una volta ricordato, dà dolore perché
non si può più recuperare. L’ultima terzina racchiude il senso di quanto detto prima, qualsiasi tempo
passato fu migliore. L’idea del passato e della fugacità del presente, sono tematiche molto in voga nel
Medioevo. Mentre all’inizio c’è uno stile esortativo, poi espressioni enunciative che enunciano le tematiche
dell’opera, le ultime appartengono allo stile della sentenza. Marique utilizza questi stili molto spesso
nell’opera.

Copla 2: approfondisce il primo tema importante, il tempo. Ciò che rende originale l’opera di Manrique è
che lui prende delle tematiche tipicamente medievali o della tradizione classica, e le riadatta ad un tema
presente. Qui si ispira ad un’idea di Sant’Agostino, l’idea che il tempo non esiste: Sant’Agostino in realtà
aveva una visione più negativa del passato, diceva che il passato fosse irrecuperabile, come anche il
presente (che quindi è molto fugace), però Manrique aggiunge qualcosa che dà una speranza al presente,
cioè il fatto che si può ricordare, e attraverso il ricordo si può rivivere il passato. In questa copla ritorna lo
stile esortativo della prima copla, dice che non bisogna ingannarsi pensando che quello che si è aspettato (il
presente) duri più di quello che ha visto (più di quanto si possa immaginare), poiché (e qui torna lo stile
sentenzioso) tutto passa in fretta. Questa visione del tempo verrà ripresa da Quevedo nel ‘500.

Copla 3: abbiamo la tematica della morte, troviamo la metafora delle vite che sono i fiumi, che vanno a
finire nel mare che è la morte. Questo scorrere incessante del fiume rimanda al panta rei, tutto scorre. Il
possessivo “nuestras” ci fa partecipare all’idea che il destino di tutti sia legato a ciò che dice il poeta.
Quest’immagine viene ripresa da Seneca, ma lo fa in maniera molto attuale. Manrique successivamente
parla di diversi fiumi, tutti gli aggettivi indicano una grandezza diversa dei fiumi, ci sono quelli più copiosi,
quelli più piccolini, i ruscelli, quelli più stretti ecc. sta dicendo che a seconda di come si è nella vita, alla fine
siamo tutti uguali di fronte alla morte. Che livella tutto.

Copla 4: questa copla rappresenta la fine del prologo all’opera, nelle prime 3 si parla delle tematiche
centrali, poi c’è la copla tipica delle opere medievali cioè la richiesta di aiuto alla divinità per poter
affrontare la scrittura dell’opera. Manrique fa un qualcosa di diverso perché, in tono polemico e critico
verso i suoi contemporanei, critica chi si rivolgeva a Dio in maniera finta. Afferma che molti di questi poeti si
rivolgevano a divinità pagane. Egli dice che non fa come loro, ma invoca solo Dio, che è sceso sulla terra e
non gli è stato riconosciuto il suo essere divino (riferimento a Gesù che è stato ucciso).

Copla 5: si ripete quanto si è detto prima. Chiudendosi il prologo, dalla copla 5 alla 15 comincia ad andare
dal generale al particolare. Dalla copla 5 comincia uno sviluppo più esteso delle tematiche trattate in
precedenza. In questa copla troviamo il topos dell’homo viator, parla del mondo terreno che è il cammino
verso l’alto cioè il mondo celeste che è un luogo in cui non ci sono affanni. Gioca molto con i parallelismi,
con il parallelismo di forma e stile cioè “para el otro” e “para andar” versi 2 e 5, “sin pesar” e “sin errar”
versi 3 e 6 (pie quebrado). Il parallelismo di contenuto è “partimos”-“andamos”-“llegamos”. Notiamo subito
la prima persona plurale. Il parallelismo è legato alla vita dell’uomo, “nasciamo”-“andiamo”-“arriviamo”.
Questi parallelismi sono una modalità per raggiungere in maniera più viva il messaggio che vuole dare. Il
topico dell’homo viator è riconducibile al messaggio ascetico, in quanto se la vita è questo viaggio, perché
dobbiamo preoccuparcene se ci porta a qualcosa che invece ci fa felici?. Si esalta quello che viene dopo (vv
59-60)

Copla 6: Manrique non vuole dare completamente l’idea dell’allontanamento da questo mondo, vuole dare
una visione abbastanza ottimistica, dice che il mondo terreno non sarebbe così male se l’uomo lo usasse
bene, così da portarlo in maniera decorosa a ciò che viene dopo. In più questo mondo è stato scelto dal
figlio di Dio, non ci sarebbe venuto se fosse stato tanto male. Manrique fa da ponte tra il Medioevo che sta
volgendo al termine e il Rinascimento con una visione più ottimistica e rosea del futuro

Copla 7: abbiamo un’altra metafora che ci illustra il conflitto tra anima e corpo. (Disputa entre alma y
cuerpo). Approfondisce lo schema della copla 5, perché parte da un’immagine un po’ più difficile rispetto a
quella usata nella copla 5, dice che ciò che c’è di buono nell’uomo è l’anima, la definisce una “signora” (v.
83). Dice che il corpo è inferiore all’anima perché il corpo è la schiava, perché il corpo è schiavo del mondo
e resta nel mondo, mentre l’anima è ciò che dirige il corpo. Manrique dice che l’uomo può avere la capacità
di abbellire l’anima facendo opere buone (vita della fama), ma l’uomo si preoccupa solo di abbellire il corpo
(v. 82).

Copla 8: da questo momento c’è una esplicitazione della struttura generale delle coplas. Dice un concetto,
lo analizza e poi lo sintetizza. In questo schema si affrontano le tre tematiche importanti: le cose sono
affidate al tempo, capace di disfare tutto quello che è terreno e che l’uomo insegue per l’abbellimento del
proprio corpo, poi che ci sono cose che possono accadere per “disastrosi eventi” che accadono, e poi ci
sono cose che arrivano dall’alto e l’uomo non sa nemmeno perché, questo si ricongiunge al discorso
relativo alla fortuna. Manrique utilizza spesso l’anafora, la ripetizione di una o due parole a inizio del verso
per sottolineare quello che si sta dicendo.

Copla 9: ora va nel particolare e spiega gli effetti del passare del tempo: la prima cosa che sfiorisce è la
bellezza, poi lo splendore e tutto ciò che c’è nella gioventù.

Copla 10: l’aristocrazia castigliana si diceva che discendesse come lignaggio dai Visigoti, un popolo che
aveva occupato la penisola iberica. Quindi parlando dei Visigoti parla anche della nobiltà a lui
contemporanea. Continua ad ampliare il punto della fugacità del tempo e parla di una dinastia che è
decaduta ormai in Spagna dopo aver avuto tanto prestigio, la monarchia Visigota. Dice che nonostante
tutte le cose che hanno fatto nel mondo con arroganza, alla fine si ritrovano senza poteri.

Copla 11: parla della fortuna. Questo tema è molto in voga nel Medioevo. la fortuna era la dea pagana,
Manrique cerca di dare una cristianizzazione a questa visione della fortuna, per cui cerca di parlare di divina
provvidenza. Ne parla come una signora che è mutevole e incostante (infatti viene rappresentata con una
benda sugli occhi) e vive in un palazzo con le ruote vorticose, dice che in realtà la ruota della fortuna gira e
non può essere ferma sempre su una sola persona, quindi tutto questo è vano perché quando la fortuna si
allontana si perde tutto ciò che ricercava. Dal verso 130 c’è ancora una sentenza.

Copla 12: probabilmente è una copla apocrifa, cioè non attribuibile a Manrique o inserita successivamente,
perché non rientra bene in quello schema preciso di sviluppare i vari punti, per cui dopo aver parlato dei
beni che sfumano molto rapidamente, in questa copla obbliga i beni temporali ad accompagnare il padrone
nella fossa (fuesa, fossa in cui si viene seppelliti”. Questa idea non segue lo schema anteriore anche perché
il termine fuesa è molto concreto, si inserisce male in quel discorso abbastanza filosofico e astratto che
stava facendo Manrique. In ogni caso l’idea è sempre quella di contrapporre i tormenti della vita terrena
all’idea di felicità e sicurezza nella vita dell’aldilà

Copla 13: serve da sintesi per chiudere il discorso iniziato nella copla 5 e soprattutto 8. Dice che tutte le
cose dolci e piacevoli della vita che viviamo da corridori vengono interrotte dalla “trappola” della morte.
Ancora una volta abbiamo la sentenza alla fine, dice che quando ci accorgiamo di essere caduti nell’inganno
di dedicarci solo alle cose terrene, non possiamo tornare indietro.

Inizia la seconda parte che va fino alla strofa 24:

Copla 14: comincia a fare una rassegna di potenti e dice che la morte li tratta così come tratta i pastori di
greggi.

Copla 15: è quella che esplicita il fatto che lui non vuole fare riferimenti a un passato troppo lontano perché
appunto è lontano. Dice di lasciar da parte i Romani ed i Troiani, ormai quel tempo è passato, ci dobbiamo
dedicare ai fatti di un passato prossimo, vicino. Rifiuta la tradizione comune per cui ci si dedica agli esempi
del passato lontano.

Copla 16: arriviamo al topico dell’ubi sunt, ovvero ci si chiede dove sono coloro che sono stati prima di noi.
Sono domande retoriche la cui risposta è già implicita, quello a cui vuole arrivare Manrique è far nascere
nella coscienza del lettore il fatto che tutti i personaggi che cita non ci sono più, né si ricorda più nulla di
loro, proprio perché si sono dedicati alla vita terrena. Comincia con degli esempi importanti, dai re passa a
coloro che hanno gradi inferiori, parla di Juan II di Castiglia, degli Infantes di Aragon che erano cugini del re
Alfonso V di Aragona. Si chiede cosa fossero ormai questi personaggi, se non fili d’erba del prato

Copla 17: l’anafora del “que se” dà gran ritmo alla copla, continua col tema dell’ubi sunt parlando delle
dame questa volta, delle acconciature, dei vestiti meravigliosi, degli amanti.

Copla 18: qui parla di Enrico IV di Castiglia che fu il successore di Juan II, anche riferendosi a lui parla nella
stessa visione di un potere che poi non ha raggiunto nulla di concreto dopo la morte
Copla 19: qui le domande retoriche le lascia negli ultimi tre versi, ma in realtà il criterio è sempre lo stesso,
piano piano si avvicina all’idea che vuole esprimere per cui questo passato anche se immediato è finito, si
avvicina all’idea di capire che cosa è veramente importante e si rivolge ad una realtà che anche dal punto ti
vista spaziale è vicina al lettore, quindi lo può capire.

Copla 20: si parla del fratellastro di Enrico IV e fratello di Isabella la cattolica, che era Alfonso, che non riuscì
a regnare e morì molto giovane.

Copla 21: parla del gran Condestable, uno dei titoli più importanti alla corte all’epoca, e parla di Alvaro de
Luna, uno dei personaggi più importanti del ‘400. Manrique lo nomina perché era il privado di Juan II, una
carica che rappresentava il consigliere più stretto del re. Anche in questo caso dice che di tutte quelle
ricchezze che aveva non gli è rimasto altro che dolori e amarezza nel lasciare tutto quello che aveva

Copla 22: parla degli altri privados che si sono succeduti.

Copla 23: parla dei nobili dell’epoca, marchesi, duchi, conti. La cosa fondamentale di questa copla è che
Manrique si rivolge alla morte dandole del “tu”, come aveva fatto anche Juan Ruiz quando la morte si era
portata via Trotaconventos. In realtà questo esplicito riferimento alla morte è ironico, la morte a cui si
rivolge Manrique dovrebbe rivelargli dove ha nascosto tutti i vari nobili di cui ha parlato e dove possono
aver lasciato tutto quello che avevano fatto.

Copla 24: la morte viene rappresentata con le frecce, in maniera meno orribile di come veniva
rappresentata all’epoca con la falce che taglia la vita delle persone, ma le attraversa con una freccia.

Comincia la terza parte, la vita eterna

Copla 25: abbiamo il nome dell’uomo a cui sono dedicate le coplas, don Rodrigo Manrique. Cambia il tono
del poema, che è dedicato al padre. Anche in questo caso abbiamo una gradatio, da questa copla fino alla
28 si parla delle virtù astratte di Rodrigo Manrique. Qui abbiamo una contrapposizione tra tutti i personaggi
di cui ha parlato fino ad ora rispetto a Rodrigo, di lui parla delle virtù e non di cose materiali. Dice che non
può raccontare tutte le imprese che ha fatto perché già sono conosciute, implicitamente dice che parlerà di
una piccola parte.

Copla 26: i punti interrogativi delle domande retoriche senza risposta legate all’ubi sunt, si trasformano in
punti esclamativi per Rodrigo Manrique, cioè in cose concrete e reali, anche se sono virtù: parla di amicizia,
di essere maestro, di grazia, ragione e coraggio.

Copla 27: in ogni virtù di Rodrigo Manrique se ne ritrova una di un personaggio antico. L’autore dice che il
padre raccoglie in sé tutte le virtù dei personaggi storici del passato.

Copla 28: continua come nella copla precedente

Copla 29: da questa copla alla 32 comincia un’applicazione concreta di queste virtù, cioè la guerra ai Mori
fondamentalmente, conquistando le fortezze, le terre, uccidendo i nemici, raccogliendo i cavalli.

Copla 30: abbiamo la differenza del comportamento di tutti i nobili del passato recente rispetto a Rodrigo
Manrique, la differenza sta nella honra e honor, perché anche senza nulla gli restano l’amicizia e l’appoggio
dei personaggi.

Copla 31: grazie a tutte le imprese fatte sempre con onore riesce ad avere uno dei grandi riconoscimenti
dell’epoca cioè Cavaliere dell’ordine Maestro di Santiago. Dice che sia in gioventù sia in vecchiaia rinnovava
sempre il suo modo di essere.

Copla 32: è conosciuto proprio per le terre che conquista e le amicizie che riesce a fare anche durante le
guerre. Dice che anche dal re di Portogallo Alfonso V poteva essere affermato come fosse valoroso.
Copla 33: da qui si parla della morte di Rodrigo Manrique, rappresenta una transizione tra la presentazione
delle virtù e quello che poi succede. Ancora una volta c’è un cambiamento di stile perché da questa copla
diventa ancora più tenero il racconto. Dopo che aveva passato la vita tra tanti pericoli, con tanta fede e
fama, a un certo punto nella villa in cui viveva arriva la morte, che lo chiama alla sua porta

Copla 34: la morte lo chiama “buen cavallero”, lo tratta con rispetto e attenzione, e lo invita a lasciare il
mondo terreno per raggiungere la vita eterna a cui l’uomo aspira, perché il mondo è ingannevole e questa
vita non gli può più dare gioia, ma grazie alla fama e alla virtù può passare all’altra vita.

Copla 35: parla della suddivisione del testo, cioè la concezione delle tre vite. La morte dice che non
dev’essere spiacevole questo passaggio perché “un’altra vita più lunga della fama gloriosa lasciate”, cioè la
vita della fama è lunga ma l’altra vita è ancora più lunga, perché nonostante questa vita dell’onore non è né
eterna né vera, è superiore a quella terrena. Fa una sorta di scala d’importanza, la vita temporale è
passeggera e sta al gradino più basso, poi viene la vita della fama e la più importante è la vita eterna.

Copla 36: si ripete l’idea della vita che passa, se durante la vita non si fanno buone azioni si finisce con i
peccati all’inferno. Gli spiega come arrivare alla vita eterna.

Copla 37: ora si rivolge a don Rodrigo, gli dice di aspettare finalmente premio che gli viene dato in questo
mondo e che ha guadagnato con le sue mani, gli dice di avere fede e speranza nell’abbandonare questa vita
ed arrivare alla terza.

Copla 38: don Rodrigo si lascia ad un sentimento di abbandono, non oppone resistenza alcuna a quel che
dice la morte, anzi sembra avere una certa fretta di seguirla dicendo che non si deve perdere altro tempo in
questa vita meschina perché ha lo stesso volere di Dio e acconsente a morire con un volere puro, mentre
l’uomo che vuole vivere più di quanto Dio voglia è pazzo.

Copla 39: c’è una preghiera di don Rodrigo a Gesù in cui chiede di perdonare i peccati fatti in vita, non per
alcun merito ma per la sua misericordia

Copla 40: Rodrigo muore circondato dai suoi affetti, moglie, figli, fratelli, familiari, criados, e così muore
solo chi è stato buono in vita e non viene abbandonato nel momento della morte. Affida dunque la sua
anima al Creatore. Tra parentesi c’è una richiesta di Jorge Manrique affinchè Dio lo accolga nella sua gloria,
e aggiunge che anche se perse la vita ha lasciato come conforto il suo ricordo. È questa la cosa
fondamentale.

Le ultime due strofe sono state probabilmente rinvenute, secondo una leggenda, sotto l’armatura di Jorge
Manrique quando fu ferito mortalmente in guerra, per questo furono aggiunte alla fine. Si parla sempre
della stessa tematica delle coplas.

Potrebbero piacerti anche